L`inedito. Primo Levi: «Shoah, la parola non basta»
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L`inedito. Primo Levi: «Shoah, la parola non basta»
23 Domenica 18 Gennaio 2015 anzitutto L’autorità evangelica CULTURA, RELIGIONI, TEMPO LIBERO, SPETTACOLI, SPORT di Laberthonnière arte dal volume Laberthonnière. Teoria dell’educazione e altri scritti pedagogici (La Scuola, pp. 256, euro 15,50) il dibattito su «Educazione e libertà: l’eredità del Modernismo» in programma domani, lunedì 19 gennaio, alle 18 presso la sede dell’editrice bresciana in via Gramsci 26. Luciano Pazzaglia, don Maurilio Guasco e padre Michele Pischedda esamineranno l’esperienza di Lucien Laberthonnière, prete francese dell’Oratorio e tra i più vigorosi pensatori cristiani del primo Novecento, che si impegnò per favorire il dialogo tra la Chiesa e il mondo moderno e in particolare negli scritti pedagogici espose una concezione dell’autorità come servizio (idea da estendere poi a tutto il mondo cattolico). P A N T I C I P A Z I O N E IL PERDONO? È L’AMORE DI DIO CURVO SULL’UOMO BRUNO FORTE bbiamo tutti bisogno di perdono. A chi chiederlo? A Dio, anzitutto, perché nessuno ci ama come lui. E come essere certi di averlo ottenuto? È davvero necessario andare da un sacerdote a dire i propri peccati per sapere di essere stati perdonati? Perché dire le mie cose, specie quelle di cui ho vergogna perfino con me stesso, a qualcuno che è peccatore come me, e che forse valuta in modo completamente diverso dal mio ciò di cui ho fatto esperienza o non lo capisce affatto? E poi, esiste veramente il peccato? Comincio col rispondere a quest’ultima domanda: il peccato c’è, e non solo è male, ma fa male. Basta guardare la scena quotidiana del mondo, dove violenze, guerre, ingiustizie, sopraffazioni, egoismi, gelosie e vendette si sprecano. Chi crede nell’amore di Dio percepisce come il peccato sia amore ripiegato su se stesso («amore curvo» dicevano i medioevali), ingratitudine di chi risponde all’amore con l’indifferenza e il rifiuto. Questo rifiuto ha conseguenze non solo su chi lo vive, ma anche sulla società tutta intera, fino a produrre dei condizionamenti e degli intrecci di egoismi e di violenze che costituiscono delle vere e proprie «strutture di peccato». Proprio per questo non si deve esitare a sottolineare quanto sia grande la tragedia del peccato e quanto la perdita del senso del peccato – ben diverso da quella malatMonsignor Bruno Forte tia dell’anima che chiamiamo «senso di colpa» – indebolisca il cuore davanti allo Abbiamo immenso spettacolo del male e alle seduzioni di Satana, l’Avversabisogno di tenera rio che cerca di separarci da compassionevole Dio. Nonostante tutto, però, vicinanza, come non mi sento di dire che il dimostra anche mondo è cattivo e che fare il un semplice bene è inutile. Sono, anzi, sguardo alla nostra convinto che il bene c’è ed è grande debolezza molto più grande del male, che la vita è bella e che vivere rettamente, per amore e con amore, vale veramente la pena. La ragione profonda che mi fa pensare così è l’esperienza della misericordia di Dio, che faccio in me stesso e che vedo risplendere in tante persone umili: è un’esperienza che ho vissuto tante volte, sia dando il perdono come ministro della Chiesa, sia ricevendolo. Sono anni che mi confesso regolarmente, più volte al mese e con la gioia di farlo. La gioia nasce dal sentirmi amato in modo nuovo da Dio ogni volta che il suo perdono mi raggiunge attraverso il sacerdote che me lo dà in suo nome. È la gioia che ho visto tanto spesso sul volto di chi veniva a confessarsi: non il futile senso di leggerezza di chi «ha vuotato il sacco», ma la pace di sentirsi bene «dentro», toccati nel cuore da un amore che sana, che viene dall’alto e ci trasforma. Chiedere con convinzione, ricevere