La sfida dell`IS e la strategia di Obama

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La sfida dell`IS e la strategia di Obama
N°22 – SETTEMBRE 2014
La sfida dell’IS
e la strategia di Obama
BloGlobal Research Paper
Osservatorio di Politica Internazionale (OPI)
© BloGlobal – Lo sguardo sul mondo
Milano, settembre 2014
ISSN: 2284-0362
Autore
Alessandro Tinti
Alessandro Tinti e Dottore in Relazioni Internazionali presso l’Universita di Firenze discutendo una tesi dal titolo
“L’egemonia fragile: la grande strategia della potenza americana al tempo di Obama”. Ha inoltre frequentato il
corso intensivo avanzato “Nuove Relazioni Transatlantiche: le organizzazioni Internazionali e le sfide della sicurezza”, organizzato da Consules in partenariato con il Comitato Atlantico Italiano. I suoi ambiti di studio e ricerca
riguardano la politica estera statunitense, gli studi sulla sicurezza, la teoria delle relazioni internazionali e i flussi
migratori.
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I porti di Chabahar e Gwadar al centro dei “grandi giochi” tra Asia Centrale e Oceano Indiano, Osservatorio di Politica Internazionale (Bloglobal – Lo sguardo sul mondo), Milano 2014, www.bloglobal.n
INTRODUZIONE
A quasi tre anni dal ripiegamento dei contingenti statunitensi, l’incerto destino di
Baghdad è nuovamente epicentro delle preoccupazioni dell’amministrazione Obama.
La recrudescenza della guerra civile e la vasta offensiva scagliata dall’IS hanno travolto le residue illusioni di un disimpegno responsabile dallo scenario iracheno che
l’esecutivo democratico ha tentato programmaticamente di assicurare sin dal proprio insediamento ed hanno anzi imposto un’indesiderata quanto critica proiezione
di forza al fine di tamponare lo sgretolamento della contestata sovranità del governo centrale.
Se nel biennio 2007-2008 il disegno strategico (“the new way forward”) depositato
nelle mani di David Petraeus aveva arginato gli scontri tra le milizie sciite e sunnite,
quasi riuscendo ad annichilire la struttura operativa dei jihadisti di al-Qaeda, la situazione odierna appare tuttavia quanto mai insidiosa sia sul piano delle opzioni militari, che su quello degli orientamenti diplomatici. Washington preme per l’adozione
di una “one Iraq policy”, patrocinando un processo politico inclusivo che ricomponga
le laceranti fratture etniche e settarie violentemente riaffiorate nella società irachena. Ciononostante è legittimo convenire con Kenneth Pollack, già consigliere del National Security Council ed allora acceso sostenitore di Iraqi Freedom, che gli interessi statunitensi eccedano l’effettiva capacità di influenzare gli eventi secondo la
direzione auspicata[1].
Sebbene l’avvicendamento del Primo Ministro Nuri al-Maliki con Haider al-Abadi
ponga le condizioni per un rinnovamento parziale della dirigenza irachena,
l’intensità del conflitto e la polarizzazione degli attori coinvolti restituiscono
l’immagine di un Iraq profondamente spaccato lungo divisioni antiche dapprima liberate dal rovesciamento del regime baathista di Saddam Hussein ed oggi esasperate dagli effetti esiziali di una stabilizzazione largamente inattuabile e falcidiata sia
industria petrolifera, sia dalla collisione di agende politiche incompatibili. Il fallimento strategico inscritto nel collasso del ricostituito ordine iracheno risalta alla luce dei
costi enormi sostenuti dalla superpotenza per fronteggiare un’esposizione più che
decennale nel Paese, ma i provvedimenti d’urgenza deliberati da Obama testimoniano la necessità di recuperare terreno rispetto ad una crisi suscettibile di intaccare complessivamente la stessa presenza americana nella regione.
Anche laddove il progetto di califfato proclamato da al-Bagdhadi lo scorso 4 luglio si
dimostri insostenibile nel medio periodo, il consolidamento delle conquiste dell’IS ha
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dalla falsa partenza di un sistema produttivo inefficientemente ancorato alla sola
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radicato un cuneo di instabilità che grava su ed attrae pericolosamente le matrici di
conflitto e le dinamiche geopolitiche che infiammano il Medio Oriente: non solo gli
urti della guerra parallela combattuta in Siria ed il contagio ideologico del nuovo jihad internazionale, la conflagrazione dello scenario iracheno alimenta pure
l’incipiente linea di faglia tra sunnismo e sciismo e si riverbera sulle posizioni tenute
dai vicini regionali (principalmente Iran, Giordania, Turchia e le monarchie petrolifere del Golfo), aprendo una finestra di potenziali opportunità per i competitor globali
(Federazione Russa e Cina) che mirano ad erodere le relazioni egemoniche della superpotenza. In questa prospettiva la frammentazione dell’Iraq, oltre alla minaccia
immediata di un’enclave terroristica in grado di finanziare un network sovranazionale grazie ai proventi dello sfruttamento dei pozzi occupati, attenta alla sicurezza degli alleati americani nell’area ed incide sui delicati negoziati avviati con Teheran per
educarne le ambizioni espansive. Per queste ragioni la risposta concertata dagli Stati Uniti assume un valore decisivo all’interno dell’ennesima e pur sempre provvisoria
ridefinizione dei rapporti di forza nel contesto mediorientale. Se difficilmente il prestigio e l’influenza di Washington ne usciranno rafforzati, per converso gli effetti
dannosi dell’inazione ovvero di un intervento confuso e non attentamente ponderato potrebbero comprimerne drasticamente il peso politico negli equilibri regionali. È
dunque in Iraq che, significativamente, Obama gioca il senso compiuto di una presidenza ad oggi opaca, determinata a ricucire gli strappi della precedente gestione
Bush ma lo stesso incapace di articolare una politica estera di ampio respiro in grado di rilanciare il tramontato primato americano in un sistema internazionale in rapida evoluzione.
Questo Research Paper intende presentare la lettura strategica dell’avanzata dell’IS
e della precarietà delle istituzioni irachene così come fissata dai vertici politici e militari degli Stati Uniti. Ad una previa contestualizzazione dei fattori scatenanti
l’attuale spirale di violenza e delle fazioni che vi hanno preso parte attiva, seguirà
perciò una ricostruzione delle decisioni prese e delle opzioni vagliate dalla leadership statunitense in riferimento agli interessi strategici perseguiti ed all’interazione
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con gli attori (interni ed esterni) che detengono un ruolo rilevante nel conflitto.
