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RIVISTA • INTERNAZIONALE • DI • FILOSOFIA
ACTA
PHILOSOPHICA
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Le opinioni espresse negli articoli pubblicati in questa rivista rispecchiano unicamente il
pensiero degli autori.
Imprimatur dal Vicariato di Roma, 16 giugno 2000
ISSN 1121-2179
Rivista associata all’Unione Stampa Periodica Italiana
Semestrale, vol. 9 (2000), fasc. 2
Luglio/Dicembre
sommario
Studi
197
223
241
Daniel Gamarra
Un caso di platonismo ed agostinismo medievale. Matteo d’Acquasparta:
conoscenza ed esistenza
Fernando Inciarte
Heidegger, Hegel, and Aristotle: A Straight Line?
Paulin Sabuy
La question du dualisme anthropologique. Une analyse d’après Robert
Spaemann
Note e commenti
267
Javier Aranguren Echevarría
Eudaimonía e historicidad
277
Gabriel Chalmeta
Aristotele e Solov’ëv sul significato dell’amore
287
Mariano Fazio
Tre proposte di società cristiana (Berdiaeff, Maritain, Eliot)
313
Juan Andrés Mercado
Brief comments on Capaldi’s “We Do” interpretation of humean ethics
319
José Ignacio Murillo
Una aproximación al Curso de Teoría del Conocimiento de Leonardo Polo
Cronache di filosofia
339
Estetica della formatività: due saggi recenti (F. RUSSO)
341
Lezioni e conferenze
342
Convegni
344
Società filosofiche
Bibliografia tematica
349
Affettività
Recensioni
353
355
358
364
367
370
R. ALVIRA, La razón de ser hombre e Filosofía de la vida cotidiana (J.A.
Mercado)
M. ARTIGAS, Filosofía de la ciencia (M.A. Vitoria)
G. CHALMETA, La giustizia politica in Tommaso d’Aquino (M. Fazio)
A. LLANO, Humanismo cívico (G. Chalmeta)
A.L. T IRABASSI (a cura di), Compendio di Semantica del Dolore. 7:
Filosofia del dolore (F. Russo)
J.J. WHITE, A Humean Critique of David Hume’s Theory of Knowledge
(J.A. Mercado)
Schede bibliografiche
375
378
J.J.E. GRACIA (a cura di), Concepciones de la metafísica (M. Pérez de
Laborda)
L. PAREYSON, Kierkegaard e Pascal (F. Russo)
TOMÁS DE AQUINO, Comentario al libro de Aristóteles “Sobre la interpretación” (J.A. Mercado)
A. VENDEMIATI, In prima persona. Lineamenti di etica generale (G. Faro)
380
Pubblicazioni ricevute
381
Indice del volume 9 (2000)
376
377
ACTA PHILOSOPHICA, vol. 9 (2000), fasc. 2- PAGG. 197-221
studi
Un caso di platonismo ed agostinismo medievale. Matteo
d’Acquasparta: conoscenza ed esistenza
DANIEL GAMARRA*
Sommario: 1. Cenno storico. 2. Il problema della conoscenza. 2.1. La conoscenza del singolare. 2.2. L’illuminazione. 2.3. Il problema della «natura communis». 3. La conoscenza del
non-esistente. 3.1. L’indifferenza dell’essere. 3.2. L’oggetto dell’intelletto.
■
1. Cenno storico
Matteo d’Acquasparta è un pensatore che raccoglie la lunga tradizione di pensiero agostiniano, presente in numerosi autori francescani già a partire dal XIII
secolo. Il suo modo di assumere la tradizione agostiniana non è privo però di
originalità giacché i grandi problemi che Matteo studia con accuratezza sono,
sotto forme e contesti diversi, i grandi problemi della filosofia del XIII e del XIV
secolo: fra i maestri francescani, i rapporti fra la conoscenza e il plesso essenzaesistenza rappresentano un argomento di interesse notevole non soltanto dal
punto di vista della ricerca storica, ma anche come problema suscettibile di essere posto in modo teoretico. Benché non possiamo dire che siamo davanti ad un
innovatore, tuttavia il fatto di aver proposto con acutezza e chiarezza certi problemi gnoseologici propri del momento storico in cui è vissuto, fa vedere come,
da una prospettiva agostiniana, alcune questioni trovano soluzioni — al meno
questo è il tentativo di Matteo — che danno materiale di indiscusso interesse per
la riflessione.
Certo è, d’altra parte, che la bibliografia su questo autore non è troppo ampia
e di solito si può osservare che i diversi studiosi che hanno approfondito il suo
pensiero concentrano quasi esclusivamente la loro attenzione su due problemi
*
Universidad Austral, Mariano Acosta s/n°, Derqui (1629) Pilar, Buenos Aires, Argentina
197
studi
intimamente collegati: quello riguardante la questione della conoscenza in generale e, all’interno di questo, quel che concerne il problema della conoscenza del
singolare. Esistono tuttavia alcune opere di carattere più generale sul suo pensiero e la sua opera, benché in molti casi non vadano oltre una presentazione abbastanza schematica e in chiave soprattutto storiografica1. Comunque, un fatto evidente nella sua filosofia è che, nonostante la poca attenzione che in generale
hanno prestato la critica e i diversi studi sul medioevo, Matteo pone il problema
della conoscenza in un modo che implica anche una tematica metafisica, cioè
attraverso la considerazione dell’esistenza e della non-esistenza come positività
logica; così l’orizzonte intellettuale di Matteo si apre a dei problemi di portata
notevolmente maggiore di quanto abitualmente viene in lui sottoposto all’attenzione dei diversi studiosi.
Come dicevamo, il suo pensiero ha una chiara ispirazione agostiniana, come
quello dei maestri francescani precedenti e contemporanei: Alessandro di Hales,
Tommaso di York, Bonaventura, Vital di Furno, Pietro Olivi, Ruggero Marston,
Riccardo di Mediavilla ed altri2. Inoltre in Matteo si vede anche una chiara assimilazione della filosofia di Avicenna3, similmente a quanto accade con Enrico di
Gand e Duns Scoto. Con queste due filosofie, cioè con quella di Agostino e con
quella di Avicenna, realizza un’amalgama di tendenza prevalentemente platonizzante, anche se non mancano alcuni elementi aristotelici ricevuti attraverso gli
autori che alcuni decenni prima avevano sviluppato le grandi tesi di Aristotele,
come p.e. Tommaso d’Aquino. In verità, è questo un appassionante momento
della storia del pensiero in cui trovano posto tanto i grandi autori dell’antichità
quanto le grandi sintesi che fioriscono con la maturazione della tradizione.
Matteo, senza essere tuttavia uno di quei giganti della filosofia, ha una fine sensibilità speculativa che gli permette di cogliere i grandi temi e le grandi preoccupazioni epocali nella luce di una complessa ed armoniosa tradizione filosofica.
Nel 1285, Giovanni Peckam scriveva a Roberto di Grossatesta che, in quel
tempo, c’erano a Parigi due correnti di pensiero che destavano notevoli polemiche fra quei magistri che s’ispiravano alla filosofia di Tommaso d’Aquino e
quelli che s’ispiravano soprattutto alla dottrina di San Bonaventura; fra loro, a
1
2
3
Cfr. G. B ONAFEDE , Matteo d’Acquasparta, A.Vento, Trapani 1968; I D ., Storia della
Filosofia Medioevale, Pantea, Palermo 1945; ID., Il pensiero francescano nel secolo XIII,
Mori e Figli, Palermo 1952; C. PIANA, Matteo d’Acquasparta, in Enciclopedia Cattolica, t.
VIII, Roma 1952, pp. 488 ss.; E. LONGPRÉ, Matthieu d’Aquasparta, in Dictionnaire de
Théologie Catholique, t. X, col. 375-389; V. DOUCET, Introductio critica de magisterio et
scriptis Matthaei ab Aquasparta, in Quaestiones disputatae de gratia, Ad Claras Aquas,
Florentiae 1935; E. GARIN, Storia della filosofia italiana, vol. I, Einaudi, Torino 1978.
Pagine di grande interesse ed essenziali sono quelle di É. GILSON, Lo spirito della filosofia
medioevale, Morcelliana, Brescia 1988, pp. 293-300. Fatta eccezione del Gilson, la bibliografia è tendenzialmente generica.
Cfr. C. B ÉRUBÉ , Henri de Gand et Matthieu d’Aquasparta, interprètes de Saint
Bonaventure, «Naturaleza y Gracia», 21 (1974), pp. 131-172.
Cfr. A. MAURER, Being and Knowing, PIMS, Toronto 1990, p. 377.
198
Daniel Gamarra
detta di Peckam, «in omnibus dubitabilibus sibi pene penitus hodie adversari
exceptis fidei fundamentis»4: discutevano infatti di tutto ciò che consideravano
materia adatta alla polemica, mentre l’unico punto di accordo che trovavano era
quello della fede. Non è senz’altro una inesattezza storica pensare che Matteo
non soltanto conosceva queste polemiche ma addirittura era inserito in questo
vivace ambiente intellettuale5, non in un modo qualsiasi ma con una idea precisa
riguardante i grandi problemi filosofici. Come ha anche ben segnalato L. Mauro,
«nell’ambito del neo-agostinismo egli sembra peraltro essersi assunto il preciso
compito di riproporre in modo puntuale ed organico i capisaldi della visione cristiana del mondo, dopo le aspre controversie che ne avevano profondamente
scosso i consolidati quadri culturali»6.
Le sue opere7, peraltro numerose, mostrano con chiarezza che Matteo conosceva con profondità i problemi centrali del dibattito parigino dell’ultimo periodo del XIII secolo; infatti di fronte ad essi dimostra un’intenzione altrettanto
chiara di rispondere anche nei particolari a quelle discussioni che interessavano
le sue preoccupazioni filosofiche e teologiche. Il noto studioso F. Ehrle non esita
ad affermare che «in Matteo si manifestano a gran luce una conoscenza ed una
penetrazione non comune degli scritti di Sant’Agostino»8, fatto che gli permette
di trovare risposte adatte, cioè non generiche, in diretta connessione e ispirazione
col pensiero appunto del vescovo d’Ippona.
Nato intorno al 1240, originario di Acquasparta, in Umbria, abita a Roma dal
1279 fino alla morte, avvenuta nel 1302. Viene eletto generale dell’ordine francescano nel 1287, carica che occupa per circa due anni, cioè fino alla sua nomina
di cardinale nel 1288. Dal suo arrivo a Roma inizia a svolgere la mansione di lettore della curia. Le sue quaestiones disputatae sono numerose, nonché i suoi
commenti alla Sacra Scrittura, oltre ad un Commentarium super sententias, opere
che corrispondono anche al suo soggiorno romano. Dopo essere stato nominato
cardinale, ebbe un importante ruolo nella soluzione di alcuni problemi sorti fra
4
5
6
7
8
Registrum epistolarium J. Peckam, ed. C.T. Martin, London 1885, t. III, p. 896.
MATTEO D’ACQUASPARTA, Il cosmo e la legge (Quaestiones disputatae de legibus), a cura di
L. Mauro (Introduzione; Nota biografica; Nota bibliografica), Nardini Editore, Firenze
1990. E scrive L. Mauro nell’Introduzione: «Curriculum accademico e produzione esegetica e filosofico-teologica del magister francescano si collocano infatti pressoché interamente
sullo sfondo di cruciali eventi culturali, che hanno avuto al loro centro l’intervento censorio
del 7 marzo 1277 da parte dell’autorità ecclesiastica parigina» (pp. 7-8).
L. MAURO, Introduzione, cit., p. 27.
Cfr. V. DOUCET, o.c., pp. XXV-CLV.
F. E HRLE , L’agostinismo e l’aristotelismo nella scolastica del secolo XIII, «Xenia
Thomistica» (1925), pp. 63-75 (68). Una citazione sostanzialmente simile, ma tratta dal
Longpré, compare in E. GARIN, Storia della filosofia italiana, cit., vol. I, p. 118. Cfr. O.M.
BELMOND, À l’école de S. Agustin, «Études Franciscaines», 32 (1921), pp. 7-26 e 145-173;
E. BETTONI, Matteo d’Acquasparta e il suo posto nella scolastica post-tomistica, in Atti del
IV Convegno di Studi Umbri (Gubbio, 22-26 maggio 1966), Facoltà di Lettere di Perugia,
Perugia 1967, pp. 231-248.
199
studi
guelfi e ghibellini; e per incarico diretto di papa Bonifacio VIII lavorò alla
ricomposizione delle relazioni fra la Sede Apostolica e Filippo, re di Francia9.
Nonostante la sua attività pubblica, Matteo trovò anche il modo per continuare le sue disputationes durante il periodo romano. Dopo la morte, tuttavia,
le sue opere e la sua figura persero di importanza o, per lo meno, destarono poca
attenzione e solo di rado si trovano autori a lui poco posteriori che facciano uso
dei suoi scritti. Per quanto riguarda il tema che abbiamo intenzione di studiare,
Matteo rappresenta un momento caratteristico del pensiero scolastico-agostiniano, e questa personalità poco nota nella storia della filosofia del XIII secolo ci
offre materiale certamente interessante per una riflessione teoretica sia sulla
natura della conoscenza dal punto di vista che oggi potremmo chiamare della
teoria del contenuto, sia sui nessi tra oggettività ed esistenza.
2. Il problema della conoscenza
Per quanto presente in diversi testi, al problema della conoscenza Matteo
dedica un’intera disputatio10, nella quale sono affrontati i grandi problemi che
nella filosofia scolastica occupano tradizionalmente un posto di rilievo nella trattazione di questo argomento. Il suo punto di vista è, in un certo senso, un punto
di vista duplice: adopera prospettive e soluzioni proprie tanto dell’aristotelismo
quanto del pensiero agostiniano. Si potrebbe anche descrivere tale simbiosi come
esigenza di sintesi tra, da un lato, l’attività dell’intelletto che può arrivare con la
propria operazione e per se stesso alla conoscenza della realtà, e, dall’altro, il
tema dell’illuminazione come causa della presenza delle idee nell’intelligenza
stessa11. Matteo cerca una via intermedia: la sua è una posizione eclettica e
misurata che mantiene un certo equilibrio, anche se problematico, fra l’aristotelismo classico e la teoria della conoscenza d’ispirazione agostiniana. Ciò nonostante, la sua preferenza per soluzioni agostiniane si manifesta in maniera assai
chiara a livello di tesi fondamentali e convinzioni profonde, sebbene talvolta il
modo di argomentare lasci pensare piuttosto a un metodo più aristotelico-scolastico.
La tesi della passività dell’intelletto — in quanto riceve la species intelligibilis — e allo stesso tempo quella della sua attività — in quanto produce un’operazione diversa dalla pura ricezione della species e per la quale si definisce in
9 Cfr. una breve ma precisa biografia in L. MAURO, Nota biografica, cit., pp. 33-43.
10 MATTEO DE AQUASPARTA, Quaestiones disputatae de fide et cognitione, Ad Claras
Aquas,
Florentiae 1957. Da qui in poi le citazioni verrano fatte: QQC, numero di quaestio, numero
di pagina e numero di riga.
11 Cfr. C. BÉRUBÉ, De l’homme à Dieu selon Duns Scot, Henri de Gand et Olivi, Edizioni
Collegio S. Lorenzo, Roma 1983, pp. 231 ss., dove segnala come Matteo si trova in una
situazione di una certa perplessità davanti a soluzioni diverse dello stesso problema dell’illuminazione.
200
Daniel Gamarra
senso stretto il conoscere come tale —, manifesta questa tensione fra elementi
trovati in filosofie che certamente hanno in comune un sottofondo antropologico
di notevole spessore, ma che differiscono nel modo di descrivere il manifestarsi
dell’attività animica.
La forma della cosa, afferma Matteo, è in se stessa insufficiente a spiegare la
conoscenza, giacché ha una certa incapacità di illuminare, di irrompere per se
stessa nell’ambito intellettuale per muovere l’intelletto oppure per manifestarsi
in esso. Allo stesso tempo Dio ha dato all’intelligenza una certa luce attraverso la
quale si realizza la conoscenza. Neanche questa luce è però sufficiente se non
interviene un’illuminazione (che non è né la forma che appartiene alla cosa né è
azione del solo intelletto) da parte di Dio. C’è infatti una doppia provenienza
della luce, cioè da parte della cosa e da parte dell’intelletto, ma sia l’una che l’altra hanno bisogno di un complemento che renda possibile la conoscenza e permetta la manifestazione della cosa come intelligibilità.
Affinché la presenza della luce divina possa trovare una presenza giustificata
nell’atto umano di conoscere, Matteo fa appello essenzialmente a tre motivi. In
primo luogo, poiché il soggetto è stato creato ad immagine di Dio, Matteo afferma che esiste una certa connaturalità fra la facoltà intellettiva e la luce che essa
riceve. Questo aspetto va però strettamente collegato col secondo dei motivi considerati: da parte dell’oggetto stesso c’è anche una certa necessità dell’illuminazione divina. Infatti, sia l’intelletto che la cosa sono imperfetti e non
hanno in sé la capacità di pervenire alla piena luce, benché si tratti, in un caso e
nell’altro, di una capacità e di una luce diversa12. In entrambi i casi (cioè riguardo all’intelletto e riguardo all’oggetto), tuttavia appare in maniera esistenzialmente evidente la finitezza che limita sia la soggettività sia l’oggetto in quanto creato. Ma proprio perché l’uomo è stato creato da Dio a sua immagine, il suo
essere si trova aperto alla possibilità di ricevere la luce da Dio stesso, che con
l’illuminazione adatta l’intelligenza creata a conoscere ciò che le si presenta nell’oscurità della propria finitezza, ma a sua volta illuminata. Il terzo motivo, infine, che propone Matteo è che la vera conoscenza diventa tale nel giudizio, o nel
giudicare la somiglianza tra la cosa conosciuta e l’idea o modello esemplare che
Dio ne ha. Così, l’intelligenza può anche arrivare a valutare la gradazione
dell’essere della cosa attraverso tale giudizio comparativo, nella misura in cui
l’intelletto può stabilire la vicinanza o la lontananza della cosa, in quanto alla sua
perfezione, con la verità eterna.
Appare così con maggiore chiarezza nella filosofia di Matteo non soltanto la
possibilità ma soprattutto la necessità dell’illuminazione, giacché la luce per
vedere l’esemplare eterno della cosa conosciuta proviene da Dio, che a propria
12 Si
potrebbe anche dire che la luce dovuta, per quanto riguarda l’intelletto, è quella di portare all’intelligibilità compiuta l’essenza della cosa, mentre la luce dovuta per quanto riguarda la cosa stessa è in coincidenza con la sua perfezione ontologica e, con ciò, sarà più o
meno intelligibile a seconda della sua perfezione entitativa.
201
studi
volta perfeziona la luce intellettuale e la medesima intelligibilità dell’oggetto.
Tale luce è, da un lato, pura luce, dall’altro è però un certo contenuto oggettivo,
perché la verità eterna non è soltanto capacità di vedere, ma anche qualcosa che
si vede nell’illuminazione, oppure nella sua propria luce13.
In questa maniera è possibile indicare in quale direzione Matteo tenta di integrare la dottrina aristotelica della forma con quella agostiniana dell’illuminazione. È infatti necessaria l’esperienza della realtà extramentale, e accanto ad essa la
capacità naturale della ragione, affinché la conoscenza si verifichi. La congiunzione di entrambe ha però il suo punto conclusivo nella conoscenza delle verità
eterne14. In ogni caso, rimane chiaro il fatto che conoscere è un atto del conoscente, poiché la luce di Dio non sostituisce né l’intelletto né l’oggetto. Si tratta
piuttosto della necessità di una luce che interviene nell’atto conoscitivo affinché
l’uomo che conosce possa andare oltre la contingenza e possa contemplare l’intera realtà come ordine divino.
D’altro canto, c’è a questo punto una flessione non priva di interesse nella
gnoseologia di Matteo, che merita almeno di essere sottolineata. Infatti, simile
maniera di conoscere rende notevolmente problematico il riconoscimento
dell’individualità stessa dell’oggetto in quanto tale, sia perché l’intelligenza
coglie la cosa sotto la sua forma intelligibile — ed in questo modo conosce quello che di universale e necessario c’è nell’oggetto —, sia perché l’illuminazione
fornisce al soggetto un certo contenuto che anch’esso è a sua volta universale ed
eterno. Le aeternae veritates non ammettono certamente una singolarizzazione
gnoseologica, se direttamente attinte. Qual è quindi la situazione gnoseologica
del singolare? Quale esperienza se ne potrebbe avere? Prima però di passare
all’analisi dei testi di Matteo riguardanti i problemi fin qui riassunti, sembra
opportuno considerarne alcuni aspetti teoretici che ne costituiscono in certo
senso il presupposto.
a) Da una parte, la conoscenza diretta del singolare15, sia nel pensiero di Matteo
13 Siamo
parzialmente d’accordo con C. BÉRUBÉ, De l’homme à Dieu selon Duns Scot, Henri
de Gand et Olivi, cit., p. 55, quando afferma che «Matthieu insiste, après Eustache d’Arras
et Henri de Gand, sur l’atteinte des raisons éternelles seulement comme ratio cognoscendi
et non comme ratio objecti. La lumière éternelle est un pur objectum motivum, jamais un
objectum proprement dit. Elle fait tout voir, mais sans faire voir elle-même. […] Il n’est
donc pas question, pour Matthieu, de la priorité de la connaissance de Dieu sur celle du
créé, puisque Dieu n’est en aucune façon objet de connaissance, mais seulement principe»;
anche se ci sembra troppo tassativa la sua affermazione giacché il modello divino è conosciuto quando la conoscenza è essenziale; il fatto che forse non sia immediatamente conosciuto spiega appunto la necessità della realtà della cosa affinché sia conosciuta, e si possa
anche dire che si conosce veramente la realtà e non soltanto Dio. Comunque il punto resta
fondamentalmente ambiguo in Matteo.
14 Cfr. G. BONAFEDE, Storia della Filosofia Medioevale, cit., p. 217.
15 Lo studio di questa tesi in Matteo sarà svolto nelle prossime pagine; per il momento intendo soltanto indicare il problema attraverso l’esplicitazione di alcuni presupposti, precisando
così anche una chiave ermeneutica.
202
Daniel Gamarra
che più in generale, presenta due aspetti che devono essere studiati insieme e sollevano a loro volta una domanda che va al di là della gnoseologia stessa e arriva fino
alla metafisica. Il primo aspetto potrebbe essere definito come la determinazione
del concetto di esistenza intenzionale, mentre il secondo riguarderebbe soprattutto
l’aspetto contenutistico della presenza intenzionale in quanto tale; vale a dire che
se entrambi gli aspetti, cioè esistenza e contenuto, appartenessero alla stessa unità
dell’atto intenzionale, il singolo reale potrebbe essere sostituito in maniera completa attraverso una forma di presenza, sufficiente in ordine alla sua comprensione. E
questa, come vedremo, sembra essere la tesi di Matteo.
b) Il secondo aspetto, si potrebbe formulare nel seguente modo: l’intenzione,
ossia la presenza oggettiva in quanto tale, avrebbe un valore conclusivo in rapporto all’intuizione stessa, in quanto la presenza intenzionale non rappresenterebbe
un’essenza universale, benché l’intenzione abbia un carattere oggettivo. La capacità di conoscere il singolo in maniera spirituale e diretta implicherebbe, in questo
senso, una non-universalizzazione dell’essenza singolare, anche se l’essenza
sarebbe in qualche modo universale in quanto essenza (e ciò per non affermare un
nominalismo che senza questo presupposto sarebbe assolutamente inevitabile). In
altri termini, se la conoscenza del singolare non fosse allo stesso tempo conoscenza essenziale, il problema della conoscenza intellettuale diretta del singolare
semplicemente non avrebbe senso. Ciò che invece vuol dire Matteo, e in generale
altri autori sostenitori di questa tesi, è appunto il contrario, cioè che la conoscenza
diretta del singolare è conoscenza essenziale, ma con la differenza, rispetto alla
conoscenza generica ed astrattiva, che l’essenza viene conosciuta nella singolarità
entitativa e come singolarità costituita.
A partire da queste considerazioni appare con una certa nitidezza la questione
della non distinzione tra la cosa e l’oggetto. Ne risulta che la sostituzione dell’ente con la forma intuita sarebbe una trasformazione dell’ente in pura presenza,
dalla quale scaturirebbe una possibilità fenomenologica esauriente per quanto
riguarda il contenuto dell’oggetto presente. Questa è infatti una possibilità teoretica derivata dalla tesi della conoscenza diretta del singolare e che bisognerà in
qualche modo percorrere per mostrare la sua praticabilità, oppure per spiegare
almeno le condizioni di possibilità della tesi stessa. Comunque, bisogna dire che
tale possibile confusione ha una certa limitazione nella filosofia del Nostro, dal
momento in cui le aeterne veritates non possono essere considerate come pura
oggettività. Esse sono il modello della creazione e con ciò si preclude la possibilità di una considerazione immanentistica della realtà nel suo insieme. Perciò,
anche se in sede storica questo problema rimane così configurato, in sede teoretica il problema spinge alla considerazione metafisica del fondamento dell’ente,
dell’origine e della finalità come problemi posti a loro volta quali diversi aspetti
suscitati dall’atto creativo16.
16 Si
potrebbe prescindere filosoficamente da un atto originario primo? Così formulata, la
domanda è radicale e mostra che la radicalità è oggetto necessario della domanda filosofica.
203
studi
2.1. La conoscenza del singolare
Matteo dedica la quaestio IV delle Quaestiones de cognitione a risolvere il
problema della conoscenza del singolare, con la consapevolezza di chi sa di essere di fronte a un problema difficile e secolare; in lui, infatti, si trovano risposte e
tentativi di soluzione che vanno da Aristotele ad Agostino, e da questo ad
Avicenna e agli autori del XIII secolo, suoi contemporanei. Un punto importante
della teoria di Matteo riguardante la conoscenza del singolare consiste nella sua
distinzione fra il fatto ed il modo dell’intellezione17, distinzione che a sua volta
implica un’acuta penetrazione delle istanze psicologiche del problema.
Nel considerare gli aspetti più tecnici dell’argomentazione, Matteo si riferisce, alla stregua di una conferma, a tre motivi che dovrebbero rafforzare in modo
estrinseco ma al contempo decisivo le ragioni di ordine psicologico attraverso le
quali intende provare la sua tesi. Nelle Quaestiones de cognitione, afferma che la
conoscenza diretta del singolare risulta necessaria anche in quanto «convincit
veritas fidei, auctoritas divini praecepti et violentia argumenti»18. Accanto alle
ragioni gnoseologiche, questi motivi potrebbero sembrare in effetti troppo estrinseci e fuori dall’argomentazione in quanto tale. Valutando inoltre la questione
soltanto da un punto di vista dialettico-argomentativo, si potrebbe anche dire che
l’osservazione di Matteo non ha peso oppure interesse filosofico. In realtà, si
tratta della cornice entro la quale l’argomentazione viene svolta, e con ciò
Matteo vuol segnalare, anche se indirettamente, che il fondamento della conoscenza si trova vincolato alla questione del fondamento del mondo e dell’uomo
in quanto tale, e cioè che la conoscenza del singolare è qualcosa di più che un
avvicinamento empirico del soggetto al mondo e che proprio nell’atto di conoscerlo si rivelerà qualcosa di eterno che appartiene alla singolarità, la quale ne è
rivelatrice.
Come primo passo, Matteo nega esplicitamente, e in polemica con Tommaso
d’Aquino19, che la conoscenza del singolare si produca attraverso la reflexio ad
phantasmata; sostiene invece la tesi della sua conoscenza diretta: «bisogna dire,
senza dubbio, che il nostro intelletto conosce o coglie il singolare»20; egli critica
quanti affermano che, poiché l’oggetto dell’intelletto è l’universale, tale intelletto
17 Cfr.
C. BÉRUBÉ, La connaissance de l’individuel au Moyen Age, cit., p. 94. Bérubé discute
la questione della conoscenza del singolare in un contesto storico più ampio, e segnala
nello stesso luogo che con Matteo «la question de l’intellection directe du singulier fait un
grand pas, car, sans se dégager du plan théologique […] elle accède véritablement au plan
philosophique et s’appuie sur une psychologie consistante de la connaissance».
18 QQC, IV, 279, 16.
19 Quasi sicuramente Matteo si riferisce a TOMMASO D’AQUINO, De veritate, q. 2; cfr. C.
BÉRUBÉ, La connaissance de l’individuel au Moyen Age, cit., p. 95; anche, H.M. BEHA,
«Franciscan Studies», 20 (1960), pp. 161-204; 21 (1961), pp. 1-79; pp. 383-465.
20 QQC, IV, 279, 16: «Dicendum est quod intellectus noster cognoscit sive intelligit singularia».
204
Daniel Gamarra
non può conoscere per sé il singolare21. In altri termini, Matteo non vedrebbe in
questa tesi una limitazione della facoltà intellettiva, ma soprattutto due momenti
diversi — ma allo stesso tempo integrati — di conoscenza. Di fronte però alla tesi
della sola conoscenza dell’universale da parte dell’intelletto, il Nostro definisce la
propria con chiarezza e precisione: «L’intelletto conosce veramente i singolari
attraverso species singolari e conosce gli universali attraverso species universali»,
in quanto ottiene «in primo luogo la species singolare e a partire da questa produce il concetto universale; e tutto questo, prima di conoscere l’universale stesso»22.
Matteo esprime questa opinione in diversi luoghi dell’opera che abbiamo di fronte, mentre testi più estesi precisano, a loro volta, aspetti diversi che completano la
tesi principale. I seguenti rappresentano tre passi consecutivi che il Nostro dà al
fine di esprimere il suo pensiero sul particolare:
1. «Affermo quindi che i singolari sono presenti nell’intelletto non per sé ma
attraverso le loro species»23.
2. «Il singolare è conosciuto attraverso la species che è nell’intelletto, la quale
rimane in un certo senso nella sua natura materiale, e in un certo senso diventa
immateriale. È materiale in quanto rappresenta e conduce alla conoscenza
dell’‘aggregato’ di materia e forma; ed è invece immateriale perché astrae dalla
cosa esteriore e perché non ha l’essere nella materia»24.
3. D’altra parte, Matteo stabilisce un punto di unione fra l’ente singolare e la
species oppure la presenza mentale della cosa in quanto materiale in una certa
essenza individuale; si tratta di una corrispondenza a livello intenzionale ed
ontologico allo stesso tempo: «dico quindi che, benché l’essenza sia la stessa
forma specifica — la stessa, affermo, nella specie [intenzionale] —, tuttavia una
è la forma individuale ed altra, secondo Riccardo di S. Vittore, quella della sostanzialità; non esiste perciò inconveniente che un’altra sia l’essenza singolare.
Donde l’essenza generale di uomo è l’umanità, l’essenza di Daniele la ‘danielità’, come dice Riccardo, nel II libro [De Trinitate], cap. 12»25.
21 QQC,
IV, 282, 16: «Quidam enim dicunt quod, quia obiectum intellectus est quod quid est
et universale, intellectum numquam per se singulare cognoscit, immo abstrahit speciem
intelligibilem ab omnibus principibus individuantibus».
22 QQC, IV, 285, 5: «Propterea dicendum, sine praeiudicio, quod revera intellectus cognoscit
et intelligit singularia per se et proprie, non per accidens, ita quod singularia cognoscit per
species singulares, universalia per species universales; nec species universalis sufficit ad
cognoscendum singularia. […] Prius igitur defertur species singularis ad intellectum et ex
illa colligit intentionem universalem, quam ipsum universale intelligat».
23 QQC, IV, 287, 17: «Dico enim quod singularia sunt in intellectu non per se, sed per suas
species».
24 QQC, IV, 287, 28: «Singulare intelligitur per speciem quae est apud intellectum, quae quidem quodam modo manet materialis, quodam modo fit immaterialis. Materialis quidem
manet, quia repraesentat et ducit in cognitionem totius aggregati ex materia et forma; fit
autem immaterialis, quia abstrahitur a re extra nec habet esse in materia».
25 QQC, IV, 288, 10: «Dico quod, quamvis eadem sit quidditas, sicut eadem forma specifica
— eadem dico in specie — alia tamen et alia est forma individualis, et, secundum
205
studi
Non sembra ancora opportuno dedurre conclusioni specifiche che riguardano
direttamente il nostro tema, perché è ancora necessario fare un successivo passo
che permetta di avere una veduta d’insieme più chiara soprattutto per quanto
riguarda i rapporti fra essenza e oggettività. Questi punti che appaiono nella teoria della conoscenza di Matteo, in particolare nelle sue tesi sulla conoscenza del
singolare, saranno più volte ripetuti lungo il quattordicesimo secolo e poi nella
più tardiva scolastica, soprattutto in quel suo momento di rinascita lungo i secoli
XVI e XVII. Da qui anche l’interesse che presenta questo autore in materia gnoseologica strettamente legata a un problema metafisico radicale com’è quello
costituito dall’essenza finita26. La tesi della conoscenza del singolare implica in
realtà un insieme di tesi riguardante l’illuminazione, la costituzione dell’oggettività e la conoscenza come attività soggettiva. Riassumendo, ci troviamo davanti
a una chiave di pensiero portatrice di una interiore tensione, e cioè quella che
appare nella considerazione dell’universale in re che potrebbe essere considerata
come una costante metafisica e gnoseologica della filosofia occidentale.
2.2. L’illuminazione
Allo scopo di precisare meglio il ruolo dell’illuminazione nella teoria della
conoscenza di Matteo di Acquasparta, oltre agli accenni fatti in pagine precedenti, possono essere considerati altri aspetti essenziali che nel suo insieme definiscono la questione in maniera assai chiara. In questo modo, sarà anche possibile
mettere in luce i fondamenti metafisici che contribuiranno alla definizione dell’esse obiectivum; allo stesso tempo questa maniera di procedere permetterà di
vedere il senso che ha nel pensiero di Matteo il problema della conoscenza del
non-esistente. Quest’ultimo aspetto non sempre è stato considerato in maniera
particolareggiata, pur tuttavia resta decisivo nella sua teoria della conoscenza.
Avevamo già considerato che secondo Matteo d’Acquasparta sono tre gli elementi necessari che intervengono nella realizzazione della conoscenza: una certa
attività soggettiva, l’oggetto stesso e l’illuminazione divina che, nel loro insieme,
conformano un’unità attivo-conoscitiva. C’è da dire che per il Nostro esiste una
forma tipica nella quale si manifesta in maniera propria questa unità di azione,
anche se con una chiara accentuazione dell’illuminazione appunto, ed è quella
Richardum de S.Victore, alia substantialitas; et pro tanto non est inconveniens quod alia
quidditas singularis. Unde quidditas generalis hominis est humanitas, quidditas Danielis est
danielitas, ut dicit Richardus, II libro, cap. 12».
26 Sul problema della conoscenza del singolare secondo Matteo d’Acquasparta, cfr. H.D.
S IMONIN , La connaissance humaine des singuliers matériels d’après les Maîtres
Franciscaines de la fin du XIIIe siècle, «Melanges Mandonnet», t. II, pp. 289-303, Vrin,
Paris 1930; S. DAY, Intuitive cognition. A key to the significance of latter Scholastics, St.
Bonaventure Institute, New York 1947; G. PAYNE, Cognitive Intuition of Singulars Revised,
«Franciscan Studies», 41 (1981), pp. 346-384.
206
Daniel Gamarra
della conoscenza degli esseri immateriali come, p.e., l’anima. Il motivo di questa
forma pura di attività intellettuale è dovuta al fatto che la conoscenza sensibile
non ha a che fare con essa. Con ciò Matteo intende rendere più chiara la questione della presenza oggettiva nell’anima senza intervento dei sensi, il che costituisce infatti un’affermazione in obliquo della causalità oggettiva dell’illuminazione.
Nella conoscenza dell’anima non intervengono infatti i sensi; allo stesso
modo in cui nella conoscenza di alcuni principi, la cui verità è indubitabile, non
si vede quale possa essere la loro indole empirica che origina, dal punto di vista
oggettivo, la loro conoscenza, come è il caso del principio «il tutto è maggior che
la parte». L’evidenza di questa proposizione non richiama, al dire di Matteo, nessuna conoscenza sensibile. Così, per conoscere queste realtà immateriali, l’intelligenza riceve una particolare illuminazione in maniera tale da poterle conoscere
non solo in se stesse, ma anche attraverso le rationes aeternae. Questo infatti
accade — e aggiunge Matteo che c’è una certa esperienza di questo fatto — nella
misura in cui possa esserci un non esse in rebus e che, al contrario, si costituisca
un esse in intellectu, cioè il non ens (si deve però ancora vedere in che senso)
potrebbe tuttavia presentarsi come un certo oggetto di conoscenza attraverso
appunto le rationes aeternae27.
Benché l’anima si trovi in una situazione di unione col corpo, in quanto
forma di esso, e pertanto è il principio attivo di tutte le facoltà compresi i sensi,
la conoscenza ha un punto finale e definitivo nel modo più spirituale di possedere l’oggetto. La teoria dell’astrazione risponde infatti in certo modo a questo problema, in quanto l’intelligenza spiritualizza il contenuto oggettivo che ha avuto
un’origine sensibile, e fa sì che l’oggetto sia intellectus actu. Questo, comunque,
ha soprattutto un valore di spiegazione della conoscenza di origine sensibile, ma
resta senza risposta adeguata il problema posto prima, cioè quello delle realtà
immateriali, giacché la loro conoscenza non potrà essere, per quanto detto, una
conoscenza astrattiva in senso rigoroso.
Fra l’aristotelismo e le tesi di origine agostiniana presenti nel pensiero di
Matteo, egli trova una via media per spiegare la conoscenza o, meglio ancora, la
causa ultima della conoscenza: poiché, da una parte, l’astrazione in senso aristotelico risulta insufficiente28 — e in certo senso non adeguata — e, dall’altra, un
platonismo ad oltranza gli sembra un’opinione «omnino erronea. Quamvis videtur enim stabilire viam sapientiae destruit tamen viam scientiae»29. Per queste
ragioni afferma il Nostro che «la conoscenza è causata sia da ciò che è inferiore
27 Cfr.
QQC, I, 215, 22. Uno studio molto interessante che mostra il problema del non-esistente ed il suo rapporto con l’onnipotenza divina, è il seguente: A.L. GONZALEZ, El problema
de la intuición de lo no-existente y el escepticismo ockhamista, «Anuario Filosófico», X/2
(1977), pp. 115-143.
28 Cfr. QQC, II, 231, 22.
29 QQC, II, 232, 4.
207
studi
sia da ciò che è superiore, a partire dalle cose esterne e da quelle ideali»30.
Questa sua tesi non significa quindi che in ogni atto di conoscere sono le cose
esterne e quelle ideali a confluire nell’atto conoscitivo, apportando ognuna la sua
parte; vuol dire, invece, che se la conoscenza ha avuto un momento esperienziale, questo non è sufficiente affinché l’oggetto sia essenzialmente presente
nell’intelletto, ma ha ancora bisogno della cosa ideale. Mentre è invece possibile
— apre cioè in maniera evidente la possibilità effettiva che possa accadere il
contrario — che la ratio aeterna sia l’unica a dare qualche contenuto oggettivo
all’intelletto in actu, come nel caso degli esempi finora considerati, cioè della
conoscenza dell’anima oppure di certi principi in se stessi evidenti31.
Da qui Matteo può distinguere tre ordini di adeguazione, oppure tre momenti
veritativi in quanto s’intende la verità come adeguazione: la verità logica, che è
l’adeguazione dell’intelletto con la cosa esterna; la verità ontologica, che è invece adeguazione della cosa con l’intelletto — e qui Matteo introduce una considerazione sul limite oggettivo oppure sull’attività di conformazione dell’oggettività —; ed in terzo luogo, la verità divina che è l’adeguazione della cosa con
l’intelletto divino.
In un testo non troppo breve ma chiaro, che ci permettiamo di citare per esteso, Matteo introduce delle precisioni di grande interesse: «la verità, infatti, d’accordo con la sua propria essenza è la ragione della conoscenza e della manifestazione, come dice Ilario, giacché la verità è dichiarativa dell’essere. Questa ragione, in quanto si trova impressa nella creatura, cioè in quanto è la sua propria
forma o essenza, non è sufficiente né per manifestarsi e dichiararsi, né per muovere l’intelletto. Perciò Dio concede alla nostra intelligenza una certa luce intellettuale con la quale astrae la species delle cose conosciute (rerum obiectarum),
attraverso le cose sensibili, che purifica e prende le loro essenze, le quali costituiscono in effetti l’oggetto dell’intelletto. Concede Dio anche una luce naturale
con la finalità di giudicare e con la quale l’intelligenza discerne le cose buone da
quelle cattive, le cose vere da quelle false. Non è però sufficiente neanche questa
luce, poiché è deficiente ed opaca a meno che non si ricolleghi con la luce eterna, che è ragione perfetta e sufficiente per conoscere, e in questo modo possa
30 QQC,
II, 232, 14: «Et ideo viam mediam puto sine praeiudicio esse tenendam, dicendo
quod nostra cognitio causatur et ab inferiori et a superiori, a rebus exterioribus et a rationibus idealibus». Cfr. F. PREZIOSO, L’attività del soggetto pensante nella gnoseologia di
Matteo d’Acquasparta e di Ruggero Marston, «Antonianum», 25 (1950), pp. 259-326.
31 V. SORGE, Gnoseologia e teologia nel pensiero di Enrico di Gand, Loffredo, Napoli 1988,
p. 131: «secondo l’interpretazione del Bettoni che pure si è soffermato su tale complessa
questione, gli agostiniani che limitano l’efficacia dell’illuminazione alla sola impressione
all’anima umana dei primi principi sarebbero identificabili in Guglielmo d’Auvergne,
Alessandro di Hales, San Bonaventura e Matteo d’Acquasparta». Forse, per considerare
questo problema nel suo insieme, si dovrebbero tenere presente i temi che studieremo in
seguito, cioè quelli riguardanti lo statuto gnoseologico e metafisico dell’essenza, dal quale
si può concludere che in Matteo difficilmente l’illuminazione si limita ai primi principi.
208
Daniel Gamarra
raggiungere e, in un certo senso, tocchi l’intelletto che arriva a quello che c’è di
più alto»32.
Matteo risponde così al problema della conoscenza in quanto sufficienza,
oppure come momento non proseguibile di rapporto con l’intelligibilità, poiché
la conoscenza vera è stata garantita dalla stessa verità divina, creatrice della
verità finita. Rimangono però altre questioni sollevate senza una soluzione
soddisfacente e che potrebbe soltanto darsi a partire da una considerazione
‘meno metafisica’ dell’oggettività, poiché per Matteo le verità eterne costituiscono un certo allargamento dell’oggetto inteso come finitezza fino alla infinitezza di un altro soggetto diverso da quello umano, cioè Dio, e con ciò l’oggetto
ha a che vedere col pensiero necessario e creativo.
Ma è questa una difficoltà per spiegare la conoscenza vera oppure la portata
veritativa della conoscenza umana? Da un punto di vista creazionistico, com’è
senz’altro quello di Matteo e della filosofia cristiana in generale, la coincidenza
delle essenze delle cose con le loro idee in Dio si può presentare come si presenta al nostro, alla maniera di sigillo definitivo della trascendenza di Dio, della
trascendenza conoscitiva. Con ciò, la dimensione trascendente dell’antropologia
trova anche un fondamento operativo nella stessa natura umana in quanto capace
di conoscere.
Il punto problematico si trova comunque nella dimensione meta-esperienziale
dell’illuminazione, sia che la si consideri come luce nell’intelligenza, sia come
luce dell’essenza. La domanda sarebbe: non è possibile per l’uomo raggiungere
la verità delle cose senza la mediazione della luce eterna? E se la risposta dovesse essere negativa: quale sarebbe allora il modo per trovare la prova metafisica di
tale atto operante nel conoscente e nelle essenze? La prova dell’illuminazione
non dovrebbe essere diversa dall’affermazione dell’intelligibilità dell’essere e, se
così fosse, il fondamento della risposta si troverebbe piuttosto nella linea trascendentale del verum, da dove potrebbe anche scaturire la prova metafisica dell’esistenza dell’Essere supremo che nel causare l’essere causa l’intelligibilità. Se la
conoscenza fosse soltanto un rapporto fra luci, si potrebbe obiettare a Matteo che
quello che si conosce non è l’essere ma l’intelligibilità; quindi, il problema della
conoscenza rimarrebbe senza risposta, se si suppone che la conoscenza ha come
oggetto l’essere.
32 QQC,
II, 233, 1: «Veritas autem secundum rationem suam est ratio cognoscendi et manifestandi, prout dicit Hilarius quod veritas est declarativa esse. Ista ratio ut est impressa creaturae, hoc est ipsa sua forma vel quidditas non est sufficiens ad se manifestandum nec (ad)
movendum intellectum. Ideo providit Deus nostrae menti quoddam lumen intellectuale, quo
species rerum obiectarum abstrahit a sensibilibus, depurando eas et accipiendo earum quidditates, quae sunt per se obiectum intellectus. Indidit nihilominus naturale iudicatorium,
quo discernat et iudicet bona a malis, vera a falsis. Sed nec istud lumen est sufficiens quia
defectivum est et opacitati admixtum, nisi subiungatur et connectatur illi lumini aeterni,
quod est perfecta et sufficiens ratio cognoscendi, et illud attingat et quodam modo contingat
intellectus secundum sui supremum».
209
studi
Perciò, Matteo in un certo senso risponde alla domanda posta ed in un altro
senso no. La risposta positiva è infatti l’illuminazione che ha a sua volta, indipendentemente dalla questione posta nel paragrafo precedente, una dimensione a
nostro avviso valida se metafisicamente fondata. La risposta non sufficiente
invece consiste nel mettere l’oggetto stesso in una situazione metafisica, o più
esattamente come una condizione metafisica generale; l’oggetto, invece, altro
non è se non oggettività logica, o più rigorosamente intenzionalità in atto, che
viene per così dire messa in disparte quando Matteo dice che quell’elemento
inferiore assieme con l’intelletto è insufficiente per giustificare la conoscenza di
tutta la realtà, perché con ciò introduce una limitazione gnoseologica alla metafisica, nella misura in cui la possibilità di verità verrebbe attuata con una certa
indipendenza dall’essere. Paradossalmente, in tal modo la sufficienza conoscitiva
intesa soltanto in termini di luce implicherebbe una riduzione oggettiva della
metafisica. Rimane comunque come punto saldo la realtà delle essenze, perché il
Nostro non è nominalista ed è questo, per l’appunto, quello che rende possibile
la sua riflessione sulla conoscenza in termini di luce.
Nel corpus della stessa quaestio, nel suo momento conclusivo, Matteo riassume il suo pensiero con queste parole: «Tutto ciò che è conosciuto con certezza
dalla conoscenza intellettuale, si conosce nelle verità eterne e nella luce della
prima verità, come è stato spiegato, concludendosi così la natura conoscente e la
cosa conoscibile, il mezzo certo ed il giudizio retto; in questo modo la ragione
del conoscere la realtà materiale ha origine nelle cose esteriori da dove si prendono le species delle cose che verranno conosciute; tuttavia la ragione formale
della conoscenza è, in parte, interiore, cioè la luce della ragione, e in parte viene
dal superiore che si presenta in maniera completiva e consumativa attraverso le
regole e le ragioni eterne»33.
2.3. Il problema della «natura communis»
Più volte è stata rilevata la vicinanza, per lo più critica, fra Matteo di
Acquasparta e Duns Scoto; esiste senz’altro un fondamento sufficiente nei testi
di entrambi per affermare tale vicinanza in alcune tesi non certamente secondarie34. Tra le varie possibilità ce n’è una che risulta particolarmente rilevante
33 QQC,
II, 240, 21: «Sic igitur dico quod quidquid cognoscitur certitudinaliter cognitione
intellectuali cognoscitur in rationibus aeternis et in luce primae veritatis eo modo quo fuit
explicatum, concludente hoc et natura cognoscente et re cognoscibili, et medio certo et
iudicio recto; ita quod ratio cognoscendi materialis est ab exterioribus, unde ministrantur
species rerum cognoscendarum; sed ratio formalis partim est ab intra, scilicet a lumine
rationis, partim a superiori, sed completive et consummative a regulis et rationibus aeternis».
34 Non è nostra intenzione dimostrare qui la vicinanza fra i due seguendo un metodo storiografico, ma soprattutto segnalarla in modo materiale, ovvero a modo di indicazione tematica.
210
Daniel Gamarra
per le implicazioni che ha riguardo al nostro tema, e che in maniera principale
avvicina Duns Scoto a Matteo oppure, se si vuole, fa di quest’ultimo un antecedente diretto di Scoto. Si tratta infatti della difficile questione della natura communis, materia della quale entrambi hanno parlato e sulla quale hanno manifestato una preoccupazione che possiamo definire primaria.
Nelle stesse Quaestiones de fide et cognitione, Matteo riporta dei testi in gran
misura coincidenti nel suo nucleo fondamentale con la nozione di natura communis di Duns Scoto. «Quando dico ‘uomo’ — afferma Matteo — mi riferisco
all’universale, e quando dico ‘quest’uomo’, mi riferisco al singolare. L’universale in quanto nomina qualcosa, non è nell’anima ma è una specie universale,
cioè, una natura comune (natura communis), a partire dalla quale si forma il concetto a causa della convenienza di molti, e in questo senso si chiama universale.
[…] Di conseguenza l’intelletto è quello che realizza la predicazione o composizione attraverso la specie che ha in se stesso, chiamata anche intenzione; tuttavia,
a questa corrisponde, com’è stato detto, la natura comune, giacché ‘quest’uomo’
è ‘uomo’»35.
Dal testo, considerato nella sua totalità, si possono trarre i seguenti punti di rilievo:
1. L’universalità si trova in maniera propria nella species, oppure nella cosa in
quanto oggetto, e con ciò Matteo afferma che è una caratteristica del modo di
conoscere; benché,
2. il fondamento dell’universale è presente nella natura communis, la quale si
trova in ogni individuo (hic homo est homo);
3. la natura communis è diversa dai principi d’individuazione che costituiscono l’individuo in quanto tale, giacché «in quolibet enim particulari est aliquid,
quo distinguitur ab alio»36;
4. la natura communis non si trova nella realtà astratta absolute ma in quanto
si fa una comparazione fra gli individui. Così, essa è un certo risultato dell’operazione intellettiva, altrimenti si perderebbe il senso dell’atto di conoscenza
35 Quaestiones
de fide, q. I, ad 10: «Quod dico ‘hominem’, dico universale; quod dico ‘hunc
hominem’, dico singulare. Universale, prout dicit rem aliquam, non est in anima, sed species universalis, id est istitutus naturae communis, ex qua colligit intentionem hanc propter
convenientiam multorum, et vocat universale. Sic ergo universale est in rebus secundum
veritatem, sed secundum intentionem est in anima; et secundum hoc dicit Commentator
quod ‘intellectus facit universalitatem in rebus’. — Quod dicit, universale est de essentia
rei, dico quod non est de essentia rei tanquam essentiale principium, sed est rei essentiale.
—Quod vero dicit, quod universale est pars definitionis, dico quod universale accipitur pro
eo quod est magis commune, cuiusmodi est genus, sicuti ‘animal’ est communius quam
‘homo’. Sed ‘animal universale, ut dicit Philosophus, I De anima, aut nihil est aut posterius
est’. — Quod quaerit, quid est illud quod praedicare est actus animae; ergo intellectus est
ille qui facit praedicationem vel compositionem talem, per speciem quam habet in se sive
intentionem. Huic tamen respondet in re, ut dictum est, illa natura communis: vere enim hic
homo est homo».
36 Ibidem.
211
studi
intellettuale in quanto astrazione, e, d’altra parte, l’individualità si renderebbe
problematica davanti ad una realtà generica.
Queste brevi considerazioni ci mettono dinanzi a due aspetti di importanza
fondamentale: il concetto stesso di natura communis e anche un preludio di quello che Scoto chiamerà haecceitas e che, anche se con meno chiarezza, Matteo in
qualche modo afferma: «et haec sunt principia particularia, ut sua anima, suum
corpus; est etiam aliquid, quo convenit cum quolibet alio, sicut anima et corpus.
Unde et est hic homo ex hac anima et hoc corpore compositus, et homo compositus ex anima et corpore»37.
Oltre però alla maggiore o minore importanza storica di questa vicinanza fra
Matteo e Duns Scoto, il punto che ci interessa sottolineare di più è quello che si
riferisce allo statuto metafisico della natura communis nel senso che essa implica
una presenza essenziale nell’individuo. Con ciò il Nostro trova un momento
metafisico fondante della verità, ossia del rapporto dell’intelligenza con la realtà
extramentale che combacia in modo assoluto con l’adeguazione veritativa fra
l’intelletto e la ratio aeterna. A questo punto però è anche necessario menzionare
quello che è stato oggetto del paragrafo precedente, cioè l’accentuazione del
carattere secondario del momento sensibile della conoscenza, poiché l’atto proprio dell’intelligenza è la conoscenza di essenze, oppure di naturae communes.
3. La conoscenza del non-esistente
3.1. L’indifferenza dell’essere
Non troppe volte si trova un problema di questo genere nella storia della filosofia. Sembra addirittura un controsenso parlare della possibilità della conoscenza di qualcosa che non esiste; almeno, il più elementare senso comune si rifiuta
di ammettere una questione simile. Secondo il linguaggio comune, un non-esistente è qualcosa che non è, che non ha alcuna realtà oppure che è qualcosa di
finto. Se si va oltre il significato più immediato dell’espressione, tuttavia, si
potrebbe trovare una dimensione metafisica nascosta dietro questa apparente
mancanza di senso. Quindi, perché proprio questo problema? L’origine non è,
almeno in linee generali, una astrusa elaborazione concettuale di Matteo di Acquasparta.
Nelle sue Quaestiones de cognitione ci troviamo di fronte al seguente titolo:
«Quaestio est utrum ad cognitionem rei requiratur ipsius rei existentia aut non
ens possit esse obiectum intellectus»38. Il problema è invitante e l’apporto di
Matteo in questo testo all’elaborazione del problema dell’esse obiectivum ha
senz’altro degli spunti pieni d’interesse. Comunque, come primo passo, prima di
37 Ibidem.
38 QQC, I,
212
201.
Daniel Gamarra
entrare nel merito della questione, bisogna chiarire le condizioni di possibilità
della domanda stessa.
Nelle pagine precedenti abbiamo studiato alcuni aspetti di particolare rilievo
della teoria della conoscenza di Matteo e il nuovo problema che si pone adesso ci
offre una chiave più generale e anche una spiegazione più profonda per poter
dare un’interpretazione più coerente del pensiero del Nostro. Potrebbe anche
sembrare una questione secondaria. Infatti, la conoscenza di quello che non esiste o che non è, ha tutta l’apparenza di un problema artificioso; ma non è così.
Quello che non è una cosa (che non esiste come tale) con una realtà fisica — se
sia materiale o spirituale per il momento non interessa — potrebbe tuttavia esistere come una realtà oggettiva. Con questa affermazione troviamo in maniera
piuttosto virtuale, anche se ormai chiara come indicazione, una risposta alla possibilità stessa della domanda di Matteo, benché la sua risposta ci offra degli
aspetti complessi ed articolati.
Il problema posto da Matteo implica la previa definizione di un cospicuo
numero di nozioni metafisiche. Infatti, soltanto la possibilità stessa di porre il
problema significa che l’entità definita attraverso o a partire dalla non-esistenza,
sotto qualche aspetto o punto di vista tuttavia è. Matteo oltre a conoscere in
maniera profonda e vasta il pensiero di Agostino (da qui fondamentalmente l’elemento platonizzante del suo pensiero), ha letto anche con profondità Avicenna,
ed è da quest’ultimo autore che accetta la distinzione fra essere ed essenza39. La
tesi avicenniana implica però una definizione in sede gnoseologica, cioè non ha
una dimensione soltanto metafisica40. Dice Matteo: «dal punto di vista dell’essenza, come afferma Avicenna (V Metaphysicae, cap. 2, f. 87), in ogni essere
creato si distingue l’essenza dall’essere; l’essere non fa parte dell’essenza (nec
est de intellectu quidditatis), la quale è indifferente all’essere ed al non-essere», e
propone di conseguenza la tesi: «così non importa che la cosa esista per conoscere la sua essenza»41.
Si può vedere qui una chiara dipendenza di Matteo dalle suddette tesi di
Avicenna. In effetti, l’insistenza del filosofo arabo nella considerazione dell’essere come accidente estrinseco all’essenza, ha una profonda influenza nella
metafisica degli ultimi secoli del Medioevo. Non è affatto soltanto Matteo
d’Acquasparta ad essere vicino a questa opinione avicenniana, ma, se si può dire
così, Matteo è uno in più di quella numerosa serie di autori medioevali che manifestano di aver assimilato in maniera pregnante la filosofia di Avicenna.
Nell’impostazione di questo problema, comunque, non troviamo soltanto una
39 Cfr. C. BÉRUBÉ, o.c., p. 232.
40 Per approfondire questa tesi,
cfr. D.O. GAMARRA, Esencia y objeto, Peter Lang, BernFrankfurt a.M.-Paris 1990, cap. I.
41 QQC, I, 212, 22: «Ex parte quidditatis, quoniam ut dicit Avicenna, V Metaphysicae (cap. 2,
f. 87) et in multis locis, in omni creato differt quidditas et esse; nec esse est de intellectu
quidditatis, immo indifferenter se habet ad esse et non esse. Et ideo nihil refert intelligere
quidditatem rei absque eo quod res sit in actu».
213
studi
spiegazione che si possa ridurre a un puro e semplice dato storico di fatto; bensì
è lo stesso Matteo colui che apporta una teoria che gli appartiene in maniera originale, anche se con un’evidente dipendenza da Avicenna.
L’astrazione, l’illuminazione, l’attività del soggetto sono senz’altro elementi
necessari per il compimento dell’atto conoscitivo. Il problema però si complica
notevolmente quando appare il regno di essenze separate dall’esistenza.
Conoscere sotto la forma delle ragioni eterne e attraverso di esse è parallelo ad
affermare che la conoscenza ha come oggetto ciò che è immutabile, ovvero la
verità eterna, allo stesso modo in cui Dio conosce, oppure così come le essenze
sono in Dio. Non consiste il problema soltanto nel conoscere la verità necessaria,
perché questo sarebbe senz’altro una tesi, anche se troppo generica, allo stesso
tempo comune a quasi tutta la filosofia medievale. Il problema è soprattutto che
la conoscenza umana deriva in un certo senso da Dio, poiché Egli illumina e
nell’illuminare presenta un certo oggetto sotto forma di essenza eterna e nel
modo in cui essa è in Lui. La tesi proposta da Matteo conduce a questo.
L’esistenza è, in questo contesto, sinonimo di contingenza ontologica. Così,
se l’oggetto della conoscenza fosse l’esistente, la conoscenza, poiché è adeguazione intenzionale ma anche una certa adeguazione ontologica (l’illuminazione)
fra l’oggetto e il conoscente, otterrebbe un risultato ancorato nella contingenza
stessa ed avrebbe la stessa fluidità temporale propria degli esistenti singolari. In
questo modo, l’essenza in quanto conosciuta si troverebbe in una situazione di
cambiamento costante. Proprio per questo «l’adeguazione è un certo rapporto ad
un’altra cosa. […] C’è per tanto adeguazione quando l’intelletto apprende o
conosce l’essenza così come essa è; giacché non la conosce nel suo rapporto con
l’essere oppure con il non essere, né in un luogo né nel tempo, come accade con
l’esistenza»42.
Gli argomenti che presenta Matteo al fine di collocare la conoscenza nell’ambito essenziale dell’ente, hanno una precisione crescente: «Quello che è vero non
è il nulla, bensì quello che è (quod quid est) oppure quello che la cosa è […].
Quando conosco l’uomo, conosco l’uomo reale, cioè quello che l’uomo è in
modo immutabile. Neanche Agostino aveva considerato che quello che è (id
quod est) è l’essere in atto, perché tale essere si corrompe; la verità invece non si
corrompe insieme alle cose corruttibili: sempre rimane la ragione della cosa»43.
L’atto dell’intelligenza che conosce l’essenza così come l’essenza è, è
42 QQC,
I, ad 2, 216, 19: «Adaequatio quaedam relatio est et ad aliud. […] Praeterea dico
quod est adaequatio quia intellectus apprehendit vel intelligit quidditatem eo modo quo est;
quia non intelligit eam concernendo esse vel non esse, locum vel tempus, sicut de ratione
sua concernit, ideo intellectus sibi adaequatur».
43 QQC, I, ad 5, 217, 5: «Quod autem ‘verum’ non est nihil, immo est illud ‘quod quid est’,
vel est illud quod res est […]. Cum enim intelligo quid est homo, intelligo hominem realem, hoc est ‘id quod homo est’ immutabiliter. Nec intelligit Augustinus per ‘id quod est’
esse actu, quoniam illud esse corrumpitur, veritas autem secundum ipsum non corrumpitur
rebus corruptis; semper enim manet ratio rei».
214
Daniel Gamarra
anch’esso semplice e assoluto, cioè senza alcun riferimento spazio-temporale:
«L’intelletto ha un’operazione assoluta e semplice, attraverso la quale astrae
assolutamente dagli esistenti; di conseguenza tale operazione non dipende dall’esistere o dal non esistere delle cose»44. Questa tesi di Matteo manifesta che l’esse ha per lui un valore esistenziale in senso stretto, e la distinzione fra l’essere e
l’essenza, che in questo senso si rifà nuovamente ad Avicenna, implica in realtà
una distinzione fra essere ed esistenza, in quanto l’essenza è quello che è, cioè
l’essere immutabile, mentre l’esistenza è la cosa in atto, che anche è, ma in
maniera contingente e mutabile. Allo stesso tempo però quello che c’è
d’intelligibile nella cosa attuale non è primariamente l’esistenza, bensì l’essenza
indifferente all’esistenza, oppure assoluta, perché l’esistenza non è una ragione
formale. Il superamento della fatticità è pertanto condizione di trascendenza
essenziale. Questa conclusione però, pur essendo sostanzialmente vera, nasconde
una seria difficoltà.
Infatti, porre come momento conclusivo della conoscenza la sola attualità delle
cose esistenti, sarebbe fermarsi alla contingenza e alla variabilità che l’individualità manifesta in ogni ente. L’essenza, in senso opposto, è ciò che rimane, qualunque sia la situazione esistenziale dell’individuo, ed è in certo senso indipendente
dall’individualità empirica. Così, se la conoscenza si risolvesse nell’ente considerato come quello che accade, l’uomo si troverebbe indissolubilmente legato alla
finitezza anche nell’ambito conoscitivo. Se il punto di risoluzione della conoscenza si centra sull’essenza e questa, a sua volta, è la corrispondenza colta nell’esemplare divino, allora la conoscenza porterebbe direttamente alla trascendenza, benché in questo modo si neghi implicitamente che l’ente finito e temporale sia
un’affermazione anch’essa implicita della trascendenza. D’altra parte, da questa
prospettiva rimane compromessa in maniera radicale la realtà della sostanza nella
misura in cui quest’ultima è, o potrebbe dirsi che è, l’esistente.
In conformità con questi principi, Matteo afferma che «l’intelletto, nel rappresentare attraverso la specie qualcosa, sia che esista nella realtà sia che non esista,
forma un certo concetto, il quale è il suo oggetto, benché tale concetto non consista nel suo essere conosciuto ma conduca a qualcos’altro»45. Il concetto stesso è
quindi oggetto dell’intelletto, ma in quanto conduce a una realtà che non è il concetto. Ed è in questa realtà che la conoscenza si risolve oppure si coglie il vero.
Matteo non chiude l’attività conoscitiva nella pura presenza mentale dell’essenza
come se fosse l’oggetto conclusivo della conoscenza, afferma bensì un’istanza
trascendente all’oggetto o al concetto. Se il cammino verso l’esistenza mondana
non costituisce un ritorno alla vera realtà, perché arrivare conoscitivamente
44 QQC,
I, ad 20, 221, 24: «Tamen, ut dictum est, intellectus habet aliam operationem absolutam et simplicem, quae omnino abstrahit ab istis; ideo non dependet ab esse vel non esse
rerum».
45 QQC, I, ad 7, 217, 31: «Intellectus enim ex specie sibi repraesentante aliquid, sive sit sive
non sit in re, format sibi quendam conceptum; quod (quidem) obicit sibi ipsi, illud tamen
non sistit intellectum, sed ducit in aliud».
215
studi
all’ente esistente farebbe della verità qualcosa di contingente, allora la via di
uscita della fondazione dell’essenza, che a sua volta dev’essere fondata giacché è
finita anch’essa, si trova nella possibilità che l’essenza porti alla sua propria origine ontologica, cioè all’esemplare divino. L’oggetto dell’intelligenza finita
diventa dunque completo nel cogliere, da parte del conoscente, l’idea divina
come momento assoluto della verità. Da qui anche la necessità dell’illuminazione da parte di Dio, perché a Matteo sembra evidente che le forze dell’intelligenza finita non possano raggiungere le idee che esistono eternamente in Dio.
3.2. L’oggetto dell’intelletto
Sebbene abbiamo già parlato di questo argomento sotto un certo punto di
vista, sarebbe interessante considerarne alcuni altri aspetti che permettono di
vedere a quali conseguenze si potrebbe arrivare. Matteo di fatto lo suggerisce in
maniera piuttosto chiara, considerando l’essere principalmente come riducibile
all’apparire dell’esistenza, oppure, se si vuole, nella dimensione della fatticità.
Nel porre il problema della conoscenza del non-esistente, Matteo parla in maniera abbastanza evidente della sua posizione sul tema dell’essere stesso e quindi
dell’essenza e dell’esistenza.
La conoscenza umana ha un inizio nella sensibilità, perché infatti «colligit notitiam rerum corporearum et sensibilium». Accanto a questa tesi, d’altronde comune
alla tradizione filosofica classica, troviamo però un’accentuazione anche decisa
dell’attività dell’intelletto, in quanto questo atto ha un ruolo suppletivo dinanzi
all’insufficienza di atto della cosa materiale o naturale. Si tratta di un’insufficienza
che si manifesta nella sua deficienza di intelligibilità in quanto ontologicamente
non piena, cioè contingente e materiale. Infatti, dice Matteo che l’intelletto conosce
«non ab ipsis rebus aliquid patiendo ut eis vice materiae subdatur»46.
