Contro la sofferenza

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Contro la sofferenza
Contro la sofferenza
di Claudio Magris
L’utilità sociale della felicità
Se nel 1848 Marx ed Engels, nel loro celebre Manifesto, proclamano che uno spettro si aggira per
l’Europa spaventando i benpensanti ovvero il comunismo, un anno dopo un saggio anonimo, uscito
su un giornale conservatore londinese, il Fraser’s Magazine for Town and Country denuncia
sarcasticamente un altro spettro, ma per combatterlo: una segreta Associazione universale per
l’abolizione della sofferenza ovvero l’alleanza di filantropi liberali, economisti liberisti e anime
belle che credono nell’eguaglianza ovvero negli eguali diritti e nell’eguale dignità di tutti gli uomini
e hanno voluto abolire la schiavitù dei neri (cessata, in tutto l’impero britannico, nel 1833, ventisei
anni dopo la messa fuori legge della tratta). Nel 1853 il testo, lievemente ampliato, viene
ripubblicato in una raccolta di saggi che reca la firma dell’autore, Thomas Carlyle, il geniale e
bizzarro scrittore-filosofo scozzese, che rincara la dose già nel titolo— Discorso occasionale sulla
questione negra — usando, al posto del termine «negro» , quello più spregiativo di «nigger» . Tra i
vari nobili e a suo avviso patetici tentativi di abolire la sofferenza, Carlyle se la prende, in questo
saggio, soprattutto con l’abolizione della schiavitù, soffermandosi specialmente sulla situazione
delle piantagioni di zucchero nel mar dei Caraibi (nelle Antille francesi la schiavitù era cessata nel
1848, dopo che Napoleone l’aveva restaurata per favorire gli interessi di sua moglie Giuseppina).
Nel frattempo a Carlyle ha già risposto, sulla medesima rivista, John Stuart Mill, il grande filosofo
ed economista inglese campione del pensiero liberale, dell’utilitarismo e del libero mercato e
appassionato fautore di misure di giustizia per il bene comune, animato da una profonda concezione
della solidarietà, dell’unità e dignità di tutto il genere umano e degli uguali diritti di ciascuno, a
prescindere dal colore della pelle, dalla religione professata, dall’origine etnica e dal ruolo sociale.
La polemica fra Carlyle e Mill è uno straordinario momento di storia politico-culturale, anche al di
là del pur fondamentale oggetto della disputa, la schiavitù. Carlyle, che la difende, è soprattutto un
avversario di chiunque pretenda di correggere utopisticamente la natura umana e il suo destino, che
è quello di soffrire; destino di tutti, bianchi e neri, che si può mitigare ma non radicalmente
modificare, perché esso è irresistibile come la legge fisica che spinge le scintille del fuoco a
slanciarsi in alto e a dissolversi. A suo avviso è parimenti destino, natura, volontà di Dio che i
neri— per i quali prova una condiscendente simpatia— siano servi dei bianchi. Le anime belle e
sprovvedute che si accaniscono a voler mutare l’ordine delle cose provocano, a suo avviso, disastri
per tutti e instaurano un regno di fannulloni e incapaci. Nessun voto di nessun Parlamento può
contrastare le leggi delle potenze, del destino o degli dei. Ma questi dei non sono onnipotenti, gli
replica Mill, tracciando una rapida storia di molte libertà conquistate dagli uomini, che sino a poco
prima d’essere realizzate erano impensabili e sembravano cervellotiche utopie. Nemico di ogni
eguaglianza imposta dall’alto e formulata astrattamente, contrario al socialismo, Mill avversa le
diseguaglianze di partenza, crede nella dignità di ogni uomo e nel libero confronto fra gli uomini in
condizioni di parità, così come crede nella concorrenza del libero mercato. Il suo utilitarismo
persegue riforme e politiche distributive della ricchezza rivolte a promuovere la giustizia e un
maggiore benessere del numero più alto possibile di persone. Genialmente Mill capisce e sente che
il piacere e la felicità di ognuno implicano, in una certa misura, la felicità o almeno la possibilità di
felicità altrui. Ciò che tocca l’umanità tocca ciascuno, non si può essere felici se altri vengono
sterminati o bestialmente oppressi; la schiavitù non è solo un oltraggio morale, bensì pure una ferita
all’umanità di ogni individuo. Economista, saldamente ancorato a una visione empirista, quasi
positivista della realtà, Mill non è un ingenuo che crede ciecamente nella bontà degli uomini o nel
paradiso in terra; tiene ben conto della realtà, ma non adora idolatricamente la realtà del momento
come se fosse una divinità immutabile; non sogna comuni che aboliscano la proprietà, ma crede
nella funzione civile del mercato e in valori umani superiori al mercato.
