Arona_MELISSA PARKER_1_16

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Arona_MELISSA PARKER_1_16
Danilo Arona
Melissa Parker
e l’incendio perfetto
Il primo episodio della saga italiana dell’horror
dino audino editore
© 2007 Dino Audino
srl unipersonale
via di Monte Brianzo, 91
00186 Roma
www.audinoeditore.it
Coordinamento redazionale
Daniele Aluigi
Stampa: Pomel sas – Via Casilina Vecchia 147 – Roma
Copertina: Duccio Boscoli
Finito di stampare settembre 2007
È vietata la riproduzione, anche parziale, di questo libro,
effettuata con qualsiasi mezzo compresa la fotocopia,
anche ad uso interno o didattico, non autorizzata dall’editore.
“L’istinto di un virus è riprodursi. Un virus
usurpa le strutture viventi in modo da potersi riprodurre”.
Koji Suzuki – Ring
Prima
Maidstone, luglio 1974
Prima dell’incendio perfetto del 2 giugno 2006, Villa Shepherd era
un brutto posto.
Non perché si trovava a pochi chilometri dalla Blue Bell Hill, la tristemente celebre collina del fantasma che di notte si getta contro le
auto di passaggio, ma perché quelle pareti e quella terra irradiavano
malinconia e malumore. Si trattava di un luogo solitario, senza dubbio, situato all’estrema periferia di Maidstone, nella regione inglese
del Kent. Ma finché ci avevano vissuto gli Shepherd, nonostante le
mura vetuste e i dintorni deprimenti, la gente si avvicinava con piacere o al massimo noncuranza, senza dar troppo peso alle assurde
chiacchiere che di tanto in tanto circolavano su Debra.
Aveva undici anni, Debra, nel 1974. A Villa Shepherd fiorivano
splendidi olmi e alberi da frutta nell’appezzamento contiguo, gli animali domestici abbondavano per quantità e tipologie, il torchio del
sidro funzionava a pieno ritmo anche fuori stagione.
Non che la famiglia Shepherd fosse indenne da problemi. Debra
ad esempio viveva incubi, terrificanti incubi notturni, sin dalla più
tenera età. Ma l’equilibrio, suo e dei genitori, le aveva concesso per
parecchi anni di distinguere il giorno dalla notte, l’illusione dal reale.
Quell’anno accadde però qualcosa di diverso. Era la mattina già
invasa dall’aurora del 13 luglio, poco dopo le cinque. Come in
numerose altre occasioni, Debra urlò nel sonno con voce rotta dalla
disperazione. I genitori, sempre all’erta e vigili, accorsero accanto a
lei ed enorme fu il loro sconcerto alla vista del sangue sulla fronte e
sulla ginocchia della figlia. Lì per lì interpretarono che Debra soffrisse di sonnambulismo e fosse magari caduta da qualche parte in giro
per la casa. Nei giorni successivi, però, Ted Shepherd lesse sui giornali locali della strana esperienza accaduta al muratore Maurice
Goodenough, uno dei tanti – troppi – che dichiaravano di avere
avuto un incontro notturno ravvicinato con il fantasma femminile
della collina e ne ricavò una sensazione più che sgradevole. Primo
e forse unico automobilista a dare una descrizione del tutto anomala e “fuori schema” dell’autostoppista fantasma, Goodenough riferiva di avere investito nelle primissime ore del 13 luglio una ragazzina sui dieci-undici anni e di averla persino soccorsa, dal momento
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che presentava vistose ferite alla fronte e alle ginocchia. Tranne per
il particolare di abiti troppo grandi per una di quell’età, la descrizione di Goodenough calzava a pennello con le fattezze di Debra.
Ted era sconcertato. Goodenough riportava di avere lasciato la
bambina ferita sulla banchina laterale della A229 e di essere tornato
sul luogo dell’incidente assieme ai poliziotti di Maidstone una mezz’ora dopo e di non avere più trovato nessuno. Se non fosse stato
per il particolare indigeribile dei chilometri che, per quanto pochi,
mai Debra sarebbe stata in grado di percorrere a piedi da casa sua
per raggiungere la Blue Bell Hill, la tentazione di reputare possibile
la presenza della figlia lassù sulla collina si dimostrava ben più che
tangibile.
Quell’incubo però inaugurò a suo modo una fase di quiete nei
problemi notturni di Debra. Ted non l’avrebbe mai saputo, ma tanta
benefattrice registrava sembianze adulte del tutto corrispondenti a
quelle del fantasma notturno della Blue Bell Hill, una ragazza investita in una buia e nebbiosa mattina di dicembre del 1965 proprio
sulla sommità della collina. Si chiamava Melissa Parker e avrebbe
dovuto sposarsi due giorni dopo. Invece morì in modo orribile. La
macchina investitrice la travolse e la trascinò sotto le ruote prima di
schiantarsi contro il guardrail posto sul lato destro della strada. L’auto
prese fuoco quasi subito, permettendo al giovane autista di buttarsi
fuori dall’abitacolo un secondo prima del necessario, ma condannando Melissa a finire carbonizzata.