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PARTE I
LE CAUSE DELL’ESCALATION
Se la contiguità del fronte siriano ha certamente sollecitato la precipitazione della
crisi irachena, precisamente rafforzando il coordinamento tra l’opposizione sunnita
al regime di al-Assad e le corrispettive fazioni estremiste insediate al confine settentrionale dell’Iraq, gli analisti statunitensi hanno frequentemente rilevato le innegabili responsabilità di Nuri al-Maliki nella radicalizzazione delle contrapposizioni etniche e settarie.
Nella deriva autoritaria e personalista dei due mandati ricoperti dall’ex Primo Ministro è infatti riconoscibile un progressivo indebolimento della rappresentanza sunnita, che esprime circa un terzo della popolazione irachena[2]. Come prevedibile dopo
l’eliminazione di Saddam, i governi di coalizione presieduti da al-Maliki hanno operato per l’accentramento delle risorse di potere presso la maggioranza sciita – esito
su cui hanno peraltro pesato, oltre all’evidente depoliticizzazione delle forze lealiste
con la dittatura baathista, i gravi errori commessi dall’eterogeneo insieme dei partiti
sunniti, su tutti la diserzione delle elezioni costituenti del 2005. L’azione di al-Maliki
ha tuttavia assunto tratti intimidatori, se non propriamente persecutori, a seguito
delle
veementi
tensioni
che
hanno
accompagnato
la
mancata
applicazione
dell’accordo di Erbil, ossia del manifesto d’ispirazione federale sottoscritto nel novembre 2010 dalle componenti sciita, sunnita e curda dietro l’imprimatur congiunto
di Stati Uniti e Iran. L’intesa aveva risolto a favore di al-Maliki la paralisi istituzionale sopraggiunta con la consultazione elettorale del 2010 – quando il partito
Iraqiyya, a composizione mista sciita-sunnita e guidato da Ayad Allawi, era stato
premiato dal 24.72% dei voti (91 seggi) contro il 24.22% (89 seggi) del cartello di
al-Maliki[3]. Malgrado lo scarto negativo, il Premier uscente aveva infine ottenuto
una sofferta riconferma della propria leadership in virtù di una tempestiva sentenza
della Corte Costituzionale e del sostegno essenziale (incoraggiato da sponda iraniana) della compagine sadrista. Tuttavia, al-Maliki venne meno all’intento programmatico di intraprendere la strada di un esecutivo di unità nazionale virtuosamente
ducibile la discordia con le controparti. Da allora gli arresti arbitrari di presunti cospiratori baathisti hanno seguito un’impressionante regolarità e l’utilizzo strumentale delle corti di giustizia ha investito anche personalità politiche eccellenti di estrazione sunnita, quali il vice Primo Ministro Saleh al-Mutlaq, il Presidente del Parlamento Abdu’l Aziz al-Nujayfi ed il vice Presidente Tariq al-Hashimi (quest’ultimo costretto all’esilio in Turchia e condannato a morte in contumacia)[4]. Al contempo il
governo di Baghdad colse l’avvenuto ritiro delle truppe americane (dicembre 2011)
per stringere il controllo sulle Forze Armate (Iraqi Security Forces, ISF), precludendo l’integrazione di almeno 30-40mila combattenti del gruppo armato sunnita “Figli
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aperto all’apporto di Iraqiyya e dei partiti sunniti, così riacutizzando e rendendo irri-
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dell’Iraq” che aveva collaborato al fianco degli Stati Uniti nella stabilizzazione delle
insurrezioni.
In breve, la sconsideratezza di al-Maliki ha effettivamente posto le premesse per un
aggravamento sostanziale delle divisioni politiche (non solo l’antagonismo sciitisunniti, ma anche gli altalenanti rapporti tra arabi e curdi), regalando alla propaganda jihadista un vasto bacino di reclute. Tuttavia, se il primo bagno di democrazia
ha
prodotto
risultati
improduttivi
e
sgraditi
all’establishment
americano
(l’inasprimento di un conflitto connaturato nella composita struttura sociale irachena, la conseguente rinascita del terrorismo di matrice islamica, l’ingerenza iraniana), il biasimo di Washington dovrebbe arrestarsi dinanzi all’evidenza dei processi
disgreganti coercitivamente attivati dalla campagna bellica del 2003. Solo tardivamente gli Stati Uniti tentarono di trasfondere l’esito militare della sconfitta di Saddam in un corrispondente progetto di capacity building al fine di puntellare il nuovo
corso politico trattenendo entro un rinnovato modello di governance quelle spinte
centrifughe che la rimozione dell’autoritarismo baathista aveva naturalmente ridestato. In questo senso al-Maliki ha duramente difeso la friabile legittimità di un ordinamento privo tanto di un diffuso consenso nazionale, quanto di un accordo volontario dei principali gruppi di interesse. In altri termini, gli Stati Uniti sono ancora
sotto scacco della sorprendente vacuità strategica che accompagnò l’imponente trasferimento di capacità militari nel Golfo Persico. La rapida dissoluzione di un (seppur vacillante) regime trentennale lasciò le spoglie di un sistema decisionale centralizzato, sprovvisto di contrappesi alla preponderanza dei vertici, incline ad una gestione nepotistica della cosa pubblica ed ampiamente inadeguato ad estendere sia
le garanzie dello Stato di diritto sia la fruizione dei servizi sociali essenziali ad un
tessuto territoriale disomogeneo, nonché storicamente vessato da trattamenti diseguali e repressivi. L’elevata pressione demografica, la presenza di profughi e sfollati, l’iniqua ripartizione delle ricchezze petrolifere, l’arretratezza di infrastrutture e di
settori fondamentali per lo sviluppo economico hanno inoltre appesantito la debolezza delle istituzioni[5].
Benché la crucialità geopolitica di Baghdad fosse nitida nel quadro strategico
dell’amministrazione statunitense, questi fattori si sono imposti sulla lenta e sempliun Iraq pacificato a esercizi eterodiretti di ingegneria costituzionale ovvero destinando risorse ed attenzione sproporzionate alla dimensione militare delle azioni di
stabilizzazione.
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cistica valutazione del post-Saddam, dequalificando i piani per l’assetto durevole di
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PARTE II
LA RIBALTA DELL’IS E LE FORZE IN CAMPO
Senza gusto dell’iperbole, il Segretario della Difesa Chuck Hagel l’ha definita la più
sofisticata e meglio finanziata organizzazione terroristica che il Pentagono abbia mai
affrontato[6]. Dalle ceneri del gruppo jihadista raccoltosi attorno alla figura di Abu
Musab al-Zarqawi[7], l’ISIS (Stato Islamico dell’Iraq e di al-Sham) ha colto lo sbandamento dell’élite irachena per assestare un drastico colpo all’unitarietà del Paese.
