allegato : "Le radici della mia infanzia"

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allegato : "Le radici della mia infanzia"
Labor omnia vincit
Il disegno di copertina è del piccolo Antonio Gurgoglione
Si ringrazia il Presidente e il Consiglio di Amministrazione
della BCC di San Giovanni Rotondo per il sostegno economico
a favore della pubblicazione dell’opera
Ricordo, sotto la rocca delle torri di Taranto,
dove il Galero scuro bagna la bionda campagna,
vidi un vecchio di Còrico che aveva pochi iugeri
di campo abbandonato, terra infeconda al lavoro dei buoi,
inadatta alle greggi, sfavorevole alle viti.
Eppure, piantando qualche germe fra gli sterpi e
intorno gigli candidi, verbena e gracili papaveri, in cuor
suo si sentiva ricco come un re e, rincasando a tarda
notte, guarniva la mensa di cibi non comprati, primo
fra tutti nel cogliere la rosa a primavera e la frutta in autunno
quando l’inverno tetro spezzava ancora i sassi per il
freddo e frenava col ghiaccio i corsi d’acqua, egli già
recideva il fiore delicato del giacinto, beffandosi dell’estate
tardiva degli zefiri a venire. Così prima di tutti aveva in quantità
pupe di api, quindi uno sciame numeroso,
e spremendo i favi raccoglieva spuma di miele, aveva tigli,
più rigogliosi e i suoi alberi maturavano in autunno tutti i
frutti di cui in fiore si erano rivestiti a primavera. E in
filari aveva trapiantato olmi già vecchi, peri durissimi, pruni
che davano susine e un platano che offriva ombra ai bevitori.
Ma io, impedito dall’incalzar del tempo, devo abbandonare questi
ricordi e lasciare ad altri dopo di me che li tramandino.
(Geor. Virgilio, lib. IV W 186-226)
A mio padre che mi ha insegnato
la serietà dell’impegno e il senso del dovere
A mia madre che ha creduto nella forza
dell’istruzione e della cultura
Ai miei nipotini Antonio e Samuele
perché conoscano e amino
i valori e le tradizioni del nostro popolo
Rosa Di Maggio. Le Radici della mia Infanzia
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Presentazione
Ora che il mondo antico sta definitivamente scomparendo si avverte il bisogno di ricordare e di affidare ai posteri il bagaglio culturale
dei nostri padri, della civiltà contadina di cui siamo figli ed eredi e di
salvare la nostra storia bella o brutta che sia, ma con la quale ci dobbiamo rapportare per non dimenticare le nostre radici e non perdere la nostra identità di popolo. Un aspetto caratteristico ed interessante di questa storia di cui siamo parte è sicuramente quello che riguarda i mestieri di una volta e i personaggi a loro legati, divenuti
spesso leggendari. I mestieri naturalmente, come in ogni epoca, erano legati alle risorse e alle necessità dell’uomo. Dietro ognuno di essi c’é un mondo da scoprire, un universo umano mai del tutto sondabile, che rappresenta l’anima di una civiltà.
I mestieri erano eseguiti da uomini e donne con una propria personalità, capacità, intelligenza e attitudini, che a volte li rendevano unici, ma che erano anche espressione di una particolare società in cui vivevano, inseriti in un periodo storico dove la vita povera, ma semplice e ricca di umanità, consentiva tra l’utente e il lavoratore la nascita di rapporti di confidenza e amicizia, a volte anche
affettivi oltre che utilitaristici. Così si intessevano relazioni, facilitate dalla necessità che si aveva l’uno dell’altro e naturalmente dal forte senso di solidarietà.
Ho voluto riportare alcuni di essi per non dimenticare e natural-
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mente ho scelto quelli che io ho conosciuto nella mia fanciullezza e
per rispetto a quelle persone, che tanto hanno fatto per farci ben vivere in quei tempi ormai lontani.
Nella civiltà contadina varie erano le categorie dei lavoratori e che
formavano una gerarchia nella scala sociale. Ed erano così distinti:
“l’appugghjse” (i pugliesi) coloro cioè che possedevano dei terreni
in pianura, nel Tavoliere. Questi erano detti agricoltori e ritenuti dei
signori. Si spostavano con “lu sciarabbà”, un piccolo carro a due posti, quasi una carrozza di lusso,trainato da uno o due cavalli. Lavoravano la terra il più delle volte servendosi della mano d’opera “dilli
cafuni o cuntadene” (lavoratori della terra altrui come salariati fissi o
semplicemente “appogghjse” perché lavoravano in pianura e a servizio degli “appugghjsi”) e spesso anche “dilli jurnatere” (operai a giornate o stagionali).
Seguivano “li cuntadene” (i contadini): coloro che possedevano un
pezzo di terra che lavoravano di persona ma non sempre sufficiente
per il sostentamento della famiglia.
“Li pasture” (i pastori), detti “allevatori” se possedevano greggi numerosi, altrimenti erano “pucùrari”. I pastori prendevano nomi specifici dalla specie degli animali che possedevano: pucurari, vaccari,
iumuntari, purcari.
“Li cozzu” (i cozzi) possedevano “nu funne” (un fondo) alle Murge o al bosco. “Li pantanere” quelli che avevano avuto in concessione dal Comune una o più “porche” 1 nella zona del Lago di Sant’Egidio, territorio fertilissimo che veniva coltivato a vigneti e ad ortaggi.
“Li bracciante” coloro che mettevano a disposizione le loro braccia
per ogni tipo di lavoro in campagna. “Li iarzune” (garzoni) i tutto-
fare, a servizio dei padroni.
“Li mezzadre” (i mezzadri) non possedevano terra propria e coltivavano le terre altrui a mezzadria, si dividevano cioè gli utili.
“Li ffittatarie” (gli affittuari) coltivavano terre prese in affitto.
“Li speluni” (gli artigiani), così detti con ironia dai pastori. Probabilmente il nome significava “spilungoni” metaforicamente per intendere coloro che, per forza e coraggio non potevano competere
con i pastori dai modi rudi e battaglieri e che spesso venivano provocati dai loro modi arroganti ritenendosi superiori agli stessi.
Pochi erano i professionisti.
La vita che si conduceva, come in tutti i paesi del Gargano e in tanti altri, era una vita stagnante e la sua economia si basava sulla realtà
rurale che regolava ogni forma di vita... Le possibilità economiche
erano poche, a volte misere, non vi erano negozi attrezzati, le comunicazioni quasi inesistenti per cui ci si spostava raramente e per motivi importanti. Le uniche occasioni per uscire dal proprio territorio e quindi avere la possibilità di comprare qualche utensile o attrezzo di lavoro erano le fiere locali e le fiere dei paesi vicini in occasione delle feste patronali, che erano consentite quasi esclusivamente agli uomini.
“Di necessità si faceva virtù”. La povera economia famigliare faceva sì che il “lavoro porta a porta” fosse molto diffuso. Questo rendeva vantaggiosa la riparazione degli utensili e degli attrezzi di lavoro.
Molti i mestieri legati alla realtà quotidiana e i loro artefici e ognuno
metteva a disposizione il proprio bagaglio di esperienze, di cui spesso erano abili narratori sotto gli occhi attenti delle massaie, che controllavano il lavoro e gli sguardi curiosi dei bambini, che smettevano di giocare per raccogliersi intorno all’artigiano affascinati da quel
nuovo e inaspettato passatempo. L’aria che prima risuonava tutt’in-
1. Unità di misura agraria corrispondente a 816 mq.
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torno di gridi e di gioiose risate, ora vibrava di un insolito ed innaturale silenzio.
Le mamme spesso “utilizzavano” gli ambulanti come deterrente per
i bambini troppo vivaci e capricciosi minacciando di chiamare Peppino “lu scardalana”... perché se li portasse via con sé o...
de nu guerrière antiche.
E sule qua me sènte allu secure,
e qua la mamma mia sciacqua e coce
e tromba nu pane
che pozze recanosce ammèze a mille.
Ogn’remore jè lu mia remore:
se cola la canala a la puscina
chiagnelosa o cantarina
te sacce se vuschèja o chiove forte.
Dallu cannutte della cemmenaja
sènte la vòrria
li tòcche dell’allorge e lu jadducce
la prima vota cantà, qualche cane
c’abbàja fisse fisse, lu furnare
che dà’ allu prime, qualche
màchena tardajòla,
li ‘ntòcche a matetine,
e citte citte me ne vaje suse.
A quest’ora ce ruspègghia
mamma e se me vède ajauzate
me dice parole.
La notte mia
La notte me la passe
spijanne li ceppune che vampèjene
sòpe lu fucarile frabbecate
da fràteme Peppine
cu li matune rosa.
Casa patèrna, dove
tatà me porta, com’è la stagiona,
li prime frutte
de Puzzecave,
e me racconta li fatije c’à fatte
cu lu core
(G. Scarale)
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Note introduttive
Nella foto in alto, pietre garganiche con scoparelle.
Nella foto in basso, paesaggio garganico con pagliaro a forma di Tholos.
Nella sua meravigliosa avventura esistenziale nell’universo terreno, l’uomo si è mostrato la più bella e intelligente fra le creature (Sofocle). Primigenia scintilla dell’amore divino, egli ha sofferto, pianto e sperato
nelle caverne, ha cercato il sole e le stelle, ha scoperto il fuoco e con
la ruota ha costruito il suo futuro, ha strappato agli uccelli il segreto
del volo e si è innalzato fra le nuvole, cercando nuovi mondi e lasciando nel tempo le sue indelebili tracce. Segni e stigmi che, nel lento e faticoso scorrere dei secoli, si sono fatti eventi, racconti, miti, tradizioni
e memorie. E con le parole alate, divenute poi pensiero e voci narranti
(Omero, Socrate, Platone, Pascal) è nata la storia degli uomini, da tramandare di generazione in generazione.
Questo lungo respiro del tempo nutre il cammino di civiltà di un popolo, diventa storia infinita. Tutto si fa cultura da conservare, valorizzare,
tramandare. Cultura intesa come cura della vita interiore, nella visione
di una antropologia laico-cristiana che vede l’uomo in una dimensione
materiale, spirituale e divina.
La Storia di una città si racconta nei personaggi e negli eventi che hanno
segnato il cammino di civiltà del suo popolo. Un primum e un deinde
nello scorrere delle umane vicende lungo le pagine della Storia. La stessa
parola tradizione, poi, affonda le sue radici nella lingua dei Padri latini,
tradere-traditio: custodire, raccontare, tramandare, usi e costumanze varie (Cesare, Cicerone, Livio, Tacito). “Prodenda quia sunt prodita” dob-
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biamo tramandarli perché sono stati tramandati (Plinio, H.N.11,85.).
Ed ecco che il Passato si fa Memoria e Storia di chi ha visto e racconta,
come direbbe Erodoto.