Carlyle contesta libertà per tutti e liberismo economico. Abolire la schiavitù, scrive, è un male
perché il negro, per sua natura, ha pochissimi bisogni appagati i quali, se fosse libero, non
lavorerebbe ulteriormente. Se non ci fossero schiavi costretti a lavorare per produrre la quantità di
zucchero necessaria, egli incalza, i proprietari di piantagioni dovrebbero far venire da altri Paesi un
numero esorbitante di lavoratori neri, ognuno dei quali lavorerebbe poco ma che tutti insieme
produrrebbero la quantità globale necessaria, provocando tuttavia, col loro alto numero, un aumento
di costi e di prezzi e alterando l’equilibrio etnico e culturale del territorio. Si verrebbe a creare una
gravissima miseria, una «Irlanda nera» scrive Carlyle, molto sensibile all’inumana povertà degli
irlandesi e in genere dei ceti deboli in Gran Bretagna, e acuto nel denunciare le storture talora
introdotte da un selvaggio libero mercato, che spesso sradica tradizioni e famiglie e crea abbrutite
condizioni di vita per tante persone, giustificandole con le leggi dell’economia, che Carlyle
disprezza, definendola «scienza lugubre» . La diabolica alleanza di questa scienza lugubre con
l’ingenua filantropia e col suffragio universale porta al potere una maggioranza incapace e avida,
una congiura dei deboli contro i forti, la cui bassezza è la rovina di tutti. Ogni maggioranza, egli
scrive, è pronta a crocifiggere Gesù ed a esaltare Giuda. Carlyle è un notevolissimo scrittore, molto
più umano — come tanti reazionari — delle tesi che si ostina a difendere forse anche per ingenuo
amore del paradosso, della rissa e del politicamente scorretto. Uno scrittore ricco di fantasia, di
ironia, di invenzioni bizzarre; più che il suo stentoreo culto degli eroi, delle personalità eccezionali
cui riteneva fosse affidata la guida dell’umanità, sono geniali le sue ricerche storiche, le sue
stravaganze eccentriche, la sua erudizione e il suo umorismo scozzese che gli hanno fatto scrivere
un libro barocco e labirintico quale Sartor resartus, che tanto piaceva a Borges per la sua lambiccata
dissoluzione dei tempi narrativi e dello stesso io individuale, narrante e narrato, spettro e falsario di
se stesso. È la grande tradizione filosofico letteraria scozzese che anima la sua pagina. / come altri
grandi anarco-reazionari, pure Carlyle è acuto nello smascherare le lacrime e il sangue di cui gronda
pure il progresso, nel denunciare le zone d’ombra del liberalismo, le piaghe sociali. Il suo sarcasmo
strappa la nobile maschera al mondo, facendolo apparire «atroce, dissonante, quasi infernale» come
gli apparve una sera durante una passeggiata in Regent Street. Il suo disprezzo delle maggioranze
contiene una reale diagnosi dell’involuzione, della manipolazione e della volgarità di masse
eterodirette cui talora approderà il suffragio universale, del populismo in cui si corromperà il
concetto di popolo e che condurrà al dominio di tanti caudillos e duci di suburra osannati dalla folla.