Febbrilmente proteso verso l’irrealistico obiettivo di un califfato mondiale, il ribattezzato IS (Stato Islamico) ha promosso una sistematica e dilagante offensiva contro il governo di Baghdad, ricevendo il sostegno (spesso occasionale) delle milizie
IMMAGINE 1: ATTACCHI CONDOTTI NEL NORD DELL’IRAQ
(FONTE: THE NEW YORK TIMES) – Aggiornamento al 19/08/2014
Riorganizzatosi lungo il confine nord-occidentale con un’inedita capacità di fuoco ed
ingenti risorse, nel corso del 2013 il movimento guidato da Abu Bakr al-Baghdadi
ha brutalmente innalzato la frequenza e l’intensità degli scontri settari[8]: sfruttando la dispersione delle forze di sicurezza irachene ed agitando lo scontento indotto
dalla soppressione governativa dei tumulti nella provincia sunnita di al-Anbar, nel
gennaio 2014 i militanti jihadisti hanno facilmente conquistato, incontrando la sola
resistenza della polizia locale, le città di Ramadi e Falluja – rispettivamente a circa
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sunnite alienate dalla politica discriminante di al-Maliki.
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120 e 70 chilometri dalla capitale. Da allora le colonne armate dell’IS hanno ripetutamente solcato i percorsi del Tigri e dell’Eufrate assicurandosi il controllo delle
principali vie di comunicazione. Caduta Mosul – seconda città irachena in termini di
importanza – il 10 giugno, nei giorni seguenti l’IS ha attaccato Tikrit, Tal Afar e la
raffineria di Baiji, per poi procedere a sud verso Samarra fino a giungere alle porte
di Baghdad; al contempo, tra il 20 ed il 30 giugno, un accordo con al-Nusra ha rinsaldato in prossimità di Qaim e Abu Kamal un ingresso incontestato in Siria, dove
al-Baghdadi ha stabilito a Raqqah la capitale provvisoria del Califfato, come similmente numerose brecce sono state fissate lungo la frontiera con la Giordania.
Le scorrerie jihadiste, eseguite con armamento pesante e mezzi blindati (per lo più
sottratti alle ISF e spesso di produzione statunitense), hanno lasciato dietro di sé
una striscia di sangue e di terrore brutalmente accentuata dalle esecuzioni di massa
e dalla persecuzione delle minoranze religiose. I vessilli neri dell’IS sfiorano Aleppo
ed avvolgono una vasta area della Siria nord-orientale, mentre le incursioni dei jihadisti infiammano i governatorati iracheni di al-Anbar, Niniveh, Kirkuk, Salah alDin e Diyala. Il furore degli estremisti islamici e l’illegalità endemica che ne consegue hanno provocato una crisi umanitaria di notevoli proporzioni nelle zone sopraccitate. Secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni dal 1° gennaio
2014 quasi 1.7 milioni di persone, in particolare nei distretti di Mosul e Sinjar, sono
state costrette ad abbandonare le proprie abitazioni[9]. L’Alto Commissario per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, Navi Pillay, non ha esitato a riferire di crimini contro
l’umanità, relativamente alla sistematica persecuzione di gruppi etnici e religiosi, e
di crimini di guerra, a proposito dei massacri di prigionieri e di civili pubblicizzati
IMMAGINE 2: AREE SOTTO IL CONTROLLO DELL’IS
(FONTE: THE NEW YORK TIMES) – Aggiornamento al 20/08/2014
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dagli stessi jihadisti[10].
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All’ondata dell’IS è corrisposta la rotta confusa dell’esercito iracheno, che preso alla
sprovvista dalla mobilità dei convogli nemici ha largamente abdicato alla protezione
di snodi chiave consentendo una rapida avanzata alle forze integraliste – tanto da
permettere la presa senza colpo ferire di numerosi centri abitati (ad esempio Baiji)
e di canali di rifornimento dall’alto valore strategico. L’impressione di un assalto
inarrestabile al cuore del Paese ha infatti incrinato la tenuta delle ISF che hanno
perciò opposto una resistenza flebile e disordinata[11]. Al contrario, i peshmerga
curdi hanno da subito ingaggiato i militanti dell’IS in feroci combattimenti per impedire la capitolazione della regione autonoma del Kurdistan. Nonostante i rapporti tesi con la dirigenza sciita, nello smarrimento addotto dalle manovre dei guerriglieri
del Califfato, i curdi hanno servito la causa delle istituzioni centrali, fornendo
un’assistenza decisiva alle divisioni governative nella riconquista di Jalawla, AsSa’diyah, di alcuni tratti confinanti con la Turchia e soprattutto (con l’appoggio dei
raid statunitensi) della monumentale diga di Mosul – infrastruttura vitale per la sicurezza energetica e l’approvvigionamento idrico del Paese, caduta in mano ai jihadisti nella prima metà di agosto. Analogamente le fazioni sciite hanno predisposto
alcune brigate per rafforzare le difese della capitale (sempre più oggetto di attentati) e dei maggiori siti confessionali, quali ad esempio Samarra[12]. Ciononostante,
la lealtà prestata al governo legittimo da diverse strutture paramilitari sciite – quali
Asa’ib Ahl al-Haq e Ketaeb Hezbollah, finanziate da capitali iraniani – è stata
espressamente accordata per necessità contingente ed in via transitoria. Il deficit di
coordinamento e la mancanza di adeguata copertura aerea da parte delle ISF hanno
però precluso qualsiasi ipotesi di riflusso dell’insurrezione, in misura crescente alimentata da uomini e mezzi provenienti dal teatro siriano, così cristallizzando una
condizione di grande svantaggio per Baghdad e ponendo le premesse per un intervento esterno nella crisi.