“Non c’è futuro senza memoria e la giovinezza dei popoli è una lunga e ricca vecchiaia” (C. Pavese). Le tradizioni, quindi, costituiscono una delle coordinate geostoriche nella cultura materiale di un popolo. Anche le
leggende e gli aneddoti popolari diventano espressioni dello spirito collettivo e del genio stesso della stirpe (B. Croce). Se il futuro ha un cuore
antico, un popolo è come una grande quercia che affonda lentamente le
sue radici nel passato-humus-terra e, rigenerandosi, vive e respira nel presente. Ed ecco che il presente siede sulle ginocchia del passato e apre la
braccia al futuro, in una continua e profonda Rigenerazione.
E bene diceva Sant’Agostino che “Il presente del passato è la memoria, il
presente del presente è la visione, il presente del futuro è l’attesa” (Confessioni, XI, 29).
La Storia togata non aveva tempi e luoghi per raccontare la antiche costumanze e tradizioni popolari di una Terra e non aveva compreso che
il calzare di un contadino, il cucchiaio, la ciotola, il bastone di legno di
un pastore, le nenie e le filastrocche delle mamme, i canti ed i balli di
tanti giovani innamorati, erano tante microstorie che alimentavano sacralmente la stessa memoria collettiva di un popolo, fin nel profondo
della sua anima. Ed il popolo sangiovannese, come altri dimoranti sulla Montagna sacra, si immerge in questi saperi che nutrono la mente e il
cuore degli umani. Ed ecco che antichi mestieri, feste popolari e religiose,
giochi infantili e tradizioni varie si fanno memoria da conservare e tramandare ai figli ed ai figli dei figli.
Ed in questo universo si immerge pienamente, respira e vive l‘opera di Rosa
Di Maggio. L’Autrice, sorretta da un grande amore per la Terra dei Padri, alla ricerca delle sue radici, si lascia condurre per mano dai suoi ri-
cordi che si fanno dolce Rimembranza. E la sua voce narrante ci conduce, a volte in punta di piedi, a rivivere la vita del popolo sangiovannese,
tutta immersa in una quotidianità interessante e fascinosa nello stesso
tempo. Ed un popolo vive e respira nelle pagine di quest’opera di Rosa
Di Maggio, con Personaggi che esprimono con forza il senso di appartenenza alla Materna Terra: “Antiquam exquirite matrem, andate alla ricerca dell’antica madre” (Virgilio, Eneide, III, 96). Terra e Radici intese come fonti, origine e principio nella storia stessa di una città, lungi
dall’oblio della stessa memoria.
Quest’opera vuol essere anche un viaggio nel profondo animo del popolo sangiovannese, che vive in luoghi e tempi particolari, che spesso
hanno sentieri intricati e fascinosi che si mostrano e si aprono come labirinti misteriosi e lasciano intravedere tracce e segni a volte appena intellegibili, pronti e perdersi nel nulla del nulla, simili a sbiadite ed evanescenti sinopie. Ed ecco che bisogna con forza illuminare questi sentieri, dare voci e volti a quelle ombre e immagini che improvvise si presentano ed accorrono intorno al lago del nostro cuore. Percorsi intesi come amore di conoscenza e bene prezioso cui l’uomo deve tendere e con
il quale egli stesso diviene quasi “divino e s’india” (Platone, Timeo). Nelle pagine di quest’opera, tante persone, esercitando svariati mestieri, vivono e si animano nelle strade del borgo antico, fra viuzze e scaforchi,
nei campi assolati, lungo le vallate erbose, nei boschi di querce e di castagni. In gran parte, gli antichi mestieri presentati nell’opera, molti dei
quali ormai scomparsi, sono collegati al mondo rurale, che viene amato, rispettato come una cosa sacra, fino a farsi divinum rus, come cantava il sommo Virgilio.
I mestieri e le arti varie, con i loro protagonisti, poi diventano parti essenziali nella vita del popolo sangiovannese; “Senza di loro non si costruisce una città e il mestiere che fanno è la loro preghiera (Siracide 38). Op-
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portuno e prezioso si rivela il vocabolarietto etimologico presentato a conclusione dell’opera. E bene diceva E. Cioran: “Noi non abitiamo in una
nazione ma in una lingua”. La parola, specialmente in vernacolo, nasce
e vive in un preciso contesto lessicale e si muove con forza lungo coordinate geostoriche e sociali ben definite (Isidoro di Siviglia, sec. XVI,
Etimologiae sive origines). Lode e gratitudine, quindi, a Rosa Di Maggio,
Autrice di questo lavoro. Se le carte tacciono (si carthae sileant, Orazio)
tutto scompare ed il tetro oblio celebra i suoi trionfi. Per non dimenticare.
“Forsan et haec olim meminisse iuvabit
Un giorno forse sarà dolce ricordare queste cose”
(Virgilio, Eneide I, 203)
Salvatore Antonio Grifa
Membro ordinario della Società di Storia Patria della Puglia
Palazzo Ateneo. Bari
Paesaggio garganico.
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Il Gargano
Coppa d’Incero. Mandria di cavalli. Foto di G. Gravina
A rendere bello ed interessante un paese o un territorio non sono solo le grandi opere create dalla mano dell’uomo, è soprattutto la Natura che è fonte di ogni bellezza e musa ispiratrice dell’arte. L’uomo
ne imita gli aspetti e così nasce il bello dell’arte umana.
Forse che non è bello vedere rigogliosi boschi di querce, pini, lecci
sempre verdeggianti che adornano le valli, le colline, le pendici del
roccioso Gargano? O sentire il fischio del vento del Nord, dell’amica Bora che soffia e vince i silenzi e trasporta a noi voci arcane, che ci
parlano dell’immensità dello spazio e dell’eternità del tempo? “Così
tra questa immensità s’annega il pensier mio: e il naufragar m’è dolce in
questo mare” (L’Infinito, G. Leopardi), o la dolce armonia dei canti degli uccelli, che si intrecciano elevando un canto di lode a Dio?
Non fu forse per l’abbondanza e la ricca varietà della fauna che Federico II scelse il Gargano come territorio di caccia dove gli piaceva
trascorrere lunghi periodi per dare ristoro al corpo e all’animo? Dove, secondo la leggenda, che la tradizione storica ha accettato, Diomede 2 si recava per sfuggire al caldo afoso dei mesi estivi della pia2. Diomede dopo la distruzione di Troia nella Troade allontanandosi dalla patria approdò
dapprima alle isole Tremiti, poi sulle coste della Puglia, dove regnava il re Dauno. Diomede vincendo un torneo con in palio come sposa la figlia di Dauno, divenne re della Puglia e
del Gargano. Per tanto si diede a conoscere il territorio avuto in eredità e scoprì così la bellezza, la salubrità e l’utilità del Gargano.
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nura? Il Gargano é il luogo ideale di ristoro per la purezza dell’aria,
per la rigogliosa e lussureggiante vegetazione, per la posizione geografica con i suoi vasti orizzonti, adatta anche per costruire i “castella” di avvistamento e di difesa dagli assalti nemici, molto frequenti
in tempi passati. Il grande lirico latino, Orazio Flacco, non poté tacere delle bellezze del Gargano, della sua “rigogliosa natura rallegrata dal muggire degli armenti tra rivoli di acqua zampillante” (Orazio,
ep. I vv 202 libro II; Ode IX.
Il Gargano è una terra antichissima, formatasi nel periodo “Giurassico” (da qualche decennio si vanno scoprendo rocce ancora più antiche), coperto da boschi e macchie mediterranee per oltre 30.000
ettari. Il suo nome lo deve, secondo la leggenda, ai Greci, che sarebbero giunti tra l’VIII e IX secolo a.C. Gargano, infatti, secondo gli studiosi, deriva dal termine greco “gargaros”, che significa “alta vetta”. Ad accreditare questa tesi è la presenza nella Misia, regione dell’Asia Minore, di una città con lo stesso nome, dal significato “città posta sul monte”. I Gargani, quindi, sono gli abitanti della montagna.
Ma tante sono le supposizioni sul toponimo “Gargano”, per esempio, da alcuni, è ritenuto nome composto, “Argo-Iani” (Arca di Giano) 3, da altri, termine derivante da “gargareso” (gorgoglio), dovuto
al mormorio delle onde dell’Adriatico e dal rumoreggiare delle grot-
te, o da “gargaro” termine usato nella regione della Frigia per indicare una cima del monte Ida e “gargara” era detta una regione dell’Epiro. Ciò non é accertato storicamente, ma attesta il desiderio dei
popoli garganici di conoscere l’origine delle proprie radici come popolo e come razza.
La conformazione geologica del Gargano per la sua natura aspra ha
condizionato le popolazioni. L’uomo delle origini ha dovuto praticare l’attività della caccia per procurarsi di che vivere; in seguito, circa 20.000 a.C., ci fu una svolta decisiva nella sua storia: cominciò
ad usare la pietre levigate più taglienti e ad allevare animali. Lentamente con il sopraggiungere di altri gruppi etnici con nuove esperienze di vita e nuove tecniche lavorative diede vita ad attività quali la pastorizia e l’agricoltura. Le stele daunie ne sono una testimonianza con la rappresentazione zoomorfa su loro riportata.
Iniziò così l’eterna lotta tra la natura impervia non sempre benevola e l’uomo desideroso di sottometterla e dominarla, con una certa integrazione tra agricoltura, artigianato e pastorizia e con la sua
proverbiale pazienza ha strappato e rubato ai boschi pochi metri di
prato.
La pastorizia, dalla quale le popolazioni per secoli hanno tratto il loro sostentamento, fu il perno dell’economia, della struttura sociale
e della cultura garganica sin dall’età preromana. Essa ne ha condizionato le vicende storiche, gli stili di vita, la diffusione delle popolazioni sul territorio, la morfologia del paesaggio naturale e agrario,
la localizzazione e la struttura urbanistica.
3. Giano era il dio che si adorava su tutto il Gargano e alcuni hanno preso il nome da lui
(Rignano: ara Iani; Stignano: ostium Iani…). Giano esisteva prima della distruzione della
città di Troia, di cui parla Omero nell’Iliade. Nella mitologia,infatti, si parla di Giove che,
divenuto grande, liberò i suoi genitori, Cibele e Saturno dal carcere dove li aveva rinchiusi
Crono temendo di essere da loro spodestato e privato del regno. Lo stesso Giove, temendo la
stessa cosa da Saturno lo espulse dal cielo e questi si rifugiò nel Lazio presso Giano. Di questo nume pagano in antichi sepolcri si trovano effigi con due teste a simboleggiare la prerogativa che lo distingueva: conoscere il futuro senza dimenticare il passato.
Capitolo I
I Mestieri
legati alla Pastorizia
Gregge a riposo.
