Annibale Carracci nel 1583 dipinge “Il mangiatore di fagioli” (che

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Annibale Carracci nel 1583 dipinge “Il mangiatore di fagioli” (che
Annibale Carracci nel 1583 dipinge “Il mangiatore di fagioli”
(che potete vedere a Roma nella Galleria Colonna).
Il dipinto raffigura, programmaticamente, una scena di vita quotidiana. Seduto a tavola, un
uomo consuma il pasto: una scodella di fagioli, pane, vino e poco altro. Lo sguardo lanciato
oltre il dipinto, mentre la mano stringe la pagnotta come per difenderla, sorveglia diffidente
l'osservatore.
La luce argentata, settentrionale, che entra dalla finestra parla di terreni pesanti, vapori,
nebbie e fatica. Raffigurata esplicitamente come “istante” e passaggio, per via del cucchiaio
di fagioli in equilibrio, la scena diventa essa stessa frammento di una vita vera, di cui si
indovinano con precisione il prima, il dopo, il cielo e l'odore. Intorno al 1583, quando il
dipinto fu realizzato, il mondo a cui appartiene il Mangiafagioli non aveva mai intercettato
gli orizzonti della pittura. Preoccupati di dipingere l'eterno e la sua perfezione, gli artisti si
esercitavano nel riprodurre in serie le fattezze dei nudi atletici di Michelangelo che, secondo
Vasari, aveva stabilito in via definitiva il paradigma dell'arte. Insoddisfatti di quella che
definivano pittura “statuina” (perché le sue figure erano fredde e inanimate come il marmo),
i Carracci – Ludovico innanzitutto, con i cugini più giovani Annibale e Agostino –
dichiararono per primi la fine di quell'esperienza espressiva, che aveva ingabbiato il
Rinascimento in una sfinita ripetizione di se stesso. Il sodalizio inaugurato dai tre Carracci
era detto "Accademia degli Incamminati", per segnare esplicitamente il percorso di
allontanamento da quello stile ormai mummificato. Liberi come forse nessun pittore era
stato prima d'allora, e come essi stessi non sarebbero stati in seguito, verso il 1583 i Carracci
introdussero con toccante, ironica umanità il vero in pittura, dichiarando che la sua dignità
di cosa, vissuta ed evidente, bastava a sé, senza bisogno di travestimenti mitologici
(utilizzati invece, poco dopo, da Caravaggio, nel famoso Bacco degli Uffizi) o
dissimulazioni poetiche. Il mangiafagioli, dunque, è una di quelle scene di genere che,
introdotte all'inizio del Seicento, aprono nell'arte una nuova finestra che inquadrano soggetti
fino ad allora considerati indegni.
I fagioli, i più umili nella gerarchia dei legumi, rappresentano il cibo contadino per
antonomasia, in accordo con l'ambiente povero e l'aspetto popolaresco del protagonista.
Molti vedono nel piatto di fagioli consumati dal protagonista un rinvio al rinnovarsi
dell'interesse per i legumi che il tardo Cinquecento conosce in seguito all'introduzione in
Europa di nuove ed esotiche varietà di fagioli importati dall'America. Ma a ben guardare è
più probabile che si tratti di quel “fagiolo dall'occhio” che costituisce l'antenato autoctono
delle varietà americane, quella pianta già nota ai romani che la importavano dall'Egitto.
Plinio (Naturalis historia, XVIII, 123) e Columella (De re rustica, 2,7,1) ne parlano, e la
consideravano già allora cibo per poveri. Così anche nel Medioevo, quasi mai presenti alla
mensa dei signori, ultori e consumatori di carni di ogni specie. Rabano Mauro ne indicherà
il valore mistico quali simbolo della della continenza e della mortificazione del corpo
(Rabano Mauro, P.L. CXI, col. 506).
Non stupisce tuttavia che nel piatto di quest’affamato uomo senza nome vi siano
principalmente fagioli, da sempre considerati la “carne dei poveri”.

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