Il problema che si presenta a questo punto ha bisogno di una determinata
chiarificazione, nel senso che si deve vedere che la res non è un concetto applicabile soltanto alle cose materiali e sensibili, ma a tutto ciò che non abbia un
carattere strettamente essenziale. Così, la tesi anteriormente citata non vale solamente come tesi riferita alla conoscenza del singolare materiale, ma piuttosto ha
a che vedere con l’oggetto stesso dell’intelletto. «Benché nell’intelletto — dice
Matteo — la verità è causata dalle cose in quanto all’origine, non accade lo stesso per quanto riguarda la conservazione e la continuazione, perché anche quando
le cose scompaiono dalla presenza [fisica] del conoscente, tuttavia rimane la
verità con l’irradiazione della luce increata»47. Appare così da un’altra prospetti46 QQC,
47 QQC,
III, 262, 12.
I, sol.1, 215, 31: «Quamvis autem in intellectu causatur veritas a rebus quantum ad
originem, non tamen quantum ad conservationem et continuationem; immo rebus pereuntibus manet veritas in intellectu, tamen cum irradiatione luminis increati».
216
Daniel Gamarra
va qual è il ruolo attivo dell’intelletto sia che si riferisca alla presentazione dell’oggetto vero, sia alla sua permanenza, benché l’oggetto sia rappresentazione di
qualcosa di effimero.
L’azione conoscitiva che ha un’origine animica non si limita soltanto all’effettiva produzione dell’atto del conoscente e alla conservazione della specie, ma
manifesta anche un aspetto palesemente attivo in quanto produce (facit) le species intelligibiles con le quali l’intelletto conosce. Il successivo adattamento dell’oggetto all’immaterialità della potenza conoscitiva è dunque un requisito indispensabile affinché nell’anima esista un termine ultimo intelligibile che adatta
(coaptat) la cosa stessa affinché venga conosciuta dall’intelletto possibile48.
A questo punto Matteo in un certo senso abbandona la prospettiva psicologica
o, se si vuole, la chiave psicologica dell’analisi fin qui condotta, al fine di spostare
la sua riflessione verso una dimensione più gnoseologica. In questo momento,
infatti, egli considera la possibilità di una definizione dell’intelligibilità considerata in sé, oppure la definizione dell’oggettività come costituzione oggettiva nell’ambito più vasto dell’oggetto dell’intelletto. Siccome la cosa sensibile — quello
che è stato il punto di partenza prima riferito —, nella situazione di cosa in quanto
conosciuta dall’intelletto, rimane senza le condizioni materiali in cui si trovava
ristretta nel mondo, ha un essere meramente intelligibile. Tale intelligibilità combacia con l’essenza oppure con il non-esistente. L’oggetto dell’intelletto si manifesta dunque nella coincidenza o concorrenza dell’elemento che viene dall’esterno con l’attività di carattere prettamente spiritualizzante dei contenuti sensibili
da parte dell’intelletto: «et hoc sufficit ad rationem obiecti. Nam nec re existente,
quidditas ut est in rebus est obiectum intellectus»49. Ossia, la cosa esiste nella
realtà con la sua propria essenza che, astratta dall’esistenza, diventa oggetto.
Resta tuttavia da integrare nell’oggetto (non-esistente) l’elemento illuminante,
cioè il rapporto esplicito dell’oggetto (dell’oggettività) al suo esemplare attraverso
l’illuminazione. Si presenta così a Matteo, come d’altronde accade ai pensatori cristiani che hanno affermato la realtà dell’illuminazione divina come parte integrante
della conoscenza naturale, la necessità di distinguere questa luce dalla luce proveniente dalla visione di Dio alla maniera dei beati. È interessante la sua tesi nella
quale afferma che l’esemplare eterno non è l’oggetto quietans et terminans della
stessa conoscenza umana, ma che questo oggetto «è l’essenza stessa che viene
concepita dal nostro intelletto ma [solo] riferita all’esemplare divino che tocca la
nostra mente ed ha un carattere efficiente in rapporto con la sua attività. Ed allora
abbiamo la vera notitia delle cose che sono state presentate attraverso i sensi»50.
48 QQC,
III, 264, 5: «Non igitur patitur anima aliquid a rebus sensibilibus sive corporeis, sed
potius facit ex illis et de illis, et format sibi species aptas et proportionatas secundum exigentiam organorum et virium, quosque det sibi esse intelligibile et coaptet eam et formet
sive transformet eam in intellectum possibilem, quo est omnia fieri».
49 QQC, I, 213, 24.
50 QQC, I, 214, 30 - 215, 4: «Cum ergo intelligimus alicuius rei quidditatem et suam rationem
definitivam, obiectum intellectus non est ipsa mentis conceptus tantum; nec ipsa quidditas
217
studi
Viene così spiegato da Matteo d’Acquasparta il fatto che le rationes aeternae
fanno parte della conoscenza naturale fino all’estremo che attraverso di esse le
cose possono essere conosciute «anche se non esistono»51, giacché l’agire intellettuale è consono con quello stato assoluto dell’essenza avicenniana, cioè di
un’essenza senza riferimento all’esistenza52. Possiamo interrogarci però sulla
natura dell’oggetto in quanto tale e come oggetto primo dell’intelletto: è l’essenza, è l’ente…? Secondo la tesi di Avicenna, Matteo afferma che ciò che per
primo appare davanti all’intelligenza è l’ente senza nessuna determinazione.
L’ente in questo senso non è né atto né potenza, né presente né futuro. Vale a dire
che l’ente è in un certo senso superiore, oppure più esattamente trascendentale
dinanzi ad ogni contrazione specifica, così — e questo è assai significativo —
l’ente che viene considerato come oggetto primo è «l’essenza nell’intelletto,
nell’esemplare eterno, benché non esista nelle cose [con esistenza attuale], perché neanche l’esistenza fa parte del suo contenuto»53.
Matteo distingue, da una parte, le possibili determinazioni dell’ente e dall’altra quello che nell’ente c’è di accidentale, inclusa l’esistenza stessa. L’esemplare
eterno appare così nell’oggetto separato e distinto, vale a dire, la connessione fra
ragione eterna e oggetto conosciuto traccia una sorta di percorso fra l’essenza
eterna e l’essenza nel suo stato oggettivo. In questo senso, l’essenza eterna è
garanzia di verità perché l’oggetto conosciuto si libera dalla variabilità della contingenza. L’essere in quanto ricondotto al concetto di esistenza e fatticità, in
qualche modo, scompare dall’ambito dell’intelligibilità perché l’esistenza viene
a trovarsi nella situazione d’indigenza metafisica della creatura, mentre se c’è un
qualcosa di metafisicamente solido nella cosa creata, questa è l’essenza che, sia
tantum, quae non est in rerum natura; nec exemplar aeternum est obiectum quietans et
terminans, quia hoc est solum obiectum intellectus beati et beatificans. Sed est quidditas
ipsa concepta ab intellectu nostro, relata tamen ad artem sive exemplar aeternum, in quantum tangens mentem nostram se habet in ratione moventis. Et inde concipimus rerum veracem notitiam, et ministrata materia ab inferiore per sensus, inde fluunt principia omnium
artium». Fra l’altro appare in questo testo in modo acuto il penetrante tema dell’inquietudo
agostiniana.
51 QQC, I, 208, 12: «Apud intellectum nostrum sunt impressae rationes rerum aeternae et
inmmutabiles, sicut ‘omne totum est maius sua parte’ et ‘de quolibet affirmatio vel negatio’. Sed illae rationes non dependent a rebus; ergo per illas rationes rebus non existentibus
potest intelligere».
52 QQC, I, 212, 15: «Si vero loquamur de intellectu quantum ad operationem illam simplicem,
absolutam et puram, qua apprehendit et concipit rerum quidditates absolutas, sic dico quod
ab istius modi cognitionem rei existentia non requiritur immo nihil facit existentia vel nonexistentia». Cfr. D.O. GAMARRA, Esencia, posibilidad y predicación: a propósito de una
distinción aviceniana, «Sapientia», 160 (1986), pp. 101-120.
53 QQC, I, 216, 24: «Ut dicit Avicenna, primum quod occurrit intellectui est ens; […]. Sed
illud ens non est aliquid determinatum, nec actu nec potentia, nec praesens nec futurum,
nec homo vel equus et huiusmodi, sed ens quod est superius ad omnia ista. Et ego dico
quod quidditas illa est ens in intellectu, in exemplari aeterno, licet non sit ens actu in rebus,
quia nec hoc est de intellecto suo».
218
Daniel Gamarra
da un punto di vista metafisico sia da un punto di vista gnoseologico, dev’essere
ricondotta all’idea eterna. L’oggettività è quindi una situazione allo stesso tempo
logica e metafisica: logica in quanto è pura presenza mentale di un aliquid non
determinatum, e metafisica poiché il rapporto con la verità eterna le conferisce
una dimensione trascendente.
Allo stesso tempo però si potrebbe definire la realtà oggettiva, a seconda degli
elementi che presenta Matteo, come un momento riduttivo della realtà in generale, oppure come costituzione di un ambito trascendentale (diverso da una considerazione trascendente), nel senso che quello che in Matteo è trascendentale viene
dato da una certa costituzione oggettiva e non tanto dalla considerazione trascendentale della verità e dell’ente. Infatti, la considerazione dell’idea nell’intelligenza
finita fino al suo confronto e mantenimento nell’idea eterna (reale), come momento metafisico fondante, significa che tutta la realtà è stata considerata come idea.
Si potrebbe comunque argomentare in senso contrario prendendo spunto dalla
considerazione della sensibilità — come abbiamo anteriormente visto — in quanto connessione intuitiva del conoscente con la realtà.
D’altronde, è anche vero — come pure abbiamo visto — che tale rapporto sensibile ha un valore originario ma non conclusivo. Esso apporta un certo materiale,
benché rimanga isolato in quanto considerato solamente come punto d’inizio, ma
non come un qualcosa che esige un certo ritorno affinché sia conosciuto nella sua
profondità essenziale. Il sensibile è esistente e come tale contingente, il che vuol
dire che conoscere la verità implica l’abbandono della finitezza in maniera assoluta. Si apre nella filosofia di Matteo d’Acquasparta la via della trascendenza in
maniera piuttosto chiara, ma non tanto quella della considerazione trascendente
del mondo in quanto implicata nell’esistenza del mondo stesso. La comprensione
intellettiva non ritorna a quel punto di partenza con la cui intellezione si potrebbe
capire la verità. Il sensibile viene abbandonato nella misura in cui la certezza e la
pienezza formale dell’idea eterna si uniscono con l’atto dell’intelligenza finita.
Questo tralasciare la finitezza (anche l’immediatezza) impedisce però in
maniera quasi totale l’abbandono dell’oggettività come definizione oppure come
elemento metafisicamente significativo, o se si vuole, come quello che la realtà
diventa nel momento in cui viene conosciuta. Questo perché tale situazione libera la potenza intellettiva in una sola direzione, cioè in quella della pura trascendenza, ma non in quella dell’assunzione trascendente del reale. Quest’ultimo
passo non è infatti possibile senza una percezione della differenza fra finitezza in
quanto tale e partecipazione finita dell’essere nel finito. Non si tratta di una specie di calcolo metafisico, ma soprattutto di trovare il mezzo per non portare alla
categoria di realtà quello che è soltanto una categoria appartenente alla presenza
mentale in quanto mentale. Invece, la percezione di questa differenza rende possibile la considerazione della necessità nel finito e allo stesso tempo la considerazione del finito come contingente. Il livello qui è metafisico, in Matteo invece
c’è un qualcosa di oggettivo che interviene nella costituzione della necessità dell’essenza. Questa è necessaria perché reale ed è reale finitamente nel finito, men219
studi
tre la necessità della quale parla Matteo è, per così dire, necessità di percezione
della necessità, cioè un eccesso d’intenzione.
Rimane tuttavia il tema dell’incidenza dell’essenza come idea eterna nella
costituzione della verità necessaria. È questo un aspetto non trascurabile per
mantenere collegate le tesi esposte da Matteo. Bisogna qui però fare mezzo
passo indietro. L’oggetto è pienamente oggetto a partire dalla coincidenza di tre
istanze fondamentali: il sensibile, l’atto intellettivo e l’idea sotto la forma
d’illuminazione. Questa triplice composizione dell’oggetto è l’unica possibilità,
secondo le premesse del Nostro, perché ci sia conoscenza in modo assoluto. Qui
appare l’oggetto vero in quanto vero oggetto e in quanto oggetto che è riflesso di
una verità trascendente. Questa triplice composizione è, però, sempre composizione nell’intelletto. Senz’altro, se si trattasse di una questione gnoseologica, il
punto di vista sarebbe chiaramente questo. Comunque, il problema che si presenta un’altra volta è appunto quello della considerazione dell’esistenza come un
qualcosa di fattuale, senza profondità metafisica, mentre allo stesso tempo l’essere potrebbe darsi appunto come fattualità oppure come essenza. Nel primo caso
troveremo un circolo di difficile rottura, nel secondo, un’altra volta, la risposta
già considerata da Matteo.
È vero che l’idea divina completa la verità oppure costituisce il suo fondamento davanti all’insufficienza della cosa esteriore. L’idea divina perfetta appare
però come contenuto oggettivo nel momento in cui è posseduta dall’intelletto
finito e così in qualche modo continua ad avere la limitazione oggettiva. Ma se
invece questa idea fosse considerata come idea che appartiene soltanto a Dio?
Certamente in questo caso il problema avrebbe una certa soluzione, ma non troverebbe risposta rigorosa il problema della conoscenza umana, bensì quello della
conoscenza divina. A partire da questa situazione creatasi nella speculazione
gnoseologica di Matteo di Acquasparta, si potrebbe affermare che l’infinitezza e
l’immutabilità dell’idea rimane anche se accade quella specie di traslazione di
soggetto così come si manifesta nel caso dell’idea quando essa è in Dio o quando
essa è nell’intelletto creato.
Di conseguenza, poiché l’idea non è soltanto un essere nell’intelletto umano,
l’oggettività ha un ruolo negativo nel senso che sostituisce l’essenza, poiché quest’ultima corrisponde perfettamente all’idea. La questione, quindi, della separazione netta fra essere ed esistenza altro non è se non un movimento di sostituzione dell’idea con l’oggettività; cioè, poiché l’idea è reale in quanto eterna ed infinita, l’essere che gli è proprio o è Dio stesso o è oggetto. Il problema sta però
nell’affermare che l’esistenza rende impossibile l’entrata nel regno delle essenze,
se non attraverso il suo annullamento. In questo modo, il limite considerativo ha
un evidente primato davanti alla realtà, allo stesso tempo in cui si propone come
la sua definizione più esatta.
***
220
Daniel Gamarra
Abstract: This study concerns the thought of Matthew of Acquasparta (12401302), a thinker who brings significant elements of originality into the scholastic-augustinian philosophical tradition to which he belongs. In this article the
author addresses the gnoseological problem, in light of the “theory of content”
and of the “links between objectivity and existence”, with the aim of showing
how Matthew of Acquasparta’s philosophical reflection is chiefly characterized
by eclecticism and a sense of measure. A specific trait of his gnoseological perspective is in fact his capacity to maintain a balance between classical aristotelianism and cognitive theory of augustinian inspiration, a balance that is the
fruit of a synthesis of the aristotelian doctrine of form and St. Augustine’s doctrine of illumination. According to Matthew of Acquasparta, the conjunction of
the experience of extramental reality with the natural capacity of reason — a
union that reaches its final term in the understanding of the aeternae veritates —
constitutes the necessary condition for there being a cognitive act. At the same
time, the influence of aristotelianism upon his thought also emerges clearly from
the question of the non-existent. Here he shows his profound assimilation not
only of augustinian thought but also of the philosophy of Avicenna, from whom
he takes the distinction between being and essence.
221
222
ACTA PHILOSOPHICA, vol. 9 (2000), fasc. 2- PAGG. 223-240
Heidegger, Hegel, and Aristotle: A Straight Line?*
FERNANDO INCIARTE∗∗
Sommario: 1. Heidegger’s Theory of Seinsvergessenheit and his Attitude Towards Humanism
and Forschung. 2. Heidegger’s Interpretations of Time, Being, and Substance in Aristotle and
Hegel. 3. Concluding Remarks.
■
About the same time in which Martin Heidegger was maturing into a philosopher, Marcel Proust referred somewhere in his monumental Remembrance of
Things Past, to a professor of history at the Sorbonne saying, “he was out of
sympathy with the modern Sorbonne, where ideas of scientific exactitude, after
the German model, were beginning to prevail over humanism”1. The time to
which Marcel Proust referred was, of course, that of la belle époque, a century
ago. A quarter of a century later the German model of which Proust spoke was
firmly established almost everywhere in the academic quarters of the Western
world. Whether or not the philosopher Heidegger was ever attached to this
model, the fact is that he sought to keep his own work at an increasing distance
from it without, however, ever attaching himself to the rival model of humanism.
In this respect, the two World Wars were undoubtedly of special significance for
him.
It was only after World War II that, in his letter to Jean Baufret, Heidegger
defined his own position towards humanism in a fully explicit way. He had however already touched upon the issue of humanism and culture in a rather dramatic way in the period between the two great wars of our century. This was a period
* Conference at the Catholic University of America, Washington D. C.
∗∗ Philosophisches Seminar, Domplatz, 23, D-48143, Münster. Il prof. Fernando
Inciarte, che
ha collaborato più volte con la nostra rivista, è morto il 9 giugno 2000.
1
English translation by C.K. Scott Moncrief and Terence Kilmartin in the Penguin Books,
vol. 2, p. 897.
223
studi
during which Germany, despite its first crushing defeat, was witnessing a revival
of her Classical tradition under the heading of “The New Humanism”, of which
Werner Jaeger’s Paideia was only one, though an outstanding example. In the
purely philosophical field, one may think of Ernst Cassirer’s Philosophy of
Symbolic Forms as a similarly outstanding example. The two attitudes most dramatically clashed with each other in the famous series of disputes between Ernst
Cassirer and his junior colleague Martin Heidegger that took place in the Davos
of Thomas Mann’s Magic Mountain when Heidegger reproached Cassirer for
inviting man to make himself comfortable in the shelters (Behausungen) of culture without realizing that it is the genuine task of philosophy, as Heidegger put
it, “to cast man back from the sloth of using the products of the spirit into the
hardship of fate”2. As is well known, he eventually went so far as to altogether
reject the title of philosophy for his own endeavours3.
Under such circumstances, one may ask what is the point of treating
Heidegger alongside two classical philosophers such as Aristotle and Hegel. The
scope of this question is not limited to the issue of humanism. It bears not only
on Heidegger’s attitude towards culture in general and philosophy in particular,
but on his attitude towards the German model of exact investigation or
Forschung as well. In fact, Heidegger’s motives for mistrusting both models can
be traced back to the same origin. Their common origin lies in the very nature of
metaphysics in the sense given by Heidegger to the term “onto-theology”, i.e. in
the sense in which metaphysics represents a progressive oblivion of being in
favor of beings, of Sein in favor of Seiendes.
I am not going to give a new interpretation of this real or alleged oblivion, nor
am I going to repeat other interpretations. Rather, I will first explain the way in
which Heidegger’s thesis of Seinsvergessenheit is to be considered responsible for
his persistent attitude towards both humanism and Forschung. Then, in the central
part of my exposition, I will draw some consequences of this attitude with regard
to Heidegger’s interpretation of Hegel and Aristotle concerning time, being, and
substance. A third section concludes with some remarks in a more general key.
1. Heidegger’s Theory of Seinsvergessenheit and his Attitude Towards
Humanism and Forschung
Heidegger’s attitude to both cultural humanism and exact investigation was
rooted in his conviction of the inadequacy of theory vis-à-vis human life in its
2
3
“Davoser Disputation”, edited as an appendix to Kant und das Problem der Metaphysik in
Gesamtausgabe (GA) I 3, Frankfurt 1991, p. 291.
Cf., e.g., “Das Ende der Philosophie und die Aufgabe des Denkens”, in Zur Sache des
Denkens, Tübingen 1969, pp. 61-81. For his own work Heidegger retained at first even the
title “Forschung”, if only in the sense of “phänomenologishe Forschung”, but he gave this
up later on (cf. also note 24 below).
224
Fernando Inciarte
individual as well as historical dimension. The word “theory” is here to be taken
literally, i.e. broadly enough so as to encompass all connotations of “looking at”,
including the Biblical “enticing of eyes” or “Augenlust” (“lust of the eyes”). But,
of course, it was not so much because the Greeks were, as the saying goes,
“Augenmenschen” (“men of eyes”) that they, according to Heidegger,
bequeathed the notion of theory to the Western world. Even during the time of
the Third Reich, Heidegger at least firmly rejected any kind of biologism, naturalism or, for that matter, racism. If the Greeks were “Augenmenschen”, this was
because of their mental or spiritual attitude — i.e. because of the way in which
being manifested itself to them, and at the same time concealed itself from them.
It is also the way of metaphysics as interpreted by Heidegger.
What is concealed from metaphysics are its own foundations, i.e. the fact that
the essence or sense of being is time. A clear example of this is to be found,
according to Heidegger, in what he once — drawing more on the Scholastic tradition than on Aristotle himself — called analogia entis. In this tradition, substance represents the primary meaning of being, its primum analogatum. But
whereas at the beginning the Greek “ousia” was still understood in the full range
of its own connotations, at the end it was reduced to the impoverished notion of
substantia. What the notion of substantia mainly left out was precisely the temporal connotation of “ousia” (Anwesenheit and Gegenwart, presence and the present) on which Heidegger, rightly or wrongly, put so much stress. According to
Heidegger, this is already evident in the twist taken by onto-theology into the
timeless and eternal when Aristotle set about finding the most primordial sense
of “ousia” in a unique and — to borrow from Schelling’s critique of Hegelian
Aristotelianism — idle or lazy God (“fauler Gott”) who makes his appearance
only at the end of the system, when nothing more is to be done4. It is the same
twist that had already led Aristotle to give pride of place to world-detached theoretical wisdom over world-orientated practical wisdom, to sophia over phronesis,
to theoria over praxis.
In fact, immediately after World War I, Heidegger started to scourge what he
had been seeking to defend before, viz. the objective and universal validity of
eternal truths and values. After such a catastrophe for Europe in general and
Germany in particular Heidegger came to see in the belief in allegedly pure
objective truths the attempt of human life or Dasein to distract itself from its radically contingent condition or, as he put it, its facticity. In this respect, no difference in principle is to be found between humanism and Forschung. The pretensions to unshakeable results on the part of the latter correspond on the part of the
former to the picture of cultural contents hanging, as it were, on the high wall of
ideal values — as if among them one could choose the fittest ones, as from a collection of clothes, in order to cover one’s own existential nakedness. Even
Aristotelian virtues, being as they are ktemata rather than chreseis, properties
4
Cf. Münchener Vorlesungen, in Werke (ed. K.F.A. Schelling) X, p. 160.
225
studi
and proprieties rather than praxis proper, represent for him some sort of moral
code, and are by this very fact to be considered but another consequence of the
objectifying drive in metaphysics. The same applies, of course, to the whole
realm of Hegelian objective spirit, substantial Sittlichkeit, or public morality.
Thus, it is not surprising that just as Heidegger never found the way from the
Aristotelian ethics to the Politics, he, similarly, never found the way from the
passions of the Rhetorics to the virtues of the Nicomachean Ethics5. Nor is it surprising that, under such circumstances, to deal with metaphysics ought for him to
be at the same time to retrace its living origins by patiently removing the sediment accumulated on them by the sheer passing of time and history. In his view,
simply looking back to metaphysics without any destructive intention would
have the same deadly effect as the looking back of Lot’s wife to the doomed city
or that of Orpheus sending Eurydice back to the realm of death as a result of the
same sort of idle curiosity or Augenlust. Thus the constructive aspect in metaphysics’ de-construction — as Heidegger’s expression “Ab-bau” was to be translated later on as literally as it was appropriately — is not to be taken as objective
reconstruction but, precisely, as appropriation, as An-eignung or, to lean on
Heidegger’s later keyword, as Er-eignung. This was not so much due to any
incapacity for reaching objectivity on the interpreter’s part, but rather to there
not being any objectivity to be reached here after all. For even the now past
metaphysics, when still alive, despite its thrust towards reification, was less of a
closed actuality like those of Hegel’s or even Aristotle’s lazy God, than it was an
open potentiality like time or history.
Now, supposing one should accept Heidegger’s standpoint on this score, the
question arises, on the one hand, as to whether there is — as regards our concern
with the metaphysical past — any alternative between objective validity, and, on
the other, subjective willfulness. The answer to this along Heidegger’s lines
would be to say that, in dealing with its own essential past, philosophy must not
so much bring back (wieder-holen) now dead realities, but rather to bring to light
precisely those living possibilities hidden in metaphysics itself that, for whatever
reasons, were never realized in it. Obviously, such an attitude fits neither the
German model of exact investigation nor that of cultural humanism.
Nevertheless, it is, as a matter of fact, the very attitude with which Heidegger
looked into the metaphysical past. It is something of this sort that I myself intend
to do in the second part of my lecture. More precisely, what I intend to do is to
try to bring to light some of the possibilities Heidegger himself once detected in
Aristotle as well as in Hegel concerning the issue of time and being, and of time
and substance, which he himself never further developed. In other words, I am
going to approach Heidegger himself in the same spirit with which he
approached Aristotle and Hegel or even metaphysics as a whole.
5
W. Marx (Heidegger und die Tradition, Hamburg 1980) is not the only one to find fault
with Heidegger about this.
226
Fernando Inciarte
2. Heidegger’s Interpretations of Time, Being, and Substance in
Aristotle and Hegel
In so proceeding, one may be forced to pay a price: the price of unduly simplifying — at least from the standpoint of Forschung. This risk has already been
hinted at in the expression “a straight line,” which appears in the title of the present lecture. It becomes even more evident in the words of a contemporary French
philosopher who, like so many others nowadays in France, has been deeply influenced by Heidegger. I mean Gilles Deleuze. In his book Différence et Repétition,
Deleuze maintains that from Parmenides to Heidegger “there has never been more
than one ontological proposition: Being is univocal. There has never been more
than a single ontology, that of Duns Scotus...”6. Is Deleuze unduly simplifying?
He is, at any rate, playing with the word “univocal”. From Parmenides to
Heidegger, ontology has spoken with only one voice: this seems to be Deleuze’s
contention. And this contention need not be simplistic. For Heidegger’s history of
being has to do with univocity only in the general sense that what philosophers
have said (or voiced) in the past has always been the same (das Selbe), where the
“same” or “sameness” (“Selbigkeit”) has “otherness” (“Andersheit”) not outside
but inside itself — just as identity, according to Hegel, encompasses difference; or
just as, according to Aristotle, the differentia specifica, far from being added to an
identical genus from outside, is nothing else than the latter in its own differentiation7. Thus the important thing to ask here, is how it is that all three — Aristotle,
Hegel, and Heidegger — came to say the same thing, and this not despite, but precisely because of their differences. Consequently, rather than making external
comparisons, it would be more to the point to attempt to repeat the gist of their
thought about being and time in a way that, even if it should fail to coincide completely with the philosophy of any one of the three, preserves the thing that matters, die Sache. This is more so as Heidegger’s original intention was not to liquidate, but to liquidize (“verflüssigen”) or revitalize Aristotelianism in a similar
spirit to that in which Hegel had hinted at when, shortly before his death, he wrote
the following words: “If something ancient is to be renewed, [...] then the form of
the idea given to it by Plato and much more profoundly by Aristotle, is infinitely
worthy of being recollected, also for this reason that the unpacking of it by means
of appropriating it (Aneignung) to the formation of our thoughts is immediately,
not only an understanding of it, but a step forward for science itself”8. Hegel went
so far as to say that, for anyone taking philosophy seriously, the best thing to do
would be to teach Aristotle9. Now, Heidegger’s own appreciation of Aristotle is
6
7
8
9
Différence et Repétition, Paris 1968, p. 52.
Cf. Metaphysics, VII 12.
Enzyklopädie, in Werke (Suhrkamp) 8, p. 31: Vorrede 1827. For the translation I am indebted to D. Dahlstrom.
“Würde es ernst mit der Philosophie, so würde nichts würdiger, als über Aristoteles
Vorlesungen zu halten” (Geschichte der Philosophie, in Werke (Suhrkamp) 19, p. 148).
227
studi
not far from that of Hegel10 who, however, tended rather to minimize distances,
whereas Heidegger, on the contrary, tended to maximize them11.
As is well known, Heidegger’s criticism of the Aristotelian and Hegelian conceptions of time was directed against the idea of a succession of “nows”. In this
he was, to put it mildly, not exactly attacking them on their strongest side. For
Aristotle, the enigma of time already consists not so much — as for St. Augustine
— in that, upon closer examination, the reality of time boils down to a succession
of “nows”, each one of which is is not time or even part of it; rather it consists primarily in the fact that, although whatever is, only now — now this, now that, and
so on —, there is, nevertheless, only one now, just as, according to Heidegger,
there is, as it were, only one being voicing itself throughout history and, indeed,
identical with its own ever differently voiced history, as opposed to an alleged
hiding itself merely behind its changing manifestations in history. However, the
reason why there is only one now is not that in the putative succession of nows,
one immediately following upon another, it represents the limit between past and
future nows. Just as there is no such immediate succession, there is no such limit
either, except by way of abstraction12. To be sure, we can mark off as many limits
as our historical or physical research or even our everyday orientation in the
world may require: for instance, just that moment between Coriscus still being in
the Lyceum and his starting to go to the marketplace; or between Coriscus still
going in that direction and his arrival there. There is no difficulty in accepting as
many “now” — limits as one wants as long as one is engaged in practical business or appraisals, including scientific ones — as historians do, when they date,
say, the end of a war with the signing of a peace treaty, even though the shooting
is still going on, or as physicists do when they dismiss computational errors as
being negligible with respect to the purpose in hand. The difficulty with, or rather
10 As
in the case of Hegel the evidence is too profuse to be accounted for here. For the purpose of this paper, centered on the problem of time from the Physics onwards, the following words of H.-G. Gadamer on occasion of the discovery of Heidegger’s Aristotelian programmatic text of 1922 (the primordial cell of Sein und Zeit) are instructive: “… Das
bedeutet, daß den jungen Heidegger damals mehr als die Aktualität der praktischen
Philosophie ihre Bedeutung für die Aristotelische Ontologie, Metaphysik, beschäftigt. Das
6. Buch der Nikomachischen Ethik erscheint in dieser Programmschrift eigentlich mehr als
eine Einleitung in die aristotelische Physik” (H.-G. GADAMER, Heideggers ‘theologische’
Jugendschrift, in Dilthey-Jahrbuch, 1989, p. 231: “Die Wiederaufgefundene ‘AristotelesEinleitung’ Heideggers von 1922” edited by H.-U. Lessing, p. 266. Both Gadamer’s
Introduction and Heidegger’s text are included in the same issue of the Jahrbuch, pp. 228234 and 235-274 respectively).
11 Cf., e.g., Logik. Die Frage nach der Wahrheit, GA II 21: “philosophisch verstanden wird
die durch Aristoteles grundgelegte und in Hegel vollendete philosophische Logik nicht
gefördert durch weitere Sohn- und Enkelschaft, um philosophisch weiterzukommen bedarf
es eines neuen Geschlechtes”.
12 Cf. my article Aristotle and the Reality of Time in “Acta philosophica” 4 (1995) pp. 189203.
228
Fernando Inciarte
the very impossibility of objectively pinning down the real “now” (as opposed to
any such given abstract “now”) only becomes apparent at the philosophical level.
Already in his Physics, Aristotle had shown the insurmountable difficulties
involved in pinning down the instant of change — not only the transition from
motion to rest and vice versa, but also more general forms of change. The difficulties are rooted in the very nature of continuity, as distinct from both contiguity
and closest neighborhood. If time, like movement, is continuous, then the very
notion of contiguity (haptomenon) — and all the more so that of closest neighborhood (ephexes) — is misapplied when what is involved is not a question of
practice, scientific or otherwise, but a philosophical or, rather, metaphysical theory of real time. And since real as opposed to abstract or extended time is no
magnitude at all, the very notion of succession, even that of a continuous succession, is misapplied here as well13.
The upshot of all this is that in rerum natura, which includes human history in
the sense of res gestae (not in the sense of recorded history), there can be only one
“now”. And this is the true enigma of time. For it then seems as if one ought to be
able to infer from this that, to take Aristotle’s example, the Trojan War is still
going on. But it only seems so14. Likewise, it is a non sequitur to infer with the
Sophists from the fact that Coriscus’s being in the Lyceum is not the same as his
being in the market place that it is not the same Coriscus who is now here and then
there. Here, the analogy drawn by Aristotle between the only one “now” of real
time and the identical substance despite or rather because of the different states
into which it itself is continuously changing has been often overlooked. And it is
not unlikely that it was Heidegger’s own overlooking of this analogy which lay at
the root of some of the difficulties he encountered when writing the then pending
third section of the first part of Being and Time, and which ultimately forced him
to abandon continuation of that work. One year before Heidegger’s death, however, in 1975, a series of lectures were published which he had delivered in Marburg
on the same topic shortly after the appearance of Being and Time — a series which
is also important for the light it sheds on the development of Heidegger’s views on
Aristotle’s and Hegel’s treatment of time. Let me explain this.
Less than two years before the publication of Being and Time, Heidegger
could still write that Hegel’s treatment of time in the Philosophy of Nature “kills
(totschlägt) the proper content of the Aristotelian interpretation, putting it, as it
were, on ice, and leaving purely formal and empty results in its place”15. But,
two years later, the series of lectures just mentioned already has a totally different ring to them. Thus, after having raised the question, “to what extent is time
itself the condition of the possibility of Nothingness as such?”16, Heidegger con13 Cf. Physics, III 6, 206a33-b2.
14 Ibid., IV 11, 219b18-22.
15 Logik. Die Frage nach der Wahrheit, GA II 21, p. 266.
16 Die Grundprobleme der Phänomenologie, GA II 24, p.
443.
229
studi
cludes: “In the end (one has to acknowledge) that Hegel was on to a fundamental
truth when he said that Being and Nothing are the same thing…”17. And with a
sentence which anticipates further developments in his thought he adds: “We are
not sufficiently prepared to enter into this darkness. It is only by going back to
(the enigma of) time that it will be possible to cast some light on the interpretation of being”18. Heidegger was then about to reverse his first attempt at regaining the original sense of being and, taking time now not as his point of departure
but rather as his destination, he set out in a direction that was ultimately to lead
to the notions of “Ereignis” and of the history of being.
The preceding quotations may suffice as evidence grounding a two-fold contention: first, that even after the Kehre Heidegger continued his search for the
meaning of being in the direction originally laid down by Hegel’s concept of
negativity as the identity of being and nothingness; secondly, that the concept of
negativity, once so defined, provides the key to understanding Aristotle’s analogy
between the one and only ever-changing “now” and the substance (ousia) of the
Physics, which Heidegger himself interpreted as movement or mobility
(Bewegtheit) in the sense of an unlimited or imperfect act (energeia ateles)19. So
in his essay on Aristotle’s notion of physis published in 1958 in Il Pensiero, but
written already in 1939, Heidegger paraphrases Hegel in order to convey the
meaning of physis as Bewegtheit20 or limitless actuality by saying: “All living
things are in the process of dying as soon as they start to live”21. This is but the
sadness that, as Hegel put it22, haunts the whole of nature. The identity of being
and nothing is, in effect, the identity of coming-to-be and passing-away; that is
to say, it is not just a passing-away after having come-to-be, but coming-to-be
and passing-away coinciding in the one and only one unlimited “now” in which,
unlike the many “nows” as mere limits of time at which nothing occurs, all
things do occur. Thus, at the very beginning of the Science of Logic, under the
heading “Moments of Becoming”, Hegel writes: “Becoming is in this way in a
double determination. In one of them, nothing is immediate, that is, the determination starts from nothing which relates itself to being, or in other words changes
into it; in the other, being is immediate, that is, the determination starts from
being which changes into nothing: the former is coming-to-be and the latter is
ceasing-to-be. Both are the same, becoming…”23. Thus, it is not surprising that,
when Heidegger — in his efforts to cope with the problems of being and time as
well as of time and being, and after a relatively long period in which he had
17 Ibid.
18 Ibid.
19 Cf. Physics, III 2, 201b31-32.
20 Cf. Vom Wesen und Begriff der Physis. Aristoteles, Physik B,1, in Wegmarken, GA I 9.
21 Ibid., p. 367.
22 Cf. Werke (Suhrkamp) 5, p.140.
23 Hegels Science of Logic I, Humanity Press International, Atlantic Highlands, N.J. 1969,
105 f. (Werke, Suhrkamp, 5, 112).
230
p.
Fernando Inciarte
moved from Aristotle to Kant24 — at last returned to Aristotle in the essay just
mentioned on physis, he did so as already under the sway of Hegel’s notion of
negativity25.
Heidegger regards the eight books of the Physics as constituting the original
Aristotelian metaphysics in which the burden of onto-theology had not yet
become so heavy as to crush pre-Socratic (above all Heraclitean) insights into
the essence of nature under its weight. Now, inasmuch as it preserves those
insights, Heidegger’s interpretation of this original metaphysics turns on the
identity of universal passing-away and universal coming-to-be. Thus, at the end
of his essay on the Aristotelian physis, Heidegger comments on fragment 123 of
Heraclitus (physis kruptesthai philei) by saying: “Being loves to hide, what does
that mean? Usually this has been understood to mean that being is almost inaccessible so that great efforts are needed to bring it out of hiding and to exorcise,
as it were, its love of hiding. Quite the opposite: the hiding belongs to being
itself and that is why it loves it”26. These words represent an accurate explanation of the apeiron-structure proper to time as something from which nothing is
merely hidden — as is the lost umbrella from the distracted professor
(Heidegger’s own example) — except itself from itself, since time itself is outside itself. It is, in fact, in real time as the unlimited “now” — as opposed to any
given abstract “now”-limit — that the truth of manifestation is originally and
inextricably tied to the untruth of concealment. On the other hand, it has to be
said that Heidegger never explored this Aristotelian-Hegelian path any further,
even after the Kehre. Such an exploration would have led to an interpretation of
Aristotelian time and substance quite different from that of time as a mere succession of nows or of substance as primum analogatum of being in the sense of
something hiding behind an alleged veil of accidents from which it ought some24 “Im
Winter 1925/1926 änderte Heidegger in einem dramatischen Bruch den Plan seiner
Vorlesung und gab statt weiterer Aristotelesinterpretationen eine Interpretation der Lehre
von der transzendentalen Einbildungskraft und der Schematisierung” (O. PÖGGELER, Neue
Wege mit Heidegger, Freiburg-München 1992, p. 194). Cf. also D.O. D AHLSTROM ,
Heideggers Kant-Kommentar, 1925-1936, in Philosophisches Jahrbuch, 1989, pp. 343-366
as well as D. K ÖHLER , Martin Heidegger. Die Schematisierung des Seinssinnes als
Thematik des dritten Abschnittes von “Sein und Zeit”, Bonn 1993.
25 Cf. Hegel. Die Negativität (1938-1939), GA III Abteilung, Unveröffentlichte
Abhandlungen. In the meantime, if only for one semester (Aristoteles, Metaphysik IX 1-3,
summer 1931), he had already lectured on Aristotle’s ousia in a different mood. Cf. O.
PÖGGELER, o.c., p. 232: “In jenen Jahren revidierte Heidegger seine Rezeption der Analogie
des Seins (nämlich der Ausrichtung aller Seinsweisen auf eine leitende Bedeutung) zugunsten der Erfahrung der Energeia als eines Am-Werke-Seins und somit einer “Geschichte”
[...] So wollte Heidegger fortan nicht mehr weiter akademische Philosophie, sei es in der
Weise Husserls, betreiben...”. Cf. ibid., p. 35: “... wenn dynamis Eignung ist, muß die
energeia als eine Wirklichkeit, die eine offene Möglichkeit in sich trägt, in ihrer Bewegtheit
und mit der Not ihrer Notwendigkeit ein Ereignis sein”.
26 GA I 9, p. 300.
231
studi
how to be exorcised27. It must be said as well, however, that even after having
reversed the hermeneutical priority of time over being, Heidegger kept on insisting on another genuine aspect of Aristotelian time: that just as there can be no
being without man (no Sein without the clearing of Da-sein in the wood of nothingness), so there can be no time without man; that, to put it another way, man is
not a traveler along a particular path of time but is temporality itself. This, of
course, sounds more like Physics without Metaphysics than Aristotelian metaphysics proper as the science of ens qua ens. For as the science of ens qua ens
metaphysics seems to banish all forms of negativity from being and to relegate
them instead to the realm of mere thought or to ens ut verum28. As a matter of
fact, Hegel himself had already explicitly protested against the exclusion of negativity from being as such. Again, shortly before he died, Hegel wrote: “It is
therefore said that although nothing is in thought or imagination, yet for that
very reason it is not nothing that is, being does not belong to nothing as such, but
only thought or imagination is this being… that nothing does not possess an
independent being of its own, is not being as such”29. The contrary is true
according to Hegel. So, just as, according to both Hegel and Heidegger, one must
not sever being from nothing, so one must not sever ens ut verum from ens ut ens
or being from man (Sein from Dasein) either. In this respect both Hegel’s and
Heidegger’s thought is, in fact, Aristotelian philosophy stripped of the doctrine
of ens ut ens as distinct from ens ut verum. Heidegger himself — like Hegel30 —
refused to subordinate the latter to the former right from the beginning31. But the
situation is a little more complicated than that, both as regards non-being and as
regards truth. For not only does Aristotle say, in a famous passage, on which
Heidegger often commented32, that truth is the main meaning of being33. He also
sometimes treated non-being on a par with accidents despite the fact that these
are ways of being. And he does it in the very passage in which he explains metaphysics as the science of being qua being34.
Let me make two comments on this. First, if any sense is to be made of the
comparison between, on the one hand, time as the simultaneous coming-to-be
and passing-away of the only one continuous “now” and, on the other, the
27 Cf.,
e.g., Was heißt Denken?, Tübingen l954, p. 68: “Alles wahrhaft Gedachte eines wesentlichen Denkens bleibt — und zwar aus Wesensgründen — mehrdeutig. Diese Mehrdeutigkeit
ist niemals nur der Restbestand einer noch nicht erreichten formallogischen Eindeutigkeit,
die eigentlich anzustreben wäre, aber nicht erreicht wurde. Die Mehrdeutigkeit ist vielmehr
das Element, worin das Denken sich bewegen muß, um ein strenges zu sein”.
28 Cf. Metaphysics, VI 4, 1027 b 25-31.
29 Science of Logic, cit., p. 101 f.
30 Cf. note 29.
31 Cf. Phänomenologische Interpretationen zu Aristoteles, in Dilthey-Jahrbuch (s. note 10
above), p. 268.
32 Cf., e.g., GA II 21, pp. 170-182.
33 Cf. Metaphysics, IX 10, 1051 b 1.
34 Ibid., IV 2, 1003 b 6-10.
232
Fernando Inciarte
essence (ousia) of all that belongs to nature (David Ross, for instance, dismissed
the whole passage in the Physics as too obviously wrong to be commented on35),
then this is arguably in the sense in which physical ousia is taken to manifest and
hide itself in its changing states36. Now, this description corresponds not only to
the notion of physis as developed by Heidegger. It corresponds also to an important aspect of Ereignis as appropriation, to which I shall now address the second
of my remarks.
At the lecture held in Freiburg in 1957 on identity as the sameness of being
and thought (“to gar auto noein esti the kai einai”) — reprinted in the volume
Identität und Differenz — Heidegger said: “The word Ereignis is taken from an
already evolved language. Er-eignen originally read: eräugen”. Here one can
still hear the German for “eye” — “Auge” — or even its cognate form, “beäugen”, meaning “to eye something” or “to take a close look at something.” So
Heidegger concludes his series of renderings with “to appropriate in looking”
(“er-blicken, im Blicken zu sich rufen, an-eignen”). And he adds: “Understood in
this way it is just as incapable of being translated as the key Greek term logos or
the Chinese Tao”37. Perhaps. But here, wherever the truth of the matter may lie,
the consideration that allows one to discern an intrinsic connection between
Heidegger’s Ereignis and Aristotle’s comparison of “ousia” with the identical
“now” of time — which only conceptually has “nows” different from each other
— is offered immediately after the passage quoted, when Heidegger continues:
“Therefore, the word “Ereignis” no longer refers here to what we usually
describe as some recurrence or happening. It is to be understood as a singulare
tantum. What it says occurs only once (“ereignet sich nur in der Einzahl”), and
in fact not even once (“in einer Zahl”), but is unique (beyond number)”38.
As I noted above, Heidegger’s interpretation of Aristotelian and Hegelian
time as a succession of “nows” treated neither of the two on their strongest side.
We have already seen this with respect to Aristotle. The same also applies, however, to Hegel. Take, for instance, Hegel’s following contention about time: Time
“is the being which, in that it is, is not, and in that it is not, is. It is intuited
becoming; admittedly, its differences are therefore determinated as being simply
momentary; in that they immediately sublate themselves in their externality,
however, they are self-external”39. One may take this contention as a paraphrase
of the unlimited “now” which Aristotle compared with the always changing and
only relatively resting physical ousia of Coriscus or of anything else. Such an
35 Cf.
Aristotle’s Physics. A revised text with introduction and commentary by W.D. Ross,
Oxford 1960, p. 599.
36 Cf. Physics, IV 11, 219b18 ff.
37 Der Satz der Identität, originally published in Die Albert-Ludwigs-Universität Freiburg
1457-1957. Die Festvorträge bei der Jubiläumsfeier, p. 76.
38 Ibid.
39 Hegel’s Philosophy of Nature, transl. by M.J. Petry, vol. I, London 1970, pp. 229 f. (Werke,
Suhrkamp 9, 48).
233
studi
ousia shows the structure of the unlimited act (energeia ateles) which Heidegger
interpreted as Bewegtheit embracing both movement and resting. For Aristotle’s
definition of apeiron does not read, as it has been sometimes translated40 “that
which always has something outside itself”. This corresponds rather to the definition of the perfect or limited. The limits (points, lines, surfaces), taken as in contiguity, not continuity, are themselves only outside each other just like those
“nows” by means of which we break up the only one continuous “now” into
more or less smaller events in an ultimately futile attempt to control the unique
Ereignis in whose tapestry we are all, as it were, interwoven. Aristotle’s definition of the unlimited should, of course, read instead: “that of which some part is
always outside” (“hou aei ti exo”, where “hou” modifies “ti”, and not “exo”)41. It
is precisely because the moments are not outside each other, but each individual
moment is, as Hegel himself said, outside itself (“sich selbst äusserliche”, “selfexternal”) that they form a unique and continuous flowing.
So much for potentialities that had perhaps even in Aristotle not always been
fully actualized, but which a sympathetic reading of Heidegger’s interpretations
of Hegel and Aristotle could help to bring, if not fully then at least a little further,
to light. Along these lines one might fairly straightforwardly gain a view of the
traditional notion of substance more orientated towards a temporal rather than to
a spatial model of substance as conceived under the new-Scholasticism, just as
Heidegger once was trying to “liquidize” (but not yet to “liquidate”) the concepts
of scholasticism. I come now finally to some brief considerations of a more general kind.
3. Concluding Remarks
As radically temporal we too are always outside ourselves and thus vulnerable. To be sure, all things in the world are alike in being somehow composed of
that enigmatic stuff which is ecstatic time. But we alone are aware of the fact,
and try to escape our fate by compensatory devices such as computation of time
and so on. The result is what we usually call “culture” — from the most primitive burial rites to the most sophisticated technology, be it beneficial to or
destructive of mankind. Philosophy as such, and metaphysics in particular, forms
a part of such precautionary measures. But inasmuch as we fail to take seriously
our radical temporality and historicity, i.e. the fact that we do not merely consist
in being something (bestehen), e.g. in being a rational animal, but do also properly ek-sist (ent-stehen), all cultural precautions, humanism included, are,
according to Heidegger, in the end illusory and self-delusive.
40 E.g.
as late as 1987 by H.G. Zekl, cf. Aristoteles’ Physik, Griechisch-Deutsch, Hamburg
1987.
41 Physics, 207a1, 8.
234
Fernando Inciarte
“Ek-sistence” is always in the process of starting anew, provided one does not
succumb to routine. Anything that may be said to consist in being something
else, anything that has consistency (Bestand) is always an objective content
(Inhalt). Philosophy, for instance, as a cultural precaution, is full of contents. All
that we can grasp with the help of a definition — man or whatever — is a content. But time is not a content, nor does man in his historicity consist in anything.
Ek-sisting rather than consisting beings like ourselves are, of course, always
relentlessly getting older and passing away, but at the same time they are always
starting to be in the first place. In other words, man, history, philosophy, being,
are, like time, always repeating themselves; but, like time itself, what they are
always repeating are not closed realities but open possibilities. The title of
Deleuze’s book, to which I previously referred, Différence et Repétition, was
intended to hint at this — only its author completely failed to realize how much
of all this is already to be found in Aristotle, whom he has so maligned in his
book42. Similarly, it would perhaps not be false to say that had Heidegger from
the beginning better assessed Aristotle’s and Hegel’s views on time and ousia,
then he would have arrived much earlier at his notion of Ereignis as appropriation. But this would — at best — be true in a rather irrelevant way: what matters
is not the duration or the length of the way traversed but the traversing itself, a
traversing which is always at the same time a transformation. Thus, at the beginning of his above mentioned lecture on “Identity”, Heidegger wrote: “In thinking
about something that matters it might happen that, on the way, thought undergoes some change. So, in thinking of identity, it is advisable to pay less attention
to the content than to the way. The very unfolding of a lecture such as this makes
it impossible anyway to dwell on the content”43. Here again, you have the overcoming of the misrepresentation of real time as an extended line with points succeeding one upon another in the way Heidegger once interpreted the whole
Aristotelian as well as Hegelian notion of time. However, the overcoming of
such a misrepresentation in the last quotation sounds as if a lecture could never
stick to just one topic. But what was meant was rather the opposite, namely that,
if the topic is a dead one, nobody can stick to it for any length of time, except
outwardly, whereas if the topic is a living one — not a topic at all, as it were, i.e.,
not a pure content — it varies continuously so that one cannot simply return to
the same spot as one can direct his view back and forth along a straight line.
(Etienne Gilson was, incidentally, present at this lecture, having received during
42 Cf.
Différence et Repétition, Paris 1965. The main shortcoming of this book lies in the
inability of its author to grasp why, according to Aristotle, the differentia specifica does not
merely express a part of but the whole ousia. In this he was indeed following Scotus’ doctrine of univocatio entis in the usual sense of this term (cf. note 5 above). As for Scotus’
own inability to cope with Aristotle’s doctrine of ousia in this respect cf., e.g., “quod finalis
differentia erit terminus et definitio, nullo modo potest intelligi, quod tota ratio quidditativa
sit in ultima differentia…” (In IV Sent., d. 11, q. 3, ed. Vivès, n. 47).
43 Der Satz der Identität (s. note 36 above), p. 69.
235
studi
the same ceremony an honorary degree from the University of Freiburg. It was
after this lecture that he remarked: “I have only twice heard philosophy spoken
aloud (en haute voix): once by Henry Bergson and today by Heidegger”). Now,
what to Heidegger as well as Deleuze remained hidden in the metaphysical theory
of ousia — hidden perhaps even to metaphysics itself — was the possibility of
viewing ousia not only in the sense of substance but even in that of essence, as
something transforming itself continuously like time, though, of course, not
essentially. One may bring out the appropriate kind of transformation in terms
borrowed from Aquinas by saying that the change concerns only the ousia as
forma substantialis, whereas the ousia as forma essentialis or eidos (in the sense
of species) remains unchanged. In this, Aristotelian essentialism clearly differs
from any kind of holism for which there are no bounds marked by the different
species beyond which no individual can change and yet remain itself. This reservation does not go against taking Aristotle’s analogy between real time and substance in a strong sense. On the contrary. Let us explain this briefly before ending.
Independently of whether time be considered in terms of the history of being
or in terms of the one and only continuous “now”, there are two possible mistakes that one may make in dealing with time, and if, as in a statement once
derided by Heidegger44 Hegel thought, time is somehow even the truth of space
then there are also two possible errors one may commit in dealing with space,
the error of thinking that nothing is old, and the error of thinking that nothing is
new. Take the example of a straight line that has been drawn on a blackboard. As
long as it has not been erased, enlarged, or foreshortened, it seems to remain
unchanged as far as its being on the blackboard is concerned. But this is not in
fact the case. Only so long as one fails to take into account the lapse of time, i.e.
the flowing of the one and only real “now,” can one consider the straight line on
the blackboard unchanged. For as soon as one has finished drawing it45 the line
is, of course, already there, but at each particular moment in time it is only there
then, and not at some later point in time. The line is itself something temporal.
As such, it is, like everything else, changing. Only when regarded in merely spatial terms can it be said not to have changed. However, nothing is purely spatial.
In this, Aristotelianism — especially with regard to its critique of Anaxagoras
and Empedocles46 — is Hegelianism and Heideggerianism avant la lettre. A
44 “‘Die
Wahrheit des Raumes ist die Zeit’ […] Die umgekehrte These hat Bergson ausgesprochen […] Bergson aber wie Hegel vernichten das, was an echtem Gehalt darin liegt,
dadurch, daß sie ihn aufheben, nicht in sicherer Wahrheit, sondern in einer grundsätzlicher
Sophistik, von der überhaupt Hegels Dialektik lebt” (GA II 21, p. 252).
45 Cf. G.E. O WEN , General and Particular, in Proceedings of the Artistotelian Society,
London 1979/80, p. 18: “... an unfinished statue can be a statue, an unfinished circle is not a
circle. Aristotle disregards the difference, even in house-building (Phys. 201 b 11-12) [...]
statements of the form “A is becoming/making a Y” do not carry in their truth-conditions or
entailments any requirement that there must (timelessly) be some particular Y for A to
become/make”.
46 Cf. Physics, VIII 1.
236
Fernando Inciarte
thoroughly unchanging and hence timeless universe is as impossible for Aristotle
as it is for Hegel or Heidegger. The fact of the line changing, however, is not
limited to a particular period of time. Periods of time are always periods of rest:
time frozen, as it were, by the mind, which — by virtue of its retentional as well
“protentional” (Husserl) power to extend or stretch the “now” — is able to transform time into space, that is to say, that which represents no magnitude at all into
a magnitude. By way of contrast, the fact of the line’s changing depends on the
fact that real time as the unique “now” does not stop flowing any more than the
universe stops moving, whereas any period of time or, for that matter, of history
is by definition limited and static. A period of time, like the line drawn on the
blackboard, must have a beginning and an end. It is not limitless, apeiron. To put
it briefly, then, the first error would be to deny that, regardless of how late in the
course of its development it might be at a given point in time, the universe is
always new, that in it nothing is ever left behind, i.e., left behind in a past that no
longer exists. In this sense, of course, nothing can be said to be old.
The second error is just the reverse of the first. It consists in proceeding from
the fact that, to take the same example, the straight line remains unchanged in its
career — for, however dull its career, it is like everything else in that it, too, is
always starting afresh — to the conclusion that the line that yesterday I saw on
the blackboard and that I still see there today is not allegedly the same line at all
and, in general, that nothing can be said to be old or aging in any sense whatsoever. This would be tantamount to denying that Coriscus can at any two points
which we may choose to select within the ceaseless flowing of real time be the
same person, on the grounds that Coriscus-at-the-Lyceum is no longer Coriscusin-the-market-place — as if the real thing were not the changing Coriscus himself but rather his unchanging abstract states “Coriscus-at-the Lyceum” and
“Coriscus-in-the-market-place”, or as if the real time were not the only one
“now”, but rather different nows succeeding one upon another. True, if Coriscus
is no longer in the market place, then this state of Coriscus is no longer anywhere, not even somewhere in the past, since the past does not exist. Therefore,
one cannot even say that it has been left behind, except of course in the sense
that his having been in the market-place has been preserved in the memory of all
those who happen to think of Coriscus’ displacement. But this does not prevent
its being in Coriscus in the sense of having been there. We are so used to the idea
of substance as something that solidly remains in space throughout temporal
change that we scarcely realize the challenge contained in this second error. Due
to a reifying tendency inherent in the spatial representation of substance, we are
naturally inclined to regard the previous stages in the career of whatever we are
talking about as having been left somewhere behind unchanged — like a line
which after having been drawn on a blackboard is still there. It costs us not a little bit of effort to realize that they are just as little anywhere as, say, the skull of
the young St. Thomas which was allegedly kept in Montecassino while that of
the older St. Thomas had been buried at Toulouse. In other words, whereas there
237
studi
is at least some truth in Hegel’s dictum according to which time is the truth of
space, its converse — viz. that space is the truth of time — has nothing to offer
except the coarse representation of real time (or substance) as a straight line. But
to throw away the idea of the identity of substances “over time” for this reason
— i.e., to abandon the very idea of physical substances altogether — would be
but another way of clinging to the same coarse representation. A physical substance is, by virtue of its temporality, analogous to a snail carrying along all its
belongings — omnia mea mecum porto — or like a tree that has its annual rings
inside it. It is precisely because nothing is left behind that all things, while constantly in the process of starting anew, are at the same time always getting older.
Coriscus’s now being in the Lyceum is different, simply by virtue of his previously having been in the market-place, from what it would have been had he not
been in the market-place.
The same applies to the notions of Ereignis and of the history of being. Just
as it is wrong to say that there is nothing new or nothing old since time is precisely both passing away and starting to be at once, so it would be equally wrong
to say that, e.g., Aristotle’s, Hegel’s, and Heidegger’s Sache — the thing that
matters for each of them — was each always the same or always different. Either
way we would not be progressing beyond, but rather falling behind, Aristotle’s
analogy between time and substance. For it would be like saying that physical
accidents as well as the happenstance of everyday life or even the different
epochs in the history of mankind do not affect either the essence of things or the
Sache des Denkens; it would be like adding differences to the identical genus
from without and in the process getting only the dead content of eide as general
species (the forma essentialis) instead of the living essence (the forma substantialis), the soul, or the heart, of the matter. From this standpoint this would be no
less wrong than to say that, from Aristotle or even from Parmenides onwards up
to Heidegger and beyond, the questions or problems of philosophy have
remained the same, and that only the answers or solutions offered in response to
them have been different. Were we to cling to this idea we would still be thinking
in rather straightforward terms of a thoroughly unchanged, extended line — i.e.
of content rather than of a changing path, relying more on a spatial rather than a
temporal model for viewing philosophy and its history. But the fact that not only
the answers, or solutions, but along with them also the questions or problems do
change throughout history ought not to deter one from saying that the Sache des
Denkens is always the same. Otherwise, the history of philosophy would be, as
Hegel put it, but a collection of peculiar opinions.
Since the similarities between Aristotle’s theistic, Hegel’s quasi-pantheistic,
and Heidegger’s atheistic thought do not reflect the repetition of a closed reality
or content but that of an open possibility, the path which leads from Aristotle to
Heidegger via Hegel cannot be said to have started with Aristotle or stopped with
Heidegger. Surely the fact that neither Aristotle’s nor Hegel’s metaphysics was
atheistic is mainly to be attributed to the fact that neither rejected, as did
238
Fernando Inciarte
Heidegger47, the ultimate truth of the principle of non-contradiction. It is true that
for Hegel, unlike Aristotle, contradiction is the very soul and essence of anything
that is not in itself dead. But contradiction is not the only force pushing forward
that process in which — if in anything — being consists for Hegel. Just as vital
for the process of being is the striving to overcome that contradiction which lurks
in each one of the several stages of a given life-process — be it that of consciousness or anything else — with the result that the validity of the principle of noncontradiction is preserved, if not during the individual stages themselves, then at
least at the end, i.e. in the process as a whole. Whether pantheistically or not, all
forms of productive contradiction — be they in thought, nature, or history — find
their resolution in God. That is why Hegel can close his system with a quotation
from Aristotle without having to take the trouble to comment on it48. As Aristotle
put it, without the principle called God nothing would exist at all49. To place such
a great emphasis on the negativity of the world is Hegelianism ante litteram. But
is it compatible with Heidegger’s atheistic thought? His not accepting non-contradiction as a principle at all blocked the way of onto-theology after all. But perhaps
the resulting thought only appears atheistic because Heidegger preferred to
embrace the contradiction involved in accepting only the ultimate Heraclitean
physis-logos till the very end, in the belief that the miracle of being thus becomes
all the more conspicuous; in other words, because he preferred to go on wondering at the fact that there should be something rather than nothing instead of asking
why there is something and not nothing, this latter being — as he put it — still a
metaphysical question, and the ultimate one at that; because, let us say, he preferred to peer over the abyss (Ab-grund) rather than to search for some final
ground — lest the source of all philosophy, wonder, should disappear.
Somewhere else in his Remembrance of Things Past, with which I started,
Marcel Proust wrote: “An artist has no need to express his thought directly in his
work for the latter to reflect its quality; it has been said that the highest praise of
God consists in the denial of him by the atheist who finds creation so perfect that
it can dispense with the creator.”50 Heidegger’s attitude towards religion is less
clear-cut than that. The ambiguity ranges from the almost Satanic lifting of the
hand against God — which Heidegger attributed to philosophy even at the time
in which he considered himself to be doing philosophy — to something perhaps
quite the opposite of this51. Who knows whether somehow — behind his giving
47 Cf.,
e.g., GA II 33, pp. 198 f. (taking into account that for Aristotle, Protagoras was the
main opponent of the principle of non-contradiction).
48 Cf. Enzyklopädie, par. 577, in Werke (Suhrkamp) 10, p. 395.
49 Cf. Metaphysics, IX 8, 1050 b 19, XII 6, 1071 b 55 f.
50 Ibid., p. 430.
51 Cf., e.g.: “Jede Philosophie […] muß […] gerade dann, wenn sie eine ‘Ahnung’ von Gott
hat, wissen, daß das von ihr vollzogene sich zu sich zurückreißen des Lebens, religiös
gesprochen, eine Handaufhebung gegen Gott ist. […] atheistisch besagt hier: sich freihaltend vor verführerischer, Religiösität lediglich beredender, Besorgnis” (Phänomenologische
239
studi
up of not only any cultural way of transforming the thingness of things into the
objectivity of objects including exact research, metaphysics, and finally even
philosophy as a whole — there did not lie something like Hölderlin’s complaint,
viz. “zu lang ist alles Göttliche dienstbar schon,” i.e., the sadness about the
instrumentalizing of the divine “since long, too long ago,” which Heidegger himself reckoned to the Frömmigkeit des Denkens qua Dankens, to the piety of
thinking qua thanksgiving or gratitude. But this does not remove the ambiguity
of Heidegger’s thought as regards the issue of atheism; it rather makes it
inevitable52. On the other hand, I have in no way been claiming that the objectifying method of Forschung, or research proper to the historiography of philosophy, should be forced to yield pride of place to something as questionable (fragwürdig) as the history of being. Indeed, were one to forsake the former for the
latter, one would be in even less of a position to do justice to Seinsgeschichte
itself53. All that I have been suggesting is that the model called by Marcel Proust
the German model of exact investigation represents a more historical than philosophical approach to the history of philosophy, and that the concern with the history of being possibly represents, by contrast, a more philosophical than historical approach.
***
Abstract: Per quanto riguarda lo studio storico della metafisica, Heidegger rifiuta sia il modello tedesco di ricerca esatta (Forschung) che quello dell’umanesimo
culturale. Invece, Heidegger propone che la filosofia, nel trattare il proprio passato essenziale, deve soprattutto cercare di mettere in luce le possibilità nascoste
nella metafisica che prima non siano state trovate. Heidegger esegue con questo
spirito la sua interpretazione di Aristotele e di Hegel. In questo articolo si tenta di
esaminare il pensiero dello stesso Heidegger e della sua interpretazione di
Aristotele e di Hegel sotto la stessa luce per quanto riguarda gli argomenti dell’essere, del tempo e della sostanza. Questo metodo si distacca da quello della
Forschung offrendo un modello più filosofico che storico per l’interpretazione
appunto della storia della filosofia.
Interpretationen zu Aristoteles, in Dilthey-Jahrbuch (s. note 10 above), p. 246, note 2. Cf.
also the quotation in note 25 above).
52 Cf. notes 26 and 51 above.
53 To take only one example: it can be shown that Heidegger’s notion of Aristotelian energeia
is defective inasmuch as it takes into consideration only the aspect of manifestation (“sich
zeigen in Anwesenheit”) and not that of (perfect) activity. But with regard to Heidegger’s
reversal of the priority relation between actuality and potentiality, his was at least a productive error.
240
ACTA PHILOSOPHICA, vol. 9 (2000), fasc. 2- PAGG. 241-265
La question du dualisme anthropologique. Une analyse
d’après Robert Spaemann
PAULIN SABUY*
Sommario: 1. Le problème. 1.1. L’actualité du problème. 1.2. La radicalisation de la subjectivité. 1.3. L’hétérogénéité de l’expérience fondamentale de l’homme. 2. Quelques tentatives de
solution. 2.1. J. de Finance. 2.2. Ricœur. 3. L’approche anthropologique de Robert
Spaemann. 3.1. L’inversion de la téléologie. 3.2. L’être comme Selbstsein. 3.3. La non-identité essentielle. 3.4. La raison, forme de la vie. 3.5. L’être de la personne et la liberté. 3.6. Au
delà de l’objectivation du langage. 4. Conclusions.
■
1. Le problème
Le problème du dualisme anthropologique a quelque chose à voir avec l’hétérogénéité fondamentale de l’expérience humaine. En effet, nous sommes partagés
entre le dynamisme de nos penchants naturels, qui tendent à s’exprimer immédiatement, et un certain intérêt à les différer, quand nous en prenons conscience
comme tels. La question de la fondation de l’unité de l’homme devient ainsi une
préoccupation principale de l’anthropologie. En fait, elle a accompagné le cheminement de la pensée philosophique dès le commencement1.