Capitolo I. I Mestieri legati alla Pastorizia
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Lu Pucurare
Il Pecoraio
Monte Nero. Coppia di cavalli. Foto di G. Gravina
La terra garganica presenta una accentuata montuosità, altipiani variabili dai 300 ai 1000 metri s.l.m. e pochi spazi pianeggianti, ambiente, quindi, naturalmente elettivo di greggi e pastori. Con il sopraggiungere di altri popoli provenienti dalle regioni poste aldilà
dell’Adriatico, la pastorizia divenne l’attività economica prevalente, non certo di tipo imprenditoriale come ai giorni nostri, che ha
avuto grande importanza in campo economico, sociale e culturale
del nostro territorio. Nell’esercitare tale attività il pastore ha dovuto quotidianamente condividere con il gregge ambiente e condizione di vita condotta tutta all’aperto, legata fisicamente alle greggi, subordinata alle loro esigenze alimentari e alle caratteristiche specifiche dell’ambiente dei pascoli, gli erbaggi rendono, ancora oggi, alcuni formaggi unici. Viveva all’addiaccio, al caldo e al freddo. Simboli di questa convivenza sono, tutt’ora, lo “stazzo”, un recinto per
custodire nottetempo il gregge e “lu pagghjare” una capanna costruita con la tecnica delle pietre a secco, eretto dagli stessi pastori come loro ricovero, di forme e dimensioni diverse, dalla caratteristica
struttura a tholos, con copertura e pseudo volta realizzate mediante
la sovrapposizione concentrica di rozze lastre di pietra calcarea. Non
di rado, d’estate, dormivano per terra in mezzo alle pecore per meglio difenderle da eventuali assalti di lupi o di ladri, era, infatti, molto diffuso l’abigeato, il furto del bestiame. Si era soliti dire che il vero pastore doveva dormire con un occhio sempre aperto e il pensiero rivolto costantemente al gregge. Talvolta “li pagghjari” si trovano
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Capitolo I. I Mestieri legati alla Pastorizia
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riuniti in gruppo raccordati e conchiusi da “stazzi” anch’essi di pietra a secco come alte muraglie, quasi primordiali fortini, atti a proteggere le greggi dai predatori.
Era dura la vita del pastore. Grandi rinunce, lontani per settimane
dalla famiglia e dal paese, ma era una scelta di vita, una vera e propria
vocazione per cui, alle esigenze degli animali, finivano per adeguarsi quelle delle famiglie intere. “Quant’ié matte lu pucurare, vo bbane
chjù alle pàcure che alla mugghjare” 4 si canta in una “strapoletta” paesana, che fa ben capire la cura che il buon pastore doveva avere per il
suo gregge. Il rapporto di interdipendenza che si creava tra il pastore
e i suoi animali vedeva una passione che andava oltre il lavoro. Non
si poteva lasciare incustodito il gregge se non per qualche ora affidandolo alla solidarietà di un altro pastore amico, che viveva la stessa
condizione. Durante la notte, sempre con l’orecchio attento al più
piccolo rumore, coadiuvato in questo dal fedele compagno, il grande e bianco cane pastore, si alzava più volte per “dare un’occhiata”
alla “mandra” (recinto) e controllare così che tutto fosse tranquillo.
La sua giornata iniziava prima del sorgere del sole. Accendeva il fuoco e si preparava al primo compito importante: la mungitura. Rito
questo che si ripeteva anche la sera al rientro dal pascolo. Il pastore
viveva in perfetta comunione con il suo gregge, conosceva le sue pecore una per una nei difetti e nelle qualità, le chiamava per nome,
gli bastava un tocco con la mano per riconoscerle al buio e sapeva
come comportarsi con ognuna di esse.
“Io conosco le mie pecore e le pecore conoscono me... e dò la mia vita per
le pecore” dice il Vangelo nella parabola del Buon Pastore.
Oggi la tecnologia è entrata anche in questo mondo immobile ed
atavico con le sue mungitrici elettriche. Non v’è più il contatto diretto tra l’uomo e l’animale che li metteva in sintonia e li accomunava in un linguaggio d’intesa e di complicità, “jamme bella jà, fatte
sotte, ninna avanne paura” 5 invitava paternamente affettuoso il pastore se una delle sue pecore era restia ad avvicinarsi all’imboccatura
del “corridoio” per la mungitura. Poi con delicatezza ed abilità premeva i suoi turgidi capezzoli e il caldo latte si riversava nella “sècchja”, mentre con il pensiero ringraziava il buon Dio per quel dono,
quale premio alle sue fatiche e alle sue cure. Era con quel latte che
subito dopo sul fuoco già acceso realizzava ricotta e formaggio,“la
quagghjata”, intanto il garzoncello preparava il pancotto o versava
del latte appena munto nel grande piatto di rame, “la ramèra”, per
una zuppa di latte con pane casereccio frutto delle calde mani della massaia. E mentre poi il giovane pastore si preparava per la “scàzzeca” il massaro, il pastore anziano e più esperto, si affacciava sulla porta per scrutare il cielo interrogandolo muto, dopo di che dava
disposizione in quale direzione e a quale pascolo condurre il gregge. Allegro e fischiettando, con la gioia di vivere nel cuore e la spensieratezza della giovinezza, il giovane pastore si avviava con il gregge
verso i pascoli: a tracolla una borsa di tela, la “panettèra”, dove aveva
posto un pezzo di pane e del formaggio, l’immancabile coltello dal
manico di osso ricavato dal corno di un castrato, il flauto, “lu ferlarute”, strumento musicale ereditato dalla millenaria tradizione mitologica e compagno inseparabile per le sue lunghe giornate e appesi al braccio l’ombrello, “lu scruiate” (la frusta) e l’uncino. Con il cane al fianco percorreva i sentieri abituali respirando a pieni polmoni l’aria fresca e tersa. Il silenzio lo avvolgeva e lentamente lo condu-
4. “Quanto è matto il pecoraio, vuole più bene alle pecore che alla moglie”.
5. “Su bella su, vieni vicino non aver paura”.
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Capitolo I. I Mestieri legati alla Pastorizia
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ceva con i suoi pensieri verso progetti di vita futura, mentre in una
luce variata e colori variopinti, il gregge pascolava pigro e tranquillo. In quella atmosfera di pace pregna di sogni e desideri sentiva la
voglia di cantare al mondo la sua gioia, la sua libertà e il piacere del
suo intimo dialogare con la natura fin quasi ad annullarsi in essa. Ed
era allora che tirava fuori dal tascapane il flauto ed elevava dolci note
al cielo rompendo quel silenzio arcano.6 Altre volte amava tacere per
ascoltare il silenzio ed immergersi in esso, mentre con le abili mani
e con un coltellino ben affilato incominciava a lavorare un pezzo di
legno con cui avrebbe realizzato oggetti ed utensili originali e unici,
secondo quanto la materia gli avrebbe consentito. Tagliava, levigava,
dava forma al pezzo di legno grezzo e con la sua abilità creava piccole sculture di animali o un cucchiaio, una forchetta dai lunghi manici, un collare per la caporale del gregge, un mortaio, delle nacchere, tutti adorni di incisioni a disegni geometrici e floreali o di intarsi.
Il pastore attraversava valli e sentieri millenari, gli stessi che avevano
percorso i suoi antenati e immaginava i loro pensieri e i loro percorsi quasi avvertendone la presenza. Si rivedeva in loro, liberi in quella natura incontaminata e misteriosa così prodiga di elementi vita-
li, ma nello stesso tempo nell’eterna lotta contro la forza scatenata
dei suoi elementi.
E’ sera! Si ritorna all’ovile. Effettuata la mungitura serale, sistemati gli animali nello stazzo, provveduto ai cani con una scodella abbondante di siero e pane, i pastori finalmente potevano pensare a
loro stessi. Dopo una frugale cena attorno al fuoco, si concedevano il meritato riposo al calore e alla luce della fiamma scoppiettante
nell’ampio camino. In quel silenzio e in quella penombra si intrecciavano confidenze e racconti tra pastori di generazioni diverse, accomunati dai sogni degli uni e dai ricordi degli altri. D’estate non
disdegnavano di trascorrere al fresco, fuori dallo stazzo, il loro tempo libero. Allora più lunghi erano i loro silenzi, con gli occhi fissi nel
manto di velluto nero del cielo, assorti ciascuno nei propri pensieri,
interrotti di tanto in tanto dall’ apparire improvviso di una stella cadente mentre in lontananza l’abbaiare di un cane, al quale rispondeva la voce di un altro cane, interrompeva quel silenzio profondo, fino a quando il “massaro” non decretava che era ora di andare a letto
non senza aver prima dato un’ultima occhiata nello stazzo, una carezza ai fedeli cani e uno sguardo al cielo per leggervi cosa prometteva il giorno dopo, e, non per ultimo, un pensiero al Creatore. Ricco di saggezza, di esperienze di vita vissuta e di cultura pratica era il
mondo dei pastori, che traevano l’almanacco dall’osservare la natura e il mondo degli animali.
Per i pastori il loro lavoro è stato sempre simbolo di libertà e di armonia con l’Universo e pur vivendo nelle ristrettezze economiche,
nella paura legata a tanti fattori, a volte nell’abbrutimento, conducevano una vita sotto molti aspetti serena e tranquilla.
Quella del pastore è una “professione” molto antica, che nel periodo romano era considerata l’attività tra le più nobili e redditizie tan-
6. Il flauto è lo strumento musicale più antico del mondo. Da un gruppo di ricercatori dell’Università di Tubinga (Germania) è stato rinvenuto in una caverna un flauto di
35.000 anni fa. Secondo la mitologia greca il dio Pan (in quella romana Fauno-Silvano)
dall’aspetto metà capra e metà uomo era signore dei campi e delle selve, protettore delle greggi e degli armenti e allevatore delle api, mentre pascolava le greggi suonava e danzava; gli
erano sacre le cime dei monti. Fu lui che costruì lo strumento musicale a 7 canne di lungezze
diverse, che denominò “siringa” dal nome della ninfa Siringa, che per non sottostare al suo
amore fuggì via per valli e monti pregando il padre Leudone, dio dei fiumi, di trasformarla in una pianta. Quando il dio Pan la raggiunse strinse, invece del suo corpo, un ciuffo di
canne palustri e incominciò a lamentarsi. Il vento allora vibrando nelle canne produsse un
suono delicato simile ad un lamento. Il dio incantato dalla dolcezza nuova di quella musica esclamò “Così continuerò a parlarti” e saldate fra loro con la cera delle api canne disuguali costruì lo strumento a cui diede il nome della fanciulla.
Rosa Di Maggio. Le Radici della mia Infanzia
Capitolo I. I Mestieri legati alla Pastorizia
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to da farne un settore importante per l’economia e molte furono le
leggi emanate per la sua difesa e il suo sviluppo. La pastorizia resiste
ancora, ma forse é considerata anacronistica nel nostro mondo ipertecnologico. Intorno agli anni ’70 sembrava addirittura che dovesse
scomparire, oggi però ha riacquistato una certa importanza e anche
se è praticata come allevamento e non come pastorizia, rimane un
mestiere che conserva il suo fascino, lontanissimo dalla tumultuosità della vita frenetica di città. Rimane un’attività pur sempre dagli
spazi aperti e dai ritmi più lenti, dura, fatta di orari “pesanti”, di fatica all’aperto con qualsiasi condizione metereologica, ma ha in sé e
per chi la porta avanti una grande dignità, che va difesa e rispettata.
