Il fervore erotico, la devozione, la passione per la scrittura: Etty

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Il fervore erotico, la devozione, la passione per la scrittura: Etty
ANNO XVII NUMERO 303 - PAG IX
IL FOGLIO QUOTIDIANO
SABATO 22 DICEMBRE 2012
di Alessandra Iadicicco
uando, nell’autunno del 1943, partì definitivamente per il campo di smistamento nazista di Westerbork da cui sarebbe stata trasferita ad Auschwitz dove fu uccisa il 30 novembre dello stesso anno, Etty
Hillesum portò con sé una copia della Bibbia e un dizionario di russo. La ragazza,
29enne, aveva lasciato ad Amsterdam, nella casa del contabile vedovo Hendrick Wegerif, il caro “Han”, un uomo di 62 anni con
il quale conviveva “more uxorio” dal ’37,
tutti gli altri libri che l’avevano accompagnata negli anni dell’attesa della fine: le
poesie e le lettere di Rilke, i romanzi di
Dostoevskji, i racconti del “nervoso, inquieto Gogol”, le “Confessioni” dell’“austero, ardente Agostino”. Aveva consegnato a un’amica, con la preghiera di pubblicarli, gli undici quaderni che nel corso dei
tre anni precedenti la deportazione aveva
riempito di appunti e pensieri, riflessioni
e preghiere, “delle scorie dei miei eccitati stati d’animo” e delle storie vissute pericolosamente nella stagione della sua
conversione spirituale, della sua nascita
poetica e della sua grande avventura sentimentale. L’amica, nel Dopoguerra, rimise
l’enorme zibaldone nelle mani di uno degli ex amanti di Etty, Klaas Smelik e fu il
figlio di costui a convincere l’editore olandese J. G. Gaarlandt a pubblicarne una selezione alla fine degli anni Settanta. Quando, il 1° ottobre 1981, l’antologia fu presentata in conferenza stampa al Concertgebouw di Amsterdam, riscosse un successo
immediato. Fu ristampata in 26 edizioni,
sempre maggiore piacere con cui l’autrice
del diario prende a modulare la propria
voce ha in certa misura qualcosa a che vedere con le sue disinibite esperienze sessuali: con la sublimazione di queste, con la
sorvegliata disciplina delle pulsioni più
profonde, con la severa attenzione ai moti
del cuore, comunque avvertiti come più vitali della meditazione astratta, teoretica,
mentale, dei pensieri che “deludono, affaticano, confondono”, dell’“acutezza intellettuale”, il freddo “ingegno analitico”
che, rispetto ai fervori dell’anima (“una cosa sola con il corpo”) ingenerano “lo scherno, il cinismo, il dubbio, l’incertezza”. La
conquistata sicurezza della sua intonazione ha a che vedere, scrive Etty, con “la Grazia, che nelle sue rare apparizioni deve
unirsi a una tecnica rigorosa, educata,
competente”.
Che la Grazia evocata dalla giovane
ebrea lettrice appassionata dei testi cristiani fosse quella divina viene fuori a poco a poco nel diario, inavvertitamente, con
una naturalezza spontanea, quasi ingenua.
“E poi sai, Ru, io ho una qualità così infantile che ogni volta mi fa trovare bella la vita e mi fa sopportare tutto così bene”, riferisce Etty trascrivendo nel diario il dialogo con un’amica avvenuto uno degli ultimi
giorni trascorsi ad Amsterdam nell’attesa
di ricevere da un momento all’altro l’avviso di partenza per la Polonia. “Sì, vedi, io
credo in Dio”.
A che cosa corrispondesse quel nome
maiuscolo, che cosa rappresentasse per
Etty la suprema istanza in cui dichiarava di
aver fede, che cosa significasse quella parola “così primitiva”, “in fondo solo una
In libreria l’edizione integrale
del “Diario”. “Il mondo rotola
melodiosamente dalla mano di
Dio”, scriveva in un appunto
“Dio è vissuto anche in questi
nostri tempi”. “Le mani giunte, il
ginocchio piegato: un gesto che a
noi ebrei non è stato tramandato”
tradotta in 28 lingue, pubblicata in Italia
per la prima volta nel 1985. Ma non era, appunto, che un’antologia. Oltre metà del
“Diario” era rimasto inedito. L’edizione integrale curata da Klaas A. D. Smelik, tradotta da Chiara Passanti e Tina Montone
(con la collaborazione di Ada Vigliani per
le parti in tedesco) che è appena uscita da
Adelphi (922 pagine, 35 euro) vale oggi a
prendere bene le misure – il che non significa ridimensionare – di quello che da un
trentennio è considerato uno straordinario documento di forza morale, un’esemplare testimonianza di fede, il capolavoro
poetico della giovane martire e mistica
che, nell’ora in cui più acuta si faceva la
consapevolezza dell’imminente annientamento, tanto più fervidamente seppe
esprimere il proprio amore per la vita.