*
Pontificia Università della Santa Croce, Piazza di Sant’Apollinare 49, 00186 Roma
1
Aristote, par exemple, considérait que, par rapport aux facultés de l’organisme humain, la
raison vient tyrathein, “du dehors” (De la génération des animaux, 736b). Cette affirmation
fut à l’origine de la controverse qui opposa Thomas d’Aquin aux avveroïstes, au XIIIe
siècle. Ce dernier adopta une démarche qui, mettant l’accent sur les conditions d’exercice
de la rationalité — «Hic homo intelligit», observait-t-il —, lui permit d’affirmer: «Id quo
intelligimus [est] forma corporis physici», ou encore: «Intellectus [est] potentia animae,
quae est actus corporis» (De unitate intellectus. Contra averrhoistas, respectivement nn.
61, 11 et 12). Il repoussait, de cette façon, la position de ses adversaires qui eux, partant du
contenu des actes de la rationalité et, donc, de leur “autonomie” par rapport aux facultés de
241
studi
1.1. L’actualité du problème
L’actualité de ce problème tient notamment au fait que certains auteurs
contemporains,
soucieux d’éduquer aux valeurs, restent sensibles au prestige de la liberté, mais la
conçoivent souvent en opposition, ou en conflit, avec la nature matérielle et biologique, à laquelle elle devrait progressivement s’imposer. A ce propos, diverses
conceptions se rejoignent dans le même oubli du caractère de créature de la nature et dans la méconnaissance de son intégralité. Pour certains, la nature se trouve
réduite à n’être qu’un matériau de l’agir humain et de son pouvoir: elle devrait
être profondément transformée ou même dépassée par la liberté, parce qu’elle
serait pour celle-ci une limite et une négation. Pour d’autres, les valeurs économiques, sociales, culturelles et mêmes morales ne se constituent que dans la promotion sans limite du pouvoir de l’homme ou de sa liberté: la nature ne désignerait alors que tout ce qui, en l’homme et dans le monde, se trouve hors du champ
de la liberté. Cette nature comprendrait en premier lieu le corps humain, sa
constitution et ses dynamismes: à ce donné physique s’opposerait ce qui est
“construit”, c’est-à-dire la “culture”, en tant qu’œuvre et produit de la liberté. La
nature humaine, ainsi comprise, pourrait être réduite à n’être qu’un matériau biologique ou social toujours disponible. Cela signifie, en dernier ressort, que la
liberté se définirait par elle-même et serait créatrice d’elle-même et de ses
valeurs. C’est ainsi qu’à la limite l’homme n’aurait même pas de nature, et serait
à lui-même son propre projet d’existence. L’homme ne serait rien d’autre que sa
liberté!2.
Ce diagnostic de l’Encyclique Veritatis splendor sur la situation du concept
de nature dans certains courants de la philosophie et de la théologie morale
montre l’importance d’une nouvelle réflexion sur cette notion, et particulièrement en rapport avec l’idée de personne. Toute la question tient dans l’affirmation suivante: l’homme en tant qu’il se caractérise par la liberté ne peut pas être
considéré en termes de nature; il n’y aurait pas à proprement parler une nature de
l’homme: la personne est autre chose que la nature.
Mais, est-il nécessaire de cesser de se considérer comme des êtres naturels
pour s’affirmer comme des personnes? Comment faut-il concevoir la notion de
nature pour qu’il soit légitime de parler d’une nature humaine et, par conséquent,
d’une nature de la personne? Voici quelques unes des questions qui pourraient se
2
l’organisme, situaient la raison hors de l’individu et considéraient qu’elle devait être la
même pour tous les hommes (cfr. SIGER DE BRABANT, In III De anima, q. 11, lignes 4-5).
Cette position était, aux yeux de saint Thomas, incompatible avec la foi chrétienne.
Ce problème, comme on va le voir, se posera encore une fois, en des termes nouveaux, à
partir de Descartes.
JEAN-PAUL II, Lettre Encyclique Veritatis splendor, n. 46. C’est nous qui soulignons.
242
Paulin Sabuy
poser et que Spaemann affronte explicitement3. Il n’est pas le seul à le faire. A
vrai dire, il s’agit là d’un problème d’actualité — je viens de le relever — du
moment qu’il en va notamment de la fondation même des droits de l’homme4.
Ainsi, on se demande, par exemple, s’il est juste de parler des droits de l’homme
ou s’il est plus exact qu’on dise les droits de la personne. Il se pose alors des
questions comme celles-ci: Les enfants non encore nés ou les moribonds inconscients sont-ils aussi des personnes? Peut-on parler, en toute rigueur, des droits —
au sens de droits inaliénables et inconditionnés — dans de tels cas, alors même
que ces êtres n’ont pas la capacité d’entrer en rapport avec d’autres, sur le mode
du discours rationnel qui caractérise les personnes? Ne s’agirait-il pas, dans le
meilleur des cas, de droits au sens large; un peu comme on parle de droits des
animaux qui sont toujours sous tutelle des hommes, ou si l’on veut, peut-être
dans un degré supérieur, mais pas de droits de l’homme, au sens propre, c’est-àdire au sens des droits de la personne? On en vient ainsi à la nécessité d’une
caractérisation de la personne. Qu’est-ce que la personne, qui est personne?
1.2. La radicalisation de la subjectivité
Le problème du dualisme de la personne et de la nature est particulièrement
aigu dans le courant de pensée qui cherche à définir la personne sur la base de la
seule intériorité, c’est-à-dire en partant de l’autoconscience. Cette tradition se
rattache aisément à la distinction cartésienne res cogitans-res extensa5. Selon
3
4
5
R. SPAEMANN, Das Natürliche und das Vernünftige. Aufsätze zur Anthropologie, Piper,
München 1987, Avant-Propos, p. 8.
«Die gedanklichen Bemühungen um den Personbegriff schienen bisher von einem eher
theoretisch-akademischen Interesse zu sein. Das hat sich im Lauf der letzten Jahre auf unerwartete Weise geändert. Seit Boethius hatte “Person” als ein nomen dignitatis, also als ein
Begriff mit axiologischen Konnotationen gegolten. Seit Kant wurde er zum zentralen
Begriff bei der Begründung von Menschenrechten.
In den letzten Jahren aber hat sich seine Funktion umgekehrt. Der Personbegriff spielt
plötzlich eine Schlüsselrolle bei der Destruktion des Gedankens, Menschen hätten, weil sie
Menschen sind gegenüber ihresgleichen so etwas wie Rechte. Nicht als Menschen sollen
Menschen Rechte haben sondern nur, soweit sie Personen sind. Nicht alle Menschen und
nicht Menschen in jedem Stadium ihres Lebens und jeder Verfassung ihres Bewußtseins
sind, so wird uns gesagt, Personen» (R. S PAEMANN , Personen. Versuch über den
Unterschied zwischen Etwas und Jemand, Klett-Cotta, Stuttgart 1996, Introduction, p. 10).
P. RICOEUR fait la constatation suivante: «La compréhension des rapports de l’involontaire
et du volontaire exige donc que soit sans cesse reconquis sur l’attitude naturaliste le Cogito
saisi en première personne.
Cette reconquête peut bien se réclamer du Cogito de Descartes; mais Descartes aggrave la
difficulté en rapportant l’âme et le corps à deux lignes hétérogènes d’intelligibilité, en renvoyant l’âme à la réflexion et le corps à la géométrie: il institue ainsi un dualisme d’entendement qui condamne à penser l’homme comme brisé […].
La reconquête du Cogito doit être totale; c’est au sein même du Cogito qu’il nous faut
243
studi
cette vision anthropologique, la personne est référée surtout, ou même exclusivement au fait que nous avons l’expérience de nous-mêmes comme pensants,
comme ayant conscience d’être. Et si on adopte une démarche empirique, c’està-dire si l’on conditionne la reconnaissance de la personne à la manifestation
actuelle de la conscience, l’opposition entre être humain et personne se trouve
définitivement établie. C’est ce que font, à la suite de John Locke, certains
auteurs dont Spaemann a fait ses interlocuteurs6. On en tire alors diverses conséquences dont celle, pire entre toutes, qui admet la distinction entre personnes
actuelles et personnes potentielles7.
Les difficultés d’une telle position devraient être évidentes. Si on se rappelle
que “personne” est, à l’origine, l’expression d’une dignité ontologique, parler de
“personnes potentielles” pose le problème de l’actualisation de cette dignité.
Cela, en pratique, revient à établir un critère conventionnel de reconnaissance,
qui livrerait, eo ipso, les “personnes potentielles” au pouvoir des “personnes
actuelles” (qui seraient les seules à établir ce critère). Un tel critère pouvant toujours, en principe, changer, il s’en suit que le rapport entre les deux “catégories”
de personnes relèvera d’une certaine “tyrannie” des uns sur les autres, surtout
quand il est question du droit fondamental à la vie. Et, au bout du compte, c’est
l’idée même de personne qui s’en trouverait détruite.
La distinction entre “personnes potentielles” et “personnes actuelles” comporte, donc, une insuffisance théorique grave. Celle-ci vient d’une mauvaise
approche du problème du dualisme de la personne et de la nature, ainsi qu’on
va le voir. Or il ne s’agit pas d’une simple discussion académique. On le sait,
cette question ne manque pas de retombées pratiques, notamment quand il
s’agit de prendre position face aux problèmes concernant le droit à la vie des
êtres humains dans certaines situations. Qu’on pense à l’avortement, à l’euthanasie, au jugement à porter et à l’attitude à adopter face aux phénomènes d’extermination des masses, d’épurations ethniques etc. Considérer les droits des
êtres de notre espèce, quand ceux-ci ne disposent pas de l’usage actuel de la
raison (ou de la parole), dans le sens des “droits” reconnus aux animaux, ou en
général à la nature non humaine, nous répugne. Et ce n’est pas une question de
tabou; il ne s’agit pas non plus d’un chauvinisme d’espèce, ainsi que Singer le
suggère8.
Parfit, quant à lui, va jusqu’à affirmer que l’on ne peut pas proprement parler
6
7
8
retrouver le corps et l’involontaire qu’il nourrit» (Philosophie de la volonté, vol. I, AubierMontaigne, Paris 1949, pp. 12-13).
Le diagnostic de Ricœur me paraît tout à fait juste. Mais, en ce qui concerne la voie de
solution qu’il propose, il y a lieu de soulever la question suivante: Et si ce n’était pas au
sein du Cogito qu’il faut chercher une sortie à l’impasse du Cogito (cartésien)?
Cfr. R. SPAEMANN, Personen, cit., p. 10. Il s’agit notamment de Peter Singer et de Derek
Parfit.
Cfr. P. SINGER, Questions d’éthique pratique, Bayard, Paris 1997, pp. 137ss.
Cfr. ibidem, p. 61. Cet auteur emploie le terme “spécisme”.
244
Paulin Sabuy
d’une personne même dans le cas d’un homme endormi9, corroborant ainsi la
position de ceux qui voient dans la personne une dignité liée à un état de l’homme, au lieu d’y voir une dignité véritablement ontologique.
Si être personne signifie qu’on rassemble en soi un certain nombre de qualités, cela voudrait dire que la personne est un état, un stade par lequel passe un
être humain. Un tel état ne correspondrait, en toute rigueur, qu’à un homme
éveillé et conscient de soi.
C’est cela le problème du dualisme de la personne et de la nature. L’homme
est tour à tour exalté et humilié. Quand on le considère en tant que “personne”,
on affirme sa grande dignité. Et, en même temps, dans certaines situations, on est
prêt à le réduire, au rang d’un simple objet de la nature.
1.3. L’hétérogénéité de l’expérience fondamentale de l’homme
Cette double considération a quelque chose à voir avec l’expérience de
l’homme, ai-je dit plus haut. En effet, l’expérience fondamentale que j’ai de moimême est celle d’un être susceptible de prendre de la distance par rapport aux
inclinations. Les penchants que j’éprouve ne dépendent pas de ma liberté. Il est
vrai que je peux provoquer des sensations. Par exemple, je peux provoquer, le
désir de manger en fixant mon attention sur un plat particulièrement appétissant.
Mais l’inclination ou la tendance qui se trouve à la base de la sensation n’est
jamais posée par moi. Le fait de pouvoir provoquer la sensation n’est qu’une
preuve supplémentaire du fait que je garde une certaine distance par rapport à
l’inclination. L’inclination peut ensuite devenir un vouloir, car je connais l’objet
de la tendance comme tel. Ainsi, je peux distinguer nettement les actes qui me
sont possibles grâce à cette capacité de “réfléchir”, c’est-à-dire, les actes qui procèdent d’une certaine initiative de ma part, et que j’expérimente comme libres,
d’un côté. Et, de l’autre côté, j’expérimente aussi les sensations, qui dépendent
d’un objet extérieur, vers lequel la tendance m’incline, suivant un certain mouvement d’immédiateté.
Il peut alors se poser le problème du statut ontologique de ces actes, ou des
états correspondants, qui font partie de notre expérience fondamentale, dans le
cadre d’une théorie philosophique sur l’homme. Dans la tradition de la philosophie analytique, on parle aussi de “prédicats”, pour désigner ces différents états
et qualités que nous attribuons à l’homme, et dans lesquels il fait, tour à tour,
l’expérience d’un certain pouvoir d’initiative et celle de la passivité. Ainsi, par
exemple, selon cette tradition, les prédicats mentaux ou psychiques correspondent au premier genre et sont attribuables à l’âme (mens), tandis que les prédicats
9
Cfr. D. PARFIT, Reasons and Persons, Clarendon Press, Oxford 1987. Paul Ricœur offre une
bonne vue d’ensemble et une critique des positions fondamentales de Parfit dans son livre
Soi-même comme un autre, Éd. du Seuil, Paris 1990, pp. 156-166.
245
studi
corporels ou physiques sont ceux qui font référence au corps10. On remarque un
certain effort de dépassement du dualisme anthropologique au sein de la philosophie analytique actuelle, qui admet l’attribution à la personne comme telle, des
prédicats non seulement psychiques mais aussi physiques11.
La question du dualisme de la personne et de la nature se rattache à ce problème. Les chances que l’on a de surmonter ce dualisme dépendent de la manière
dont le problème du statut ontologique des événements psychiques et physiques
est résolu, ou mieux encore, de la manière de fonder ontologiquement la double
articulation de l’expérience fondamentale de l’homme.
2. Quelques tentatives de solution
Avant d’analyser l’approche anthropologique de Robert Spaemann, je me
propose, d’examiner, brièvement, la conception de la personne (par rapport à la
nature) qu’ont deux auteurs de langue française: Joseph de Finance et Paul
Ricœur. Le premier se situe volontiers en continuité avec la tradition classique,
tout en restant attentif aux apports de la philosophie moderne, comme on va
bientôt le voir. Le second se réclame d’une phénoménologie herméneutique
pénétrée du souci de fondation ontologique. Pour discuter de leurs positions respectives, j’analyserai la vision des choses qu’ils présentent dans leurs ouvrages,
non seulement récents et correspondants à la maturité de leur cheminement philosophique, mais qui, en plus, abordent directement le problème du dualisme
dont il est question ici: Personne et valeur12 pour J. de Finance, et Soi même
comme un autre pour Ricœur. Mais, ça et là, je me servirai également d’autres
ouvrages de ces auteurs. Par ailleurs, à travers Ricœur, qui se rattache aussi à la
philosophie analytique, j’espère faire apparaître, dans une certaine mesure, l’appréciable effort de dépassement du dualisme anthropologique qu’on remarque au
sein de cette tradition, et qui est particulièrement vif chez cet auteur.
10 Cfr.
P.F. STRAWSON, Individuals. An Essay in Descriptive Metaphysics, Routledge, LondonNew York 1996, pp. 89ss. Voir aussi P. RICOEUR, Soi-même comme un autre, cit., p. 369.
11 Voir, par exemple, P. RICOEUR, Soi-même comme un autre, cit., p. 369. Spaemann affirme
notamment: «Seit der berühmten Definition des Boethius, nach der eine Person “das individuelle Dasein einer vernünftigen Natur” ist, hat die Philosophie die Merkmale zu differenzieren versucht, aufgrund derer wir bestimmte Wesen “Personen” nennen. Diese Versuche
gehen in zwei Richtungen. Einmal zielen sie auf eine Präzisierung dessen, was bei Boethius
“rationabilis”, “vernünftig” heißt. Vor allem das angelsächsische Denken von Locke bis zur
sprachanalytischen Philosophie der Gegenwart hat eine Reihe von Prädikaten herausgearbeitet, durch die Personen definiert werden sollen. Strawson sieht es als wesentlich an, daß
Personen Träger mentaler und physischer Prädikate zugleich sind, also nicht bloß “denkende Dinge” im Sinne Descartes’. (Einzelding und logisches Subjekt. Deutsch: Stuttgart
1972, 134) […] In anderem Richtung der Verständigung über den Personbegriff wird der
soziale charakter des Personseins in den Mittelpunkt gestellt» (Personen, cit., Introduction,
p. 9). C’est nous qui soulignons.
12 J. DE FINANCE, Personne et valeur, PUG, Roma 1992.
246
Paulin Sabuy
2.1. J. de Finance
I. J’ai dit que l’idée de la personne conçue comme un état remonte à la doctrine cartésienne de deux substances; mais c’est surtout aux présupposés empiriques des auteurs qui la soutiennent qu’elle doit son actuelle configuration dans
le débat philosophique. En effet, J. de Finance part également de l’intuition cartésienne: Cogito ergo sum13. Il en fait un traitement qui se veut original, bien
entendu. Pour lui, «le sum ouvre le cogito ou plutôt explicite son ouverture. Car
le vrai cogito est un cogito ouvert»14. Ainsi, il est en mesure d’affirmer la possibilité, et même la nécessité d’une notion de “nature humaine”15, sans laquelle il
serait difficile, non seulement d’envisager une norme pour la personne16, mais
aussi de bien comprendre le sujet humain lui-même17. Et il peut conclure: «Il n’y
a pas donc à opposer nature et personne, à refuser les exigences de celle-là au
nom des exigences de celle-ci. La personne n’est rien sans nature et la nature raisonnable n’existe que dans une personne, dont elle porte en soi la dignité»18. Et
un peu plus loin, il ajoute encore: «Le respect des personnes est inséparable du
respect de la nature humaine en elles et il n’y a pas d’amour vrai sans respect»19.
II. Ces conclusions sont tout à fait évidentes. Cependant, je trouve que la
démarche suivie par J. de Finance présente quelques difficultés. J’en compte
principalement deux: d’une part, sa manière de traduire le concept d’animal
rationale par “esprit incarné”20 et, d’autre part, la caractérisation (conséquente?)
de la liberté comme “autodétermination”21. En effet, ces notions, qui sont légitimes en elles-mêmes, doivent être, à mon avis, bien comprises, dans un raisonnement où l’on cherche à fonder philosophiquement l’unité de l’homme, afin
d’éviter des malentendus.
La notion d’esprit incarné n’est pas adéquate pour traduire celle d’animal
rationale chaque fois qu’elle signifie, en quelque sorte, la rupture de l’unité de
l’homme, ou même simplement son insuffisante formulation. Et c’est le cas,
semble-t-il, chez J. de Finance, qui continue à parler de la “dualité de visées”22,
dans la considération de l’être humain; c’est-à-dire, tantôt du point de vue de «la
participation, [de] la descente de l’idée dans la matière», tantôt du point de vue
de l’émergence, autrement dit, du point de vue de «la montée de la matière vers
l’esprit […], [ ou de la] communication de l’esprit à la matière»23.
13 Cfr. ibidem, pp. 48ss.
14 Ibidem, p. 48.
15 Cfr. ibidem, pp. 60ss.
16 Cfr. ibidem, p. 70.
17 Cfr. ibidem, pp. 43ss.
18 Ibidem, p. 69.
19 Ibidem, p. 70.
20 Ibidem, pp. 23ss.
21 Ibidem, pp. 45-46.
22 Ibidem, p. 32.
23 Ibidem, p. 31.
247
studi
Cette dualité de visées ne garantit pas une vision unitaire de l’homme, au delà
d’une certaine alternance du Cogito et de l’anti-Cogito, pour reprendre une
expression de Paul Ricœur24. Ainsi, quand on regardera la personne comme un
esprit qui “descend” dans la la matière ou dans la chair, il s’en suivra que la nature sera, en toute logique, vue comme une limite (extérieure), sur laquelle bute —
en fait provisoirement — sa liberté, conçue comme autodétermination, ou tout au
moins rien n’empêcherait vraiment que l’on en arrive à cette vision des choses. Il
est vrai que la liberté implique une dimension d’autodétermination. Mais la
détermination de soi par soi n’est pas, pour autant, indépendante de ce qui, dans
le soi, précède le moment de son “expansion” et le rend possible. La conscience
de soi n’annule pas le moment d’inconscience — bien que l’acte de conscience
soit, en tant que tel, indifférent à ce moment —, ce qui fait que la liberté ne peut
être adéquatement caractérisée indépendamment du moment qui précède et
accompagne toujours sa manifestation. Être libre n’est pas s’émanciper de la
nature.
De Finance serait probablement d’accord avec cette observation, puisqu’il
affirme la nécessité de respecter la personne à travers la reconnaissance de la
dignité de la nature dans laquelle elle se manifeste, ainsi que nous l’avons vu.
Cependant, ma critique concerne une importance excessive accordée à la dimension d’autodétermination, ou mieux encore elle porte sur un certain défaut de
caractérisation de l’idée de liberté. En effet, là où il est question de l’idée de personne et de la fondation d’un ordre axiologique la concernant, il est impératif de
bien saisir, d’énoncer avec clarté et exactitude l’idée de liberté sur laquelle elle
est fondée. Autrement dit, il faut considérer la liberté en son sens premier et fondamental, qui n’est pas l’autodétermination, quoique celle-ci en soit le corollaire
sur le plan de l’agir.
On peut voir encore plus clairement les difficultés que je viens d’évoquer
lorsque J. de Finance cherche à comprendre le rapport entre la nature et la liberté. En effet, il dit: «Comme nous ne pouvons être nous-mêmes que dans les
limites de notre nature, nous ne pouvons réaliser notre vrai bien — individuel ou
communautaire — que dans les limites de ce qui, dans l’ordre axiologique, correspond à cette nature et trouve en elle sa détermination quasi matérielle»25. Il y
a lieu de s’étendre sur cet intéressant passage pour voir, par exemple, quel serait
le sens à donner à l’expression “détermination quasi matérielle” du bien de
l’homme se trouvant dans sa nature, et par conséquent, celle de l’ordre axiologique — si l’on veut prendre cette expression pour synonyme de normativité —
qui en découle. On en tirerait sans doute beaucoup de conséquences utiles. Mais
ce n’est pas notre sujet. Je considérerai plutôt le fondement que l’auteur donne à
sa position. En effet, quelques pages plus haut, il écrit:
24 Cfr. P. RICOEUR, Soi-même comme un autre, cit.,
25 J. DE FINANCE, Personne et valeur, cit., p. 70.
248
p. 27.
Paulin Sabuy
la nature, avec ses habitus, est donnée au sujet comme une condition non posée
par lui et hors de laquelle il ne peut s’évader; comme une limite donc, au moins
en apparence, de sa spontanéité et de sa liberté. La liberté est un aspect de la
nature: cela veut dire qu’il n’y a pas entre elles de vraie opposition, mais cela
veut dire aussi que la nature en nous est nécessairement libre: nous sommes […]
“condamnés à la liberté”. Il dépend de nous de choisir ceci ou cela, le bien ou le
mal; il ne dépend pas de nous d’être mis en demeure de choisir. La nature est la
condition non l’ennemie de la liberté: reste que celle-ci étant conditionnée n’est
pas liberté pure. Et, conclut-il, c’est ce que la conscience contemporaine a tant de
peine à admettre26.
Il faut dire, encore une fois, que J. de Finance perçoit bien le problème et y
apporte même une solution intéressante. Simplement les termes de celle-ci ne
sont pas, anthropologiquement parlant, tout à fait cohérents, sans doute à cause
de leur insuffisance.
III. D’abord, à bien voir les choses, la liberté n’est pas un aspect de la nature.
Si nous prenons la nature au sens de la dotation d’origine de l’étant, reçue dans
l’acte créateur qui le fait être, c’est-à-dire au sens de ce avec quoi on naît normalement, la liberté peut, certes, être considérée comme un “aspect” de la nature.
Alors on dit qu’il y a des natures libres et des natures qui ne le sont pas. Mais,
comme on peut le voir, la liberté n’est considérée comme un “aspect” de la nature qu’en tant que celle-ci est déjà conçue comme libre, en vertu de la distinction
que je viens d’évoquer. C’est ainsi que nous disons que la nature humaine est
une nature libre. (Si par nature on entend l’ensemble d’impulsions qui “naissent”
en nous, c’est-à-dire la simple spontanéité naturelle, la liberté ne serait pas du
tout bien comprise, si on la caractérisait comme un aspect de la nature). Du coup,
on tombe dans une certaine tautologie, qu’il ne faut pas, pour le moins, perdre de
vue, quand il est question de fonder philosophiquement l’unité de l’homme, car,
autrement, nous ferions de la notion de nature une pure abstraction et nous réduirions la nature humaine au rang de la nature inférieure, c’est-à-dire au rang de la
simple spontanéité naturelle. En tout cas cela reviendrait à escamoter le problème de la double articulation de l’expérience fondamentale de l’homme dont il est
question.
En effet, quand, par exemple, nous disons que la nature de l’homme est une
nature raisonnable, il faut prendre garde à ne pas croire ou faire croire que la raison est une simple différence spécifique, un peu comme quand nous disons que
la chauve-souris est un mammifère volant. La rationalité — dans laquelle apparaît la liberté —, en raison de son articulation particulière dans l’homme, instaure
un genre nouveau, où la nature est portée au delà d’elle-même, car la simple
spontanéité naturelle s’ouvre à une dimension nouvelle qui ne s’explique pas par
elle. D’ailleurs, la nature humaine, dans laquelle, grâce à la “réflexion”, nous fai26 Ibidem,
pp. 65-66.
249
studi
sons la double expérience de l’impulsion spontanée et de notre capacité à
prendre de la distance par rapport à l’immédiateté, est ce qui nous permet de
comprendre toute autre nature, puisque nous comprenons la simple spontanéité
naturelle comme telle, et nous saisissons aussi l’idée de liberté (par rapport à la
nature). La nature de l’homme n’est pas seulement une nature parmi d’autres
espèces de nature. Elle a valeur de paradigme27.
Cela étant, je dirais qu’il y a une certaine contradiction ou, pour le moins, une
certaine confusion à caractériser la liberté comme autodétermination tout en la
considérant comme un aspect de la nature, quand il est question de la fondation
théorique de l’unité de l’homme.
D’autre part, il est vrai que la nature est “la condition de la liberté”, et qu’il
s’agit d’“une condition non posée” par l’homme lui-même. Mais elle n’est pas
simplement une “limite”, elle contient également l’indication des fins (telos),
autrement dit, il s’agit d’une limite interne, qui donne du sens. Et au delà de cette
“limite”, la liberté s’égare et devient auto-destructive, elle se retourne contre
l’homme même. Cela est certainement sous-entendu lorsque J. de Finance affirme
qu’«il ne dépend pas de nous d’être mis en demeure de choisir», ou mieux encore,
quand il dit que c’est dans la nature que nous trouvons une «détermination quasi
matérielle» du bien de la personne, ainsi que nous l’avons vu plus haut.
IV. Or c’est la notion de vie qui traduit mieux tout cela; la vie qui précède,
accompagne toujours et rend possible l’émergence de la rationalité, par laquelle
elle devient consciente d’elle-même. En effet, la vie implique à la fois l’intériorité et l’extériorité dans l’unité d’un même système par rapport à son milieu, ou
mieux encore dans l’unité d’un même processus.
J. de Finance n’insiste pas assez sur la téléologie naturelle. Autrement dit, la
notion de vie, chez lui, est encore conçue en termes d’extériorité28. On comprend
alors qu’il caractérise la liberté surtout comme autodétermination. Cela est-il dû
au fait que sa critique initiale du Cogito est insuffisante? Ce n’est pas le lieu
d’approfondir la question. Je me contenterai d’indiquer que dans le Cogito ergo
sum, il n’est pas essentiel pour le Cogito que le sum implique quelque chose
comme un processus vital. Il s’en suit qu’un tel processus, s’il est donné, disons
empiriquement, lui viendra comme de l’extérieur, c’est-à-dire comme une extériorité qui n’a pas de prise sur la “structure” interne du Cogito comme tel.
L’ouverture du Cogito par le sum29 n’est pas une exigence du Cogito lui-même.
Enfin, bien que J. de Finance perçoit la nécessité d’une affirmation de l’être
dans une perspective pratique30, il ne semble pas avoir surmonté tout à fait la
27 Dans
ce sens, Spaemann écrit: «Nous ne pouvons caractériser un comportement observé de
l’extérieur comme étant dirigé par la tendance que si nous pouvons l’interpréter par analogie avec “l’être-tendu-vers” qui est la structure de notre propre être-soi» (Bonheur et bienveillance. Essai sur l’éthique, PUF, Paris 1996, p. 230).
28 Voir par exemple J. DE FINANCE, Personne et valeur, cit., pp. 67-69.
29 Cfr. ibidem, p. 48.
30 Ainsi il peut affirmer: «L’amour vise l’autre selon son esse propre» (ibidem, p. 19).
250
Paulin Sabuy
conception de l’être comme objet de pensée31. «La conscience de soi, écrit-il, est
celle d’un sujet qui est de l’être, dans l’être, et ne peut se saisir comme être dans
l’être qu’en s’ouvrant à l’être»32. Mais, il n’y a pas de l’être dans le non-être. En
revanche, le contraire peut être vrai ainsi que l’atteste une juste compréhension
des notions aristotéliciennes d’acte et de puissance; où l’acte est toujours
premier33. On retrouve cette même ambiguité dans un autre important ouvrage:
Le «Je […], écrit De Finance, n’est pas un simple objet phénoménal: c’est par
delà les “faits de conscience”, une réalité enracinée dans l’être. Son existence est
impliquée dans sa connaissance: le penser, c’est l’affirmer. Et sa nature est impliquée dans son existence, car dire: je suis, c’est dire: je suis un être capable de
dire: je suis, un être qui se pense dans l’être avec tout ce que cela comporte»34. Il
est vrai que la réalité se trouve toujours au delà de “faits de conscience”. Mais
dire-je est encore un fait de ce type, c’est-à-dire, ce n’est pas le Je lui-même.
C’est ainsi que penser-je n’est pas affirmer-je, si du moins par là on entend l’affirmation pratique. De sorte que c’est seulement dans la sollicitude ou le souci de
soi que l’on atteint vraiment — réellement — le Je.
L’acte d’être n’est pas la notion générale de l’être. Ce n’est pas l’objet (de
pensée) que j’ai dans la conscience lorsque je pense l’être. Ce n’est pas le résultat de mon abstraction. L’acte d’être est l’acte de ce qui existe en tant qu’il existe. C’est ainsi que je “saisis” mon être, non pas avant tout quand je m’ouvre à
l’autre, mais, par exemple, dans l’expérience de la douleur, comme ce qui menace ma vie (et donc mon être). L’ouverture à l’autre en tant qu’autre vient après.
Et elle se réalise également dans un contexte pratique: elle a toujours la forme
d’une affirmation libre, par le respect et la bienveillance. Voilà pourquoi la
simple perception de l’autre ne garantit pas l’ouverture à l’autre en tant qu’autre,
car elle peut être encore interprétée par rapport à l’intérêt de celui qui perçoit.
Autrement dit, celui-ci peut se refuser à rendre justice à l’autre dans son altérité,
ne l’interprétant alors que par rapport à son auto-affirmation. Ce qui équivaut à
ne pas reconnaître l’altérité de l’autre comme tel. Bien entendu, la reconnaissance de l’autre en tant qu’autre suppose que je me saisis moi-même dans l’être.
31 Cfr. ibidem, pp. 4ss.
32 Ibidem, p. 48.
33 Cfr. R. YEPES STORK,
La doctrina del acto en Aristóteles, Eunsa, Pamplona 1993, pp.
242ss. L’idée de la priorité de l’acte apparaît, par exemple, dans le texte de Thomas
d’Aquin ci-après: «Ex hoc ipso quod quidditati esse tribuitur, non solum esse, sed ipsa
quidditas creari dicitur: quia antequam esse habeat, nihil est, nisi forte in intellectu creantis,
ubi non est creatura sed creatrix essentia» (De Potentia, q. 3, a. 5, ad 2). Dans le même
sens, Spaemann observe: «Für Aristoteles galt es als Axiom, daβ das Wirkliche vor dem
Möglichen ist. Möglichkeit war verstanden als Spielraum der mit jedem wirklich eröffnet
ist. Möglichkeit hieβ: “können”. Nur Wirkliches “kann”» (R. SPAEMANN, Philosophische
Essays, Reclam, Stuttgart 1994, p. 14).
34 J. DE F INANCE , L’affrontement de l’autre. Essai sur l’altérité, Università Gregoriana
Editrice, Roma 1973, p. 29.
251
studi
Ce point est capital, non seulement comme préalable d’un concept adéquat de
nature, mais aussi comme condition d’une acception de la personne qui résout
les difficultés de sa conception comme un ensemble de qualités attribuables à
l’être humain.
2.2. Ricœur
I. Chez Ricœur aussi, on trouve, tout d’abord, une intéressante critique du
Cogito, dans le but de conjurer la dialectique du sujet, tour à tour exalté et humilié, de Descartes à Nietzsche, sans jamais réussir, à ce qu’il semble, à lui assurer
une place dans le discours, au delà de cette alternance du Cogito et de l’antiCogito35. Et c’est fort de cette analyse initiale36, que Ricœur s’engage ensuite
dans une recherche complexe de la place du sujet qui répond à la question qui?,
et dont l’identité est traduite par le terme latin ipse à la différence de l’identitéidem (ou mêmeté) qui s’attribue aux choses, et signifie «la permanence dans le
temps […], à quoi s’oppose le différent, au sens de changeant, variable»37.
Tandis que «l’identité au sens d’ipse n’implique aucune assertion concernant un
prétendu noyau non changeant de la personnalité. Et cela, quand bien même l’ipséité apporterait des modalités propres d’identité»38. Alors que l’identité des
choses ou mêmeté signifie que celles-ci demeurent identifiables (au même) à travers les changements et le temps, l’ipséité elle indique autre chose que la mêmeté, c’est-à-dire elle désigne la personne, bien que le corps de la personne appartienne lui-même à la catégorie de mêmeté.
Après la clarification initiale, faite dans la longue préface du livre, suivent dix
vigoureuses études, au fil d’une argumentation serrée, en une discussion permanente et patiente avec les auteurs les plus divers: Ricœur nous fournit de formidables intuitions sur le sujet personnel qui seul peut répondre à la question
“qui?”.
Mais quel est le rapport de l’ipséité à la mêmeté? «Avec la question qui? —
qui cherche, qui trébuche et ne trouve pas, et qui perçoit? —, revient le soi au
moment où le même se dérobe»39. Équivocité de la notion d’identité: la mêmeté
n’est pas à confondre avec l’ipséité. Si la mêmeté est accessible par voie de référence identifiante, l’ipséité ne l’est que par le mode de l’autodésignation40.
D’une part, «dans une problématique de la référence identifiante, la mêmeté du
35 P. RICOEUR, Soi-même comme
36 Ibidem, pp. 14-26.
37 Ibidem, pp. 12-13.
38 Ibidem, p. 13. J’ai relevé plus
un autre, cit., p. 27.
haut le fait que dans la tradition de la philosophie analytique,
on affirme la nécessité d’une attribution à la personne des prédicats aussi bien psychiques
que physiques.
39 Ibidem, p. 154.
40 Ibidem, p. 44.
252
Paulin Sabuy
corps propre occulte son ipséité»41; et d’autre part, le soi lui-même «apparaît
sous les apparences de la mêmeté»42. Il s’y cache un paradoxe. Et Ricœur
l’avoue dès la première étude: «C’est un immense problème — dit-il — de comprendre la manière par laquelle notre propre corps est à la fois un corps quelconque, objectivement situé parmi les corps, et un aspect du soi, sa manière
d’être au monde»43. L’opposition ipséité-mêmeté ne signifie donc nullement que
le soi soit dépouillé du corps. Au contraire, «posséder un corps, c’est ce que font
ou plutôt ce que sont les personnes»44. Ainsi pour Ricœur, «l’appartenance de
mon corps à moi-même constitue le témoignage le plus massif en faveur de l’irréductibilité de l’ipséité à la mêmeté. Aussi semblable à lui-même que demeure
un corps […], ce n’est pas sa mêmeté qui constitue son ipséité, mais son appartenance à quelqu’un capable de se désigner lui-même comme celui qui a son
corps»45.
II. Malheureusement, comme on peut facilement le voir, Ricœur ne semble
pas dépasser une certaine dichotomie. L’unité de l’homme, la conjonction du
corps au soi, ne peut être convenablement fondée, du moment que l’irréductibilité des éléments se situe au point de départ. D’entrée de jeu, les deux objets de la
référence langagière — la personne et les corps, appelés “particuliers de base”46
— sont considérés comme hétérogènes. Dans ces conditions, l’unité ne peut
jamais être qu’extrinsèque. Et pourtant, Ricœur affirme, un peu avant, dans la
préface: «Si l’on admet que la problématique de l’agir constitue l’unité analogique sous laquelle se rassemblent toutes nos investigations, l’attestation peut se
définir comme l’assurance d’être soi-même agissant et souffrant. Cette assurance demeure l’ultime recours contre tout soupçon; même si elle est toujours en
quelque façon reçue d’un autre, elle demeure attestation de soi»47.
Tout le problème c’est que le soi ne comprend pas, ou mieux n’inclut pas le
corps; il se trouve dès le départ dans un rapport de dualité avec lui. Certes,
Ricœur soutient que «posséder un corps, c’est ce que font ou plutôt ce que sont
les personnes»48. Mais, cette affirmation, chez lui, semble être faite par principe,
sans qu’elle soit suivie d’une mise en lumière de ses fondements ontologiques.
De telle sorte que, malgré cette appréciable élévation du rapport de la personne
avec son corps au niveau ontologique, on ne peut éviter l’impression que, en pra41 Ibidem, p. 46.
42 Ibidem, p. 154.
43 Ibidem, p. 46.
44 Ibidem.
45 Ibidem, p. 155.
46 Cfr. ibidem, p. 43.
Ricœur fait référence à F. Strawson en ce qui concerne la notion de “particuliers de base”.
47 Ibidem, p. 35. Ricœur présente le soupçon comme le contraire de l’attestation, même s’il en
est aussi, à sa manière, une manifestation, c’est-à-dire par négation, comme le revers d’une
même médaille.
48 Ibidem, p. 46.
253
studi
tique, cela reste une conjonction extrinsèque, parce qu’il y manque quelque
chose comme une notion “charnière”, telle que la notion de vie. La référence
fondamentale au fait que, le “même” qui apparaît dans la diversité se conçoit
toujours sur base de l’expérience que nous avons de nous-mêmes comme le sujet
permanent de nos actes et passions, est insuffisamment exploitée.
En un certain sens, l’hétérogénéité est inévitable puisqu’elle répond à l’expérience fondamentale de l’homme. Mais c’est justement pourquoi il faut partir de
là: de l’expérience de l’homme, qui est celui qui sent et sait qu’il sent; la
conscience étant toujours conscience de “quelque chose” qui précède le moment
de son propre dévoilement. Et le souci de cette fondation de l’unité devrait nous
permettre de surmonter le dualisme des points de vue, que Ricœur réintroduit
quand il soutient que la personne est tantôt “ce dont nous parlons” tantôt le “sujet
parlant”. Même s’il ajoute aussitôt après qu’il ne faut pas «opposer trop radicalement les deux approches de la personne: par référence identifiante et par autodésignation»49.
La personne n’est pas “ce dont on parle” au sens de l’objet de la référence
identifiante, car nos jugements versent toujours sur les phénomènes. En
revanche, la personne est toujours celui qui parle ou celui qui est potentiellement
parlant. En tout cas, celui qui reste toujours au delà de notre discours, quoique le
rendant possible: la personne est de l’ordre de l’être. Dans mes jugements et dans
les propositions que je formule, l’autre apparaît toujours sous forme de l’ensemble de perceptions que j’en ai, à un moment donné. Il reste donc, en quelque
sorte, voilé par ces mêmes perceptions, car il ne s’épuise pas en elles. L’autre ne
s’identifie point avec l’ensemble de perceptions que j’en ai, autant je ne m’identifie pas avec l’objectivation de moi-même dans le souvenir de ma propre histoire. L’autre est toujours plus que ces perceptions; mieux encore, il est au delà
d’elles. Je ne saisis vraiment l’autre en tant qu’autre que dans la mesure où mes
jugements et mes propositions sur lui s’inscrivent aussi dans un contexte pratique, où j’accepte l’autre dans son altérité, par le respect et la bienveillance.
Nous allons y revenir.
III. Enfin, malgré le souci permanent dont témoigne Ricœur pour la fondation
ontologique, il ne paraît pas plus que J. de Finance dépasser une conception de
l’être comme objet de pensée. Pourtant, dans la préface de Soi-même comme un
autre, la notion d’attestation apparaît chargée de promesse. Ainsi, par exemple, il
écrit: «[…] L’attestation est fondamentalement attestation de soi. Cette confiance
sera tour à tour confiance dans le pouvoir de dire, dans le pouvoir de faire, dans
le pouvoir de se reconnaître personnage de récit, dans le pouvoir enfin de
répondre à l’accusation par l’accusatif: me voici! selon une expression chère à
Lévinas. À ce stade, l’attestation sera celle de ce qu’on appelle communément
conscience morale»50. Mais la référence au contexte pratique est finalement
49 Ibidem,
50 Ibidem,
254
p. 44.
pp. 34-35.
Paulin Sabuy
minimisée, et l’attestation ne culmine que comme l’affirmation de l’«être-vrai de
la médiation de la réflexion par l’analyse»51. Et il ajoute plus loin: «Si […] la
dimension aléthique (véritative) de l’attestation s’inscrit bien dans le prolongement de l’être-vrai aristotélicien, l’attestation garde à son égard quelque chose de
spécifique, du seul fait que ce dont elle dit l’être-vrai, c’est le soi; et elle le fait à
travers les médiations objectivantes du langage, de l’action, du récit, des prédicats éthiques et moraux de l’action»52. Même s’il dit bien ensuite que «l’attestation est l’assurance — la créance et la fiance — d’exister sur le mode de l’ipséité»53, Ricœur ne semble pas échapper à une certaine “objectivation” de l’être (et
du soi) dont il pressent qu’on lui reprochera54. En effet, dans l’idée de l’attestation, l’apparition du soi (et de l’autre) ne comporte pas clairement une perception
du bien, précisément parce que cette notion n’est pas entièrement replacée dans
le contexte pratique qu’elle évoque. L’attestation ne se trouve pas mise en rapport avec la “sollicitude” et à la “bienveillance”, dont parle pourtant aussi
Ricœur55.
Ici aussi, je pense qu’on peut attribuer cette insuffisance à l’absence d’un
concept adéquat de vie et de téléologie immanente. Ricœur perçoit, certes, l’importance du concept de vie56. Mais il la prend exclusivement dans le sens du
concept spinozien de conatus. Par contre, l’inclinatio n’apparaît point (la nature
demeure toujours affectée d’un déterminisme trivial, par un défaut de caractérisation téléologique).
La relative déception, écrit-il, sur laquelle se clôt notre attentive écoute des interprétations heideggériennes visant à une réappropriation de l’ontologie aristotélicienne nous invite à chercher un autre relais entre la phénoménologie du soi agissant et souffrant et le fond effectif et puissant sur lequel se détache l’ipséité. Ce
relais, c’est pour moi le conatus de Spinoza. […] Je partage avec Sylvain Zac la
conviction selon laquelle “on peut centrer tous les thèmes spinozistes autour de la
notion de vie” (Sylvain Zac, L’idée de vie dans la philosophie de Spinoza, Paris,
PUF, 1963, pp. 15-16). Or qui dit vie, dit aussitôt puissance, comme l’atteste de
bout en bout l’Éthique. Puissance, ici, ne veut pas dire potentialité, mais productivité, qui n’a donc pas lieu d’être opposée à acte au sens d’affectivité, d’accomplissement57.
En réalité «le fond effectif et puissant sur lequel se détache l’ipséité», c’est
toujours l’acte (d’être) sans lequel il n’y a pas simpliciter de puissance. Toute
51 Ibidem,
52 Ibidem,
53 Ibidem,
54 Ibidem,
55 Ibidem,
56 Ibidem,
57 Ibidem.
p. 348.
p. 350. C’est nous qui soulignons.
p. 351.
p. 348.
pp. 254-255.
p. 365.
C’est nous qui soulignons.
255
studi
potentialité réelle (ou la “productivité” comme le veut Ricœur) ne naît qu’avec
l’acte. La puissance n’est jamais antérieure que secundum quid, dans l’ordre de
l’action; mais on remonte toujours à un acte qui est premier. C’est ainsi que la
productivité suit la potentialité, car le conatus ne s’explique, en définitive, qu’à
partir de l’inclinatio. Et l’inclinatio signifie: une potentialité qui s’ouvre chez un
être vivant en tant que tel.
IV. En ce qui concerne le rapport de la liberté à la norme, Ricœur, après avoir
longuement analysé le formalisme kantien ainsi que l’opposition entre l’impératif de la raison et le désir58 conclut: «L’obéissance véritable, pourrait-on dire,
c’est l’autonomie»59. Sans doute. Mais à condition qu’il soit également légitime
de lire cette phrase en sens inverse: «l’autonomie véritable c’est l’obéissance»,
obéissance à la nature, parce que la raison pratique est susceptible de percevoir
son bien véritable, à partir des inclinations naturelles, qui sont des indications
pour l’action de l’homme.
À mon avis, le problème du dualisme de la personne et de la nature dont il est
question, trouve une réponse plus complète et mieux fondée dans l’œuvre de
Spaemann. Les conditions d’une acception adéquate de la nature, la conception
de l’être qui la fonde, ainsi que la caractérisation de la liberté et le problème du
rapport entre la personne et la nature se trouvent, chez lui, expliqués avec une
clarté suffisante.
3. L’approche anthropologique de Robert Spaemann
Pour bien cerner la question du dualisme anthropologique, Spaemann entreprend d’approfondir le contenu de la caractérisation classique de la personne
comme «substance individuelle de nature rationnelle»60, tout en restant attentif à
l’apport de l’analyse du langage.
C’est ainsi qu’il voit la philosophie engagée, à cet égard, dans un effort de
détermination des caractéristiques spécifiques de l’homme, à qui nous reconnaissons la dignité de personne, par rapport aux autres êtres. Il relève ainsi deux
orientations majeures de la recherche61. Une première orientation viserait surtout
la détermination du sens de l’adjectif “rationnelle” qui qualifie la “nature” de
l’homme. Dans, ce sens, la philosophie analytique actuelle soutient qu’il est
essentiel pour la compréhension de l’idée de personne, qu’on lui attribue des pré58 Cfr. ibidem, pp. 237ss.
59 Ibidem, p. 277.
60 BOÈCE, Contra Euthychen et Nestorium, III, 4; cité par R. SPAEMANN,
61 Cfr. R. SPAEMANN, Personen, cit., p. 9. Voir note 11 ci-haut.
256
Personen, cit., p. 9.
Paulin Sabuy
dicats aussi bien psychiques que physiques. Ainsi, cette tradition s’écarte du courant de pensée qui, à partir de Descartes, considère la personne comme “chose
pensante”, tout court62. La deuxième orientation est celle de ceux qui voient
dans la personne un statut exprimant la dignité d’un être, à qui l’on reconnaît la
place unique qui lui revient parmi ses semblables63.
3.1. L’inversion de la téléologie
Certes l’idée de personne a une connotation axiologique et implique, de ce
fait, une référence à quelque chose comme un attribut sur lequel elle se fonde.
Mais, pour Spaemann, la dignité de personne, en tant que prétention originaire,
ne vient pas après la reconnaissance accordée sur la base d’un attribut
particulier64, tel la rationalité, par exemple, mais en vertu de l’appartenance à
l’espèce homo sapiens, dont les individus portent normalement cet attribut particulier, qui les distingue des êtres non personnels. «“Personne” n’est pas une
notion descriptive»65. Pour comprendre cela, il est important de bien saisir les
concepts qui se trouvent impliqués dans la définition de Boèce.
Substantialité, nature, raison. Spaemann sent, notamment, la nécessité d’une
«profonde réflexion sur l’histoire de la pensée qui commence avec le concept de
“nature”, de “physis”»66. La reconstitution de l’histoire du concept revient alors
à identifier les moments où se sont produits les glissements sémantiques et
conceptuels qui sont à l’origine de l’acception qu’on en a aujourd’hui. Spaemann
qualifie cette évolution d’“inversion de la téléologie”67.
La notion de nature est téléologique de l’antiquité au moyen âge. Elle se défi62 Ibidem.
63 Ibidem.
64 «Sind alle
Menschen Personen? Es zeigt sich, daß die bejahende Antwort Voraussetzungen
hat. Sie setzt voraus, daß Personen zwar a priori in einer auf Anerkennung basierenden
wechselseitigen Beziehung stehen, aber daß diese Anerkennung nicht dem Personsein als
dessen Bedingung vorausgeht, sondern auf einen Anspruch antwortet, der von jemandem
ausgeht. Sie setzt ferner voraus, daß wir diesen Anspruch zwar aufgrund gewisser
Artmerkamle zuerkennen, daß es aber für die Anerkennung als Person nicht auf das tatsächliche Vorhandensein dieser Merkmale ankommt, sondern nur auf die Zugehörigkeit zu
einer Art, deren typische Exemplare über diese Merkmale verfügen» (ibidem, p. 11).
65 Ibidem, p. 26.
66 R. SPAEMANN, Das Natürliche und das Vernünftige, cit., p. 21. Qu’on voit aussi cet autre
texte: “Mein Vorschlag, die Prämisse in Frage zu stellen und den Gedanken der Teleologie
auf anfänglichere, nicht “invertierte” Weise neu zu denken, ist bisher überwiegend auf höfkiche Skepsis gestoßen. Ich sehe zwar nicht, wie ohne einen solchen Neuanfang die
Dialektik der zwei Kulturen, die esklariende Dialektik von Naturalismus und
Spiritualismus zum Stehen gebracht werden kann, die die Humanität unserer Zivilisation in
der Tiefe bedroht” (R. SPAEMANN, Reflexion und Spontaneität. Studien über Fénelon, KlettCotta, Stuttgart 1990, Préface à la deuxième édition, p. 14).
67 R. SPAEMANN, Reflexion und Spontaneität, cit., pp. 58ss.
257
studi
nit par la fin. La notion biblique de création permet de porter la téléologie naturelle à son plus haut degré de compréhension68. La nature signifie alors la dotation d’origine reçue par chaque étant dans l’acte créateur qui le fait être. Les
choses se renversent à partir de l’époque moderne, quand par nature on entend
plus que la pure extériorité; acception certainement dominante à l’ère scientifique où, plus que de contempler la vérité des choses, on se propose surtout d’en
découvrir l’utilité pour l’homme. La vérité scientifique est objective (alors que
l’être est au delà de l’objet). La raison scientifique est avant tout une raison instrumentale69. Pour la raison scientifique comme telle — et pour la vision du
monde qui en découle — la téléologie immanente de la nature (l’Aussein-auf70,
l’être-tendu-vers des choses) est stérile et sans importance. Le vrai sens des
choses est le rôle qu’elles peuvent avoir dans le cadre de nos actions71: leur utilité. Il s’agit d’une vision anthropocentrique qui semble conférer à l’homme une
dignité illimitée, le plaçant au centre de l’univers dont elle lui promet une maîtrise croissante. En revanche, concevoir les choses comme si elles pouvaient avoir
une fin propre, au delà de leur éventuelle utilité pour nous, c’est-à-dire les concevoir comme si elles avaient aussi un être-pour-soi en plus de leur être-pour-moi,
est considéré comme de l’anthropomorphisme injustifiable.
Et voici que, ironie du sort, cette vision des choses s’applique de plus en plus
à l’homme lui-même, lorsqu’il fait l’objet d’étude des sciences positives, qui
cherchent à déchiffrer les mécanismes de sa physiologie et de son comportement.
La nature comme pure extériorité n’est rien d’autre qu’un matériau disponible
dont on étudie les lois pour en avoir une telle maîtrise qu’on puisse prévoir les
événements possibles. Cela est également vrai pour le corps humain. Ainsi, on se
retrouve dans l’alternance de points de vue, qui fait que l’homme est tantôt exalté, tantôt humilié, selon qu’il est (actuellement) pensant ou réduit au rang d’une
simple étendue, d’un simple objet de la nature (par opposition à la pensée).
Dans ces conditions, la nature ne peut être une norme pour l’agir libre. Elle
n’est jamais une mesure interne, tout au plus est-elle une limitation externe (et
provisoire).
Dans l’entre temps, on a pris conscience de la nécessité d’une redéfinition des
rapports entre l’homme et la nature. L’espérance d’un progrès indéfini sur la voie
d’une croissante domination de la nature, à laquelle on ne reconnaît plus de ressemblance avec l’homme — en tant qu’il est pensant —, s’est effritée. Tout au
moins elle est devenue problématique: la conscience écologique en témoigne.
Or, celle-ci ne peut être réduite à la surenchère d’une certaine qualité de vie. Ce
n’est pas une mode passagère. Elle pose un problème strictement moral. Un
68 Cfr.
R. SPAEMANN - R. LÖW, Die Frage Wozu? Geschichte und Wiederentdeckung des teleologischen Denkens, Piper, München-Zürich 1985, p. 97.
69 Cfr. ibidem, p. 103.
70 Cfr. R. SPAEMANN, Bonheur et bienveillance, cit., p. 117.
71 Cfr. R. SPAEMANN - R. LÖW, Die Frage Wozu, cit., p. 103.
258
Paulin Sabuy
exemple simple pourrait en être le suivant: dans les environs d’une grande ville
africaine, le feu de brousse détruit le bois et prive d’une source d’énergie importante les populations qui ont un accès limité ou même nul à l’électricité, l’obligeant à aller s’en procurer de loin en loin. Sans compter l’aspect esthétique, etc.
Ce fait interpelle sans doute les responsables de l’administration du territoire, qui
devraient prendre les mesures juridiques et de police nécessaires. Mais elle interpelle aussi la responsabilité individuelle de ceux qui, vivant près des aires à
risque, devraient en prendre soin et éviter des comportements vicieux. On peut
aussi citer les problèmes typiques de la bioéthique qui reviennent sans cesse dans
la discussion publique, comme, par exemple, la manipulation génétique, l’expérimentation des produits pharmaceutiques nouveaux sur les patients, l’utilisation
d’embryons pour la recherche scientifique, etc.
3.2. L’être comme Selbstsein
On peut dire qu’après cette reconstitution critique de l’histoire du concept de
nature, Spaemann nous propose de reprendre les choses à partir de cette simple
constatation: les choses sont comme nous sommes. La substantialité des choses
est analogue à la nôtre. Mais, comme c’était déjà le cas chez Platon et Aristote,
nous devons affirmer que l’homme est le paradigme de toute substantialité72.
L’être des choses signifie qu’elles sont indépendamment de nous; simplement
nous les concevons par analogie avec notre propre être.
Être signifie la persistance dans l’exister et une espèce de victoire permanente
sur une certaine possibilité de retomber dans le néant. Aristote affirme: «Vivere
viventibus esse»73. L’être est un dérivé de la vie, commente Spaemann74. Mais
l’être n’est pas l’ensemble des phénomènes vitaux d’un vivant. Même si être
pour un vivant signifie avoir les manifestations vitales typiques, la vie elle-même
n’est pas cet ensemble de phénomènes vitaux mais ce qui les rend possible. Le
vivre ne s’identifie avec aucune de ses manifestations typiques, il ne s’identifie
pas non plus avec celles-ci dans leur ensemble, quoiqu’il ne devient visible que
par elles. L’acte d’être est incommensurable avec les actions de l’étant. Et cela
nous le disons par analogie avec la vie consciente. «Qui non intelligit, non perfecte vivit» dit saint Thomas75. À quoi Spaemann ajoute: «Qui non vivit, non
perfecte existit»76.
L’être-soi (Selbstsein) est l’être qui fonde une nature, c’est-à-dire, être c’est
toujours être d’une certaine manière, avoir une nature déterminée. Les êtres
72 Cfr. R. SPAEMANN, Bonheur et bienveillance, cit., p. 143.
73 De Anima II, 4, 415b 13.
74 Cfr. R. SPAEMANN, Personen, cit., p. 80.
75 In X librorum ethicorum Aristotelis ad Nichomacum expositione,
76 R. SPAEMANN, Personen, cit., p. 80.
Lib. IX, lect. 11, n. 1902.
259
studi
vivants non raisonnables sont, dans chaque action, déterminés par l’instinct de
conservation. Ils ne distinguent jamais la fin et le motif de leur action. Vivre,
pour de tels êtres, est toujours uni-directionnel. Dans leurs rapports avec d’autres
étants, ils occupent toujours un certain centre, un certain milieu par rapport
auquel tout le reste est réduit à un simple entourage, qui est constamment interprété comme favorable ou non favorable à la fin propre de ces êtres vivants.
Donc toujours dans la même direction, par rapport à la conservation. Par contre,
la raison dévoile une autre direction, une perspective nouvelle, dans laquelle le
déterminisme de la nature se dévoile comme tel, et se trouve ainsi relativisé.
3.3. La non-identité essentielle
L’homme retrouve en lui ces deux perspectives. Mais la raison n’est pas pure
transparence, pure conscience d’elle-même. La raison signifie avant tout découvrir (das An-den-Tag-Kommen) la vérité de la nature77, c’est-à-dire découvrir
les choses telles qu’elles sont. Autrement la raison serait vide, sans contenu. Il
va de soi que la raison ne découvrirait rien si la nature ne renfermait pas déjà un
sens. Et ce sens n’est pas seulement l’utilité qu’une chose peut avoir dans le
cadre de mes actions (ce que nous pourrions appeler sa téléologie transcendante) mais, avant tout, le sens qu’elle a en elle-même (sa téléologie immanente).
C’est ainsi que pour le fermier, le sens du troupeau des vaches qu’il élève n’est
pas seulement celui d’une marchandise à livrer au boucher, même si ce sens
peut prédominer à un moment donné. Grâce à la raison, je découvre la téléologie de la nature, je découvre que les autres êtres vivants ont des intérêts qui ne
dépendent pas de mes propres intérêts comme être vivant. Il devient alors possible d’en prendre soin. Car au delà des phénomènes par lesquels il se manifeste
à moi, je peux découvrir, grâce à la raison pratique, l’être de tout être vivant en
tant que tel.
L’être et le bien se révèlent uno actu78. Parce que l’identité d’une chose
comme Selbstsein, comme être-soi, est pensée à la manière d’un processus pour
lequel il y va de quelque chose: c’est toujours son propre pouvoir-être qui est en
jeu. Une telle affirmation de l’être et du bien a la forme d’une affirmation libre,
de l’amor benevolentiae, autrement dit elle n’a vraiment lieu que dans un
contexte pratique.
Comment s’explique, donc, l’apparition de cette nouvelle perspective, qui
contraste avec la perspective de l’être vivant que nous ne cessons guère d’être?
Comme je l’ai dit plus haut, le statut ontologique que l’on accorde à cette double
perspective est ce qui détermine l’approche du problème du dualisme de la personne et de la nature.
77 Cfr.
78 Cfr.
260
R. SPAEMANN, Das Natürliche und das Vernünftige, cit., p. 123.
R. SPAEMANN, Bonheur et bienveillance, cit., p. X.
Paulin Sabuy
Pour Spaemann la raison humaine ne peut pas être une substance, au sens de la
res cogitans cartésienne. La raison finie est plutôt un événement, «l’événement du
devenir-substance d’un processus organique»79. Il ne s’agit pas d’un événement
quelconque. C’est l’“événement” qui marque l’être même de l’homme.
On voit ainsi réapparaître le paradoxe de l’animal rationale. Il y a une nonidentité essentielle dans l’homme80. Pour comprendre cela il faut se rappeler que
nous concevons l’être par analogie à la vie, et donc comme un processus. En
effet, la vie, en tant que vie, est toujours ce pour quoi il y va de quelque chose:
son propre pouvoir-être. Être-vivant signifie être-porté-vers (Aussein-auf-Sein)81.
Cela est également vrai pour l’homme. Mais l’apparition de la raison suppose un
certain changement de perspective. L’immédiateté de l’inclination contraste avec
un certain recul (par rapport à l’inclination) à travers la médiation de la
“réflexion” qui caractérise la raison.
Dans la réflexion, on rentre en soi, d’une certaine façon, au moment où l’objet apparaît dans la conscience, que l’on expérimente aussi comme conscience de
soi. Mais, il s’en suit également la possibilité de penser un au-delà de l’objet. Si
la pensée de l’au-delà-de-l’objet n’est encore qu’une pensée, un objet, l’au-delà
lui-même, l’être (ou l’autre) devient perceptible, comme tel, dans la raison pratique, dans la bienveillance82, de même que le soi n’apparaît vraiment que dans
le souci de soi. Aussi la “réflexion” n’implique-t-elle pas seulement la capacité
de rentrer-en-soi (In-sich-gehen), mais elle renferme aussi la possibilité d’allerhors-de-soi (Aus-sich-heraustreten)83. Cette différence interne de la vie douée de
raison est originaire, ai-je observé. Même si un certain nombre de fonctions de la
raison peuvent être interprétées par rapport à la conservation de la vie, la possibilité essentielle de sortir-de-soi instaure une nouvelle perspective, qui met l’homme à part de la creatura naturalis: il a une natura intellectualis. L’homme n’est
pas un simple être naturel.
79 «Endliche
Vernunft ist nicht Substanz, sondern Geschehen, das Geschehen des
Substanziell-werdens eines organischen Prozesses» (R. SPAEMANN, Glück und wohlwollen.
Versuch über Ethik, Klett-Cotta, Stuttgart 1989, p. 117; traduction française: Bonheur et
bienveillance, cit., p. 123).
80 «Niemand ist einfach und schlechthin das, was er ist. Selbstannahme ist ein prozeß, der
Nichtidentität voraussetzt und als bewußste Aneignung des Nichtidentischen, als
“Integration” (C. G. Jung) verstanden werden muß» (R. SPAEMANN, Personen, cit., p. 21).
81 Cfr. ibidem, pp. 117ss.
82 Cfr. R. SPAEMANN, Bonheur et bienveillance, cit., p. 130.
83 «Diese Differenz [des Menschen zu seinem eigenen Sosein] ist uns geläufig unter dem Titel
der “Reflexion”. Aber Reflexion ist nur eine ihrer Erscheinungsformen. Die Differenz bestimmt unser Dasein, auch wenn wir nicht reflektieren. Sie ermöglicht die Reflexion, sie
beruht nicht auf ihr. Reflexion ist ein In-sich-Gehen. Aber die Differenz kann ebenso als ein
Aus-sich-Heraustreten beschrieben werden, als “exzentrische Position”» (R. SPAEMANN,
Personen, cit., p. 23).
261
studi
3.4. La raison, forme de la vie
Comment, dès lors, établir la conjonction entre les deux perspectives qui se
font jour dans la vie douée de raison? Comment, suivant cette vision anthropologique, caractériser la double articulation de l’expérience fondamentale de
l’homme? L’unité est fondée de la façon suivante: la raison est la forme de la
vie84. Mais comment comprendre cette unité? Comment comprendre que “le
processus organique» à partir duquel se réalise le “devenir-substance” qui a
lieu dans l’avènement de la raison n’est pas déjà une substance? Les termes
qui sont ici utilisés semblent suggérer un avant et un après. Comment comprendre cet avant et cet après, c’est-à-dire le changement, sans le réduire à un
simple changement accidentel, au sens aristotélicien (alloiosis), et faire, du
même coup, de la raison une simple fonction de la vie? Ou alors, comment le
comprendre sans l’élever au rang d’un changement radical, ainsi qu’il advient
par exemple dans la naissance (genesis) ou dans la mort, ce qui voudrait dire
que “le processus organique” cesse et cède la place à la raison conçue comme
une nouvelle substance? Il est toutefois problématique de faire dériver la raison d’un processus organique. Voilà un problème difficile qui, comme je l’ai
déjà dit, ramène toute la question de l’hétérogénéité fondamentale de l’homme.
Certes, il ne peut être question d’escamoter l’hétérogénéité, de supprimer le
paradoxe. Mais est-il possible de mettre pleinement en lumière ce paradoxe?
Peut-on caractériser de manière satisfaisante l’hétérogénéité, sans la moindre
perte?
3.5. L’être de la personne et la liberté
Pour Spaemann, «le caractère de personne (Personalität) de l’homme n’est
rien au delà de son animalité. Cependant l’animalité de l’homme est dès le départ
ce qui n’est pas une simple animalité, mais le substrat du déploiement de la personne»85. L’ouverture à la raison est originaire, et c’est en elle que devient effectif le rapport particulier de la personne avec sa nature. C’est-à-dire la non-identité essentielle dont il a été question plus haut.
La personne est l’être de nature rationnelle. Dans cette affirmation, l’adjectif
“rationnelle” n’est pas un prédicat au même sens que “volant” dans la proposition: la chauve-souris est un mammifère volant. La rationalité introduit, par rapport à la simple animalité, une nouveauté qui distingue radicalement l’animal
rationale du reste des animaux, et inaugure un genre différent. C’est cela qui fait
84 «Vernunft
ist vielmehr die “Form” unserer Lebendigkeit. Unser Leben ist nicht, wie alle
außerpersonale Lebendigkeit, in sich zentriert» (ibidem, p. 124).
85 Ibidem, p. 256.
262
Paulin Sabuy
qu’il n’est pas simplement sa nature mais qu’il la possède en quelque sorte86. Il
ne se possède pas, il possède plutôt sa nature, ou, si l’on préfère, il ne se possède
qu’en tant qu’il possède sa nature.
La liberté ne signifie pas, en son sens primaire, autodétermination, mais pouvoir-laisser-être (Seinlassen)87. Alors seulement on peut caractériser adéquatement la personne comme l’être vivant “potentiellement moral”88, du fait de
l’éventualité de la raison. Il n’y a pas de “personnes potentielles”, mais l’être
humain est “potentiellement moral”. L’être capable de s’apercevoir du caractère
absolu de l’être et du bien des autres étants acquiert du même coup le statut
d’une fin absolue. Plus qu’une valeur, on lui attribue une dignité. Et le nom de
cette dignité est: personne89.
