3.7. Attività infrastrutturali: le problematiche della finanza. La finanza
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3.7. Attività infrastrutturali: le problematiche della finanza. La finanza
3.7. Attività infrastrutturali: le problematiche della finanza. La finanza offre nuove possibilità alle imprese in termini di occasioni da cogliere in funzione delle opportunità di arbitraggio rese possibili dalle diverse condizioni dei mercati finanziari ed in termini di una più ampia scelta di strumenti finanziari a disposizione. Tutto ciò ha portato al noto fenomeno della “finanziarizzazione” dell’economia, nel suo complesso, e delle imprese, considerate nella loro individualità. In un’ottica funzionale alle decisioni strategiche, le imprese devono imparare a sfruttare appieno le possibilità offerte dai circuiti finanziari internazionali e questo vale, soprattutto, per le grandi Corporate che devono agire, tenendo sotto controllo – e in una visione unitaria – sia gli effetti indotti dai movimenti finanziari sulle economie delle singole unità decentrate, sia l’impatto di tali effetti sulla situazione economicofinanziaria dell’intero sistema aziendale. Per tali motivi, un’attenzione maggiormente focalizzata sulla finanza può essere considerata positivamente se letta come capacità dell’impresa di riuscire a coniugare le conoscenze finanziarie con quelle “reali”, arricchendo, in tal modo, il proprio patrimonio di conoscenze e competenze distintive. Attraverso uno stretto coordinamento della rete internazionale dei flussi finanziari posti in essere nello svolgimento delle attività aziendali e dei circuiti finanziari interni, integrato con il coordinamento dei flussi reali dei beni e dei fattori, le imprese possono porre in essere le azioni più efficaci per ridurre i rischi e i costi delle attività, consentire la promozione di nuove opportunità di investimento con rendimenti marginali crescenti e contribuire, nel lungo periodo, alla crescita del valore economico del capitale. E’ nell’ottica delineata che, la finanza si aggiunge, in una visione sinergica e spesso complementare, alle più tradizionali fonti generatrici del valore – quali il patrimonio di conoscenze scientifiche e tecnologiche cumulato in azienda – ed alle competenze distintive che l’impresa è riuscita ad acquisire. In questa visione sistemica, il coordinamento dei flussi finanziari non è certo un compito facile 1, a causa: – della maggiore integrazione dei mercati finanziari che ha contribuito ad elevare la variabilità delle componenti figurative dell’economia; 1 Per Porter (1987), il coordinamento finanziario delle imprese appartenenti ad una coalizione può risultare più difficile del trasferimento iniziale di una tecnologia necessaria per la costituzione di una consociata all’estero. 105 – dell’accentuato rischio finanziario che discende dalla più elevata possibilità di trasferimento degli aspetti speculativi da un paese ad altri, in misura tanto più ampia quanto più elevata è l’interdipendenza tra gli stessi. Da quanto detto discende il nuovo ruolo della finanza nelle moderne imprese, incentrato su un’ampia varietà di problemi e su tematiche complesse, che evolve verso nuove tecniche e soluzioni organizzative relative ad una finanza sempre più integrata con le altre attività e funzioni d’impresa. 3.7.1. Le determinanti dello sviluppo delle attività finanziarie nelle imprese Molteplici sono le determinanti, a livello macroeconomico, dello sviluppo delle attività finanziarie delle imprese internazionali, del nuovo ruolo assunto dalla finanza nelle scelte decisionali e della nascita di nuovi strumenti finanziari a supporto delle scelte, sia strategiche che operative. Qui di seguito, se ne riportano le principali. L’evoluzione delle tecnologie L’evoluzione e la pervasività delle nuove tecnologie della scienza dell’informazione hanno ampliato i confini della concorrenza, tra imprese e tra settori; le modificazioni del contesto concorrenziale hanno richiesto una diversa risposta delle imprese e hanno contribuito a sviluppare, in questa ottica, un nuovo ruolo della finanza aziendale, vista quale fonte del vantaggio competitivo delle imprese internazionali. Gli operatori dei diversi contesti capitalistici si trovano oggi a negoziare in piazze diverse nei medesimi titoli e divise, ad operare su una piazza per potere investire in un’altra, elaborano politiche di arbitraggio e di speculazione in corsi azionari, obbligazioni, cambi. In aggiunta, il mutato scenario competitivo e la globalizzazione dei mercati finanziari hanno condotto le imprese all’accentramento della gestione operativa dei flussi in valuta e, quindi, del rischio di cambio, con possibilità di hedging e di matching di posizioni di segno diverso, con possibilità di utilizzo di strumenti quali swap e option. Le imprese di più grandi dimensioni e le Corporate hanno sviluppato maggiori conoscenze in materia finanziaria e sono, attualmente, particolarmente attente alla conversione dei valori in valuta estera, alle differenze tra sistemi fiscali, nazionali ed esteri, alle interrelazioni tra prezzi di trasferimento e imposte, tra politica dei prezzi di trasferimento, utili finanziari e vantaggi competitivi. 