La Transumanza
“Trabucco” con uncini e una grossa caldaia per la lavorazione del latte.
Con lo scorrere del tempo la pastorizia divenne una vera e propria arte.
L’esigenza di alimentare nel miglior modo le greggi e gli armenti aguzzò
l’ingegno dei pastori, che impararono a procurarsi pascoli giusti per ogni
stagione, con diversità di clima e quindi con erbaggi migliori. Questo
fenomeno prese nome di transumanza, che vedeva spostamenti di mandrie e di greggi da un territorio all’altro, consentendo complementarietà
fra pascoli diversi, in modo particolare fra i pascoli rigogliosi di erbaggi tra le alte cime abruzzesi e le erbose pianure nei mesi invernali del
Tavoliere pugliese. La transumanza è stata una prerogativa del mondo
della pastorizia dei Paesi Mediterranei di tale importanza che fu necessaria una regolamentazione giuridica con caratteristiche, regole e leggi proprie, legate ad ogni singolo territorio, sul Gargano regolavano la
piccola transumanza verticale con duplice flusso: dal piano alla montagna e, dopo la mietitura per la “statònneca”, dalla zona collinare verso il Tavoliere, verso le vaste distese di ristoppie ricche di spighe sfuggite
alle falci. Erano spostamenti stagionali di uomini e greggi, che alla fine della primavera e dell’autunno percorrendo a piedi diecine di chilometri giungevano ai pascoli idonei. La piccola transumanza garganica è frutto dell’esperienza della grande transumanza storica tra la Puglia e l’Abruzzo.
Quando giungeva il momento ogni membro della famiglia assumeva
un compito ben preciso. Per il trasporto delle masserizie si utilizzavano
animali da soma: cavalli, giumente, asini, muli.
Non era cosa agevole attuare la transumanza perché bisognava attraversare anche le periferie dei centri abitati. Ma era vissuta come una gran-
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de festa. Era allora che i giovani e baldanzosi pastori mostravano le loro capacità e abilità sotto gli occhi dei curiosi, ammirati dai ragazzini
e soprattutto dalle belle ragazze. L’arrivo delle mandrie era annunciato dallo scampanellio delle campanelle legate ai colli degli animali e dal
tipo di suono si capiva se erano greggi o mandrie. Allora tutti, chiamati
da quell’allegro suono, accorrevano per godersi lo spettacolo, ammirare la bellezza di quegli animali così curati e dei giovani pastori, che con
la loro caratteristica “panettèra” o “tascapane” lucidata e adornata da
stelline o bottoni di metallo, ai piedi un paio di “zambitte” e in mano
un uncino multiuso, davano spettacolo della loro abilità nel guidare le
greggi aiutati dagli inseparabili compagni di vita e di avventura, i grossi cani-pastore, per lo più di razza abruzzese a ricordo della convivenza con i pastori abruzzesi della grande transumanza, bardati con il collare guarnito di punte, “lu vruccale”, per meglio difendersi dagli eventuali attacchi dei lupi o di altri cani estranei al gregge. Essi rendevano
molti servigi, erano veri e propri aiutanti del pastore, che con essi non
di rado si sorprendeva a parlare come ad un fedele e confidente amico.
Il cane non solo difendeva il gregge e di notte vigilava ai margini dello
“stazzo”, ma durante la transumanza ai lati del gregge in cammino teneva allineate le pecore proprio come volevano i pastori.
Era uno spettacolo straordinario vedere un gregge guidato dai cani che
saliva per “Lu giresterne” (giro esterno, attuale Corso Matteotti), rasente Largo Piscine, verso la Costa, inerpicarsi su sassi sporgenti e sulle
rocce fino alle Murge o al bosco dove avrebbe trovato pascoli abbondanti e freschi, dove però, non sempre sarebbe stata facile la convivenza con
i confinanti, possessori di piccoli appezzamenti di terra. Spesso nascevano dei litigi per danni, sicuramente irrisori per il nostro modo di vedere, causati da qualche animale, che per sconfinamento o sfuggendo alla
vigilanza del pastore, provocava a “nu funne” di patate. Segno questo
della rivalità esistente da sempre in tutti i Paesi Mediterranei tra i coltivatori e i pastori. Talvolta invece il litigio era provocato dalla promiscuità di diritto di pascolo, come avveniva spesso in località “Castellere” fino a Pantano, zona intorno al Lago di Sant’Egidio, che delimita i
confini dei Comuni di San Giovanni Rotondo e Monte Sant’Angelo: i
Sangiovannesi avevano il diritto di pascolo, di semina, di pesca, di fare legna, di prendere acqua, di costruire piscine ed abbeveratoi, di piantare vigne senza pagare il diritto di “fida” 7; la popolazione di Monte Sant’Angelo, che rappresentava promiscuità per demanio confinante,
aveva diritto di pascolo dal 2 novembre fino al 7 maggio, dopo avrebbe
dovuto pagare la fida sull’erba e sull’acqua.
Molti i racconti e gli aneddoti nati intorno a questa situazione e raccontati ai giovani pastori dagli anziani durante le soste del meritato riposo serale.
Mucche al pascolo. Foto di G. Gravina
7. Fida: ius affidaturae, cassa comunale.
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La Carosa e Li Casurature
sta. I tosatori “li casuratùre” giungevano di buon mattino, di solito
erano altri pastori amici che si aiutavano reciprocamente, una volta
era diffuso il baratto del lavoro, chiara forma di solidarietà concreta.
In questo mondo semplice, quasi primordiale, la solidarietà non era
un valore sconosciuto, come quello dell’essenzialità, della sobrietà,
del rispetto per l’ambiente. Con i tosatori giungevano le rispettive
mogli per aiutare la padrona di casa non solo a preparare il “luculliano” pranzo (si fa per dire), ma anche per dare una mano a gestire una giornata, che sarebbe stata lunga e faticosa. Ferveva insomma
“attùrne lu jacce” un gran movimento in un’atmosfera di allegria. Si
preparava l’occorrente: si stendeva un grosso telone, “la rachena”, su
cui poggiare le pecore da tosare, si sistemava in un angolo un grosso sacco di tela, “lu ballone”, per conservarvi in ordine i velli. Non
mancava l’opera dei fedeli e onnipresenti cani: essi, infatti, bene addestrati, “ammurrijévène” gli animali nel recinto posto in un luogo
a riparo dalle correnti d’aria per far “sudare” la lana. Intanto le donne si stavano affaccendando intorno al camino per preparare il sugo d’agnello, la carne di una giovane pecora, la “sciavorta” o di “lu
casrate” bollita in acqua e sale, baccalà fritto per lo spuntino di metà
mattinata, “la mbranne”. I bambini contribuivano alla festa rincorrendosi liberi per i campi tra urla festose.
E’ ora! Si incomincia, non prima di aver preso un boccone, “nu vuccòne”. Ad una ad una le pecore venivano portate sul telone per la tosatura. Il tosatore, dopo aver steso a terra l’animale e impastoiatolo, con abilità e sapiente destrezza svestiva velocemente con le forbici da “caròsa” la pecora, che con il nuovo louk bianco, per evitare
che uno sbalzo di temperatura potesse recarle danno, veniva subito
portata al riparo al modo di una carriola: era presa dalle gambe posteriori e fatta camminare su quelle anteriori. Alcune donne da par-
La Tosatura e i Tosatori
Le greggi in primavera prima del trasferimento da un luogo all’altro venivano preparate come per una festa. I pastori provvedevano
alla tosatura della lana, “la carosa”, poiché bisognava, con il sopraggiungere del caldo, alleggerirle del vello di lana, che le aveva protette dal freddo invernale. D’altra parte si ricavava un cospicuo guadagno dalla vendita del prezioso materiale. Nel mese di maggio infatti giungevano a San Giovanni Rotondo i compratori della lana,
prodotto molto ricercato a quei tempi: la lana con il cotone e raramente la seta era un materiale indispensabile nella produzione tessile, non vi erano ancora materiali sintetici. Oggi la lana italiana è diventata un prodotto di scarto, anzi un “rifiuto speciale”, che per il
pastore ha un certo costo lo smaltimento. Vengono fatti comunque
dei tentativi per il suo recupero, nell’edilizia come materiale isolante, nelle imprese della moda per l’utilizzo di materie naturali e recupero della civiltà contadina. La speranza dei tanti allevatori che
questo prezioso prodotto ritorni ad essere protagonista sul mercato,
non solo per motivi economici, non è del tutto morta. Ciò è dimostrato dai tentativi, pur deboli, di costituire cooperative e creare fondazioni per il suo rilancio.
La tosatura veniva preparata otto giorni prima con il bagno delle
pecore, portate a “vagnà” al Celone presso “Ciccallénte”, “Ponte Petrusìne” “Monte Sacro”, affinché i velli fossero puliti da incrostature e sporco vario e quindi ottenere migliore qualità di lana con un
valore commerciale più alto. La tosatura era anche occasione di fe-
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te loro si affrettavano a portare via i manti di lana caduti sul telone e a sistemarli, arrotolati come una grossa palla morbida e bianca,
nei “balloni”. Il tosatore, approfittava della breve pausa per un brek
velocissimo prima che gli venisse portata l’altra pecora. Si avvicinava al tavolino, posto al lato del telone, dove le donne avevano posto “prupàte”, “scuttèdde”, “taralli”, “scalatedde” preparati giorni prima dalla stessa massaia, vino genuino e... giù un boccone, un sorso
di vino e via per la tosatura di un’altra pecora.
L’atmosfera era gioiosa. Non mancavano sfide amichevoli di velocità e di abilità tra i tosatori e naturalmente battute di spirito, che
suscitavano risate e allegria. La giornata terminava “cu lu capecanale”, cena ricca e abbondante per tutti quelli che avevano partecipato alla grande festa della tosatura. Con il passar del tempo, le forbici sono state accantonate, grazie alla tecnologia e all’introduzione
delle cosi dette macchinette tosatrici in un primo momento a mano e poi a miscela. Anche la figura del pastore-tosatore è scomparsa nel tempo, sostituita dal tosatore di mestiere. Squadre di 5 o 6
persone girano per le campagne chiamate dai possessori di greggi.
E’ nato così il mestiere dei tosatori.
Lu Scardalana
Il Cardalana (Scardassiere)
Intorno al mondo della pastorizia ruotavano altri mestieri. La preziosa ed indispensabile materia prima, la lana, non veniva venduta tutta ai mercanti, che giungevano in paese. Parte di essa, infatti,
adeguatamente preparata sarebbe stata utilizzata in loco dalle donne
per confezionare indumenti vari e utili per tutta la famiglia. Perciò
si era affermato il mestiere “de lu scardalana”. Lo scardassiere giungeva in paese con l’arrivo della primavera, a conclusione del periodo
della tosatura. In ogni famiglia, non solo quelle dei pastori, vi erano
uno o più manti di lana grezza, che bisognava cardare per renderla
uniforme e soffice e poi filarla con il fuso a mano e ricavare, grazie
all’abile lavoro delle massaie, indumenti caldi e soffici: maglie, calze, mutande, sciarpe, mantelle, berretti... la doppiezza del filo variava in base all’utilizzo che se ne doveva fare.