“Amor vitae – vita amoris”. Una storia
d’amore: questo racconta il “Diario” di
Etty Hillesum. La vita di un amore. L’avventura del cuore da cui prese slancio il
volo interiore che condusse l’innamorata,
l’appassionata ragazza ebrea fino a Dio.
“Il mondo rotola melodiosamente dalla
mano di Dio”, scriveva Etty in uno dei primi appunti annotati nel quaderno a fogli
grandi e a sottili righine blu che aveva
inaugurato di recente, alla fine dell’inverno del ’41. Era stata però una mano ben
più tangibile di quella divina, più carezzevole, prensile, scabrosamente ardita e
umana a indicarle l’armonia che presto
avrebbe imparato a sentire dentro di sé e
a scorgere tra le assurde dissonanze del
proprio tempo. Era stato il personaggio incredibile di uno psicochirologo, un chiroscopo – figura magica e un po’ folle di uno
psicologo per metà medico junghiano, per
metà veggente e chiromante – a prendere
la mano di Etty tra le sue per leggere “in
quel mio secondo volto”, nella cartografia
delle linee che portava incise sui palmi, la
sua “costipazione spirituale” e la direzione che avrebbe dovuto tenere per compiere il suo destino.
“Mi ha presa per mano e mi ha detto: ecco, devi vivere così”, racconta Etty all’indomani del suo incontro con Julius Spier
– sempre “S.” nei diari –: il dottore ebreo
tedesco allievo di Carl Gustav Jung che,
emigrando in Olanda nel 1938, aveva trasferito ad Amsterdam da Berlino la singolare attività di terapeuta alla quale, dopo
aver fatto il cantante lirico (frenato nelle
sue ambizioni di carriera da una crescente sordità), l’editore, il talent scout di giovani artisti, il socio di una ditta di commercio, si dedicava esclusivamente dal
1927 e che lo aveva reso celebre in Europa. Scriveva di lui la Frankfurter Zeitung
nel 1941: “Il suo genio diagnostico ha un
che di demoniaco. Il suo volto ha un’impronta faunesca. L’uomo conosce il grande
Pan. La sua scienza richiede la magia della personalità, e non c’è magia senza il mago”. Dalla personalità di un simile guru
Etty – che si era recata da lui per caso e
per gioco, per un esperimento di prova, su
metafora, un avvicinamento alla nostra più
grande avventura interiore”, si accenna a
più riprese nel diario. Dio, si legge nelle righe di Etty, è “la sorgente originaria che abbiamo dentro di noi”. E’ l’interlocutore segreto, “l’unico cui forse importano davvero
le parole che scaturiscono inattese dalla
mia stilografica”. E’ la promessa di salvezza, “il contatto con me stessa senza il quale potrei smarrirmi in ogni momento”. E’
“il principio creativo che qualche volta ho
la sensazione di avere dentro di me e che
definirei una parte di Dio, si deve solo avere il coraggio di dirlo”. Fu S. a darle il coraggio di dire quel nome senza inibizioni.
Era il fulcro di un’esperienza di sé strettamente imparentata con la scrittura e con
l’amore. Anche una forza fisica che agiva
sul corpo, che “mi spinge a terra, mi induce a inginocchiarmi, a fare gesti così intimi come quelli dell’amore… Del resto c’è
qualcosa di più intimo della relazione tra
l’uomo e Dio?” si chiede Etty interrogandosi con impertinente curiosità sui rituali del suo uomo in preghiera. “Che cosa dice quando prega?” “Questo non glielo dico” rispondeva lui, che però si spingeva fino a confessarle: “Non mi masturbo mai
dopo aver pregato”. “Conosco i suoi gesti
intimi con le donne e ora vorrei ancora conoscere i gesti che fa per Dio. Prega tutte
le sere? Si inginocchia nella cameretta?
Nasconde la testa pesante dentro le sue
grandi, buone mani? Si toglie la dentiera
prima?”… “Ora lo so! S. prega dopo essersi tolto i denti. Del resto è logico. Si deve
prima aver chiuso i conti con tutte le faccende terrene”.