106 Certo non è facile individuare quale sia il verso e l’intensità della relazione tra livello di integrazione dei mercati, soprattutto finanziari, e sviluppo della tecnologia, anche se va osservato che dalla prima introduzione del Reuter, nel 1973, si è registrata un accelerazione notevole dello sviluppo del processo di integrazione dei mercati, iniziata dalla crisi del sistema di Bretton Woods dei tassi di cambio fissi. Con i progressi della tecnologia informatica e delle telecomunicazioni, sta cambiando, e dovrà ancora di più cambiare, anche il ruolo della contabilità finanziaria nella gestione delle imprese, con un orientamento maggiormente teso alla comunicazione verso l’esterno delle informazioni finanziarie. Già gli attuali reporting finanziari sono diventati progressivamente più complessi, in termini di aumento delle informazioni richieste e dei requisiti che devono possedere 2. La globalizzazione dei mercati La globalizzazione dei mercati (dei beni, dei fattori e dei capitali), intesa come interazione forte dei mercati, nel richiedere un più rapido processo di adattamento delle imprese ad un contesto ambientale articolato e complesso, ha creato nuove opportunità da cogliere e, conseguentemente, l’esigenza di disporre di maggiori e più flessibili risorse finanziarie. Negli scorsi decenni, in ogni paese esisteva essenzialmente un unico mercato finanziario, nel quale venivano scambiate le diverse tipologie di strumenti in esso circolanti. In questa concezione atomistica e fortemente pubblicistica, gli operatori del mercato finanziario erano visti come istituzioni pubbliche al servizio dei privati, non come imprese produttrici di servizi, oggetto esse stesse di iniziative imprenditoriali (Padoa Schioppa, 1995) 3. L’interazione dei mercati finanziari ha, quindi, sovvertito la concezione atomistica, facendo nascere, a livello macro-economico, una visione 2 L’evoluzione dell’informatica dovrebbe permettere la realizzazione di un reporting finanziario formulato come data-base, contenente sia i dati grezzi, necessari per la costruzione dei reporting tradizionali, sia ulteriori informazioni, necessarie per lo sviluppo di analisi innovative. Al riguardo, già alla fine degli anni ottanta, Rappaport (1986), auspicava la nascita di un sistema informativo internazionale che potesse permettere all’analista di comparare, via informatica, i dati relativi ad una singola società con quelli del settore o con indicatori macroeconomici. 3 Per l’Autore, la nuova concezione vede i mercati finanziari come centri di servizi, i cui costi sono congiuntamente sostenuti dai partecipanti ad una sorta di “club” degli aderenti. 107 sistemica di mercato, articolato al suo interno, quanto a normative e a comportamenti degli operatori, ma da considerare in una logica unitaria, quanto ad interconnessione tra le decisioni finanziarie localmente intraprese ed in termini di sovranazionalità degli effetti che da tali decisioni discendono. La globalizzazione, inoltre, considerata come ricerca dell’ubiquità del vantaggio competitivo, ha determinato una focalizzazione dell’attenzione manageriale su nuovi problemi decisionali, riguardanti la localizzazione delle attività d’impresa, la creazione di società finanziarie, spesso captive, l’acquisizione di benefici valutari e fiscali in dipendenza delle differenze tra le normative esistenti nei diversi paesi in materia di rapporti intersocietari e di trasferimento di reddito. Allo sviluppo di una logica sistemica nell’interpretazione dei movimenti finanziari nei mercati finanziari, ha fortemente contribuito la caduta del monopolio dei cambi 4 e della “canalizzazione” bancaria delle operazioni con l’estero5. Nello spazio finanziario comune, la concorrenzialità delle piazze finanziarie, introdotta dall’unificazione internazionale, comporta un’allocazione dei capitali effettuata in un’ottica di vantaggi comparati e, quindi, di arbitraggio tra le diverse opportunità che si manifestano nei singoli mercati; dalla concorrenzialità discende che gli scambi finanziari possono concentrarsi nei mercati più efficienti, in termini di costi e rischi relativi alle diverse attività transazionali intraprese. 