Mais, de même que la perception de l’être (Selbstsein) n’est possible que quand
la raison devient pratique par la bienveillance, la personne comme personne n’est
accessible qu’à travers l’acceptation et la reconnaissance (Anerkennung)90. Être
personne signifie dès lors occuper sa propre place dans la communauté des personnes qui se reconnaissent mutuellement. Mais pas dans le sens où l’être-personne se baserait sur une telle réciprocité, ou sur l’acceptation et la reconnaissance de
la part des autres91. C’est plutôt dans le sens où sa propre position — unique, il va
sans dire —, par nature, ne se dévoile aux autres qu’au moyen d’un tel acte de
reconnaissance. Et celui qui se refuse à une telle acceptation de l’autre se défigure,
bien entendu, comme personne. En effet, en deçà de l’acte d’acceptation et de
reconnaissance, l’homme demeure, mala fide, dans la simple perspective de la vie,
centrée sur soi. Le bien, pour lui, ne l’est alors qu’au sens de bien-pour-moi, mais
pas au sens absolu.
86 «Das,
was existiert, ist eine Weise zu sein. Bei der Fledermaus scheint das Sein, das
Lebendigsein, ganz in diese “Weise” versenkt zu sein, ganz in ihr aufzugehen. Menschen
hingegen existieren, indem sie Sein unterscheiden von ihrer bestimmten Weise zu sein, also
von einer bestimmten “Natur”. Sie sind nicht einfach ihre Natur, ihre Natur ist etwas, das
sie haben. Und dieses Haben ist ihr Sein. Personsein ist das Existieren von “rationalen
Naturen”» (ibidem, p. 40). C’est nous qui soulignons.
87 «Der Fundamentale Akt der Freiheit besteht in dem Verzicht auf die Bemächtigung, die in
der Tendenz alles Lebendigen liegt. Positiv heißt dieser Verzicht: Seinlassen. Seinlassen ist
der Akt der Transzendenz, der das eigentliche Signum der Personalität ist» (ibidem, p. 87).
88 R. SPAEMANN, Das Natürliche und das Vernünftige, cit., p. 105.
89 Cfr. R. SPAEMANN, Personen, cit., pp. 38ss.
90 Cfr. ibidem, p. 193.
91 «Personsein ist das Einnehmen eines Platzes, den es gar nicht gibt ohne einen Raum, in
dem andere Personen ihre Plätze haben. Das Einnehmen dieses Platzes beruht nicht auf
einer Zuweisung durch andere, die bereits vor uns da waren. Jeder Mensch nimmt diesen
Platz als geborenes Mitglied kraft eigenen Rechtes ein. Aber er wird nicht empirisch am
diesem Platz vorgefunden, sondern dieser Raum wird überhaupt nur wahrgenommen in der
Weise der Anerkennung» (ibidem).
263
studi
3.6. Au delà de l’objectivation du langage
La caractérisation métaphysique de la personne est complétée, chez
Spaemann, par un traitement analytique du problème, mais qui renvoie sans
cesse à ses fondements ontologiques. La différence que nous établissons entre les
pronoms quelque chose (etwas) et quelqu’un (jemand), dans le langage quotidien, indique certainement notre intention de désigner une réalité différente, précisément personnelle, sous ce dernier. C’est ce que nous exprimons aussi par la
forme interrogative “qui?”, ainsi que le montre Ricœur92.
Par exemple, dans l’analyse linguistique de la phrase “Cette pomme est
rouge”, nous pouvons procéder à une décomposition logique, donnant lieu aux
membres suivants: “Cela est une pomme”, “Cela est rouge”, “Cela est une
pomme rouge”, etc. Nous ne serions en aucune façon autorisés à identifier les
“cela” dans les membres successifs de notre décomposition logique, si nous ne
savions pas d’avance à quoi “cela” se réfère. Nous aurions le même problème de
la référence, dans la proposition “Pierre est grand”. Je peux également faire une
décomposition logique: “Celui-ci est Pierre”, “Celui-ci est grand”. Ce que je saisis comme réalité désignée sous les pronoms “cela” ou “celui-ci” n’est certainement pas indépendant du rapport que j’établis d’emblée avec le contexte dans
lequel se réalise cet acte de désignation93. Si les deux pronoms jouent le même
rôle grammatical, la réalité qu’ils désignent n’est pourtant pas la même. La
pomme a sa position par rapport à moi, mais Pierre peut lui aussi être celui qui
désigne. Or dans mon acte de désignation, “cela” et “celui-ci” le supposent déjà.
La signification n’a vraiment lieu que dans un contexte pratique. C’est ainsi
que, dans le langage habituel, il nous est possible de distinguer d’emblée quelqu’un (Jemand) de quelque chose (Etwas). Personne indique un modus existentiae94; ce n’est pas la notion générale ou un concept désignant une espèce, et par
rapport à laquelle les individus ne sont qu’une concrétisation (instantiierung)
indifférente. Par sa connotation axiologique, personne est avant tout un nomen
rei, la désignation d’une réalité, et non pas un nomen intentionis95, une abstraction.
92 Cfr. P. RICOEUR, Soi-même comme un autre, cit., pp. 14ss et passim.
93 «Was Quine die “Unbestimmtheit der Referenz” genannt hat, hängt
damit zusammen, daß
wir in den ursprünglichen Akten der Benennung das zu benennende Dies-da anscheinend
gar nicht eindeutig identifizieren können. Und jede Aussage vom Typ Fx scheint zirkulär zu
sein, da wir, um etwas darüber aussagen zu können, schon wissen müssen, was dies x ist.
Außerdem müssen wir wissen, wer über ein Dies-da spricht, um zu wissen, wovon er
spricht. “Dies-da” stellt nämlich eine Relation zur Position des Zeigenden her. Sogar auf
seine Geste muß man achten, wenn man ihn verstehen will. Singuläres kann nur in Relation
zu jemandem identifiziert werden, der es identifiziert, und zwar als ein So-und-so. Das gilt
nicht für den Zeigenden selbst…» (R. SPAEMANN, Personen, cit., pp. 43-44).
94 Cfr. ibidem, p. 39.
95 Ibidem, p. 41.
264
Paulin Sabuy
4. Conclusions
Tout ce qui précède me suggère les conclusions suivantes:
1. La personne n’étant pas une notion empirique et descriptive mais l’expression d’une dignité ontologique, il faut reconnaître une personne en tout être appartenant à l’espèce dont les membres en manifestent d’ordinaire les caractéristiques
typiques, c’est-à-dire nous avons à faire à une personne chaque fois qu’il y a une
vie qui peut en être la représentation symbolique. Et c’est le cas de la vie humaine.
2. S’il est établi que la personne a une nature, on peut donc bien parler, à son
sujet, d’une mesure interne. C’est-à-dire on peut reconnaître, dès le départ, que
quelque chose doit être. Autrement dit, l’aptitude à se donner des normes ne
signifie pas que ce qui est donné à l’origine — la nature — ne comporte aucune
indication spécifique sur le contenu de celles-ci; elle ne signifie pas la pure autonomie. Bien entendu, la nature n’offre pas, de façon immédiate, un code au comportement humain. La nature de la personne est une nature raisonnable. Cela
veut dire que l’homme lui-même se donne des lois, de telle sorte qu’elles peuvent être justes ou injustes. Et elles seront justes ou injustes en fonction d’un critère qui n’est pas le libre arbitre même. Le juste se distingue de l’injuste, physei,
par nature. Et découvrir cela revient à la raison.
3. La raison peut encore être mise au service de la simple spontanéité naturelle; elle peut être réduite à la fonction de satisfaire la tendance. Mais la perspective qui lui est propre est celle du dévoilement de l’être et du bien, de sorte qu’elle
rend possible la société, en tant que communauté des personnes, qui se reconnaissent mutuellement en vertu d’un droit inné.
4. Il s’en suit, avant tout, qu’il existe des limites inférieures en dessous desquelles la raison se dégrade, car elle se dérobe à la perception de l’être et du
bien, offusquant ainsi la dignité de la personne. En revanche au dessus de ces
limites, on trouve des modalités très variées de la bienveillance de l’être raisonnable, qui marque le commencement et le déroulement de tout acte moral.
***
Abstract: La nostra esperienza fondamentale è articolata in modo duplice. Da
una parte c’è la spinta dei nostri impulsi che tendono a manifestarsi immediatamente e dall’altra abbiamo una certa capacità di differirne l’esecuzione, di
prenderne distanza. Come fondare l’unità della persona al di là di questa essenziale non-identità? Un tentativo per risolvere questo problema può essere trovato in alcuni autori contemporanei. Joseph de Finance e Paul Ricoeur cercano
una soluzione partendo dalla critica del “Cogito”, seguendo due diverse tradizioni filosofiche. Dal canto suo, Robert Spaemann tenta di risolvere la questione
di tale dualismo antropologico tramite il recupero della nozione di vita come
Aussein-auf-Sein.
265
266
ACTA PHILOSOPHICA, vol. 9 (2000), fasc. 2 - PAGG. 267-275
note e commenti
Eudaimonía e historicidad
JAVIER ARANGUREN ECHEVARRÍA*
■
«Tampoco los juegos de la infancia a policías y ladrones dejarían presagiar el
tumor o el automóvil que destrozarán a aquel niño ni las tiernas escaramuzas
amorosas de una tarde llevarían a pensar en los mezquinos modos del médico que
practicará el aborto o en las peleas que acabarán en los tribunales por un piso
adquirido entre dos. E incluso cuando las cosas van mejor, el final de todas formas es un desastre» (C. MAGRIS, Microcosmos, Anagrama, Barcelona 1999, pp.
152-153).
Buena parte del esfuerzo de la filosofía griega se dirige a la formación cabal
del ciudadano de la polis. La noción de paideia es principalmente educativa, al
tiempo que política. Educar es educar ciudadanos. Estos, de todos modos, son
también imagen de esa otra totalidad que es el hombre: del mismo modo en que el
gobernante sabe poner en juego a los distintos tipos de súbditos que dependen de
él (guerreros, comerciantes, ciudadanos libres), así la razón debe someter de un
modo político a las distintas instancias que componen al ser humano para conducirlo hacia un ideal de excelencia, hacia una vida buena. En este punto, tanto
Platón como Aristóteles coinciden. De hecho, es bien sabida la estrecha conexión
entre ética y política que aparece en los dos grandes autores del periodo clásico: la
República es un tratado —entre otras cosas— sobre estas dos materias: saber
gobernar y aprender a vivir superando el engaño de la apariencia. La Ética a
Nicómaco empieza con referencias a la actividad política, y no parece buscar otra
cosa que ésta y, de hecho, se continúa —y así lo propone el libro X de la obra—
de un modo natural por la obra aristotélica que lleva ese nombre: política.
¿Cuál es la función de la investigación ética? No un conocimiento teórico
sino práctico: alcanzar una sabiduría que se conforme a un modo de vida, lograr
*
Departamento de Filosofía, Universidad de Navarra, 31080-Pamplona, España
267
note e commenti
la vida buena, lograr la excelencia. Aristóteles no es ajeno a las coordenadas de
su tiempo. Se encuentra en una cultura en la que la imagen dominante es la del
héroe. Homero ha impuesto de modo natural la figura de Ulises y la de Aquiles:
prototipos ambos de autores de gestas heroicas, más allá de las toscas realidades
cotidianas de aquellos hombres atados a la seguridad que impone el alma de
comerciantes. El héroe, en cierta medida, se constituye como un objetivo hacia el
que el hombre virtuoso debe dirigir la mirada con deseo de imitarlo.
Pero los ideales que presentan ambos personajes no son sencillos. Aquiles es
un medio dios, y es un solitario: su carácter difícil, su cólera indomable, el orgullo de su venganza puede llegar a convertirlo en un ser odioso1. Ulises inspira
más confianza: él es completamente humano2. Su astucia es un medio clave de
supervivencia, aunque puede llegar a parecer la suya una actitud un tanto rastrera
en la medida en que no duda de servirse del engaño (por ejemplo, para escapar
de Polifemo). Tal vez pueda decirse que es por esos defectos por lo que resulta
tan cercano.
Al mismo tiempo Ulises es un ser máximamente atractivo, pues tiene claras
las metas ambiciosas que conforman su camino (volver a Ítaca, reencontrarse
con Penélope), y por ellas está dispuesto a poner en riesgo su vida y la vida de
los hombres que le acompañan. Como todo héroe, acabará su viaje en solitario,
teniendo que reconquistar él mismo las posesiones que ha perdido y el reconocimiento de su esposa, su hijo, sus criados. Ahora bien: del mismo modo que
Ulises se sirve del engaño (y cabe entonces preguntarse, ¿es que cualquier medio
es válido para lograr una meta apetecible?), y del mismo modo en que se acaba
convirtiendo en un personaje que está solo (¿merece la pena la lucha por una
meta cuando ésta lleva a la pérdida de los amigos?), además, el premio que logra
parece decepcionante: una casa, una mujer, encarar la vejez con garbo: éste es el
ideal de vida burguesa. Mas no basta tal horizonte. Se desconoce cómo acabó sus
días (¿viejo, enfermo, solo?). Y, lo que es peor, él es un personaje que ya sabe lo
que le espera tras la muerte. El mismo Aquiles se lo ha dicho desde el Hades:
«No pretendas, Ulises preclaro, buscarme consuelos
de la muerte, que yo más querría ser siervo en el campo
de cualquier labrador sin caudal y de corta despensa
que reinar sobre todos los muertos que allá perecieron»3.
La existencia de Ulises es interesante en la medida en que se encuentra de
viaje. La obtención de la meta buscada implica el final de la historia, con él la
1
2
3
Cfr. C.M. BOWRA, Historia de la literatura griega, F.C.E., México 1963, pp. 17-20.
Cfr. J. CHOZA y P. CHOZA, Ulises, un arquetipo de la existencia humana, Ariel, Barcelona
1996.
HOMERO, Odisea, canto XI, vv. 487-491, ed. de J.M. Pabón, Gredos, Madrid 1982. A este
texto hace referencia PLATÓN, La República, ed. de C. Eggers, Gredos, Madrid 1988, libro
VII, 516d.
268
Javier Aranguren Echevarría
narración cesa. ¿No resulta entonces esa meta (Ítaca y Penélope) una suerte de
insulto en comparación con el apasionante viaje del héroe? Curioso: ese viaje se
organiza en dirección al fin (el fin es el principio de la acción); y sin embargo,
conseguir el fin trae consigo el cese de la narración y de todo interés por el devenir de Odiseo. Parece como si la consecución de la eudaimonía estuviera situada
fuera del acontecer histórico del hombre, precisamente porque en ella se da la
detención de toda historia: la felicidad supone la anulación del tiempo. Si éste
sigue pasando, toda felicidad es aparente; si, por el contrario, se detiene, ya no se
está hablando de la realidad humana. Esta paradoja se encuentra presente en
Aristóteles.
Además, no es sólo Homero quien domina el ambiente cultural del momento:
la tragedia, otro género dado a los héroes, marca la mentalidad de la tradición
cultural ateniense con un halo de amargura, de indefinición y de desconcierto
que, seguramente, ha de aparecer en el fondo de la filosofía práctica del
Estagirita: ¿qué pensar de un mundo que viene marcado por la presencia de la
muerte o por el dictado del destino?, ¿cabe desde ese hecho hablar de vida
buena?, ¿es posible sostener que el ideal ético-político-educativo de la gran filosofía griega llega a algún buen puerto? La conciencia que domina en la escena
dramática parece querer defender que no es así. Edipo, Antígona, Penteo, todos
lo confirman con la suerte que corren. Baste, por evitar una relación prolija de
textos, con los siguientes versos de una tragedia que —en teoría— busca proponer cierta salida optimista: Edipo en Colono.
«Sólo los dioses viven ajenos a la vejez y a la muerte;
lo demás todo lo arrolla el tiempo omnipotente.
Consúmese la lozanía de la tierra, consúmese la del cuerpo,
muere la lealtad, germina la mala fe, y unos mismos vientos
jamás soplan constantes, ni de corazón a corazón ni de ciudad a ciudad.
Porque a unos ahora, a otros más tarde,
lo dulce se les torna amargo y lo amargo dulce…
¡Ah!, el tiempo interminable engendra en su carrera muchos días y noches,
y la lanza vendrá a romper lo que ahora son abrazos de paz»4.
Desde tal tipo de universo, ¿qué posibilidades existen para lograr la eudaimonía? Parece que pocas. Mas, y es fundamental, se hace necesario caer en la cuenta de lo siguiente: si es cierto que todos los hombres, en todas sus actividades, lo
que buscan es un horizonte de perfección al que todos llaman felicidad —aunque
no estén de acuerdo acerca de en qué consiste tal cosa—5, pero también es cierto
que tal ideal no se puede alcanzar jamás, aunque se persiguiera el objeto más
4
5
SÓFOCLES, Edipo en Colono, vv. 608-620, en Tragedias, ed. de I. Erradonea, Alma Mater,
Barcelona 1959.
Cfr. Ética a Nicómaco, libro I, cap. 1.
269
note e commenti
conveniente para el ser humano —pues siempre se acabaría chocando con la dictadura de cronos, con la muerte6, o con la necesidad de trascender el tiempo y lo
humano en una supuesta contemplación estática7—, entonces habrá que concluir
que el hombre es un animal absurdo.
Un moto fundamental en el mensaje aristotélico es que «la naturaleza no hace
nada en vano»8. Mas, por lo que aquí aparece, habrá que decir nada, a excepción
del ser humano, que no puede conseguir aquello que por inclinación natural le
pertenecería (la felicidad, la vida buena). Y ocurre que de lo absurdo se sigue
cualquier cosa (ex impossibile sequitur quodlibet), lo que hace sostener que el
mismo ideal de eudaimonía, de paideia o de corrección política no es más que
una quimera de un valor real tan nimio, contingente o convencional como el que
se sostenía acerca de la moralidad en el planteamiento violento de Trasímaco o
Calicles9. De ese modo, si se opta por derribar todas las convenciones morales el
resultado será el mismo que si se lucha por su desarrollo, protección y defensa:
nada, ninguno. O, quizás esta apreciación parezca más adecuada, se logra por lo
menos distraer la atención de la muerte, la cual se constituye, a fin de cuentas,
como la única realidad con la que debe contar el hombre con toda certeza.
¿Por qué se sostiene que el ideal de vida buena resulta irrealizable? El motivo
es doble. Por un lado, en Acerca del alma, se da la conocida definición de que
«la vida está en el movimiento»10: la acción práctica es temporal, pertenece a un
contexto en el que todo se mide según el antes y el después, en el que no es posible detenerse sino que en él todo fluye. En la medida en que esas acciones pertenecen al ámbito de lo humano se puede hablar de historia: el hombre y los pueblos registran sus hechos, guardan memoria de sus acciones, conservan hazañas
dignas de ser contadas11. Al señalar la primacía de lo histórico, parece como si la
acción práctica excluyera por definición el gozo con lo obtenido: más se trata de
un tender a la felicidad que de un poseer la felicidad. La posesión, en la medida
en que renuncia al movimiento porque ya no busca, supondría una renuncia de la
vida12. «La vida buena no puede consistir en una condición no activa porque la
eudaimonía implica actuar»13. Ulises en Ítaca y con Penélope deja de tener una
historia, para convertirse en cotidianeidad: allí se pierde en la noche del tiempo,
como los demás. Sólo era inmortal cuando buscaba, es decir, cuando no tenía el
6
Los textos en este sentido son muy frecuentes a lo largo del primer libro de la Ética a
Nicómaco. Cfr., por ejemplo, 1099b4-8; 1100a5-9; 1100b34-1101a9; etc.
7 Cfr. Ética a Nicómaco, libro X, cap. 7 y 8.
8 Cfr. Acerca de las partes de los animales 465a24; Analíticos posteriores, 72b 5-73a 20;
etc.
9 Cfr. PLATÓN, República, libro I; Gorgias, 356-414.
10 Acerca del alma, 413a 25; cfr. ibidem, 415b13: «Para los vivientes vivir es ser». Es decir,
moverse.
11 Cfr. H. ARENDT, La condición humana, Paidós, Barcelona 1993, cap. 5.
12 Ésta es la interpretación de la felicidad aristotélica que lleva a cabo H. ARENDT, o.c., pp.
30-33; p. 81.
13 M. NUSSBAUM, La fragilidad del bien, La balsa de la Medusa, Madrid 1995, p. 408.
270
Javier Aranguren Echevarría
fin, la felicidad. La victoria práctica de Ulises supone la pérdida de su atractivo y
una evocación nostálgica de un pasado glorioso14.
Si se sostiene esa lectura del aristotelismo —que, por otro lado, parece más
acorde con la sensibilidad griega que la afirmación tomista de la connaturalidad
con Dios o el paulino «conocerse como sois conocidos»— hay que llegar a la
conclusión de que el ideal felicitario es más un límite al que se tiene que tender
infinitamente que un posible logro, ya que llegar a él sería dejar de vivir. Lograr
la felicidad es dejar de ser hombre (quizás suponga devenir en una suerte de
dios, pero implica perder lo humano). En ese sentido no es extraño deducir que
la búsqueda del hombre resulta inútil y superflua y, de ese modo, también el
hombre mismo carece de sentido: en cuanto tiende no ha logrado; y en la medida
en que logra deja de ser propiamente humano. ¿Pertenece la felicidad a la vida
humana? La duda queda suspensa como una espada sobre la doctrina aristotélica.
El ideal de la vida buena aparece como irrealizable. El segundo motivo al que
se hacía referencia se ve haciendo resaltar otra posible aporía que presenta la
ética aristotélica en cuanto se la enfrenta —de nuevo— con el carácter social del
agente moral y con la historicidad característica del ser humano.
Respecto al carácter social: la adquisición de las virtudes se lleva a cabo por
mor de la consecución de la vida buena (que, en gran medida, ya se constituye
por y consiste en esa misma adquisición de hábitos virtuosos). Ahora bien, parece que surge un serio problema al constatar que la consecuencia de las virtudes
es la obtención de una virtud —la magnanimidad— que se presenta como ornato
de todas ellas15, y que resulta fuertemente criticable desde la perspectiva de la
sensibilidad moderna.
La magnanimidad es una virtud cuya consecuencia estriba en llevar al sujeto
a bastarse por sí mismo, no dependiendo ya más de la existencia en la polis, sino
llegando a una autarquía que se anunciaba en el orgullo de Aquiles o en la astucia de Odiseo, siempre en busca de sus propios fines. Pocos amigos, pocas palabras, autosuficiente: así es el magnánimo, frente al común de los hombres16.
De todos modos, señala Nussbaum que «es extraño hacer al makarios solitario, pues nadie querría tener todas las cosas buenas del mundo a condición de
estar solo. Porque el hombre es una criatura política y propensa naturalmente a la
convivencia»17. Lo mismo dice el Estagirita al inicio del libro VIII de la Ética:
nadie querría vivir sin amigos. Pero parece que el magnánimo lo consigue, y que
de ese modo también logra no depender de la suerte, o de la fortuna de los otros.
Así se libra de preocupaciones que constituyen un obstáculo para la felicidad en
cuanto que atan al sujeto a los avatares de la historia: historicidad y autarquía se
enfrentan.
14 Y por
eso se narran las hazañas de los héroes. Cfr. W. SHAKESPEARE, Henry V, act IV, scene
III, vv. 12-67.
15 Ética a Nicómaco, libro 4, cap. 3, 1124a1.
16 Cfr. Ética a Nicómaco, 1169a20-1169b2. Cfr. ibidem, 1124ass.
17 M. NUSSBAUM, o.c., p. 414.
271
note e commenti
Eudaimonía y carácter histórico parecen incompatibles. La virtud dota al
hombre de independencia respecto del tiempo, lo aleja de la condición animal y
hace que se asemeje con lo divino. Pero también resulta que lo des-socializa. «El
que no puede vivir en comunidad, o no necesita nada por su propia suficiencia,
no es miembro de la polis, sino una bestia o un dios»18. ¿Lleva a eso la virtud?
En ese caso, flaco favor es el que hace al deseo humano de plenitud.
Si la consecuencia de la vida virtuosa es la obtención de una virtud que permite la independencia de lo social (dejar de ser un animal político para pasar a
ser independiente, para bastarse a sí mismo), ¿no habrá que concluir que la ética
aristotélica propugna la desaparición de lo propiamente humano? El ideal del
magnánimo, que es el resultado al que se llega desde una vida virtuosa, no parece especialmente atractivo. ¿No será mejor dejar de lado la virtud?, ¿no será una
salida más coherente? Peligra la consistencia del planteamiento aristotélico, en la
medida en que esa vida perfecta se propone como una anulación de la historicidad del hombre, de su carácter social y, por lo tanto, de lo propio de la condición
humana.
Si, además, se tienen en cuenta las acusaciones de aristocratismo que suelen
acompañar a la concepción magnánima del ideal virtuoso, ¿no será necesario
declarar el fracaso de la explicación aristotélica acerca de lo que son los hombres? A fin de cuentas su doctrina sólo refleja la realidad de una exigua minoría,
al tiempo que el propio Estagirita reconoce que «la mayoría de los hombres son
malos, y están dominados por el afán de lucro, y son cobardes en los peligros»19.
Y no parece adecuado sostener con Casey que sencillamente se trata de un fallo
de atención del filósofo griego, que no llega a ser capaz de superar sus coordenadas culturales, y que por eso refleja un talante aristocrático20. Del mismo modo
en que la apreciación de Nussbaum, de que quizás —ojalá, diría ella— los pasajes máximamente autárquicos de la obra del Estagirita tendrían que ser un añadido debido a una mano posterior21. Tal cosa no es posible, no ya en el caso del
magnánimo, sino en el de la contemplación de Dios como realización máxima de
la perfección del hombre (realización claramente solitaria, como ese mismo Dios
hacia el que se tiende)22. Y eso aunque tales afirmaciones parezcan contradecir
la coherencia interna de la Ética a Nicómaco, en la misma medida en que el ideal
por excelencia de la vida plena queda puesto —precisamente— en la contemplación, es decir, en una actividad perfecta23 para la cual el movimiento no cuenta
sino per accidens, de manera coincidental24.
18 Política, libro I, cap. 1, 1152a14.
19 Retórica, 1382b5.
20 J. CASEY, Pagan virtues, Oxford U.P. 1990, p. 82.
21 Cfr. M. NUSSBAUM, o.c., pp. 463-468.
22 Cfr. Metafísica, libro XII, cap. 7, 1072b15-25 y ss.
23 Cfr. Metafísica, libro IX, cap. 7, 1048b28-35, donde
distingue entre acto y movimiento;
entre praxis y poiesis o kínesis.
24 Cfr. A. LLANO, El enigma de la representación, Síntesis, Madrid 1999, p. 112.
272
Javier Aranguren Echevarría
La duda que cabe seguir planteando es si tal tipo de actividad es propia del
hombre, o más bien de algo divino que hay en el hombre, pero que no coincide
con lo que el hombre es (así lo pensaría Averroes, y quizás Aristóteles25). De ese
modo, se quiere señalar que el mayor problema del ideal aristotélico de eudaimonia no estriba en que alcanzarlo suponga la anulación de lo humano del hombre,
sino en que aunque se puede lograr en cierto modo, por la misma historicidad
que caracteriza a la condición humana, al final resulta inalcanzable. La coincidencia del espíritu trágico con el contenido de la doctrina aristotélica es en este
aspecto plausible. Se tratará de mostrar con un pasaje de una obra quizás poco
conocida, que completa la filosofía práctica de Aristóteles: la Retórica26.
A lo largo de los capítulos 12 y 13 del segundo libro de esa obra, traza
Aristóteles, con una destacable habilidad fenomenológica, los rasgos propios del
carácter de jóvenes, ancianos y hombres maduros. Su análisis de los jóvenes
(que, por lo menos, ya tienen una racionalidad que los aleja del desprecio que el
Estagirita siente hacia los niños) impide sostener que en ellos se dé la virtud. En
todo caso parece como si la apariencia de virtud fuera fruto de la irreflexión, de
la inmadurez: los ideales —parece indicarse— pertenecen a la edad de los que
carecen de historia, de experiencia. Es decir, pertenecería a esa edad de los que
todavía no saben que los arquetipos de lo virtuoso resultan en sí mismos, a la
larga, insostenibles. Aristóteles subraya en el texto este aspecto, especialmente a
raíz de su insistencia en las modalidades de tipo temporal que acompañan a
muchas de sus descripciones. El mismo carácter histórico del hombre es el que
se encargará de acabar con sus ilusiones. De este modo, los jóvenes
– no son avariciosos, pero «por no haber experimentado todavía la privación»;
– son cándidos, pero «por no haber presenciado muchas maldades»;
– confiados, pero «por no haber sido engañados muchas veces»;
– llenos de esperanza, pero porque se parecen a los borrachos y porque carecen de experiencia: no tienen idea de la verdadera dureza del camino;
– son valerosos, pero por su mismo carácter esperanzado, «porque todavía no
han sido rebajados por la vida», que aún no les ha forzado en la degustación del
mal.
– «Aman en exceso y odian en exceso»: la juventud es una edad de excesos, de
carencia de medida y —por tanto— de irreflexión, de audacia, que deja la vía de la
existencia en condiciones de ser perfectamente dirigida hacia el desengaño27.
Los ancianos salen todavía peor parados: al menos en el joven queda la esperanza, hija de la falta de experiencia. Cuando se conoce la decadencia propia de
la vejez, se puede caer en la cuenta de que todo logro fue prematuro, y que no
25 Cfr.
26 Cfr.
Acerca de la reproducción de los animales, 736b23-29.
Retórica, libro II, cap. 12, 1389a1- 1390b13. Existe un tratamiento similar en el estudio de los diferentes tipos de amistad que se lleva a cabo en Ética a Nicómaco, libro VIII,
cap. 3, 1156a6-1156b33.
27 El texto al que aquí se hace referencia se encuentra en Retórica, 1389a1-1389b13.
273
note e commenti
conducía sino a la pérdida de lo bueno o hacia la muerte. La apreciación de
Aristóteles no es en absoluto optimista cuando dice que «los ancianos que han
pasado la madurez tienen caracteres que en general se deducen de los contrarios
a los anteriores, pues a causa de haber vivido muchos años y de haber sido
muchas veces engañados y haber cometido errores, y por ser malas la mayoría
de las cosas, no aseguran nada y en todo se quedan mucho más cortos de lo que
se debe. Y opinan, pero no están ciertos, y cuando disputan añaden siempre el
quizá y acaso, y todo lo dicen así y nada con seguridad. Y son maliciosos,…
mezquinos,… cobardes,… más egoístas de lo que se debe,… viven mirando a la
utilidad, y no al bien,… difíciles para la esperanza, por causa de su experiencia,
pues la mayoría de las cosas salen mal, ya que todo en general va a lo peor… Y
sus faltas las cometen por maldad, no por insolencia»28.
La paradoja se presenta con toda desnudez: ¿es posible la eudaimonía en el
carácter histórico del ser humano? Como se ha dicho, desde una perspectiva teórico-práctica no es posible, ya que la misma idea de felicidad aparece como un
límite de la acción y por lo tanto de la vida. Desde un punto de vista prácticofenomenológico tampoco: cuando se tienen energías para la virtud, se carece de
ésta por falta de experiencia; cuando se logra la experiencia se sabe que la vida
virtuosa es una quimera. La única manera de evitar la vejez es muriendo pronto.
Mas resulta claro que la muerte es lo que todo el mundo odia y, por lo tanto, no
puede ser tomada como la plenitud de la vida. Morir joven es dejar sin realizar la
obra bella, digna de ser recordada, que se incluye como promesa en toda vida
humana. Es haber pasado sin dejar huella, sin participar en el diálogo que constituye el entramado de lo humanizante, de los ciudadanos de la polis.
Nadie quiere morir, pues se ama la vida como el artista ama su obra29. Sin
embargo, el precio de no querer morir es llegar a la vejez. Es verdad que en la
Retórica se habla también del hombre maduro (aquellos que están en plenitud,
que no tienen los excesos de ninguno de estos dos extremos, que juzgan conforme a lo verdadero, viviendo para lo adecuado, «templados con valor y valientes
con templanza», teniendo lo bueno de las otras dos edades30), pero la madurez
en el cuerpo va de los treinta a los treinta y cinco años y en el alma se sitúa en
torno a los cuarenta y nueve31. Es un periodo breve, siempre demasiado corto,
tras el cual viene irrevocablemente la senilidad, y con ella, la desconfianza, suspicacia, mezquindad, prudencia astuta, cobardía, egoísmo, utilidad, desvergüenza, desesperanza, maldad y tristeza.
Así las cosas, ¿quién es verdaderamente feliz? No puede serlo quien sobrevive, ya que su carácter se acaba por lo general amargando; pero ¿acaso lo es quien
28 Retórica, libro II, c. 13, 1389b14-1390a24.
29 Ética a Nicómaco, lib. VIII, 1168a 5: «La obra
el creador ama su obra porque ama el ser».
30 Cfr. Retórica, 1390a28-1390b13.
31 Ibidem, 1390b10.
274
es en cierto modo su creador en acto, y así
Javier Aranguren Echevarría
muere en combate? Basta recordar que el Aquiles de Homero se cambiaría por
cualquier siervo o campesino con tal de no morar más en el Hades para contestar
negativamente a esa posibilidad. Y eso es así si se afirma la pervivencia del alma
tras la muerte. Mas ni siquiera es éste un tema claro —ni libre de polémica— en
Aristóteles32. Él mismo afirma que tras la muerte «nada parece ser ni bueno ni
malo para el muerto»33.
Mas en ese caso, ¿de qué sirven las obras hechas en vida? La necesidad de
una recompensa más allá del ahora parece una exigencia si no se quiere romper
con el equilibrio de lo moral: empujar a ser virtuoso y que después resulte indiferente haberlo sido o no, ataca al principio de no contradicción, y con ello al fundamento de la misma realidad34.
Parece necesario explicitar los problemas que acompañan a la interesante
solicitud aristotélica de apostar por la virtud y la excelencia. Si bien desde ella en
principio se presenta una concepción optimista del ser humano, no acaba de
saber dar respuesta del para qué de tal comportamiento, del sentido del indudable esfuerzo que el ejercicio de su ideal comporta. No es hora de dar soluciones,
sino simplemente de dejar planteados los problemas. El descubrimiento de un
tipo de acto que no sea kinético, pero que sí sea vivir, altera la definición de
Acerca del Alma de lo que es la vida, cosa que resulta pertinente para cualquier
tipo de vivir que trascienda lo corpóreo. Si tal modo de vida (en cierta medida)
se da en el ser humano, es lógico también que la eudaimonía que le corresponde
a este tipo de ser no quede encerrada en la esfera del tiempo, aunque sí que pertenezca a la realidad de la vida (tal y como parece permitir la noción de praxis).
Si no, y quizás sea necesario hacerlo así, no se puede separar a Aristóteles de la
concepción trágica que caracteriza la cultura de su tiempo.
32 Sobre
las diferentes interpretaciones de la inmortalidad del alma desde presupuestos aristotélicos (Tomás de Aquino, Averroes, Pomponazzi, etc.), cfr. J. ARANGUREN, El lugar del
hombre en el universo, Eunsa, Pamplona 1997, pp. 49-60 y 92-106.
33 Ética a Nicómaco, lib. III, 1115a25ss
34 Cfr. PLATÓN, Gorgias 474b, 482b-483d; 508c-509b. También, N. BILBENY, Sócrates. El
saber como ética, Península, Barcelona 1998, pp. 69-70.
275
276
ACTA PHILOSOPHICA, vol. 9 (2000), fasc. 2 - PAGG. 277-285
Aristotele e Solov’ëv sul significato dell’amore*
GABRIEL CHALMETA**
■
«Il fecondo rapporto tra filosofia e parola di Dio — scrive Giovanni Paolo II
in uno dei documenti forse più importanti del suo pontificato — si manifesta
anche nella ricerca coraggiosa condotta da alcuni pensatori più recenti»1. Tra
questi autori, anzi in cima all’elenco di coloro che appartengono all’ambito
orientale, il papa ha voluto menzionare Vladimir S. Solov’ëv. Nel fare riferimento a questo come ad altri pensatori, aggiunge però subito dopo Giovanni Paolo II,
«non intendo avallare ogni aspetto del loro pensiero, ma solo proporre esempi
significativi di un cammino di ricerca filosofica che ha tratto considerevoli vantaggi dal confronto con i dati della fede. Una cosa è certa: l’attenzione all’itinerario spirituale di questi maestri non potrà che giovare al progresso nella ricerca
della verità e nell’utilizzo a servizio dell’uomo dei risultati conseguiti. C’è da
sperare che questa grande tradizione filosofico-teologica trovi oggi e nel futuro i
suoi continuatori e i suoi cultori per il bene della Chiesa e dell’umanità»2.
Nelle pagine che seguono mi sono proposto di ricordare, molto sinteticamente,
il significato generico che sembrerebbe appropriato dare all’affermazione secondo la quale esiste un fecondo rapporto tra filosofia e parola di Dio, per poi passare
subito — si tratta, infatti, del mio obiettivo principale — a illustrare in una forma
molto più precisa la rilevanza pratica di questa dottrina generica mediante il paragone tra quanto Aristotele (il filosofo) e V. Solov’ëv (il filosofo cristiano) hanno
detto riguardo all’importante argomento del significato dell’amore.
*
Relazione tenuta in occasione della “Giornata sul pensiero filosofico di Vladimir Solov’ëv.
Nel primo centenario della sua morte”, organizzata dalla Facoltà di Filosofia della
Pontificia Università della Santa Croce, il 12 maggio 2000.
** Facoltà di Filosofia della Pontificia Università della Santa Croce, Piazza di Sant’Apollinare
49, 00186 Roma
1
2
GIOVANNI PAOLO II, Lett. Enc. Fides et ratio, n. 74.
Cfr. ibidem.
277
note e commenti
1. Vladimir Solov’ëv, filosofo cristiano
Quello percorso da Vladimir Solov’ëv è un vero e proprio «cammino di ricerca filosofica»3. In questo senso, ciò che fa spiccare la voce di Solov’ëv nel dibattito filosofico-teologico russo dell’Ottocento non è lo stile o la tematica dei suoi
scritti, ma il grado alto di lucidità, argomentazione e sistematicità impresso al
discorso. Solov’ëv non è semplicemente uno tra i tanti “pensatori” russi
dell’Ottocento, ma un vero e proprio filosofo.
Va però subito precisato che la razionalità con cui Solov’ëv costruisce questa
sua ricerca filosofica è una razionalità sui generis: vale a dire, una razionalità
senza remore né riduzionismi, una razionalità postmoderna (nel senso positivo di
questa parola). Essa, infatti, lungi dall’assumere un’intenzionalità neutrale, e
tanto meno negativa nei confronti della rivelazione divina (cristiana), ha invece
«tratto considerevoli vantaggi dal confronto con i dati della fede»4.
Cosa si vuole però indicare quando si parla di una concezione completa (postmoderna in senso positivo) della razionalità perché aperta ai dati della rivelazione divina (cristiana)? Quali sono i vantaggi di questo modo di ragionare?
Cercherò, come avevo già annunziato, di dare una risposta molto sintetica a questa domanda. In questo senso, un aiuto prezioso ci viene da R. Guardini, il quale,
soprattutto nel saggio Spirito vivente, del 1927, ci ha lasciato in eredità alcune
riflessioni che sono ancora oggi molto valide (sarà tutt’altro che sprecato il
tempo che il lettore attento dedichi a consultare questa fonte)5.
Ci sono alcune realtà costitutive del nostro mondo che appartengono alla
sfera dell’esperienza e del pensiero a noi accessibile in quanto uomini (esseri
razionali), ma che sono di fatto le più alte della sfera naturale, appartenenti al
supremo rango dei valori morali; sono le più delicate, le più complicate; della più
grande rilevanza per la nostra vita. Ora, proprio per questi motivi, il pensiero
naturale, o piuttosto l’uomo singolare impegnato in questa attività conoscitiva
trova grandi difficoltà per apprenderle. Vederle pone al suo intelletto le più alte
esigenze, sia in termini di capacità naturali e di abilità acquisite, sia in termini di
sforzo e di fatica psico-biologici. Inoltre, una volta apprese, è facile che il soggetto possa smarrirle in tutto o in parte, anche perché gli si manifestano piene di
conseguenze etiche, spesso alquanto impegnative per la sua esistenza personale.
Tra queste realtà spicca per R. Guardini la persona; e precisamente la reale,
autentica persona: lo «spirito vivente». Essa, a differenza del soggetto astratto,
semplice rappresentante della natura umana (quasi un mero elemento del tutto
sociale o storico), è un essere unico ed irrepetibile, al quale va riconosciuto un
valore assoluto, sia in termini di rispetto che — almeno in alcuni casi — di
amore vero e proprio. Ora, tale affermazione “assoluta” dell’individuo umano si
3
4
5
Cfr. ibidem.
Cfr. ibidem.
Cfr. R. GUARDINI, Spirito vivente (1927), in Natura. Cultura. Cristianesimo, Morcelliana,
Brescia 1983, pp. 93-117.
278
Gabriel Chalmeta
sorregge sulla sua affermazione come “immagine di Dio”, e con questo non
abbiamo ancora superato i limiti della ragione naturale. La realtà persona giunge
però alla condizione univoca e piena di verità naturalmente conosciuta solo
quando emerge nella Rivelazione la realtà soprannaturale ad essa “corrispondente” (la “filiazione divina”) ed è colta dalla fede. E resta puramente un dato naturale finché questa fede viene tenuta ferma. Non appena la fede scompare, la
nozione di persona incorre nuovamente in quella particolare penombra della
mente, si sposta lontano, scivola via.
Nella stessa situazione gnoseologica della “persona” si troverebbero, sempre
secondo l’opinione di R. Guardini (che condivido pienamente), tutta una serie di
valori, di esigenze, di ordini intimamente connessi con questo dato: la libertà,
l’amore, il matrimonio, l’amicizia, ecc.
Ebbene, cercherò adesso di illustrare più in dettaglio dove sta la specificità
nonché i “vantaggi” della ragione e della filosofia cristiana o, ancora meglio, del
cristiano, attraverso l’esame di ciò che su uno di questi temi essenziali, l’amore
quale senso o significato della libertà umana, è stato detto da due grandi filosofi.
Il primo è quello forse più rappresentativo di quanti hanno fatto uso di una razionalità non-cristiana (anche se non pregiudizialmente contraria alla rivelazione),
vale a dire Aristotele; l’altro, è il filosofo cristiano che abbiamo voluto far conoscere specificamente in questo saggio, V. Solov’ëv, nella speranza di contribuire
alla diffusione e allo studio delle sue opere. Del resto, proprio perché gli autori
scelti sono questi due, sembra ampiamente giustificata la scelta del “significato
dell’amore” come tema di confronto: esso costituisce infatti il nucleo centrale
della loro filosofia morale.
2. Il significato dell’amore nell’orizzonte filosofico non cristiano:
Aristotele
La questione del significato dell’amore interpersonale è presente negli scritti
di Aristotele quando stabilisce che la nostra felicità dipende essenzialmente dai
vincoli di amicizia che gli uomini riescono a stabilire con i loro simili. «Senza
amici — scrive nell’Etica Nicomachea — nessuno sceglierebbe di vivere, anche
se possedesse tutti gli altri beni»6. E nell’Etica Eudemia manifesterà — questa
volta in senso positivo — la sua profonda convinzione «che l’amico sia uno dei
più grandi beni, e che la mancanza di amicizie e la solitudine siano una cosa terribile. Per questo motivo, con gli amici trascorriamo la vita intera, e insieme ad
essi stiamo di nostra piena volontà. Infatti, coi familiari, coi parenti, coi compagni passiamo il tempo, o coi figli, coi genitori, con la moglie»7.
È tuttavia, aggiungerà immediatamente Aristotele, molto importante distin6
7
ARISTOTELE, Etica Nicomachea, VIII, 1, 1155a 5-6.
ARISTOTELE, Etica Eudemia, VII, 1, 1234b 32 - 1235a 2.
279
note e commenti
guere a questo riguardo l’amicizia buona o autentica dall’amicizia non buona o
non autentica (apparente). La prima nasce quando il legame affettivo tra le persone (utilitarista o puramente piacevole) viene integrato, grazie alle umane capacità d’intendere e di volere, con l’amore verso la persona e verso il vero bene (la
virtù) dell’altro.
Infatti, spiegherà Aristotele, il legame affettivo basato sull’utilità o sul piacere
sensibile, è certamente una condizione che rende possibile l’amore, l’amicizia
autentica: un po’ come avviene con l’immagine sensibile e la conoscenza intellettuale (secondo l’adagio latino: “nihil est in intellectu quod prius non fuerit in
sensu”). Tuttavia, se la volontà del soggetto non va al di là dell’“oggetto” dell’affettività, se questi non ama secondo ragione ma soltanto secondo i sensi, tale
volere non avrà per oggetto la persona e il vero bene (la virtù) dell’individuo
amato. Quale sarà, invece, in questi casi la realtà amata? Ecco la risposta, netta e
un po’ caustica, di Aristotele: «coloro che amano a causa dell’utile, amano a
causa di ciò che è bene per loro stessi, e quelli che amano per il piacere lo fanno
per ciò che è piacevole per loro stessi, e non in quanto l’amato è quello che è, ma
in quanto procura un bene o un piacere. Per conseguenza, queste amicizie sono
accidentali: infatti, non è in quanto è quello che è che l’amato è amato, ma in
quanto procura un bene o un piacere»8.
Il destino cui sembra condurre inevitabilmente la strada della pura affettività
è dunque la strumentalizzazione in favore delle proprie emozioni positive o della
propria utilità delle persone alle quali il soggetto è unito da tali legami affettivi.
«L’amico [falso] — dirà Aristotele “sulla scia” di Kant e del suo principio personalista — è per i cattivi un’appendice delle cose, non già [come avviene per i
buoni] le cose un’appendice degli amici»9.
Per giungere a un’autentica amicizia, per creare una vera e propria comunione interpersonale in grado di rompere l’isolamento esistenziale in cui si trova
l’uomo, sarà invece necessario che questi compia uno sforzo di natura intellettuale e volitiva per integrare i propri legami affettivi con l’amicizia vera o autentica, vale a dire con l’amore verso la persona e il vero bene di coloro che sono
oggetto di tali affetti. Infatti, «amare è trattare l’oggetto dell’amore in quanto
amico, per essere quello che è, e non in quanto musico [bene piacevole] o medico [bene utile]. Per questo motivo, il piacere dell’amicizia deriva dall’amico in
quanto tale: il suo amico lo ama per sé stesso, e non per altra cosa»10.
Se ci domandassimo però fino a quale punto, secondo l’opinione di
Aristotele, potrebbe e dovrebbe arrivare l’unione amicale tra due persone; oppure, più precisamente ancora, se è razionale o no, nella logica aristotelica, arrivare
fino all’unione (intenzionale, di amore) tra le persone stesse degli amici, la risposta da dare sembrerebbe dover essere molto chiara: se gli amici sono amici
8 Cfr. ARISTOTELE, Etica Nicomachea, VIII, 3, 1156a 10-19.
9 Cfr. ARISTOTELE, Etica Eudemia, VII, 2, 1237b 33-34.
10 Ibidem, VII, 2, 1237b 1-4.
280
Gabriel Chalmeta
autentici, la loro amicizia dovrebbe giungere alla donazione reciproca, all’unione
tra le persone in quanto tali. Un’unione, come ha scritto Aristotele parlando sempre dell’amicizia autentica, analoga a quella che esiste nell’uomo buono verso se
stesso, e che ha come caratteristiche specifiche «l’augurare l’esistenza, il vivere
insieme, il condividere gioie e dolori [“non gioire per altro motivo che non sia la
gioia dell’altro”], essere un’anima sola, e non poter vivere separato l’uno dall’altro, ma se c’è bisogno morire insieme»11.
Quindi, il vincolo di amicizia autentica dovrebbe operare una vera unione tra
le persone stesse degli amici, che giungono in qualche modo (intenzionale e abituale)12 a «essere un’anima sola»13. Fin qui l’interpretazione dei testi aristotelici
non sembra problematica. Ebbene, non sarebbe un corollario perfettamente congruente con tali premesse il riconoscimento di un valore assoluto alle persone in
quanto tali, almeno nel senso che meriterebbero di essere amate come noi stessi?
Ed il loro vincolo di amicizia, non dovrebbe avere in alcuni casi (per esempio,
tra i coniugi) un carattere definitivo, in qualche modo indissolubile?
Il fatto è che non risulta possibile trovare in Aristotele affermazioni esplicite
in favore di queste ultime conclusioni. Anzi, non mancano i testi che sembrerebbero escluderle, anche se in maniera sofferta, quasi dubbiosa14. Perché? Perché
nell’orizzonte aristotelico (non cristiano) è davvero molto difficile giustificare
razionalmente il valore assoluto dell’altro (degli altri) e, dunque, la donazione
definitiva in favore del suo bene.
3. Il significato dell’amore nell’orizzonte filosofico cristiano: V. Solov’ëv
Nella riflessione filosofica di V. Solov’ëv, la questione che a noi interessa è
stata l’argomento principale di una breve opera che ha proprio come titolo Il
significato dell’amore (1892-1894)15, «forse il più penetrante dei suoi scritti» (P.
Evdokimov).
11 Cfr. ibidem, VII, 6, 1240b 1-20.
12 Cfr. ibidem, 1, 1234b 28.
13 Cfr. ibidem, 6, 1240b 10.
14 Ecco, per citarne qualcuno, il seguente
monologo, quasi una riflessione ad alta voce, che ci
ha lasciato lo Stagirita: «Quando si accoglie nella propria amicizia uno che si ritiene buono,
ma poi quello risulta malvagio e ce ne si accorge, si deve forse amarlo ancora? Non è forse
vero che è impossibile, dal momento che non ogni cosa è amabile, ma solo ciò che è
buono? […] Bisogna, dunque, sciogliere l’amicizia subito? Non è forse vero che non bisogna farlo con tutti, ma solo con quelli la cui perversità sia incorreggibile, mentre quelli che
hanno la possibilità di raddrizzarsi si deve aiutarli a emendare il carattere, più che non a
ricostruire il patrimonio, tanto più quanto ciò è più nobile e più proprio dell’amicizia? Chi,
dunque, rompe un’amicizia siffatta pare che non faccia niente di strano, perché non era
amico di un uomo di tale sorta: non essendogli possibile salvare l’amico che si è trasformato, se ne separa» (ARISTOTELE, Etica Nicomachea, IX, 3, 1165b 13-22).
15 Nelle citazioni seguirò l’ottima edizione di La Casa di Matriona, Opere, vol. 1, Milano
1983, pp. 53-107.
281
note e commenti
C’è, scrive Solov’ëv nelle prime pagine di questo saggio, un solo tipo di rapporto che permette all’uomo di superare la solitudine esistenziale: il rapporto di
amore, ossia di unione, con gli altri. C’è però anche, in ogni uomo, una forza che
si oppone frontalmente a questa apertura: l’egoismo. Anzi, forse in nessuna concezione religiosa come in quella cristiana si è tanto consapevoli di quanto l’egoismo sia «una forza non solo reale ma fondamentale, radicata nel centro del
nostro essere donde permea ed abbraccia tutta la nostra realtà; una forza costantemente attiva in tutti i particolari e in tutti i dettagli della nostra esistenza»16.
Ora, proprio per questo motivo, nella concezione cristiana si è altrettanto consapevoli dell’importanza e della dignità dei legami affettivi interpersonali; molto
di più di quanto non lo fosse, per esempio, Aristotele. Infatti, sosterrà Solov’ëv,
per «sradicare realmente l’egoismo è necessario contrapporgli un amore [affettivo] che sia altrettanto concreto e indiscutibile, un amore che sia altrettanto capace di permeare e di dominare tutto il nostro essere»17. Il significato, la dignità
dei legami affettivi fra soggetti umani, dipende proprio dal fatto che essi, in qualche modo, “ci costringono” a conoscere (con l’intelligenza) e a riconoscere (con
la volontà) l’altro in quanto persona, vale a dire con quello stesso valore centrale
e assoluto che, in forza dell’egoismo, noi ammettiamo soltanto a noi stessi.
L’amore sentimentale «è importante non come uno qualsiasi dei nostri sentimenti, ma in quanto è il trasferimento di tutto il nostro interesse vitale da noi stessi
nell’altro, lo spostamento del centro stesso della nostra vita personale»18.
Questo spostamento «è proprio di ogni amore [affettivo], ma — preciserà
Solov’ëv — essenzialmente lo è dell’amore [affetto] sessuale; esso si distingue
da tutti gli altri generi di amore [affetto] per la maggiore intensità, per il carattere
più onnicomprensivo, per la possibilità di una reciprocità più piena e completa»19. Infatti, tra i fenomeni costitutivi dell’affettività umana, un posto privilegiato — anche per ragioni strettamente legate alla Rivelazione — è stato assegnato
dal pensiero cristiano in generale, e da V. Solov’ëv in particolare all’affettività
sessuale. Questa, dirà il nostro autore, ha come “oggetto” un essere che, in quanto appartenente all’altro sesso, è «dotato della stessa realtà e concretezza che
abbiamo noi ed è altrettanto pienamente oggettivato, e nello stesso tempo si
distingue in tutto e per tutto da noi così da essere realmente altro; in altre parole,
avendo tutto lo stesso contenuto essenziale che abbiamo anche noi, lo possiede
però in una maniera o secondo un aspetto diverso, in un’altra forma, così che
ogni manifestazione del nostro essere e ogni nostro atto vitale possono trovare in
questo altro una manifestazione corrispondente ma non identica, così che la loro
relazione sia uno scambio pieno e costante, una affermazione piena e costante di
sé nell’altro, un’interazione e una comunione perfette»20.
16 V. SOLOV’ËV, Il significato
17 Ibidem.
18 Ibidem, 3, 1, p. 72.
19 Ibidem.
20 Ibidem, 2, 3, pp. 68-69.
282
dell’amore, cit., 2, 3, p. 68.
Gabriel Chalmeta
Lo spostamento del centro stesso della nostra vita personale, l’affermazione
piena di sé nell’altro mediante la comunione di amore perfetta con lui o lei di cui
parla Solov’ëv in questo contesto, non sono tuttavia conseguenze dell’innamoramento, ma piuttosto prefigurazioni e promesse in qualche modo implicite in questo fenomeno affettivo (cfr. § 3.1.); prefigurazioni e promesse che l’affettività, in
quanto tale, non può né capire né compiere da sola (cfr. § 3.2.).
3.1. Le prefigurazioni e le promesse dell’innamoramento
È una tesi pacifica che Il significato dell’amore sia stato un saggio scritto in
polemica esplicita con Schopenhauer, il quale riteneva che la continuazione della
specie è nell’uomo, come negli animali, la sola o la principale giustificazione
della sessualità. Ritengo, tuttavia, che ad un livello più profondo l’interlocutore
principale di Solov’ëv in quest’opera sia stato I. Kant. L’autore russo avrebbe
infatti cercato con questo scritto di «superare (in linea di principio) l’abisso che
secondo i presupposti di Kant, separava il mondo morale da quello fisico», giacché in quest’ultimo mondo — sosteneva Kant — non esisterebbe — nulla che la
volontà possa amare universalmente e incondizionatamente21.
La risposta di Solov’ëv, come lasciano indovinare le riflessioni che poco fa
abbiamo riportato, sarà che, pur esistendo veramente un tale abisso tra il mondo
fisico e quello morale, quest’ultimo «è già prefigurato nel sentimento amoroso
stesso che, prima di qualsiasi realizzazione [libera e attiva], colloca necessariamente il proprio oggetto nella sfera della individualità assoluta, lo vede in una
luce ideale e crede nella sua assolutezza […]»22.
Infatti, «tutti sanno che nell’amore si ha una particolare idealizzazione dell’oggetto amato, che agli occhi dell’amante si presenta in una luce completamente diversa da quella in cui lo vedono gli estranei. Io parlo qui della luce non solo
in un senso metaforico. In questo caso […] si tratta di una specifica percezione
sensibile: l’amante vede realmente e visivamente percepisce qualcosa di diverso
dagli altri. È vero che questa luce d’amore si spegne anche per lui, e ben presto,
ma questo significa forse che era qualcosa di falso, che si trattava solo di un’illusione soggettiva?»23.
Come si spiega questa visione? In un primo approccio, si potrebbe rispondere
nel modo seguente. La sensibilità dell’uomo non è mai una realtà puramente psicofisica, ma si trova sempre più o meno “contaminata” dalle facoltà spirituali. Né
i suoi sensi, né la sua affettività scattano quindi solo di fronte alle caratteristiche
strettamente materiali dell’altro (“le sue misure e proporzioni fisiche”), ma piutto21 Cfr.
V. SOLOV’ËV, Profili di filosofi: Immanuel Kant, in Opere, vol. 2, La Casa di Matriona,
Milano 1989, p. 289 (si tratta della traduzione della voce “Kant” che Solov’ëv scrisse per
l’Enciclopedia Brockhaus-Efron (1891 ss.), vol. XXVII, pp. 321-339).
22 V. SOLOV’ËV, Il significato dell’amore, cit., 3, 2, p. 76.
23 Ibidem.
283
note e commenti
sto di fronte a quel modo singolare in cui lei o lui sono belli e che — per l’appunto — solo l’occhio innamorato riesce a cogliere. Mi riferisco concretamente alla
particolare percezione che gl’innamorati hanno del modo di parlare e di guardare
proprio dell’altro, del peculiare tono e delle inflessioni della sua voce, dei movimenti delle mani, del suo sorriso, ecc.; e come compendio e giustificazione più
che altro intuitivamente percepiti di queste caratteristiche dosate in maniera unica
e irrepetibile, di fronte al suo essere “una tale persona”. Tutto questo comunque
non giustifica, ovviamente, il suo valore assoluto, unico e irrepetibile.
La spiegazione, in ultima analisi, è che «la vera essenza dell’uomo in genere
e di ogni singolo uomo non si esaurisce nella datità delle sue manifestazioni
empiriche; e che non esiste alcun punto di vista dal quale si possa contrapporre a
questa affermazione una qualche obiezione ragionevole e consistente […]». Noi
sappiamo, più precisamente ancora, «che l’uomo, oltre alla sua natura materiale
e animale, ne possiede anche una ideale, la quale lo unisce alla verità assoluta,
cioè a Dio. Oltre al contenuto materiale o empirico della propria vita, ogni uomo
racchiude dentro sé l’immagine di Dio». Ora, è proprio questa la verità che ci
rivela la luce dell’innamoramento, «trasfigurando e spiritualizzando la forma dei
fenomeni esterni […]»24.
«Ma a questo punto, aggiunge immediatamente Solov’ëv, siamo noi che dobbiamo agire: siamo infatti proprio noi che dobbiamo comprendere questa rivelazione e servircene perché non rimanga il momentaneo ed enigmatico balenio di
un mistero non meglio identificato»25.
3.2. Il significato dell’amore: il compimento delle promesse dell’innamoramento
Fin qui le prefigurazioni e le promesse del fenomeno affettivo dell’innamoramento; promesse, dicevo, che l’innamoramento, in quanto tale, non può comprendere né realizzare da solo. «A questo punto, siamo noi che dobbiamo agire»:
il superamento del proprio isolamento da parte dei soggetti che sono legati affettivamente, per essere reale, esige in ogni caso — come aveva già notato
Aristotele — uno sforzo speciale per trascendere l’oggetto specifico dell’affetto,
in modo che la verità sulla persona e il vero bene dell’altro si converta nell’oggetto dell’amore reciproco. Siamo infatti proprio noi che, usando della nostra
libertà, della nostra capacità di intendere e di volere, «dobbiamo comprendere
questa rivelazione e servircene perché non rimanga il momentaneo ed enigmatico balenio di un mistero non meglio identificato»26.
24 Ibidem, 3, 3, pp. 76-77.
25 Ibidem.
26 In rapporto diretto con queste
considerazioni vanno notate le seguenti riflessioni tipicamente aristoteliche, sempre però insufficienti come spiegazione ultima del valore assoluto della
persona. Il pensiero e le operazioni ad esso connesse sono irriducibili alla vita sensitiva, ma
284
Gabriel Chalmeta
Sempre sulla scia di Aristotele, possiamo però chiederci ancora: fino a che
punto deve giungere questo amore verso la persona del prossimo se si desidera
realizzare il significato dell’affettività, e in particolare dell’affettività sessuale,
fino alle ultime conseguenze? Fino alla donazione definitiva in favore degli altri,
o di alcuno/i di essi, sarà la risposta di Solov’ëv. Solo nella misura in cui sia possibile impegnarsi per tutta la vita, si può infatti amare veramente qualcuno (nella
sua identità); se invece quest’impegno non fosse possibile, neppure si potrebbe
realmente amare qualcuno (nella sua identità). In questo senso, come ha scritto
M. Buber, la parola “Esso” è collocata nel contesto dello spazio e del tempo;
invece, la parola “Tu” non è posta nel contesto di nessuno dei due.
È vero: questo “uscire definitivamente da se stessi” per ottenere il miglioramento dell’altro e nell’altro, si presenta spesso soggettivamente come una rinuncia costosa e non facilmente comprensibile. Si direbbe, quasi, un “atto di fede”
negli altri: in lui o in lei, nel caso dell’amore coniugale. Dico fede perché l’altro,
«nella sua esistenza empirica, soggetta alla percezione sensibile e reale, non ha
un valore assoluto: esso è imperfetto per quanto riguarda la sua dignità e transeunte per quanto riguarda la sua esistenza. Possiamo quindi attribuirgli un valore assoluto in forza di una fede che è fondamento di ciò che speriamo e prova
delle cose che non vediamo. Ma che c’entra la fede nel nostro caso? Che significa propriamente credere nel valore assoluto, e per ciò stesso infinito, di un determinato essere individuale? Affermare che esso in sé e in quanto tale, nella sua
particolarità e nel suo isolamento, ha un valore assoluto, sarebbe assurdo e addirittura sacrilego. È ben vero che la parola “adorazione” è molto usata nella sfera
delle relazioni amorose, ma è altrettanto certo che in questo ambito anche la
parola “follia” ha un suo uso legittimo. Quindi, in ossequio alle leggi della logica
[…], ed in omaggio al comandamento della vera religione, che vieta l’idolatria,
quando parliamo di fede nell’oggetto del nostro amore dobbiamo intendere l’affermazione di questo oggetto come qualcosa che esiste in Dio e che solo in questo senso acquista un valore infinito»27.
Non riconoscere le difficoltà di comprendere e realizzare questo significato
dell’amore significa negare l’esperienza stessa. Tuttavia, fa pure parte della
comune esperienza percepire che questa rinuncia all’indipendenza lungi dal
comportare una diminuzione o un impoverimento della persona, è anzi motivo di
un arricchimento oggettivo del suo essere e della sua esistenza.
contengono un “plus”. Questo “plus” è spiegato da Aristotele mediante il ricorso alle categorie metafisiche di potenza e atto. L’intelligenza è, di per sé, capacità e potenza di conoscere le pure forme; a loro volta, le forme sono contenute in potenza nelle immagini della
fantasia; occorre, pertanto, qualcosa che traduca in atto questa doppia potenzialità, in modo
che il pensiero si attualizzi cogliendo in atto la forma, e la forma contenuta nell’immagine
diventi concetto colto e posseduto in atto. In questo modo, sorse quella distinzione divenuta
fonte di innumerevoli problemi e discussioni sia nella Antichità sia nel Medioevo fra “intelletto potenziale o possibile” ed “intelletto attuale o attivo”.
27 V. SOLOV’ËV, Il significato dell’amore, cit., 4, 6, p. 91.
285
286
ACTA PHILOSOPHICA, vol. 9 (2000), fasc. 2 - PAGG. 287-311
Tre proposte di società cristiana (Berdiaeff, Maritain, Eliot)
MARIANO FAZIO*
■
1. La crisi della cultura della Modernità
Il XIX secolo, almeno dal punto di vista della storia delle idee, è stato un
periodo di ottimismo. Le ideologie politiche che lo caratterizzano — liberalismo,
nazionalismo, marxismo — in quanto figlie dell’Illuminismo, hanno come uno
degli elementi decisivi della loro cosmovisione la nozione di progresso, riproposta più modernamente dallo scientismo positivista. Nel pensiero ideologico riveste particolare importanza anche l’elemento escatologico o utopico: il trionfo
dell’ideologia e l’avanzare della scienza avrebbero portato con sé l’avvicinarsi di
un futuro felice e più degno dell’uomo.
Fatte queste premesse, è facile rendersi conto che l’avvento della Prima
Guerra Mondiale è stato un autentico shock culturale: invece di pace, libertà, giustizia e benessere, la Modernità sboccava in un conflitto bellico di dimensioni
mai viste nella storia. Logicamente, il 1919 segnerà l’inizio di una consapevolezza sempre più acuta della crisi della cultura. Lo storico delle idee, abituato a convivere con interpretazioni dei processi culturali molto diverse, si sorprende nel
constatare che attorno alla fine della Grande Guerra tra gli intellettuali esiste una
quasi unanimità nell’affermare che la crisi c’è. Ovviamente le diagnosi sono differenti, ma è importante sottolineare questa consapevolezza generalizzata della
crisi.
Seguendo Gonzalo Redondo diciamo che «negli anni immediatamente successivi al 1919 i filosofi, i teologi, gli storici, i poeti o gli artisti parlarono
ampiamente della crisi culturale. Si occuparono della crisi culturale Paul Valéry
— che nello stesso 1919 scriveva: «Noi, le civiltà, sappiamo ora di essere mor*
Pontificia Università della Santa Croce, Piazza di Sant’Apollinare 49, 00186 Roma
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note e commenti
tali»1— Franz Kafka, André Malraux, Oswald Spengler, Guglielmo Ferrero,
José Ortega y Gasset, Arnold Toynbee, Christopher Dawson, Max Scheler,
Nicolai Hartmann, Edmund Husserl, Martin Heidegger, Thomas Mann, Marcel
Proust, Aldous Huxley, Max Horkheimer, Theodor Adorno, Max Pollock,
Walter Benjamin, Erich Fromm, Herbert Marcuse, Antonio Gramsci, Jacques
Maritain, Thomas S. Eliot… l’elenco, per essere completo, dovrebbe includere
tutti i pensatori del periodo compreso tra le due guerre — dal 1919 al 1939.