Quando Spier chiuse definitivamente i
conti con le sue faccende e la sua vicenda
terrena, quando morì prematuramente a
55 anni il giorno prima di essere trasferito al Lager di Westerbork da cui gli ebrei
venivano spediti in Polonia, abbandonò la
pupilla a metà del suo cammino. Ma Etty
ormai era diventata abbastanza grande
per andare avanti da sola. Cresciuta, grazie anche all’aiuto di S., fino a raggiungere una forma più adulta di scrittura e una
capacità di amore meno possessivo, poté
lasciare la presa di colui che tenendola
professionalmente per mano l’aveva accompagnata per un lungo tratto e contare
sulle sue proprie sole mani. Poté affidarsi alla “Menschenliebelinie” la linea dell’amore per l’umanità intera che portava
profondamente incisa sui palmi. Toccare
con la punta delle dita i contorni della
propria epoca e considerarla in prospettiva, “testimoniando che Dio è vissuto anche in questi nostri tempi, che sono stati
tempi grandi, un giorno ti dirò perché”. E,
in mancanza di qualcuno cui porgerle
aperte perché vi leggesse dentro, congiungere le proprie mani l’una all’altra per
pregare – “due mani giunte e il ginocchio
piegato: un gesto che a noi ebrei non è stato tramandato” –, inchinarsi al destino del
mondo che “rotola melodiosamente dalla
mano di Dio”.
Q
Etty Hillesum (1914-1943). Nei tre anni precedenti la deportazione aveva riempito undici quaderni di appunti, riflessioni e preghiere, “delle scorie dei miei eccitati stati d’animo”
LA NINFA MISTICA
Il fervore erotico, la devozione, la passione per la scrittura:
Etty Hillesum, l’ebrea che conobbe la Grazia e morì ad Auschwitz
invito di un vicino di casa e conoscente comune – fu immediatamente soggiogata.
“Sotterrata, schiacciata”, come ammise infantilmente incantata. “Tutto questo sei
tu, mi ha detto, con il tono di chi mette un
biscottino in mano a un bimbetto”. E lei,
sedotta dalla dolce lusinga e da metodi di
cura a dir poco bizzarri, gli si affidò “con
l’anima e tutto il resto”.
Nel corso delle sedute sperimentali i
due facevano “la lotta” (sic). S. intendeva
valutare la forza fisica della sua paziente e
lei, già la prima volta, prendendo l’esame
molto sul serio, aveva buttato a terra quell’uomo grande e grosso finendo per rotolare sul tappeto con lui in preda alle contrastanti sensazioni di un’estrema attrazione
erotica e di una forte repulsione. “Il mondo rotola melodiosamente dalla mano di
Le sedute con Julius Spier,
allievo di Jung, che la soggiogò
immediatamente. Gli si affidò
“con l’anima e tutto il resto”
Dio”, fu il commento registrato dopo quel
concitato confronto con conseguente ruzzolata. Etty prese l’abitudine di recarsi da
S. con una tutina da ginnastica sotto il vestito di lana. Lui tirava le tende, chiudeva
a chiave la porta e, al momento di riaprirla osservando che “non si dovrebbero fare
di queste cose con i vestiti addosso”, i due
si ritrovavano in piedi l’uno di fronte all’altra in ambulatorio “imbarazzati come Adamo ed Eva dopo aver mangiato la mela”.
Non che il morso fatale al frutto proibito – per restare fedeli alla scena peccaminosa e originale che Etty evoca dalla Genesi – non le avesse aperto gli occhi sull’umana nudità di quell’incantatore di
venticinque anni più vecchio di lei. Stre-
gata, certo, dal tipo affascinante “nonostante tutti quei denti finti”, colpita dalla
“grazia tutta speciale di quel corpo pesante”, Etty vedeva bene e guardava impietosamente il “timido uomo sudato che alla
fine si cacciava la camicia stropicciata nei
calzoni”. Non gli risparmiava di riferirgli
i commenti degli amici alle esibizioni canore del tenore mancato: “S. canta come
un vecchio leone che ha messo la zampa
su una lametta da barba”. Né, una volta divenuta sua paziente regolare, segretaria,
amica intima confidente e amante – nonostante lui si dicesse fedele a tale Herta, la
fidanzata che, emigrata a Londra, lo aspettava in Inghilterra per sposarlo, e nonostante lei vivesse ormai da anni con il suo
buon vecchio Han – né, si diceva, considerando l’ambiguità della loro relazione si
impediva di chiedersi “è sordido, è degenere?” salvo rispondersi subito “è tutto
perfettamente in ordine”.