Il filato veniva poi passato all’aspo “lu naspatùre” per formare delle
matasse da lavare bene e poi farne gomitoli. In nessuna casa mancavano gli attrezzi necessari.
Quello del filare è stato un lavoro tramandato per millenni e gli attrezzi utilizzati, fusi, arcolai, canocchie, aspi cantati come simboli di
virtù muliebri e strumenti indispensabili per il menage famigliare.
Della donna che filava hanno cantato i poeti e narrato gli scrittori,
insomma, intorno a questa figura di donna è nata una vasta letteratura. Nella nostra tradizione quaresimale la “quarantana” era rap-
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presentata con il fuso tra le mani.8
Strettamente legata al prodotto del filare era l’attività delle tessitrici
che producevano coperte, lenzuola, tovaglie...
Il cardalana come tutti gli ambulanti del lavoro porta a porta con i
suoi attrezzi sulla spalla si annunciava all’angolo della strada con il
suo vocione e il suo invito solito “Lu scardalani!!!! Belle femmine scardateve la lana”9.
Invitato si fermava davanti la porta della cliente e preparava l’occorrente. Stendeva sulla tavoletta cosparsa di chiodini appuntiti la lana grezza da pettinare, poi pressava con un’altra tavoletta munita di
due manici, che il cardatore teneva con le due mani, e imprimeva
energici movimenti da sinistra avanti indietro. Così la lana grezza
veniva ridotta a sottili e regolari filamenti o a manti soffici secondo
la richiesta della massaia. La lana era bianca o nera, i due colori naturali, ma, mischiando ciuffi di lana dei due colori, si potevano ottenere tonalità diverse di grigio.
Lavoro molto utile quello del cardalana perché facilitava il compito della filatura alla massaia. Chi infatti non poteva permettersi la
cardatura doveva filare la lana grezza e costava più fatica e più tempo. Anche a questo mestiere è subentrata la tecnologia con macchine veloci e perfette. Sono nate così le “filande” ed è scomparso il
cardalana, che ogni primavera si annunciava per le strade del paese.
A San Giovanni Rotondo per molto tempo ha funzionato la filanda di Antonio Napoletano (Tunini Callarèdde), che serviva anche i
paesi vicini. Egli ha saputo da attento imprenditore camminare con
i tempi, infatti all’attività di mugnaio, possedeva un mulino in Via
Silvio Pellico, sostituì quella della scardatura.
8. La Quarantena era una bambola di pezza, vestita di nero perché ritenuta vedova di carnevale e che per quaranta giorni avrebbe vissuto la sua vedovanza. Veniva sospesa, penzolando da una corda legata a due finestre o balconi posti frontalmente, al centro della strada, il giorno delle Ceneri. Sotto la gonna nera teneva infisse in una patata sei penne nere di
gallina (quante le domeniche di quaresima). Ogni sabato notte veniva eliminata una penna. La Domenica di Pasqua, con la caduta dell’ultima penna, la bambola veniva bruciata.
Aveva anche un significato allegorico: veniva esposta alle intemperie perché gli agenti atmosferici potessero operare la catarsi del male, del peccato e propiziare all’uomo una nuova vita.
9. “Il cardalana, belle donne cardatevi la lana!”
Antica tosatura delle pecore.
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Lu Crastatore
tté” - diceva qualche comara, vicina di casa.10
Legato al mondo della pastorizia era anche il mestiere “de lu peddaiolo” (pellaiolo), egli acquistava pelli di ogni genere e forma, le puliva e le conciava, poi le stendeva al sole per l’asciugatura. Tante una
volta erano le pelli da conciare. Non c’erano i vaccini di prevenzione
contro le malattie, per cui tra gli animali si diffondevano frequenti epidemie. Questo lavoro, spesso eseguito dai pastori stessi, portava di tanto in tanto il pellaiolo a percorrere le vie del paese e con il
grido di richiamo attirava l’attenzione di chi aveva pelli da vendere.
Le pelli conciate bene erano molto richieste sul mercato per i tanti
usi che se ne faceva nella vita quotidiana e nell’utilizzo industriale.
Nel Regno di Napoli famose erano le industrie per la confezione di
indumenti e oggetti in pelle, che alimentavano un commercio molto cospicuo verso tutti i Paesi d’Europa. Famosissimi erano i guanti prodotti a Napoli.
Il Castratore
Un altro mestiere legato al mondo della pastorizia e della civiltà
contadina era quello del castratore, oggi il laureato in veterinaria.
Egli conosceva metodi di intervento per le tante e diverse patologie
degli animali, che per lo più erano conosciuti e praticati dagli stessi
pastori, ma la sua attività precipua era la castratura.
Una volta la convivenza con gli animali da cortile nei sottani delle
abitazioni era frequente. Si allevavano polli, maiali ed altri animali
e quando si voleva portare un animale all’ingrasso si praticava la castratura con l’intervento dell’esperto: “lu sanapurcèdde”. Questa era
un’operazione molto delicata. Richiedeva una grande abilità e precisione perché si trattava di un importante intervento chirurgico
eseguito con rasoio e coltellino ben affilati. Il castratore girava per
le campagne fermandosi “alli jàcce” (ovili) per prestare la sua opera
e non era disatteso. Di lavoro ce n’era molto, tanti erano gli agnelli maschi destinati al macello e che i pastori preferivano vendere da
adulti. Ma si trovava lavoro soprattutto presso “li purcare”: gli allevatori di maiali, animali destinati per natura all’ingrasso, per cui bisognava castrarli. Di qui il nome più diffuso di “sanapurcedde” (castraporcelli).
A questo mestiere si faceva riferimento per ammonire, con una
scherzosa minaccia, qualche giovanotto troppo intraprendente “Belle giò nin facianne tante lu jadduccedde, lu sanapurcèdde sta pure pe
Tosatura moderna. Foto di A. Cappucci
10. “Bel giovane, non fare tanto il galletto, il sana porcelli c’è anche per te”.
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La Fiera
adiuvato dal Capitano del paese e dal Camerlengo della fiera e assistito
dal Consiglio degli eletti del paese, ogni intervenuto proponeva il prezzo. Gli eletti del Consiglio si ritiravano e stabilivano il prezzo che risultava più conveniente e più giusto, quindi il Commissario lo comunicava al popolo e al re, che aveva la facoltà di alzarlo o abbassarlo. Aveva
valore effettivo solo dopo l’approvazione. A nessuno era consentito commerciare prima del bando del prezzo. Per incrementare l’afflusso alla
fiera tutti i convenuti godevano dell’esonero dalle gabelle e del gratuito
pascolo nel demanio comunale. In seguito, poiché a volte il raccolto delle messi non era ancora terminato e il prezzo fissato poteva risultare iniquo, la data della fiera slittò al 29 giugno, giorno della festa di San Pietro e Paolo, soppiantando quella che si teneva a San Severo.
Nel 1649 questa grande fiera di San Giovanni Rotondo fu trasferita a
Foggia per facilitare la vendita di lana, formaggio e pecore e con essa fu
trasferito anche il diritto di fissare il prezzo dei cereali.
In occasione della festa di San Giovanni Battista il 23 e 24 giugno, veniva allestita un’altra importante fiera. Era la fiera per la festa tradizionale dei pastori. La statua di San Giovanni Battista, patrono di San
Giovanni Rotondo e protettore dei pastori, vestita con una pelle di pecora e accompagnata ad un agnello, veniva portata in processione a spalla
dagli stessi pastori e ancora oggi in tale occasione molti bambini per devozione al Santo vengono vestiti con la foggia dell’abito indossato da San
Giovanni. La fiera era dunque anche la “fiera dei pastori” per le vendite
e gli acquisti. Essa ospitava mercanti e gente proveniente da tutta la Regione e non solo. Giungevano con vari mezzi di trasporto, cavalli, “scjarabbà” (calessi), “traini” (carretti) al Largo Piscine, l’attuale Piazza Europa, allora ricca di platani e bocche di piscine da cui si attingeva l’acqua
del “puscinone”. Luogo ricco di storia e di vita vissuta, cancellato oggi
dalle tante costruzioni e invaso dalle decine di macchine parcheggiate.
Intorno alla pastorizia, dunque, si è sviluppato un discreto commercio
non solo per i prodotti caseari (ricotta e formaggio di pecora, capra e
mucca, caciocavalli e scamorze) e della lana, ma anche per animali da
macello, da allevamento, da tiro... e il luogo privilegiato per gli scambi
commerciali erano le fiere.
Le fiere, diverse dai mercati settimanali, erano molto diffuse e frequentate. Esse, infatti, si tenevano in occasione di feste patronali o di eventi importanti e i produttori, piccoli e grandi, vi portavano le loro mercanzie.
Anche San Giovanni Rotondo per una sua antica attitudine al commercio, vanta una tradizione di fiere di grande prestigio fin da tempi
molto antichi. Con l’avvento degli Angioini nel XIII secolo, a San Giovanni Rotondo si teneva una fiera, che durava sette giorni, dall’otto al
14 giugno in occasione della festa di Sant’Onofrio, che cadeva l’11 giugno. Nella piazza della Chiesa di Sant’Onofrio convenivano i rappresentanti delle città di tutta la Puglia per vendere i loro prodotti e soprattutto il bestiame. Tale fiera era resa ancora più importante per il fatto
che in questa occasione si fissava il prezzo dei cereali, che aveva valore
legale per tutto il Regno di Napoli. L’importanza della vastità del territorio posseduto da tempi antichissimi infatti, aveva fatto di San Giovanni Rotondo il centro commerciale del Gargano e dell’intera Puglia.
Qualcuno però non voleva riconoscere la pubblica decisione del paese
garganico, per cui la pubblicazione del prezzo assunse forma legale. I
convenuti si riunivano nella Chiesa Madre e, presidente un Consigliere
della Collaterale, che aveva uno speciale mandato del Commissario, co-
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Quella del 24 giugno era soprattutto una fiera di bestiame, animali di
ogni razza, ovini, bovini, suini, muli, cavalli e giumente di grande pregio. In una atmosfera di festa, di grande chiasso e frastuono di giocolieri e attrattive varie si muovevano allevatori, compratori, mercanti, sensali e intermediari 11 ma anche lestofanti pronti ad approfittare dell’ingenuità ed onestà di altri. Le contrattazioni a volte erano lunghe, i nostri pastori avevano allevato con cura e sacrifici gli animali e volevano
realizzare il massimo guadagno per il loro lavoro e far fronte così a scadenze ed impegni. Quando si raggiungeva l’accordo non si stipulava un
contratto scritto, bastava una vigorosa stretta di mano, una manata sulla spalla. Bastava la parola tra galantuomini “lu vove ci canosce dalle
corna, l’ome dalla parola” 12 era il loro motto. Non mancava però chi
lasciava una caparra per essere più sicuri, da ambo le parti.