Nell’elenco completo figura anche il Papa Pio XI che resse la Chiesa durante la
maggior parte di questi anni»2.
Unanimità nel constatare la crisi, diversità nell’interpretarne le cause. Di
fronte alla tragedia della guerra si aprivano diverse strade per lo spirito umano.
Alcuni si resero conto che si trattava di una crisi di valori; altri pensarono che la
causa era eminentemente economica; altri, infine, arrivarono alla conclusione
che bisognava spingere le ideologie fino alle ultime conclusioni. Attorno a questi
anni si verificò un movimento di avvicinamento al religioso, alla trascendenza.
Ci furono conversioni al cattolicesimo o ad altre confessioni cristiane da parte di
alcuni intellettuali occidentali (T.S. Eliot, G.K. Chesterton, J. Maritain, G.
Marcel, E. Waugh, S. Undset, ecc.), originate in parte dal rifiuto dell’essenza
delle ideologie moderne, cioè l’affermazione dell’autonomia assoluta dell’uomo.
Ci furono correnti filosofiche che “ossigenano” l’atmosfera chiusa del positivismo, dell’idealismo e del materialismo decimononico, quali lo spiritualismo, il
personalismo, la filosofia dell’azione, il neotomismo; altri proposero “filosofie
dei valori” come tentativi per arginare la decomposizione sociale e spirituale
dopo la Grande Guerra (M. Scheler, N. Hartmann); contemporaneamente, alcuni
storici guardarono al passato per trovarvi punti di riferimento che potessero servire per costruire sulle macerie della guerra (W. Jaeger, J. Huizinga, C. Dawson).
Caratteristica comune di questi critici è il rendersi conto che la causa ultima
della crisi era una sbagliata concezione della natura umana. Se l’affermazione
assoluta dell’autonomia dell’uomo, con la sempre più generalizzata libertà di
1
2
Riportiamo di seguito la citazione completa di Paul Valéry: «Noi, le civiltà, sappiamo ora di
essere mortali. Abbiamo sentito parlare di mondi completamente scomparsi, di imperi
sprofondati, con i propri uomini e le proprie opere; sepolti sotto lo strato inesplorabile dei
secoli con i propri dei e le proprie leggi, con le proprie accademie e le proprie scienze pure
ed applicate, con le proprie grammatiche ed i propri dizionari, con i propri classici, con i
propri romantici e i propri simbolisti, con i propri critici ed i propri critici dei critici.
Sappiamo bene che tutta la terra visibile è fatta di cenere e che la cenere significa qualcosa.
Scorgevamo, attraverso lo spessore della storia, i fantasmi di immensi vascelli carichi di
ricchezza e di ingegno… Elam, Ninive, Babilonia, erano nomi che affascinavano, ma indeterminati e la scomparsa totale di quei mondi aveva per noi lo stesso poco significato che
aveva la loro stessa esistenza. Francia, Inghilterra, Russia saranno un giorno nient’altro
che nomi affascinanti. […] Così ci accorgiamo che l’abisso della storia è divenuto tanto
grande da accogliere tutto il mondo…» (P. VALÉRY, La crise de l’esprit, Paris 1919, in
Varieté I, pp. 11-12).
G. REDONDO, Historia Universal, Eunsa, Pamplona 1984, vol. XIII, p. 28.
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Mariano Fazio
coscienza — la coscienza non avrebbe nessun parametro oggettivo con cui misurarsi, e quindi rimane completamente libera e padrona di sé —, portò allo scontro
tra milioni di uomini, era forse perché l’uomo non è un individuo assolutamente
autonomo, o perché le diverse nazioni, idolatrate dal nazionalismo, in realtà non
incarnano i valori più alti. Questa consapevolezza della mancata fondazione
antropologica delle ideologie post-illuministiche portava come conseguenza una
crisi nella concezione dello Stato, dell’economia — crisi che il crollo di Wall
Street nel 1929 si occuperà di rendere ancora più evidente —, della stessa funzione della scienza, che prima si considerava come medicina per rimediare tutti i
problemi dell’umanità.
Nel periodo tra le due Guerre Mondiali, alcuni intellettuali cristiani hanno
pensato e scritto su possibili modi di organizzare cristianamente la società. Per
molti, l’unica soluzione alla crisi della cultura era il ritorno all’impostazione religiosa dell’esistenza umana e dei rapporti tra gli uomini. Abbiamo scelto tre di
questi autori: Nicola Berdiaeff (1874-1948), Jacques Maritain (1882-1973) e
Thomas Stearns Eliot (1888-1965). La scelta non è casuale: penso che si tratta di
tre autori rappresentativi di questo periodo chiave del XX secolo. Questi tre
autori si sono convertiti al cristianesimo dopo aver militato nell’ambito delle
ideologie post-illuministiche: Berdiaeff supera un primo periodo marxista per
approdare nell’Ortodossia russa, anche se manterrà alcuni elementi della sua
filosofia della storia non completamente ortodossi; Maritain milita nel socialismo ed è uno scientista convinto, prima di sentire le lezioni di Bergson al
Collège de France e di conoscere il poeta cattolico Léon Blois, che lo spinse
verso la conversione al cattolicesimo; T. S. Eliot si converte all’anglo-cattolicesimo della High Church anglicana, dopo un periodo di scetticismo. I tre autori rappresentano culture diverse: la russa, la francese e l’anglosassone. I tre si conoscono, ed è noto l’influsso di Berdiaeff su Maritain e di Maritain su Eliot. Nelle
seguenti pagine presenteremo le riflessioni di questi autori sulla necessità di
rifondare la società su basi cristiane. Ci limiteremo ad esporre il contenuto di tre
libri scritti nel periodo fra le Guerre. Il primo è del 1924 (Un Nuovo Medioevo,
di Berdiaeff), il secondo del 1936 (Umanesimo integrale, di Maritain) e l’ultimo
del 1939 (L’idea di una società cristiana, di Eliot)3.
3
La bibliografia su questi tre autori è molto vasta. Per lo scopo di questo articolo ci limitiamo a suggerire i seguenti titoli: su Berdiaeff, O. CLEMENT, Berdiaev. Un philosophe russe
en France, Desclée de Brouwer, Paris 1991; F. COPLESTON, Russian Religious Thought.
Selected Aspects. University of Notre Dame, Indiana 1988; G. PIOVESANA, Storia del pensiero filosofico russo, Paoline, Cinisello Balsamo 1992. È molto utile la “scheda biografica” in N. BERDJAEV, Filosofia dello Spirito Libero. Problematica e apologia del cristianesimo, ed. it. a cura di Giuseppe Riconda, San Paolo, Cinisello Balsamo 1997, pp. 62-66.
Su Maritain, J.-L. BARRÉ, Jacques et Raïsa Maritain. Les Mendiants du Ciel, Stock, Paris
1996; J.M. B URGOS , Cinco claves para comprender a Jacques Maritain, «Acta
Philosophica», 4/I (1995), pp. 5-25; G. CAMPANINI, L’utopia di una nuova cristianità.
Introduzione al pensiero politico di J. Maritain, Morcelliana, Brescia 1975; I DEM ,
Cristianesimo e Democrazia, Morcelliana, Brescia 1980; IDEM, La filosofia politica del
289
note e commenti
2. Un Nuovo Medioevo, di Nicola Berdiaeff (1924)
Nel 1924 Nicola Berdiaeff pubblica un saggio intitolato Un Nuovo Medioevo.
Lì, il filosofo russo analizza la crisi della cultura della Modernità, sia nell’Occidente europeo che in Russia, e propone alcune soluzioni per uscirne.
2.1. La fine del Rinascimento
Secondo Berdiaeff, il momento culturale del suo tempo segna la fine del
Rinascimento. Cos’è per il nostro autore il Rinascimento? È un nuovo sentimento della vita e un nuovo rapporto dell’uomo con l’universo, che si fonda sull’umanesimo antropocentrico e autonomo che segna la fine del Medioevo. Il modello rinascimentale si è esaurito, e l’autoaffermazione dell’uomo finì con la sua
autodistruzione: «L’umanesimo non ha rafforzato l’uomo, ma lo ha indebolito:
questo è lo sviluppo paradossale della storia moderna. Attraverso la sua autoaffermazione, l’uomo si è perso, invece di trovarsi. Se l’uomo europeo entrò nella
storia moderna pieno di fiducia in se stesso e nelle sue potenze creatrici, se negli
albori di quest’epoca gli sembrò che tutto dipendeva dalla sua arte, la quale veniva considerata senza frontiere né limiti, adesso ne esce per penetrare in un’epoca
inesplorata, con una grossa depressione, con la sua fede a pezzi — quella fede
che l’uomo aveva nelle proprie forze e nel potere della sua arte — minacciato dal
pericolo di perdere per sempre il nucleo della sua personalità»4.
L’uomo nuovo voleva essere l’autore e l’ordinatore della vita, sperimentare la
sua libertà. L’umanesimo tentò di liberarsi dai lacci che lo legavano al centro
religioso della sua esistenza, onnipresente durante i secoli medioevali. Si pensò
che l’epoca moderna aveva scoperto l’uomo: in realtà, in questo processo di
autoaffermazione l’uomo ha perso il suo centro e la sua profondità esistenziale e
si limitò a vivere nella superficie. Il progetto rinascimentale privò l’uomo di
molte ricchezze vitali: «Per ingrandire l’uomo, l’umanesimo lo privò della sua
somiglianza divina e lo sottomise alla necessità naturale» (p. 21).
Le prime manifestazioni del Rinascimento sono molto feconde e belle. Non si
trattò di un semplice tornare all’Antichità, dato che tornare indietro nella storia è
impossibile. I primi umanisti erano dei cristiani che avevano un’eredità culturale
permeata dalla fede cattolica. Secondo Berdiaeff, l’attività creatrice dell’uomo si
4
Novecento in Francia e in Italia, in AA.VV., Stato Democratico e Personalismo, Vita e
Pensiero, Milano 1995.
Su Eliot, P. ACKROYD, T.S. Eliot, Hamish Hamilton, London 1984; A. AUSTIN, T.S. Eliot:
The Litterary and Social Criticism, Indiana University Press, Bloomington 1971; W. LITZ,
Eliot in his Time, Princeton University Press, New Jersey 1972; J. PEARCE, Litterary
Converts, Harper Collins, London 1999.
N. BERDIAEFF, Una Nueva Edad Media, Club de Lectores, Buenos Aires 1946, pp. 12-13.
La traduzione italiana è nostra.
290
Mariano Fazio
trovava già nella sua pienezza durante il Medioevo cattolico. Anzi, fu il cattolicesimo medioevale a trasmettere la cultura classica alla posterità. Il cattolicesimo
sempre ha avuto una forza umana molto grande: non conduceva l’uomo soltanto
al cielo, ma suscitava anche la bellezza e la gloria sulla terra: «La tendenza verso
il cielo e la vita eterna genera bellezza e produce il potere nella vita temporale
terrestre […]. L’ascetismo medioevale era una straordinaria scuola per l’uomo:
dava all’uomo una tempra sublime. E l’uomo europeo della storia moderna ha
vissuto grazie a quanto aveva acquisito in quella scuola. Tutto lo deve al cristianesimo […]. Il cristianesimo è continuato a vivere in lui sotto una forma secolarizzata, preservandolo dalla decomposizione» (p. 23). Il primo Umanesimo era
antico e cristiano, beveva dalla tradizione classica e da quella cristiana. Non era
antireligioso: anzi, rappresentava una più completa manifestazione della rivelazione cristiana grazie alla rivalutazione di alcuni aspetti della soggettività, quale
la libertà. Ma quando l’umanesimo voltò le spalle a Dio, avvenne la rottura interiore dell’uomo, l’apparizione della superficialità e la perdita dei valori antichi e
medioevali.
L’umanesimo del XIX e XX secolo manifesta l’esaurimento del progetto rinascimentale. Berdiaeff elenca le manifestazioni più importanti della distruzione
umanista dell’uomo: si perde la concretezza dell’uomo spirituale, e si passa all’astrattezza dell’uomo individualista, semplice atomo dove la personalità si disperde. Berdiaeff sottolinea che dall’individualismo liberale assoluto si è passato al
collettivismo comunista assoluto, due forme di atomizzazione, di decomposizione astratta sia della società che della personalità. Nietzsche e Marx illustrano
genialmente l’autonegazione e l’autodistruzione dell’umanesimo.
L’umanesimo comportò anche la perdita della struttura organica della vita,
con le sue gerarchie e i suoi punti di riferimento esistenziali. Come conseguenza
si scatenò un processo di crescente meccanizzazione della vita, che arrivò al suo
apogeo con la Rivoluzione industriale: «La macchina ha distrutto la struttura
secolare della vita umana, organicamente vincolata con la vita della natura. La
meccanizzazione della vita rompe la gioia del Rinascimento, rendendo impossibile l’espansione creatrice della vita. La macchina uccide il Rinascimento» (p.
37). L’uomo rinascimentale contempla la natura, impara dalle sue forme, ricerca
scientificamente i suoi misteri. Ma a poco a poco con la meccanizzazione della
vita che uccide sia l’uomo che la natura, l’uomo si separa dalla natura e lotta
contro di essa. Berdiaeff unisce questo processo ad alcune forme dell’arte contemporanea quale il futurismo, dove si perde l’immagine naturale dell’uomo, che
si degrada a livello delle cose inanimate. Anche nell’àmbito filosofico l’immagine dell’uomo si perde nella gnoseologia critica. Quando l’uomo dimentica il suo
centro spirituale e nega l’origine spirituale del suo essere, perde se stesso e perde
la sua immagine eterna.
Possiamo finire questa descrizione di Berdiaeff della Modernità — o meglio,
sul processo di decadenza del Rinascimento — con le seguenti parole: «Il
Rinascimento iniziò con l’affermazione dell’individualità creatrice dell’uomo e
291
note e commenti
terminò nella negazione di questa individualità. L’uomo senza Dio smette di
essere uomo: questo è il senso religioso della dialettica interna della storia
moderna, storia della grandezza e della decadenza delle illusioni umanistiche.
L’uomo in stato di disperazione, svuotata la sua anima, diventa schiavo non delle
forze superiori, sovrumane, ma degli elementi inferiori e infraumani. Lo spirito
umano si copre di tenebre, e viene posseduto da spiriti inumani. L’elaborazione
della religione umanista, della definitiva divinizzazione dell’uomo e dell’umano,
costituisce precisamente i prodromi della fine dell’umanesimo, la sua autonegazione, l’esaurimento delle sue forze creatrici» (p. 50).
2.2. Il nuovo Medioevo
Per Berdiaeff, una volta esaurito il progetto rinascimentale, si aprirà una
nuova epoca nella storia dell’umanità, dopo una congiuntura di barbarie, la cui
manifestazione più tragica è stata la Prima Guerra Mondiale. In concreto, il filosofo russo parla di un nuovo Medioevo. Questa espressione deve essere capita
nel suo senso giusto: Berdiaeff non è un nostalgico che vuole tornare indietro
nella storia. Non lo vuole perché si rende conto che questo è impossibile: nemmeno il Rinascimento è stato un ritorno all’Antichità. Il Medioevo nuovo avrà
alcune somiglianze con l’antico, come il Rinascimento ne ha rispetto all’Antichità, ma sarà un’epoca nuova.
Il nostro autore distingue tra periodi storici diurni e notturni. Commentando
alcune poesie di Tiutcheff, Berdiaeff considera che i periodi diurni sono quelli
superficiali e razionalisti, come i tempi moderni: il sole espande un velo di luce
che non lascia guardare la realtà in profondità. I periodi notturni, invece, sono
quelli profondi, caratterizzati da un sopra-razionalismo, o se si vuole, dal pensiero metafisico ed ontologico. Il Medioevo cristiano è stato un periodo notturno, e
ci avviamo verso un’altra epoca tenebrosa, intesa non nel senso in cui il Secolo
dei Lumi giudicava la cristianità medioevale, ma in questo appena accennato
della profondità metafisica. In altre parole, il nuovo Medioevo sarà un’epoca
sacra, religiosa. I tempi moderni ci hanno insegnato che senza Dio l’uomo scompare. I nuovi tempi non possono accettare una visione della religione propria
della cosmovisione individualistico-liberale, cioè la considerazione della fede
come qualcosa di privato. No, la religione sta diventando qualcosa di generale, di
collettivo. In concreto, Berdiaeff pensa che si arriverà a stabilire una lotta frontale tra la religione del Vero Dio, di Cristo, e quella dell’Anticristo, identificata,
quando scrive questo libro, con il comunismo sovietico. Con la Rivoluzione del
1917, Russia è già entrata nel nuovo Medioevo. Perciò, ribadiamo, Berdiaeff non
è un nostalgico ingenuo che sogna un passato aureo: il carattere religioso della
nuova epoca significa una società permeata dallo spirito cristiano, ma dove il
peccato non è scomparso e dove la lotta tra il bene e il male si fa più drammatica.
Come già è stato segnalato, i tempi moderni sono caratterizzati da una visione
292
Mariano Fazio
dell’uomo individualista e autonoma: il Rinascimento doveva liberare, emancipare l’uomo dalla teocrazia e dalle imposizioni medioevali. Liberalismo, democrazia, parlamentarismo, filosofia razionalista, industrialismo, positivismo,
socialismo, comunismo e tanti altri movimenti culturali si autoproclamarono
liberatori. Ma l’uomo moderno arriva alla fine del Rinascimento senza sapere
qual è lo scopo, la finalità della libertà e del suo agire. Perciò, le nuove forme
sociali e la nuova cultura devono indicare le strade da seguire, gli scopi da raggiungere.
Berdiaeff — che scopre nel capitalismo e nel socialismo la stessa matrice
ideologica, cioè l’economicismo — considera che uno degli ambiti al quale si
deve prestare più attenzione per segnalare gli scopi esistenziali è quello del lavoro. Dopo la Grande Guerra il capitalismo entrò in crisi, e sarà difficile ritrovare
la disciplina di lavoro delle società capitalistiche. Il socialismo non sarà capace
di farlo. «Le ragioni spirituali del lavoro si sono corrotte, senza che se ne trovassero altre. La disciplina del lavoro è una questione vitale per le società contemporanee. Ma si tratta della santificazione e della giustificazione del lavoro. Il
capitalismo e il socialismo non si pongono la questione, perché non si interessano del lavoro in quanto tale» (p. 87). Berdiaeff prospetta un mondo economicamente più povero, meno abitato perché sarà doverosa una limitazione della crescita della popolazione mondiale. Sarà un mondo più vicino alla natura, con una
proprietà privata più limitata e spiritualizzata. «La fine del capitalismo è la fine
della storia moderna e l’inizio del nuovo Medioevo. La grandiosa impresa della
storia moderna deve essere liquidata, gli affari non sono ben riusciti» (p. 88).
Un altro ambito che cambierà volto nel nuovo Medioevo sarà quello del rapporto tra cittadino e nazione. L’individualismo portò verso il nazionalismo,
un’altra manifestazione dell’atomizzazione moderna. Il nazionalismo è una religione pagana, che mette la nazione al posto di Dio. Il cristianesimo, invece, è
universalista. L’apparizione della religione cristiana significò la fine del particolarismo pagano. I tempi moderni, con l’allontanarsi dal centro religioso, sono
ritornati al nazionalismo pagano. Ma le circostanze attuali sono diverse: il dolore
della Grande Guerra finì per unire i popoli nella stessa sofferenza, i rapporti si
sono accresciuti, gli interessi sono ormai mondiali: «Il mondo distrutto della storia moderna, fatto a pezzi dalle sanguinose lotte fra le nazioni, le classi e gli individui, incline anche al sospetto e all’odio, si incammina adesso verso l’unificazione universalista, verso la vittoria sul particolarismo nazionale esclusivo che
ha portato le nazioni alla caduta e alla decomposizione» (p. 91). I movimenti che
tendono verso questa universalizzazione appartengono già al nuovo Medioevo.
In questo senso, l’internazionalismo comunista è una forza medioevale, come lo
è anche il cristianesimo universalista.
Il nuovo Medioevo sarà un’epoca religiosa, come religiosa è stata l’epoca
medioevale precedente. Comunque, ci saranno delle differenze. Berdiaeff sostiene che ogni cultura si manifesta mediante simboli. Per il filosofo russo il primo
Medioevo fu un periodo fortemente simbolico e figurativo. Ora, la simbologia
293
note e commenti
medioevale creò confusione tra il Regno di Dio e le società terrene. La teocrazia
medioevale finì per essere un simulacro del Regno di Dio in questa terra, che
provocò violente reazioni contrarie, giacché questo Regno non si può imporre
con la forza. Nel Medioevo «non si è tenuta in considerazione la libertà dello
spirito umano che consente volontariamente alla realizzazione del Regno di
Cristo sulla terra» (p. 183). Il filosofo russo è convinto che è impossibile tornare
all’antico Stato Teocratico, che in realtà è stato un insuccesso, dato che «non ha
realizzato effettivamente la verità di Dio, ma solamente ha simulato di realizzarla
medianti segni esteriori» (p. 185). Il nuovo Medioevo, invece, deve realizzare
una autentica trasfigurazione della vita, cioè la religione deve penetrare in ogni
ambito della vita umana, trasfigurando la propria esistenza: «Nessuna sfera della
creazione, nessuno degli aspetti della cultura e della vita sociale può restare neutrale in materia religiosa, vale a dire completamente laici. La filosofia non si propone di diventare serva della teologia, né la società ha l’intenzione di sottomettersi alla gerarchia ecclesiastica. Ma all’interno della conoscenza, all’interno
della vita sociale si sveglia una volontà religiosa. Le forme della conoscenza e
della società dovranno scaturire dall’interno, zampillare dalla libertà dello spirito
religioso» (pp. 95-96).
Berdiaeff, ribadiamo, non vuole un ritorno alla teocrazia medioevale. La religione dovrà ispirare l’intera esistenza umana, ma non per l’imposizione di alcune
forme sociali: anzi, le forme sociali sorgeranno dalla fede fatta vita negli uomini
neo-medioevali. Il rifiuto dell’eteronomia della teocrazia medioevale portò verso
l’autonomia moderna, che in realtà cadde in una completa anomia morale.
Berdiaeff propone un terzo concetto, la teonomia libera, che manifesterà la
volontà di raggiungere realmente — e non solo simbolicamente — il Regno di
Dio. «La conoscenza, la morale, le arti, lo Stato, l’economia, devono diventare
religiose, ma liberamente, dall’interno, non per coazione e dall’esterno. Nessuna
teologia regge dall’esterno il processo della mia conoscenza, né mi impone nessuna norma. La conoscenza è libera. Ma io non posso realizzare le finalità della mia
conoscenza senza indirizzarmi verso l’esperienza religiosa, senza una iniziazione
filosofica nei misteri dell’essere. In questo io sono ormai un uomo del Medioevo,
non sono più un uomo della storia moderna. Io non cerco l’autonomia della religione, ma la libertà entro la religione. Nessuna gerarchia regge né regola oggi la
vita sociale né la vita dello Stato. Nessun clericalismo potrà appropriarsi della
forza esterna. Ma io non posso creare di nuovo lo Stato e la società che sono in
processo di decomposizione se non in nome di principi religiosi. Io non cerco
l’autonomia dello Stato e della società di fronte alla religione, ma il fondamento e
il rafforzamento dello stato e della società entro la religione. Per nulla al mondo
voglio essere libero rispetto a Dio; voglio essere libero in Dio e per Dio. Nel terminare il movimento di allontanamento da Dio, inizia il movimento di avvicinamento a Dio; quando il movimento stesso di allontanamento da Dio prende il
carattere di un movimento verso il diavolo, allora inizia il Medioevo, ponendo
fine ai tempi moderni. Dio deve tornare ad essere il centro di tutta la nostra vita; il
294
Mariano Fazio
nostro pensiero, il nostro sentimento, il nostro unico sogno, la nostra unica fede,
la nostra unica speranza. La mia sete di una libertà senza limiti deve essere compresa come un conflitto con il mondo, non con Dio» (pp. 96-97).
Berdiaeff auspica la fine di una cultura laicista, che non voleva fondarsi su
basi trascendenti. La religione, nei tempi moderni, era rimasta isolata nel tempio.
La Chiesa, invece, è cosmica. Di conseguenza, la fede deve permeare tutti gli
aspetti della vita individuale e sociale. «La crisi della cultura consiste precisamente che essa (la cultura) non può restare in una neutralità umanista nel terreno
religioso, ma deve diventare, inevitabilmente, o una civiltà atea e anticristiana,
ovvero una cultura sacra totalmente animata dalla Chiesa, una trasfigurazione
cristiana della vita» (p. 99). Non si tratta di un ritorno al clericalismo medioevale, ma di mettere in atto una reale trasformazione della vita. Il filosofo russo considera che per fare questo «si dovrà elaborare un tipo speciale di vita monastica
nel mondo, una sorta di ordine religioso nuovo. Si porrà finalmente il problema
del senso religioso, della santificazione religiosa del lavoro, sul quale l’epoca
moderna non ha voluto sapere nulla» (p. 106).
Finiamo la nostra esposizione della dottrina di Berdiaeff con le parole con cui
chiude la seconda parte del suo libro. Un’altra volta si comproverà che il nostro
autore non è un sognatore di paradisi futuri né un nostalgico di paradisi perduti:
«L’avvenire è doppio e non crediamo indispensabile né obbligatorio sperare in
un avvenire ridente e brillante. Gli aneliti di felicità terrestre non esercitano
alcun potere su di noi. Il sentimento del male è più forte e più acuto nel nuovo
Medioevo. La forza del male crescerà e prenderà nuove forme per causare nuovi
dolori. Però all’uomo è stata data la libertà di spirito, la libertà di scegliere il suo
cammino. I cristiani devono indirizzare la loro volontà verso la creazione di una
società cristiana e di una cultura cristiana, mettendo al di sopra di ogni cosa la
ricerca del Regno di Dio e la sua verità. Molte cose dipendono dalla nostra
libertà, cioè dagli sforzi creatori dell’uomo. Perché difatti si possono seguire due
cammini. Prevedo una spinta delle forze del male nell’avvenire, ma ho voluto
determinare gli elementi positivi possibili della società futura. Siamo gente del
Medioevo, non soltanto perché tale è il destino, la fatalità della storia, ma anche
perché lo vogliamo. Voi siete ancora gente della storia moderna perché non volete scegliere. E nel presentimento della notte bisogna armarsi spiritualmente per la
lotta contro il male, fare più acuta la capacità di discernere, elaborare una nuova
cavalleria: Il flusso cresce e ci trascina / verso una immensa oscurità… / mentre
navighiamo per l’abisso / accerchiati da tutti i lati» (pp. 109-110).
3. Umanesimo Integrale, di Jacques Maritain (1936)
Nell’agosto del 1934 Jacques Maritain tenne sei lezioni ai corsi estivi
dell’Università di Santander. In Spagna si pubblicò il testo delle lezioni con il titolo Problemas espirituales y temporales de una nueva cristiandad. Maritain decise
295
note e commenti
di rielaborare il testo e di ampliarlo. Così, nel 1936 pubblicò in Francia l’opera
più caratteristica del suo pensiero nel periodo fra le due guerre: Humanisme intégral. Molte delle tematiche sviluppate dal filosofo francese in questo libro erano
già state analizzate in altre opere precedenti: Religion et culture (1930); Du
Régime temporel et de la Liberté (1933); Science et Sagesse (1935).
3.1. Medioevo e Modernità
Maritain analizza ciò che lui chiama “la tragedia dell’umanesimo”, cioè la
progressiva perdita di una visione trascendente dell’uomo nei secoli della storia
moderna, e propone una uscita dai totalitarismi comunista e fascista, che sono
l’ultima conseguenza dell’antropocentrismo moderno5. L’uscita o l’alternativa è
una nuova cristianità, che manterrà il primato dello spirituale della cristianità
medioevale, ma aggiungerà elementi nuovi, moderni, che supereranno gli elementi clericali e tendenzialmente teocratici medioevali.
Il filosofo francese afferma che «la nozione di umanesimo integrale esprime
il carattere distintivo della nuova cristianità»6. Ciò vuol dire che la nuova società
si dovrà fondare su una visione dell’uomo diversa da quella medioevale e diversa
anche da quella antropocentrica moderna. L’immagine medioevale dell’uomo è
quella propria di un essere insieme naturale e sovrannaturale, creato da Dio e
destinato all’eternità. Questi elementi non sono medioevali ma cristiani senza
aggettivi. La nota caratteristica della visione medioevale è l’atteggiamento troppo oggettivo della sua prospettiva: Maritain parla di “una certa inumanità teologica” che non riesce a scoprire i lati soggettivi e più intimi della persona, per
mancanza di riflessione (p. 19). Non è che questi manchino completamente, dato
che «il medioevo ha avuto un senso profondo e eminentemente cattolico della
parte del peccatore e delle iniziative a lui proprie, delle sue resistenze, e delle
misericordie di Dio nei suoi confronti nella economia provvidenziale. Ha avuto
un senso profondo della natura, della sua dignità come della sua debolezza; ha
conosciuto, più d’ogni altra epoca, il prezzo della pietà umana e delle lagrime.
Ma tutto ciò era vissuto più che cosciente, più che oggetto di conoscenza riflessa.
E se noi considerassimo soltanto i documenti della tradizione teologica media
(non parlo di S. Tommaso che è troppo grande per caratterizzare un’epoca)
potremmo credere, e sarebbe un errore, che il pensiero medioevale ha conosciuto
la creatura umana solo in funzione dei problemi soteriologici e delle esigenze
divine nei riguardi dell’uomo, in funzione delle leggi oggettive della moralità
richiesta da lui, e non in funzione delle risorse soggettive delle sue grandezze e
del determinismo soggettivo delle sue miserie» (p. 20).
5
6
Cfr. A. PAVAN, Maritain: da “Umanesimo integrale” a “L’uomo e lo Stato”, in AA.VV.,
Stato Democratico e Personalismo, cit., p. 63.
J. MARITAIN, Umanesimo Integrale, Studium, Roma 1946, p. 224.
296
Mariano Fazio
Come reazione a questo oggettivismo medioevale, le correnti di pensiero
moderne si indirizzeranno verso le analisi soggettive, verso la riflessione sulla
condizione umana. Questo elemento riflessivo era senz’altro positivo e poteva
arricchire la visione medioevale dell’uomo. Purtroppo, il progetto rinascimentale
che si presentava pieno di speranza sfociò in un antropocentrismo sempre più
chiuso alla Trascendenza. Maritain parla di tre periodi della cultura moderna: 1)
il XVI e il XVII secolo, periodo di umanesimo cristiano, dove Dio svolge solo
un ruolo di garante; 2) il XVIII e il XIX secolo, periodo dell’ottimismo razionalista, dove Dio diventa un’idea; 3) il XX secolo, caratterizzato dal rovesciamento
materialista dei valori, dove Dio muore (cfr. pp. 34-35). Alla stregua di
Berdiaeff, il nostro autore lamenta che la crescita della consapevolezza della soggettività propria della Modernità, sia stata fatta non sotto il segno dell’unità, ma
sotto il segno della divisione. La opposizione radicale tra grazia e libertà dell’antropologia protestante, e tra res cogitans e res extensa del razionalismo cartesiano portarono verso un antropocentrismo che finì per essere autodistruttivo.
«L’uomo, dimenticando che nell’ordine dell’essere e del bene, è Dio che ha l’iniziativa primaria e vivifica la nostra libertà, ha voluto fare del movimento suo
proprio di creatura il movimento assolutamente primario, dare alla sua libertà di
creatura l’iniziativa primaria del proprio bene. Era quindi necessario che il suo
movimento d’ascensione fosse da allora separato dal movimento della grazia, ed
è perciò che l’età in argomento è stata un’età di dualismo, di dissociazione, di
sdoppiamento, un’età d’umanesimo separato dall’Incarnazione, nella quale lo
sforzo del progresso doveva prendere un carattere fatale e contribuire esso stesso
alla distruzione dell’umano. In breve, che il vizio radicale dell’umanesimo antropocentrico è stato d’essere antropocentrico e non d’essere umanesimo» (p. 31).
3.2. Umanesimo teocentrico e umanesimo antropocentrico
L’alternativa che resta dopo questo processo storico è tra un umanesimo teocentrico e un umanesimo antropocentrico. Il primo riconosce che Dio è il centro
dell’uomo, e considera l’uomo come peccatore e redento; il secondo crede che
l’uomo stesso sia il centro dell’uomo, e implica un concetto naturalistico dell’uomo e della libertà. Quest’ultima visione dell’uomo autoreferenziale subirà le
conseguenze delle teorie riduttive di Darwin e di Freud, che distruggono la concezione razionalista dell’essere umano. Maritain è contundente al momento di
trarre le conseguenze di quest’alternativa: «Giunti al termine d’una evoluzione
storica secolare, ci troviamo in presenza di due posizioni pure: la posizione atea
pura e la posizione cristiana pura» (p. 36).
La posizione atea pura viene rappresentata dal comunismo sovietico. Maritain
concepisce il comunismo come una religione sostitutiva, fondata sull’ateismo.
Nell’analizzare le cause dell’apparizione del comunismo, il filosofo si sofferma
lungamente sull’insuccesso dei cristiani del XIX secolo, i quali non crearono un
297
note e commenti
mondo veramente cristiano, che implica la giustizia sociale. Di qui il risentimento comunista contro il mondo cristiano. La fede cristiana non si fece vita nelle
strutture del mondo temporale. Il mondo cristiano «ha rinchiuso la verità e la vita
divina in una parte limitata della propria esistenza — nelle cose del culto e della
religione e, almeno fra i migliori, nelle cose della vita interiore. Quelle della vita
sociale, della vita economica e politica, le ha abbandonate alla loro legge carnale, sottratte alla luce di Cristo» (p. 43). Se questo è vero per il mondo occidentale
borghese e liberale, all’oriente dell’Europa l’atteggiamento esistenziale
dell’Ortodossia russa non aiutò a migliorare le cose: «da una parte, la natura e la
ragione non vi hanno mai preso il loro posto rispettivi. L’ordine naturale come
tale non v’è stato mai riconosciuto; il razionale v’è stato sempre tenuto in sospetto» (p. 61). Dall’altra parte, ci sarebbero tendenze nazionalistiche paganizzanti
all’interno dell’Ortodossia, che hanno bisogno di purificazione.
Se il comunismo sovietico rappresenta la posizione atea pura, ci sono due
possibili posizioni cristiane. L’una è tornare al pessimismo puro del protestantesimo primitivo: l’uomo è un nulla e bisogna ascoltare solo Dio. Sarebbe la posizione sostenuta da Karl Barth. La seconda, quella condivisa dal nostro autore, è
la posizione tomistica: bisogna arrivare alla trasformazione sostanziale delle
strutture culturali moderne, passando ad una nuova età della civiltà (p. 63).
Maritain considera che la filosofia di san Tommaso ha degli strumenti metafisici
e gnoseologici adatti per servire da base ad una filosofia sociale ispirata ai valori
del Vangelo. Tra questi elementi spiccano il realismo gnoseologico e la distinzione tra ordine naturale e ordine soprannaturale. Si tratta di formare una nuova età
di cultura cristiana, fondata su una riabilitazione della creatura in Dio. Con altre
parole, Maritain propone un umanesimo dell’Incarnazione, che dà valore al
mondo del creato non mediante il distacco da Dio, come pretese l’umanesimo
antropocentrico, ma attraverso il riconoscimento della sua giusta autonomia e al
contempo della sua finalizzazione in Dio. La nuova età della cultura cristiana
sarà — a differenza del Medioevo —, un’epoca riflessa, dove l’uomo prende
coscienza di sé. «Una tale coscienza di sé implica un rispetto evangelico della
natura e della ragione, di queste strutture naturali che l’umanesimo moderno ha
aiutato a scoprire ma non ha saputo preservare, e della grandezza originaria dell’uomo mai completamente oscurata dal male» (pp. 67-68).
L’umanesimo dell’Incarnazione potrebbe superare, da una parte, la radicale
separazione tra religione e mondo del liberalismo borghese, e dall’altra l’unità
medioevale, che era simbolica e figurativa. Maritain delinea questa nuova età,
permeata dall’umanesimo integrale (che è un umanesimo dell’Incarnazione) nel
seguente modo: «Se una nuova cristianità riesce a instaurarsi, il suo carattere
distintivo sarà, crediamo, che questa trasfigurazione — mediante la quale l’uomo, consentendo a essere mutato e sapendo che è mutato dalla grazia, lavora a
divenire e a realizzare quell’uomo nuovo che egli è da parte di Dio — questa trasfigurazione dovrà raggiungere realmente, e non solo in modo figurativo, le
strutture della vita sociale dell’umanità e comportare così — nella misura in cui
298
Mariano Fazio
è possibile quaggiù per tale o talaltro clima storico — una verace realizzazione
sociale-temporale del Vangelo. Una nuova età di cultura cristiana capirà senza
dubbio un po’ meglio di ciò che non sia avvenuto sinora (e mai il mondo avrà
finito di comprenderlo, cioè di respingere dal suo seno il lievito dei farisei) sino
a qual punto importi dare ovunque il passo al reale e al sostanziale sull’apparente
e il decorativo, al realmente e sostanzialmente cristiano sull’apparentemente e
decorativamente cristiano; capirà anche che si afferma in vano la dignità e la
vocazione della persona umana se non si lavora a trasformare le condizioni che
l’opprimono, e a fare in modo che essa possa degnamente mangiare il proprio
pane» (pp. 79-80).
3.3. La missione temporale del cristiano
La nuova cristianità implica una concezione della missione del cristiano nel
mondo e del rapporto tra lo spirituale e il temporale. Secondo Maritain, la distinzione tra l’ordine temporale e l’ordine spirituale è essenzialmente cristiana.
Distinzione non implica opposizione o separazione arbitraria. Un ambito in cui il
problema del rapporto tra questi due ordini si pone in forma urgente riguarda la
realizzazione del Regno di Dio. Che parte bisogna riconoscere allo spirituale e al
temporale in questa realizzazione? Il Regno di Dio è escatologico, ma si prepara
nel tempo, nella storia. E nella storia umana si incontrano la Chiesa, che è il
Regno di Dio crocifisso, e il mondo, che per raggiungere il Regno deve mutare
essenzialmente. La Chiesa è il Regno, ma in uno stato peregrinante e velato. Il
mondo, invece, è nel tempo e del tempo. Il suo fine non è escatologico ma la vita
temporale della moltitudine umana. Qual è il rapporto del mondo con il Regno di
Dio? Maritain afferma che ci sono tre errori al momento di rispondere a questa
domanda. Il primo errore sarebbe la concezione satanocratica del mondo e della
città politica, considerati come intrinsecamente corrotti. Il secondo errore, ha una
versione europea orientale (teofanica) e una versione occidentale (teocratica).
Secondo i sostenitori di queste due versioni il mondo è già realmente salvato: si
chiede al mondo e alla politica l’effettiva realizzazione del Regno di Dio. Il filosofo francese non identifica cristianità medioevale con teocrazia, ma afferma che
quest’ultima è stato l’angelo tentatore della cristianità. Questo secondo errore
può rivestire una veste secolarizzata: il comunismo è un impero teocratico ateo.
Il terzo errore sarebbe quello proprio dell’umanesimo antropocentrico: il mondo
avrebbe una autonomia assoluta, che volta le spalle alla Trascendenza. Si tratta in
realtà di una laicizzazione del Regno di Dio.
Per superare questi tre errori bisogna approdare alla soluzione cristiana: «Per
il cristianesimo, la vera dottrina del mondo e della città temporale, è nel riconoscere che sono il regno insieme dell’uomo, di Dio e del diavolo. Così appare
l’ambiguità essenziale del mondo e della sua storia; è un campo comune ai tre. Il
mondo è un campo chiuso che appartiene a Dio per diritto di creazione; al diavo299
note e commenti
lo per diritto di conquista, a causa del peccato; a Cristo per diritto di vittoria sul
primo conquistatore, a causa della Passione. Il compito del cristiano nel mondo è
di disputarne al diavolo il dominio, di strapparglielo; deve sforzarsi a ciò, ma,
sinché durerà il tempo, vi riuscirà solo in parte. Il mondo è bensì salvato, è liberato in speranza, è in marcia verso il regno di Dio, ma non è santo, è la Chiesa ad
essere santa: è in marcia verso il Regno di Dio ed è perciò un tradimento verso
questo regno non volere con tutte le forze una realizzazione — proporzionata
alle condizioni della storia terrena, ma così effettiva quanto possibile, quantum
potes, tantum aude — o, più esattamente, una rifrazione nel mondo, in un modo
o in un altro, deficiente o contestata. E nello stesso tempo che la storia del
mondo è in cammino — è la crescita del frumento — verso il Regno di Dio, è
anche in cammino — è la crescita dell’erba folle, inestricabilmente mescolata al
frumento — verso il regno della riprovazione» (pp. 90-91).
Quindi il cristiano ha una missione temporale. La Chiesa è sempre più liberata dall’amministrazione temporale e i cristiani si devono trovare sempre più
impegnati, non in quanto membri della Chiesa, ma in quanto membri cristiani
della città temporale, nel lavoro di instaurazione di un nuovo ordine temporale
nel mondo. Questo impegno implica l’elaborazione di una filosofia politica,
sociale ed economica capace di discendere fino alle realizzazioni concrete.
L’ispirazione cristiana di questa filosofia non significa omogeneità di idee e di
vedute sociali. Ci saranno diverse scuole di politica cristiana o di economia cristiana, ma tutte devono ispirarsi ai valori del Vangelo. Questa trasformazione cristiana della società temporale, comunque, non sarà il frutto del solo cambiamento della filosofia sociale. Trattandosi di un cambiamento temporale, sì, ma con
forte risonanze etiche e spirituali, i mezzi che si devono adoperare sono anche
mezzi spirituali. Maritain è convinto che «un rinnovamento sociale vitalmente
cristiano sarà opera di santità o non sarà» (p. 100).
Di quale santità si tratta? Il nostro autore parla di un nuovo stile di santità.
Maritain critica l’interpretazione comune dell’età umanista classica, che identificava santità o perfezione evangelica con lo stato religioso, lasciando ai laici solamente la possibilità di una vita cristiana imperfetta. Il nuovo stile di santità è
caratterizzato dalla santificazione del profano: «l’uomo impegnato in questo
ordine profano o temporale d’attività può e deve, come l’uomo impegnato nell’ordine sacro, tendere alla santità — e per giungere lui stesso alla unione divina
e per attirare verso il compimento delle volontà divine l’ordine tutto intero al
quale appartiene. Di fatto, quest’ordine profano, in quanto collettivo, sarà sempre
deficiente, ma noi dobbiamo tuttavia, e dobbiamo tanto più, volere e sforzarci
affinché sia ciò che deve essere. Perché la giustizia evangelica domanda da sé di
tutto penetrare, di impadronirsi di tutto, di scendere sino al più profondo del
mondo» (p. 102)7.
7
Inaspettata è l’aggiunta di Maritain alle parole appena citate: «È tutt’al più nell’ordine delle
cose che questo nuovo stile e questa nuova spinta di spiritualità comincino ad apparire non
300
Mariano Fazio
3.4. L’ideale storico concreto di una nuova cristianità
La proposta maritainiana di trasformazione delle strutture temporali prende il
nome di «ideale storico concreto di una nuova cristianità». Per il filosofo francese, un ideale storico concreto è un’immagine prospettica significante il tipo particolare, il tipo specifico di civiltà al quale tende una data età storica (cfr. p. 105).
Non è quindi un essere di ragione, come le utopie, ma una essenza ideale realizzabile. Quali sono gli elementi caratteristici di questo ideale storico concreto
denominato “nuova cristianità”? Maritain elenca cinque note caratteristiche: 1) il
pluralismo; 2) l’autonomia del temporale; 3) la libertà delle persone; 4) l’unità di
razza sociale — espressione che spiegheremo dopo — e 5) l’opera comune: una
comunità fraterna da realizzare. Prima di analizzare questi elementi, Maritain
afferma che l’ideale storico di una nuova cristianità comporta una concezione
profana cristiana e non sacrale cristiana del temporale (cfr. p. 131). L’ideale storico concreto della cristianità medioevale comportava invece una concezione
sacrale cristiana, caratterizzata dalla tendenza ad una unità organica massimale;
dalla predominanza effettiva del compito ministeriale del temporale; dall’impiego dell’apparato temporale per fini spirituali; dalla diversità di “razze sociali” e
dall’opera comune: un impero di Cristo da edificare.
Il pluralismo è la prima nota caratteristica della nuova cristianità. Una città
pluralistica riunisce nella sua unità organica una diversità di gruppi e di strutture
sociali incarnanti libertà positive. Nella nuova tappa storica ci dovrà essere pluralismo economico, che superi i mali del capitalismo e del comunismo mediante
una certa collettivizzazione della proprietà industriale e un rinnovamento e vivificazione dell’economia famigliare. Ci dovrà essere anche pluralismo giuridico
che regoli la tolleranza religiosa: l’unità della città temporale della nuova cristianità non è quella massimale della cristianità medioevale. La città temporale ha
solo una unità di orientamento, che procede da una comune aspirazione verso la
forma di vita comune meglio accordata agli interessi sovratemporali della persona. L’agente di unità è la parte più evoluta politicamente e più devota del laicato
cristiano e delle élites popolari. La città temporale della nuova cristianità ha una
unità minimale, incentrata sulla persona in quanto membro della città. Perciò una
unità temporale, civile, non richiede l’unità di fede o di religione, e implica la
tolleranza civile (che impone allo Stato il rispetto delle coscienze, cosa diversa
dalla libertà dogmatica, che ritiene la libertà dell’errore come un bene a sé).
Maritain vuole essere chiaro nella sua proposta pluralistica: «È necessario insistere sulla portata della soluzione pluralistica della quale parliamo: essa è così
lontana dalla concezione liberale in auge nel XIX secolo — poiché riconosce la
nella vita profana stessa, ma in certe anime nascoste al mondo, le une viventi nel mondo, le
altre alla sommità delle più alte torri della cristianità, cioè negli Ordini più altamente contemplativi, per espandersi di là sulla vita profana e temporale» (p. 103). Dico inaspettata,
giacché il nuovo stile di santità “profana” verrebbe importato dallo stile religioso di santità,
il che potrebbe far perdere il suo carattere “profano”.
301
note e commenti
necessità da parte della città temporale d’avere una specificazione etica e in ultima analisi religiosa — come dalla concezione medioevale, poiché questa specificazione ammette eterogeneità interne e si attiene solo a un senso o ad una direzione, a un orientamento d’assieme. La città pluralistica moltiplica le libertà; la
misura di queste non è uniforme, e varia secondo un principio di proporzionalità» (pp. 138-139).
La seconda caratteristica, che getta più luce sull’interpretazione maritainiana
del pluralismo, è l’affermazione dell’autonomia del temporale in qualità di fine
intermedio infravalente. Per Maritain, l’ordine temporale fondato sulla ragione è
comunitario e personalistico. Che sia comunitario significa che il bene comune a
cui tende la società temporale è specifico, cioè diverso dalla pura somma dei
beni individuali. Questo bene comune consiste nella retta vita terrena della moltitudine riunita in società. Personalistico significa che il bene comune è fondamentalmente rispettare e servire i fini sovra-temporali della persona umana. Perciò il
bene comune temporale non è un fine ultimo, dato che è ordinato al bene intemporale della persona. Maritain utilizza un altro concetto per spiegare la stessa
realtà: il bene comune temporale è un bene intermedio o infravalente. Ha una
specificazione propria, che la distingue dal fine ultimo e dagli interessi eterni
della persona umana, «ma nella sua stessa specificazione è avviluppata la sua
subordinazione a quei fini e a quegli interessi da cui riceve le sue misure dominanti. Ha consistenza propria e bontà propria, ma precisamente a condizione di
riconoscere questa subordinazione e di non erigersi come bene assoluto» (p.
110).
L’autonomia del temporale consiste nel riconoscere questa consistenza propria del bene comune della città. La cristianità medioevale concepiva il compito
del temporale come meramente strumentale rispetto allo spirituale. Nella
Modernità si sottolineò la specificità propria del bene comune temporale —alle
volte con esagerazioni proprie dell’umanesimo antropocentrico chiuso alla
Trascendenza — in modo tale da escludere di fatto la strumentalità. Questo processo è sostanzialmente positivo se si riconosce la subordinazione del fine temporale al fine ultimo personale. «Così si trae e si precisa la nozione di città laica
in modo vitale cristiana, o di Stato laico, cristianamente costituito, cioè di uno
Stato nel quale il profano e il temporale abbiano pienamente il loro compito e la
loro dignità di fine e di agente principale — ma non di fine ultimo e di agente
principale il più elevato. È questo il solo significato che un cristiano può riconoscere alla parola “stato laico” che altrimenti ha solo un significato tautologico, la
laicità dello Stato volendo dire in questo caso che lo Stato non è la Chiesa — o
un senso errato, la laicità dello Stato volendo dire allora che lo Stato è neutro o
antireligioso, cioè al servizio di fini puramente materiali o d’una contro-religione» (p. 142).
Il carattere personalistico della nuova cristianità implica la libertà delle persone (terza nota caratteristica). Maritain parla della extraterritorialità della persona
nei confronti dei mezzi temporali e politici. Questi mezzi devono essere messi al
302
Mariano Fazio
servizio della persona, e non alla rovescia. La persona ha una dignità tale da non
poter mai venire strumentalizzata. In questo ambito si inserisce la quarta nota
caratteristica della nuova cristianità: l’unità della razza sociale, che non vuol dire
altro che tutti, governanti e governati, ricchi e poveri, godono in quanto persone
della stessa dignità.
Il quinto e ultimo carattere elencato da Maritain è l’opera comune: una comunità fraterna da realizzare. Il principio dinamico della vita comune della nuova
cristianità non è la Classe, né la Razza né la Nazione o lo Stato, «ma la dignità
della persona umana, la sua vocazione spirituale e l’amore fraterno che le è
dovuto» (p. 161). Il filosofo francese parla della comunità fraterna come un ideale eroico da realizzare: si cerca di creare le condizioni politico-sociali che rendano più facile tendere verso l’amicizia fraterna. Ribadendo il carattere profano cristiano della nuova cristianità, Maritain scrive che «l’opera comune non apparirebbe più come un’opera divina da realizzare dall’uomo sulla terra, ma piuttosto
come un’opera umana da realizzare sulla terra mediante il passaggio di qualcosa
di divino, che è l’amore, nei mezzi umani e nello stesso lavoro umano» (p. 161).
È possibile creare le condizioni di realizzazione dell’ideale storico di una
nuova cristianità? «L’avvenire di una nuova cristianità dipende anzitutto dalla
realizzazione interiore e plenaria d’una certa vocazione profana cristiana in un
certo numero di cuori» (p. 180). I mezzi per instaurare una nuova cristianità
devono essere proporzionati al fine. Un fine degno dell’uomo deve essere raggiunto con mezzi degni dell’uomo. Maritain fa un lungo excursus sull’utilizzo
della violenza, che ammette solo nei casi limite seguendo la dottrina di san
Tommaso, per concludere sulla liceità di ogni mezzo temporale che non sia
opposto alla dignità della persona umana.
Per rendere possibile la nuova cristianità, il cristiano «non deve essere assente
da alcun campo dell’agire umano, egli è richiesto ovunque. Deve lavorare insieme
— in quanto cristiano — sul piano dell’azione religiosa (indirettamente politica) e
— in quanto membro della comunità spirituale — sul piano dell’azione propriamente e direttamente temporale e politica» (p. 202). Per quanto riguarda più in
concreto l’attività politica, Maritain non desidera partiti politici ad etichetta religiosa, ma gruppi diversi ispirati allo spirito cristiano, senza un’artificiale unità
nelle scelte libere. Ciò che sì importa è la vera ispirazione cristiana di questi gruppi: Maritain distingue tra la politica fatta dai cristiani — mero dato di fatto — e
l’attività politica cristianamente ispirata, ordinata ad un ideale temporale cristiano,
che richiede la partecipazione dei cristiani che si fanno del mondo, della società e
della storia moderna una certa filosofia, e dei non cristiani che riconoscono la fondatezza di quella filosofia. Questi cittadini costituiranno formazioni politiche
autonome, possono fare alleanze, ma mantenendo la loro indipendenza, in modo
da far nascere il germe di una politica in modo vitale cristiano.
Maritain sostiene fermamente che la trasformazione delle strutture temporali
è l’opera dei semplici cristiani, e non del clero: «Conviene guardarsi dal riprendere qui antichi errori in forme nuove. Se la Chiesa medioevale ha direttamente
303
note e commenti
formato e ingentilito l’Europa politica, lo ha fatto perché aveva dovuto allora far
sorgere dal caos l’ordine temporale stesso: lavoro in soprannumero, al quale non
poteva rifiutarsi, ma al quale non è rassegnata inizialmente senza legittima
apprensione. Oggi l’organismo temporale esiste e altamente differenziato. Non
spetta alla Chiesa ma in modo diretto e prossimo ai cristiani in quanto membri
temporali di questo organismo temporale, di trasformarlo e rigenerarlo secondo
lo spirito cristiano. In altri termini, non spetta al clero tenere le leve di comando
dell’azione propriamente temporale e politica» (p. 210).
La nuova cristianità, come il nuovo Medioevo di Berdiaeff, non propone un
ritorno al passato, ma si apre al futuro con un ideale profano cristiano derivante
dall’umanesimo dell’Incarnazione che svela l’autonomia e al contempo la subordinazione del temporale allo spirituale.
4. L’idea di una società cristiana, di T. S. Eliot (1939)
T.S. Eliot pronunciò nel marzo 1939 tre conferenze a Cambridge, che furono
pubblicate subito dopo, con il titolo The Idea of a Christian Society. Si tratta di
un’opera breve, in cui il poeta angloamericano propone un modello di società
cristiana che permetta di risolvere le difficoltà in cui si trovava la società inglese
— e più ampiamente, la civiltà occidentale — a causa della perdita di una visione religiosa della vita e dell’esistenza umana.
4.1. Gli elementi di una società cristiana
Eliot tenta di trovare l’idea di una società cristiana, cioè cerca di individuare
gli elementi specifici di una società cristiana, che la distinguono da una società
neutra. Secondo Eliot, quest’ultima società, che ha una matrice ideologica materialista, non si allontana troppo dalla società pagana, che in quell’epoca si identificava nell’opinione pubblica inglese con la Germania nazista e la Russia comunista.
Il nostro autore analizza la situazione a lui contemporanea del cristianesimo
nella società inglese: «Ora noi possiamo individuare tre momenti positivi nella
storia: quello in cui i cristiani sono una minoranza nuova in una società di tradizione positivamente pagana (una situazione che non potrà presentarsi in un futuro prevedibile); quello in cui tutta la società può chiamarsi cristiana, sia riunita in
un solo corpo, sia divisa in sette (e la fase della divisione potrà seguire o precedere quella dell’unione); e finalmente il momento in cui i cristiani non possono
essere considerati che una minoranza statica, o in corso di estinzione, entro l’àmbito di una società che ha cessato di essere cristiana. Abbiamo noi raggiunto il
terzo momento? Tanti saranno i pareri quante le persone che si porranno il quesito. Ma a me pare che anzitutto due sono i punti di vista. Il primo, che la società
304
Mariano Fazio
cessa di essere cristiana quando vengono abbandonate le pratiche religiose,
quando gli altri atti degli uomini non sono più regolati da princìpi cristiani, ed il
benessere mondano, individuale o collettivo, diviene l’unica ambizione cosciente. L’altro punto di vista, più difficile ad essere compreso, è che la società non
cessa d’essere cristiana finché non diventa qualcosa di positivamente diverso. Io
credo che oggi la nostra cultura sia generalmente negativa, ma che, per quel poco
ch’essa ha di positivo, sia tuttora cristiana. Non ritengo che possa perdurare così,
perché una cultura negativa perde qualsiasi capacità di realizzazione in un
mondo dove energie economiche e spirituali dimostrano l’efficienza di culture
forse pagane, ma positive; e ritengo che la nostra scelta sia fra la creazione di
una nuova cultura cristiana e l’accettazione della cultura pagana»8. Eliot intende
per cultura negativa in questo contesto la cultura liberale. Il liberalismo è un’ideologia antitradizionale e rivoluzionaria, che distrugge in nome della libertà, ma
che non propone i fini a cui questa libertà deve tendere. In questo senso è negativo. Una cultura positiva, invece, significa una cultura che propone un ideale di
vita, sia questo pagano o cristiano, vale a dire una cultura propositiva.
Molti dei contemporanei considerano che la società occidentale così com’è
non cambierà molto in futuro. Ma Eliot pensa che gli ideali “santificati” del
mondo occidentale, il liberalismo e la democrazia, possono finire in un totalitarismo autoproclamatosi democratico. In Inghilterra la gente si autodefinisce come
cristiana, e dà del pagano agli altri, in particolare ai russi e ai tedeschi. Ma bisogna esaminare nei particolari quel cristianesimo che il popolo inglese si vanta di
conservare: in realtà, si tratta di un cristianesimo minoritario in una società liberale negativa con tendenze paganizzanti. «L’idea liberale secondo cui la religione
è una questione di fede e di etica personali, così che nulla impedisce ad un buon
cristiano di adattarsi ad ogni ambiente che gli dimostri una certa benevolenza,
diventa sempre meno sostenibile» (pp. 29-30): la supposta società neutra è sempre meno neutra, e tende a trasformarsi in non-cristiana, e il cristiano «diventa
ogni giorno meno cristiano sotto l’insensibile pressione di un’infinità di elementi, giacché il paganesimo controlla tutti i più efficaci mezzi di propaganda. Ogni
forma di tradizione cristiana, trasmessa di generazione in generazione, nell’ambito familiare, è condannata a sparire, e la piccola comunità cristiana finirà per
consistere interamente di anziani» (pp. 30-31). Perciò, la scelta tra l’apatia di chi
si lascia portare verso una società pagana e la fatica che comporta cambiare la
società affinché diventi positivamente cristiana, è un’alternativa tra l’inferno e il
purgatorio, giacché una società cristiana non significa un paradiso terrestre: il
Regno di Dio, che già si trova sulla terra, si compierà definitivamente alla fine
dei tempi.
Arrivato al secondo capitolo delle sue riflessioni, Eliot riassume quanto finora
ha esposto: «La mia tesi è stata semplice: una società liberale o negativa non può
che avviarsi ad un declino di cui non vediamo la fine, oppure (sia come risultato
8
T.S. ELIOT, L’idea di una società cristiana, Edizioni di Comunità, Milano 1948, pp. 18-19.
305
note e commenti
di una catastrofe o no) ritornare ad una forma positiva che con ogni probabilità
sarà efficiente e laica. Per provar timore di fronte ad una simile evoluzione non
occorre pensare che questo laicismo somiglierà da vicino ad un qualsiasi sistema
politico passato o presente: la capacità degli anglosassoni di diluire la propria
religione supera certamente quella di ogni altra nazione. Ma a meno di accontentarsi di una o dell’altra di queste prospettive, l’unica alternativa che ci resta è la
creazione di una società cristiana positiva. Questa terza soluzione farà presa soltanto su coloro che sono uniti in un comune giudizio della situazione presente, e
che capiscono come le conseguenze di una società completamente laica sarebbero rifiutate anche da chi non dà un’importanza capitale alla sopravvivenza del
cristianesimo di per se stesso» (pp. 33-34).
Eliot considera — come Berdiaeff e Maritain — che non si può tornare al
Medioevo né a nessun periodo del passato. Bisogna ideare una società cristiana
per il futuro. Quali sono gli elementi essenziali di una simile società? Sono lo
Stato cristiano, la Comunità cristiana e la Comunità dei Cristiani. Lo Stato cristiano è la società cristiana considerata nelle sue leggi, nella sua amministrazione, nella sua tradizione giuridica. Eliot non intende per Stato cristiano uno stato
dove i capi siano cristiani eminenti: «Un governo di Santi finirebbe per diventare
troppo scomodo» (p. 35). Il fatto che i governanti siano buoni è importante, ma il
fattore decisivo è la mentalità del popolo che governano: «quel che conta non è
tanto il cristianesimo degli uomini di Stato quanto che essi siano obbligati, dal
carattere e dalle tradizioni del popolo che governano, a realizzare le loro ambizioni e contribuire alla prosperità ed al prestigio del loro Paese entro una cornice
cristiana. Potranno trovarsi spesso costretti a compiere atti non cristiani; ma non
dovranno mai tentare una difesa delle loro azioni facendo ricorso a princìpi non
cristiani» (p. 36).
Qual è il rapporto tra la fede e gli elementi essenziali di una società cristiana?
Gli uomini di Stato devono portare avanti un comportamento conforme ai princìpi cristiani; la comunità cristiana deve conformarsi con essi al meno inconsapevolmente; la Comunità dei Cristiani — di cui parleremo dopo — lo deve fare
consapevolmente ed in un modo esigente. Per la grande massa degli uomini si
esigono due condizioni: «la prima, che essendo limitata la loro capacità di pensare alle cose della fede, il loro cristianesimo si manifesti quasi interamente negli
atti, sia nelle pratiche religiose usuali e periodiche, sia in un codice tradizionale
che regoli la loro condotta nei rapporti con gli altri uomini. La seconda che, pur
comprendendo quanto i loro atti siano lontani dall’ideale cristiano, la loro vita
sociale e religiosa formi una naturale unità, e che perciò la difficoltà di comportarsi come veri cristiani non li costringa ad uno sforzo intollerabile. In realtà queste due condizioni non sono che una sola, formulata diversamente. Ai nostri giorni sono ben lontane dall’essere realizzate» (p. 38). Secondo Eliot, per formare
una società cristiana ci deve essere unità tra fede e vita ordinaria. La società neutra e paganizzante offre una resistenza molto forte a questo ideale, e obbliga il
cristiano a vivere eroicamente. Nella società cristiana non dovrebbe succedere
306
Mariano Fazio
così: «la religione dev’essere anzitutto una questione di comportamento e di abitudini, qualcosa di integrato alla vita sociale, agli affari ed ai piaceri, così che le
emozioni più particolarmente religiose debbono rappresentare una sorta di estensione e di santificazione delle emozioni domestiche e sociali» (p. 40).
Se l’unità tra fede e vita ordinaria rimane l’ideale, bisogna constatare che
l’organizzazione materiale della vita moderna ha creato un mondo al quale si
adattano male le forme sociali cristiane. Di fronte a questa constatazione, ci sono
due possibili tentazioni che l’intellettuale cristiano dovrebbe evitare: rifugiarsi in
un passato che si presume migliore, o adattare il cristianesimo ai tempi moderni.
Ma se un ritorno alla vita rurale e contadina è impossibile, considerare che le
forme cristiane si devono adattare alla società è rinunciare a pensare che il cristianesimo ha la capacità di creare nuove forme sociali. Leggiamo le forti parole
di Eliot: «una gran parte del meccanismo della vita moderna serve soltanto a sanzionare scopi non cristiani; che esso non è solo ostile ad un’aspirazione sincera
dei pochi verso la vita cristiana, ma alla conservazione stessa della società cristiana in tutto il mondo. È ora di abbandonare l’opinione che il cristiano debba
considerarsi soddisfatto solo perché gode della libertà di culto e non è soggetto
ad alcuna discriminazione a causa della sua fede. Per quanto settario io possa
sembrare, dirò che non vi è null’altro che possa soddisfare il cristiano se non una
organizzazione cristiana della società (il che non equivale ad una società composta esclusivamente di cristiani devoti). Sarebbe una società dove il diritto a conseguire il fine naturale dell’uomo — cioè la virtù ed il benessere condiviso con il
prossimo — verrebbe riconosciuto a tutti, ed il diritto al fine ultraterreno — la
beatitudine — a coloro che hanno occhi per vederlo» (pp. 44-45).
Nella società cristiana, i governanti accetteranno il cristianesimo come il
sistema entro il cui ambito dovranno governare; il popolo farà del cristianesimo
il modo di vita e di costume. Ma per la coesione e la permanenza di una società
cristiana ci vuole una “Comunità dei Cristiani”, formata da cristiani che si distinguono per la loro intelligenza e spiritualità. Così definisce Eliot la suddetta
Comunità: «non è un’organizzazione, ma un corpo senza contorni ben definiti,
composto di ecclesiastici e di laici, degli uomini che, di entrambe le classi, sono i
più coscienti e più preparati spiritualmente ed intellettualmente. La loro identità
di vita e d’aspirazioni, la comune esperienza di cultura e di educazione li metteranno in grado di influenzarsi reciprocamente e di formare collettivamente la
mentalità e la coscienza della nazione» (p. 56).
4.2. Possibilità di una società cristiana
Eliot considera che per l’esistenza di uno Stato cristiano, di una Comunità cristiana e di una Comunità dei Cristiani, è necessario che ci sia un rapporto armonico tra Chiesa e Stato. L’anglo-americano difende la convenienza di una Chiesa
stabilita nazionale, non chiusa in se stessa ma consapevole di appartenere alla
307
note e commenti
Chiesa Universale. Molte delle argomentazioni di Eliot sono legate alla vicenda
storica della Chiesa d’Inghilterra, considerata l’unica istituzione ecclesiastica
capace di stabilire un rapporto efficace con la società politica nell’Inghilterra del
suo tempo. Se Eliot paga il suo tributo verso la tradizione inglese, farà altrettanto
quando riproporrà il dilemma tradizionale britannico tra patriottismo e universalità cristiana: «Occorre, tuttavia, rendersi conto che anche in una società cristiana
organizzata nel modo più perfetto che sia immaginabile su questa terra, la conquista massima sarebbe la creazione di una armonia fra la nostra vita temporale e
la spirituale: ad una identificazione vera e propria non si arriverebbe mai.
Rimarrebbe sempre una duplice fedeltà, verso lo Stato e verso la Chiesa, verso i
propri compatrioti e verso i cristiani di tutto il mondo: e quest’ultima fedeltà prevarrebbe sempre sull’altra. Ma esisterebbe sempre una tensione. Questa tensione
è essenziale all’idea di una società cristiana ed è un segno che la distingue da una
società pagana» (p. 72).