La nuova amica che irruppe nella vita di Debra Shepherd nel
luglio del ’74, il pomeriggio dopo quell’incubo straordinario dove
non mancava neppure del sangue vero, si chiamava proprio
Melissa, dimostrava sui venticinque anni, aveva capelli biondi che
incorniciavano una faccia tondeggiante e pallida e calzava una
gonna da cerimonia con camicia merlettata sotto un ampio lightish
fuori moda, il collo circondato da una vistosa sciarpa rossa. Si manifestò a Debra nel granaio, un luogo ideale per essere popolato dall’immaginazione di una adolescente con troppi incubi alle spalle.
Un posto sempre magicamente percorso da creature invisibili che
segnalavano la loro presenza di minuto in minuto attraverso le
migliaia di scricchiolii e rumori anomali prodotti dalle travi del sottotetto. Folletti, uccellini, topi, trolls e tarme: il regno dell’altro
mondo.
“Debra…”
Debra la riconobbe quasi subito. O, meglio, pur non avendola mai
vista direttamente, sapeva bene chi era.
Le sorrise e le chiese:
“Sei la ragazza della collina?”.
L’altra avanzò dall’angolo in ombra verso di lei, facendosi vedere.
E le rispose a suo modo:
“Sono Melissa”.
“Allora sei lei.”
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A quella certezza la ragazza bionda rispose con un sorriso e in
Debra crebbe l’autentica sensazione della prima, forse unica, amicizia della sua vita troppo solitaria.
“Usciamo dal granaio”, le propose Melissa. “È ora che tu impari a
camminare col fuoco.”
Presero la strada che, attraverso i campi, portava verso la collina
maledetta. Quando giunsero in prossimità dei megaliti, la nuova e
più adulta amica le fece segno di fermarsi.
“Sediamoci qui, sull’erba”, le disse quella strana ragazza i cui contorni sembravano sfumare, anzi fumare, confondendosi tra i colori
accesi del paesaggio circostante.
Debra obbedì. Non si sentiva in preda a quella che qualche scrittore avrebbe potuto definire come “una strana malìa”. Avvertiva la
sensazione, imprecisa come tutte le sensazioni, di avere ritrovato una
parte mancante. Assente dal suo corpo e dalla sua anima sin da
quando era venuta al mondo. Forse, addirittura, da prima.
Si lasciò andare sul manto erboso la cui colorazione verdastra già
andava sbiadendo. L’altra le si accovacciò accanto e la temperatura
attorno parve aumentare di parecchi gradi.
“Così tu sei capace di entrare nei miei sogni, Debra?”
“Uhm…”
“Non sai cosa rispondere?”
“A me sembra che sei tu a entrare nei miei.”
“Io? No, io no. Io sto dormendo da nove anni. E in questo momento sto sognando, Debra. E tu ancora una volta stai dentro il mio
sogno.”
“Ma io, Melissa, non sto dormendo. Io ora sono sveglia. E tu stai
qui accanto a me.”
“Allora la tua vita è il mio sogno.”
“No, sei arrivata di colpo. Prima non c’eri.”
“Ma allora perché ci siamo incontrate? Chi delle due ha trovato per
prima l’altra?”
“Io non lo so.”
“Ma t’interessa camminare con il fuoco accanto?”
“Prima mi hai detto che è arrivata l’ora, che devo imparare.”
“Mi cerchi in sogno e mi trovi. Il fuoco è il cuore del sogno. Ma,
se non impari a gestirlo, anche tu puoi bruciare con lui.”
“Allora insegnami.”
“Non è come a scuola. Non è una lezione che si ascolta da qualcuno che sta parlando. Io devo entrare in te. E diventare fuoco lì
dentro. Quando tu lo sentirai avvampare, non dovrai far nient’altro
che pensare a un’unica, magica frase.”
“Fuoco, cammina con me.”
“Esatto. Tutto ti sarà più facile e chiaro. Se vuoi, possiamo tentare
una prova adesso.”
“Adesso? In questo momento? Proprio adesso?”
“Sì, chiudi gli occhi.”
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Debra obbedì. Il calore le crebbe dentro. Poi, nel giro di pochi
secondi, il buio della visione occlusa al mondo esterno si stemperò
in un azzurro di cielo. Era sospesa nell’aria, a decine di metri al di
sopra del sito archeologico così somigliante, in piccolo, a quello di
Stonehenge, famoso in tutto il mondo. Lo contemplò da quell’inedita posizione, ammirandone la perfetta forma circolare. E, nella sincerità di quella venerazione, qualcosa proruppe da dentro lei, una
specie di affetto incondizionato per la bellezza e per i valori sconosciuti del mondo.
Attorno all’insediamento megalitico si disegnò di colpo sull’erba,
vergato da un gigantesco e invisibile compasso, una specie di cerchio rossastro e crepitante.
Il fuoco sta volando e deve solo imparare a camminare! E io con lui!