4 Prima del recepimento della direttiva Cee (88/361 del 24 giugno 1988) e, quindi, prima delle modifiche normative del maggio 1990, il monopolio dei cambi veniva esercitato da: Ufficio Italiano Cambi; Banca d’Italia; banche e Istituti di credito speciale abilitati dalla Banca d’Italia – o imprese diverse, autorizzate entro determinati limiti e condizioni – che agivano, in proprio nome e conto, compiendo operazioni valutarie e in cambi in contropartita di residenti e non residenti. 5 Con la “canalizzazione delle operazioni valutarie e in cambi”, tutto ciò che è valuta non può essere detenuto liberamente dai residenti, ma il sistema degli operatori abilitati rappresenta il “canale” attraverso il quale devono passare tutti i trasferimenti valutari dall’estero in Italia e dall’Italia all’estero e tutte le operazioni in cambi. Attualmente, le operazioni possono effettuarsi anche al di fuori del sistema degli intermediari abilitati (operazioni “decanalizzate”). Sono caduti, così gli obblighi di versare in conto o cedere agli intermediari abilitati le valute estere e di depositare i titoli esteri presso gli intermediari abilitati. Sono caduti anche i divieti di: costituire depositi, esportare o detenere all’estero disponibilità in valuta o in lire; aprire linee di credito in valuta o in lire a favore dell’estero; effettuare con contropartite estere operazioni in cambi a termine (o con opzione) e operazioni in cambi a pronti (Tutino, 1991). 108 3.7.2. Il campo di azione della finanza d’impresa Nell’ottica delineata, la finanza ha ampliato il suo campo di azione, coinvolgendo al suo interno diverse aree-tematiche, quali: – la pianificazione dei flussi finanziari di medio e lungo periodo riguardanti le politiche di investimento internazionale e le correlate politiche di scelta delle fonti e delle tipologie dei finanziamenti; – la scelta dei criteri di valutazione della conduzione, attuale e prospettica, delle aziende internazionali; – la gestione della tesoreria plurivalutaria, vale a dire, dei surplus/deficit di cassa, generati dai movimenti finanziari in monete diverse da quella nazionale; – le scelte decisionali e tecniche di copertura da adottare per il fronteggiamento dei rischi derivanti dall’incertezza sulle future variazioni dei tassi di cambio; – le azioni finalizzate a cogliere le opportunità derivanti dall’esistenza di anomalie nei mercati finanziari e a coprirsi dai rischi di oscillazione dei tassi di interesse; – le azioni finalizzate a cogliere le opportunità derivanti dalla presenza di carichi fiscali diversi nei vari Paesi, attraverso idonee politiche dei prezzi di trasferimento di beni e servizi tra casa-madre e consociate. Si pone il problema delle determinanti che spingono le imprese a coprirsi dai rischi finanziari e che non possono addursi ad una generica avversione al rischio che, dal punto di vista teorico, è esplicativa più delle scelte di singoli individui di una società piuttosto che di istituzioni e di imprese. La teoria del portafoglio sostiene, come Modigliani e Miller insegnarono sin dal 1950, che il corporate hedging non può avvantaggiare gli azionisti, perché non porta ad una riduzione del costo del capitale; anzi, potendo gli azionisti diversificare il proprio portafoglio 6, vengono meno le ragioni per le quali un’impresa deve effettuare azioni di hedging per la tutela degli azionisti dai rischi finanziari. Va notato, però, che, in un’ottica tradizionale e a livello macro, la possibilità di ridurre i rischi attraverso la diversificazione del portafoglio veniva riconosciuta solo agli investitori che potevano operare in mercati ove era presente un’ampia gamma di titoli azionari in cui investire. Infatti, 6 Un semplice esempio può essere quello di un investitore, possessore di azioni di un’impresa petrolifera, che non volendo essere esposto al rischio di una fluttuazione del prezzo del petrolio, può tutelarsi da una diminuzione dei prezzi del greggio, acquistando azioni di società che, al contrario, beneficiano di una tale situazione, come quelle del settore petrolchimico. 