Eliot finisce le sue riflessioni sottolineando il legame che c’è tra una società
cristiana e l’ordine stabilito dalla natura umana. La società proposta dal poeta
anglosassone non è una società degli eletti o dei puri: «nel quadro che ho fatto di
una società cristiana ho cercato di limitare le mie esigenze, nei riguardi dei suoi
ipotetici membri, ad un minimo di qualità sociali: io non prevedo una società di
santi ma di uomini comuni, per i quali il cristianesimo è un’esperienza collettiva
prima che individuale» (p. 76). La società cristiana è per uomini comuni a cui si
deve rendere possibile la vita secondo natura: «Possiamo dire che la religione, in
quanto distinta dal paganesimo moderno, è essenzialmente legata ad una condotta di vita conforme alla natura. Si potrebbe anche osservare che la vita naturale e
la soprannaturale hanno una corrispondenza reciproca che nessuna delle due ha
nei riguardi della vita concepita secondo criteri meccanicistici; ma la nostra idea
del naturale è stata deformata a tal punto che persone, le quali ritengono innaturale, e quindi ripugnante, che un uomo o una donna conducano una vita di celibato, giudicano perfettamente naturale limitare ad uno o due i figli in una famiglia. Forse sarebbe più naturale, ed anche più conforme alla volontà di Dio, se vi
fossero più celibi e se coloro che sono sposati avessero prole più numerosa» (pp.
78-79).
La società contemporanea si allontana dalle norme naturali non solo nell’ambito della morale familiare: il materialismo e l’economicismo che stanno alla
base della società capitalista stanno creando problemi ecologici gravi, che devono svegliare le coscienze dei cittadini: «per troppo tempo abbiamo creduto soltanto nei valori che sono il prodotto di una vita dove gli elementi fondamentali
sono la macchina, il commercio, la metropoli: forse sarebbe bene che riflettessimo sulle condizioni immutabili alle quali Dio ci permette di vivere su questo pianeta» (pp. 79-80).
L’Inghilterra sta attraversando una crisi di valori. Di fronte alla crisi del settembre del 1938, provocata dalle ambizioni territoriali di Hitler, la nazione britannica non trovò argomenti morali convincenti per fermare il dittatore. «Non
308
Mariano Fazio
potevamo opporre una convinzione ad un’altra, non avevamo idee che potessero
farsi incontro né opporsi alle altre che ci stavano di fronte. La nostra società, che
è sempre stata così certa della propria superiorità ed onestà, così fiduciosa nelle
sue premesse mai approfondite, ci sembrò all’improvviso raccolta attorno a
nient’altro di più permanente che una catena di banche, compagnie di assicurazioni ed industrie, sì che parve che nessun’altra fede l’animasse, se non quella
nell’interesse composto e nell’intangibilità dei dividendi» (pp. 82-83). La società
occidentale ha bisogno di una cura radicale, che cambi le radici materialistiche
su cui si fonda. Eliot non propone i mezzi per arrivare a questo cambiamento, ma
è sicuro del fine: «Vi è una sola alternativa all’organizzazione rapida e semplice
della società per il raggiungimento di fini che, essendo soltanto materiali e mondani, si riveleranno transitori come ogni successo mondano. Poiché la filosofia
politica riceve la sua sanzione dall’etica, e l’etica dalla verità religiosa, soltanto
col ritorno alle fonti della verità possiamo sperare in un’organizzazione sociale
che non ignori, pena la sua stessa distruzione, alcun aspetto essenziale della
realtà […]. Chi non desidera Dio (ed è un Dio geloso) non ha che da inchinarsi
davanti ad Hitler o a Stalin» (pp. 81-82).
4. Conclusione
Il periodo tra le due guerre è ricco di fermenti spirituali. Le conversioni al cristianesimo manifestano la sete di molti intellettuali di trovare risposte alle
domande ultime dell’esistenza umana. La fede si presenta sia per Berdiaeff che
per Maritain ed Eliot come l’ambito in cui la vita degli uomini si può sviluppare
completamente. Perciò, tutti e tre gli autori denunciano con forza la mancata
unione tra fede creduta e vita vissuta nei cristiani del XIX secolo e dell’inizio del
XX secolo. La religione degli ultimi due secoli si era rifugiata nel tempio e nell’interiorità delle coscienze. Gli autori studiati propongono di capovolgere questa
situazione: Berdiaeff parla di trasfigurazione cristiana della società; Maritain di
scambiare l’apparentemente cristiano e decorativamente cristiano con un cristianesimo autenticamente incarnato nelle strutture temporali; Eliot propone di formare collettivamente una mentalità cristiana.
Le proposte dei nostri autori non sono di un ritorno alla cristianità medioevale: tutti sono convinti che non si può fare marcia indietro nella storia. In questo
senso, Berdiaeff, Maritain ed Eliot prendono le distanze dalle proposte economico-sociali di altri due pensatori cristiani di questo periodo, più vicine ad un ritorno al Medioevo cristiano: mi riferisco alle idee distribuzionistiche di Gilbert K.
Chesterton e di Hilaire Belloc. Del Medioevo si deve mantenere il teocentrismo
— la primauté du spirituel, come direbbe Maritain —, ma bisogna lasciar da
parte il modello simbolico e figurativo della teocrazia per arrivare ad una società
autenticamente cristiana. Questa società non sarà clericale, dato che si riconoscerà l’autonomia del temporale. Più timidamente in Berdiaeff, con più chiarezza
309
note e commenti
in Maritain ed in Eliot, l’autonomia del temporale appare per questi autori come
un dato di partenza. Non l’autonomia assoluta dell’umanesimo antropocentrico,
ma una autonomia relativa, che non misconosce le radici trascendenti di ogni
realtà creata.
Unire fede e vita in una società che riconosce l’autonomia del temporale
implica che la cristianizzazione della società non è una cosa che si può fare dall’alto, dalle strutture politiche, sociali ed economiche già esistenti. Per Berdiaeff,
Maritain ed Eliot il movimento è l’inverso: dal basso verso l’alto. Sono gli uomini di fede che trasformeranno le strutture sociali, se sono coerenti con i valori a
cui credono. Questo è principalmente un compito dei cristiani normali, che sono
inseriti nei diversi ambiti della vita sociale, e non principalmente un compito
della Gerarchia.
Trasformare una cultura in decadenza e ridare vita ad una società in crisi
esige mezzi non solo materiali ma soprattutto spirituali. Berdiaeff parla di un’epoca di eroismo, Maritain di un nuovo stile di santità, Eliot fa riferimento al
ruolo di lievito che ha la Comunità dei Cristiani nella società. L’esigenza dell’eroismo va unita alla santificazione della vita ordinaria, a questo ricucire lo strappo tra fede e vita che quattro secoli di umanesimo dualista hanno operato nel
mondo occidentale. I tre autori si rendono conto di quest’esigenza, anche se i
mezzi proposti forse non sono del tutto adatti al fine: per santificare la vita ordinaria Berdiaeff intravede tra le ombre la necessità di fondare un nuovo ordine
religioso, Maritain considera che il nuovo stile di santità sta nascendo negli ordini contemplativi, Eliot ha un concetto di santità lontano dalla santificazione della
vita ordinaria: le masse devono conformarsi con una ispirazione cristiana, senza
andare fino alle ultime conseguenze della loro fede, perché incapaci di comprendere in profondità. Berdiaeff e Maritain — più che Eliot — vedono con chiarezza la necessità della santità in questo periodo della storia. Ciò nonostante, manca
ancora un concetto pieno di santificazione della vita ordinaria attraverso la vita
ordinaria stessa.
Le idee di Berdiaeff, Maritain e Eliot su una nuova società cristiana sono state
suggestive e stimolanti per la loro epoca: la necessità di unire fede e vita, il riconoscimento dell’autonomia relativa del temporale, l’esigenza di santità erano
idee che non appartenevano come oggi alla dottrina cristiana comune. In un
periodo in cui il clericalismo e il laicismo erano ancora molto presenti, i saggi
qui studiati svegliarono le coscienze di molti intellettuali cristiani.
Nello stesso periodo tra le due Guerre, nel 1928, il Beato Josemaría Escrivá
ricevette una luce interiore, con la quale vide un panorama spirituale inedito: la
santificazione nel lavoro attraverso le circostanze ordinarie della vita quotidiana.
Anche lui era consapevole della profonda crisi della cultura della modernità, e
delle possibili cure. Nel 1939 scrisse: «Queste crisi mondiali sono crisi di
santi»9. Anche lui, lontano dal clericalismo, avrà chiara coscienza dell’autono9
Beato J. ESCRIVÁ, Cammino, Ares, Milano 199320, n. 301.
310
Mariano Fazio
mia relativa del temporale, e conierà un termine per riferirsi alla necessità di
unire fede e vita: il Beato Escrivá si riferirà all’unità di vita quale elemento
caratterizzante per un cristiano coerente con la sua fede. Evidentemente il fondatore dell’Opus Dei va studiato da un’altra prospettiva, dato che non è principalmente un pensatore cristiano scrittore di saggi. Ma si muove nella stessa epoca,
nello stesso ambiente di crisi culturale e partecipa a molte delle preoccupazioni
di Berdiaeff, di Maritain e di Eliot. Perciò volevamo finire questo articolo con un
riferimento sintetico alla dottrina del Beato Escrivá, che vuol essere la promessa
di uno studio futuro.
311
312
ACTA PHILOSOPHICA, vol. 9 (2000), fasc. 2 - PAGG. 313-317
Brief comments on Capaldi’s “We Do” interpretation of
humean ethics
JUAN A. MERCADO∗
■
Several years ago, summarizing the ideas presented in previous articles, Prof.
Capaldi claimed that Hume’s “We Do” way of explaining moral life resembled a
Copernican Revolution1.
Contrary to the rationalist view, this critical Revolution proposes that sympathy complements the passions, other times opposes them. This, together with the
acquisition of refined manners which results from living together, serves the
needs of society better than mere reason. Sympathy is the “door” towards others,
the way we communicate and perceive their sentimental life. Communal living
teaches us how changing society maintains some steady characteristics and
shows the best ways of ordering and developing the community. Everyone, as a
member of his or her society, develops a kind of “We do”, anti-rationalistic and
anti-individualistic sense of morality.
Within this perspective —Capaldi claims— we discover a more effective theory to explain the norms of social life than the one presented by rationalist philosophers who cannot, for example, perceive the role of tradition as a moral value.
∗
1
Pontificia Università della Santa Croce, Piazza di Sant’Apollinare 49, 00186 Roma. E-mail:
[email protected]
Nicholas CAPALDI, Hume’s Place in Moral Philosophy (Hume’s Place), Peter Lang, New
York 1992, pp. 20 ff. He refers frequently to some of his antecedent works, especially
David Hume: The Newtonian Philosopher, Boston: Twayne, 1975; “Hume as Social
Scientist” in The Review of Metaphysics 32 (1978); “The Copernican Revolution in Hume
and Kant”, in Proceedings of the Third International Kant Congress, ed. Lewis White
Beck, Dordrecht: Reidel 1972; “Copernican Metaphysics”, in New Essays in Metaphysics,
ed. Robert C. Neville, Albany: SUNY Press, 1978. Capaldi’s main claim is that the humean
“We Do” (social, intersubjective and evolutive) proposal for understanding the fundamentals of moral life is stronger than the “I Think” rationalist systems. This new system implies
a Copernican Revolution in moral philosophy.
313
note e commenti
In addition to the intrinsic problems of explaining the sources of sympathy in
the Treatise2, there are ambiguities which need clarification in the evolution of
this term from that work to the Enquiries and the Dissertation on the Passions.
An attentive reading of the latter provides important details for a better comprehension of the whole Treatise and a deeper understanding of Hume’s philosophical evolution3.
In Hume’s later works, states Capaldi, sympathy seems less dependent on the
exchange of force and vivacity among ideas and becomes a social sentiment4. It
is restated as a sense of humanity or, simply, humanity. Hume also spares himself
the effort of explaining the relation of sympathy with benevolence, a term which
he uses more often in his later works.
For Capaldi, Hume’s intellectual path deserves special attention as it is there
that one can find the motives for his interest in social improvements instead of
the concern for harmonizing the elementary notions of an abstract philosophical
system5.
Practical life is the safety exit for the skeptical philosopher6. Research on the
foundations of social phenomena is less important than the explanation of the
2
3
4
5
6
See for example the connections of sympathy and complex sentiments as “love of fame”
(2.1.11.), “Our esteem for the rich and powerful” (2.2.5.), “Of the mixture of benevolence
and anger with compassion and Malice” (2.2.9., esp. pp. 381-389). Capaldi explains some
other problems in the paragraph “Difficulties in the Sympathy Mechanism”, in Ch. 6 of
Hume’s Place, pp. 225-236. All quotations and references to A Treatise of Human Nature
are from the Selby-Bigge edition (Clarendon Press, Oxford 1973). Books, Parts and
Sections are always in arabic numerals and in decimal fractions (Treatise 2.3.5.= Book II,
Part 3, Section 5). Quotations to other works are from the Green and Grose edition of
David Hume. The Philosophical Works, Scientia Verlag Aalen, Darmstadt 1964 (repr. of the
new edition, London 1882), vol. 4.
CAPALDI presents —Hume’s Place, pp. 270-271, and 324-5 (note 52 to p. 27)— the evidences of a shift in Hume’s system from the Newtonian mechanical conception of morals in
the Treatise (1739-40) to a “cultural account” in the Enquiry concerning the Principles of
Morals (EPM, 1751).
One of the most important concerns of Hume in the Treatise is to reduce many of the mental phenomena to the “energy” of the impressions, their source. For sympathy we note in
2.2.9, pp. 386-7: “Sympathy being nothing but a lively idea converted into an impression, ‘tis evident, that, in considering the future possible or probable condition of any person, we may enter into it with so vivid a conception as to make it our own concern” (bold
mine). Besides the less conditioned style of the Enquiries one find sympathy almost as
taken for granted in several instances of practical life or historical personages. See EPM,
pp. 208-209; 210, compared with Treatise, pp. 592-593. We find sympathy mentioned just
three times in A Dissertation on the Passions (pp. 152, 156 and 157). In the Enquiry concerning Human Understanding (EHU) it is used only twice in notes to clarify secondary
aspects of discourses (pp. 20-22). See also Capaldi’s remarks in Hume’s Place, pp. 241-247
and 264-265.
Hume’s Place, pp. 309-313 and notes 49-50 in pp. 370-371.
See Treatise 1.4.7., pp. 183-187 and 269-274. Also EPM, pp. 245-253, and EHU, p. 130:
“The great subverter of Pyrrhonism or the excessive principles of skepticism, is action, and
employment, and the occupations of human life”.
314
Juan Andrés Mercado
immediate causes and finalities of human behaviour. An active life offers not just
relief for human reason but also proposes wide-range solutions to theoretical
problems: if every honest citizen knows what is right for his community, why
philosophers have to spend more time producing new concepts to explain the
most intimate sources of our conduct? History has taught us the futility of this
line of research7.
Let us trust in custom and good sense to make judgments concerning human
actions8. Let sympathy flow and be justly balanced by general rules, and we will
see that the socially committed and responsible individual acts in the best way9.
This is a selection of the conclusions we can infer from Capaldi’s reading of
Hume.
I consider that Capaldi’s position valuable. Not least because he is a true proponent of certain aspects of Hume’s philosophy. He uses the original texts and
within the social context of the Scottish Enlightenment, clarifying erroneous
positions based on differing humean or anti-humean interpretations. He further
insists on the unity of the three Books of the Treatise, as a response to some
interpretative proposals which lack harmony with its form or structure10. Perhaps
the most valuable claim of Capaldi’s approach is to blend different positions —
the so called humean utilitarianism, his skepticism or his hedonism— by setting
them in a wider framework11.
His position is not merely useful to correct the traditional interpretations of
Hume’s way of conceiving the practical reason, but also to connect it with classical doctrines such as the Aristotelian position12. In Aristotle’s Ethics there are
several attempts to explain moral life in terms of practical performance. One can
find the inclusion of an “extra-rational” way of judging morals with the seeming
paradoxical claim that whoever is already acting in the right way can justly evaluate an action13.
Hume as well as Aristotle emphasizes the role of education and custom in this
7
8
See EPM, pp. 187 ff. Against the utopia of the “golden age”, see pp. 184-186.
EPM, pp. 179-194: custom and common sense as part of the background for justice. See
CAPALDI, Hume’s Place, p. 312.
9 Hume’s Place, pp. 262-265. He quotes there EPM, pp. 182-183; 257 and 278 as remarkable
texts supporting his proposal.
10 See his discussion of Norton’s view, which only considers the Treatise, in Hume’s Place,
pp. 151-152. For his view on the role of the passions for understanding Hume’s system, see
pp. 155-162, “Present State of the Literature on the Passions”. He insists both in the unifying value of the second Book within the framework of the Treatise and in the development
of Hume’s later works.
11 CAPALDI summarizes the main subjects in chapter one of Hume’s Place, pp. 2-19, “The
Historical Treatment of Hume’s Theory of Moral Judgment”, pp. 131-152. Also pp. 92-94
and 294-297. For “Naturalism”, see p. 297; utilitarianism, pp. 303-304; for “egoism” and
“hedonism”, pp. 304-305.
12 See Hume’s Place, pp. 275 and 307.
13 See for example Nic. Eth. 1105a17-1105b18 and 1113a29-b2. The treatment of practical
wisdom deserves special attention in 1106b36-1107a2; 1140a24-b30; 1142a12-30.
315
note e commenti
kind of judgments and it occurs to me that Capaldi’s position could be enriched
by this comparison14.
It is clear that Hume was acquainted with some of Aristotle’s works, including the Nicomachean Ethics, yet it is equally evident that they did not serve as
one of his main sources15. Capaldi also notes the differences between Hume’s
and Aristotle’s philosophies, and is correct to indicate the significance of finality
in Aristotle’s ethical system as an obstacle to the humean empiricist mentality16.
In a sense the “We Do” perspective generates the moral norms and is not linked
with an everlasting framework as Kant’s or Aristotle’s system17.
Nevertheless we can seek a reason for Hume’s faith in “general rules” and the
validity of one’s “sense of reality”. The latter is associated with the whole problem of belief, one of the fundamental concepts in Hume’s Treatise, almost taken
for granted in the Enquiries18. Traces of the notion of general rules occur in several texts of the Treatise and is explained in some important passages of the
Enquiries and the Dissertation.
General rules are the statistical outcome of our daily experience and are for
Hume an important aspect of the wider notion of custom. They carry out a very
important role in the retrenchment of movements arising from the passions and
in moral evaluations19, and act in a similar way to the Aristotelian virtues.
What supports these rules or, at least, our confidence in them? I believe that a
partial answer can be traced back to the idea of preestablished harmony and an
avowed confidence in our perception of the course of nature. It is true that the
term preestablished harmony is used just once in the Enquiry concerning Human
Understanding20, and never in the Treatise or the Dissertation on the Passions,
however some excerpts of these works can be read in this sense, for example his
discussion against radical skepticism, claiming the uniformity of natural
14 For
education in Hume’s works, see Treatise, pp. 116, 295, 472 and 500. EPM, pp. 118,
185 and 196. In Aristotle, see Eth. Nic. 1104b11-13; 1119b10-13 and 1130b26-27.
15 See Hume’s EPM, p. 285. There is a generic reference to Aristotle’s Ethics within a long
discourse where Hume evaluates attentively the contributions of Cicero’s position and
those of other moral philosophers.
16 Hume’s Place, pp. 275-276.
17 See Hume’s Place, p. 261 and the last parts of chapter 8, pp. 302-314.
18 The entire Part 3 of the First Book of the Treatise —“Of Knowledge and Probability”—
deals in essence with the nature of belief. Many of the discussions undertaken in this Part
are not represented in EPM. See Capaldi Hume’s Place, Chapter 7, esp. pp. 237-240 and
264-266.
19 Especially remarkable is their role in “correcting” the appearances of the senses to make
the difference between serious conviction and poetical enthusiasm —Treatise, pp. 147, 374
and 631-632—, also correcting the variations in our sympathies to steady our moral sentiments —pp. 581 and 602—; influencing imagination and sympathy —p. 371— , conditioning moral obligation —p. 551—, and passions —pp. 293 and 309. Capaldi underlines the
role of general rules in pp. 27, 122, 193, 218-220, 230, 242 and 244-246.
20 EHU, 5.2., p. 46: “Here, then, is a kind of pre-established harmony between the course of
nature and the succession of our ideas”.
316
Juan Andrés Mercado
events21, and his explanations of the basis of custom and inference22, or the
coincidences between corporal beauty and utility23. It appears that in Hume’s
intellectual development the appeal to the regularity of nature —even to the wisdom of nature24— provides a firm ground for the foundations of moral enquiry
and allows the philosopher to abandon the sterile abstract discussions of some
philosophical systems25.
It is interesting to view the inclusion of such a “rationalistic” approach to
nature in Hume’s system as symptomatic of the intrinsic incapacity to create a
self-supporting ethical proposal within a merely empiricist philosophy.
I think that Hume’s endeavours in explaining a new way of understanding
morals offer an original perspective by including some important elements of
human life. I agree with Capaldi’s claim that the humean proposal admits the
integration of active social elements —especially tradition and social evolution— that can hardly be comprehended within strictly rationalist ethical frameworks.
On the other hand, I consider that it is legitimate to emphasize that there are
some undemonstrated principles in Hume’s empiricist system and to note the
need for at least some extra or meta-empirical concepts to complete the ethical
behaviour explanation. It seems that Capaldi’s agreement with Hume is so complete that he is unable to perceive the necessity for such an account. If it could be
affirmed that Aristotle had to risk the rationality of his system by introducing
some empirical principles, it is also valid to affirm that Hume had to anchor his
skeptical and empiricist proposal to some meta-empirical foundations.
21 EHU,
p. 36 and 67 (our idea of necessity and causality derived from the uniformity in the
operations of nature) and Treatise, pp. 105, 134, 363, 379. Human nature is also determined
by the regularity of Nature, as explained in EPM, pp. 172 and 271, and Treatise, p. 359.
22 See for example, EHU, pp. 39, 43 (nature has established connections among particular
ideas), Treatise, p. 379.
23 See Treatise, pp. 576 and 615, and EPM, p. 227.
24 Cfr. EHU, p. 48.
25 Hume describes one species of philosophers that “regard human nature as a subject of speculation; and with a narrow scrutiny examine it, in order to find those principles, which regulate our understanding (…) and think themselves sufficiently compensated for the labour
or their whole lives, if they can discover some hidden truths, which may contribute to the
instruction of posterity”, EHU, pp. 3-4. For Hume, modesty becomes in his mature works a
sistematical maxim against everyone’s rationalistic tendencies: “What is the foundation of
all conclusions from experience? this implies a new question, which may be of more difficult solution and explication. Philosophers, that give themselves airs of superior wisdom
and sufficiency, have a hard task, when they encounter persons of inquisitive dispositions
(…) The best expedient to prevent this confusion, is to be modest in our pretensions; and
even to discover the difficulty ourselves before it is objected to us. By this means, we may
make a kind of merit of our very ignorance” EHU, pp. 28-29. Cfr. also p. 47.
317
318
ACTA PHILOSOPHICA, vol. 9 (2000), fasc. 2 - PAGG. 319-338
Una aproximación al Curso de Teoría del Conocimiento de
Leonardo Polo
JOSÉ IGNACIO MURILLO*
■
1. La teoría del conocimiento como jalón de un proyecto filosófico
La propuesta filosófica de Leonardo Polo despierta cada vez más interés entre
un número creciente de filósofos. Durante bastante tiempo, este interés se había
visto prácticamente reducido al ámbito de los que habían tenido la fortuna de conocerlo personalmente. Sin embargo, desde la publicación del primer tomo del Curso
de Teoría del Conocimiento, en 1984, la continua sucesión de escritos del autor
que han ido viendo la luz ha permitido que sus aportaciones sean conocidas por un
público más numeroso, a la vez que han mostrado la novedad y el interés de sus
tesis fundamentales y de su original modo de afrontar la investigación filosófica.
El tomo I de su Antropología trascendental, que lleva como subtítulo La persona humana, recientemente publicado1, constituye, como el autor mismo señala
en su prólogo, el vértice de su proyecto, cuyas líneas fundamentales están suficientemente esbozadas, aunque no del todo recorridas, ya que todavía falta por
ver la luz el tomo II, que tiene como tema la esencia del hombre para culminar el
proyecto original.
Desde el principio, Leonardo Polo se propuso elaborar una antropología que
no se redujera a una ontología regional y estuviera en condiciones de abordar
adecuadamente un estudio trascendental de la persona humana, convencido de
que la persona no sólo se distingue de los seres no personales en virtud de sus
*
Departamento de Filosofía, Universidad de Navarra, 31080 Pamplona (Spain). e-mail:
[email protected]
1
Antropología trascendental. Tomo I: La persona humana, Eunsa, Pamplona 1999. Una
buena introducción a esta obra se encuentra en L. POLO, El descubrimiento de Dios desde el
hombre, «Studia Poliana», 1 (1999), pp. 11-24.
319
note e commenti
propiedades, sino que se distingue de ellos trascendentalmente, es decir, en el
orden del ser. Por eso, para él, el método de la antropología debe ser distinto del
de la metafísica. Para Polo esta convicción es lo más positivo del intento moderno, que, sin embargo, ha naufragado por un error de método, unido a la depresión de la metafísica que heredó de la baja Edad Media; una depresión que, en
último extremo, se fundaba en un error en la comprensión de la naturaleza y
alcance del conocimiento humano.
La preocupación por el método late, por tanto, en el fondo de su propuesta.
No es extraño, por tanto, que haya dedicado desde el principio una atención
especial al conocimiento humano, y hasta se haya llegado a definir a sí mismo en
ocasiones por esta dedicación, es decir, como un teórico del conocimiento.
El núcleo de dicha propuesta y sus primeros desarrollos fueron expuestos en
los años sesenta en algunas obras. La primera de ellas es El acceso al ser2, donde
se expone el método que el autor pretende desarrollar en su intento de continuar
la filosofía tradicional. Se trata de detectar el límite que el pensamiento introduce
en nuestro conocimiento de la realidad, en condiciones tales que quepa abandonarlo. Las cuatro dimensiones de ese abandono constituirán el método para aproximarse a los grandes temas de la filosofía: el ser y la esencia del universo y el
ser y la esencia del hombre.
Esa primera obra, junto con la dedicada al estudio del ser del universo, se revelaron difícilmente comprensibles3; algo que el autor atribuye a lo abrupto del
modo de abordar los temas y a la aparente desconexión de la exposición con los
planteamientos habituales. El hecho es que fueron poco comprendidas y su repercusión fue mínima. Pero, con el correr de los años, Polo va a encontrar un modo
más accesible de formular su propuesta, que consiste en desarrollar detenidamente el estudio del conocimiento humano partiendo de la perspectiva aristotélica.
Las observaciones precedentes tienen como propósito advertir acerca del
carácter singular de la obra que vamos a intentar esbozar. Evidentemente, tanto
por su título como por su contenido, los cuatro tomos del Curso de Teoría del
Conocimiento son un tratado acerca del conocimiento humano (en el que, no
obstante, no se abordan todas sus dimensiones, pues, por ejemplo, sólo ocasional
o indirectamente se alude en él al conocimiento de la persona). Sin embargo, el
interés de esta obra desborda el tema que trata, pues, al mismo tiempo, constituye seguramente la más conseguida propedéutica para abordar el núcleo del pensamiento de su autor. El presente estudio se propone ofrecer una visión sintética
de la obra, que permita una perspectiva de conjunto de los temas abordados y
pueda servir como guía para su lectura4.
2
3
4
El acceso al ser, Eunsa, Pamplona 19642.
Se trata, sobre todo, de El acceso al ser y de El ser I. La existencia extramental, Eunsa,
Pamplona 1966 (2ª ed. 1998).
La obra en cuestión se encuentra dividida en cuatro tomos (Curso de Teoría del
Conocimiento, Eunsa, Pamplona; tomo I, 19872; tomo II, 19983; tomo III, 19992; tomo
IV/1, 1994; tomo IV/2, 1996), el último de los cuales ha sido editado en dos partes. En este
320
José Ignacio Murillo
2. Hacia una axiomática del conocimiento
Puesto que el conocimiento busca no sólo la claridad sino también el orden en
los temas que trata, Polo propone un enfoque axiomático de la teoría del conocimiento. Los axiomas de la teoría del conocimiento son evidencias —en modo
alguno postulados— que no dependen de ninguna otra y que vertebran la aproximación a las diversas dimensiones del conocimiento que deben ser tratadas5. Pero
es preciso aclarar que los axiomas no son meros enunciados lingüísticos. Por eso
no basta formularlos, sino que es preciso penetrar en su contenido: entenderlos.
Una vez conseguido, se ve que su formulación no es lo más importante.
La razón de este carácter no lingüístico de la teoría del conocimiento estriba
en la diferencia entre conocimiento y lenguaje. En el conocer humano no todo es
lenguaje, sino que hay niveles infralingüísticos, como el conocimiento sensible,
y niveles supralingüísticos. Además el lenguaje no es puro conocimiento porque
lo anima la intención comunicativa, que no es teórica y que, en el caso del hombre, comporta recurrir a realidades inferiores al pensar como vehículo de expresión6. Por eso, el lenguaje, cuando se usa para comunicar los resultados de una
5
6
trabajo será citada abreviadamente como CTC, seguido del número de tomo y, en su caso,
de la parte a que corresponda la cita (p. ej.: CTC, IV/2, p. 154). Para no recargar excesivamente de notas el trabajo se ha evitado la referencia exhaustiva a los diversos lugares donde
se tratan los temas expuestos. Por otra parte, las consulta de los diversos temas puede
hacerse siguiendo el índice de los volúmenes. Como orientación general, la distribución de
la obra es como sigue: el primer tomo está dedicado a la axiomática, la intencionalidad cognoscitiva y el conocimiento sensible; el segundo, al objeto intelectual y la presencia mental,
y a la operación incoativa (abstracción y conciencia); el tercero se detiene en el estudio de
la prosecución generalizante o negativa del pensar; y el cuarto, en la prosecución racional,
que conoce la realidad física causal, y en el logos u operaciones unificantes de ambas líneas
prosecutivas. Lógicamente, las dimensiones de este trabajo impiden dedicar a cada uno de
los puntos que se van a tratar el espacio que requieren para dar de ellos una explicación
cabal. Esta es la razón de que a veces el tono parezca más descriptivo que argumentativo.
Más bien se pretende ofrecer una idea de conjunto, a modo de presentación, para aquellos
que no conocen la obra, y trazar un plano general, que sirva para orientarse en ella, dirigido
a aquellos que ya han abordado alguna de sus partes. Aparte de los artículos y libros que la
tienen por objeto, algunos de los cuales serán citados, se puede consultar, para una visión
sinóptica, dos manuales introductorios a la teoría del conocimiento, declaradamente inspirados en la de Polo: J.A. GARCÍA, Teoría del conocimiento humano, Eunsa, Pamplona 1998
y J.F. SELLÉS, Curso breve de teoría del conocimiento, Universidad de la Sabana, Santafé
de Bogotá 1997. Una exposición introductoria que puede complementar la presente es la de
J.A. GARCÍA, El abandono del límite y el conocimiento, en AA.VV., El pensamiento de
Leonardo Polo, Cuadernos de Anuario Filosófico (11), Servicio de Publicaciones de la
Universidad de Navarra, Pamplona 1994; y la de J.J. PADIAL, Las operaciones intelectuales
según Polo, «Studia Poliana», 2 (2000), pp. 113-144.
La distinción entre axioma y postulado y la explicación de cómo este planteamiento no es
afectado por el teorema de Gödel se trata en CTC, I, pp. 1-27.
«El lenguaje es un descenso del conocimiento hacia la práctica. Y en este sentido es instrumental» (Ser y comunicación, en AA.VV., Filosofía de la Comunicación, Eunsa, Pamplona
1986, p. 71).
321
note e commenti
investigación acerca de la naturaleza del conocimiento, sólo puede cumplir su
papel de un modo alusivo u oblicuo, es decir, intentando conducir al interlocutor
a que entienda lo que hemos entendido. De este modo Polo se distancia de aquellas corrientes contemporáneas que identifican el conocimiento intelectual con el
lenguaje.
La teoría del conocimiento se enfrenta con el estudio de una actividad de la
que tenemos experiencia interna. Es a nuestra actividad cognoscente adonde
debemos dirigirnos para saber qué es el conocer. Pero es preciso hacer una
advertencia: no es conveniente introducir precipitadamente el sujeto en este estudio. Para Polo, la teoría del conocimiento y su axiomática giran de entrada en
torno a la noción de operación. Es ésta la que intenta axiomatizar. La noción de
facultad, en cambio, no parece consentir la axiomática7; de hecho, no parece
posible reducir el elenco de facultades sensibles a una deducción necesaria. Y,
por su parte, el tratamiento adecuado del sujeto cognoscente corresponde a la
antropología8.
3. La operación cognoscitiva
Polo presenta esta investigación como una continuación del estudio del conocimiento emprendido por Aristóteles. La razón fundamental de esta filiación
estriba en que su punto de partida es la noción aristotélica de operación, la enérgeia. Según Polo el sentido más aristotélico de la aristotélica noción de acto es el
acto de conocer9. En ella se cifra gran parte de lo que en el pensador griego hay
de inventivo. La enérgeia es el acto ejercido. La exposición de esta noción está
ligada al enunciado del primer axioma de la teoría del conocimiento, el axioma
A, que afirma que el conocimiento es acto.
En primer lugar, este axioma excluye que el conocimiento sea pasividad. Es
el caso de quienes lo describen como una intuición, y atribuyen la actividad a lo
conocido y no al conocer. No es correcto permitir que lo inteligible centre de tal
modo nuestra atención que nos haga olvidar que no hay inteligible sin el acto que
lo conoce. Esta crítica afecta, por ejemplo, a Platón, que describe el conocer
como una aspiración a lo inteligible, y, a este último, como inteligible en sí, al
margen de cualquier acto de conocerlo. Se podría añadir que, al menos en el
nivel intelectual, no hay inteligible sin alguien que lo entienda, pero, como
hemos dicho, no hay que apresurarse a introducir al sujeto en la teoría del cono7
8
9
M.J. FRANQUET, La relación entre la axiomática y la facultad cognoscitiva orgánica,
«Studia Poliana», 2 (2000), pp. 145-163.
Cfr. J.F. SELLÉS, La extensión de la axiomática según Leonardo Polo, «Studia Poliana», 1
(2000), pp. 77-111.
Cfr. El conocimiento habitual de los primeros principios, Cuadernos de Anuario Filosofico
(10), Servicio de Publicaciones de la Universidad de Navarra, Pamplona 1993; R. YEPES,
La doctrina del acto en Aristóteles, Eunsa, Pamplona 1993.
322
José Ignacio Murillo
cimiento. No hay un único acto de entender, sino varios: en concreto, uno para
cada inteligible.
Pero ante todo hay que caer en la cuenta de qué quiere decir que el conocimiento es acto. Para Kant, afirmar que el conocimiento es activo es referirse a su
carácter constructivo. Sin embargo, esta concepción pasa por alto el descubrimiento aristotélico. Como hemos dicho, no puede darse conocimiento sin actividad, y esto es aplicable a todo conocimiento; pero, puesto que el conocimiento
humano es, de entrada, operación, tanto en el nivel sensible como en el intelectual, es preciso exponer cómo es acto esta última.
Ante todo la operación no es ninguna de las categorías, no es sustancia ni un
accidente que inhiera en ella, y, por tanto, no basta situarla entre ellas para describirla en lo que tiene de más propio10. Para hacerlo es preciso mostrar qué la
caracteriza en cuanto actividad. Aristóteles distingue netamente entre dos tipos de
acto: la kínesis y la práxis teléia. La primera es la actividad que no posee su fin.
El construir es de este tipo, puesto que mientras se da tal actividad, su fin, lo construido, no existe. Es más, una vez logrado el fin, la acción desaparece. Pero no
ocurre lo mismo con la práxis teléia. El ver es simultáneo con su fin, y se ejerce
en esa medida. No hay ver sin objeto visto, ni objeto visto sin ver. Por eso el ver
no se agota al llegar al fin, sino que lo posee: veo, ya he visto y sigo viendo.
Aquí aparece claramente el carácter posesivo del conocer. Dice la física que
no hay velocidad infinita, que todo movimiento exige tiempo, pues ninguno
puede superar la velocidad de la luz; pero esta limitación no vale para el conocimiento, ya que, entre el conocer y lo conocido no hay tiempo, sino simultaneidad; se trata de un acto que, desde el principio, ya ha alcanzado su fin. Esto da
lugar a enunciar un axioma lateral11 del axioma A, el axioma E, que dice que no
hay operación sin objeto, y al que se puede dar la vuelta (axioma E’), pues tampoco hay objeto sin operación.
Como se ve, se trata para el autor tan sólo de caer en la cuenta de algo que de
suyo es evidente, pero que podemos pasar por alto. De hecho, no son pocas las
doctrinas acerca del conocimiento que se han levantado de espaldas a este descubrimiento aristotélico. Pero, ¿qué se puede decir del objeto? Nuestro conocimiento ¿alcanza con él la realidad? El conocimiento operativo es aspectual. Al
ver, conozco colores, y al oír, sonidos. Pero ninguna de estas operaciones agota
lo real ni lo muestran qua real. Las operaciones objetivan esos aspectos y no la
realidad en sí misma. Además una descripción cabal del objeto revela que éste no
es autorreferente. Esto se expresa en otro axioma lateral del axioma A, el axioma
F, que dice que el objeto es intencional.
10 La
consideración de la realidad desde las categorías no es la única ni la definitiva. En concreto, en ella no comparecen nociones como la de naturaleza y operación, ni mucho menos
la de acto de ser. Ya en Aristóteles la consideración de la realidad desde el acto y la potencia no se agota en aquélla.
11 Los axiomas laterales explicitan y aclaran los axiomas principales de la teoría del conocimiento, es decir, los axiomas A, B, C y D.
323
note e commenti
En el conocimiento, lo intencional es el objeto y no la operación. En esto se
diferencia de la voluntad, que ejerce actos intencionales12. El acto de conocer
es, en cambio, posesivo. Lo que remite a la realidad, o versa sobre ella, es el
objeto que es en ella poseído. Es más, el objeto no es sino esa remitencia que,
aunque incapaz de iluminar por completo la realidad, nos ofrece alguno de sus
aspectos. Polo ilustra esta propiedad con algunos ejemplos. Uno de ellos es el
del retrato. No es posible ver un retrato como retrato sin ver en él al retratado.
Captar el retrato es ir más allá de él. Salvando la imperfección del ejemplo, la
intencionalidad cognoscitiva es como un retrato, pero sin soporte: la pura remitencia.
El axioma E nos indica que la operación y el objeto se conmensuran exactamente. No existe la operación, ni ninguna parte o incoación siquiera de ésta,
hasta que hay objeto. Por lo tanto, todo acto de conocer es heterorreferencial, y
esto excluye la reflexión: la operación no se puede conocer a sí misma.
Pero una vez vista la naturaleza de las operaciones cognoscitivas, es preciso
dar cuenta de la distinción entre ellas. A esta exigencia responde el axioma B,
que es el axioma de la distinción. Si atendemos a las operaciones como actos, no
nos basta decir que su diferencia es numérica o que depende de la materia. La
respuesta la ofrece el contenido del axioma, diciendo que la distinción entre las
operaciones es jerárquica. Si hay distinción entre ellas, debe correr a cargo de su
carácter de acto, es decir, unas tienen que conocer más que las otras. En este sentido el ver conoce más que el oír; y también es preciso distinguir de este modo
entre los diversos objetos de cada facultad, pues tampoco es lo mismo para la
vista conocer el color rojo que conocer el azul.
Polo ilustra este axioma comentando una de sus conculcaciones más notables.
Es el caso de Hegel. Para este filósofo toda distinción en el conocimiento es provisional, pues lo verdadero es el todo. Al final del proceso sólo habrá un objeto
en el que todo será conocido. Pero esto supone ignorar que a cada objeto le
corresponde una operación, y que éstas son diversas entre sí, y, a su vez, contradice, según Polo, el axioma C, llamado también axioma de la unificación, que
afirma que las operaciones, los niveles cognoscitivos, son insustituibles, aunque
también unificables. De entrada, insustituibles: en el conocimiento no cabe tirar
la escalera, una vez que se ha ascendido: que una operación sea superior a otra
no quiere decir que la incluya o la haga superflua. Pero, por otra parte, el conocimiento no es mera proliferación anárquica, pues permite la unificación entre lo
conocido por las operaciones.
12 L.
POLO, La voluntad y sus actos (I), Cuadernos de Anuario Filosófico (50), Servicio de
Publicaciones de la Universidad de Navarra, Pamplona 1998, pp. 54 ss.
324
José Ignacio Murillo
4. El conocimiento sensible
El axioma A impide admitir el innatismo. Los inteligibles, las ideas, no pueden estar en la mente como en un recipiente, al margen de su ser pensadas. Esto
orienta nuestro estudio hacia la actividad sensible como origen de todo conocimiento. Por eso parece conveniente recurrir a la sensibilidad para comenzar
desde el principio la consideración de nuestra experiencia cognoscitiva. Además
esto nos permite ir describiendo la intencionalidad propia de cada uno de los
niveles de nuestro conocimiento, evitando el peligro de formular esta noción de
un modo demasiado general.
En la sensibilidad externa, el acto es precedido por una inmutación física en la
sensibilidad. Es lo que la filosofía aristotélica denomina especie impresa13. Pero
conocer no es ser inmutado, sino la actividad que la facultad ejerce. La operación
no es afectada por el agente físico, sino que posee una forma. Polo denomina este
fenómeno cambio de signo. El cambio de signo es propio de la vida desde el nivel
vegetativo. Se trata del aprovechamiento para sus fines de los influjos que el
viviente recibe del exterior, como es patente en la nutrición, el crecimiento y la
reproducción. En el conocimiento, el primer cambio de signo que cabe detectar es
el aprovechamiento de la inmutación como ocasión para ejercer un acto posesivo
de un fin. Y esto ocurre ya en los cinco sentidos que tradicionalmente han sido
llamados externos: el tacto, el gusto, el olfato, el oído y la vista.
En este primer nivel la intencionalidad es resbalante o plural formal. Esto
significa que las formas sentidas no tienen referente: se limitan a aparecer. Para
conocer las sensaciones como «sensación de» se precisa el sensorio común, o
conciencia sensible, que objetiva los actos de la sensibilidad externa. Gracias a él
se puede percibir la diferencia entre dichos actos y sus respectivos objetos. Las
formas sentidas, cuando se siente también el acto que las conoce, aparecen destacadas, y, de este modo, como referidas a un apoyo, que es la sustancia como sensible per accidens14.
Ahora bien, el conocimiento no puede progresar ya en esta línea. Por esta
razón la estrategia que despliega comporta un nuevo cambio de signo respecto de
la percepción. Se trata del acto de la imaginación. La imaginación es una facultad distinta de las otras facultades sensibles: su órgano no es previo a su ejercicio, sino que previamente sólo está esbozado y se constituye mediante él. Por eso
la imaginación puede crecer y ejercer progresivamente actos superiores. Estos
actos consisten en una reobjetivación de lo obtenido mediante los sentidos exter13 El
axioma G afirma que el objeto es formal si es precedido en el órgano por una especie
impresa o retenida.
14 La declaración de la incomparabilidad entre el acto y la forma sensible «es el sensible per
accidens, la referencia reforzada según la cual las formas se destacan del acto. El destacarse
es conocido por el sensorio común como referencia […] Como el acto se siente a la vez que
las formas conmensuradas con él, la incomparabilidad de las formas es lo terminal» (CTC,
I, p. 406).
325
note e commenti
nos. La imaginación no suple los actos de los sentidos externos —si afirmáramos
lo contrario, estaríamos conculcando el axioma C—, pero es capaz de volver a
objetivar lo alcanzado por ellos. Al hacerlo no reitera la intencionalidad de aquéllos, sino que obtiene una intencionalidad distinta. La imaginación capta formas,
pero en ella éstas no aparecen como «formas de», sino como contenidos. Esto se
debe a que la forma imaginada está autorreferida. Podemos entender qué significa esto si consideramos que los objetos de la imaginación pueden ser tomados
como reales, como ocurre en las alucinaciones. En este sentido se puede decir
que esta facultad es representativa. Entender el conocimiento como una representación de la realidad ha sido una de las características de las teorías del conocimiento que no han admitido la intencionalidad. Si lo conocido es siempre una
representación, resulta imposible que el conocimiento lo compare con la realidad. Para hacerlo tendría que recurrir a una instancia no cognoscitiva. Polo, en
cambio, considera que la única facultad representativa es la imaginación, pero no
porque no conozca intencionalmente, sino por lo peculiar de su intencionalidad,
que hace que el objeto no remita fuera de sí mismo.
Pero esta facultad no es suficiente para garantizar el control cognoscitivo de
la conducta animal. Es preciso añadir los actos de la memoria y de la cogitativa,
que aportan unos nuevos sensibles per accidens, que refuerzan la intencionalidad
de la imagen según una alusión a la realidad. La memoria es una perfección del
viviente correlativa a una imperfección suya: la discontinuidad de la retención.
Esto da lugar a la intención de pasado. Por su parte, la intención de la cogitativa
es una proyección finita particular: una intención de futuro. Con la ayuda de
estas nuevas intenciones se puede aprovechar la experiencia y emplearla para el
logro de los objetivos de las tendencias.
La imaginación en los animales no sobresale por encima de la memoria y de
la cogitativa, sino que está a su servicio. Pero en el ser humano, la hegemonía de
estas últimas no es total. La imaginación humana es capaz de reobjetivaciones
que no tendrían ningún sentido para la conducta animal y que, por tanto, preludian la inteligencia. Así ocurre, por ejemplo, con el espacio como pura extensión
y el tiempo como flujo incesante. Para Polo, no obstante, hay una imagen superior a estas dos que marca el máximo hasta el que da de sí esta facultad en el
hombre: la circunferencia, como curvatura ajustada consigo misma.
De todos modos, esta relativa superioridad de la imaginación sobre las otras
facultades sensibles no le permite articular el tiempo del viviente, porque los
sensibles per accidens no son reobjetivaciones15, y, por tanto, no pueden ser captados por la imaginación. En el ser humano esta articulación es posible en virtud
de un nuevo cambio de signo, que inaugura la actividad propiamente intelectual.
Se trata de la primera operación de la inteligencia, que Polo denomina, con
Aristóteles, abstracción.
15 Esto
no excluye una cierta conexión entre los sensibles per accidens, pero para ello «tiene
que reducir la referencia intencional» de éstos. Cfr. CTC, I, pp. 409-410.
326
José Ignacio Murillo
5. La operación incoativa de la inteligencia
Con la abstracción comienza el conocimiento intelectual humano. A diferencia del conocimiento sensible, la inteligencia es una facultad inorgánica. Por eso
no puede ni tener especies impresas al modo de los sentidos externos, porque no
puede ser afectada por lo material, ni retenidas, como la imaginación, porque no
tiene un órgano que las conserve por medio de su crecimiento. A diferencia de
las facultades sensibles, el comienzo de la actividad intelectual se debe a una iluminación por parte del acto de que depende: el entendimiento agente. El conocimiento no procede extra se inspiciendo, sed intra se considerando16, lo que, en
el caso de la inteligencia, implica que ésta no desciende a la sensibilidad para
encontrar en ella su objeto, sino que se retrae hacia la iluminación de la sensibilidad que le proporciona el entendimiento agente. Ahora bien, el objeto de la operación abstractiva es intencional, y esa intencionalidad se vierte sobre los objetos
de la sensibilidad intermedia. Esto es lo que se llama conversio ad phantasmata:
los fantasmas son el término de la intencionalidad abstractiva.
Al versar la intencionalidad abstractiva sobre la sensibilidad intermedia, aporta el presente, desde el cual se articulan las intenciones de pasado y de futuro de
la memoria y la cogitativa. Según esta conversión, los abstractos pueden ser definidos como una articulación del tiempo de la sensibilidad interna. Pasado y futuro son articulados desde la presencia. La presencia mental es la operación intelectual17, el acto que presenta los abstractos.
Pero es preciso notar que en la articulación temporal no comparece la presencia. Lo contrario supone afirmar que la operación versa sobre sí misma, y esto
anularía la estricta conmensuración con su objeto (que se formula en el axioma
E) y haría imposible la intencionalidad de este último (axioma F). Ahora bien, no
todos los abstractos son articulaciones temporales, pues hay una imagen que se
puede abstraer sin que esté reforzada por las intenciones de la memoria y de la
cogitativa. Esta imagen, por ser una forma pura, es presente a la operación sin
resquicios, sin guardar ninguna reserva18. Se trata de la circunferencia. La operación que la abstrae es denominada conciencia objetiva, pues, frente a los otros
actos abstractivos, goza de una especial prerrogativa, ya que su objeto se con16 Polo
cita esta afirmación de Juan de Santo Tomás, que pertenece al Cursus theologicus,
disp. 32, art. 5, nº 11: cfr. CTC, I, p. 78; ibidem, p. 279; CTC, II, p. 228.
17 «La presencia articulante es mental y, por tanto, no temporal. Si la presencia no es “exterior”, o superior, al tiempo, no cabe hablar de articulación del tiempo. Ahora podemos rectificar a Heidegger: la presencia como discurso no es un miembro del ék-stasis temporal. Es
preciso subir de nivel, pues en otro caso no es posible aunar pasado y futuro respetando su
carácter no formal. Si la presencia pertenece al tiempo, no lo articula y hay que formalizar
pasado y futuro» (CTC, II, p. 201).
18 La circunferencia abstracta no es una imagen, ni mucho menos una figura trazada en el
espacio y en el tiempo. Polo explica cómo la circunferencia se puede considerar al margen
del espacio y el tiempo en CTC, II, pp. 191-2.
327
note e commenti
mensura de tal modo con la operación que en ella se hace patente el axioma A:
conoce su objeto en tanto que conmensurado con la operación que lo conoce. El
acto de conciencia se describe así: «conozco lo que conozco, como lo conozco,
porque lo conozco».
La conciencia tiene que ser una, pero si es operación, esta unidad no se mantiene para una pluralidad de objetos, pues a cada objeto le corresponde una operación distinta. Por eso, su correlato intencional tiene que ser uno y único, y el
objeto que cumple esa condición no es otro que la circunferencia pensada.
Los abstractos, que son articulaciones temporales de las imágenes unidas a
las intenciones de la memoria y la cogitativa —que, a diferencia de la imaginación, no son intenciones formales— no muestran de este modo su conmensuración con la operación que los conoce. Por eso a ellos no les conviene el apelativo
de conciencia. Sin embargo, son de extraordinaria importancia en la prosecución
intelectual, es decir, en el posterior despliegue de la inteligencia.
¿En qué sentido se puede hablar de prosecución intelectual? No es posible
admitir que la inteligencia conozca más sin aceptar otras operaciones distintas19
de las descritas, pero que correspondan a la misma facultad. Pero esto plantea
algunos problemas que hay que resolver. En primer lugar, la inteligencia no
extrae conocimiento de otras fuentes diversas de la abstracción20. Por otro lado,
no cabe una nueva recombinación, comparación o profundización en lo conocido
sin aportar un acto distinto —que debe ser superior si aporta una ganancia de
conocimiento—, pues lo contrario supondría admitir o bien que una operación
puede conocer mejor su objeto —lo que conculcaría el axioma E, pues negaría la
conmensuración entre la operación y su objeto—, o bien que se pueden suscitar
operaciones de un modo ciego, entendiendo la inteligencia como sede de tendencias cognoscitivas, que buscan su objeto, conculcando así el axioma A.
Estas dificultades incitan a revisar la teoría clásica de la abstracción y del
entendimiento agente. Para la tradición aristotélica, el entendimiento agente es
una pieza teórica para explicar el paso del conocimiento sensible al intelectual. La
inteligencia es una potencia inmaterial, y, por tanto, su acto no puede ser precedido por una inmutación material. La solución de esta dificultad es la existencia de
un acto intelectual que no es una operación (el intelecto agente), que ilumina la
sensibilidad, convirtiéndola en especie impresa de la inteligencia. Ya hemos visto
que Polo acepta esta explicación. Ahora bien, la inteligencia humana no se detiene
en la abstracción, sino que es capaz de conocer más. Es más, ésta es la diferencia
axiomática entre ella y la sensibilidad (el axioma D): la inteligencia es operativa19 Nótese
la diferencia entre la pluralidad operativa a que aquí se alude y las diferentes operaciones de otras facultades. La imaginación, por ejemplo, ejerce operaciones distintas, unas
más perfectas que las otras; pero siempre objetiva imágenes. En cambio, para conocer lo
real como real es preciso que la inteligencia no conozca tan sólo abstractos.
20 No nos referimos aquí al conocimiento de nuestra realidad espiritual, que, ciertamente, no
puede proceder de la abstracción, sino más bien del conocimiento de nuestra actividad cognoscitiva y voluntaria.
328
José Ignacio Murillo
mente infinita; no hay un último objeto que sature la inteligencia humana, de tal
modo que no se pueda pensar más allá de él. Para Polo, esto exige que el acto iluminante que la pone en marcha no la abandone a lo largo de su ejercicio.
En lo sucesivo su influjo no consistirá en iluminar la sensibilidad. Pero no
acaba ahí la exigencia de iluminación. Recordemos que, salvo en la conciencia
objetiva —y en este caso del modo peculiar que hemos indicado—, la conmensuración de la operación abstractiva con su objeto impide que la operación comparezca ante la inteligencia. Lo que comparece mediante la operación es su objeto,
en este caso el abstracto, que se obtiene precisamente en la medida en que la operación se oculta al presentarlo. Por eso cabe denominar a la presencia mental, es
decir, a la operación intelectual, límite mental. Este ocultamiento es una detención
del conocer en el objeto, que, de no ser manifestada, nos podría llevar a confundir
lo pensado tal como lo pensamos con lo real. De ahí que, si la inteligencia debe
continuar, y no puede ser de otro modo, pues, de lo contrario, su mismo comenzar
carecería de sentido21, es preciso que el entendimiento agente ilumine la operación, la presencia mental, desocultándola. Este desocultamiento es más que una
especie impresa. Se trata de un hábito que faculta a la inteligencia para operaciones ulteriores. A diferencia de la voluntad, la inteligencia adquiere sus hábitos con
un solo acto y, sólo gracias a ellos, puede seguir conociendo22.
De lo dicho se desprende que Polo propone también una rectificación y
ampliación de la teoría clásica de los hábitos intelectuales. Según él, éstos deben
ser considerados, no como unas meras perfecciones potenciales, sino ante todo
como actos cognoscitivos intelectuales distintos de las operaciones, posibilitados
por el intelecto agente, que iluminan la operación previamente ejercida y permiten otra superior. Son los hábitos los que explican que la inteligencia sea infinitamente operativa y que nunca conozca de tal modo que no pueda conocer más.
Algo que enuncia el axioma H, lateral del axioma D, que afirma que la inteligencia no es un principio fijo, sino que puede crecer en cuanto principio gracias a
los hábitos23.
21 Como
se desprende del axioma D. Al respecto, Polo afirma: «La inteligencia no empezaría
si hubiese una última operación intelectual. […] por eso, aunque el primer acto no es provisional, tampoco está destinado a consumarse en sí mismo» (CTC, III, p. 4).
22 Sobre la continuidad con la doctrina tomista sobre de los hábitos, cfr. Operación, hábito y
reflexión. El conocimiento como clave antropológica en Tomás de Aquino, Eunsa,
Pamplona 1998.
23 «El axioma que dice que la inteligencia es susceptible de hábitos tiene que añadir enseguida
que adquiere cada hábito con un solo acto, porque de otro modo el carácter jerárquico de la
infinitud operativa no podría justificarse. Pero hay que añadir también lo siguiente: la inteligencia no comenzaría si no fuese susceptible de hábitos. En este sentido, los hábitos son
cuasi innatos: la inteligencia es potencia respecto de ellos y no sólo respecto de las operaciones; en rigor, más respecto de ellos que respecto de las operaciones, por cuanto sin hábitos no prosigue, y si no prosigue, no empieza» (CTC, III, p. 4). Sobre los hábitos en Polo
puede consultarse J.F. SELLÉS, Los hábitos intelectuales según Polo, «Anuario Filosófico»,
XXIX/2 (1996), pp. 1017-1036.
329
note e commenti
Según esta propuesta, el entendimiento agente no es un mero suministrador
de especies impresas, sino que acompaña a la inteligencia a lo largo de su ejercicio. Otro problema es determinar cuál es el lugar del intelecto agente en el cognoscente. Para Polo no es aceptable entenderlo como un acto de entender externo
al sujeto, ni basta concebirlo como una mera facultad. Pero cabe que este acto
que permite conocer la realidad en toda su amplitud se identifique con el acto de
ser del sujeto intelectual: el esse hominis24. El estudio de este acto de conocer
escapa de los límites de la teoría del conocimiento y debe ser tratado por la
antropología. En concreto, para Polo, se trata de uno de los trascendentales personales25.
Gracias a esta iluminación, la conciencia operativa da lugar al hábito de conciencia. La absoluta carencia de implícitos del objeto de esta operación hace que
este hábito no posibilite ningún desarrollo posterior. En cambio, la iluminación
de la operación articulante, la abstracción, es, a su vez, un hábito articulante: el
hábito abstractivo. Para Polo el tema26 desvelado por este hábito es la articulación verbo-nombre, y, por lo tanto, es el hábito lingüístico por excelencia27.
6. Las declaraciones de insuficiencia del abstracto y la doble prosecución de la inteligencia
El tratamiento de las operaciones que suceden a la abstracción es difícil de
condensar en unas pocas páginas. Sin embargo, pienso que puede ser provechoso, asomarse al menos a su planteamiento, para conocer sus líneas maestras y
hacerse una idea ordenada de sus contenidos. Advierto, por tanto, al lector que
24 «Si
el intelecto agente está en el orden del esse hominis y admitimos la distinción real, el
intelecto agente no puede ser más humano: pertenece al orden personal. Por consiguiente,
ha de iluminar a la presencia en su ocultamiento. No por eso se eliminan los actos de la
inteligencia ni son substituidos por el sujeto. El sujeto comparece en el momento justo y
como tiene que comparecer, es decir, sin eliminar la operación intelectual ni los hábitos; al
revés, justificando los hábitos. Además, en este planteamiento el intelecto agente deja de
ser una mera pieza teórica colocada en el inicio de la actividad de la inteligencia y se
entiende como la unidad del esse hominis en orden al crecimiento intelectual» (CTC, III, p.
12).
25 Cfr. Antropología trascendental, cit., pp. 212-216.
26 Polo reserva el término objeto para lo conocido por la operación, mientras que usa el de
tema para lo conocido por actos superiores.
27 Se trata de una articulación en la que el verbo no se separa del nombre. Por tanto no explica
formas lingüísticas como los verbos copulativos. La presencia desocultada en el hábito se
describe en la forma lluvia-llueve, blanco-blanquea, etc. «Este doble valor nominal verbal
corresponde a la articulación temporal en presencia. Una articulación temporal en presencia
no deja de ser una articulación. Si se quiere, lo que tiene de presencia es lo que tiene de
nominal; lo que tiene de articulación es lo que tiene de verbal. Pero no puede separarse la
presencia de su valor articulante sin caer en la mudez lingüística de la presencia pura»
(CTC, II, p. 210).
330
José Ignacio Murillo
las explicaciones serán en ocasiones demasiado sumarias, y que me resigno a
dejar muchos cabos por atar, con la esperanza de que lo expuesto sirva como una
breve introducción a lo que en la obra de Polo es extensamente tratado.
En virtud del desocultamiento de la presencia en el hábito abstractivo, la inteligencia es capaz de declarar la insuficiencia del abstracto en dos sentidos. De
una parte, cabe declarar que el abstracto no satura la capacidad de conocer, pues
se puede conocer más; y, de otra, que no basta en orden al conocimiento de la
realidad.
Comenzaremos por exponer la primera de dichas declaraciones de insuficiencia. Con ella la inteligencia muestra que ningún contenido es todo lo pensable.
Su infinitud operativa es aquí patente. Polo denomina a las operaciones que se
abren desde esta declaración con el nombre de vía negativa, generalización o
reflexión objetiva. El hábito abstractivo desoculta la presencia mental, que objetiva los abstractos, y permite advertir que los abstractos no son unificables en su
nivel, pues cuando se piensa uno no se piensa otro. Es éste un problema que preocupó a la filosofía griega desde sus orígenes. Según Anaximandro, las cosas se
pagan mutuamente una deuda28. Pero la concepción de lo real de este filósofo
presocrático supone una extrapolación de la presencia a la realidad, es decir,
entender que la presencia es el fundamento de los entes; y se debe a una detención apresurada del conocimiento intelectual. La solución más drástica a este
problema es la de Parménides, que declara impensable la diferencia: «ente-es» es
la última palabra de la inteligencia, aun a costa de dejar impensados el movimiento y la pluralidad. Parménides rechaza así la prosecución negativa de la
inteligencia29.
En cambio, cuando, una vez conocida la operación que lo piensa, se cae en la
cuenta de que el abstracto no es lo real, sino un objeto, cabe unificar los abstractos en otro nivel, sin recurrir directamente a lo real. Así, por ejemplo, si «perro»
y «gato» son unos abstractos determinados, es claro que ninguno de ellos es todo
lo pensable30. La noción de «todo lo pensable» es la que orienta la búsqueda de
una idea que los abarque a ambos, y que se objetiva como una idea general: animal. Pero una de las notas del objeto pensado es la constancia. Todo lo pensado,
28 Simplicio
reporta la siguiente enseñanza de Anaximandro: «(los seres) se pagan mutua pena
y retribución por su injusticia según la disposición del tiempo». Cfr. G.S. KIRK - J.E. RAVEN
- M. SCHOFIELD, Los filósofos presocráticos, Gredos, Madrid 1987, p. 177.
29 «Pues bien, yo te diré (y tú, tras oír mi relato, llévatelo contigo) las únicas vías de investigación pensables. La una, que es y que le es imposible no ser, es el camino de la persuasión
(porque acompaña a la Verdad); la otra, que no es y que le es necesario no ser, ésta, te lo
aseguro, es una vía totalmente indiscernible, pues no podrías conocer lo no ente (es imposible) ni expresarlo» (G.S. KIRK - J.E. RAVEN - M. SCHOFIELD, o.c., p. 354).
30 El término pensamiento es usado por Polo tan sólo referido al conocimiento intelectual de
objetos, es decir, a aquel que obtiene la presencia mental. Por eso la inteligencia no es sólo
capaz de pensar, pues, como hemos visto, conoce también mediante los hábitos y, como
veremos, mediante operaciones que, gracias a los hábitos, abandonan en cierta medida la
presencia mental.
331
note e commenti
por serlo, es constantemente objeto, cualquiera que sea el contenido objetivado.
Luego en el conocimiento no cabe un pensar más que no se corresponda con un
pensar menos: no hay ganancia sin pérdida. Esto es lo que Polo denomina pugna
y compensación en las operaciones que siguen a la abstracción. En el caso de la
generalización, la pugna se entabla entre la idea general obtenida y los abstractos
a que se refiere. Los abstractos se pueden describir como un complejo de notas.
En cambio, la idea general es homogénea —consta de lo que Polo llama una
mononota—, y no puede ser objetivada al margen de los abstractos que unifica.
La idea general comporta una ganancia en claridad, pero, a su vez, una pérdida de contenido respecto a los abstractos. La idea general unifica los abstractos
iluminándolos intencionalmente, es decir, versando intencionalmente sobre ellos,
y, de este modo, conectándolos. Pero, como, según el axioma C, las operaciones
son insustituibles, no se puede sostener que la idea general —que, por otra parte,
no es una operación, sino un objeto intencional— ilumine todo el abstracto. Su
versión intencional es parcial, y, respecto de ella, el abstracto aparece sólo como
un caso particular de la idea. Polo distingue la consideración del abstracto desde
la idea general de la que ejerce la operación de abstraer denominando a esta última determinación primera y a aquella determinación segunda. Desde la idea
general, el abstracto, no es una determinación primera, como en la operación de
abstraer, sino una determinación segunda.
A la determinación primera, el abstracto tal como comparece en la operación
de abstraer, Polo le denomina lo vasto. Se trata de un objeto cuya unidad significativa se da sin conectivos lógicos o, dicho de otro modo, es pura semántica sin
sintaxis. Por eso el abstracto es prelógico, pues la lógica implica conexión entre
los contenidos del conocimiento. La prosecución negativa objetiva, en cambio,
un conectivo lógico entre objetos, es decir, la idea general como conectivo de los
abstractos.
En la generalización es patente la imposibilidad de culminación del conocimiento operativo. En cada nueva objetivación la presencia torna a ocultarse y es
desocultada por el hábito posterior, que manifiesta que tampoco ese nuevo objeto
la satura. El objeto último es imposible, impensable, pues la presencia de que
dependen todos los objetos no comparece en ninguno y se puede separar de
todos ellos. No existe, por tanto, el máximo pensable31.
Pero, como decíamos, la inteligencia puede declarar también la insuficiencia
del abstracto en orden al conocimiento de la realidad. Esto se consigue explicitando lo que en él se encuentra implícito. Todos los abstractos guardan implícita
una diferencia. Esta diferencia es la responsable de que no haya un solo objeto.
No se trata de una oposición negativa entre los abstractos. Tampoco contradice el
axioma A, es decir, no se trata de algo en el objeto que quede por pensar, porque
31 En
esto basa Polo su crítica al argumento a simultaneo de San Anselmo. Cfr. M.A. BALIBREA,
La crítica de Polo al argumento anselmiano, «Anuario Filosófico», XXIX/2 (1996), pp. 373380.
332
José Ignacio Murillo
todo lo que tiene el objeto de objeto es conocido por la operación. Esta diferencia remite más bien al estatuto anterior respecto del cual el abstracto ha sido
obtenido. La progresiva explicitación de esta diferencia es llevada a cabo por la
inteligencia en varias fases, que permiten irlo conociendo tal como se da fuera de
la mente, es decir, devolverlo a la realidad desde la que se ha objetivado por
intermedio de la sensibilidad. Esta devolución progresiva nos conduce a conocer
las causas físicas y es llamada por Polo vía racional o razón.
El abstracto representa un valor formal, pero se trata de una forma pensada.