Le insegne del Califfato hanno invece accolto in primo luogo gli adepti delle fazioni
salafite ed i fuoriusciti del regime di Saddam Hussein, compresi ex ufficiali e soldati
della Guardia Repubblicana e dell’esercito iracheno disgregatosi durante Iraqi
Freedom. Per quanto concerne la disposizione delle comunità sunnite, dopo la conquista di Mosul varie milizie tribali hanno tatticamente ricercato alleanze di natura
provvisoria con l’IS allo scopo di indebolire al-Maliki; in alcune circostanze, gli acacclarando una sostanziale difformità degli obiettivi perseguiti laddove la maggioranza dei gruppi armati sunniti è votata ad un nuovo sovvertimento degli equilibri
politico-confessionali all’interno del sistema politico iracheno e per contro non contempla alcun assoggettamento all’idea califfale di al-Baghdadi. A questo riguardo è
indicativo annotare che una delle principali organizzazioni sunnite affiliate alla campagna jihadista, ossia l’Esercito degli Uomini dell’Ordine Naqshabandi – di simpatie
baathiste e designata associazione terroristica dal Dipartimento di Stato americano
– sia entrata in lotta serrata con i militanti dell’IS nella provincia di Diyala. Allo
stesso modo violente rivalità sono esplose anche con le formazioni islamiste
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cordi di compromesso sono stati preceduti ovvero interrotti da accese ostilità[13],
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dell’Esercito Islamico dell’Iraq e di Ansar al-Sunna[14]. La frammentazione dello
schieramento
rivoluzionario
è
attesa
ad
un
progressiva
accelerazione
con
l’evoluzione del conflitto e disegna un modello di controllo territoriale altamente instabile ed elastico negli interlocutori, che inficia il radicamento dell’IS nelle province
occupate. Inoltre, occorre tenere presente che l’intransigenza assoluta del messaggio ideologico evocato da al-Baghdadi è suscettibile di isolare sempre più il separatismo jihadista in Siria e Iraq: se nell’Islam si moltiplicano le voci che condannano
fermamente tanto la pretesa di porsi al vertice della Umma, quanto la prassi cruenta ed indiscriminata adottata dagli estremisti, già nel febbraio 2014 persino alQaida e Jabhat al-Nusra avevano entrambe interrotto qualsiasi legame organizzativo con l’IS. Tuttavia, gli analisti statunitensi sono concordi nel giudicare improbabile
una riscossa anti-jihadista dei gruppi sunniti, sulla scorta del cosiddetto “Awakening” che nel 2008 contribuì a spezzare le ramificazioni di al-Qaeda nel Paese, poiché l’urgente riorganizzazione delle ISF, l’assenza di contingenti USA sul campo e
l’incerto sbocco del processo politico iracheno non creano incentivi sufficienti ad un
netto e coeso capovolgimento di fronte. È sulla base di questa valutazione che gli
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Stati Uniti hanno predisposto una risposta pragmatica alla crisi.
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PARTE III
LA REAZIONE DELL’AMMINISTRAZIONE OBAMA
Per le ragioni richiamate in chiusura al paragrafo precedente è improbabile che l’IS
sia in grado di rovesciare Baghdad, ma il rischio di protrarre indefinitamente la
guerra civile – fissando una conflittuale tripartizione su base confessionale e conseguentemente logorando il basamento dell’incompiuta democrazia forgiata col fuoco
dell’invasione americana – è assai concreto. Secondo l’intelligence statunitense, la
leadership degli estremisti islamici può contare su un nucleo di circa 10mila mujaheddin (dei quali solo un terzo impegnato nel versante iracheno); un quantitativo
insufficiente all’esercizio ed alla conservazione di un dominio teocratico semi-statale
in un’area estesa approssimativamente quanto la vicina Giordania e soprattutto attraversata dalla crescente repulsione delle popolazioni locali. Tuttavia, l’enorme disponibilità economica di cui beneficia il movimento – prodotta dalle generose donazioni di privati arabi, dalla confisca di proprietà, dall’immissione di greggio sul mercato nero, dal saccheggio delle banche, dai sequestri di persona, infine da attività di
estorsione e di riciclaggio – ha consentito ad al-Baghdadi di armare un vero e proprio esercito irregolare, che trascende in termini di operatività, equipaggiamento e
addestramento militare la capacità di combattimento usualmente attribuita ad
un’organizzazione terroristica. Pertanto, la dimensione regionale della crisi che congiunge il teatro iracheno a quello siriano ha aperto in seno alla Casa Bianca e al
Pentagono un urgente confronto sulle misure volte a sventare il pericolo di un dissesto irreversibile dello scenario geopolitico.
Dalla prospettiva di Washington l’inaspettata cedevolezza delle ISF ha costituito
senza mezzi termini un notevole smacco, emblematicamente raffigurato dagli
Humvee e dai carri armati di fabbricazione statunitense caduti in mano agli insorti
dopo la resa di Mosul ed ora battenti la bandiera dell’IS. Dato il profluvio di capitali
stanziati per assistere la ricostruzione degli apparati di sicurezza iracheni, la porosità delle forze governative – seppur numericamente consistenti e dotate di reparti
d’élite di sicuro affidamento[15]– ha rilevato una certa imprevidenza nell’approccio
2011. “Checkpoint army” prevalentemente dedito a operazioni statiche di carattere
difensivo ovvero ad attività di anti-terrorismo, l’esercito iracheno si è mostrato del
tutto inadeguato a controbattere una vasta e ben pianificata offensiva insurrezionale[16]. Con grave ritardo il Pentagono è stato dunque costretto a prendere atto che
le ISF non possiedono le capacità necessarie a reprimere gli attacchi del Califfato[17].
Atteso dagli alleati mediorientali ad una replica risoluta nei confronti della riemersione della minaccia jihadista e consapevole di disporre di un assai limitato margine
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americano, solo in parte imputabile all’affrettato ritiro delle truppe alla fine del
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di manovra, l’esecutivo Obama è intervenuto in molteplici direzioni. Nel mese di
giugno gli Stati Uniti hanno dapprima predisposto due centri operativi congiunti a
Baghdad e Erbil al fine di tracciare un primo esame delle risorse mobilitate dall’IS e
coordinare le azioni della resistenza irachena e curda; inoltre, hanno poi deliberato
una duplice missione consistente nell’invio di personale militare (complessivamente
680 unità) incaricato di aumentare il livello di sicurezza delle sedi diplomatiche e di
redigere un’analisi accurata della situazione sul campo[18]. Quest’ultima ha urgentemente sollecitato, di fronte all’imperversare degli estremisti, l’autorizzazione (il 7
agosto) di operazioni aeree chirurgiche allo scopo di colpire i gangli vitali dell’IS e di
fornire superiorità tattica alle unità di terra delle ISF e dei peshmerga – operazioni
ufficialmente legittimate dalla protezione di cittadini americani e dei convogli umanitari[19]. Al contempo, il Comando Centrale e l’USAID hanno approntato un ponte
aereo per rifornire di beni di prima necessità gli sfollati yazidi rifugiatisi sulle montagne del Sinjar. I combattenti di Mas’ud Barzani sono presto diventati uno strumento fondamentale della strategia indiretta di Washington: tutti i 124 bombardamenti totalizzati dalla U.S. Air Force al 31 agosto scorso sono stati concentrati nelle
aree di Mosul, del Sinjar, della capitale curda Erbil e di Amiril in appoggio alla controffensiva dei peshmerga[20].