Le fiere erano anche occasione di divertimento e di allegria, di evasione e di distrazione, di folklore e di incontri. Tutti vestiti a festa uomini, donne, giovani, vecchi, bambini si riversavano per le vie del paese
tra le bancarelle e le mandrie per comprare, curiosare e godere di spettacoli insoliti. I giovanotti diventavano più intraprendenti e spavaldi, specialmente se in gruppo, affollavano i baracconi dei giochi e del
tiro a segno con fucili a salve cercando di colpire un cane di pelusce,
una bambolina o altro trofeo della vittoria per farne omaggio a qual-
che bella ragazza. In un angolo un omone grande e grosso, a torso nudo, piegava grosse sbarre di ferro o spezzava la catena con cui si faceva
legare. In un altro angolo l’attrattiva era il mangia-fuoco, che, anch’egli a torso nudo, sputava su una torcia dalla grande fiamma un liquido infiammabile e la fiamma sfiorava la sua bocca. Non mancavano
i prestigiatori, i venditori di fortuna con il canarino, che con il becco
estraeva il biglietto della “fortuna”, il moderno oroscopo. Immancabile era anche la presenza dell’organino, che diffondeva musica e parole di canzoni conosciute e non, dal ritmo allegro e movimentato e non
di rado veniva ingaggiato per improvvisare una festa da ballo aperta
a tutti. Non mancava mai il cantastorie, una delle figure più importanti della cultura popolare. Innalzava un tabellone suddiviso in quadretti sui quali erano disegnate scene di briganti in lotta con i gendarmi oppure scene di storie d’amore che narrava e commentava o cantava accompagnandosi con la chitarra. Involontariamente la fiera diveniva il mezzo di comunicazione con un mondo diverso e lontano.
Oggi le fiere, pur essendo ancora vive e sentite in occasione delle due feste patronali, hanno perso la loro caratteristica di fiera di bestiame e la
originaria vitalità.
11. L’attività di sensale per il commercio con “specializzazione” nei vari settori (gli esperti
per i prodotti del suolo, gli immobili, di intromittatori), esercitata da uomini e donne, era
molto diffusa (tanti erano quelli che esercitavano in nero) e vi erano delle norme, che regolavano tale attività compresa nel campo dei mestieri girovaghi (Art.116), bastava un certificato di iscrizione rilasciato dall’autorità locale di P. S. Con la legge di P. S. del 6 novembre
1926 n°1848 tale attività fu compresa nel campo delle agenzie pubbliche (Art.122), occorreva, cioè, l’iscrizione alla Camera di Commercio e la licenza rilasciata dall’Autorità di P.
S. circondariale. Nel 1927 i sensali con la licenza erano 9. Erano esentati dall’obbligo della
licenza e della cauzione quelli che non avevano depositi di merci.
12. “Il bue si riconosce dalle corna, l’uomo si riconosce dalla parola (data)”.
Capitolo II
I Mestieri
di Artigianato legati
all’Ambiente Contadino
Capitolo II. I Mestieri di Artigianato legati all’Ambiente Contadino
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La civiltà contadina nasce sul Gargano nel VI-V millennio a.C. Ma
il processo di ruralizzazione inizia con gli Angioini, ciò caratterizzerà l’intero sviluppo economico e sociale subordinandogli ogni iniziativa di industrializzazione. Quindi come per ogni attività importante nacquero nel mondo rurale tanti altri mestieri. Come avrebbe
fatto il contadino senza l’aiuto del maniscalco, lo specialista, l’esperto della ferratura dei cavalli? Questo artigiano era indispensabile, altrimenti come si faceva quando uno zoccolo si logorava? Egli, con il
suo grambiulone di pelle, pazientemente e allegramente accendeva
il fuoco in un grosso braciere, la forgia, e con un mantice soffiava sui
carboni fin quando non erano ben ardenti. Vi immergeva quindi il
ferro, tolto dalla zampa del cavallo, e quando questo diveniva malleabile e docile alla lavorazione, poggiatolo sull’incudine lo forgiava a
colpi di mazzuola e martello, lo modellava, lo sagomava. Bisognava
anche praticare i fori per inserire i chiodi e attaccarlo poi alla zampa
dell’animale. Con un arnese simile ad un cacciavite, realizzava i fori con precisione, nella misura giusta. Straordinario! Non sbagliava
di un millimetro. Raschiava poi le unghia e applicava il ferro e con
un colpo secco lo inchiodava allo zoccolo. Da ultimo passava la lima per eliminare eventuali sbavature. Lavoro di perfetta arte estetica! Il cavallo aveva i suoi zoccoli nuovi, pronto a percorrere con più
lena e senza sofferenza tante altre miglia. Un mestiere affascinante!
Grazie mast’Antò! Grazie a te mast’Nofrie! 13
Oggi le strette e intricate vie del Centro Storico non risuonano più
dei colpi forti e sordi del martello sull’incudine, dello stridere del
ferro bollente nel fuoco e dei colpi secchi del maniscalco sugli zoccoli dei cavalli.
13. “Grazie maestro Antonio! Grazie a te maestro Onofrio”.
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Capitolo II. I Mestieri di Artigianato legati all’Ambiente Contadino
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Lu Vardare
cinghie, sottopance, che richiedevano qualità e diversità di cuoio. Il
sellaio costruiva anche otri per contenere, trasportare, conservare liquidi: olio, vino, acqua.
I sellai ebbero un ruolo importante a servizio dell’agricoltura e del
trasporto. Grazie alla loro intuizione, infatti, nacque l’attacco degli
animali da tiro, che permise di sfruttare la forza proveniente dal pettorale e dall’incollatura.
Il Sellaio
Il mestiere del sellaio era interessante. Richiedeva una buona conoscenza delle pelli degli animali e del loro appropriato utilizzo, la tecnica della concia e della lavorazione delle pelli e non da ultimo l’abilità nello scegliere quelle adatte per i vari usi, doveva conoscere bene anche i cavalli, le razze, le misure.
Egli costruiva i basti per tutti gli animali da soma, ma anche le selle
per quelli da galoppo molto richieste dai guardaboschi, dalle guardie a servizio dei ricchi proprietari terrieri che dovevano controllare i vasti territori, dai tanti giovani, che durante le feste patronali o
nelle serate calde in campagna amavano divertirsi gareggiando nella
corsa. Il sellaio curava ogni tipo di finimento, a pettorale, a collana,
per pariglie da tiro a due, a quattro, a sei cavalli.
Le attrezzature usate erano poche, ma occorreva pazienza ed esperienza: la mezzaluna con cui riduceva lo spessore del cuoio, il “leva spigoli” che serviva per arrotondare gli angoli, una serie di coltelli per tagliare il cuoio, robusti aghi (iaghi sacciari), filo speciale per
cuoio, tessuto di sacco, paglia o fieno. I basti e le selle avevano sostegni di legno della misura del collo e della parte posteriore della
groppa del cavallo; la base, imbottita di paglia, era di pelle di mucca, a cui veniva data la forma. L’interno della sella era di tela per assorbirne il sudore, l’esterno era di cuoio perché durasse più a lungo. Non era però un lavoro semplice quello del sellaio perché bisognava ben conoscere la lavorazione del cuoio per costruire anche gli
armamenti “uarnementi”, cioè gli accessori, quali briglie, cavezze,
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Capitolo II. I Mestieri di Artigianato legati all’Ambiente Contadino
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Lu Zucare
nuti insieme dalle funi... erano utili anche alle massaie per stendere
i panni lavati, per attingere l’acqua dai pozzi con il secchio, per trasportare pesi. Tanti insomma erano i loro utilizzi nella quotidianità della vita.
Il Funaio
Di funai oggi in paese non ce ne sono più. La produzione delle funi
è affidata alle industrie e si trovano nei negozi specifici e nei grandi
magazzini. Era un lavoro quello del funaio che si svolgeva all’aperto. Con il sole, con la pioggia e con il vento il funaio lavorava sempre perché molto era il lavoro da fare, aveva tante funi da preparare
per i diversi utilizzi e le diverse necessità: funi sottili, funi grosse, funi medie. La sua abilità consisteva nel coordinare i movimenti delle
mani e dei piedi perché dopo aver fissato la parte iniziale della corda ad un anello attaccato al muro, il rimanente lavoro di intrecciamento lo svolgeva indietreggiando.
Come tutti gli altri artigiani egli lavorava tutto il giorno, dalla mattina alla sera, sempre in piedi, ritto sulle gambe, camminando necessariamente all’indietro come un gambero. Tirava il filo, lo teneva ben teso, lo intrecciava con altri fili, mentre il ragazzo, il garzone
di bottega, era intento a far girare la grande e grossa ruota per dare
movimento alle pulegge. Le matasse dei fili venivano poi immerse in
vasche di pietra e stese per l’asciugatura. Non era un lavoro pesante ma duro. Alla sera il povero funaio giungeva sfinito, con gambe
e piedi “addormentati”. Ma il mattino dopo era pronto a ricominciare nel nome di Dio, che gli dava la salute e non gli faceva mancare il lavoro perché quelle corde procuravano il necessario per sé e la
sua famiglia e davano lavoro e sostentamento a tante altre famiglie:
nei frantoi per la lavorazione dell’uva e delle olive servivano le funi,
i guarnimenti degli animali da tiro e da lavoro dei campi erano te-
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Il Garzone di Bottega
no chiamati gli apprendisti).
Tutto era gratuito e per le famiglie, che non pagavano l’insegnamento e
per il “maestro”, che non dava retribuzione.
Nella bottega non solo si apprendevano le tecniche del mestiere, ma si
curava anche la crescita umana e civile. Il maestro, infatti, era tale anche nell’aiutare il giovane a diventare uomo. Il discepolo da parte sua
sarebbe stato riconoscente per tutta la vita al suo maestro,educato in
questo dalla famiglia. Gli avrebbe portato rispetto per sempre chiamandolo con l’appellativo di “maestro”.
Spesso la bottega, dopo il lavoro, diventava un luogo di ritrovo, soprattutto nelle serate fredde d’ inverno, per una spaghettata o uno spuntino
a base di pane casereccio, olive in salamoia, pecorino e un bicchiere di
vino. Si facevano quattro risate, quattro chiacchiere, si suonava la chitarra battente, si cantava e così trascorreva la serata. A quel tempo quasi tutti gli artigiani sapevano suonare uno strumento musicale per lo più
la chitarra e la fisarmonica, talvolta da auto didatta.
Gli artigiani erano molto uniti e compatti tra di loro a tal punto da
rappresentare un vero e proprio ceto sociale, anche se all’interno vi erano le corporazioni.
