Le mamme non mettono mai i tacchi Antiguida al mestiere di mamma
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Le mamme non mettono mai i tacchi Antiguida al mestiere di mamma
Le mamme non mettono mai i tacchi Antiguida al mestiere di mamma Luana Troncanetti Copyright © 2015 Luana Troncanetti Tutti i diritti riservati A mio figlio Alessandro, senza il quale la mia vita sarebbe un guscio vuoto. Ogni attimo passato con lui è come un giro sulle montagne russe: splendido, spaventoso e divertente. A mio marito Stefano, che non a caso vanta il nome di uno dei Santi più famosi del calendario. A tutte le mamme alle quali sarò riuscita a strappare un sorriso, con la certezza che vivano pienamente felici anche in scarpe da ginnastica. PREFAZIONE Ho conosciuto Luana per lavoro. Stavo cercando una mamma blogger per il programma che conduco su Radio Capital. Non mi ricordo per quali strani giri sono arrivata a lei. Il suo blog ha un nome che mi aveva incuriosito: La Staccata. Avevo pensato che si riferisse a un distaccamento dal mondo, all'isolamento, alla voglia di estraniarsi da tutto. Solo dopo aver letto l'introduzione ho capito il vero senso e soprattutto l'ironia che rende Luana speciale. Staccata si riferiva ai tacchi delle scarpe. Lei è una mamma che va sempre di corsa dalla mattina alla sera e che per farlo e stare dietro al figlio ha bisogno di scarpe comode. Proprio come me! Fa parte di quella schiera di madri che arrivano all'ultimo secondo davanti al portone della scuola, con i capelli scompigliati, guardate male da quelle mamme curate, sempre perfette, con la piega precisa e le unghie laccate. Poi ho parlato al telefono con lei. Sono stata travolta dal suo tono allegro, da quella voce vivace e simpatica che la contraddistingue. E alla fine ho avuto modo di incontrarla. Era in un gruppetto di altre mamme blogger ma l'ho riconosciuta al volo. Un sorriso aperto e sincero in mezzo ad una nuvola di capelli neri e morbidi. Mi ha colpito il suo fare gioviale. Mi sembrava un'amica che non vedevo da tanto tempo. Le sue storie, i suoi racconti arrivano subito al centro. Nessuna bugia, nessun giro di parole. Luana riesce a smascherare sé stessa e di conseguenza anche chi legge. Quante volte mi sono ritrovata nei suoi affanni di madre, nelle sue preoccupazioni. E, grazie al suo modo di raccontare, ho riso delle sue cronache quotidiane. Rendendomi conto, in un secondo tempo, di riuscire a sorridere anche delle mie. Non è facile essere mamme. Si parte con le più belle intenzioni del mondo. Si ricorda la nostra infanzia e ci si ripromette di non essere uguali alle nostre madri e di fare meglio. Poi ti ritrovi da sola con questo batuffolo di carne e ti senti spaesata in un mondo in cui tutti ti sembrano perfetti. Parenti pronti a giudicare, pseudo amiche che ti raccontano di avere bimbi ubbidienti, madri che incontri al parco e che ti osservano con uno sguardo di disapprovazione perché tuo figlio è l'unico che fa i capricci. Ti accorgi che nessuno ti premia quando compi un'azione giusta mentre sono tutti pronti a rimproverarti al minimo sbaglio. E a volte ti senti davvero sola. Per fortuna c'è un movimento meraviglioso di queste mamme blogger che non hanno paura a scrivere sul Web che delle volte sei così disperata e stanca che regaleresti tuo figlio alla tua vicina di casa pur di avere un minuto di silenzio. Mamme che con le loro parole ti fanno sentire meno “strana”, che comprendono che basta un po' di riposo per farti tornare sana di mente, che sanno darti una pacca virtuale sulla spalla in un momento in cui il mondo sputa sentenze sul tuo essere madre. Voglio ringraziarle tutte queste mamme blogger. E soprattutto grazie a Luana che ci insegna che l'ironia e il prendersi meno sul serio sono la ricetta giusta per essere una madre “staccata” ma comunque sempre presente con i propri