Colpisce e conturba la spregiudicatezza
di questa ragazza che da trent’anni gli
agiografi e gli estimatori (tra essi il cardinal Martini, lettore appassionato dei diari
della Hillesum) additano come una campionessa di fervore e devozione baciata
dalla grazia della fede nella stagione più
tetra della storia dell’umanità. Ma è Etty
stessa – che portava chiaramente incisa
nella mano una profonda “Menschenliebelinie”, una linea dell’amore per gli uomini – a sminuire l’importanza della propria
sensualità, del “maledetto erotismo di cui
è pieno zeppo lui come me”, della propria
“dissolutezza estemporanea”, degli “interludi erotici” che “per colpa di un’educazione eccessivamente romanzesca si tende
a sopravvalutare”. “Un uomo non è la cosa più importante per me” dice a se stessa svuotandosi gentilmente e silenziosamente sulle righine blu dei suoi quaderni:
“Forse perché ho sempre avuto tanti uomini attorno?”. E’ lei stessa a tenere a bada,
ricorrendo a metodi drastici e incresciosi,
i sommovimenti che avvengono “a sud del
mio diaframma”, anche a costo di ingerire
dosi massicce di aspirina, pillole di chinino, cognac e acqua bollente per soffocare
sul nascere la vita concepita nel suo ventre. “Ti sbarrerò l’ingresso in questa vita…
Resterai nella condizione protetta di chi
non è venuto al mondo, sii riconoscente,
essere in divenire”, scrive immaginando di
rivolgersi al proprio bimbo mai nato. E:
“Non ho il rimorso di aver aggiunto un altro infelice a quelli che vivono su questa
terra… non voglio prendermi la responsabilità di aumentare il numero di quegli
sventurati”, nota redimendo se stessa dall’aborto di un feto di appena dieci giorni.
Ed è ancora Etty che, turbata dall’eccitazione prodotta su di lei da “una nuova allieva, una lesbica, un tiretto mascolino, incurante, gli occhi blu acceso…”, arresa a
un desiderio scandaloso (“avvicinerò il suo
corpo al mio…”) ammette di essere “sessualmente ricettiva in tutte le direzioni”.
E se fosse proprio la passionalità la
chiave per sciogliere l’ambiguità di
quell’“esserino brioso”, “personcina radiosa”, quale la descrivevano i suoi amici
e conoscenti, della “sfrenata ragazza kirghisa”, “la forsennata in pigiama” come
l’aveva definita il più fantasioso dei suoi
amanti (“prima che ci abbandonassimo a
un dialogo spinto sul tema del pigiama”)
che fu Etty Hillesum? La stessa carnale
sensualità che la giovane ebrea – “raffinata e abbastanza esperta dal punto di vista
erotico”, diceva di sé – metteva nell’amare la spendeva, con lo stesso trasporto, nello scrivere e nel pregare, due discipline o
forme di espressione di sé cui ugualmente l’aveva educata Julius Spier.
Già laureata in Giurisprudenza, studentessa di Lettere, slavista, insegnante privata di russo – la lingua materna della madre –, Etty trascorreva molto del suo tempo
traducendo: lo slavo ecclesiastico, Lermontov, Gogol, “L’idiota” di Dostoevskij.
Studiando “con tutti i miei sensi quel grande miracolo che è la lingua”. Leggendo con
una brama quasi possessiva di assimilazione e interiorizzazione il prediletto Rilke,
il, Vangelo di Matteo, i Salmi, le lettere di
Paolo ai Corinzi, testi dai quali le piaceva
trascrivere frasi e interi brani, perché così “mi sento fisicamente più vicina a quelle parole: è come se le accarezzassi con la
penna”. Perdendosi “in un pezzo di prosa
o in una poesia che si sia conquistata con
fatica, parola per parola” come una forma
suprema di realizzazione: “Di una cosa sono sempre più certa infatti: il verso di una
poesia è altrettanto reale di una tessera
per il formaggio o dei geloni; a chi mi dice
‘ma tu vivi dentro un libro’ rispondo: ‘E
“Non ho il rimorso di aver
aggiunto un altro infelice a quelli
che vivono su questa terra”,
scrisse al proprio bimbo mai nato
non è un libro tanto reale quanto un aeroplano?’”. A incoraggiare la giovane amica
dalla sensibilità linguistica tanto spiccata
a scrivere fu il suo mistagogo chiromante
che, sin dalle prime sedute, le suggerì di
tenere un taccuino, “per affidare l’animo
costipato a uno stupido foglio di carta a righe”, protestava lei, recalcitrante e impacciata sulle prime, irritata dalla difficoltà di
mettere per iscritto pensieri che le parevano tanto chiari nella testa. “Dev’essere più
che altro la vergogna”, immaginava, cercando giustificazioni alle proprie remore.
“E’ come nel rapporto sessuale: alla fine il
grido liberatorio rimane sempre chiuso
nel petto per timidezza”.
La crescente disinvoltura, l’evidente,