Gli scontri a fuoco con l’IS hanno permesso alle forze di Barzani di entrare a Kirkuk,
importante hub energetico a lungo reclamato dal governo regionale curdo e che difficilmente sarà in seguito ricondotto alla potestà esclusiva di Baghdad. Armare i peshmerga potrebbe dunque rivelarsi un azzardo per il futuro riassetto dell’Iraq: non
è un caso che gli Stati Uniti abbiano temperato il sostegno logistico ed operativo
con l’interdizione ad esportare petrolio in modo indipendente dalle istituzioni centrali. Analogamente, l’amministrazione Obama si mostra riluttante a distribuire forniture militari direttamente alla leadership curda, vincolando i trasferimenti di armi ad
un previo passaggio dalla capitale irachena. Questa discriminante alzata dalla Casa
Bianca ha destato critiche presso il Pentagono, che ha richiamato la dirigenza politica a prendere atto della situazione sul campo[21], e nel Congresso, dove la prova
irresponsabile delle ISF ha fatto emergere per voce del senatore democratico Robert Menendez (presidente del Committee on Foreign Relations del Senato) forti
dubbi sull’opportunità di garantire commesse militari alle autorità di Baghdad[22].
a Barzani, poiché il diniego alle richieste presentate dall’élite curda è stato superato
dalla pronta disponibilità degli alleati europei (tra cui Germania, Gran Bretagna,
Francia, Italia, Albania, Repubblica Ceca) ad inviare munizioni ed armamenti pesanti (in particolare razzi anticarro). In questo senso gli Stati Uniti – che già dalla
Guerra del Golfo hanno accompagnato il cammino del Kurdistan iracheno verso
l’autonomia, formalmente riconosciuta dalla Costituzione ratificata nel 2005 – intendono scoraggiare ogni tentazione separatista, adeguando la posizione dei partiti
curdi
al
traguardo
di
un
“functioning
dall’amministrazione statunitense[23].
federalism”
continuamente
agitato
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In realtà, quello posto dalla presidenza Obama costituisce un ammonimento politico
10
Coerentemente con questo assunto, Obama ha immediatamente circoscritto la portata dei provvedimenti militari, escludendo categoricamente una nuova spedizione
in Iraq ed affidando la soluzione della crisi alla concertazione di un contratto tra le
comunità etnico-confessionali[24]. Su questo piano la diplomazia della Casa Bianca
ha puntato al superamento di al-Maliki ed al rilancio del processo federale (previsto
dalla carta costituzionale) che scandirà l’agenda del neo-eletto Primo Ministro Haider al-Abadi, anch’egli espressione del partito sciita Da’Wa e considerato sia da Washington che Teheran un profilo adatto a richiamare consenso popolare attorno alle
istituzioni centrali[25]. Eppure il modesto cambiamento nella dirigenza irachena non
sembra sufficiente a saldare le spaccature settarie e rimuovere la minaccia dell’IS.
Se nel primo caso la questione federale incontra il nodo gordiano della ripartizione
dei profitti petroliferi (i maggiori giacimenti del Paese sono localizzati nei governatorati meridionali a maggioranza sciita), nel secondo la propagazione delle violenze
islamiste incide sugli equilibri interni degli Stati confinanti ed irradia effetti di ampiezza regionale. È per questo motivo che il Segretario di Stato Kerry in un primo
momento ha incontrato a Parigi le controparti di Arabia Saudita, Giordania e Emirati
Arabi Uniti e successivamente si è recato a Riyadh per gettare le fondamenta di una
nuova “coalizione dei volenterosi”. Da questa visuale la strategia degli Stati Uniti
deve però necessariamente contemperare posizioni dissimili legate dalla condivisione di un nemico comune.
Intanto, l’andamento delle ostilità – con l’occupazione della base di Taqba, fedele a
Damasco, da parte dei militanti dell’IS – esorta i policy-maker americani a prendere
in considerazione l’estensione di bombardamenti selettivi agli avamposti jihadisti in
terra siriana. Il 26 agosto Obama ha dato il via libera ai primi voli di ricognizione,
chiedendo allo Stato Maggiore di delineare le opzioni militari praticabili[26]. I portavoce di Bashar al-Assad hanno reso noto che, in assenza di un coordinamento preventivo, gli eventuali attacchi condotti nello spazio aereo della Siria saranno considerati veri e propri atti di aggressione. Tuttavia, si sono mostrati disponibili ad intraprendere attività anti-terroristiche congiunte – ipotesi irricevibile poiché sconfesserebbe drasticamente la linea tenuta dagli Stati Uniti nella guerra civile siriana, incrinando l’alleanza con gli Stati sunniti che avversano Assad. Da questo punto di vista le conseguenze di una campagna aerea, anche qualora colpisse le sole zone di
termini operativi, che diplomatici. Malgrado ciò, la destinazione di rinnovati finanziamenti all’opposizione siriana sottoposta all’attenzione del Congresso evidenzia
quanto il recupero della situazione irachena sia inestricabilmente radicato nella
drammatica lotta per Damasco.
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confine ed eludesse incursioni in profondità, appare altamente problematica sia in
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PARTE IV
IL QUADRO REGIONALE
La miccia accesa dal movimento teocratico di al-Baghdadi ha scosso l’intero contesto mediorientale e promette di unificare ceppi di instabilità tra loro distanti – dal
Corno d’Africa al Sudan, dallo Yemen al Libano, per giungere alla Libia. Tuttavia –
ha ragione Jon Alterman, vice presidente del Center for Strategic and International
Studies – gli Stati confinanti, che mantengono un vivo interesse nell’avversare le
schiere armate del Califfato, in una certa misura hanno pure incassato vantaggi relativi dalla radicalizzazione delle ostilità nell’ambito delle rispettive contrapposizioni
regionali[27]. È indubbio, ad esempio, che Bashar al-Assad abbia beneficiato
dell’alleggerimento della pressione internazionale sulla propria condotta; la complementarietà del fronte siriano e di quello iracheno sta anzi muovendo gli oppositori esterni al regime di Damasco (in primis gli Stati Uniti) a prefigurare azioni militari
contro gli stessi jihadisti che aspirano alla detronizzazione del leader alawita. Il vuoto politico dischiuso nella piana mesopotamica rende inoltre Baghdad l’ago della bilancia della crescente competizione tra Riyadh e i partner del Consiglio di Cooperazione del Golfo da un lato e Teheran dall’altro. Queste spinte contraddittorie, a loro
volta incardinate in una complessa ed ambigua griglia di rivalità etniche e confessionali, di fatto pregiudicano un vasto allineamento anti-jihadista – ipotesi, come si
è detto, al centro delle trattative statunitensi.