Di artigiani nei nostri paesi ce n’erano tanti: falegnami, sarti, calzolai, funai, sellai, cestai, carrettieri, stagnini, barbieri... Di conseguenza
molte erano le botteghe. Ogni bottega d’artigiano aveva il suo garzone
(apprendista del mestiere). Se le bambine fin da piccole venivano avviate ad apprendere un mestiere adatto alle ragazze, i maschietti venivano affidati a bravi artigiani perché imparassero un mestiere per il futuro. L’istruzione anche minima non era per tutti. Saper leggere e scrivere non dava il pane e l’andare a scuola sottraeva braccia lavorative alla
terra. Era un lusso per pochi. Né lo Stato interveniva sulla questione. E
quelli che venivano mandati a scuola, solo i maschi, la frequentavano
per qualche anno, giusto per saper “mettere una firma” (basta che ci sapeva fa’ lu nome so) 14. Per tanto le famiglie provvedevano già dall’età della scolarizzazione ad inserirli nel mondo del lavoro o come garzoni di bottega o come garzoni di greggi e di mandrie, quest’ultimi contribuivano, anche se con poco, all’economia della famiglia percependo un
esiguo salario mensile, un “mezzetto” di grano e un litro d’olio al mese
da dare alla famiglia, vitto e alloggio per il garzone.
Il garzone di bottega, invece, non percepiva nulla durante l’apprendistato se non, a discrezione del “maestro”, una piccola mancia in occasione delle grandi feste o alla fine di un lavoro importante.
Anche se di mattina i ragazzini frequentavano la scuola, di pomeriggio
andavano in bottega. L’apprendistato durava dai due a più anni secondo le capacità di apprendimento e l’impegno dei discepoli (così veniva14. “L’importante è che sappia scrivere il suo nome”.
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Lu Canestrare
capolavori per perfezione e varietà. Vi erano cesti per tutti gli usi, di
grandezza e di foggia diverse. Cesti, cestini, cestoni. Per il pane, per
la frutta, per le uova, per gli ortaggi, per la paglia, per le pietre, cestini per l’asilo, fiscelle per il formaggio e per la ricotta..., con un manico, con due, a forma di cono, di cilindro, di sfera. Piccoli gioielli erano quelli per la frutta di forma ovale, rotonda o a cono con il
manico ad uncino, utile per appenderli al ramo dell’albero, intrecciati di colori diversi di giunchi o di paglia. Tutti creati dalla fantasia e dall’estro dell’artigiano. La musa ispiratrice era sempre la natura e l’attenta osservazione di essa, in particolare del mondo degli uccelli e dei loro nidi.
Il panieraio realizzava un gran numero di panierini, ma anche di
scopini per eliminare fuliggini, per pulire vasi da notte, scope con
manici lunghi per spazzini, scope per le massaie, per spolverare...
Il Panieraio
Un’altra figura di artigiano molto preziosa era il panieraio o cestaio.
Egli doveva realizzare con le canne lacustri, “li iunce” i giunchi o “li
masculari”, teneri rami di ulivo, tanti e vari oggetti. Bisognava quindi procurarsi la materia prima, tagliare per lungo le canne e immergere i giunchi in acqua per renderli più morbidi e malleabili alla lavorazione dopo averli privati della corteccia e levigati... Era un lavoro di preparazione lungo che difficilmente il panieraio poteva fare da solo. Di giorno girava per le campagne o le zone palustri per
procurarsi il materiale e di sera, aiutato dalla moglie, si dedicava al
lavoro di pulitura e taglio.
In certi periodi si vedevano nella botteguccia tanti recipienti allineati, come quando qualche mese prima della vendemmia gli portavano damigiane di varie dimensioni da impagliare, fondi scassati da
riparare, bottiglioni, fiaschi tutti da rivestire a mano a formare una
corazza per difenderli da improvvisi e inaspettati colpi, che li avrebbero mandati in frantumi. Ciò sarebbe stato un grosso guaio perché
essi contenevano liquidi preziosi come il vino e l’olio. Certo l’accorta massaia poneva tali oggetti fuori dalla portata di tutti, era solita
porli “sope lu susadaute” (soppalco in legno), ma l’incidente poteva
sempre capitare. Per questo ci si rivolgeva al panieraio perché li rivestisse. Egli lavorava pazientemente con mani veloci e abili, d’estate all’ombra e in autunno al tepore dei raggi del sole con la coppola
ben calzata sulla testa e talvolta con i mezzi guanti alle mani.
Ma il panieraio confezionava molti altri oggetti. I cesti erano i suoi
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Lu Stagnare
tro, mezzo litro, un quarto, mezzo quarto, un quinto, mezzo quinto. Il lavoro era tanto, il guadagno era poco, ma egli accorto e lungimirante regolava la sua vita al misero guadagno, non faceva mai “lu
passe chiù langu dilla iamma” 15 né disdegnava di mettere su famiglia.
La famiglia di una volta non aveva molte pretese e non si poneva il
problema di come mantenere i figli, che Dio voleva mandare loro,
i figli sono dono di Dio e Dio “te dà pane pe quanta figghje tine” 16.
Era la loro filosofia di vita.
Quanta differenza con la famiglia moderna!
D’altronde le esigenze erano molto poche.
Le piccole botteghe erano anche luoghi d’incontro, salotti per fare
quattro chiacchiere. Non di rado quando si portava qualche oggetto a riparare ci si fermava a chiacchierare o quando qualche amico si
concedeva un po’ di tempo libero, allora si affacciava alla porta della
bottega e si intratteneva a scambiare “quattro parole”, soprattutto se
si trattava di un contadino che non veniva in paese spesso: era l’occasione di scambiarsi notizie e informazioni su tutto; spesso qualche anziano, per vincere la solitudine, andava a sedersi nella bottega
e appoggiato il mento al suo bastone stretto tra le mani osservava lavorare e raccontava episodi accaduti e avventure vissute. Così si trascorreva il tempo rivivendo con la mente, il sorriso sulle labbra, gli
occhi sognanti e la nostalgia nel cuore, i tempi che furono.
Lo Stagnino
In ogni stagione, con il freddo, il gelo, il sole cocente lo stagnino
era sempre lì nel piccolo, angusto “juse” (il sottano), gli bastava poco spazio.
Lo stagnino come gli altri artigiani lavorava molto perché molti erano gli oggetti da riparare o da realizzare. Amava stare nella quiete,
ma lavorava alacremente senza lamentarsi mai.
Pochi erano i suoi attrezzi di lavoro: una fornacetta con il mantice,
un tegamino, degli imbuti, barattoli e giare. Accesa la piccola fornace, vi appoggiava il tegamino con lo stagno da fondere. Per le saldature dolci usava una lega di stagno e piombo, per saldature forti di
zinco, rame e piombo, quindi aggiustava con qualche rappezzatura
un oggetto da riparare. Dopo aver eseguito la saldatura e averla fatta asciugare, vi passava sopra la lima per appianare la rappezzatura.
L’oggetto tornava come nuovo. A volte bastava anche una sola goccia di stagno fuso per ripararlo. Quando i tegami, le caldaie, i pentolini di rame, le “ramère”, piatti grandi di rame, perdevano la stagnatura la massaia ricorreva allo stagnino, che li rimetteva a nuovo
pronti per servire.
Il suo lavoro non consisteva solo nelle riparazioni, ma anche nel realizzare recipienti nuovi, utili per la casa e per la campagna: cilindri, orci, tini per bucato, contenitori cilindrici “zinni” per olio, “rote” teglie da forno, per focacce e pizze, secchi, conche per acqua, bacinelle, imbuti, tutti di varie dimensioni; non mancavano neppure
contenitori per le unità di misura per liquidi: staio, mezzo staio, li-
15. “Non faceva mai il passo più lungo della gamba”.
16. “Dio ti dà pane per quanti figli hai”.
O Fortunati, fortunati contadini,
se apprezzassero i beni che possiedono!
Lontano dal contrasto delle armi,
la terra con esemplare giustizia
genera spontaneamente dal suolo
ciò che a loro senza difficoltà
serve per vivere...
La loro pace almeno è sicura e la vita,
ricca di un mondo di risorse, non conosce inganni,
ma l’ozio nella vastità dei campi
fra grotte, laghi di sorgente,
la frescura di Tempe e i muggiti dei buoi,
e sotto un albero non mancherà
la dolcezza del sonno,
là trovi pascoli e tane di belve,
giovani che non temono fatica,
abituati ai sacrifici,
al culto degli dei,
il rispetto dei padri;
andandosene dalla terra
la Giustizia lasciò tra loro
le sue ultime tracce...
L’agricoltore smuove la terra;
questa la sua fatica;
e così nutre la casa, i figli,
gli armenti di buoi, i giovenchi.
Non vi è mai riposo;
ogni giorno dell’anno trabocca di frutti
Di nati dal bestiame,
di covoni di frumento
e nei solchi si accumula il raccolto,
al suo peso cedono i granai.
Viene l’inverno:
l’oliva si rompe nei frantoi,
sazi di ghiande tornano i maiali,
le selve si riempiono di bacche
e l’autunno depone tutti i suoi frutti;
al sole dolce matura l’uva sulle rocce.
Pendono i pargoletti dal collo al genitore
Nido è la casa con il suo pudore,
seni gonfi di latte porgono le vacche
e capretti robusti sull’erba folta lottano tra loro con le corna,
nei giorni di festa il contadino si riposa
e sdraiato sul prato intorno al fuoco
dove i compagni incoronano il cratere
alzando il bicchiere t’invoco, Leneo
pone al pastore per la gara delle frecce
il bersaglio su un olmo
e i corpi induriti si spogliano
per una lotta rusticana.
Così un tempo era la vita dei Sabini
E di Remo, del fratello,
cos’ crebbe forte l’Etruria
E Roma divenne meraviglia del mondo...
Chiusa fra le mura,
sola su sette colli.
(Virgilio, lib. III vv 711-715; 725-738; 804-844)
Capitolo III
I Lavori
Porta a Porta
Capitolo III. I Lavori Porta a Porta
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L’Umbrellare
L’Ombrellaio
“Lu mbrellàre!!! Jenne arrivate lu mbrellàre!!! Chi tàne lu mbralle d’aggiustà, ascesse fore!” 17 Era il grido di richiamo dell’ombrellaio, Giuseppe De Lia, per le strade del paese quando si avvicinava la bella
stagione dell’autunno.
Si sente ancora di tanto in tanto il richiamo dell’ombrellaio e qualcuno che lo invita a dare uno sguardo al suo ombrello, se conviene aggiustarlo. E’ un ombrello firmato, “griffato”, dispiace gettarlo.