Spalancò gli occhi d’improvviso, strappata alla trance da grida
inopportune. Gente – ma non estranei, bensì i suoi familiari – che
stava urlando: Il fuoco, il fuoco, su alla Kit’s Coty! Si alzò in piedi
allarmata, scoprendo all’istante di essersi addormentata nella calura
del pomeriggio estivo e di avere vissuto un brevissimo flash onirico
in compagnia del fantasma della collina. Si precipitò alla finestrella
del granaio e con orrore scoprì il fumo che si stava levando dalle
parti delle rovine megalitiche della Blue Bell Hill.
Il fuoco camminava anche senza di lei.
Maidstone, settembre 1974
Percorrendo in auto la A229 tra Chatham e Maidstone, una notte,
poco dopo mezzanotte, un uomo avvistò una ragazzina sugli undici-dodici anni che chiedeva un passaggio sulla sommità della Blue
Bell Hill. L’uomo si fermò, fece scorrere la leva del finestrino e, data
la giovanissima età dell’autostoppista, chiese con stupore:
“Cosa fai qui a quest’ora di notte tutta sola?”.
Quell’uomo era una brava persona. Si chiamava Alfred Dawkins,
quarantacinque anni e andava in giro per il Kent a vendere cosmetici, saponette e creme da barba. La ragazzina gli rispose, pregandolo di riportarla a casa alla periferia di Maidstone. Lui aprì lo sportello e lei, vestita in modo bizzarro con abiti più grossi della sua taglia
e una grande sciarpa rossa, gli diede il suo indirizzo.
Casa Shepherd alla periferia sud. Lei disse di chiamarsi Melissa
Shepherd. Lui non doveva neppure cambiare il senso di marcia.
Melissa però, in quello che pareva uno stato di estrema eccitazione, iniziò a parlare in continuazione. Di tutto e il contrario di tutto.
E a un certo punto disse qualcosa di così stonato e fuori posto che
al signor Dawkins si ghiacciò il sangue nelle vene.
“Faccia presto, signore. Domattina mi devo sposare.”
Dawkins girò lo sguardo e la contemplò con occhi del tutto diversi da qualche istante prima. Come tutti in quella zona conosceva alla
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perfezione le dicerie sui fantasmi della collina. Ma questa ragazzina
appariva solida e tangibile, per quanto alterata nella mente e nel
comportamento.
“Sposarti? Ma sei una bambina!”
“Grazie, signore. Me lo dicono tutti che dimostro meno anni di
quelli che ho.”
“E quanti anni avresti?”
“Ne ho fatti 24 a dicembre.”
“Ma smettila!”
“Non c’è problema, signore. Mio padre sarà in grado di confermarglielo.”
“Tuo padre?”
“Mio papà… Ted.”
“Già. Ted.”
Alfred Dawkins decise di tacere e di non darle corda. Tanto lei, di
sicuro, da lì a pochi secondi, avrebbe escogitato nuovi pretesti per
aprire bocca. Per fortuna apparve il cartello di Maidstone.
“È la seconda, dopo la curva.”
Una ragazzina sveglia, ben presente. Troppo sveglia, forse, e
oltremodo loquace. La casa si mostrava leggermente rientrante fra i
campi, separata dalla strada da un breve sterrato. Era una vecchia
tenuta di campagna, rossi mattoni pieni e rampicanti che l’avviluppavano. Ma, a parere di Dawkins, dentro un’abitazione nella quale
una bambina mancava all’appello parecchi minuti dopo la mezzanotte le luci avrebbero dovute essere accese. Tutte. E i genitori
avrebbero dovuto ululare per l’angoscia. Invece nulla. Tutto pareva
essere sospeso nella quiete e nel buio.
Quale bidone mi stanno tirando?
Dawkins frenò la macchina all’inizio del sentiero. Decise al volo:
prima avrebbe controllato. Qualcosa puzzava.
“Resta qui.”
“Perché, signore? Quella è casa mia.”
“Resta qui. Prima voglio vedere se ci vive sul serio qualcuno.”
“Mio papà Ted, mia mamma Cinthya…”
“Resta qui, accidenti!”
Rabbuiato per l’incresciosa situazione ma ben deciso a non retrocedere dalla sua decisione, Ted uscì dall’auto e si diresse con decisione verso il cancello di casa Shepherd. Vide un campanello a bottone e pigiò, avvertendo subito davanti a lui un fastidioso e inquietante trillare che risuonava all’interno della casa. Trascorsero almeno
venti, interminabili secondi. Quindi al primo piano, al di sopra di un
portico, si materializzarono delle luci. Rumori della finestra sovrastante che si stava aprendo e una sagoma nerastra, maschile, che si
stagliava nel sottofondo illuminato. Una voce minacciosa che pareva
un ringhio animale.
“Chi cazzo c’è?”
Alfred non perse neppure un secondo a pensarci. E buttò fuori
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tutto il fiato che poteva permettersi, pensando anche ad apparire il
più possibile cordiale e per niente minaccioso.
“Signor Shepherd?”
“Chi è?”