con gratitudine e dare con generosità il perdono è sorgente di una pace impagabile! La confessione è dunque l’incontro col perdono divino, offertoci in Gesù e trasmessoci mediante il ministero della Chiesa. In questo segno efficace della grazia ci viene offerto il volto di un Dio che conosce come nessuno la nostra condizione umana e le si fa vicino con tenerissimo amore. Ce lo dimostrano innumerevoli episodi della vita di Gesù, dall’incontro con la Samaritana alla guarigione del paralitico, dal perdono all’adultera alle lacrime di fronte alla morte dell’amico Lazzaro… Di questa vicinanza tenera e compassionevole di Dio abbiamo immenso bisogno, come dimostra anche un semplice sguardo alla nostra esistenza: ognuno di noi convive con la propria debolezza, attraversa l’infermità, si affaccia alla morte, avverte la sfida delle domande che tutto questo accende nel cuore. A © RIPRODUZIONE RISERVATA Lettere per credenti e no «Lettere dalla collina» (Mondadori, pp. 96, euro 16) è «un libro per credenti ma anche per laici». Così lo definisce l’autore, l’arcivescovo di Chieti-Vasto nonché segretario del Sinodo sulla famiglia Bruno Forte, che vi ha raccolto alcune lettere sui grandi quesiti della vita «scritte meditando e pregando nella casa dove abito, posta sulla collina della città». Ne pubblichiamo qui una. L’inedito. Primo Levi: «Shoah, la parola non basta» PRIMO LEVI A misura che il passare degli anni ce ne allontana, e benché i decenni che sono seguiti non ci abbiano risparmiato violenze ed orrori, la storia dei lager hitleriani si delinea sempre più come un unicum, un episodio esemplare a rovescio: l’Uomo, tu uomo, sei stato capace di far questo; la civiltà di cui ti vanti è una patina, una veste: viene un falso profeta, te la strappa di dosso, e tu nudo sei un mostro, il più crudele degli animali. Da allora, il nazionalsocialismo (a meno di poche voci deliranti che ne giustificano i crimini, o li negano, o addirittura li esaltano) «L’Uomo, tu uomo, sei stato capace di far questo; la civiltà di cui ti vanti è una patina, una veste: viene un falso profeta, te la strappa di dosso, e tu nudo sei un mostro, il più crudele degli animali» vale come riferimento, come il nodo da evitarsi. Su di esso sono comparse innumerevoli opere di testimonianza e di interpretazione, ma mancava finora in Italia un libro come questo. Penso che, al di là della pura commemorazione, esso abbia un valore suo specifico: a descrivere quell’orrore, la parola risulta carente. Le immagini qui riprodotte non sono un equivalente o un surrogato: esse sostituiscono la parola con vantaggio, dicono quello che la parola non sa dire. Alcune hanno la forza immediata dell’arte, ma tutte hanno la forza cruda dell’occhio che ha visto e che trasmette la sua indignazione. © RIPRODUZIONE RISERVATA L’intervista. Da Auschwitz a Theresienstadt, Arturo Benvenuti ha raccolto i disegni dei prigionieri dei campi di concentramento Matite dal LAGER LAURA BADARACCHI atite che raccontano, con i toni crudi e ruvidi delle istantanee in bianco e nero, la realtà indicibile dello sterminio pianificato. Oltre 250 lapidarie testimonianze per immagini scampate all’oblio grazie alla tenacia di un uomo che per passione civile ha voluto ostinatamente ricercare e fotografare nei lager disseminati in tutta Europa i disegni realizzati dagli internati di fedi, nazionalità, etnie, età, status sociale differenti. Un prezioso (e forse unico) lavoro documentaristico durato quattro anni e confluito nel volume K.Z. Disegni dai campi di concentramento nazifascisti, autoprodotto e stampato in un centinaio di copie fuori commercio nell’aprile 1983 con la prefazione di Primo Levi (della quale sopra pubblichiamo uno stralcio), appena ripubblicato dalle edizioni BeccoGiallo e in libreria dal 22 gennaio (pagine 272, euro 26,00). Nato nel 1923, veneto, l’autore Arturo Benvenuti ha attraversato con la sua biografia e non per sentito dire il secondo conflitto mondiale. Ragioniere e bancario, artista e poeta, non dimentica il tempo buio trascorso, i volti degli amici ebrei scomparsi, le storie di chi era tornato dall’inferno dell’annientamento sistematico. Così nel 1979, a 56 anni, decide con la moglie di raggiungere in camper Auschwitz, Theresienstadt, MauthausenGusen, Buchenwald, Dachau, Gonars, Monigo, Renicci, Banjica, Ravensbrück, Jasenovac, Bergen-Belsen, Gurs, così come le maggiori città del Vecchio continente – dalla Cecoslovacchia all’Austria, dalla Polonia alla Norvegia, dall’Ungheria alla Germania, dalla Danimarca all’Italia – dove visita archivi, musei, biblioteche, uffici, incontrando i sopravvissuti o i loro parenti. Che gli consentono di accedere con la sua macchina fotografica a brandelli di storia, incisioni e acquarelli, icone e ritratti dolenti di quotidianità sfuggita a scatti e filmati in tempo reale. «Chi era nei campi ha visto tutto dal vivo, restituendo così l’idea del dramma vissuto senza bisogno di parole – sottolinea Benvenuti –. Non è stato facile cercare e ottenere queste immagini, ma con il passaparola qualcuno è venuto anche a casa mia senza che lo conoscessi. E dalla Russia una vedova mi M TESTIMONIANZE. In questa pagina, alcuni dei disegni raccolti da Arturo Benvenuti (nella foto sotto). Sopra, Primo Levi Raccolti in un volume autoprodotto nel 1983, ora per la prima volta arrivano in libreria «Anche oggi il rischio è l’assuefazione a violenza e dolore» ha mandato le copie dei disegni fatti da suo marito». L’acronimo del titolo? Deriva dalla lingua yiddish e sta per “Konzentration Zenter” (campo di concentramento), ma rimanda anche a “Ka-tzetnik” (prigioniero del campo di concentramento), «con riferimento al detenuto piuttosto che al luogo o alla forma di detenzione. Ka-tzetnik associato al numero era il modo abituale con cui venivano chiamati i prigionieri nei campi, e la parola nasce proprio dalla sigla K.Z. pronunciata alla tedesca», spiega Benvenuti. Durante questo lungo e doloroso pellegrinaggio ha composto cinque brevissime liriche accomunate dal medesimo slancio etico: le vittime sono tutte degne di rispetto e di memoria, «senza alcun campanilismo». Un intento compreso da Primo Levi, che nel 1981 accettò eccezionalmente di firmare la prefazione al libro: «Un atto di fiducia che mi ha onorato – ricorda l’autore –. Gli scrissi mandandogli la documentazione e mi rispose con una lettera, poi ci siamo sentiti al telefono. Mi disse che non lo faceva per nessuno, ma che accettava perché avevo lavorato con onestà e serietà». Ormai ultranovantenne, Benvenuti resta granitico nelle sue convinzioni. La logica «dell’annientamento attraverso il camino», quell’oscuro passato, resta e ritorna al netto di ogni retorica. «Ci sono rigurgiti anche oggi di discriminazione e abbiamo bisogno di ricordare. Penso ai miei nipoti e ai miei pronipoti, ai giovani: spero di aver fatto qualcosa di buono per loro», conclude lucidamente. Perché non ci si può assuefare al dolore e far finta di non vedere – girando alzando le spalle a mo’ di rassegnata indifferenza – gli eccidi che avvengono in Siria o in Nigeria o, qualche anno fa, nell’ex Jugoslavia. La violenza fine a se stessa, contro qualsiasi persona umana, non deve mai essere omologata né derubricata a fatto che non tocca da vicino, conficcata nella carne, la propria coscienza. Lo ribadisce nella poesia Il tunnel (sottopassaggio percorso dai deportati verso le camere a gas), scritta nel giugno 1980 presso il campo di Theresienstadt: «Colma sarà la nostra vita / quando crescerci dentro / saprà la giusta misura / della vostra lucida agonia». © RIPRODUZIONE RISERVATA