Malgrado ciò, da una visione d’insieme, nei centri di potere che costeggiano l’Iraq
prevalgono motivi di allarme e di inquietudine relativamente all’inedita solidità
dell’IS. Turchia e Giordania, accomunate dal carico dei milioni di profughi sopraggiunti dalle zone di guerra, sono entrambe impegnate nella repressione dei militanti
islamisti lungo le frontiere e temono la diffusione della lezione di al-Baghdadi – in
particolare nel regno hashemita che ospita cellule estremiste sunnite. In aggiunta,
Amman subisce i contraccolpi economici della contrazione delle transazioni commerciali con l’Iraq, che sino al 2013 ha assorbito un quinto delle esportazioni giordane[28]. La posizione turca appare però controversa poiché l’opposizione e diverse
nell’Anatolia meridionale, che Erdoğan avrebbe tollerato in funzione anti-Assad. Per
converso, la crescita di scala dell’insurrezione incide negativamente sulle relazioni
economiche che Istanbul coltiva con la regione autonoma del Kurdistan, il cui attuale rafforzamento – diversamente da quanto si potrebbe ritenere in prima battuta –
non è in disaccordo con la barra della politica turca. Incontrando i veti di al-Maliki,
nel gennaio 2014 Erdoğan ha spronato la congiunzione dell’oleodotto CeyhanKirkuk al giacimento curdo di Taq Taq, così stringendo un connubio di interessi con
Barzani; oltre a motivazioni di sicurezza energetica, il prestigio acquisito dalla resistenza dei peshmerga contro l’IS e l’implicito maggior potere contrattuale detenuto
Research Paper, N°22 – Settembre 2014
agenzie di stampa denunciano la presenza di campi di addestramento jihadisti
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dalle autorità di Erbil potrebbe inoltre isolare le rivendicazioni curde al solo scenario
iracheno, trattenendo le spinte indipendentiste nel Kurdistan turco[29]. La crucialità
di
Erbil
nell’arginare
l’allargamento
dell’integralismo
jihadista
è
confermata
dall’assistenza ai peshmerga recentemente notificata dal Ministro degli Interni iraniano, Rahmani Fazli – laddove la possibilità di una piena autodeterminazione del
Kurdistan rappresenterebbe invece un azzardo per l’integrità territoriale iraniana a
causa della continuità dell’estesa area curda.
IMMAGINE 3: OPPORTUNITÀ E RISCHI PER I CURDI
(FONTE: THE NEW YORK TIMES)
È proprio la politica di Rouhani il tassello qualificante delle dinamiche regionali che
s’intrecciano nel conflitto. Dato l’ascendente sulla coalizione di governo ora presieun coinvolgimento di Teheran, i cui pasdaran della Guardia Rivoluzionaria – capeggiati dall’influente Qassem Suleimani – assistono sia in Iraq, sia in Siria la lotta contro l’IS. In una situazione mutevole, l’indebolimento iracheno comporta naturalmente un incremento dell’influenza (e delle pretese) dell’adiacente potenza sciita. Da
questo punto di vista l’intervento a sostegno di Baghdad, come è stato per la contesa sul regime di al-Assad, rischia di essere trasfigurato in una guerra per procura
dagli Stati sunniti – che ragionevolmente temono i disegni egemonici iraniani. Con
un orizzonte problematicamente segnato dai negoziati sul nucleare, la questione si
pone in termini analoghi anche per gli Stati Uniti, disponibili a raccogliere i segnali
Research Paper, N°22 – Settembre 2014
duta da al-Abadi, qualsiasi schema di risoluzione della crisi non può prescindere da
13
distensivi
di
Rouhani
ma
comunque
intenzionati
a
non
arretrare
dinanzi
all’espansione di un attore che intrattiene relazioni di aspra inimicizia con i preziosi
alleati della superpotenza (Israele compreso). Eppure, Obama è consapevole che, in
assenza di truppe statunitensi all’interno dell’Iraq, Teheran è il primo (e forse unico)
attore in grado di porre un freno alla pressione dell’IS. Del resto la pericolosità
dell’eresia di al-Baghdadi sembra infrangere la sciagura di un macro conflitto tra
sciismo e sunnismo, come confortato dai recenti contatti tra Riyadh e la diplomazia
iraniana[30]– per quanto i canali finanziari che sorreggono la campagna bellica ordita dai jihadisti provengono da Arabia Saudita, Kuwait, Oman, Qatar ed Emirati
Arabi Uniti. Tuttavia, l’inestricabile matassa siriano-irachena ricade pesantemente
sulle scelte americane poiché se da un lato il congelamento degli schieramenti pro e
contro al-Assad sfilaccia la trama negoziale per riportare l’Iraq ad una condizione di
stabilità – così inducendo gli Stati Uniti a temporeggiare con azioni di compromesso
incapaci di piegare l’IS –, dall’altro l’eventuale scivolamento verso un’estenuante
guerra di attrito ridimensionerebbe tanto la credibilità, quanto gli interessi statunitensi nel Medio Oriente. A tal proposito, Mosca attende gli errori di Washington per
offrire agli Stati regionali un’opzione alternativa alla preponderanza americana: è in
tal senso significativo che il governo iracheno abbia ricevuto da Federazione Russa e
Bielorussia decine di Sukhoi Su-25 per colmare la pressante lacuna di una flotta aerea alquanto modesta, che al contrario gli Stati Uniti hanno deciso di compensare
soltanto in via suppletiva attraverso l’impiego della propria forza aerea. La convergenza con Teheran sulla difesa di Damasco rende dunque la variabile russa un ele-
Research Paper, N°22 – Settembre 2014
mento destabilizzante per la vacillante proposta di Obama.
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PARTE V
IL RISTRETTO VENTAGLIO DELLE OPZIONI
STRATEGICHE E LA POLITICA REGIONALE DEGLI USA
Ci si potrebbe chiedere se la prepotente emersione dell’IS costituisca effettivamente
una minaccia talmente grave da richiedere un siffatto trattamento d’emergenza. Del
resto la politica mediorientale di Obama è stata contraddistinta da discordanze ed
attestati di impotenza: dalla riluttanza a sostenere la spericolata (perché militarmente impraticabile) iniziativa anglo-francese in Libia, all'offerta decisiva della forza
area per piegare il regime di Gheddafi; dal beneplacito alla detronizzazione di popolo dell'alleato Mubarak e dal calcolo di opportunità dell'approvazione del successo
elettorale ottenuto dalla Fratellanza Musulmana, alla condanna morbida e tardiva
della deposizione di Mursi ed all'interruzione parziale dell'assistenza militare; dalla
ponderata equidistanza dalla polveriera siriana all'errore grossolano della “linea rossa” tracciata a discrimine di un intervento nella guerra civile, che costrinse una mobilitazione tanto esteticamente imponente quanto strategicamente sterile. A questa
domanda ha concisamente risposto il diplomatico statunitense Brett McGurk, uomo
di fiducia di Obama in Iraq, in occasione di un’importante audizione parlamentare il
24 luglio scorso:
«The situation we confront is not simply about stabilizing Iraq, though
that alone is an important interest. Rather, it is about ensuring that a
movement with ambitions and capabilities greater than the al Qaida that
we knew over the past decade does not grow permanent roots in the
heart of the Middle East» [31].