“Sono Dawkins di Chatam. Ho trovato sua figlia.”
“Cosa stai dicendo, mammalucco?”
Tutto il contrario di quello che desiderava ottenere. Certo, di
sicuro lui non si sarebbe comportato molto diversamente. Un estraneo nel buio che ti suonava alla porta di casa troppi minuti dopo
la mezzanotte nelle campagne del Kent non sarebbe mai stato il
benvenuto.
Ma, per tutti i diavoli dell’inferno, questo che mi sta apostrofando
come mammalucco si è perso la figlia sulla Blue Bell Hill e io gliela
sto riportando a casa. Accidenti, mi meriterei una ben altra accoglienza!
“Aspetti, signor Shepherd. Vado a prenderla! ”
Dalla sagoma nera affacciata alla finestra partì un altro genere
d’improperio.
“L’hai mandata giù con l’imbuto, Dawkins di Chatam? Quanta
birra ti sei scolato? ”
“Signore, aspetti un attimo. Qui c’è sua figlia Melissa!”
“Mia figlia CHI? ”
Dawkins tornò alla macchina e aprì la portiera dalla parte del passeggero. Rimase sbigottito. La ragazzina, Melissa, era scomparsa.
Strano: non aveva sentito aprirsi lo sportello e lei non si vedeva da
nessuna parte. Come minimo avrebbe dovuto dirigersi in direzione
di casa sua, verso quel padre volgare e iracondo che lo aveva appena apostrofato come un inveterato ubriacone.
“Melissa, accidenti, dove ti sei cacciata?”
Alle spalle di Alfred Dawkins si udì un’altra tipologia di rumore
notturno. Scale che venivano percorse in discesa da piedi inciabattati, più voci – almeno una donna di certo – che imprecavano all’unisono. E la luce esterna che si accendeva sotto il portico. Ted stava
uscendo per chiedere spiegazioni.
Alfred tornò ancora dalle parti del cancello. Sicuro che non avrebbe lesinato sulla spiegazione: chi avrebbe potuto guidarlo nel cuore
della notte alla porta di una casa sconosciuta di cui conosceva il proprietario per nome? La parente più prossima: Melissa, la figlia di Ted,
che per forza era sgaiattolata dall’interno della macchina e adesso se
ne stava quietamente nascosta in qualche angolo oscuro del portico
o del giardino. Per non prenderle di santa ragione dal nerboruto
padre.
Nerboruto proprio no, ma stava uscendo. Vestaglia, sciarpa e ciabatte. Con una donna sciatta e spettinata alle sue spalle. Adirato sì, ma
niente armadio umano. Uomo normale, forse più spaventato di lui.
“Adesso mi spiegherai, Dawkins di Chatam!”
Ted Shepherd stava avanzando. Oltre la quarantina, come lui, ma
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sovrappeso ed enfisematico. Persino nell’oscurità gli potevi scorgere
l’occhio cisposo e il pallore malaticcio di chi è stato svegliato di
soprassalto. In ogni caso il cancello restava chiuso, un salutare confine di salvataggio per ambedue.
“Signore, mi scusi”, belò Dawkins, tentando di sembrare l’agnello
che non era. “Lei ha una figlia? Sugli undici, dodici anni?”
“Qual è il problema? E cerca di suonare convincente!”
“Signore, la prego. Sono un onesto commerciante e non mi sto
divertendo. Torno a casa dopo una giornata di lavoro e a Chatam
anch’io ho moglie e un figlio.”
“Vieni al sodo!”
“Sua figlia, o perlomeno una ragazzina che mi dichiarato di essere
tale, stava sulla mia macchina sino a mezzo minuto fa. Mi ha chiesto
un passaggio sulla cima della Blue Bell. Mi ha detto di chiamarsi
Melissa e che lei si chiama Ted, mentre il nome di sua moglie è
Cinthya.”
Ringhiò ancora Ted Shepherd, ma Alfred avvertì che la voce dell’altro al di là delle sbarre prendeva a incrinarsi. Si capiva che i conti
comunque non gli tornavano.
“Tutto vero, Dawkins. Ma nostra figlia l’abbiamo chiamata Debra.
E sta dormendo in camera sua.”
“Signor Shepherd, ne è certo?”
“Accidenti, sta lì! Dietro mia moglie.”
Per darne conferma all’inopportuno visitatore notturno Ted si scostò di un metro. Così Dawkins poté meglio vedere la sagoma di
Cinthya. Ma non solo la donna: seminascosta alle spalle della donna,
la figuretta – inconfondibile per lui – di Melissa, spettinatissima come
le ragazze che hanno dormito per troppo tempo agitandosi nel
sonno, faceva timido capolino per capire le ragioni di tanto trambusto notturno.
“Non è possibile… Melissa! EHI, MELISSA!”
“Si chiama Debra.”
Ted si era fatto più sotto, quasi a voler infilare la sua faccia ostile
tra le sbarre del cancello. Alfred, pur non capendoci più nulla, capì
che l’insistenza, a quel punto, non gli avrebbe giovato per nulla.