figli. Nei momenti neri basta leggere le sue righe per riprendere a sorridere e avere la forza di andare avanti. Evviva le mamme staccate di tutto il mondo. Silvia Mobili INTRODUZIONE Dove sono andate a finire quelle incantevoli mamme con i capelli cotonati, la gonna a ruota e gli occhi truccati di eye-liner, che indossavano i tacchi alti anche per andare a buttare la spazzatura? Sono pezzi da museo, come la televisione in bianco e nero orfana di telecomando o le improponibili buste del latte triangolari. Si nascondono in qualche angolo polveroso della nostra memoria, avvolte da un impalpabile odore di torta di mele e cera per pavimenti. Si affacciano ogni tanto da qualche vecchia fotografia ingiallita, le belle bocche rosse sorridenti e un bacio sempre pronto a fior di labbra. Sono out, passate di moda, obsolete, si sono estinte. Sì, ma quando? È successo sessantacinque milioni di anni fa, quando qualcosa le ha fatte sentire improvvisamente ridicole, quando qualcuno ha stabilito che tutte le donne “devono” lavorare. Anche quelle che in realtà non ne avrebbero alcun bisogno. O alcuna voglia. L’affermazione «Non lavoro, sono solo una casalinga» scatena un senso di vergogna incontrollabile; sembra quasi l’ammissione di un fallimento. Alcune troverebbero meno imbarazzante confessare in pubblico che sotto la camicetta nascondono tre seni. Vi siete mai chieste quante doti manageriali richiede l’essere “solo” una casalinga? Sono requisiti che non tutti possono vantare: predisposizione allo stress, costituzione fisica robusta e indole stacanovista, votazione al sacrificio e, all’occorrenza, rinuncia al diritto alle ferie con il vantaggio, però, di poter amministrare una certa quantità di tempo a propria disposizione. Se svolto con intelligenza e capacità, quello della “solo” casalinga è un mestiere che offre soddisfazione al pari di molti altri lavori. Senz’altro è più dignitoso delle attuali offerte di impiego che prevedono stipendi da fame e contratti ridicoli. E a tutte quelle che, a conti fatti, non trovano poi questa gran realizzazione nel proprio lavoro, propongo un coming out spiazzante: dichiarate apertamente che adorate fare i tortellini a mano, che non vi spaventa organizzare una cena per trenta persone o che trovate divertente tirare a lucido l’argenteria. Confessate senza remore che la vista dei vostri pavimenti sfavillanti vi procura sensazioni seconde soltanto all’orgasmo multiplo e che catalogate i maglioni in religioso ordine cromatico. Dieci a uno che tenteranno di farvi internare alla Neuro, ma se la vostra vera natura è questa, che male c’è ad ammetterlo? Anche se non appartenete alla specie delle casalinghe per vocazione, non abbiate timore di ridimensionare lo spazio che normalmente riservate al lavoro, soprattutto quando diventate madri. Esiste una via di mezzo fra l’angelo del focolare anni ‘60 e la rampante donna in carriera degli anni ‘90. Questa sorta di anello di congiunzione fra le due specie è la Donna habilis, cioè “donna che sa lavorare”, comunque e in ogni luogo, un soggetto capace di muoversi con agilità fra le scartoffie di una scrivania così come fra pannolini e biberon. Quando decide di prendere una pausa per occuparsi dei figli, difficilmente è condannata a subire danni irreversibili alla materia grigia. Il cervello è un organo profondamente democratico, se si ha la fortuna di possederne uno: di solito i neuroni non migrano verso lidi ignoti quando si passa dall’ufficio alle quattro mura domestiche. Basta non fossilizzarsi nel proprio ruolo, dedicarsi ai passatempo abbandonati da tempo imprecisabile, amministrare in modo intelligente il proprio tempo e magari reinventarlo, creando pian piano le basi per costruire una nuova professione. Non dover sottostare per un po’ agli ordini di un capo nevrotico, custode di appena un decimo della tua