Il radicamento del Califfato si ritorcerebbe contro alcuni degli assiomi fondamentali
che reggono l’internazionalismo americano: l’apertura delle fonti di approvvigionamento energetico, la stabilità delle alleanze regionali, il contrasto alla diffusione di
organizzazioni terroristiche transnazionali, la proliferazione di armi di distruzione di
siva attestazione nelle provincie sunnite dell’Iraq settentrionale, è suscettibile di
catturare uno o tutti gli imperativi strategici sopra menzionati. Il sostegno al fanatismo di al-Baghdadi ha inoltre portato nei campi di addestramento jihadisti centinaia
di reclute con passaporto occidentale – aspetto che non può non preoccupare gli
Stati Uniti ed i suoi alleati dal rischio di ritorsioni sul territorio nazionale. Tuttavia, è
la disintegrazione del tessuto regionale lungo spaccature incoerenti con la cartina
politica mediorientale ad assumere una gravità preordinata rispetto alla riedizione di
una guerra totale contro il terrorismo. In breve, la sofferta decisione di riprendere
in mano il futuro dell’Iraq discende dalla percezione di un allentamento della pote-
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massa. In potenza una vittoria dell’IS, anche nella forma probabile di una progres-
15
stà egemonica piuttosto che dalla repressione del fondamentalismo islamico – a
maggior ragione se si considera, come precisa McGurk, che la sfida lanciata da alBaghdadi consiste nell’inclusione di un grumo revisionista nel centro di gravità della
regione.
È allora opportuno porsi una seconda domanda, ossia interrogarsi su cosa sia rimasto del “nuovo inizio” con il mondo islamico dichiarato nel celebre discorso tenuto
all’Università del Cairo nel giugno del 2009[32], che appariva certamente un passaggio obbligato per la distensione dei rapporti con le società arabe e che sposta
l’oggetto della riflessione dagli obiettivi ai mezzi prescelti per il loro conseguimento.
Obama si è attenuto al voto di uscire dal vicolo cieco di Iraqi Freedom ma senza
porre alcun freno alla violenza endemica foraggiata dalle rivalità etnico-religiose e
dagli attentati terroristici, che hanno reso il ricostituito ordinamento federale tanto
bacino di reclutamento, quanto campo d’azione dei gruppi jihadisti. Tuttavia,
l’escalation della crisi ed
i
conseguenti
effetti
di
spillover hanno imposto
all’amministrazione statunitense l’affrettata elaborazione di una politica regionale
mai delineata compiutamente. Obama è infatti rimasto intrappolato nel registro e
nei contenuti delle precedenti gestioni Clinton e Bush, applicando come univoco criterio di condotta una distinzione tra secolarismo moderato ed islamismo radicale del
tutto
inadeguata
a
leggere
le
dinamiche
mediorientali[33].
Nel
decretare
un’assistenza anche militare alle istituzioni irachene, la Casa Bianca ha prudentemente evitato che l’intervento americano irrompesse nella frattura confessionale a
vantaggio della sola comunità sciita, ma la soluzione di un governo inclusivo, seppur inderogabile, colloca la pacificazione del Paese in un orizzonte temporale incongruente con l’obiettivo di serrare tempestivamente una morsa sul Califfato. Tanto
più che l’avvenuto cambiamento della leadership non comporta automaticamente
un cambiamento del processo politico. Un compromesso di unità nazionale richiederà la convergenza degli elementi meno intransigenti della società irachena, ma le
dinamiche del conflitto rendono oggi protagonisti i gruppi armati sciiti e sunniti che
respingono i condizionamenti di Washington. In aggiunta, è presumibile ipotizzare
che i curdi sfrutteranno l’attuale posizione di forza per spingere Baghdad ad accettare una ristrutturazione confederale del Paese, mentre i sunniti propenderanno per
In sintesi, un vasto accordo appare fumoso e di lenta costruzione. Per questo motivo la regressione dell’IS passa categoricamente dall’allestimento di un’ampia coalizione araba in grado di cauterizzare le linee di rifornimento del Califfato ed al contempo di incalzare la dirigenza irachena. Saranno dunque gli appuntamenti del
summit NATO in corso a Newport (4-5 settembre) e della prossima sessione
dell’Assemblea Generale ONU a scandire la road map statunitense, ma gli sforzi di
coalition-building promossi da John Kerry[35] scontano anzitutto le riserve di alleati
fondamentali, quali Arabia Saudita ed Egitto, che diffidano della non linearità
dell’orientamento di Washington. Al di là della pesante eredità lasciata dalla presi-
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un federalismo decentrato e per la depoliticizzazione delle ISF[34].
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denza Bush, l’amministrazione Obama è qui costretta a ripartire dagli errori di una
politica occasionale e contraddittoria che ha deliberatamente evitato di tracciare un
diverso quadro di riferimento delle relazioni regionali. Questo pronunciato disorientamento coglie l’incapacità di sottrarsi ad una concezione monolitica del ruolo globale preteso dagli Stati Uniti, che dalla fine della Guerra Fredda ha diretto gli esecutivi americani verso una dispendiosa stabilizzazione delle linee di conflitto[36]. Tuttavia, l’odierna frammentazione degli scenari regionali esige di calibrare nuovi paradigmi d’intervento.
Ricucire lo strappo della crisi irachena significa allora anticipare una determinazione
sui limiti delle ambizioni di Teheran e sulla posizione di al-Assad; implica anche una
riconferma degli impegni contratti con gli Stati arabi sunniti ed un chiarimento delle
ambiguità di Erdoğan. Mentre gli eventi ucraini alimentano venti di guerra sulle
frontiere europee e palesano gli obiettivi della politica di potenza di Putin,
l’amministrazione Obama dovrà dunque procedere entro le direttrici di un approccio
Research Paper, N°22 – Settembre 2014
onnicomprensivo, di cui ancora però non s’intravede la comparsa.
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NOTE ↴
[1] Kenneth M. Pollack, Options for U.S. Policy Toward Iraq, Testimony Before the Committee on Foreign Relations The United States Senate, 24 luglio 2013.
[2] Cfr. Stephanie Sanok Kostro, Garrett Riba, Resurgence of al Qaeda in Iraq: Effect on Security and Political Stability, Center for Strategic and International Studies, 4 marzo 2014.
[3] Si tenga presente che le elezioni del 2010 furono anticipate da vigorose polemiche determinate dall’esclusione, per commistioni con il precedente regime baathista, di ben 499
candidati sunniti dalle liste elettorali. Cfr. Kenneth Katzman, Iraq: Politics, Governance, and
Human Rights, Congressional Research Service, 2 luglio 2014, pp. 6-8.
[4] Cfr. Anthony H. Cordesman, Sam Khazai, Iraq in Crisis, Center for Strategic and International Studies, maggio 2014, pp. 96-101.
[5] Ibidem, pp. 13-18.