Decise di girare i tacchi.
Mormorò parole di scusa, quasi inintellegibili dall’altro uomo al di
là del cancello.
Ma come aveva fatto quella ragazzina a passargli davanti, saltare il
cancello, filarsene in casa, svestirsi e mettersi il pigiama nel giro di
pochissimi secondi e senza che lui se ne accorgesse? Accidenti,
quant’era pestifera!
Sotto il portico di casa Shepherd, mentre Debra trotterellava assonnata verso la cucina per prendersi un bicchiere d’acqua, Cinthya si
avvicinò al marito che osservava con astio quell’intruso rompiscatole allontanarsi in direzione del centro di Maidstone.
Lui si voltò. La guardò. Non disse nulla, ma scrollò la testa.
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Lei sussurrò con labbra tremanti:
“Che sta succedendo, Ted?”.
“Nulla, donna”, rimasticò Ted senza convinzione. “Un ubriaco…
soltanto un ubriaco.”
“Sapeva i nostri nomi.”
“E allora?”
“Ted… Questa cosa è già accaduta. Non far finta di nulla.”
Ted puntò dritto verso casa. Non sapeva proprio che rispondere.
Dal libro The Arsonist di Herbert D. James,
Viking Press, New York 1980, pag. 34.
Noi stiamo viaggiando.
Noi stiamo scappando.
Noi siamo io e lei e viaggiamo (scappiamo!) da troppo tempo a
bordo della mia Toyota precocemente invecchiata e segnata da una
profonda ammaccatura sulla fiancata destra. Io sono io, Chris
Nichols, ma lei?
È difficile dirlo, è difficile saperlo.
Si chiama Melissa. È bionda e in certi momenti pare proprio una
bambina. Ma credo che abbia non meno di sedici anni, anche se lei
in realtà non me ne ha mai veramente parlato. Quest’assenza di dati
è un punto a suo favore. Una delle cause per cui mi sento sempre
più svuotato.
Sì, è chiaro. È lei che comanda, che mi conduce in giro. Io sono
soltanto quello che guida la jeep e lei fa udire la voce nei momenti
opportuni. Gira di qua, a sinistra c’è un bivio, tra dieci chilometri
incontreremo il paese di Vattelapesca oppure Dopo quella curva
vedrai una stazione di servizio, ma attenzione che potrebbe esserci
anche uno di loro! Io non conosco queste zone, oppure le conosco
ma non le ricordo più. Lei invece sembra proprio conoscerle bene.
Gìà, ma queste zone a quale pianeta appartengono?
Chilometri di campagna depressa, piccole stazioni di servizio, le
strade che si trasformano in continuazione da superstrade in strette
vie provinciali e viceversa. Poi ci sono i motel, uno ogni venti chilometri e così assaporo in certe notti il sollievo di un lenzuolo quasi
pulito e la piccola, rassicurante luce sopra un comodino di fianco al
letto.
In questi motel o ci scambiano per fratello e sorella o per una strana coppia di precoci pervertiti. Lo si capisce da come ci guardano
quando ci dirigiamo al banco d’accettazione. Ma si sbagliano.
Quando non parla, lei dorme come un cucciolo infreddolito, tutta
rannicchiata dalla sua parte, e io allora mi chiedo dove mi trovo e
cosa voglio fare di me domani. Lei però dorme pochissimo perché
sta sempre in allarme. Si sveglia di colpo, quasi sempre dopo le cinque del mattino
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h 5,20 di un giorno non qualsiasi
e mi costringe a parlare. Strani discorsi. Non solo per una che ha
più o meno quell’età, ma strani per qualsiasi età.
Lei è in giro per il mondo, senza più madre e padre, perché loro
la stanno cercando ovunque, in ogni angolo del pianeta. Loro vogliono estirpare il potere celato dietro i suoi occhi. Loro. Una setta, il
sistema, gli eserciti riuniti della Terra, ma sono sempre loro, QuelliVestiti-di-Nero che non ti mollano mai e ti tallonano invisibili. Quelli
che controllano la Rete, invisibili Webmaster che nei momenti morti
adorano il Sole.
Io sono quello che guida, colui che la sta aiutando a scappare e a
nascondersi.
Sento puzza in questa piccola, soffocante camera con due letti a
una piazza. Puzza di chiuso e puzza di attesa. I miei nervi sono in
allerta. Sto tremando. Alcune ore fa la vecchia che ci ha accolto nell’atrio si è accorta subito che i nostri documenti d’identità faticavano
a uscire dalle tasche e mi ha passato le chiavi, prendendo i soldi in
anticipo e senza scrivere nulla. Adesso siamo qui dentro da troppo
tempo. Io mi sono lasciato andare sopra una poltroncina e guardo
nel vuoto, nel buio. Lei ondeggia ossessiva sopra il letto. Non si è
svestita. Attende.
“Cosa sta succedendo?”, le chiedo.