La operación que objetiva esta forma la exime precisamente de existir. Este es
otro modo de notar el carácter de límite de la presencia mental gracias al hábito
abstractivo. El abstracto es unum in praesentia. Si el hábito permite una operación posterior que mantenga el desocultamiento de la presencia —en lugar de
reponerla, como ocurre en la generalización—, la inteligencia puede pugnar con
los principios reales en los cuales la forma es un principio extramental. Polo sostiene que estos principios son las causas físicas, que se van conociendo a medida
que avanza la explicitación. Éstas no pueden ser causas por separado —esa separación sólo puede ser fruto de la introducción de la presencia mental—, el valor
causal de una es inseparable de las otras: las causas físicas lo son siempre ad
invicem, y sólo pueden ser conocidas como causas en su mutua respectividad32.
El principio a que se puede devolver el abstracto en primer lugar no es otro
que la causa material. Al hacerlo, el unum in praesentia se explicita como unum
in multis, como concepto. Pero es preciso tener en cuenta que la simultaneidad es
propia de lo pensado. Mientras la presencia pugna con la materia, la unidad del
concepto se da entre unos muchos que no son simultáneos; es más, son inestables. Por tanto, aparece un sentido causal que permite conectarlos, que es la
causa eficiente extrínseca, que plasma la forma en la materia.
A esta operación le sigue a su vez un hábito que desoculta la operación: el
hábito de analogía. Gracias a él es posible conjurar la amenaza de ignorancia
que comportaría detener en este punto la explicitación. Esta primera fase de la
explicitación se muestra insuficiente por su incapacidad de dar razón del primer
movimiento de que dependen las sucesivas transformaciones. Esto puede precipitar en el enigma objetivo: la admisión de un proceso al infinito. Además el abstracto no se explicita en el concepto: la sustancia bicausal —hilemórfica— que
se explicita en él es incapaz de enviar especie impresa, pues ni siquiera tiene
accidentes (lo que comportaría que la causa eficiente le fuera intrínseca). Se trata
de la sustancia elemental o el sentido mínimo de la sustancia física.
El hábito de analogía permite avanzar en el conocimiento de la realidad física, al manifestar (no se trata de una explicitación, pues no es una operación, ni,
por tanto, conlleva pugna) la insuficiencia de la operación de concebir. Acerca de
32 Nos
referimos a las cuatro causas aristotélicas: material, formal, eficiente y final. Polo las
reconsidera desde la explicitación racional, rectificando en ocasiones la física de
Aristóteles.
333
note e commenti
la realidad extramental permite conocer de qué modo son ordenables los explícitos conocidos en el concepto. La causa del orden no es otra que la causa final. En
el hábito de analogía se manifiesta el modo en que la causa final llega hasta las
concausalidades hilemórficas, que es el movimiento circular, la circunferencia
física. Mediante ella, la causa final es concausa extrínseca de esas concausalidades. Ese influjo de la causa final es la ordenabilidad.
Pero de este modo la unidad no se comunica a la pluralidad. Esto es lo que se
consigue con el juicio, como explicitación que constituye la segunda fase de la
vía racional de la inteligencia. En él lo explicitado no sólo depende de la causa
final, sino que es concausal con ella. Explicitar la analogía es ampliar su unidad.
Ahora la causa formal aparece en concausalidad con la causa final; se trata de
una analogía de analogados. Así, en el juicio comparece la concausalidad completa, es decir, las cuatro causas. Se trata de una pugna especialmente intensa,
porque explicita la causa final, mientras que, recordemos, el abstracto era poseído precisamente como fin de la operación. En esta ocasión, la diferencia que
cada abstracto guarda implícita es explícita como analogado. Los analogados son
afirmados porque cumplen el orden. En esta fase se conoce la sustancia tricausal,
en la que la causa eficiente es intrínseca, y, por tanto, aquella que tiene accidentes. Por eso, en el juicio se explicitan las categorías33.
Sigue al juicio el hábito judicativo, que Polo denomina hábito de ciencia. En
él se manifiesta el balance de la explicitación de los sentidos causales: el universo. Se trata de un balance completo pues recoge no sólo el conjunto de explicitaciones judicativas, jerarquizadas de acuerdo con la medida en que se amplía la
intervención de la causa final, sino también el de las conceptuales. Ese balance
conduce a una aparente afirmación: un universo es. Se trata de una aparente afirmación porque esta expresión no traduce una explicitación judicativa, sino una
manifestación habitual. Hasta ahora, las causas físicas se han explicitado en la
medida en que la inteligencia separaba su prioridad de la prioridad de la presencia, por medio de la pugna de esta última. Ahora, el hábito judicativo manifiesta
el carácter potencial del universo: el universo así conocido no comparece como
acto. Pero ese carácter potencial no puede deberse tan sólo a que se distingue de
la actualidad de los objetos pensados34. Por eso este hábito obliga a poner a
prueba la presencia, para ver si su pugna con la realidad física da más de sí y
puede proporcionar un nuevo explícito que dé razón de esa potencialidad.
La nueva operación que permite el hábito no es sino la guarda definitiva del
implícito, la declaración de que la presencia no da más de sí en orden a conocer
prioridades extramentales. Se trata de la operación de fundar o fundamentación,
33 Polo
propone una rectificación de las categorías aristotélicas, pues considera que Aristóteles
las ha logificado, al extraerlas de la proposición y no del juicio como acto racional. Cfr.
CTC, IV/2, pp. 301 ss.
34 Polo distingue entre la actualidad, que corresponde a lo pensado, y la actuosidad o actividad, que corresponde a lo real.
334
José Ignacio Murillo
que declara a la presencia incapaz de pugnar con principios más altos. Esta
declaración es una pugna que aporta un último explícito: el fundamento. Pero
éste es explícito como exclusividad, es decir, como exclusivamente fundamento.
A partir de aquí la presencia no aporta nada más. De hecho, no puede ni siquiera
mantenerse insistentemente en este último explícito.
Esta situación sólo se puede subsanar si a la última operación racional le
sigue un hábito al que ya no sigue ninguna operación. Se trata del hábito de los
primeros principios. El ser sólo se puede conocer con el ser. Por tanto, este hábito ya no puede ser entendido como una perfección de la inteligencia, sino como
la coexistencia del ser cognoscente (el ser personal) con el ser del universo, y
permite una intelección que se deja llevar por la actividad real sin suponerla, es
decir, sin objetivarla, y que entiende el ser creado en dependencia del Creador35.
7. La reposición de la presencia mental en las operaciones racionales
Las diversas fases por las que pasa la explicitación racional se corresponden
con sendas amenazas de ignorancia, es decir, con modos distintos de detener la
explicitación obteniendo un nuevo objeto. Como hemos visto, la prosecución
requiere un despojo por parte de la presencia, que ha de ejercerse sin poseer un
objeto. La ausencia de objeto es ineludible si queremos conocer una prioridad
distinta de la presencia mental pues, al ser objetivado, lo real es conocido en el
nivel de la operación, y, por eso mismo, no como es en la realidad, mientras que
lo conocido en la prosecución racional es de un nivel inferior a la presencia. Por
tanto, los explícitos no son objetos, sino progresivos abandonos de la objetividad.
35 Ya
hemos señalado que la presencia exime al objeto de existir. Esto se debe a que lo
supone, al sustituir la actividad real que lo funda por la operación intelectual. Esta suposición hace imposible que la actividad real misma comparezca de modo objetivo. Dicho de
otro modo, se puede pensar (objetivamente) la esencia, pero nunca el ser, pues la actividad
de pensar lo oculta al presentar. Por otra parte, el acto de ser del universo físico como primer principio no puede entenderse adecuadamente como mero fundamento de la esencia.
Tampoco cabe entenderlo como principio de un modo aislado. En el hábito de los primeros
principios éstos comparecen en su mutua vigencia. Para Polo estos principios son la no
contradicción y la identidad reales y la causalidad trascendental. El autor menciona en su
apoyo a una afirmación de Tomás de Aquino: «esse quod rebus creatis inest non potest intelligi nisi ut deductum ab esse divino» (De Potentia, q. 3, a. 5, ad 11). Cfr. L. POLO, El conocimiento habitual de los primeros principios, Cuadernos de Anuario Filosófico (10),
Servicio de Publicaciones de la Universidad de Navarra, Pamplona 1993; S. PIÁ, Los primeros principios en Leonardo Polo. Un estudio introductorio de sus caracteres existenciales y su vigencia, Cuadernos de Anuario Filosófico, Serie de Filosofía española (2),
Servicio de Publicaciones de la Universidad de Navarra, Pamplona 1997. Acerca de la
compatibilidad entre la perspectiva de Polo y la de Tomás de Aquino, puede consultarse J.I.
MURILLO, Operación, hábito y reflexión. El conocimiento como clave antropológica en
Tomás de Aquino, Eunsa, Pamplona 1998. Allí se aborda el estudio de estas nociones tomistas, reconsideradas desde la inspiración de Polo.
335
note e commenti
Pero la presencia se puede introducir después de cada una de las explicitaciones, y entonces logra un objeto nuevo en el que lo ganado aparece en presencia.
Si describimos las causas reales conocidas en pugna, como una sintaxis sin
semántica, estos nuevos objetos son reposiciones de la semántica, que aportan
nuevas conexiones lógicas, y que son traducciones objetivas de las pugnas racionales. Reciben el nombre de compensaciones. Esto permite matizar la descripción, en apariencia peyorativa, que de ellos hemos dado. Se trata de amenazas de
ignorancia sólo en la medida en que son detenciones y pueden invitar a una
extrapolación que los confunda con el estatuto de lo real. Es lo que Polo denomina metafísica prematura.
Las compensaciones racionales no son objetos en el sentido pleno de esa
noción, puesto que su unidad es muy débil. Por eso, para ser objetivadas deben
consolidarse. Su consolidación consiste en su referencia intencional a objetos
inferiores de la propia línea prosecutiva. Cuando estos últimos son iluminados
por aquéllos aparecen al margen de la intencionalidad que les corresponde. Al
iluminar esos objetos, las compensaciones suplen a la presencia, pero, como
otorgar la condición de objeto corresponde sólo a ella, las compensaciones otorgan a aquello sobre lo que versan tan sólo el valor de término de la intencionalidad.
La primera de estas compensaciones es el universal lógico. En él los muchos
en que se encuentra el uno aparecen como simultáneos. Éste es un signo de que
se reintroduce la presencia mental, pues la simultaneidad no corresponde a las
causas físicas. Se consolida remitiendo intencionalmente al abstracto, que, desprovisto de su intencionalidad, no es otra cosa que la especie impresa intelectual.
El universal recupera el valor semántico del abstracto, y permite la deíctica, es
decir, su atribución a singulares.
La ampliación del explícito en el juicio sólo permite una compensación por
partes, que se consolida también por partes. Se trata de la proposición, que es la
conexión de las consolidaciones de los predicamentos: las categorías. El término
que necesita para consolidarse dicha conexión es la noción de ente; mientras que
los conectados se consolidan por su cuenta con objetos sensibles tomados como
términos.
A su vez, la operación de fundar también se puede compensar. Es más, dada
su naturaleza, la pugna es especialmente cercana a la compensación. Dicha compensación recibe el nombre de base. Ésta indica al fundamento en tanto que
funda, pero de un modo meramente lógico; se trata de la vuelta demostrativa
desde el fundamento hacia lo fundado. El complemento que precisa la base para
consolidarse es el raciocinio.
Pero, como decíamos, las operaciones de la vía racional —concepto, juicio y
fundamentación— son unificables con la generalización. Esta unificación, que
recibe el nombre de logos, se consigue cuando las compensaciones racionales
versan sobre las ideas generales aclarándolas. En primer lugar, la versión intencional del concepto sobre la idea general permite poner en el mismo nivel los
336
José Ignacio Murillo
casos conectados por ésta. El objeto así obtenido, que Polo denomina conceptoide, es una forma pura, una pura relación. Se trata del estatuto intelectual del
número. A su vez, la versión de la conexión predicativa sobre las ideas generales
dan lugar al judicoide, en el que se aclara lo que de conexión tiene el objeto del
logos. «La aclaración desde la compensación judicativa es lo que se llama función: cualesquiera que sean los cuantos, hay relación determinada con cuantos»36.
La intencionalidad de los objetos del logos es llamada hipotética, porque
éstos son hipótesis sobre los números físicos. Son estos objetos los que permiten
la matemática y la física matemática. Los números pensados nunca pueden traducir directamente los números físicos, pero no por su imperfección, sino por su
superioridad respecto de estos últimos. Por eso la física matemática no conoce la
realidad física en el nivel propio de esta última, a diferencia de las operaciones
racionales37.
8. La teoría del conocimiento como rehabilitación de la filosofía
En estas páginas hemos expuesto algunos de los puntos más importantes de la
teoría del conocimiento de Polo. En mi opinión, uno de los méritos principales
del autor es su matizada y coherente aproximación a la noción de intencionalidad: la atribución de la intencionalidad cognoscitiva al objeto, y no a la operación, y la descripción de sus características. Aunque no nos hemos detenido en
ello, una de las partes más interesantes del tomo II es la descripción de las notas
del objeto pensado, y, junto con él, de la presencia mental.
El conocimiento intencional es valorado positivamente, pero esto no impide
denunciar claramente su limitación, conectada con su índole aspectual, de la que
no se libra la intencionalidad intelectual, a pesar de su superioridad sobre la sensible. Esta clara delimitación de lo intencional permite al autor proponer una
nueva explicación del juicio y de otras operaciones intelectuales, cuya ganancia
no consiste en aportar objetos intencionales. En este punto se ofrece un buen
complemento a la teoría clásica del juicio, mediante una propuesta que respeta y
ordena las tres dimensiones que clásicamente se le asignan: afirmación, composición y conciencia38.
El autor pone a prueba su teoría intentando dar razón de las deficiencias que
se pueden señalar en otros autores. Para Polo, el error en filosofía consiste en
intentar conocer un tema determinado con unas operaciones que no le corresponden. En este sentido, señala que la filosofía clásica ha demostrado su preferencia
36 CTC, IV/1,
37 Un estudio
p. 79.
acerca del estatuto de la física matemática en Polo se puede encontrar en J.M.
POSADA, La física de causas en Leonardo Polo. La congruencia de la física filosófica y su
distinción y compatibilidad con la física matemática, Pamplona, Eunsa 1996.
38 Cfr. CTC, IV/2, p. 29.
337
note e commenti
por las operaciones racionales. El mismo progreso de la filosofía clásica se debe
a la progresiva tematización filosófica de lo adquirido por las diversas operaciones racionales. En cambio, la filosofía moderna, parece optar unilateralmente por
las operaciones generalizantes o negativas. Esto explica, para Polo, sus quiebras
en metafísica: las causas reales y el fundamento no pueden ser pensados con
ideas generales, si bien éstas son de gran importancia para la acción transformadora del hombre.
Respecto de la metafísica, conviene señalar una notable aportación de esta
obra. Uno de sus objetivos fundamentales es evitar la confusión de lo mental con
lo real, lo que implica detectar los peligros que tiene nuestra mente de investir a
lo real de los atributos de su objeto. Como hemos señalado, la posibilidad de esta
extrapolación se debe a las diversas detenciones de la explicitación, que comportan otras tantas amenazas de ignorancia, porque sustituyen el tema extramental
de la operación por un objeto intencional. Esto comporta una revisión de la teoría
clásica de la sustancia y de las causas, y una más clara formulación de la distinción real entre la esencia y el acto de ser.
Una de las más interesantes contribuciones de Polo a la teoría del conocimiento humano es, sin duda, su replanteamiento de los hábitos intelectuales. Si
bien es cierto, que la axiomática por él propuesta se centra en torno a la noción
de operación, se puede decir que el conocimiento habitual es la clave explicativa
del conocimiento intelectual humano. El hábito aparece como un acto intelectual,
que permite explicar el progreso intelectual a partir de la abstracción, el conocimiento de la operación y la posibilidad de deshacer la confusión de lo mental con
lo real. En último extremo, los hábitos intelectuales innatos (hábito de los primeros principios y sabiduría) son los que permiten emprender un estudio de los
trascendentales tanto metafísicos como antropológicos. La teoría del conocimiento conecta en este punto con la antropología trascendental.
Como conclusión final, tan sólo quisiera resaltar algo que espero que hayan
permitido traslucir, aunque sea tenuemente, estas páginas: el gran calado de los
temas que se abordan y de las soluciones que se proponen, y su interés para enriquecer la aproximación filosófica a algunos de los temas más actuales: desde la
rehabilitación del pensamiento metafísico y la elaboración de una antropología
que formule claramente la distinción del acto de ser del hombre respecto del acto
de ser del universo, hasta las cuestiones filosóficas que plantea la investigación
científica en física, biología y matemáticas.
338
cronache di filosofia
a cura di Juan A. MERCADO
L’estetica della formatività: due saggi recenti
A nove anni dalla sua morte, avvenuta nel 1991, Luigi Pareyson resta tuttora
un autore che attrae gli studiosi e suscita dibattiti. In questi anni, però, l’attenzione del mondo filosofico si è prevalentemente concentrata sulle sue ultime proposte speculative, ovvero l’ontologia della libertà e l’ermeneutica dell’esperienza
religiosa. Ciò è comprensibile, perché si tratta del punto culminante del suo itinerario, ma forse tale interesse predominante ha indotto a trascurare i suoi studi
sull’estetica e a dimenticare che non li si può lasciare da parte se si vogliono
comprendere a pieno la genesi e la portata delle opere date alla stampa nel periodo a noi più vicino.
Perciò mi è sembrata opportuna la recente pubblicazione di due saggi sull’estetica pareysoniana, che viene presa in esame anche alla luce degli scritti successivi, mettendo in evidenza le linee guida di un pensiero che non ha conosciuto
inversioni di rotta. Ne darò di seguito una breve presentazione.
Alla fine dello scorso anno, è uscito in Italia il libro di Rosanna FINAMORE,
Arte e formatività. L’estetica di L. Pareyson (Città Nuova, Roma 1999, pp.
234), che ha il pregio della chiarezza e della linearità. Come osserva nella prefazione X. Tilliette, amico e studioso di Pareyson, ad una prima impressione l’estetica della formatività può sembrare una teoria quasi astratta, per il suo rigore, la
sua severità e l’estrema sobrietà nei riferimenti e negli esempi (cfr. p. 7). Ma
forse proprio per questo essa si presenta scorrevole e convincente, e permette
comunque di intuire la grande ricchezza della cultura artistica (musicale, letteraria, pittorica) di chi l’ha elaborata.
Nei capisaldi dell’estetica pareysoniana si rivela la vena esistenzialistica e
personalistica del suo pensiero, perciò l’autrice del volume (che insegna nella
Pontificia Università Gregoriana) sin dall’introduzione, in cui delinea l’itinerario
filosofico pareysoniano attraverso le sue principali opere, non perde di vista queste caratteristiche di fondo. Il saggio è strutturato in due parti: la prima, che offre
una veduta d’insieme, risale al 1976 e fu letta dallo stesso Pareyson, benché sia
stata rivista e integrata per la pubblicazione; la seconda parte è stata elaborata
successivamente e traccia un raffronto tra Pareyson e Maritain, ricollegando l’estetica pareysoniana alla sua teoria dell’interpretazione. Le due parti hanno come
cerniera una lettera autografa dello stesso Pareyson, che costituisce un elemento
di notevole interesse.
339
cronache di filosofia
In effetti, nel suddetto manoscritto il professore dell’Università di Torino loda
il valore della ricerca della prof.ssa Finamore e rettifica o chiarisce un proprio
giudizio riguardante la presenza dell’estetica nella filosofia antica e medioevale.
Vale la pena trascrivere il brano della lettera in questione perché contiene un’ammissione fino ad allora per certi versi inaspettata: «Lei mi attribuisce l’idea che
prima dell’età moderna non ci fosse estetica. Certo, se questa parola si prende
nel significato moderno, a rigore non si può giungere se non a questa conclusione; ma è in fondo una questione di parole, giacché nell’antichità e nel medio evo
c’era pure una teoria del bello e una filosofia dell’arte. Sono ben lontano dal
mettere in dubbio questa elementare verità (vedi ad esempio Conversazioni di
estetica, p. 57 ss.); anzi devo dire che la mia estetica è tutta una rivalutazione del
concetto antico e medievale dell’arte come fare; sul concetto di forma, poi, so
bene d’essere per molti aspetti d’accordo con Aristotele e S. Tommaso. Le sarà
di qualche interesse sapere che uno dei testi su cui nella mia giovinezza più
meditai è Art et scholastique di Maritain; e del resto è molto significativo che ai
miei due migliori alunni in estetica, Umberto Eco e Gianni Vattimo, assegnai
come tesi di laurea rispettivamente S. Tommaso e Aristotele, e ne vennero fuori
due lavori molto seri, entrambi pubblicati, intesi a mettere in luce in questi grandi pensatori concetti a me cari, come il concetto di forma in S. Tommaso e i concetti di fare e di organismo in Aristotele» (pp. 143-144; la lettera è del 2 febbraio
1977).
L’ammissione cui mi riferivo concerne la frequentazione dell’opera del filosofo francese e furono proprio queste parole di Pareyson a spingere l’autrice a
proseguire la sua riflessione: se già aveva tentato di tracciare un confronto tra la
nozione pareysoniana di forma e quella di bellezza in Tommaso d’Aquino (cfr.
pp. 63-66), nella nuova parte del suo studio avvia il confronto diretto tra J.
Maritain e L. Pareyson, con particolare riferimento alle soluzioni da loro proposte riguardo al problema dei rapporti tra arte e moralità.
L’esposizione dei capitoli è chiara e vigile, attenta a mostrare sintonie e rilievi
critici. Tra l’altro, l’autrice osserva, a mio avviso giustamente, che la teoria estetica pareysoniana non sembra attribuire la dovuta importanza alla crescita umana
dell’artista in quanto persona (cfr. pp. 46-47, 87-89, 136-137). Volendo cercare
un chiarimento in merito (e penso sia possibile trovarlo) bisognerebbe coglierlo
nei saggi più strettamente personalistici dell’autore studiato.
Circa un anno prima del libro della prof.ssa Finamore, in Spagna è stato pubblicato il volume di Pablo BLANCO SARTO, Hacer arte, interpretar el arte.
Estética y hermenéutica en Luigi Pareyson (Eunsa, Pamplona 1998, pp. 338).
Si tratta di un saggio frutto della ricerca dottorale svolta nella Pontificia
Università della Santa Croce e pertanto possiede le caratteristiche proprie di un
lavoro del genere: copiosi riferimenti bibliografici e costante confronto con la
letteratura critica. Ciò nonostante, l’autore ha affrontato l’argomento con tale
congenialità e passione da imprimere al testo un buon ritmo espositivo.
Dopo un’accurata presentazione della figura di Pareyson, ben inquadrata nel
contesto storico-culturale, si cerca di offrire al lettore una risposta alle due
340
cronache di filosofia
seguenti domande: come si forma l’arte? come si interpreta l’arte? Al primo
interrogativo è dedicata la prima parte del libro, che esamina il rapporto tra l’arte
e la natura, il ruolo della materia nelle opere d’arte, la nozione di forma, il ruolo
dell’artista con la sua libertà, la sua personalità e la sua eticità. Al secondo quesito è dedicata la seconda parte, in cui vengono analizzati il problema del giudizio
estetico, il gusto artistico, l’intervento della personalità nell’interpretazione, l’esecuzione e la contemplazione; chiudono questa sezione alcune pagine in cui si
parla di Pareyson interprete di Dostoevskij (cfr. pp. 279-289).
Il volume è corredato da un’utile cronologia storico-biografica e da un’esauriente bibliografia delle opere di Pareyson e su di lui. Visti i numerosissimi rinvii, sarebbe forse stato utile anche un indice analitico, che avrebbe reso più facile
la consultazione e rispecchiato ancor di più l’ampiezza della ricerca.
Francesco RUSSO
LEZIONI E CONFERENZE
■ Nel periodo marzo-maggio 2000 si è svolto un programma di lezioni
(Lecturae Christianorum) presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma in
cui è stato preso in esame il tema del dialogo dei cristiani con i non cristiani.
Sono stati affrontati come momenti fondamentali Paolo, Giustino e Origene,
Agostino, Abelardo, Tommaso, Bonaventura, Lullo e Cusano. In ogni lettura,
dopo una breve introduzione storica e storiografica, segue la lectio vera e propria
dei brani prescelti per poi avviare il dibattito fra i partecipanti. Alcuni degli
incontri sono stati, Agostino, Contro gli accademici (Marta Cristiani, 30 marzo);
Abelardo, Dialogo tra un filosofo, un giudeo e un cristiano (Giulio D’Onofrio,
13 aprile); Tommaso, Le ragioni della fede; Bonaventura, I sei giorni; Lullo,
Dialogo del Gentile e dei tre savi (Andrea Di Maio e Marta Romano, 4 maggio);
Levinas, Un Dio Uomo? [in Tra noi], Rosenzweig, La stella della redenzione
(Francesco Paolo Ciglia, 11 maggio); Lecturae di filosofia ortodossa e luterana
(Antonis Fyrigos e Stefano Leoni, 18 maggio). In collegamento con questo ciclo
sono state proposte alla comune discussione alcune questioni sui diversi possibili
approcci del cristiano filosofo al dibattito attuale (il 23 marzo: Philippe-André
Holzer, C’è intelligenza nei calcolatori?; il 6 aprile, una tavola rotonda con Sara
Bianchini, Simone D’Agostino, Mario Piazza, Pavel Rebernik, Come “rendere
ragione” oggi della “follia della ragione”?).
■ Il Centro di Studi Filosofici della Libera Università Maria SS. Assunta ha
organizzato un ciclo di conferenze su La filosofia nel Novecento, fra l’8 marzo
e il 12 aprile 2000. La prima conferenza è stata del prof. Armando Rigobello
(Esiste un’unità filosofica nel Novecento?, 8 marzo); il 15 marzo il prof. Marco
M. Olivetti ha parlato su Il problema dell’“umanesimo” nella filosofia contem-
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cronache di filosofia
poranea (Husserl, Heidegger, Levinas); il prof. Luigi Alici ha spiegato il tema La
libertà e il bene: volti dell’etica contemporanea (30 marzo); infine, il prof. Dario
Antiseri ha chiuso il ciclo con la conferenza Epistemologia e ermeneutica. Karl
Popper e Hans Georg Gadamer: diversità e somiglianza (12 aprile).
CONVEGNI
● Nei giorni 6-7 aprile 2000 si è tenuto un colloquio internazionale su
L’Europe. Ses valeurs et ses défis a Leuven e Lovain-la-Neuve con i seguenti
relatori: L. Dupré (Europe’s Spiritual Identity); D. Janicaud (L’humanisme: des
malentendues à l’enjeu) e E.W. Orth (Humanisme et science: leur rapport conflictuel au sein de la culture. Réflexions à partir de E. Husserl et E. Cassirer);
Ch. Larmore (The Moral “We” That We Are), G. Vattimo (Pluralisme religieux
et sécularisation). Inoltre si sono svolte le seguenti tavole rotonde: Humanisme
et religion (con la partecipazione di H. de Dijn, W. Desmond, L. Dupré, M.
Maesschalck, J. van der Veken), L’humanisme aujourd’hui (con la partecipazione di R. Bernet, O. Depré, M. Dupuis, D. Janicaud e E.W. Orth), Le pluralisme
a-t-il besoin de fondements? (con la partecipazione di Chr. Arnsperger, A.
Berten, P. Canivez, E. Clemens, Ch. Larmore, G. Vattimo, R. Visker) e Le religieux doit-il / peut-il lutter contre le pluralisme? (con la partecipazione di A.
Burms, L.L. Christians, W. Lesch, J. Reding, A. van de Putte, G. Vattimo).
● Il Dipartimento di filosofia dell’Università degli Studi Federico II, di Napoli,
ha organizzato un convegno su Levinas e la cultura del XX secolo nei giorni 1012 aprile 2000. I relatori sono stati Stephane Moses (Levinas e Rosenzweig), Irene
Kajon (Hermann Cohen ed Emmanuel Levinas come innovatori del linguaggio
della filosofia), Silvano Petrosino (Levinas e l’ebraismo contemporaneo), Emilia
D’Antuono (Filosofia del paganesimo. Tra Rosenzweig e Levinas); Mario Signore
(Levinas interprete di Husserl. Ontologia e modo di essere della coscienza),
Marlène Zarader (L’essere e l’altro. Heidegger e Levinas), Jacques Rolland (De la
persistance: Sartre, Adorno et Levinas), Danielle Cohen-Levinas (Levinas e l’estetica prima e dopo Auschwitz); Jacques Colette (Levinas et Kierkegaard. Deux philosophies de la subjectivité. Emphase et paradoxe), Guy Petitdemange (Patience,
Révolution, Messianité. Levinas et Benjamin), Emilio Baccarini (Levinas e il pensiero cristiano), David Banon (Levinas et Leibovitz), Paolo Amodio (Levinas e
Bloch); Elena Arseneva (Un Levinas russe?), Ethan Levine (Levinas and the
Talmud), Fabio Ciaramelli (Il desiderio dell’altro tra Merleau-Ponty e Levinas),
Mariangela Caporale (Un uomo Dio. Il Gesù di Levinas), Gianluca Giannini
(Scoprire l’altro con Ricoeur e Levinas).
● Le XXXIX “Reuniones filosóficas” del Dipartimento di Filosofia
dell’Università di Navarra (Spagna) hanno avuto come argomento un Esame del
neoplatonismo (Revisión del neoplatonismo) e si sono svolte nei giorni 3, 4, e
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cronache di filosofia
5 maggio 2000. I relatori sono stati Giovanni Reale (Fundamentos y estructura
de la metafísica en Plotino), John Cleary (El rol de las matemáticas en la teología de Proclo), Juan Arana (¿Es el mundo un libro escrito en caracteres
matemáticos?), Maria Bettetini (El neoplatonismo en Agustín de Hipona: a
propósito del mal y de la materia), Juan Cruz Cruz (Emanación: un concepto
neoplatónico en la metafísica de Tomás de Aquino), Werner Beierwaltes (Lo neoplatónico en el pensamiento de Schelling), Jan A. Aertsen (Pensamiento cristiano: ¿primacía del ser “versus” primacía del bien?), Rafael Alvira (“Unidad” y
“diversidad” en el neoplatonismo cristiano), Ysabel de Andía (Teología platónica y teología cristiana en Dionisio el Areopagita), Francisco García Bazán
(Antecedentes, continuidad y proyecciones del pensamiento neoplatónico), Zeev
W. Harvey (Filosofía y poesía en Ibn Gabirol), Miguel Cruz Hernández (La teología del Pseudo Aristóteles y la estructuración del neoplatonismo islámico),
Agnieszka Kijewska (El fundamento epistemológico en el sistema de Eriúgena),
Giuseppe Girgenti (La metafísica de Porfirio entre la henología platónica y la
ontología aristotélica: neoplatonismo cristiano medieval), María Jesús Soto
(Causalidad, expresión y alteridad. Neoplatonismo y modernidad).
● L’Istituto di Antropologia ed Etica dell’Università di Navarra ha organizzato il suo II Simposio Internazionale su Fede cristiana e Cultura contemporanea
dal titolo Comprender la religión, nei giorni 15-16 maggio 2000. I relatori sono
stati Salvatore Abbruzzese (Religión y cultura en la sociedad laica), José
Morales (Secularización y religión), Linda Zagzebski (Diversidad religiosa y
responsabilidad civil), Paul C. Vitz (Los orígenes psicológicos del ateísmo),
Víctor Sanz (Religión y verdad: un punto de vista filosófico), Massimo
Introvigne (El renacer de una religiosidad sin Iglesia), Juan Arana (La fe del
sabio: actividad científica y creencia religiosa), Luis Romera (La experiencia
humana y la apertura religiosa a Dios).
● Dal 3 al 10 settembre 2000 è previsto a Roma l’Incontro Mondiale dei
Docenti Universitari, comprendente numerosi convegni. Ne informeremo,
riguardo alle attività di carattere filosofico, nel prossimo fascicolo.
● È indetta per i giorni 6-7 ottobre 2000 la “St. Louis University Graduate
Conference” dal titolo I filosofi americani classici (The Classical American
Philosophers). Il relatore principale sarà Vincent Colapietro (Pennsylvania State
University). Le relazioni verteranno sui diversi aspetti delle proposte filosofiche
di Peirce, Royce, James, Santayana, Dewey, Mead e Whitehead; le comunicazioni sono di tipo interdisciplinare. Ulteriori informazioni si possono chiedere a
Kevin S. Decker ([email protected]).
● Per il mese di novembre del 2000 (22-25) si sta organizzando presso
l’Università Complutense (Madrid) il congresso dal titolo A Cent’anni dalla
teoria quantistica: Storia, fisica e filosofia (100 Years of Quantum Theory:
History, Physics and Philosophy). Il programma provvisorio prevede le
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cronache di filosofia
seguenti relazioni: prof. Juan Arana (Las paradojas de un cuántico de la cuántica: Erwin Schrödinger y la noción de causalidad), prof. José Campos (Miguel
Catalán y el descubrimiento de los multipletes en física atómica) prof. Nancy
Cartwright (Causation, Models and Equations), prof. Brigitte Falkenburg
(Correspondence, Complementarity and the Unity of Physics), prof. Antonio
Fernández-Rañada (El espacio, el vacío cuántico y la expansión del universo),
prof. Alberto Galindo (Quanta e Información), prof. Manuel García Doncel (La
revolución cuántica: nueva visión en física y filosofía), prof. Peter Mittelstaedt
(Universality and Consistency of Quantum Physics. New problems of an old
theory), prof. Michel Paty (Quantum physics or the drift of physical thought by
mathematical forms), prof. Franco Selleri (The Einstein, Podolsky and Rosen
Paradox: Truth and Fiction), prof. Ana Rioja (Sobre ondas y corpúsculos: Un
punto de vista lingüístico). Informazione su altri particolari è reperibile nel sito
web del congresso: http://fs-morente.filos.ucm.es/centenario/index.htm.
SOCIETÀ FILOSOFICHE
Dal 2 al 5 gennaio 2000 si è svolto a Paestum (SA) il XVIII Convegno
Nazionale dell’A.D.I.F. (Associazione Docenti Italiani di Filosofia) sul tema
Filosofia e religione: riposte all’uomo del terzo millennio. L’argomento è stato
affrontato da sette relazioni principali: Religione e religioni, P. Giustiniani
(Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale “San Tommaso d’Aquino”); Filosofia
e filosofie, A. Masullo (Università di Napoli); Filosofia e religione, A. Molinaro
(Pontificia Università Lateranense); Filosofia ed esperienza religiosa, S.
Sorrentino (Università di Salerno); Filosofia, religione e progetti politici, U.
Pellegrino (Milano); Filosofia, mondo giovanile e scuola, R. Serpa (Cosenza);
Eredità e speranza, F. Russo (Pontificia Università della Santa Croce). Alle relazioni si sono unite diverse comunicazioni, che hanno arricchito ulteriormente i
dibattiti. Nel corso del convegno l’Assemblea dei Soci ha eletto Presidente il
prof. Aniceto Molinaro e Presidente Onorario il prof. Battista Mondin; è stato
nominato un nuovo Vicepresidente (il prof. G. Schiff) e sono state rinnovate le
nomine dei Consiglieri Nazionali.
L’Associazione Filosofica Ligure ha organizzato nei giorni 4 e 5 maggio
2000 un convegno su Donne e filosofia. Per la prima giornata si è scelto il tema
La presenza femminile nella storia del pensiero e sono intervenuti i seguenti
relatori: Vidgis Songe Møller (Matter, Gender and Death in Aristotele); Paolo
Aldo Rossi (L’immagine filosofica della donna tra Medio Evo e prima età
moderna); Paola De Cuzzani Solbakk (Essere donna e cittadinanza. La differenza sessuale nella filosofia di Spinoza); Mirella Pasini (Eva moderna: l’immagine
della donna nel lessico dei positivisti); Silvana Castignone (Le donne e il diritto); Luisa Montecucco (Donne, scienza e filosofia della scienza). La seconda
giornata è stata dedicata al tema Femminismo e pensiero contemporaneo con le
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cronache di filosofia
seguenti relazioni: Arianna Betti (La donna nella filosofia analitica mitteleuropea); Flavio Baroncelli (Femminismo e multiculturalismo); Luisella Battaglia
(L’etica femminile della cura); Pieranna Garavaso (La varietà delle epistemologie femministe); Margherita Benzi (Alcune critiche all’epistemologia
femminista); Nicla Vassallo (Teoria della conoscenza: tradizionalismo e femminismo); Anna Grazia Papone (Donne e filosofia nel secolo breve); Rosangela
Barcaro (Bioetica al femminile); Luciana Di Serio (Le donne come soggetti di
conoscenza); Valeria Ottonelli (Femminismo e libertarismo). Per informazioni
rivolgersi a Michele Marsonet, Univesità di Genova, Dipartimento di Filosofia,
Via Balbi 4, I-16126 Genova - tel. +39-010-209-9793; fax. +39-010-209-9864;
e-mail [email protected].
Il World Phenomenology Institute ha organizzato il suo XLVII Congresso
Internazionale nella città di Puebla (Messico) dal titolo La passione per la verità:
realtà, conoscenza, illusione e falsità riesaminate (The Passion for Truth:
Reality, Cognition, Deceit, Illusion Revisited) dal 20 al 22 maggio 2000.
La North American Patristics Society, seguendo le discussioni sorte durante
la XIII International Patristics Conference (Oxford, 1999) ha tenuto il suo incontro annuale nei giorni 25-27 maggio 2000 su La Città di Dio, di Sant’Agostino
per promuovere gli studi sui molteplici temi passati in rassegna nella monumentale opera di Sant’Agostino: storia, filosofia, filologia e archeologia, insieme ai
collegamenti con altre opere del Vescovo di Ippona sono state messe in rapporto
per cercare di comprendere meglio l’ambiente della tarda Antichità. L’incontro si
è svolto presso la Loyola University of Chicago. Ulteriori informazioni si possono chiedere a Stanley P. Rosenberg, Ph.D. ([email protected]) e a Peter
Burnell, Ph.D.: ([email protected]).
L’Università di Oviedo (Spagna) in collaborazione con la Sociedad
Española de filosofía analítica ha organizzato un convegno sui diversi Aspetti
della filosofia di Barry Stroud nei giorni 22-24 giugno 2000. L’evento è stato
coordinato dal prof. Luis M. Valdés e si è svolto alla presenza del prof. Stroud.
La Aristotelian Society e la Mind Association hanno avuto la loro sessione
congiunta nei giorni 7-10 luglio 2000 presso l’Università di Sheffield (Gran
Bretagna), con la partecipazione dei soci. La relazione inaugurale è stata tenuta
da Jane Heal (Other Minds, Rationality and Analogy) e gli interventi sono stati
moderati da David Wiggins. Le conferenze successive si sono svolte attorno ad
un tema sul quale hanno parlato due relatori, con l’intervento di un moderatore
per le discussioni. I relatori sono stati: Peter Simons e Joseph Melia (Continuants
and Occurrents, moderatore Hugh Mellor); Frances Kamm e John Harris (The
Doctrine of Triple Effect, mod. Adam Morton); Brian McLaughlin e David
Owens (Self-Knowledge, Externalism, and Skepticism, mod. Jennifer Hornsby);
il 9 luglio hanno partecipato Stephen Makin e Nicholas Denyer (Aristotle on
Modality, mod. David Evans), Peter Lipton e John Worrall (Induction, mod.
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cronache di filosofia
Dorothy Edgington), Elliot Sober e Peter Hylton (Quine, mod. Christopher
Hookway), Tim Scanlon e Jonathan Dancy (Intention and Permissibility, mod.
Peter Carruthers).
Dal 1º al 4 agosto 2000 si è svolta la conferenza Linguaggio, pensiero e
realtà: proposte scientifiche, religiose e filosofiche della Society for Indian
Philosophy and Religion, di Calcutta. Per ulteriori informazioni ci si può mettere in contatto con Chandana Chakrabarti, Campus Box 2336, Elon College, Elon
College, NC 27244 [email protected].
La International Association for Greek Philosophy (IAGP),
l’International Center for Greek Philosophy and Culture, la Society for
Ancient Greek Philosophy (SAGP-USA) e il Dipartimento di Filosofia della
Università di Atene hanno organizzato la XII Conferenza Internazionale di filosofia greca sul tema La ricerca della verità: la filosofia greca e l’epistemologia
(The Quest for Truth: Greek Philosophy and Epistemology) nei giorni 20-27 agosto 2000.
Nei giorni 9-10 settembre 2000 si è svolto l’incontro inaugurale del Central
Canada Seminar for the Study of Early Modern Philosophy presso
l’Università di Toronto, coordinato dal prof. James M. Morrison (St. Michael’s
College, University of Toronto, 81 St. Mary St., Toronto, Ontario, M5S 1J4; email: [email protected]).
La Society for European Philosophy (SEP) ha organizzato la sua terza conferenza annuale dal titolo Tempo, verità e storia (Time, Truth and History) nei
giorni 6-8 settembre 2000. Hanno partecipato come relatori Etienne Balibar
(Parigi), Catherine Malabou (Parigi), Joanna Hodge (Manchester). Ulteriori
informazioni si possono chiedere al dott. David Corfield o al dott. Jon
Williamson (Department of Philosophy, King’s College London, Strand, London
WC2R 2LS, tel. 020-7848 2327; email [email protected]).
Dal 25 al 28 ottobre 2000 si terrà a Bologna un convegno internazionale dal
titolo Frontiere della transculturalità nell’estetica contemporanea. È un’iniziativa congiunta del Dipartimento di Filosofia dell’Università di Bologna e
dell’Associazione Italiana per gli Studi di Estetica (A.I.S.E.), al fine di allestire un foro di discussione sugli apporti cruciali che la transculturalità, l’interdisciplinarietà e il comparativismo forniscono all’estetica teorica del tempo presente.
Si prevede la partecipazione di quaranta relatori provenienti da vari continenti. Il
dibattito avrà come punto di riferimento la tensione fra il cosiddetto “particolarismo etnocentrico” e l’“universalismo multicentrico”. Tra gli obiettivi, c’è quello
di avviare, tramite studi comparativi in ambito europeo ed extra-europeo, la revisione dello statuto dell’estetica, facendo di questa disciplina, intesa non più
restrittivamente come “filosofia dell’arte”, il baricentro speculativo di indagini
346
cronache di filosofia
interdisciplinari in ambito sia scientifico che umanistico. Per maggiori informazioni è possibile rivolgersi a Roberta Giacomini, via S. Stefano, 97 - I-40125
Bologna, tel +39-051.302980; fax+39-051.309477; e-mail [email protected].
Per il mese di dicembre del 2000 (14-16) è indetto il congresso Tommaso
d’Aquino come autorità? (Aquinas as authority?) organizzato dal Thomas
Instituut di Utrecht. Per ulteriori ragguagli, ci si può rivolgere al comitato organizzatore: Thomas Instituut, c/o Harm Goris, PO Box 80101, NL-3508 TC
Utrecht, Olanda.
Revista de Filosofía
ANALOGÍA es una revista de investigación y difusión filosóficas del
Centro de Estudios de la Provincia de Santiago de México de la Orden
de Predicadores (Dominicos). ANALOGÍA publica articulos de calidad
sobre las distintas áreas de la filosofia.
Director: Mauricio Beuchot. Consejo editorial: Ignacio Angelelli,
Tomás Calvo, Roque Carrión, Gabriel Chico, Marcelo Dascal, Gabriel
Ferrer, Jesús García, Jorge J. E. Gracia, Klaus Hedwig, Angel Muñoz
García, Lorenzo Peña, Livio Rosetti, Philibert Secretan, Enrique
Villanueva, Luis Flores H.
Colaboraciones (artículos, notas, reseñas) y pagos enviarse a:
Gabriel Chico, O.P.
Apartado 23-161,
Xochimilco
16000 México, D. F.
MEXICO
Suscripción anual (2 números):
México: $200.00, M.N.
Otros países: US $ 35.00
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bibliografia tematica
Pubblichiamo una sintetica rassegna bibliografica, curata dal prof. Antonio
MALO, su alcuni libri recenti riguardanti l’affettività dal punto di vista dell’antropologia filosofica.
Antonio R. DAMASIO, L’errore di Cartesio: emozione, ragione e cervello
umano (titolo originale: Descartes’ Error. Emotion, Reason and the Human
Brain), Adelphi, Milano 1995, pp. 252.
L’autore, professore di neurologia e preside del Dipartimento di neurologia
presso il College of Medicine della Università di Iowa, è noto per le sue ricerche sulla neurologia della visione, della memoria e del linguaggio. In quest’opera prende in esame, sulla base non soltanto di argomentazioni speculative
ma anche dell’analisi di casi clinici e della valutazione di fatti neurologici
sperimentali, le infauste conseguenze della separazione cartesiana fra emozione e intelletto. Tutte le linee della ricerca dell’autore convergono verso uno
stesso risultato: l’essenzialità del valore cognitivo del sentimento. La sua tesi
si può riallacciare così alla tesi classica della conoscenza per connaturalità.
L’aspetto più interessante del libro è la distinzione fra il sentire di base e il
sentire delle emozioni: distinzione che qui è fondata su osservazioni di architettura anatomico-funzionale del sistema nervoso centrale e non su motivazioni di solo funzionalismo psicologico. Anche se l’autore interpreta il sentire
delle emozioni in riferimento al solo scopo della sopravvivenza, non evita di
parlare di sentimenti che rispecchiano conflitti individuali e sociali, le cui
cause restano un mistero.
Juan Antonio MARINA, El laberinto sentimental, Anagrama, Barcelona 1996,
pp. 280.
L’opera è il quarto saggio dell’autore. Come nei libri precedenti, Marina tenta
di elaborare un modo nuovo di fare filosofia, in cui le riflessioni teoretiche si
intersecano con le vicende dei personaggi di un romanzo. Nel labirinto sentimentale si trovano illustri visitatori: Rilke, Kafka, Proust, Sartre, Rimbaud,
Kierkegaard, Don Nepomuceno Carlos de Cárdenas, e un misterioso personaggio chiamato G.M. Le conclusioni di questo viaggio attraverso il labirinto
mettono in rilievo che i grandi temi della psicologia girano attorno ai sentimenti: la conoscenza, il desiderio, i progetti, il carattere, l’azione..., per cui la
scienza del sentimento appare come una scienza pratica. Forse il prezzo da
pagare per adoperare la tecnica del romanzo in ambito filosofico è la mancan349
bibliografia tematica
za di profondità e di rigore nel modo di affrontare i temi. D’altro canto anche
se ci sono molti spunti validi per un’ulteriore riflessione su questi argomenti,
alcune conclusioni sono poco fondate; ad esempio, l’affermazione che l’origine dell’etica non è altro che un’intelligenza messa al servizio dell’affettività.
Quentin SMITH, The Felt Meanings of the World. A Metaphysics of Feeling,
Purdue University Press, West Lafayette 1986, pp. 324.
Il libro offre un’esauriente tassonomia dei sentimenti, all’interno di uno schema generale che permette l’organizzazione della variegata ricchezza del
mondo affettivo. Il pregio principale dell’opera è la descrizione della molteplicità dei fenomeni affettivi in termini di flusso delle intenzioni secondo una
certa direzionalità e determinati modi (ogni specifica qualità di piacere o di
dolore ha un proprio flusso affettivo analizzato accuratamente dall’autore).
Lo scopo dell’opera non è però la semplice descrizione dei sentimenti, bensì
quella di sostenere la tesi che l’unica metafisica possibile è quella basata sui
sentimenti, invece di quella fondata sulla ragione. L’esistenza umana non
sarebbe accessibile alla ragione, ma soltanto alla comprensione di situazioni
emozionali. Nel ridurre la metafisica ai significati affettivi, l’autore sembra
accettare le tesi centrali del nichilismo postmoderno.
W. George TURSKI , Toward a Rationality of Emotions: An Essay in the
Philosophy of Mind, Ohio UP, Athens 1994, pp. 158.
L’opera è una raccolta di articoli di diversa lunghezza, in parte già pubblicati,
su differenti temi. Sebbene il libro tratti dell’integrazione dell’affettività nella
totalità della coscienza, il titolo potrebbe suggerire un approccio datato e
superato, cioè la falsa riduzione dell’intenzionalità dell’affettività a quella
della ragione. Ma così non è, poiché l’affettività ha un’intenzionalità che corrisponderebbe all’interazione vissuta con il mondo, per cui nel sentire non si
può staccare l’aspetto passivo da quello attivo. L’intenzionalità affettiva viene
intesa — sulla scia dell’esistenzialismo — come co-determinazione del se
stesso e dell’altro, sicché ogni emozione implicherebbe responsabilità nei
confronti dell’altro. Infatti — sostiene l’autore — le emozioni sono costituite
dalle risposte che ci fanno sempre essere degli interlocutori. Anche se è vero
che attraverso la riflessione e gli abiti siamo responsabili dei nostri sentimenti, pensiamo tuttavia che non possa essere annullata la differenza fra il sentire
e l’acconsentire, per cui non si può affermare — come fa Turski — una totale
responsabilità nei confronti dei nostri sentimenti.
Xavier ZUBIRI, Sobre el sentimiento y la volición, Alianza Editorial, Madrid
1992, pp. 457.
Il volume raccoglie alcuni testi non pubblicati appartenenti a tre corsi:
“Acerca de la voluntad” (1961), “El problema del mal” (1964) e “Reflexiones
filosóficas sobre lo estético” (1975). Tutt’e tre hanno in comune lo studio del
sentimento e della volizione, per cui costituiscono il complemento indispen-
350
bibliografia tematica
sabile delle analisi fatte sull’intelligenza nella trilogia dell’autore
(Inteligencia sentiente: Inteligencia y realidad; Inteligencia y logos, e
Inteligencia y razón). La riflessione zubiriana si dirige a scoprire l’essenza
del sentimento estetico attraverso una triplice domanda: Che cosa è il sentimento? Qual è il rapporto fra sentimento e realtà? Che cosa è il sentimento
estetico? L’autore individua l’aspetto formale del sentimento nell’ atemperamiento, cioè nel modo di trovarsi in un adeguamento tonico con la realtà, per
cui si tratta di un atto del soggetto contenente in modo formale un momento
di realtà. Anche se lo stile è scorrevole, il libro non è di facile lettura sia per
quanto si riferisce alla terminologia adoperata sia per quanto si riferisce alla
densità concettuale. Ciò nonostante, l’opera è ricca di spunti in ambito antropologico. Si veda anche su questa rivista la nota El sentimiento en la
Noología de Zubiri, fascicolo I, vol. 8 (1999), pp. 193-197.
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ACTA PHILOSOPHICA, vol. 9 (2000), fasc. 2/recensioni
recensioni
Rafael ALVIRA, La razón de ser hombre. Ensayo acerca de la justificación
del ser humano, Rialp, Madrid 1998, pp. 205; Filosofía de la vida cotidiana, Rialp, Madrid 1999, pp. 112.
■
Rafael Alvira è autore di diversi titoli di carattere metafisico e antropologico
e curatore di molteplici opere collettive. In questi due saggi raccoglie gli aspetti
più importanti della sua visione dell’uomo, e anche se nel primo si offre una
visione complessiva dei grandi temi della vita umana, non si può pensare ad
un’opera di tipo manualistico. I quattro lunghi capitoli in cui è diviso il lavoro
costituiscono profonde riflessioni dell’autore, che si ispira al pensiero di filosofi
moderni e antichi per confrontare le loro posizioni e ricavare un insieme di
nozioni con le quali ritrarre le sembianze della persona nel mondo contemporaneo.
Il primo capitolo — Cómo se conoce el hombre a sí mismo — presenta diversi
approcci per la considerazione dei problemi umani. Siccome l’uomo non è un
mero “oggetto” da studiare dall’esterno, bisogna sviluppare certe capacità di
riflessione e di considerazione dei “fenomeni interni” dello spirito. È necessario
imparare a ricononoscere e a riconoscersi nel proprio agire per capire gli altri e
l’ambiente sociale di cui si fa parte. Inoltre, si propone un’armonizzazione dei
diversi livelli di conoscenza, cioè quello razionale-filosofico, quello religioso e
quello estetico. L’ultima parte del capitolo mette in rapporto questi tipi di conoscenza con la triade classica dei trascendentali, il bello, il bene e il vero.
El planteamiento antropológico filosófico, titolo del secondo capitolo, rispecchia il suo scopo, che è quello di circoscrivere l’oggetto di studio della filosofia
dell’uomo, partendo dal problema della posizione della persona come argumento
per se stessa. Si passa in rassegna il problema della oggettività kantiana per esporre il rapporto realtà-conoscenza e infine l’approccio conoscitivo all’esistenza.
Nel terzo capitolo, Alvira presenta la sua analitica antropologica, e riprende i
temi classici della composizione anima-corpo, dei rapporti fra il naturale e il
soprannaturale, la storicità umana, la sessualità, e la cultura.
353
recensioni
Il quarto capitolo intitolato Sintética antropológica presenta la dinamicità
della vita umana sotto quattro aspetti: il processo di diventare essere umani, la
proiezione umana davanti all’inevitabile questione del fine ultimo, la strutturazione della vita nell’ “abitare” e nel “produrre”, e infine un abbozzo di filosofia
del quotidiano che è presentato come l’autentico palcoscenico dell’autorealizzazione.
È in occasione degli argomenti di questo quarto capitolo che mi sembra
opportuno aggiungere una breve presentazione di una seconda opera di questo
autore, Filosofía de la vida cotidiana. Pur essendo un libro basato su varie conferenze tenute negli ultimi dieci anni, riprende i grandi temi dello sviluppo della
persona nel processo del quotidiano, e ripropone a livello filosofico gli argomenti dell’abitare e del produrre come ambiti di scambio della persona con la natura,
che resta sempre umanizzata dopo questo commercio con l’umano.
Altri argomenti di non facile esame filosofico che l’autore riesce a tematizzare sono l’arte di invitare come punto di partenza del donare e dello scambio che
ogni rapporto umano esige: dire, insinuare, condividere un festeggiamento, partecipare alla gioia di una nuova nascita, sono tutte manifestazioni della spiritualità umana.
Il gioco, i suoi rapporti con la festa, lo spirito sportivo — la sportività spiegata come una spinta nei diversi ambiti dell’agire umano oltre allo sviluppo delle
virtù agonistiche — chiudono gli argomenti della prima parte.
Nella seconda si trattano la noia, la felicità abbinata alla sofferenza, lo spirito
di finesse, e una reinterpretazione del tema del cuore. Sorprende come da una
sola parola (la noia) si possa tessere un discorso filosofico sui desideri e i bisogni
umani, visti nella prospettiva della storia e presentati ad un pubblico che oggi ha
troppe cose da desiderare e poche idee direttrici per comprendere quali fra di
loro siano all’altezza della sua condizione spirituale.
Negli altri temi si ritrova come filo conduttore il condividere (compartir), sia
nelle forme dell’amicizia per quanto riguarda la felicità e la sofferenza, sia nella
capacità di capire gli altri per comunicare e per andare incontro ai loro bisogni
(la finesse ovvero finura de espíritu in spagnolo), nonché nella concezione del
cuore come l’ubi della mediazione, della conciliazione con gli altri per poterli
accogliere e servire. Tutti questi sviluppi mirano ad offrire elementi affettivi e
razionali — nell’agire umano devono sempre andare insieme, secondo la prospettiva dell’autore — perché ognuno possa imparare a valutare criticamente e a
gestire in prima persona i molteplici elementi di una società in continua evoluzione.
Juan A. MERCADO
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ACTA PHILOSOPHICA, vol. 9 (2000), fasc. 2/recensioni
Mariano ARTIGAS, Filosofía de la ciencia, Eunsa, Pamplona 1999 pp. 291.
■
Vivimos en una civilización fuertemente modulada por la ciencia. Gran parte
de los problemas humanos se encuentran mezclados con nuestras ideas sobre el
alcance y el valor del conocimiento científico. Por eso comprender la naturaleza
de la ciencia y su valor es hoy una exigencia ineludible. Filosofía de la ciencia
de Mariano Artigas se nos ofrece como una ayuda para este cometido.
En los últimos decenios, la publicación de ensayos, manuales, monografías y
artículos sobre filosofía de la ciencia se ha multiplicado. Sin embargo, la imagen
de la ciencia que emerge de toda esta literatura es poco homogénea y, muchas
veces, contrastante. En algunos casos prevalece un enfoque logicista, en otros se
da primacía a los aspectos históricos o sociológicos y, en muchos trabajos, se
advierten todavía residuos de la mentalidad positivista. Esta situación resulta
poco favorable para formarse una representación cabal de la naturaleza de la
ciencia. Especialmente en el sector de la manualística es donde más se advierte
la ausencia de exposiciones equilibradas que reflejen —en lo sustancial— toda
su riqueza y complejidad.
Reconociendo los méritos que indudablemente tienen algunos manuales, el de
Artigas cubre una laguna importante que advertirán rápidamente quienes conozcan lo que se ha escrito sobre el tema.
Esquemáticamente, la obra se ajusta al siguiente plan. Una Introducción en la
que se sitúa la importancia de la ciencia en la vida actual y se explican a grandes
rasgos los temas y métodos de la filosofía de la ciencia. Los dos capítulos
siguientes, que prolongan de algún modo la introducción, tratan del desarrollo
histórico de la ciencia y de la filosofía de la ciencia, con especial atención a las
corrientes más influyentes del período contemporáneo. Los capítulos IV y V se
dedican respectivamente a la naturaleza y método de las ciencias. En el siguiente
capítulo titulado Las construcciones científicas, se analizan los resultados a los
que conduce la aplicación del método científico. Lo que hasta aquí ha considerado Artigas, puede entenderse como preámbulo necesario para el último capítulo
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titulado El valor de la ciencia, en el que se estudian las tres cuestiones fundamentales de la filosofía de la ciencia: la verdad científica, la relación entre ciencia y filosofía, y la relación entre ciencia y valores.
Una primera característica que salta a la vista es su amplitud temática. Toca,
en efecto, todas las cuestiones esenciales de la filosofía de la ciencia, y en su lectura se advierte, además, que combina de modo equilibrado los enfoques lógico,
histórico y sociológico; el resultado es una presentación ordenada de la ciencia
real en todas sus dimensiones.
A mi entender, el marco del manual parece estar constituido por dos ideas
centrales. La primera es la concepción de la ciencia como actividad humana que
se propone unos objetivos y utiliza para lograrlos unos métodos que, en su aplicación, producen unos resultados. Artigas supera así —incluyéndola— la perspectiva lógica de la ciencia, centrada exclusivamente en el ideal de pureza
metodológica que, siendo válida, resulta parcial e insuficiente. Su enfoque, en
cambio, permite abrir cauces para el encuentro recíprocamente beneficioso de las
ciencias con las humanidades. Su concepción de la racionalidad científica no se
presenta como algo cerrado que, sólo en un segundo momento, hay que relacionar o integrar con otras perspectivas; es en la misma racionalidad científica
donde Artigas ve dimensiones filosóficas implícitas que no comprometen la legítima autonomía de las ciencias.
Estas consideraciones nos llevan a la segunda idea-marco que es precisamente la perspectiva filosófica con la que Artigas aborda el estudio de la ciencia. Se
trata de una perspectiva realista en la que tienen cabida los aspectos convencionales y las construcciones de la ciencia, así como la enorme dosis de creatividad
que comporta. Como ha desarrollado más ampliamente en otros escritos, el realismo al que se refiere Artigas no significa poner a la ciencia en dependencia de
una base filosófica sobre la que existen discrepancias, sino que se trata únicamente del realismo filosófico implícito en la actividad científica.
Respecto a los contenidos, merece destacarse el espacio que concede a las
ciencias humanas. Como es sabido, la mayor parte de los manuales existentes de
filosofía de la ciencia se limitan a las ciencias de la naturaleza y, dentro de éstas,
casi exclusivamente a las de método experimental-matemático, concretamente a
la física. Mérito de esta obra de Artigas es presentar un panorama completo de la
racionalidad humana, incluyendo también la teología e indicando cauces muy
oportunos para el diálogo entre ciencia y fe cristiana. Asistimos aquí a una recuperación del concepto analógico de ciencia que comienza a revelar su fecundidad
en el deseado diálogo interdisciplinar. Otro aspecto que merece destacarse —por
ser tema poco contemplado en la mayor parte de los manuales— es el estudio de
las dimensiones éticas de la ciencia, que el autor realiza desde la explicación de
los valores constitutivos de la actividad científica.
Yendo más puntualmente a algunos temas, destacaría, entre otros, la excelente
caracterización de la novedad de la ciencia moderna. También la argumentación
que ofrece del carácter auténtico de la verdad científica, aunque se trate de una
verdad parcial y contextual; en este punto —como señala explícitamente el autor
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y lo evidencian las numerosas referencias— Artigas es deudor en bastantes de
estas consideraciones de la obra de Agazzi. Por último, cabe mencionar también
la sistematización que presenta de los diferentes niveles en los que las ciencias se
articulan con la filosofía.
Desde el punto de vista pedagógico, la obra destaca por la exposición lúcida
de los temas. Abundan los ejemplos, siempre oportunos. La sistematización está
bien lograda y la división en apartados es equilibrada. Puede decirse que el
manual tiene densidad científica y filosófica, pero no resulta teórico ni, mucho
menos, formalista. Dentro de la sobriedad propia del género, tiene el vigor y la
vitalidad que puede darle quien conoce bien y con experiencia personal el tema
del que habla. Además, Artigas sabe ver en la ciencia un reflejo de la racionalidad del Creador y una manifestación de la capacidad cognoscitiva del hombre.
Se muestra también buen conocedor de los autores y planteamientos más
significativos de la filosofía de la ciencia y sabe aprovechar sus aportaciones más
valiosas. Da muestras con esto de lo que se ha considerado siempre característica
de los buenos maestros: la apertura y la capacidad de aprender de todo aquél que
tenga algo verdadero que decir.
Aunque buena parte del contenido del manual está recogido en otras obras de
Artigas, principalmente en Filosofía de la ciencia experimental (2ª ed., 1992), El
desafío de la racionalidad (1994) y La mente del universo (1999), el manual es
una nueva síntesis que esperamos ver pronto traducido a las principales lenguas.
Por último, cabe añadir que el trabajo está en perfecta sintonía con una de las
temáticas principales de la Encíclica Fides et ratio. En efecto, la Encíclica supone una llamada a recuperar el vigor de la razón, su capacidad de conocer la verdad, también en el ámbito de las verdades últimas. En esta desconfianza en la
razón, tan característica de nuestra época, que ha abocado en el clima generalizado de relativismo y escepticismo, ha tenido históricamente mucho que ver la
interpretación y valoración que se ha dado al conocimiento científico. Por eso,
devolver al hombre la confianza en la capacidad de su razón ha de pasar necesariamente por la recuperación de la verdad científica. No cabe duda de que este
manual de Artigas cumplirá una función especulativa y pedagógica importante
en esta línea.
Por la síntesis que hace de muchas de las mejores aportaciones sobre el tema
y por la originalidad de su enfoque y propuestas, esta obra de Artigas puede considerarse, a la vez, un manual clásico y de vanguardia.
Ma. Angeles VITORIA
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ACTA PHILOSOPHICA, vol. 9 (2000), fasc. 2/recensioni
Gabriel CHALMETA, La giustizia politica in Tommaso d’Aquino [Studi di
Filosofia n. 19], Armando, Roma 2000, pp. 155.
■
Gabriel Chalmeta, professore di Etica e filosofia sociale della Pontificia
Università della Santa Croce, ci offre un saggio molto originale su alcuni aspetti
della filosofia politica di Tommaso d’Aquino. Il prof. Chalmeta aveva già dimostrato la sua originalità nel manuale Etica applicata. L’ordine ideale della vita
umana (Le Monnier, Firenze 1997), fondato sui principi della philosophia perennis, e con approcci propri della sociologia relazionale che permettevano un’analisi realistica dei problemi posti dalla società contemporanea. In questo caso, si
tratta di un breve saggio che, partendo dalla consapevolezza della crisi dello
Stato liberal-democratico, tenta di gettare nuove luci su una possibile nuova configurazione della società, ispirandosi ad alcuni principi presenti nella filosofia
politica di san Tommaso.
Secondo Chalmeta, le due correnti di pensiero politico più influenti nell’attuale dibattito politico — e che sono elementi teorici indispensabili per capire la
configurazione odierna della società —, sono l’utilitarismo e il contrattualismo.
Entrambe le correnti rappresentano tentativi di fornire una razionalità etico-politica all’umano vivere insieme. Se la società del Welfare è in crisi, si tratta soprattutto di una crisi di questa razionalità. Le risposte dell’utilitarismo e del contrattualismo sono unilaterali, e non risolvono il problema di una razionalità eticopolitica che possa fondare la vita in società.
Chalmeta afferma che la caratteristica specifica di ogni teoria utilitarista è la
struttura teleologica del seguente ragionamento: «il bene del cittadino viene definito prima e indipendentemente dal politicamente giusto, e il politicamente giusto (lo Stato giusto) è definito successivamente come quel sistema di relazioni
politiche (di leggi, di istituzioni, di costumi, ecc.) che massimizza il bene dei cittadini all’interno della società» (p. 13). L’utilitarismo identifica nozioni quali il
“dover essere” o la “giustizia della società politica” con quelle di “massima soddisfazione dei nostri desideri” e di “benessere massimamente diffuso”. Secondo
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tale teoria queste categorie ammetterebbero un’espressione in termini matematici
tale che la loro realizzazione pratica si ridurrebbe fondamentalmente a un problema di natura tecnica. Chalmeta non nega che l’utilitarismo che si trova alla base
del Welfare State abbia ottenuto importanti risultati riguardo alla libertà individuale e alla solidarietà politica, ma considera che l’esaurimento dell’attuale configurazione politica della società si deve all’impiego «della logica matematica
per la determinazione di ciò che è politicamente giusto, quando, in realtà, la rilevanza in questo ambito umanistico delle nozioni ed i valori aritmeticamente
espressa è molto secondaria, quasi esclusivamente indiziaria» (p. 15).