intelligenza, può rivelarsi un’esperienza fantastica e anche produttiva. Trasformarsi in una Donna habilis è tutto sommato semplice: chi vuole tentare l’esperimento può iniziare a scrivere un libro, rileggere la Divina Commedia, studiare una lingua mediorientale, imparare a giocare a curling o più semplicemente godersi un intero pomeriggio con i figli senza l’incubo di dover cronometrare il tempo a propria disposizione. L’immagine della ciabattona ossessionata dalla quotidiana lotta contro i pericolosi nemici dell’igiene è materiale da barzellette: il moderno angelo del focolare ha gettato da tempo bigodini e pattine alle ortiche. La scopa, ora, la usa soprattutto per spazzare via lo stereotipo della casalinga disperata. A tutte quelle che, per necessità economica, sbrigano quotidianamente l’enorme mole di lavoro che comporta gestire un impiego a tempo pieno e l’essere madri, va tutta la mia solidarietà. Alle altre, che hanno il privilegio di poter scegliere, lancio un appello: lavorate solo se ciò vi rende felici, se confondete la spugnetta per lavare i piatti con quella per pulire il water, se non siete in grado di bollire un uovo senza farlo esplodere, se le istruzioni della lavatrice vi sembrano macchinose come i comandi dell’Enterprise, se uno stipendio supplementare vi salva dallo sfratto esecutivo e non perché “così fan tutte”. Noi donne ci siamo disabituate a godere del nostro tempo libero, a gratificarci con piccoli spazi magici da riservare a noi stesse e ai nostri figli, a godere di soddisfazioni forse esigue, ma immediate e tangibili. Soprattutto non sempre ci accorgiamo che la maternità non è affatto un punto di arrivo, ma di ripartenza. Sono sempre più frequenti i casi di donne che incanalano le proprie abilità in settori legati alla loro nuova condizione di madre: nascono perciò professioni utili a migliorare la qualità della vita delle famiglie, realtà che si occupano di tutelare l’ecologia con particolare attenzione ai prodotti destinati a mamme e bebè, associazioni a tutela delle madri lavoratrici, consultori che “fanno” informazione, in modo totalmente nuovo, sui più svariati campi legati all’universo “mamma”. Il concetto di madri che si reinventano dal punto di vista lavorativo, un po’ più indulgenti verso se stesse, meno invischiate nella smania di voler apparire perfette a tutti i costi e soprattutto multitasking per dovere è piuttosto nuovo, ma non così raro. Non tutte possono permettersi il lusso di riorganizzare la propria vita ottenendo un part-time, lavorando a collaborazione o magari da casa, questo è pacifico. Però, se le condizioni economiche lo consentono, perché non provarci? È proprio questo il punto: troppo impegnate a liberarci dal pesante cliché di “mantenute”, siamo il moderno prodotto di una vita frenetica raramente capace di regalarci serenità. Dobbiamo, quindi, pagare il prezzo della nostra emancipazione con il fiato corto e la costante sensazione di non riuscire mai a fare abbastanza: ma ne vale davvero la pena? Mutano le mamme e cambiano anche i figli. Adesso navigano in internet a tre anni, imparano le lingue alla scuola materna, sono smaliziati, svegli, impossibili da infinocchiare. Diversi anni fa, mio figlio mi ha chiesto di aggiustargli il cellulare della Chicco perché non inviava più gli sms; aveva da poco spento la sua seconda candelina. Se sapesse che il bisnonno dava del “voi” al padre o che ha trascorso buona parte della sua primissima infanzia per capire come liberarsi dalle fasce, penserebbe che gli stia raccontando una delle favole strampalate che m’invento ogni sera per farlo addormentare. Qualunque sia la sua occupazione, la mamma d’oggi deve essere veloce, attenta, aggiornata, fare tutto presto e bene. Più lenta è, meno possibilità ha di mantenere il suo ruolo. Altrettanto sembrano dover fare i figli. La nuova tendenza è