Melissa indugia per alcuni secondi e per colpa del buio (lei vuole
così) ne ignoro l’espressione. Poi risponde:
“La vecchia ha chiamato qualcuno al telefono”.
“Quando?”
“Dieci minuti fa.”
“E allora?”
“Sono arrivati.”
Oh, Cristo, ma io devo saperne di più. Basta enigmi e mezze frasi.
Da quanto tempo stiamo in giro? Quante ne abbiamo passate? Santo
cielo, io… io me lo sto dimenticando. Ma tu, ma tu come fai a sapere che loro sono arrivati?
“Lo so e basta”, risponde ad alta voce al mio pensiero. “E anche
loro lo vogliono sapere. Vogliono entrare nella mia testa. Io non
posso permetterlo.”
“Cosa stai per fare?”, piagnucolo.
Lei fa un mezzo sorrisetto. Ed è tutto molto strano perché sino a
pochi istanti fa la camera stava sprofondata nel buio e io non distinguevo il volto di Melissa. Adesso continua a essere buio e vedo i suoi
occhi risplendere di luce rossastra. Mentre fuori…
“Melissa!”
Qualcosa avvampa a pochi metri dal motel e dalla finestra semiaperta un’esplosione di luce illumina per un istante e quasi a giorno
ogni particolare nella nostra camera: il suo modesto vestito da viaggio, il nostro piccolo bagaglio, i suoi occhi.
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Danilo Arona
Dio Santo, i suoi occhi…
Mi alzo e vado alla finestra.
“C’è della gente là dentro? Melissa, non me lo dire!”
La struttura dell’automobile, chissà di che marca, sta bruciando.
Dentro, tra fumo e surreali guizzi arancioni, quattro forme umanoidi
si agitano come marionette scomposte. Urlano che non si possono
stare a sentire.
E Melissa accanto a me che ridacchia.
Tra pochissimi minuti riprenderemo a viaggiare.
Noi, io e lei.
Io, Chris Nichols. E lei che forse è la Lolita di Nabokov, la Addie
Loggins di Paper Moon o la Angie Maule della Casa dei fantasmi. Lei
che adesso si è di nuovo coricata (pochi secondi per riequilibrare i
sali minerali che le si scompensano a ogni innesco) e si tira la coperta sino al mento. Sino alle orecchie.
Perché la bambina che è in lei non vuole proprio sentire quelle
quattro torce umane mentre gridano aiuto.
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Dopo
Bassavilla, gennaio 2005
1.
Si trattò di un’escalation, cominciata in sordina nel nuovo anno, il
2005. Con eventi inspiegabili e assurdi ai quali all’inizio non si poneva la giusta attenzione, un po’ com’era accaduto in un paesino siciliano che si chiama Canneto. Stesso genere d’incidenti e di misteri
legati al fuoco. Al che, in pochi giorni, la storia dilagò.
ANSA, Bassavilla, 4 gennaio 2005. Cose straordinarie succedono da
un paio di giorni, al rione Orti, il quartiere della città cresciuto negli
anni a ridosso del fiume Tanaro. Straordinarie a tal punto che ripropongono un antico e sempre insoluto dilemma: il mistero contro la
scienza, la superstizione contro la razionalità. “Sono arrivati i fuochi.
Prima dal telefono a muro e poi dallo schermo della TV. I vigili urbani volevano farmi dormire all’aperto, dentro le macchine – dichiara
Maurizio Casella, ottantaquattro anni, accogliendoci nel salotto illuminato da una lampada a gas e con la classica coperta sotto braccio – Eh,
no, l’ho già fatto troppe volte. In guerra, durante le alluvioni, anche per
l’ultimo terremoto.” Il Casella è stato solo l’ultimo in ordine di tempo a
essere stato colpito dal fenomeno, che evoca certi film dell’orrore.
Racconta il nipote Antonino Andronico, ventidue anni, secondo anno
di Università: “Domenica alle 18,45 tornavo dalla stazione. Ho visto che
da casa usciva fumo. Mi sembrava impossibile. Da sabato siamo senza
luce, ci è stata tolta anche quella dei gruppi elettrogeni”. Eppure il contatore era in fiamme. “Lo abbiamo spento con gli estintori di cui ci
hanno dotato i pompieri da quando è cominciato questo incubo.”
Ovvero da quando Giancarlo Larizza, quarantatré anni, assicuratore, ha
dato l’allarme: “Abbiamo incominciato a notare cose strane: fili che si
annerivano, spina della tv e televisore che si surriscaldavano, fumo che
si sprigionava, tende, copriletti e divani che prendevano fuoco.
Pensavamo dipendesse dall’impianto elettrico, lo abbiamo rifatto, non
è cambiato niente, abbiamo chiamato l’Enel, punto e a capo. Fuoco,
fumo e fiamme. L’Enel ci isola, mi rivolgo alle Ferrovie, escludono ogni
possibilità di dispersione dalla linea elettrica”. La piaga si propaga alle
altre case, tutte di parenti suoi. Sabato, dopo l’incontro con il sindaco
e reiterate proteste si insediano i vigili del fuoco. Ma, domenica pomeriggio, agli sposini Lucia Viola e Paolo Mana succede l’impensabile: nel
loro nuovo appartamento, elettricamente isolato, dove avevano
ammucchiato mobili ed elettromestici, scoppia il solito misterioso
incendio. Tutto va in fumo. Il mistero dilaga. Le case più colpite sembrano essere quelle a ridosso del fiume Tanaro.