Per quanto riguarda il contrattualismo, Chalmeta lo considera alternativo
all’utilitarismo. La sua essenza sarebbe costituita dall’applicazione analogica
all’ambito politico della teoria del contratto propria del Diritto privato: la giustizia politica si basa sul consenso di tutte le parti. Ognuno è libero di seguire il
proprio progetto di felicità; pertanto la società non deve privilegiare nessun concetto di vita buona. Secondo il contrattualismo che, al contrario dell’utilitarismo,
difende la priorità del giusto sul bene, la giustizia politica si raggiungerebbe
mediante il consenso e il dialogo razionale. «Di fatto, se nella visione utilitarista
veniva riconosciuta una priorità assoluta alla nozione di bene su quella di giustizia politica, nel senso che l’ultima deriverebbe interamente dalla prima per via di
semplice massimizzazione aritmetica, il neocontrattualismo sosterrà invece la
priorità della nozione di giustizia su quella di bene; oppure, per dirlo con il significativo titolo di un’opera di Rorty, la priorità della democrazia sulla filosofia. Si
vuole indicare, con questa idea, che i rapporti sociali dovrebbero essere ordinati
secondo una serie di principi di giustizia politica tali da non presupporre alcuna
concezione etica specifica nei cittadini; oppure, detto in forma positiva, occorre
che i principi di giustizia che modellano la vita politica siano condivisi da tutti i
cittadini, quale che sia la concezione etica professata, vale a dire, la rispettiva
visione sulla vita buona e, in ultima analisi, sulla natura della felicità umana» (p.
18). Chalmeta valuta negativamente il neocontrattualismo perché, se si riconosce
il valore autonomo delle pretese dei cittadini per il mero fatto di trarre origine dal
loro volere, e non quali espressioni di un ordine etico oggettivo, è molto improbabile, se non impossibile, trovare un terreno comune su cui giungere all’accordo.
Se né l’utilitarismo né il contrattualismo presentano soluzioni soddisfacenti al
problema politico contemporaneo, è legittimo volgersi indietro, al passato, per
cercare motivi di ispirazione. Chalmeta lo fa guardando a san Tommaso
d’Aquino, ma è consapevole che la filosofia politica di Tommaso non offre una
risposta completa ai problemi contemporanei. L’Aquinate è condizionato dal suo
tempo. Infatti, la cosmovisione dei suoi coetanei era molto diversa da quella di
oggi, e inoltre, «la concezione politica di Tommaso, in quanto teologo cattolico,
può essere pienamente compresa solo da quanti ne condividono la fede in Cristo,
o perlomeno in un’altra vita cui è destinato l’uomo, mentre a tanti cittadini del
Welfare State, che questa fede non hanno, tale concezione apparirà in tutto o in
buona parte irrazionale» (p. 20). Ciononostante, Chalmeta considera che, da una
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recensioni
certa lettura di Tommaso, potrebbero scaturire alcuni principi molto generali di
giustizia politico-giuridica idonei a superare l’alternativa utilitarismo-contrattualismo, nonché a contribuire positivamente alla soluzione dei problemi del
Welfare State.
L’autore divide il suo saggio in tre parti. Nella prima — Presupposti storici e
dottrinali — si descrive il panorama politico, giuridico e culturale del contesto
storico di san Tommaso. Chalmeta, allontanandosi dai clichés storiografici che
considerano il Medioevo come un’epoca oscura e intellettualmente sterile, situa
san Tommaso in un periodo di rinascimento culturale (XII e XIII secolo), che
lascerà tracce profonde nell’ambito delle teorie e delle istituzioni politico-giuridiche. Poi presenta brevemente la personalità del Dottore Angelico — un figlio
del suo tempo, pienamente inserito nelle preoccupazioni e interessi dei suoi
coevi — nonché i suoi scritti politici.
Secondo Chalmeta, nell’avvicinarsi all’opera politica tommasiana è necessario rispettare alcuni principi ermeneutici: fondamentalmente il principio d’interpretazione dei singoli testi alla luce del tutto, e poi la subordinazione delle opere
di commento ad Aristotele alle dottrine espresse in opere completamente sue.
Chalmeta conclude la prima parte presentando le fonti della filosofia politica di
san Tommaso: oltre alla Sacra Scrittura — utilizzata, nelle opere politiche, con
un approccio filosofico —, spiccano le figure di Aristotele e di Agostino, di cui
Chalmeta sottolinea rispettivamente gli elementi tendenzialmente utilitaristici e
contrattualistici. L’autore considera la filosofia politica di Tommaso d’Aquino
una sintesi della concezione “utilitarista” di Aristotele e della concezione “contrattualista” di Agostino. Dunque, essendo presenti in germe le due dottrine politiche contemporanee, la filosofia politica di Tommaso può offrire elementi di
riflessione sulla problematica politica attuale.
Nella seconda parte — Determinazione dialettica della concezione tomista
della giustizia politica — Chalmeta adopera un metodo dialettico per arrivare
alla nozione di giustizia politica secondo san Tommaso. Il metodo “deduttivo”, o
più strettamente filosofico, lo utilizzerà nella terza parte. Seguendo lo schema
prefissato sin dall’introduzione, l’autore fa dialogare la teoria politica tomista
con quella utilitarista e con quella contrattualista. L’elemento principale che
accomuna san Tommaso all’utilitarismo è la concezione teleologica della teoria
della giustizia politica. Fedele in questo aspetto all’insegnamento del suo maestro Aristotele, Tommaso considera l’uomo come naturalmente sociale e politico.
Il fine ultimo della società è orientato alla felicità dei singoli. Se lo schema fondamentale delle due teorie è simile, il contenuto della felicità è diverso, dato che
la concezione tomista è imperniata sulla dottrina aristotelica delle virtù. La somiglianza si ferma qui. La considerazione matematizzante dell’utilitarismo non ha
nessun spazio nella teoria politica di Tommaso. La “massimizzazione del bene”
di Stuart Mill e di altri utilitaristi misconosce il valore unico della persona
umana, che trascende una trattazione meramente matematica della felicità.
Secondo Chalmeta, il concetto di dignità della persona opera la più radicale rottura tra la posizione tomista e quella utilitarista. L’uomo naturaliter liber e prop-
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recensioni
ter seipsum existens — e ancora di più l’uomo in quanto immagine di Dio —
non ammette l’oppressione delle minoranze e dei più deboli, inevitabile in un’ottica utilitarista matematizzante. L’uomo non è solo parte di un tutto: «non sarà
mai eticamente razionale considerare l’uomo come una semplice unità al servizio
del maggior bene per il maggior numero, una parte che si possa sacrificare al servizio del tutto sociale» (p. 77).
Riguardo al contrattualismo, Chalmeta considera che Tommaso d’Aquino
riconosce alcune delle sue “buone ragioni”, ad esempio, nell’apprezzamento da
lui dimostrato per la libertà o autonomia come un bene prezioso e irrinunciabile
dell’uomo, anche quale membro della società politica. Se per Tommaso il fine
ultimo di tale società è la vita virtuosa dei cittadini, la libertà o autonomia è una
condicio sine qua non per l’agire secondo virtù. L’autore cita passi dell’opera
tommasiana, da cui si evince una forte simpatia per l’assetto politico-istituzionale più favorevole all’autodeterminazione dei cittadini (ad es. S.Th. I-II, 97, 3, ad
3; ivi, 90, 3,c). San Tommaso non esita a far sua la definizione “contrattualista”
di società in Agostino: “moltitudine legata da un accordo giuridico” (S.Th. I-II,
105, 2, c). Per Chalmeta, c’è un altro punto importante sul quale Tommaso si
sarebbe trovato d’accordo con il contrattualismo: il fatto che «la libertà degli altri
costituisce, in linea di massima, un limite all’esercizio della legittima libertà da
parte di ciascun uomo. Anzi, proprio come in questa teoria moderna, nella filosofia dell’Aquinate tale esigenza si fonda su un’istanza morale oggettiva presente
nella ragione umana: la legge naturale» (p. 82).
Malgrado questi aspetti comuni, la teoria politica di Tommaso si allontana dal
contrattualismo in un punto centrale: Tommaso ha una visione della vita buona
piena di contenuto e ricca di conseguenze sociali, e in ciò si oppone al rifiuto
contrattualista di fondare la società su un concetto completo della vita buona. Per
l’Aquinate, la vita buona individuale è rivolta essenzialmente alla promozione
del bene comune di tutti. Tommaso dunque non può essere d’accordo con il contrattualismo che concepisce la vita sociale soltanto in base ad un consenso dove
si devono rispettare le libertà individuali nella misura in cui non ledano le libertà
altrui. Non basta un saggio “non fare”, poiché la giustizia implica favorire la vita
buona delle altre persone, contribuendo così al bene comune della società. Dalla
concezione di giustizia politica di Tommaso risulta «che la società dispone di un
criterio razionale per valutare le varie rivendicazioni di libertà e per risolvere i
relativi conflitti. Dovrà ritenere giuste quelle libertà dei cittadini che contribuiscano positivamente alla vita buona (virtuosa) degli altri, e dunque fare il possibile per garantirle e promuoverle di più o di meno, a seconda dell’importanza di
questo contributo. Altre libertà, invece, perché a tale fine irrilevanti, dovranno
semplicemente essere valutate non ingiuste, e comunque meritevoli di rispetto.
Infine, le libertà contrarie alla creazione o sussistenza di questi rapporti di collaborazione positiva tra i concittadini, saranno considerate ingiuste, e verranno
punite o, nel migliore dei casi, tollerate» (p. 86).
Una volta analizzata la concezione della giustizia politica di san Tommaso, a
partire dalle “buone ragioni” e dai “torti” che il Dottore Angelico darebbe sia
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all’utilitarismo che al contrattualismo, Chalmeta affronta l’ultima parte del suo
studio, abbandonando il metodo dialettico. Nella parte terza, intitolata La sintesi
tomista: il bene comune politico, l’autore cambia prospettiva: se prima ha sottolineato l’aspetto “umanista” della dottrina tomista, in cui si afferma che il fine ultimo della società politica dovrebbe essere la vita buona dei suoi membri, adesso
si analizza la teoria tomista asserendo che il singolo, per vivere bene, dovrebbe
proporsi come fine la realizzazione del bene comune della comunità, ossia la vita
virtuosa di tutti i suoi membri. Secondo Chalmeta, entrambe le letture sono valide, sulla base del De regno I, 15, dove l’Aquinate scrive che “bisogna che il fine
della comunità coincida con quello del singolo”. L’autore dà grande importanza
all’affermazione tomista homo homini naturaliter amicus (S.Th. II-II, 114, 1 ad
2): Tommaso considera il bene umano come bene comune in quanto tale. Non è
solo l’utilità (ambito dei mezzi) che fa sì che l’uomo sia naturalmente socievole
e politico, ma è la stessa natura umana ad implicare che la collaborazione fra gli
uomini si dia persino nell’ambito dei fini: gli uomini desiderano una felicità
comune, che deriva dal desiderio della propria felicità. Perché? Per il fatto che
ciascun uomo è per natura amico di tutti gli uomini. «Per il nostro autore, l’amicizia, ossia l’amore verso l’altro che mette a frutto questa inclinazione naturale
dell’uomo fa sì che la cosa (o la persona) stessa che è amata venga ad unirsi in
qualche modo a chi l’ama: il bene o la virtù altrui diventa in questo modo un
bene anche mio, un bene comune» (pp. 98-99).
San Tommaso si rende conto che c’è una distinzione ed una gerarchia nella
costituzione dei vincoli di amicizia tra persone. Ci sono diversi sistemi di relazioni sociali, cui corrispondono diversi tipi di amicizia e diversi tipi di beni
comuni. Per Chalmeta ci sono fondamentalmente tre tipi di beni comuni: il bene
comune della famiglia, quello dei rapporti di lavoro, e il bene comune politico.
Quest’ultimo, fondato sull’amicitia concivium, viene studiato nell’ultimo capitolo di questo saggio: L’attuazione del bene comune politico: dall’ideale alla
realtà. Chalmeta sostiene che da un’ottica tomista, il compito di attuare esistenzialmente il fine ultimo della vita appartiene in modo incomunicabile a ciascuno.
Nel contempo, la vita buona del singolo può crescere solo nel “clima” di una
comunità amicale. Perciò, la realizzazione esistenziale della vita buona spetta
anche ai gruppi amicali, in particolar modo alle famiglie. Poiché i legami amicali
dell’uomo virtuoso non devono però escludere nessuno, tendenzialmente abbracciano tutti i membri della comunità politica. A sua volta, tale società è chiamata a
contribuire alla vita virtuosa dei propri cittadini. Come agiscono sia i cittadini
virtuosi, sia la società, per raggiungere lo scopo della vita buona? Principalmente
creando le condizioni di possibilità della vita virtuosa, che sono l’unità della
pace e il bene materiale. Inoltre, Chalmeta considera che il fine specifico del
bene comune politico è, con parole di Tommaso, “stimolare i sudditi a diventare
virtuosi”. Questo fine specifico, «pur essendo incombenza principale di ogni cittadino in quanto tale e dell’intera società politica, lo è soltanto in modo sussidiario ed indiretto. Da parte loro, più che altro, richiederà un serio sforzo per creare
quelle condizioni più idonee, affinché altri agenti sociali, specialmente le fami-
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glie, possano occuparsene direttamente e con successo» (pp. 113-114). Chalmeta
presenta i due strumenti fondamentali per creare tali condizioni: l’influsso benefico degli usi e costumi sociali e gli interventi mirati dell’autorità pubblica
(soprattutto le leggi).
Dalla presente lettura della filosofia politica di san Tommaso emerge un progetto di società dove ogni membro della comunità gode di un valore incommensurabile, in virtù della sua dignità. Ma tale dignità è relazionale: la libertà umana
è una libertà “per” gli altri, che deve creare reali possibilità di autodeterminazione. Il bene comune politico tomista ha compiti etici, ma san Tommaso non crea
uno Stato etico more hegeliano: fa parte dell’essenza del bene comune politico
favorire la libera autorealizzazione dei cittadini, uniti da legami di amicizia civica. Secondo Chalmeta, Tommaso oggi raccomanderebbe di applicare il principio
di sussidiarietà per porre rimedio al malessere della società del benessere: lo
Stato deve favorire l’iniziativa dei gruppi del Terzo settore (famiglia, volontariato, scuola), che creano le condizioni adeguate per l’amicizia civica (o solidarietà).
Il saggio del prof. Chalmeta è realmente profondo ed originale. Attraverso le
frequenti analisi dei testi di Tommaso, e senza forzature, Chalmeta pone dei problemi di scottante attualità, quali il diritto alla vita, il rispetto delle minoranze, il
problema del fondamentalismo. Questo saggio è un esempio di tomismo ben
inteso: non è la semplice riproposta di teorie medioevali caduche, ma la riflessione, a partire dai principi tomisti, sui problemi della società attuale. Tommaso dialogò con tutte le correnti culturali del suo tempo. I discepoli dell’Aquinate
dovrebbero seguire la stessa strada. Chalmeta lo fa e con successo.
Mariano FAZIO
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ACTA PHILOSOPHICA, vol. 9 (2000), fasc. 2/recensioni
Alejandro LLANO, Humanismo cívico [Ariel Filosofía], Ariel, Barcelona
1999, pp. 219.
■
La constatazione da cui muove questo saggio è ogni giorno che passa più
palese: la crisi strutturale, e non puramente congiunturale, del Welfare State o
Stato sociale classico. Tutti noi abbiamo purtroppo potuto sperimentare, in prima
persona, le carenze che in numero sempre crescente manifesta questa forma di
organizzazione politica: sia quelle più di fondo, che riguardano importanti aspetti
della nostra libertà in quanto cittadini comuni oppure in quanto minoranze; sia
quelle forse meno gravose, ma quotidiane, imputabili all’inflazione giuridica, al
vecchio problema della burocratizzazione, ecc. Anzi, non è assolutamente da
escludere che possiamo riconoscere in noi stessi i sintomi di quella grave “malattia”, causata da tutte queste circostanze negative, che si è soliti denominare anomia: la disaffezione o persino il malcontento e la ribellione verso tutto ciò che è
politico. Di conseguenza, diventa sempre più difficile trovare persone spontaneamente propense a sacrificare alcune delle loro libertà a favore dell’affermazione
attraverso gli automatismi dello Stato sociale delle libertà degli altri.
Le più gravi conseguenze di questa malattia sociale sono state finora evitate
grazie ad alcuni interventi trasformisti, miranti alla realizzazione del cosiddetto
«Stato del welfare sostenibile». Esistono diverse interpretazioni sulle caratteristiche precise che dovrebbe avere questo Stato sociale in versione ridotta. Mentre
alcuni (perché più socialisti, ossia “lab”) chiedono solo il ridimensionamento di
alcune prestazioni sociali, l’impedimento di abusi e duplicazioni, lo spostamento
delle risorse dai gruppi sovraprotetti a quelli sottoprotetti, la migliore armonizzazione tra assicurazione statale, aziendale e privata, altri (perché più liberali, ossia
“lib”) vorrebbero invece che venisse operata una demolizione quasi totale dello
Stato sociale, riducendo il sistema pubblico di sicurezza sociale alla garanzia dei
minimi vitali ed a cure mediche assolutamente fondamentali.
Quando però si esamina il nocciolo filosofico e sociologico di ciascun programma, spesso, troppo spesso si scopre che in entrambi i casi si tratta di un
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semplice tentativo di matrice ancora una volta utilitarista (con qualche spruzzatina di contrattualismo) volto mantenere in piedi alcuni degli elementi del vecchio
impianto politico: infatti, «el planteamiento lib/lab no pasa de ser una fina reelaboración de la visión moderna que sitúa en el vértice y en el centro de la sociedad, respectivamente, al Estado y al mercado» (p. 13); l’ultimo nel ruolo di
motore della società, il primo in quello di detentore del «monopolio de la benevolencia» (p. 17). Ma questo vecchio palazzo, secondo l’opinione (a mio avviso
più che giustificata) di Alejandro Llano, sarebbe ormai inagibile, a meno di pagare un prezzo troppo alto in termini di diritti sociali (dei malati terminali, dei prigionieri, degli handicappati, degli anziani...) nonché, soprattutto, di disumanizzazione dei diversi settori della vita, a cominciare da quello del lavoro (con effetti
negativi sul lavoratore e, di rimbalzo, sulla propria famiglia) (cfr. Conclusión).
Ci vuole, dunque, dirà il nostro autore, un impegno serio da parte di tutti per
cambiare rotta; ma per operare questo cambiamento non sono più sufficienti le
misure palliative: dobbiamo abbandonare definitivamente il moderno paradigma
della giustizia politica e del Diritto, cercando da qualche altra parte un modello
nuovo. L’augurio del prof. Llano è che il modello scelto sia quello che lui a voluto
chiamare, sulla scia di Hans Baron e dei suoi studi sulla Firenze rinascimentale,
Civic humanism o Humanismo cívico; un lemma che in italiano dovremmo forse
tradurre come “Umanesimo civile”. Esso, in estrema sintesi, propugna una società
contrassegnata da tre caratteristiche inseparabili. «La primera y más radical es, sin
duda, el protagonismo de las personas humanas reales y concretas, que toman conciencia de su condición de miembros activos y responsables de la sociedad, y procuran participar efectivamente en su configuración política. En segundo lugar figura la consideración de las comunidades humanas —en sus diferentes niveles—
como ámbitos imprescindibles y decisivos para el pleno desarrollo de las mujeres y
de los hombres que las componen, los cuales superan de esta forma las actitudes
individualistas, para actuar como ciudadanos dotados de derechos intocables y de
deberes irrenunciables. Por último, el humanismo cívico vuelve a conceder un alto
valor a la esfera pública, precisamente porque no la concibe como un magma
omniabarcante, sino como ámbito de despliegue de las libertades sociales como
instancia de garantía para que la vida de las comunidades no sufra interferencias
indebidas ni abusivas presiones de poderes ajenos a ellos» (p. 15).
Due autori contemporanei, fra tutti, sembrerebbero aver avuto un influsso più
determinante nella configurazione di questo umanesimo civile: il sociologo italiano
Pierpaolo Donati, senz’altro uno dei più attenti e penetranti osservatori della società
attuale, ed il filosofo Alasdair MacIntyre. A quest’ultimo riguardo è però opportuno
notare (anche se forse la stessa osservazione potrebbe essere sottoscritta da
MacIntyre), che la proposta del prof. Llano si mantiene sempre lontana dai binari
comunitaristi, «en cuyo curso acontece un error categorial consistente en la pretensión de aportar un sentido comunal y humanamente abarcable al propio aparato
administrativo del Estado-nación; tarea indeseable, a fuer de contradictoria» (p. 192).
La riflessione scorre veloce, amena (a tratti, quasi ridente) e piena di spunti e
suggerimenti che spronano continuamente il lettore a riflettere per conto proprio.
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Il prezzo di tutto questo è un certa mancanza di sistematicità nell’esposizione, la
quale però non è sinonimo di disordine né, tanto meno, di incoerenza o confusione. Avviene semplicemente che essa, come si suol dire, ha un suo ordine, che
sfugge ad ogni tentativo di razionalizzazione.
In questo senso, i quattro capitoli attorno a cui appare strutturato il discorso
non rispecchiano bene né il numero né la varietà e ricchezza degli argomenti
trattati. Più che altro per dovere di cronaca, riporto i titoli dei capitoli in questione: Cap. I: «¿Qué es el humanismo cívico?» (pp. 15-53); Cap. II: «La razón
pública» (pp. 55-97); Cap. III: «Democracia y ciudadanía» (pp. 99-143); Cap.
IV: «Imagen humanista del hombre y del ciudadano» (pp. 145-193). Chiudono il
saggio alcune brevi e molto gustose considerazioni conclusive (più che una vera
e propria esposizione sintetica dei risultati raggiunti), riunite sotto il titolo: «El
valor de la verdad como perfección del hombre» (pp. 195-207).
In questo panorama ricco e variegato, preziose mi sono sembrate le considerazioni che l’autore dedica specificamente a (ri)pensare la libertà moderna e postmoderna (specialmente nel capitolo II, nn. 3-4). Già Ch. Taylor, in un articolo non
recentissimo al quale sembra riallacciarsi almeno idealmente il prof. Llano
(What’s Wrong with Negative Liberty, 1979), aveva indicato i limiti e le contraddizioni della concezione negativa della libertà (o “libertà da…”), tipicamente contrattualista, nonché di una determinata concezione positiva di questa capacità
umana (“libertà di…”), che sarebbe invece tipica dell’utilitarismo. Ora, la proposta specifica del nostro autore, che in questo punto si spinge ben al di là di Taylor,
appare così formulata: «aunque parezca inverosímil, este trance histórico [ossia, il
nostro] nos ofrece una oportunidad única de alcanzar un sentido de la libertad que
supere y englobe los que hasta ahora he venido considerando, o sea, la libertad-de
y la libertad-para, […] al que podríamos llamar liberación de sí mismo» (p. 87).
A prescindere dalla discutibile scelta terminologica (non ci piace davvero
questa «liberazione da se stessi»), ritengo che la proposta di fare della libertà in
questo terzo senso la struttura portante della società politica postmoderna sia più
che plausibile, nel duplice significato (sociologico ed assiologico) di questa
parola. Questa idea di libertà, segnala espressamente il prof. Llano, ha molto a
che vedere con l’agostiniano «amor meus, pondus meus»; ma anche, aggiungerei
io parafrasando V. Solov’ëv, col potere di conoscere la verità degli altri non in
maniera astratta ma essenziale, e di trasportare effettivamente grazie all’amore il
centro della propria vita al di là dei limiti della nostra particolarità empirica. In
questo modo, infatti, «riveliamo e realizziamo la nostra verità e il nostro valore
assoluto che consistono appunto nella capacità di trascendere i limiti della nostra
esistenza fattuale e fenomenica, nella capacità di vivere non solo in noi stessi ma
anche negli altri» (cfr. Il significato dell’amore: II, 3).
Utopia, sogno? Può darsi. È però altrettanto vero che l’incontro con la realtà
(anche politica) avviene in modo compiutamente umano, solo se noi riusciamo
ad avviarci in essa senza abbandonare il sogno. La vita, infatti, dà risposte soddisfacenti solo a chi sa formulare le domande e le richieste giuste.
Gabriel CHALMETA
366
ACTA PHILOSOPHICA, vol. 9 (2000), fasc. 2/recensioni
Alfredo Luigi TIRABASSI (a cura di), Compendio di Semantica del Dolore.
7: Filosofia del dolore, Istituto per lo Studio e la Terapia del Dolore,
Firenze 1998, pp. XVI + 277.
■
Il prof. Luigi Zucchi sta coordinando, da ormai diversi anni, il programma di
pubblicazione del Compendio di Semantica del Dolore, avvalendosi della consulenza di un Comitato Editoriale composto da settantotto studiosi di diverse
nazioni. Finora erano stati pubblicati sei volumi: “Il dolore: basi anatomiche e
fisiologiche”, “Bioetica”, “Teologia” (in due volumi), “Semeiologia del dolore”
(in due volumi). Il settimo tomo è dedicato alla “Filosofia del dolore” ed è un
importante complemento all’intero progetto del Compendio, che «affrontando
l’articolata fisionomia del sintoma dolore sotto un profilo multidisciplinare, vuol
considerare la complessità della persona umana nella sua unità psico-fisica
inscindibile. È proprio per questo che compaiono nelle diverse sezioni anche le
branche umanistiche che completano in maniera corale quelle scientifiche sensu
strictiore» (p. 5). La convinzione del prof. Zucchi, che immagino sia condivisa
dai suoi consulenti e collaboratori, è che per un corretto approccio medicopaziente siano necessarie nel primo un’adeguata formazione interiore e una
visione globale dell’uomo (cfr. ibidem), raggiungibili grazie a una preparazione
culturale non settoriale.
Al volume che sto recensendo hanno lavorato A. Benaglia, N. Della Casa, R.
Melli e F. Negri, sotto la direzione di A.L. Tirabassi, autore dell’Introduzione.
Come nelle pubblicazioni precedenti, tutti i testi, compreso l’indice dei nomi,
sono in italiano e in inglese.
L’impostazione scelta è quella di un dizionario, che presenta in ordine alfabetico quarantuno concezioni del dolore umano, situate in un arco di tempo che va
dalla cultura greca ad un libro di S. Natoli, pubblicato nel 1986. Ho utilizzato il
termine generico di “concezioni” perché talune voci si riferiscono a un’intera
corrente di pensiero, quali l’Illuminismo francese, il Mito greco, i Presocratici, lo
Scetticismo e lo Stoicismo. Originale ed utile la conclusiva “Tavola sinottica sto-
367
recensioni
rico-filosofica”, in cui sono inquadrate le concezioni esposte, accanto ad una
colonna degli eventi storico-politici (comprendenti però anche alcuni fatti culturali e religiosi) e ad un’altra colonna con i momenti principali dell’evoluzione
della scienza medica.
Nell’introduzione viene offerta un’utile chiave di lettura, ricordando che
attualmente sta cambiando l’atteggiamento di fronte al dolore anche a causa
della mentalità tecnologica imperante: «l’uomo contemporaneo non ha più la
percezione immediata dell’ineluttabilità del dolore; di fronte alla eventualità del
dolore la prima domanda non è più una ricerca di senso, la domanda di Giobbe,
ma il quesito tecnologico sulla possibilità di eliminarlo o almeno di ridurlo. Si è
aperta quella che, con un po’ di enfasi, potremmo chiamare era analgesica, un’era in cui il dolore non è un dato ma una frontiera da spostare sempre più lontano»
(p. 13). Malgrado ciò, il problema della sofferenza resta in tutta la sua profondità, perché comprende non solo il dolore fisico ma anche quello psicologico e
morale.
Ma volendo anche limitarsi al dolore fisico, l’approccio esclusivamente
“analgesico” «non può donarci nessun Giobbe perché impedisce quel corpo a
corpo col dolore che solo può rafforzarci e renderci più solidi di fronte ad esso. Il
paradosso di tutto ciò è che la tecnologia è meno forte di quanto vorremmo e la
convivenza col dolore, benché occultata, è ancora quotidiana, mentre l’illusione
di una battaglia già vinta ci ha spogliati molto più rapidamente delle nostre difese morali. Il dolore è poco meno forte e noi molto più deboli» (p. 15). Tale diagnosi si ricollega con le riflessioni di S. Natoli, secondo il quale la tecnica
rimuove il dolore ma non lo supera e pertanto lo lascia emergere come ansia, in
una cultura secolarizzata in cui viene meno l’offerta di senso all’esperienza dolorosa (cfr. p. 175).
Per inquadrare le diverse concezioni presentate in queste pagine è utile la
panoramica storica dell’introduzione, sintetica ma precisa; rilevo solo una coloritura forse eccessivamente fosca dell’epoca medioevale (cfr. p. 19). In questa
sezione viene spiegato che era oggettivamente difficile operare una scelta tra gli
autori di circa ventisette secoli, ma mi sembra che quelli proposti siano effettivamente tra i più rappresentativi riguardo all’argomento in esame. Mi è parsa adeguata, inoltre, la formula adottata per le singole presentazioni: non una semplice
antologia né una mera interpretazione critica, ma un’esposizione equilibrata in
cui la parola è data soprattutto ai testi di alcune opere, sobriamente imbastiti.
Trattandosi di un dizionario, non viene offerta una valutazione delle varie tesi,
che talvolta, come nel caso di Nietzsche, appaiono in tutta la loro contraddittorietà.
Certamente, il periodo per il quale era più complesso operare una cernita è il
Novecento, anche perché ci è più vicino; personalmente, alla presentazione della
teoria di D.C. Dennett (che non appare molto significativa) avrei preferito quella
delle opere di G. Marcel o di L. Pareyson; mi è sembrata, invece, quasi inattesa e
sorprendente la forza dei testi di Simone De Beauvoir, almeno nella selezione
offerta. A parte ciò, comunque, il risultato finale va giudicato senz’altro positiva-
368
recensioni
mente, tenendo presente che si è trattato di un compito non facile. Lo studioso di
filosofia potrà probabilmente trovare in talune voci qualche semplificazione o
piccola imprecisione, ma va ricordato che l’opera non è stata concepita per soddisfare gli specialisti, bensì per rendere più agevole a quanti sono impegnati
nello studio e nella terapia del dolore l’approccio con la visione filosofica del
problema.
I volumi non sono in vendita; gli studiosi dell’argomento possono richiederli
all’Istituto per lo Studio e la Terapia del Dolore, Via Venezia 10, 50121 Firenze.
Francesco RUSSO
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ACTA PHILOSOPHICA, vol. 9 (2000), fasc. 2/recensioni
Jeremy J. WHITE, A Humean Critique of David Hume’s Theory of Knowledge,
edited by John A. Gueguen, University Press of America, Oxford 1998, pp.
IX+180.
■
Quest’opera è stata pubblicata postuma da John A. Gueguen che ne ha curato
l’edizione e aggiunto una prefazione, in cui spiega che il suo intervento sull’opera di White si è limitato a piccole correzioni e miglioramenti stilistici senza nulla
aggiungere o togliere al libro che, stando al progetto originale, avrebbe dovuto
contenere altri due capitoli. Comunque, ci spiega lo stesso Gueguen, il manoscritto nello stato in cui lo lasciò l’autore — deceduto nel 1990 — si presenta
come un’opera completa e coerente. Inserisce inoltre una breve nota biografica
sull’autore, nato in Inghilterra nel 1938 e laureato a Cambridge e che volse la sua
attività docente per più di venti anni in Kenya e in Nigeria.
L’opera parte dallo schema della Enquiry Concerning Human Understanding
(Ricerca sull’intelletto umano, 1748), che si presenta come il lavoro fondamentale per capire la filosofia della conoscenza della maturità di Hume. I riferimenti al
Treatise of Human Nature (Trattato sulla natura umana, 1739-1740) sono frequenti e dimostrano una dimestichezza notevole con la massiccia opera giovanile
del filosofo scozzese. Sono anche frequenti i collegamenti con altre opere dello
stesso Hume, ma il pregio maggiore di questo libro è la prospettiva aperta che ci
offre delle idee humeane. Infatti, con le frequenti osservazioni sulla “filiazione”
delle nozioni humeane rispetto alle diverse tradizioni filosofiche — che sebbene
attingano principalmente alle correnti empiristiche non sono prive di un’importante eredità cartesiana — ci propone una “mappa” abbastanza riuscita della proposta globale di Hume, guidandoci sia dall’interno del sistema humeano che a
partire dalla storia delle nozioni che condivide con i filosofi che lo hanno preceduto.
Allo studioso di Hume mancheranno i riferimenti alle interpretazioni più
recenti dello scetticismo humeano (Norton, Baier), ma invece troverà spunti interessanti di altri critici di Hume, o di pensatori che vedono da prospettive diverse
370
recensioni
i problemi fondamentali dell’empirismo, come Maritain, S.L. Jaki, Gilson,
Fabro, Tommaso d’Aquino e Aristotele.
Ai tre brevi capitoli introduttivi — “Introduzione”, “Influenze su Hume”, “Il
Trattato sulla Natura Umana nell’insieme della filosofia di Hume” — fa seguito
uno molto lungo, che in realtà comprende dieci brevi capitoli, presentati come
sections, riproponendo i titoli delle singole sezioni della Ricerca sull’intelletto
umano. In realtà l’opera di Hume è composta da dodici sezioni, e White non arriva nella sua critique ad una valutazione indipendente delle ultime due, che trattano temi molto importanti: da una parte la considerazione della Provvidenza divina e della vita eterna, e dall’altra una valutazione della filosofia scettica (sezioni
11 e 12 della Ricerca di Hume). Ciononostante, White fa nelle sezioni precedenti
molte osservazioni che riguardano questi problemi, perché sono intimamente
collegati alle sezioni 4 e 5 per quanto riguarda lo scetticismo, e alla sezione 10
per i problemi di fondo della concezione della religione nelle opere di Hume.
Nel primo capitolo, White fa un riassunto della vita e delle opere di Hume,
rintracciando i fatti fondamentali della biografia intellettuale del filosofo. I riferimenti alla tuttora insuperata biografia di Mossner (The life of David Hume,
1954) vengono complementati con informazioni tratte dall’autobiografia dello
stesso Hume e dal suo epistolario.
Nel secondo capitolo — sulle influenze di altri filosofi sul pensiero di Hume
— l’autore ripercorre sinteticamente le strade del nominalismo per rapportarle
all’empirismo inglese, senza trascurare gli sviluppi dello scetticismo francese del
seicento — dagli antecedenti in Montaigne fino all’Illuminismo, passando per
Bayle —, i tentativi di superazione del razionalismo cartesiano, e il grande
influsso della rivoluzione scientifica sui filosofi dei secoli XVII-XVIII. I diversi
atteggiamenti dei filosofi nei confronti della fede, divenuti più un problema di
psicologia della religione che di verità e di fondazione delle istituzioni religiose,
sono affrontati direttamente.
Il capitolo sulle linee generali del Trattato sulla natura umana è una breve
introduzione ai grandi temi della filosofia humeana (custom, habit, belief) con i
quali il filosofo scozzese si oppone al razionalismo. Segue la spegazione di alcune delle interpretazioni più importanti del pensiero di Hume.
Nel capitolo quarto si inizia lo sviluppo della Ricerca sull’intelletto umano,
con la discussione sui diversi tipi di filosofia, tema di una sezione che non è altro
che una dichiarazione di principi sulla superiorità delle filosofie di stampo pragmatico su quelle speculative. La vera metafisica dovrà avere una missione morale e lasciare da parte gli sterili problemi delle polemiche scolastiche (per Hume,
scolastico vuol dire soprattutto razionalistico). Il ruolo dello scetticismo sarà
fondamentale nella mentalità del filosofo, perché un giusto dosaggio di incredulità, abbinato alle tendenze della nostra natura che si traducono in un senso
morale — molto vicino alle dottrine del senso comune dell’epoca — gli darà una
visione equilibrata dei problemi umani. Con queste ultime annotazioni, White
ricollega l’inizio della ricerca alla sezione conclusiva, che come si è detto non ha
avuto un capitolo proprio. Vale la pena sottolineare la critica che White indica
371
recensioni
nella nota numero 7, che riprende la nozione classica di facoltà per far vedere
come si impoverisce lo studio della conoscenza se il punto di vista sono le idee
come cose reali, e non come oggetti dipendenti dall’atto di conoscere, e quindi
come oggetti intenzionali, che hanno una essenza semplicemente polarizzata
verso le cose reali.
Nel capitolo successivo si entra nella discussione sull’origine delle idee, e si
sottolinea il carattere cartesiano della nozione di idea in Hume, tramandata da
Locke e molto legata alle funzioni dell’immaginazione, descritta da molti autori
come una concezione pittorica (pictorial) della conoscenza.
L’associazione delle idee, principio rapportabile alla gravitazione della fisica
di Newton, è descritta da Hume come una gentle force nel Trattato, e nella
Ricerca mantiene il suo ruolo di motrice delle idee, che senza di essa resterebbero come esistenze isolate. Così i collegamenti causali — il cemento dell’universo
— si possono spiegare in poche parole.
Nel capitolo sulle soluzioni scettiche ai problemi delle sezioni precedenti
(corrispondente alla sezione quarta della Ricerca), vengono messe in relazione
diverse critiche sui limiti della posizione humeana. Brentano, Anscombe, Flew e
Aristotele offrono le basi per aprire il discorso della causalità e dell’induzione
oltre i confini della proposta fenomenalistica di Hume.
Nel capitolo successivo si descrive il cosiddetto naturalismo humeano, che si
presenta come uno sfondo metafisico indimostrabile che ci permette di fidarci
della regolarità dei fenomeni perché è la natura stessa a provvedere una meccanica stabile. Così l’assuefarsi alla sequenza uniforme dei fenomeni trova un riferimento saldo e l’uomo può prevedere e calcolare i movimenti della natura, e degli
altri uomini in quanto appartenenti alla stessa natura.
Il capitolo seguente, sulla probabilità, è molto legato a questa concezione
della natura. Il carattere regolare dei processi naturali percepiti è il limite delle
nostre ricerche. Da lì si passa al capitolo sulla connessione necessaria, nel quale
si ricorda la concezione della libertà nel pensiero di Hume. Seguendo il filo del
discorso delle sezioni 5 e 6, nella settima e nell’ottava si presenta la natura come
limite alle nostre ricerche perché i fenomeni interni della mente sono misteriosi
quanto quelli esterni, e dobbiamo assoggettarci ai risultati delle statistiche per
“calcolare” il comportamento umano.
White rivolge una critica seria a questa nozione “provvidenzialistica” della
natura, facendo vedere quanto sia vicina ad alcune posizioni classiche che però
attribuivano tale qualità ad un Creatore della natura. Gilson è chiamato in causa
in questo argomento, per sottolineare gli estremi cui è pervenuto Hume nel criticare la posizione malebranchiana e cartesiana, che svalutando la natura rende
inintelligibile il rapporto anima-corpo. Per Hume, basta sentire (to feel) che
abbiamo un dominio sul nostro corpo, senza moltiplicare le spiegazioni di tipo
metafisico. La critica di Anscombe, che distingue fra necessità e causalità dimostra che la nozione humeana della causalità è riduttiva.
La sezione 9, Sulla ragione degli animali riprende quasi letteralmente la
sezione 16 della parte terza del libro 1 del Trattato. Con il lavoro delle sezioni
372
recensioni
precedenti si può affermare senza esitazioni che le differenze fra gli animali e
l’uomo non sono qualitative, perché la ragione si trova al livello degli istinti e
delle passioni. Sebbene le dichiarazioni di Hume in questo senso abbiano molte
volte un carattere retorico, partendo dalle sue premesse è facile arrivare a posizioni comportamentistiche come quella di Skinner. White si limita a mostrare,
seguendo Flew, come sia ancora una volta il dualismo cartesiano a produrre posizioni così divergenti dalla sua, e facendo riferimento a Fabro ricorda come una
precisa analisi delle operazioni della mente umana porta alla scoperta della spiritualità come irriducibile ai fenomeni dipendenti dalla materia.
Nella sezione 10 — sui miracoli — si presenta la credenza nei fatti straordinari come qualcosa di inaccettabile secondo lo schema spiegato in precedenza:
secondo Hume, le testimonianze su fatti che vanno contro “la media” sono da
ritenere false, e l’uomo saggio sa di doversi regolare secondo quelle regole statistiche e di moderare le credenze in fatti che le contraddicano. Il popolino dovrebbe aderire a questa posizione, e non lasciarsi trascinare dal piacere che producono i racconti straordinari o le prediche di ferventi ministri delle diverse sette.
White riporta le critiche di Lewis e di Newman che vanno contro questa riduzione humeana delle credenze religiose alla nozione generale di credenza. Nella
prima si denuncia il carattere circolare dell’argomentazione, e in quella di
Newman si ribadisce la possibilità di trovare una regolarità nell’agire divino, se
non si rinuncia a priori agli sviluppi di una teologia naturale.
White riassume i problemi collaterali della posizione humeana, che vuole
togliere autorità alle religioni istituzionalizzate in quanto basate su fatti soprannaturali e miracolosi che si possono mettere assieme ai “miracoli” attribuiti agli
imperatori romani o agli dèi del paganesimo antico, e collega il discorso della
Ricerca alla Storia di Inghilterra in cui Hume esercita il suo criterio di interpretazione con i fenomeni religiosi, sulla scia delle concezioni illuministiche della
storia. White non fa riferimento all’opera fondamentale di Hume a questo riguardo, la Storia naturale della religione.
Alla fine è stato inserito a modo di Appendix il testo della conferenza inaugurale del seminario della Faculty of Arts dell’Università di Lagos (Nigeria), sostenuta dall’autore nel 1986. Nel titolo — Le scienze umane, strada verso la saggezza — si rispecchia ciò che è ribadito nel contenuto della conferenza: la concezione della filosofia e degli altri saperi liberali quali poli di gravitazione per ridare all’insieme delle scienze una guida e una finalità coerenti.
Juan A. MERCADO
373
374
schede bibliografiche
■
Jorge J.E. G R A C I A (a cura di),
Concepciones de la metafísica
[Enciclopedia Iberoamericana de
Filosofía 17], Trotta, Madrid 1998,
pp. 357.
La collana “Enciclopedia Iberoamericana de Filosofía” ha pubblicato
il primo dei due volumi previsti di
metafisica: uno studio delle principali
caratterizzazioni che la metafisica ha
ricevuto lungo la storia della filosofia
(il secondo invece si intitolerà
“Questioni metafisiche”, e si annuncia
come una considerazione più sistematica). Come il resto dei volumi della collana, il libro è un’opera collettanea,
nella quale diversi autori iberoamericani scrivono sugli argomenti di cui sono
specialisti.
L’opera comincia con l’articolo di
Santa Cruz su Platone e il neoplatonismo — che dà una spiegazione soprattutto cronologica — e quello di
Gómez-Lobo su Aristotele, in cui si fa
attenzione principalmente al rapporto
fra ontologia e teologia. Di seguito, nel
suo contributo sul medioevo Bazán sottolinea lo sforzo fatto in quell’epoca
per unificare la concezione platonica e
quella aristotelica, e si sofferma sulle
diverse spiegazioni che si diedero dell’oggetto della metafisica e, di conseguenza, sui diversi rapporti che si stabilirono tra Dio e l’ente, e fra teologia
naturale e ontologia.
Nel suo articolo su Suárez, Gracia
— che è il curatore dell’opera e l’autore anche di un’interessante introduzione — si propone di studiare il ruolo di
questo pensatore spagnolo come precedente del processo di “mentalizzazione” proprio del pensiero moderno: la
tesi sostenuta da Gracia sarà che Suárez
stesso non sarebbe caduto in nessuna
sorta di mentalismo.
Tocca poi esporre le conseguenze
che sulla concezione della metafisica
ebbero l’ottimismo razionalista
(Madanes) — i cui autori si domandano
come dev’essere il mondo perché sia
comprensibile — e l’empirismo britannico (Junqueira): considerando il modo
in cui Locke, Berkeley e Hume comprendono la metafisica, si cerca di correggere in alcuni punti l’interpretazione
tradizionale, che vede nell’empirismo
insulare un avversario di essa; l’autore
invece ci tiene a sottolineare, da una
parte, la discontinuità fra questi tre pen-
375
ACTA PHILOSOPHICA, vol. 9 (2000), fasc. 2/schede
satori, e dall’altra, che, almeno in
Berkeley e Hume, si tratta più di un
tentativo di riformulare la metafisica
che semplicemente di negarla.
Torrevejano studia il modo in cui
la trasformazione della filosofia operata
da Kant si ripercuote sulla sua opinione
riguardo alla metafisica. Così, sebbene
egli sia un severo critico delle formulazioni razionaliste della metafisica, allo
stesso tempo ammette un altro senso in
cui essa è accettabile: un sapere che ha
anche la libertà, Dio e l’immortalità
dell’anima come oggetto, ma che li
considera solo come idee regolatrici.
Non potevano certamente mancare i contributi su Hegel (Díaz) e su
Husserl (Presas); e in un’opera rivolta
principalmente al pubblico di lingua
spagnola risulta anche opportuna la
scelta di due spagnoli assai significativi
per i loro contributi alla metafisica:
Ortega e Zubiri (Cerezo).
Non poteva neanche mancare un
riferimento alle più importanti critiche
rivolte alla metafisica nei due ultimi
secoli: il positivismo del secolo XIX
(Martí) e il positivismo logico (Blasco);
e per finire si aggiunge il contributo di
Velarde sulla filosofia analitica, che
oscilla da decenni fra una posizione
originaria antimetafisica e una riscoperta di alcune delle tesi aristoteliche.
Come qualsiasi opera di questo
genere, i contributi sono di diverso
valore, ma il risultato complessivo è
abbastanza soddisfacente, e può essere
utile a chi, avendo già una formazione
di base in storia della filosofia, vuol
studiare più in particolare le “concezioni della metafisica” che hanno i più
importanti filosofi.
M. PÉREZ DE LABORDA
376
Luigi PAREYSON, Kierkegaard e Pascal,
Mursia, Milano 1998, pp. 277.
Prosegue la pubblicazione delle
Opere complete di Luigi Pareyson, promossa dal Centro Studi filosofico-religiosi a lui intitolato. Nel presente volume, curato da Sergio Givone, sono raccolti tre scritti introvabili: L’etica di
Kierkegaard nella prima fase del suo
pensiero, del 1965; L’etica di
Kierkegaard nella “Postilla”, del
1971; infine, L’etica di Pascal, del
1966. L’autore li aveva elaborati perché
fossero dei sussidi per gli studenti dei
suoi corsi universitari, ma non hanno
nulla dei difetti che possono accompagnare quanto viene chiamato una
“dispensa”: secondo il suo stile, il professore dell’Università di Torino non
viene meno all’estrema precisione e
illustra tutto ciò che serve per capire gli
argomenti esposti e soltanto ciò che
serve, fornendo un esempio di matura
capacità didattica.
Si tratta pertanto di tre saggi indipendenti, ma il comitato editoriale della
collana ha giustamente deciso di presentarli assieme non solo per le evidenti affinità dei due autori esaminati, ma
anche perché entrambi sono ispiratori
di quell’esistenzialismo, dai caratteri
ben precisi, in cui lo stesso Pareyson si
riconosceva. In effetti, queste pagine
permettono di capire meglio la genesi
dei densi saggi pubblicati in Esistenza e
persona e illuminano le diverse intonazioni del pensiero pareysoniano, dal
personalismo ontologico fino alla filosofia della libertà (a quest’ultimo
riguardo, è significativo quanto si legge
a p. 135).
Il curatore del libro ha inserito
una utile premessa ai due scritti su
ACTA PHILOSOPHICA, vol. 9 (2000), fasc. 2/schede
Kierkegaard e un’altra a quello su
Pascal, precisando alcune circostanze
storiografiche ma soprattutto sintetizzando le tesi pareysoniane di fondo.
Inoltre, con la collaborazione della
dott.ssa F. Barigelli, ha messo a disposizione dei lettori una completa appendice di riferimenti bibliografici delle
opere del filosofo danese.
Con un’esposizione piacevole e
gratificante, Pareyson presenta molti
degli aspetti più interessanti del pensiero di Kierkegaard (la contrapposizione
tra vita estetica e vita etica, la soggettività e l’esistenza, la critica alla speculazione e la scelta per il cristianesimo) e
di Pascal (la nozione di scienza e di
morale filosofica, il problema dell’esistenza di Dio e dell’immortalità dell’anima, il rapporto tra ragione e fede, il
concetto di “cuore”); non si attarda in
valutazioni o giudizi critici, anche se
affiorano qua e là, con discrezione, il
suo consenso o le sue riserve su determinate affermazioni. La sua opera è un
esempio di corretta ermeneutica, aderente ai testi e guidata da una congenialità intellettuale con gli autori studiati.
F. RUSSO
TOMÁS DE AQUINO, Comentario al libro
de Aristóteles “Sobre la interpretación”, traducción e introducción de
Mirko SKARICA, estudio preliminar
y notas de Juan C R U Z C R U Z ,
Colección de pensamiento medieval
y renacentista, Eunsa, Pamplona
1999, pp. LI + 202.
La “Colección de pensamiento
medieval y renacentista” di Eunsa giunge al suo quinto titolo ed al secondo per
quanto riguarda una traduzione di opere
di San Tommaso, dopo le Cuestiones
disputadas sobre el alma.
Il celebre commento di San
Tommaso al Perihermeneias di
Aristotele è presentato da Mirko
Skarica in versiona spagnola, corredata
da abbondanti e precise note e commenti storico-filosofici del prof. Juan
Cruz che, assieme alle due introduzioni, mette a disposizione una miniera
straordinaria per lo studio di un’opera
profonda e di non facile assimilazione,
che affronta molti problemi filosofici
che stanno alla base di quasi tutte le
proposte ermeneutiche e della filosofia
del linguaggio.
Dopo l’introduzione di stampo
teoretico di Juan Cruz (Ontología de la
palabra), nella quale viene riproposta
in termini classici la filosofia del linguaggio e della parola, in rapporto alle
facoltà conoscitive (sensi esterni,
immaginazione, intelletto), l’autore
della traduzione fa un resoconto del
percorso storico del testo di S.
Tommaso, dei diversi manoscritti e
delle traduzioni antiche e moderne, e
subito dopo offre un quadro dei problemi fondamentali dell’opera di
Aristotele e del commento tommasiano.
Non presenta, però, il testo latino.
Le note a piè di pagina completano i riferimenti di S. Tommaso e rimandano ai passi paralleli della stessa opera
o di altre, sia di Aristotele che dello
stesso Aquinate; talune annotazioni
hanno un tono decisamente esplicativo,
riportando le interpretazioni di altri
commentatori e presentando riassunti
delle diverse posizioni con le quali si
possa completare il senso delle spiegazioni più profonde del commento
medievale. Forse sono tali collegamenti
377
ACTA PHILOSOPHICA, vol. 9 (2000), fasc. 2/schede
il pregio maggiore di questa edizione,
che oltre a rendere più accessibile il
testo in se stesso, offre una visione
panoramica dei problemi trattati.
In questo modo, il lavoro comune
di Skarica e Cruz si presenta come un
valido strumento per coloro che si
avviano alla ricerca dei problemi dell’ermeneutica classica, e come una
fonte di consultazione per chi vi si è già
inoltrato.
J.A. MERCADO
Aldo VENDEMIATI, In prima persona.
Lineamenti di etica generale,
Urbaniana University Press, Roma
1999, pp. 140.
L’autore del presente manuale,
ben consapevole di insegnare etica in
quel Villaggio Globale Multietnico che
contraddistingue l’attuale società postmoderna in cui ci troviamo a vivere, ha
voluto mettere a frutto in questo prezioso, breve manuale di etica fondamentale, tutta la sua esperienza didattica. La
sua scelta di campo viene dichiarata fin
dal titolo (Etica di prima persona:
ovvero a partire dalla prospettiva del
soggetto agente; oppure, se si preferisce, etica delle virtù versus etiche della
legge), e dal prologo, in cui si indica
nell’opzione fenomenologica il taglio
più adeguato ed efficace all’insegnamento della materia nelle circostanze
attuali. Insomma, partiamo dal metodo
induttivo per attrarre il pubblico più
vasto possibile alla riflessione ed alle
problematiche dell’etica, risalendo fino
ai principi. Specialmente in campo
morale, comprendere quale sia l’essere
di chi mi sta di fronte (ovvero che tipo
378
di persona sia, e quindi la sua consistenza morale) dipenderà innanzitutto
dal suo comportamento, dalla sua corrispondenza tra dire e fare, logos e
praxis.
Agere o operari sequitur esse.
Iniziamo dunque dall’agere. La struttura del libro mantiene fede a questa
impostazione anche quando, descrivendo l’esperienza morale, sceglie di partire innanzitutto dal dovere; ma non per
restarvi kantianamente ancorato, bensì
per scoprire che l’esperienza del dovere
implica un perché. Proprio tale ulteriore perché (che non si spiega con il
dovere stesso) è rivelativo della felicità
umana, ovvero del movente basilare
dell’agire volontario conforme a ragione: l’agire che arricchisce la persona
attraverso la libera scelta di una condotta razionale, virtuosa e non viziosa.
Pertanto, potremmo dire che debere
sequitur felix esse aut felix fieri.
Tradiamo l’eperienza morale e la riflessione etica quando scindiamo l’agostiniano ordo amoris. Ci sono etiche non
corrispondenti alla persona, ma caso
mai individualistiche, che possono
nascere da un bene disordinatamente
amato (fuori da un ordo); oppure di un
ordine che risulta fine a se stesso (non
si giustifica a tutela del bene personale,
ovvero dell’amor). In fondo queste
sono le due alternative del male, riconducibili ai due figli della parabola del
figliol prodigo.
Si parte da analisi di atteggiamenti quale stupore, rispetto, ammirazione,
desiderio, scandalo, rimorso, gratificazione, ecc., per fornire in modo breve e
completo, comprensivo di rapidi ed
efficaci esempi, una guida etica che
non trascura nessuno degli aspetti
morali rilevanti, tipici di ogni manuale,
ACTA PHILOSOPHICA, vol. 9 (2000), fasc. 2/schede
ma descritti in modo accessibile e
breve. Preziose alcune schematizzazioni, come quella che oppone le etiche
oggi più diffuse, quelle universalistiche
(prevalenza dell’oggettivismo, l’ordo),
a quelle relativistiche (prevalenza del
soggettivismo, l’amor). L’ordo resterà
unito all’amor se la volontà cercherà il
bene conforme a ragione, e non in un
modo qualsiasi, ma attraverso la pratica
libera delle virtù etiche. Proprio esse ci
ricordano che non siamo angeli disincarnati, ma persone in carne ed ossa. Il
vero bene, pertanto, può essere oggettivamente determinato dalla ragione, ma
poi deve anche essere soggettivamente
voluto dalla volontà (ed in modo virtuoso): proprio per questo un tale bene,
a maggior ragione dovrà risultare anche
soggettivamente attraente (con buona
pace di Kant). Il che significa che
anche l’inclinazione naturale al piacere
(comprensiva di tutte le gradazioni fino
alla gioia ed inclusiva di emozioni e
passioni) ha una sua ragion d’essere,
che richiede di non venire né assolutizzata, né demonizzata. Come l’autore fa
giustamente notare, il tema aristotelico
della felicità si trova incluso alla fine
del trattato sul piacere, parte integrante
dell’Etica Nicomachea.
Oltre alle accurate citazioni dei
classici, si nota l’attenzione che l’autore ha prestato nel redigere questa efficace guida all’etica, ad alcuni autori
contemporanei quali: F. Rivetti-Barbò
(specialmente per l’approccio fenomenologico), G. Abbà (cui si deve l’importante demarcazione tra etiche di
prima e terza persona), M. Rhonheimer
(per la organicità, chiarezza e profondità delle osservazioni sui fenomeni
etici), ed altri ancora.
G. FARO
379
Pubblicazioni ricevute
L. ALICI, L’altro nell’io. In dialogo con
Agostino, Città Nuova, Roma 1999.
L. ALICI - R. PICCOLOMINI - A. PIERETTI (a
cura di), Esistenza e libertà. Agostino
nella filosofia del Novecento/1, Città
Nuova, Roma 2000.
ANONIMO, Il monaco e la regina, Giorgio
Barghigiani Editore, Bologna 1999.
J. ARANGUREN ECHEVARRÍA, Resistir en el
bien. Razones de la virtud de la fortaleza
en Santo Tomás de Aquino, Eunsa,
Pamplona 2000.
A. BLANCO, Historia del confesonario,
Rialp, Madrid 2000.
A. CAMPODONICO, Etica della ragione. La
filosofia dell’uomo tra nichilismo e confronto interculturale, Jaca Book, Milano
2000.
A. CRUZ PRADOS, Ethos y polis. Bases
para una reconstrucción de la filosofía
política, Eunsa, Pamplona 1999.
L. FIGUEIREDO, La filosofía narrativa de
Alasdair MacIntyre, Eunsa, Madrid 1999,
pp. 206.
F.X. FORTÚN, El sagrario y el Evangelio,
Rialp, Madrid 1999.
F. GARCÍA BAZÁN, Aspectos inusuales de
lo sagrado, Trotta, Madrid 2000.
A. L LANO , Humanismo cívico, Ariel,
Barcelona 1999.
G. MARCEL, Essere e Avere (a cura di I.
Poma), Edizioni Scientifiche Italiane,
Napoli 1999.
Iglesia, Rialp, Madrid 1999.
G. N ICOLACI , Metafisica e metafora.
Interpretazioni aristoteliche, L’Epos,
Palermo 1999.
F. PERCIVALE, L’ascesa naturale a Dio
nella filosofia di Rosmini, Città Nuova,
Roma 20002.
J. PIEPER, La fe ante el reto de la cultura
contemporánea (Sobre la dificultad de
creer hoy), Rialp, Madrid 20002.
M.C. PIEVATOLO, La giustizia degli invisibili. L’identificazione del soggetto morale,
a ripartire da Kant, Carocci, Roma 1999.
J. P OLÁKOVÁ , Le possibilità della trascendenza, Lipa, Roma 1999.
V. POSSENTI (a cura di), Corpo e anima.
Necessità della metafisica (Annuario di
filosofia - Seconda Navigazione 2000),
Mondadori, Milano 2000.
M. R HONHEIMER , La perspectiva de la
moral. Fundamentos de la Ética
Filosófica, Rialp, Madrid 2000.
J.I. SARANYANA, Historia de la filosofía
medieval, Eunsa, Pamplona 19993.
M. SERRETTI, Natura della comunione.
Saggio sulla relazione, Rubbettino,
Soveria Mannelli (Catanzaro) 1999.
R. S PAEMANN , Personas. Acerca de la
distinción entre “algo” y “alguien”,
Eunsa, Pamplona 2000.
J.-P. TORRELL, Tommaso d’Aquino maestro spirituale, Città Nuova, Roma 1998.
R. MARCHIORO, La confesión sacramental. Guía práctica para penitentes y confesores, Rialp, Madrid 1999.
W. V IAL M ENA , La antropología de
Viktor Frankl. El dolor: una puerta
abierta, Editorial Universitaria, Santiago
de Chile 2000.
D. M ELÉ , Cristianos en la sociedad.
Introducción a la doctrina social de la
G. VICO, La Scienza Nuova. Libro primo (a
cura di G. Consalvi), Bonomi, Pavia 2000.
380
Indice del vol. 9 (2000)
Studi
Andrea Aiello
La conoscenza intellettiva dell’individuale:
note alla soluzione di Guglielmo de la Mare
p.
Daniel Gamarra
Un caso di platonismo ed agostinismo medievale.
Matteo d’Acquasparta: conoscenza ed esistenza
p. 197
Fernando Inciarte
Heidegger, Hegel, and Aristotle: A Straight Line?
p. 223
Angel Rodríguez Luño
Pensiero filosofico e fede cristiana. A proposito dell’enciclica Fides et ratio
p. 33
Antonio Ruiz-Retegui
El hombre como criatura
p. 59
Paulin Sabuy
La question du dualisme anthropologique. Une analyse
d’après Robert Spaemann
p. 241
Giuseppe Tanzella-Nitti
L’enciclica Fides et ratio: alcune riflessioni di teologia fondamentale
p. 87
5
Note e commenti
Javier Aranguren Echevarría
Eudaimonía e historicidad
p. 267
Gabriel Chalmeta
Aristotele e Solov’ëv sul significato dell’amore
p. 277
Marco D’Avenia
L’aristotelismo politico di A. MacIntyre
p. 111
Giorgio Faro
Anatomia del fine ultimo in Robert Spaemann
p. 121
Mariano Fazio
Tre proposte di società cristiana (Berdiaeff, Maritain, Eliot)
p. 287
Patrick Gorevan
Aquinas and Emotional Theory Today: Mind-Body,
Cognitivism and Connaturality
p. 141
Juan Andrés Mercado
Brief comments on Capaldi’s “We Do” interpretation of humean ethics
p. 313
381
José Ignacio Murillo
Una aproximación al Curso de Teoría del Conocimiento de Leonardo Polo p. 319
Cronache di filosofia
Estetica della formatività: due saggi recenti (F. RUSSO)
Lezioni e conferenze
Convegni
Società filosofiche
Vita accademica
p. 339
p. 341
pp. 153 e 342
pp. 154 e 344
p. 157
Bibliografia tematica
Sui diversi tipi di amicizia
Affettività
p. 161
p. 349
Recensioni
R. ALVIRA, La razón de ser hombre e
Filosofía de la vida cotidiana (J.A. Mercado)
M. ARTIGAS, La mente del universo (M. A. Vitoria)
M. ARTIGAS, Filosofía de la ciencia (M.A. Vitoria)
G. CHALMETA, La giustizia politica in Tommaso d’Aquino (M. Fazio)
A. LLANO, Humanismo cívico (G. Chalmeta)
A. MALO, Antropologia dell’affettività (F. Russo)
J. MORALES MARÍN, John Henry Newman. La vita (1801-1890) (F. Russo)
A.L. TIRABASSI (a cura di), Compendio di Semantica del Dolore.
7: Filosofia del dolore (F. Russo)
J.-P. TORRELL, Tommaso d’Aquino maestro spirituale (A. Aiello)
J.J. WHITE, A Humean Critique of David Hume’s Theory
of Knowledge (J.A. Mercado)
p. 353
p. 165
p. 355
p. 358
p. 364
p. 168
p. 171
p. 367
p. 175
p. 370
Schede bibliografiche
F. CONESA- J. NUBIOLA, Filosofía del lenguaje (M. Pérez de Laborda)
J. FERRER ARELLANO, Metafísica de la relación y de la alteridad:
Persona y relación (A. Malo)
J.J.E. GRACIA (a cura di), Concepciones de la metafísica
(M. Pérez de Laborda)
J. NUBIOLA, El taller de la filosofía (J. A. Mercado)
L. PAREYSON, Kierkegaard e Pascal (F. Russo)
TOMÁS DE AQUINO, Comentario al libro de Aristóteles
“Sobre la interpretación” (J.A. Mercado)
A. VENDEMIATI, In prima persona. Lineamenti di etica generale (G. Faro)
382
p. 181
p. 182
p. 375
p. 183
p. 376
p. 377
p. 378
STUDI DI FILOSOFIA
a cura della Facoltà di Filosofia della Pontificia Università della Santa Croce
1. J.J. SANGUINETI, Scienza aristotelica e scienza moderna, pp. 240, L. 33.000
2. F. RUSSO, Esistenza e libertà. Il pensiero di Luigi Pareyson, pp. 255, L. 35.000
3. G. CHALMETA (a cura di), Crisi di senso e pensiero metafisico [scritti di A.
Aranda, S. Belardinelli, B. Kiely, A. Rodriguez Luño, J.J. Sanguineti], pp. 117,
L. 22.000
4. M. RHONHEIMER, La prospettiva della morale. Fondamenti dell’etica filosofica,
pp. 368, L. 42.000
5. A. MALO, Certezza e volontà. Saggio sull’etica cartesiana, pp. 200, L. 29.000
6. R. MARTÍNEZ, Unità e autonomia del sapere. Il dibattito del XIII secolo [scritti di
I. Biffi, S.L. Brock, A. Livi, A. Maierù, J.I. Saranyana, L. Sileo], pp. 200, L.
28.000
7. R. MARTÍNEZ, La verità scientifica, pp. 135, L. 23.000
8. F. RUSSO – J. VILLANUEVA (a cura di), Le dimensioni della libertà nel dibattito
scientifico e filosofico [scritti di C.L. Cazzullo, J. Cervós-Navarro, E. Forment, G.
Kamphausen, A. Malo, R. Tremblay], pp. 192, L. 32.000
9. L. CLAVELL, Metafisica e libertà, pp. 207, L. 30.000
10. R. MARTÍNEZ, Immagini del dinamismo fisico. Causa e tempo nella storia della
scienza, pp. 288, L. 35.000
11. I. YARZA (a cura di), Immagini dell’uomo. Percorsi antropologici nella filosofia moderna [scritti di J. Ballesteros, F. Botturi, D. Gamarra, A. Lambertino, A.
Llano, M. Rhonheimer], pp. 192, L. 26.000
12. M. RHONHEIMER, La filosofia politica di Thomas Hobbes. Coerenza e contraddizioni di un paradigma, pp. 271, L. 35.000
13. A. Livi, Il principio di coerenza. Senso comune e logica epistemica, pp. 221, L.
30.000
14. R.A. GAHL jr. (a cura di), Etica e politica nella società del duemila [scritti di
G. Chalmeta, A. Da Re, P. Donati, H. Hude, R.P. George, R.J. Neuhaus], pp.
175, L. 30.000
15. M. FAZIO, Due rivoluzionari: Francisco De Vitoria e J.J. Rousseau, pp. 283, L.
38.000
16. A. MALO, Antropologia dell’affettività, pp. 302, L. 40.000
17. L. ROMERA (a cura di), Dio e il senso dell’esistenza umana [scritti di A. Ales
Bello, R.A. Gahl jr., G. Mura, P. Poupard, L. Romera, M.T. Russo, T.F.
Torrance], pp. 207, L. 30.000
18. R.M. MCINERNY, L’analogia in Tommaso d’Aquino, pp. 189, L. 27.000
19. G. CHALMETA, La giustizia politica in Tommaso d’Aquino, pp. 155, L. 28.000
20. M. FAZIO, Un sentiero nel bosco. Guida al pensiero di Kierkgaard, pp. 144, L.
25.000
21. S.L. BROCK (a cura di), L’attualità di Aristotele [scritti di A. Berti, A.
Campodonico, Ll Clavell, K.L. Flannery, F. Inciarte, R. McInerny, C. Natali,
W.A. Wallace, I. Yarza, H. Zagal Arreguin], pp. 192, L. 28.000
22. M. CASTAGNINO – J.J. SANGUINETI, Tempo e universo. Un approccio filosofico
e scientifico, pp. 416, L. 45.000
383