109 si sosteneva che allorquando gli azionisti operavano in ambienti caratterizzati da un azionariato diffuso, tipico dei contesti in cui è dominante la separazione tra proprietà e controllo, potevano in modo efficace sfruttare le opportunità di diversificazione. Un efficiente e plurisettoriale mercato finanziario poteva offrire una più ampia scelta delle azioni da detenere e, quindi, una più elevata flessibilizzazione del portafoglio in funzione delle opportunità che via via si presentavano nel mercato finanziario. Si sosteneva, inoltre, che gli azionisti non potevano essere in grado di operare una efficiente diversificazione dei propri portafogli, allorquando il mercato si caratterizzava per la presenza di una concentrazione del capitale nelle mani di una maggioranza interessata a “controllare” le attività d’impresa. Se da un lato, ciò impediva l’ingresso di terzi estranei nei sistemi decisionali, dall’altro, limitava anche le scelte di investimento delle minoranze. In aggiunta, gli azionisti di maggioranza, al fine di rendere più stabile l’azionariato minore e di controllare anche, indirettamente, i movimenti non speculativi delle azioni sul mercato borsistico, dovevano perseguire l’obiettivo primario di rendere più stabile il ritorno dell’investimento azionario − d’altra parte, è questo l’obiettivo che ha portato alla nascita ed alla affermazione delle azioni di risparmio − e, pertanto, in quest’ottica si poteva considerare l’ipotesi dell’hedging, attuato dalle imprese per la tutela degli azionisti dai rischi finanziari 7. Nell’attuale dinamica ambientale, lo sviluppo delle tecnologie, l’integrazione dei mercati e la globalizzazione hanno ampliato i confini delle scelte ed ampliato le opportunità di investimento 8, per cui anche gli investitori appartenenti a mercati caratterizzati da un azionariato concentrato possono attuare politiche di diversificazione del proprio portafoglio. Se non è l’interesse degli azionisti la determinante principale che spinge l’impresa a coprirsi dai rischi finanziari, i fattori incentivanti si 7 In aggiunta, una opportuna comunicazione esterna delle manovre cautelative di hedging adottate dalle imprese avrebbe potuto rafforzare il legame dell’azionariato minore e generare la premessa per un più stretto “controllo” del mercato da parte delle maggioranze. 8 Alcune ricerche hanno anche dimostrato che una diversificazione internazionale del portafoglio, raggiunta inserendo nello stesso gli investimenti effettuati nei paesi “emergenti”, nei quali può essere elevato anche il rischio politico, migliora il binomio rischio-rendimento del complessivo portafoglio (Jobson e Korkie, 1981; Cosset e Suret, 1995). Queste ricerche non sono pervenute, però, ad una quantificazione degli impatti sui portafogli d’impresa delle crisi politiche e finanziarie dei paesi emergenti. 110 collegano alla possibilità che idonee politiche di copertura e la scelta di appropriati strumenti di hedging possono porre al riparo l’impresa da crisi di liquidità, da una stretta dipendenza da fattori contingenti ed aiutarla, pertanto, ad agire in un’ottica di più lungo periodo, con positivi effetti sul mantenimento o accrescimento del suo valore economico. Quanto detto risulta particolarmente importante in una visione di ambiente soggetto a canbiamenti non solo non controllabili, ma spesso imprevedibili. La maggiore complessità ambientale ha, d’altra parte, contribuito ad aumentare la tipologia dei rischi e la loro intensità. 3.7.3. I pericoli di una finanziarizzazione spinta Il fenomeno della finanziarizzazione può diventare, però, fonte di preoccupazione se letto nella sua determinante speculativa e se i movimenti finanziari presentano deboli connessioni con i movimenti reali generati dalle altre attività d’impresa.; in tal caso, la finanziarizzazione può essere vista come un allontanamento dell’attenzione dei manager d’impresa dal core business e dalle attività volte ad accrescere il patrimonio di conoscenze scientifiche e tecnologiche, unico a garantire l’acquisizione di vantaggi competitivi e la creazione di valore nel lungo periodo. Il consolidamento del fenomeno della debole connessione tra i due movimenti, reali e figurativi, è ancora un dato di fatto della moderna economia, contro tutte le previsioni che, nel passato, davano per certo che l’economia reale e quella figurativa dovessero tornare a marciare assieme. A ciò ha certamente contribuito – oltre alle minori restrizioni governative relative ai movimenti transnazionali dei capitali ed alla deregulation delle istituzioni finanziarie – la nascita di strumenti finanziari innovativi (future, option), i quali hanno ampliato il campo d’azione delle operazioni valutarie dei manager delle imprese internazionali. Tra gli