13
Danilo Arona
ANSA. Bassavilla, 5 gennaio 2005. Esplode il televisore e muore una
bimba di quattro anni. Due fratellini che si sono appena addormentati nella loro camera davanti alla televisione accesa. Lui di sei
anni, la piccola di quattro. Poi, intorno alla mezzanotte, l’imprevedibile. Il televisore che esplode, le fiamme e il fumo che invadono la
stanza. Il maschietto si sveglia e riesce a uscire. La piccola non ce la
fa e muore per l’incendio causato dall’esplosione del televisore. A
dare l’allarme sono stati alcuni vicini, ma quando i vigili del fuoco
sono arrivati, per la bambina non c’era ormai più nulla da fare. Gli
stessi vigili del fuoco hanno impedito che l’incendio si propagasse
ad altre stanze dell’abitazione. La famiglia è sotto choc. Il fratellino è
stato ricoverato all’ospedale per intossicazione. La madre è stata
colta da malore e ha tentato il suicidio.
ANSA, Bassavilla, 6 gennaio 2005. Incendio causato da una TV,
grave bimba di sette anni. Tre persone – una bambina di sette anni,
la madre e un vigile del fuoco intervenuto per salvarle – sono rimaste ferite ieri sera in città. Le condizioni della bimba sono gravi, mentre non destano preoccupazioni quelle della mamma e del pompiere. Secondo una prima ricostruzione dell’accaduto, verso le 23,30 le
fiamme si sono sviluppate in un’abitazione al piano rialzato in via del
Prato e i vicini dello stabile hanno dato l’allarme vedendo il fumo
provenire dalle finestre. L’incendio è stato provocato da un televisore lasciato acceso e andato a fuoco. Sul posto sono giunti diversi
mezzi dei vigili del fuoco, auto mediche e ambulanze. Un caposquadra dei pompieri è entrato nella casa ed è riuscito a salvare per
prima la bambina. Ma nella fretta non ha indossato la maschera protettiva ed è rimasto anche lui intossiccato: è stato poi ricoverato all’ospedale San Paolo. La madre della bimba – di cui non è ancora noto
il nome – è stata a sua volta soccorsa e ora si trova all’ospedale civile. Preoccupanti invece le condizioni della figlioletta: è stata trasportata alla clinica Salus e si sta cercando una camera iperbarica disponibile per la terapia intensiva.
ANSA, Bassavilla, 6 gennaio 2005. Il vigile del fuoco Silvio Bernardi
è stato oggi testimone di un altro assurdo incendio sviluppatosi
senza ragione apparente. Chiamato in tarda mattinata assieme ad
altri colleghi in seguito a una colonna di fumo levatasi da una casa
diroccata in un quartiere periferico, il Bernardi ha dapprima constatato che la costruzione non mostrava nessun danno riconducibile
all’azione del fuoco; ma, ispezionando l’interno, il caposquadra si è
imbattuto nel corpo incendiato di un vagabondo, conosciuto dagli
abitanti del posto con il nome di “Putrella”. “A livello dell’addome
c’era uno squarcio di circa 10 centimetri”, ha dichiarato Bernardi. “La
fiamma usciva da quello spacco con forza, come in una lampada a
gas.” Per spegnere quella fiamma, Bernardi ha dovuto introdurre l’idrante nel corpo del vagabondo, estinguendo il fuoco, come da lui
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Melissa Parker e l’incendio perfetto
stesso detto, alla sua origine. “Non ho alcun dubbio che la combustione sia iniziata all’interno del corpo”, ha concluso il pompiere. La
magistratura ha aperto un’inchiesta.
ANSA, Bassavilla, 7 gennaio 2005. Annunciati da due giorni di strani incidenti pirotecnici con persone perite per apparente autocombustione spontanea e orripilanti disgrazie consumate davanti al televisore di casa, questa mattina sono arrivati gli incendi, favoriti da una
lunghissima siccità invernale. Posta in una conca e circondata da colline che bruciano, Bassavilla è colpita sin dalle prime ore della giornata dalle ceneri che piovono dai boschi circostanti, mentre un’enorme nube grigio-biancastra ha trasformato il sole invernale in una
lugubre sfera grigiastra, l’occhio cieco e insonne di uno mostro spietato e vasto quanto il cielo. Stanno infuriando sette diversi incendi,
e i due più grandi – il primo sulla Colla di Valenza e il secondo nella
zona di Fubine – si sono fusi in un unico muro lungo quaranta chilometri. Stanno affluendo mezzi d’emergenza da Torino, Milano e
Genova, ma intanto il panico si sta insinuando nella popolazione.