[6] “They're beyond just a terrorist group. They marry ideology [with] a sophistication of
strategic and tactical military prowess.” cit. in Claudette Roulo, Hagel: Joint Efforts Blunt
ISIL’s Advance in Iraq, Department of Defense, 21 agosto 2014.
[7] Kenneth Katzman, Carla E. Humud, Christopher M. Blanchard, Rhoda Margesson, Alex Tiersky, Iraq Crisis and U.S. Policy, Congressional Research Service, 20 giugno 2014, p. 6.
[8] Cfr. Anthony H. Cordesman, Sam Khazai, op. cit., pp. 57-81.
[9] International Organization for Migration, Iraq Mission, Displacement Tracking Matrix, 24
agosto 2014.
[10] Office of the High Commissioner for Human Rights, Iraqi civilians suffering “horrific”
widespread and systematic persecution, Ginevra, 25 agosto 2014.
[11] Cfr. Martin E. Dempsey cit. in Claudette Roulo, Dempsey Explains Danger Posed By Extremist Groups, Department of Defense, 24 luglio 2014.
[12] Cfr. Susuad al-Salhy, Tim Arango, Iraq Militants, Pushing South, Aim at Capital, in “The
[13] Come avvenuto nel caso della tribù sunnita di Albu Mahal che (come già nel 2005) ha
incrociato le armi con le forze jihadiste. Cfr. Eric Schmitt, Alissa J. Rubin, U.S. and Iraqis Try
to Fragment Extremist Group, in “The New York Times, 12 luglio 2014; Brett McGurk, Senate
Foreign Relations Committee Hearing: Iraq at a Crossroads: Options for U.S. Policy, 24 luglio
2014.
[14] Ibidem.
Research Paper, N°22 – Settembre 2014
New York Times, 11 giugno 2014.
18
[15] Cfr. Anthony H. Cordesman, Sam Khazai, Shaping Iraq’s Security Forces, Center for
Strategic and International Studies, 12 giugno 2014.
[16] A tali rilievi si aggiungono in negativo l’assenza di comandi operativi decentrati e la centralizzazione della struttura decisionale nella potestà del primo ministro. Cfr. Michael D. Barbero, Senate Foreign Relations Committee Hearing: Iraq at a Crossroads: Options for U.S.
Policy, 24 luglio 2014, p. 6.
[17] «Preparing ISF for an effective counteroffensive operation requires extensive preparation; it cannot be thrown together in days or weeks. The capabilities necessary to counter
ISIS do not exist today in Iraq and they will not likely materialize on their own anytime
soon». ibidem, p. 5.
[18] Cfr. Nick Simeone, Obama Announces Military Advisers Heading to Iraq, Department of
Defense, 19 giugno 2014; Jim Garamone, Dempsey: Iraqi National Unity Needed to Counter
ISIL, Department of Defense, 29 giugno 2014; Cheryl Pellerin, Hagel: All Assessments Needed for Full Picture in Iraq, Department of Defense, 10 luglio 2014.
[19] Barack Obama, Weekly Address, The White House, 9 agosto 2014.
[20] USCENTCOM, U.S. Military Conducts Airstrike Against ISIL near the Mosul Dam, 2
settembre 2014.
[21] Ken Dilanian, Kurds' Pleas For U.S. Weapons May Finally Be Heard, Associated Press, 8
agosto 2014.
[22] Robert Menendez, Opening Remarks at Hearing on Iraq at a Crossroads: Options for
U.S. Policy, 24 luglio 2014.
[23] Cfr. Joe Biden, Iraqis Must Rise Above Their Differences to Rout Terrorists, in “The
Washington Post”, 22 agosto 2014.
[24] «As commander in chief, I will not allow the United States to be dragged into fighting
another war in Iraq, and so even as we support Iraqis as they take the fight to these terrorists, American combat troops will not be returning to fight in Iraq, because there is no American military solution to the larger crisis in Iraq. (…) The only lasting solution is reconciliation
among Iraqi communities and stronger Iraqi security forces». Barack Obama, Weekly Ad-
[25] «This new Iraqi leadership has a difficult task. It has to regain the confidence of its citizens by governing inclusively and by taking steps to demonstrate its resolve. The United
States stands ready to support a government that addresses the needs and grievances of all
Iraqi people. We are also ready to work with other countries in the region to deal with the
humanitarian crisis and counterterrorism challenge in Iraq. Mobilizing that support will be
easier once this new government is in place». Barack Obama, Statement by the President on
Iraq, The White House, 11 agosto 2014.
Research Paper, N°22 – Settembre 2014
dress, The White House, 9 agosto 2014.
19
[26] Cfr. Mark Landler, Helene Cooper, Obama Authorizes Air Surveillance of ISIS in Syria, in
“The New York Times”, 25 agosto 2014.
[27] Jon B. Alterman, Hoping for Trouble in Iraq, Center for Strategic and International Studies, 17 giugno 2014.
[28] Cfr. Areej Abuqudairi, Iraq crisis worsens Jordan's economic woes, Al Jazeera, 25 agosto
2014.
[29] Cfr. Anthony H. Cordesman, The New “Great Game” in the Middle East: Looking Beyond
the “Islamic State” and Iraq, Center for Strategic and International Studies, 9 luglio 2014;
Amitai Etzioni, Grant Kurdistan Arms and Independence, in “The Diplomat”, 14 agosto 2014.
[30] Top Iranian official visits Saudi Arabia to repair strained ties, Al Arabiya, 26 agosto
2014.
[31] Brett McGurk, Senate Foreign Relations Committee Hearing: Iraq at a Crossroads: Options for U.S. Policy, 24 luglio 2014.
[32] Barack Obama, Remarks by the President on a New Beginning, Università del Cairo, 4
giugno 2009.
[33] Cfr. Waleed Hazbun, Beyond the Bush Doctrine, in “Middle East Report”, n. 249, inverno
2008.
[34] Cfr. Kenneth M. Pollack, Options for U.S. Policy Toward Iraq, Testimony Before the
Committee on Foreign Relations The United States Senate, 24 luglio 2013.
[35] John Kerry, To Defeat Terror, We Need the World’s Help. The Threat of ISIS Demands a
Global Coalition, in “The New York Times”, 29 agosto 2014.
[36] Si legga a tal proposito Michael J. Mazarr, The Rise and Fall of the Failed-State Para-
A cura di
OSSERVATORIO DI POLITICA INTERNAZIONALE
Ente di ricerca di
“BLOGLOBAL-LO SGUARDO SUL MONDO”
Associazione culturale per la promozione della conoscenza della politica internazionale
C.F. 98099880787
www.bloglobal.net
Research Paper, N°22 – Settembre 2014
digm, in “Foreign Affairs”, vol. 93, n. 1, gennaio-febbraio 2014.
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