È peccato che non ci sia oggi una penna come la sua (o quella di Gadda) a ritrarre la democrazia in
Italia. Ma Carlyle non è Tocqueville, che intravvede lucidamente le degenerazioni populiste e
cesariste della democrazia, ma per evitarle e correggerle, ben consapevole che la democrazia, come
avrebbe detto Churchill, è il peggior sistema politico dopo tutti gli altri. L’occhio strabico di Carlyle
è acuto nel vedere le storture, le bassezze, le ignominie degli uomini; l’umanità— bianca o nera— è
spesso maleodorante e l’odorato del reazionario è spesso fine nel percepire i fetori.
Ma l’odore di letame di cui si compiace gli impedisce di avvertire altri aromi, che pure esistono e
che il vento della vita gli porta dal mare o dai boschi. Quando Carlyle descrive il negro bramoso
solo di mangiare zucche, coglie il generale abbrutimento cui la schiavitù, come ogni altra
oppressione e violenza, induce spesso le proprie vittime. Ma Carlyle non riesce a capire che la vita è
in movimento e in divenire, che le cose possono cambiare e cambiano; non potrebbe mai
immaginare che un secolo più tardi quelle isole caraibiche avrebbero avuto scrittori non meno
grandi di lui — come Walcott o Glissant e — ciò che conta ancora di più— una borghesia nera
francese intraprendente e civile, ad esempio nella Martinica o nella Guadalupa e più in generale in
Francia. Siamo tutti conservatori, riluttanti a credere che le cose possano cambiare e inclini a vivere
il presente come se fosse l’eterno; se nell’ottobre del 1989 qualcuno ci avesse detto che il muro di
Berlino sarebbe presto caduto, lo avremmo preso per un ingenuo sognatore. Carlyle si appella,
contro le utopie umanitarie, alla storia, alle tradizioni, agli usi e costumi secolari, ma vede soltanto
la storia passata e non comprende che essa è vita ossia divenire, che egli non vuol vedere perché
ama, scrive, la permanenza. Mill ragiona più storicamente e più poeticamente di lui, quando gli fa
osservare che, se un albero cresce storto, ciò può derivare dall’aridità del terreno in cui è cresciuto e
che, irrigando quel terreno, si possono far crescere alberi diritti. Il reazionario o meglio anarchicoreazionario si dà sempre il tono di colui che la sa più lunga, che non si lascia incantare dai vuoti e
nobili ideali, che non la beve, come gli «apoti» celebrati da Prezzolini. Il suo disincanto è spesso
lucido, ma scade facilmente nella posa banale dello scettico blu e può finire per essere di una
patetica e credulona ingenuità. Ogni eguaglianza inorridisce Carlyle, che aborre ad esempio la
parificazione delle tasse sullo zucchero.
Il vangelo supremo, il dovere per eccellenza, diviene per lui il lavoro, un lavoro faustiano, cupo,
sferzante, che corrisponde alla legge della sofferenza che regola il mondo e forse aiuta a stordire
quella sofferenza; molti anni dopo, in una stupenda poesia, Kipling esalterà la fatica fisica quale
droga che attutisce la pena di vivere. Mill non sottovaluta certo il lavoro, senza il quale non
potrebbe esistere quel libero mercato a lui caro, ma afferma che esistono valori più alti e che non è
il lavoro in sé, quanto la sua finalità a dare un senso alla vita. Contro ogni mitica differenza
originaria, Mill esalta l’eguaglianza di dignità, diritti e — ove possibile — condizione di partenza
degli uomini, che permette loro di sviluppare liberamente le loro diversità. Con forte pathos poetico,
Carlyle ricorda i grandi marinai inglesi che riposano nel mare della Giamaica, come il coraggioso
colonnello Fortescue o il valoroso colonnello Sedgwick. Ma Mill è ancor più poeta di lui, quando
gli ricorda gli innumerevoli africani senza nome che riposano anch’essi sul fondo di quel mare; è
più poeta, perché sa immaginare concretamente uomini che non ha mai visto e di cui ignora il
nome, li sente reali, veri. Chi ama o almeno rispetta gli uomini può essere altrettanto— o forse
talora ancor più — realista di chi li disprezza.
Corriere della Sera 8.5.11