Qualcuno inizia già a fuggire dalla città prendendo per la tangenziale in direzione Lombardia, dove il fuoco non ha per fortuna attecchito. Parecchie case in collina e in campagna sono andate distrutte
e la Protezione Civile segnala i primi decessi per asfissia. La speranza è che non si alzi il Phön, il famigerato vento caldo delle Alpi
Svizzere che amplierebbe a dismisura i fronti dei fuochi. Dove infatti soffia il vento delle streghe, una scintilla si trasforma in un rogo.
Quel fuoco aveva iniziato a crepitare in una piovosa sera di ottobre del 2004.
2.
Quella sera, in un’elegante casa ristrutturata del centro di
Bassavilla, mentre fuori stava diluviando e l’asfalto sconnesso eruttava folate di vapore puzzolente e bianchiccio, due ragazzine di undici anni tentavano di ammazzare il tempo trastullandosi con la TV e
il videoregistratore. Da parecchio tempo la loro tecnologica baby sitter tentava di tradirle con imprevedibili immagini di paura che provenivano da qualche Altrove di cui loro non intendevano proprio
approfondire l’esistenza.
E, mentre i genitori si trovavano a tavola in un’altra zona del vasto
appartamento intenti a cenare e a discutere delle futilità del mondo
adulto, Sara e Miriam si contendevano il telecomando con il risultato snervante del continuo cambio di canale.
A un certo punto, Sara si soffermò sull’immagine della bella giornalista del TG5 che stava leggendo una notizia. Quella storia, pur
non interessandola e forse un po’ al di là della sua comprensione,
catturò la sua attenzione. E per qualche minuto il canale restò sempre quello.
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Danilo Arona
In Giappone casi di morte collettiva, veri e propri suicidi di gruppo,
stanno tenendo in seria apprensione le istituzioni. Saitama,
Fukuoka, Sasayama, Tokyo. Luoghi diversi, stessa trama. Da diverse
parti del Paese, ragazzi interagiscono via Internet per pianificare un
suicidio collettivo. Da sempre con alto tasso di morti volontarie, il
Giappone ha riscontrato nel 2003 un incremento medio di suicidi del
17% rispetto al 2002, con punta massima di crescita del 22% nella
fascia di età inferiore ai diciannove anni. Secondo la polizia nipponica, nel 2003 i casi di suicidio collettivo tramite Internet sono stati
dodici con trentaquattro morti e nel 2004, almeno sino a poche ore
fa, nove casi con ventisei morti. Sono tuttora accessibili nel Web siti
per “aspiranti suicidi”, dove vengono scambiate informazioni su
posti e tecniche migliori per morire in compagnia. Quali le cause?
Crisi delle relazioni sociali? Missioni segrete di sette religiose? La totale assenza di spiegazioni e di ragioni plausibili tiene in massima
allerta le istituzioni giapponesi. Il particolare più inquietante, sembra, è che tutti i ragazzi che si sono uccisi hanno lasciato accanto al
computer lo stesso biglietto con una sola parola. Tali e quali da
Saitama a Tokyo, da Fukuoka a Sasayama. La parola è VIRUS. Ma a
che cosa alludono in realtà questi messaggi? Sino a ieri il sospetto
cadeva sull’infausto virus informatico denominato “Melissa”. Da
poche ore soltanto se ne ha la certezza grazie, purtroppo, agli ultimissimi episodi di patto suicida che hanno portato il numero delle
vittime a trentasette: altri quattro giovani, tutti maschi tra i venti e i
trent’anni, sono stati trovati morti in un appartamento di Tokyo,
uccisi dalle esalazioni velenose provenienti da una stufetta per barbecue. I corpi sono stati rinvenuti da un amico di una delle vittime,
che aveva ricevuto via posta la chiave dell’appartamento, in una
busta dentro la quale si trovava anche un biglietto con su scritto: killer worm Melissa. Forzando la porta, sigillata con nastro adesivo, il
ragazzo ha scoperto i cadaveri in una stanza dove c’erano anche un
computer bloccato e la stufetta da barbecue. L’altro episodio è ancora più terribile: poche ore fa la polizia ha trovato i cadaveri di sette
giovani, tre donne e quattro uomini, in un furgone parcheggiato in
una zona montuosa della prefettura di Yokosuka. Il veicolo era
coperto da una tela di plastica accuratamente sigillata. Quattro bracieri portatili, trovati all’interno, hanno prodotto l’ossido di carbonio
che ha tolto la vita ai sette. Accanto ai cadaveri sono state rinvenute
brevi note; su un foglietto, vicino a una delle donne, si legge: “La
mamma morrà, ma sono contenta di averti generato. Non accendere il computer, tutto questo accade per killer worm Melissa”. Con questi due ultimi casi il numero dei morti ha già superato il triste primato del 2003. Ma cosa c’entra in questa tragedia spaventosa un
virus informatico?
“Melissa”, commentò Miriam, l’amichetta bionda ospite di Sara che
stava seduta sul divano al suo fianco. “Come la tua amica invisibile…”
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