continua - Corrado Peligra, pittura grafica ceramica al tempo del

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18 febbraio 2016
GLOBALITÀ, CONTAGIO, "CONTAGIO NEL CONTAGIO": SU UN ARTICOLO DI EMANUELE TREVI
Nel numero di domenica 14 febbraio della "Lettura" Emanuele Trevi propone un intervento dal titolo "Il
contagio", sui fenomeni "virali" del nostro tempo.
Trevi è un intellettuale di buon carattere, realmente disponibile al dibattito e rispettoso perciò delle idee
diverse dalle sue: non ce ne voglia se sottoponiamo il suo articolo a qualche sfavorevole considerazione.
L'intervento è infatti, a mio parere, un significativo esempio di "caduta" intellettuale ("virale", peraltro,
anche questa) da parte di uno scrittore che ha prodotto testi narrativi di ben altra altezza: nel suo Popolo
di legno Trevi ha saputo trarre dalle possibilità contaminatrici offerte dalla nostra postmodernità uno dei
più profondi e suggestivi scavi sulla condizione dell'uomo moderno.
L'intervento contiene, fondamentalmente, una analisi e una "soluzione".
Trevi propone anzitutto la maggiore validità del termine "virale" per designare i fenomeni che
caratterizzano il nostro tempo. Gli sembra, assieme alla metafora del "contagio", più significativo
dell'abusato "globale". E in effetti fenomeni come la sfiducia generata dalla caduta delle Borse o l'orrore
generato dal terrorismo jihadista sono "virali" o "contagiosi", più che globali.
Trevi estende la dimensione contagiosa alla cultura e allo spettacolo. E fa bene, in questo caso: scrittori e
artisti di non grande talento possono godere di una gloria inaspettata se per caso o per volontà si
innescano meccanismi virali.
Trevi richiama illustri casi letterari: La peste di Camus, 1984 di Orwell. Entrambi i romanzi costituiscono
in effetti delle profezie sulle patologie contagiose del nostro tempo.
Trevi propone infine, non senza sottolinearne la paradossalità, una soluzione: "un contagio nel contagio",
l'avvento di una forza contagiosa sì, ma benefica. L'idea scaturisce da un inaspettato riferimento al libro
VII delle Storie di Tito Livio. Nel 364 a. C. Roma è preda di una feroce pestilenza. Uno dei due consoli in
carica non potendo trovare rimedio al contagio trova almeno rimedio alla prostrazione. Fa arrivare a
Roma una compagnia di attori, le cui performance licenziose tra le strade di Roma si rivelano in effetti
beneficamente contagiose: il "bacillo del teatro" coinvolge i giovani che cominciano a imitarli e a
risollevarsi in tal modo dall'abbattimento suscitato dalla peste.
Dove sta dunque la "caduta" di Trevi? La sua analisi confonde anzitutto oggetto e soggetto dei fenomeni
chiamati in causa. I termini "globale" e "globalità" sono esatti e validi se ci riferiamo alla oggettiva
condizione dei fenomeni: globale è l'economia perché c'è una oggettiva e forte interazione tra le diverse
parti del mondo che non può certamente essere considerata "virale"; globale è la cultura del nostro
tempo perché c'è una oggettiva e forte interazione di temi e di codici tra le diverse parti del mondo.
Compilando una antologia per i licei ho messo in evidenza come scrittori cinesi di romanzi polizieschi
abbiano adottato caratteri della narrativa occidentale e, viceversa, non pochi giallisti occidentali abbiano
adottato caratteri della narrativa asiatica. Dove sta in questo caso il contagio, ovvero il coinvolgimento
indotto e automatico, in un fenomeno che al contrario segnala possibilità, risorse e virtualità di una
letteratura che è appunto "globale"?
Avrebbe invece fatto bene, Trevi, a precisare le condizioni soggettive del virale e del contagioso e il loro
carattere di effetto, semmai, della globalità. Sfiducia o euforia possono essere, senza dubbio, effetti virali
della globalità dell'economia: ma la globalità dell'economia sta lì oggettivamente, non è "contagiosa", e il
termine "globale" (o magari, beninteso, qualche suo sinonimo più appropriato a specifiche circostanze)
appare in tal modo insostituibile.
Trevi non distingue appunto tra oggetto e soggetto: la globalità è oggettiva, il contagio soggettivo; i
rispettivi campi semantici possono essere entrambi appropriatamente adoperati.
Circa la soluzione del "contagio nel contagio", talmente imprescindibile nella prospettiva di Trevi da fargli
dire che "non è stata ancora trovata una strategia più efficace di questa", non possiamo che stupirci della
sua "vecchiaia", dunque della sua evidenza e ovvietà, (a parte, s'intende, il suggestivo riferimento a Tito
Livio: è vero, Trevi "vince" anche nel richiamare la letteratura degli altri).
In realtà quella che Trevi sembra proporre come un lampo ispirato si perde nella notte dei tempi: è l'arte,
in effetti, che in qualsiasi epoca si è posta lo scopo di un contagio alternativo e benefico, di segno
opposto ai malefici contagi, veri o metaforici che siano.
Ma l'arte, purtroppo, contiene in sé il malefico antidoto della "integrazione": essa si integra talmente nelle
abitudini e nei fenomeni economici del nostro tempo che il suo potenziale benefico, di scoperta di un
mondo altro, resta indebolito.
La soluzione rigenerante di Trevi, in ultima analisi, è in sé talmente accettabile da essere stata condivisa
da intere generazioni (il riferimento all'antico esempio di Livio lo conferma). In fondo continua a essere
tuttora suggestiva, ma la sua accezione non può che essere categorica, o utopistica. La contemplazione
dei dipinti di Michelangelo, Picasso, Pollock può far intravedere orizzonti inconsueti di riflessione e di
esistenza, ma fino a che punto essi restano come essere al mondo nella nostra coscienza, generando in
tal modo i germi di un contagio contrario?
Romanzi profondi e intensi quali lo stesso Popolo di legno di Trevi possiedono sicuramente i germi dello
spiazzamento mentale e affettivo. Ma le possibilità di contagio antitetico ai nefasti contagi del nostro
tempo sono davvero deboli, o forti solo in rari corpi. Del resto lo stesso Trevi ammette la singolarità
assoluta, assolutamente solitaria e non certo contagiosa, di una "saggezza superiore": "Tutte le forme di
saggezza elaborate dalle culture più diverse hanno in comune una ideale di separazione tanto fisica
quanto spirituale (…). Un buon uso della solitudine è la caratteristica fondamentale dell'uomo dotato in
misura eccezionale di poteri spirituali e di consapevolezza".