stimolare i bambini con attività “indispensabili” per la loro crescita. L’intento di non far rimanere indietro i propri figli rispetto agli altri è per alcune una seconda religione. I nostri bimbi vivono quindi l’entusiasmante prospettiva di poter scegliere fra svariate soluzioni per impegnare il pomeriggio: corsi d’ikebana, découpage, solfeggio con il flauto di Pan, scuola di giapponese e russo, seminari di cultura araba antica e contemporanea. Le nuove mamme devono perciò ottimizzare il tempo, cronometrare al centesimo di secondo ogni attimo disponibile, gestire un’agenda d’appuntamenti fitta di impegni, appiccicare post-it in ogni dove per ricordarsi di andare a riprendere il figlio a scuola di origami, una volta uscite dall’ufficio, stirato quattro lavatrici, passato lo straccio per terra e aver fatto un salto al supermercato per lo spesone settimanale. Non conosco mamme che indossano i tacchi. Mai. In nessuna circostanza. I deliziosi sandali gioiello, acquistati in occasione del matrimonio di mio cugino, hanno trovato precoce sepoltura in un sacchetto della spesa a metà celebrazione, quando mio figlio ha deciso fosse cosa buona e giusta appiccare il fuoco allo strascico della sposa. Le mamme sono spesso delle ex donne. Solo quelle veramente tenaci riescono a conservare un briciolo della loro antica femminilità, perché ciò richiede l’acquisizione di strabilianti abilità, tipo riuscire a farsi la ceretta durante il sonno. Le unghie laccate, il completino Chanel e il tacco dodici sono lussi inimmaginabili se si ha a che fare con uno o più bebè. A meno che tu non sia Sarah Jessica Parker, intenta a scribacchiare articoli in una pittoresca mansarda al centro di Park Avenue, i tacchi alti non te li puoi proprio permettere. Sicuramente non prima del compimento del diciottesimo anno d’età di tuo figlio. È sempre più gravoso conciliare la cura della casa con il lavoro, mantenere un rapporto decente con il proprio compagno e crescere teneramente dei figli. Lo spauracchio del collasso nervoso ci aspetta dietro l’angolo. Non ha fretta. Sa che prima o poi crolleremo fra le sue braccia premurose, in cerca di un po’ di meritato riposo. Essere mamma, oggi, corrisponde a correre. Sempre. Senza soluzione di continuità. A questa corsa sfrenata gareggiano tutti i tipi di mamma, dall’apprensiva alla distratta, dall’igienista alla donna manager. Non importa la categoria d’appartenenza, il requisito fondamentale per partecipare è l’essere state ospiti di una sala parto almeno una volta nella vita. Siamo tutte impegnate a tagliare il faticoso traguardo del donare il meglio di noi stesse ai nostri figli, in assoluta buona fede, più o meno consce del fatto che molti dei nostri comportamenti trasformeranno la prole in potenziale materiale da lettino psichiatrico. Coraggio sorelle, uniamoci in un abbraccio universale per ridere insieme dei limiti, delle fisime, degli ostacoli che avvelenano il nostro mestiere di mamma. Non ostiniamoci a voler somigliare a quelle madri impeccabili, le uniche che all’alba imbandiscono la tavola con i cupcakes fumanti già perfettamente truccate, profumate, pettinate e soprattutto “taccate”, che ammiccano sorridenti dagli spot pubblicitari. Le donne autentiche, alle sei del mattino, è già un miracolo se riescono a trascinarsi in bagno per fare pipì senza centrare con la fronte lo stipite della porta. Eliminiamo la nostra sete di perfezione e sfrecceremo verso il traguardo, libere da un’inutile zavorra: alla fine i nostri cuccioli cresceranno e la grande corsa finirà, lasciandoci soltanto un vago ricordo di tenerezza mista a orrore. Un giorno, potremo gettare via le scarpe da ginnastica e riconquistare il diritto a infilare un paio di sandali con il tacco. Ma allora, devastate dall’osteoporosi, non saremo più in grado di camminare, se non con l’ausilio di un deambulatore.