effetti del divorzio tra economia reale e figurativa e, in un circolo vizioso, tra le cause dello stesso, vi è stata la tendenza delle imprese a sfruttare l’incompleta integrazione dei mercati finanziari e le distorsioni in essi presenti, attraverso operazioni finanziarie, spesso di natura speculativa, finalizzate ad accrescere le possibilità di conseguimento di utili finanziari. Discende dalla maggiore finanziarizzazione delle attività d’impresa un aumento, in intensità e volume, dei rischi economico-finanziari a cui le imprese sono esposte. Pur nella consapevolezza che non tutti i rischi possono essere totalmente eliminati, occorre che le imprese imparino a 111 conoscere gli effetti che discendono dalle esposizioni alle diverse tipologie di rischio. In primo luogo, le imprese devono sempre più acquisire una capacità di controllo dei rischi di mercato, vale a dire di quei rischi ai quali sono esposti gli operatori economici in funzione di variazioni sfavorevoli dei prezzi delle attività sottostanti. Il rischio di mercato è, pertanto, il rischio cui è esposta la situazione economico-finanziaria di un’impresa in funzione di variazioni sfavorevoli dei prezzi di mercato delle attività finanziarie che, escludendo le variabili finanziarie legate più strettamente a movimenti speculativi (valori degli indici di borsa), sono: tassi di cambio; prezzi delle commodity e dei titoli; tassi d’interesse. In secondo luogo, le imprese che operano, soprattutto, nei mercati internazionali devono acquisire una capacità di “controllo” dei rischi di credito, legati alla possibilità che la controparte di un’operazione finanziaria non rispetti l’obbligazione assunta entro i termini ed alle condizioni previste dal contratto. 3.7.4. Nuovi problemi per le imprese che discendono dall’accordo di Basilea 2. "Basilea 2" è il nuovo accordo internazionale sui requisiti patrimoniali delle banche. In base ad esso le banche dei paesi aderenti dovranno accantonare quote di capitale proporzionali al rischio derivante dai vari rapporti di credito assunti, valutato attraverso lo strumento del rating. In questa sezione del sito diamo una breve, ma, ci auguriamo, esaustiva informazione sulla storia dell'accordo, sui suoi autori e sui soggetti interessati, sugli scopi e sulle attese conseguenze dell'accordo stesso. Il contenuto del Nuovo Accordo si articola su tre pilastri: 1. I Requisiti patrimoniali minimi E' la parte del nuovo Accordo che più ci importa. E', in sostanza, un affinamento della misura prevista dall'accordo del 1988 che richiedeva un requisito di accantonamento dell'8%. In primo luogo ora si tiene conto del rischio operativo (frodi, caduta dei sistemi; misura in parte riveduta nel giugno 2002) e del rischio di mercato. In secondo luogo, per il rischio di credito, le banche potranno utilizzare metodologie diverse di calcolo dei requisiti. Le metodologie più avanzate permettono di utilizzare sistemi di internal rating, con l'obiettivo di garantire una maggior sensibilità ai rischi senza innalzare né abbassare, in media, il requisito complessivo. La differenziazione dei requisiti in funzione della probabilità d'insolvenza è 112 particolarmente ampia, soprattutto per le banche che adotteranno le metodologie più avanzate. 2. Il controllo delle Banche Centrali Tenendo conto delle strategie aziendali in materia di patrimonializzazione e di assunzione di rischi, le Banche Centrali avranno una maggiore discrezionalità nel valutare l'adeguatezza patrimoniale delle banche, potendo imporre una copertura superiore ai requisiti minimi. 3. Disciplina del Mercato e Trasparenza Sono previste regole di trasparenza per l'informazione al pubblico sui livelli patrimoniali, sui rischi e sulla loro gestione. Sul documento originario di Basilea 2 sono state formulate numerose critiche che hanno portato a modifiche che, pur non cancellando i dubbi, dovrebbero attenuare le conseguenze negative attese dall'applicazione dell'accordo. Quali sono queste conseguenze negative? Sono almeno tre: 1. La discriminazione tra banche (quelle piccole non potranno utilizzare le metodologie più avanzate, quindi subiranno un onere patrimoniale maggiore rispetto ai grandi gruppi); 2. La penalizzazione del finanziamento alle piccole e medie imprese (PMI) indotto dal sistema dei rating interni; 3. Il problema della prociclicità finanziaria (nei periodi di rallentamento economico, l'Accordo avrebbe l'effetto di indurre le banche a ridurre gli impieghi, causa il crescere del rischio, con la potenziale conseguenza di inasprire la crisi stessa). 113