Invitato dalla massaia, l’uomo osservava con attenzione l’ombrello e
poi sentenziava “Signora, lo faccio tornare nuovo”. La brava massaia risparmiatrice pattuiva il prezzo prima di affidargli il lavoro. Non
voleva sorprese. Poi gli consegnava l’ombrello e l’ombrellaio sotto
gli occhi vigili della donna, seduto sul gradino di casa, sistemava “li
bacchette”, le stecche, raddrizzava la stoffa della parte superiore con
i “peretti” all’estremità delle stecche, controllava la levetta che aprechiude l’ombrello, aggiungeva qualche gocciolina d’olio e poi, intascato il meritato guadagno, via per altre strade con il suo richiamo
“Lu mbrellàre!!!! Jè arrivàte lu mbrellàre!!!”.
17. “L’ombrellaio!! E’arrivato l’ombrellaio! Chi ha l’ombrello da aggiustare, uscisse fuori”.
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Capitolo III. I Lavori Porta a Porta
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Lu Sanapiatte
ese, di strada in strada con la sua borsa di pezza carica degli attrezzi del mestiere: trapano ad arco, tenaglie, filo di ferro, pinze, gesso,
straccetti puliti, qualche vasetto di colla. Quando giungeva lanciava
dall’angolo della strada il suo richiamo, che riecheggiava tra vicoli e
“scaforchje” 20. La massaia si affacciava alla porta e lo invitava ad avvicinarsi per mostrargli l’oggetto che necessitava d’intervento. Si poteva trattare di un boccale, di un piatto, di una scodella, di una cuccuma... l’uomo ispezionava con attenzione. Se “la spèsa valèva l’impresa”, se cioè valeva la pena ripararlo, il “sanapiatti” iniziava il lavoro seduto su un gradino del “mugnale” 21 o per terra, a volte attorniato dai bambini incuriositi ed attenti. Intanto praticava dei fori con
il trapano ad arco, di legno, lungo i bordi dei pezzi rotti e facendoli
ben combaciare li attraversava con dei piccoli pezzi di ferro, legandoli tra di loro e ricoprendoli con colla speciale. Dopo qualche minuto limava con una piccola lima i pezzetti dei nodi del ferro filato,
poi su quelle cicatrici passava del gesso per otturare eventuali minuscoli fori tra i punti di cucitura. Aspettava con pazienza che il gesso si asciugasse, controllava che il lavoro fosse ben riuscito, quindi
intascando la ricompensa per il suo lavoro, riprendeva il cammino
di abile sarto di cocci ringraziando il Buon Dio perché anche quel
giorno poteva portare qualcosa a casa per sfamare la famiglia.
Da parte sua la massaia, dopo aver controllato il lavoro versandovi
dell’acqua, mostrava il buon risultato della riparazione ai figli e raccomandava con le buone e con le minacce di fare attenzione a non
procurare danni, altrimenti si sarebbe procurata ciotole e piatti di
legno in cui farli mangiare.
Il Riparapiatti
Un tempo vuoi perché erano pochi i soldi di cui le famiglie disponevano, vuoi perché il senso del risparmio e dell’economia era ben radicato nell’animo di ognuno, prima di spendere una lira si pensava
parecchio. Si cercava di risparmiare su tutto e in ogni occasione, si
stava bene attenti a quello che si poteva e si doveva spendere e senza sprechi. “La sckacanata ci sparagna quanne jè sana, na vota rotta
jè finuta” 18. Si soleva dire. La capacità di risparmio di una donna, a
cui era affidata la misera economia della casa era una dote molto apprezzata e, direi, quasi indispensabile per una ragazza da marito. Era
una virtù tanto decantata che quando la mamma di un ragazzo, come avveniva allora, poneva attenzione su qualche giovane, probabile sposa del figlio, si informava dai vicini di casa sulle sue qualità e
tra queste non mancava mai l’affermazione “Jè na vagliola sparagnatrice assà” 19. Tanti erano gli aneddoti e le storielle inventate dal popolo su questa “virtù”. Detto questo si può capire perché il mestiere del “sanapiatti” fosse molto apprezzato. Non appena un oggetto
di creta utile, anche se non più nuovo, si danneggiava, si cercava di
ripararlo, si aspettava il “sanapiatti” perché da esperto sapeva come
intervenire per farlo tornare utilizzabile. Chi non conosce la novella
di L. Pirandello “La giara”?
Il “sanapiatti” era un artigiano ambulante, che girava di paese in pa18. “La pagnotta del pane si risparmia quando è intera, una volta iniziata, è finita”.
20. Vicolo senza uscita.
19. “E’ una ragazza molto risparmiatrice”.
21. Ballatoio delle scale esterne dell’abitazione.
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Aneddoto
la dispensa sulla “buffetta”, tu prendi quello che vuoi”. Tutto avvenne
così come previsto. Ma quando a mezzogiorno la ragazza ebbe fame e
andò a prendere la chiave, non la trovò, la cercò, ma inutilmente. Quel
giorno soffrì la fame. Al rientro del marito la ragazza si lamentò di non
aver trovato la chiave e il marito, che al suo rientro, veloce e senza farsi notare aveva posto la chiave sulla “buffetta” dove aveva detto, le disse che doveva avere avuto gli occhi chiusi per non averla vista perché era
lì proprio dove aveva detto e così dicendo la condusse verso la buffetta.
Povera ragazza, che figuraccia!
Il giorno dopo e per alcuni altri giorni ancora, si ripeté sempre la stessa
cosa. Ad un certo punto stanca della situazione, la giovane sposa pensò “Ma perché dare la fetta di pane a chi pulisce la casa, posso farlo io,
non è poi così difficile e pesante questo lavoro, anzi il tempo scorrerebbe più velocemente, mangerei la fetta del pane e non soffrirei la fame”.
Detto, fatto. Al rientro del marito, che come ogni sera aveva messo al solito posto la chiave, la giovane sposa a lui, che le chiese come era andata la giornata, riferì tutto ciò che aveva fatto. Naturalmente la elogiò,
ma nello stesso tempo le raccomandò di non stancarsi e di far lavorare
le donne come sempre. Il mattino dopo ebbe l’accortezza di tagliare fette
di pane più sottili e naturalmente la giovane donna a cui non bastò una
sola fetta, prese l’altra. Giorno dopo giorno si giunse al punto che tutte
le faccende di casa venivano svolte dalla ragazza senza l’aiuto di nessuno. La cosa più bella era che lei si sentiva sempre più soddisfatta di sé e
del suo impegno nella conduzione e gestione della casa. Una mattina,
il marito la pregò di chiamare una delle donne di servizio per portare a
riparare dal sellaio la sella del cavallo. Dopo aver finito i lavori di casa, la giovane decise di portare lei stessa la sella a riparare pensando che
nessuno l’avrebbe riconosciuta se l’avesse posta sulle spalle e nascosta la
testa sotto di essa, inoltre la bottega del sellaio non era lontana. Presa la
Secondo le usanze e il modo di pensare dei tempi andati,quando un ragazzo era giunto all’età “giusta” per il matrimonio, la mamma si preoccupava di trovare e contattare i genitori di una brava ragazza bella, sana e robusta e soprattutto “sparagnatrice e fatejatrice” 22. Non sempre
però questa scelta della madre, a volte si ricorreva anche alla mezzana,
era condivisa dal ragazzo a cui piaceva un’altra. Egli allora non conosceva ragione, non ascoltava alcun consiglio, faceva la sua scelta con o
senza l’approvazione dei parenti.
Si racconta che un ragazzo benestante si era innamorato di una bella
ragazza, figlia unica, anch’ella benestante. “Jè ‘na figghje a mamma,
jè stata allevata jnte la vammacia, uascia e repunne, ne’ sape fa nante” 23. Era questo che si diceva e che la madre del ragazzo ripeteva spesso per convincerlo. Il ragazzo non si lasciò convincere neppure dalle parole dei genitori delle ragazza, che gli ripeterono le stesse cose. Egli rassicurava tutti. Sarebbe andato tutto bene.
Dopo il matrimonio e, come era usanza, dopo gli otto giorni di vacanza dal lavoro del ragazzo, la vita riprese con il ritmo della quotidianità. Il primo giorno di lavoro il giovane marito, prima di uscire di casa,
affettò una bella fetta di pane e disse alla moglie “questa è per la donna,
che deve pulire la casa”. Affettatone altre disse “questa è per chi deve fare il bucato, quest’altra per chi deve cucinare. Per te lascio la chiave del22. Risparmiatrice e lavoratrice.
23. “E’ figlia unica, è stata allevata nella bambagia, bacia(la) e conserva(la), non sa fare niente”.
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sella sulle spalle, si avviò verso la bottega. Per strada incrociò i suoi genitori, che si recavano a casa sua per vedere come andavano le cose. Ma
se lei non si accorse di loro perché camminava svelta facendo attenzione a tenere ben nascosta la testa sotto la sella, i genitori la riconobbero
bene. Quindi aspettarono sulla strada meravigliati che la figlia si fosse ridotta in quelle condizioni e preoccupati perché pensavano ai maltrattamenti, che aveva potuto subire. Quando giunsero a casa, i genitori avrebbero voluto indagare per scoprire la verità, ma lei era intenta a
sbrigare le faccende domestiche e non li ascoltava. La mamma più volte la invitò a sedersi per parlare. Ma la ragazza rispondeva che in casa
c’era molto da lavorare, non poteva perdere tempo, comunque tutto andava bene, il marito le voleva un bene dell’anima, anzi non voleva assolutamente che si stancasse. La mamma alzandosi disse al marito “Lu
ciucce miie tante avventate, jè raddutte a carrèià prate” 24.
I due genitori andarono via preoccupati e mortificati.
L’Ammolafroffecia
24. “L’asino mio così esaltato, si è ridotto a trasportare le pietre”.
L’Arrotino
L’arrotino spingeva con fatica il carrettino dalla grande ruota per
le vie del paese. Erano sistemate sulla parte anteriore del carretto le
mole, che venivano inumidite con l’acqua di una ampolla posta più
in alto. Si fermava sotto il “mugnale” e incominciava a molare coltelli, forbici, rasoi e lame di qualsiasi genere e uso che le massaie gli
portavano; con un movimento ritmico e calibrato del piede pigiava una sbarra di legno orizzontale, la quale attraverso corda e puleggia faceva girare i diversi tipi di mole. Con questo artigiano le casalinghe instauravano un rapporto di confidenza ed amicizia, per cui
c’era uno scambio di battute spiritose e allusive di qualche donna
di spirito, che stuzzicava le risposte altrettanto allusive dell’arrotino.
A volte si riferivano fatti ed eventi di cronaca paesana, ma quando
si rischiava di scivolare nel pettegolezzo di qualche comara, l’arrotino non apriva più bocca, per cui si chiudeva il discorso tra le risate
generali con “L’ammolafroffecia che fa lu mute jènne come lu curtèdde
de lu churnute ne’ tagghja e ne’ caùta” 25.
25. “L’arrotino che fa il muto è come il coltello del cornuto, non taglia e non buca”.
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L’Adascia Lavature
me valente... ni’ pirdarrija lu tèmpe a fa’ li dènte a nu pezze de lègne”.28
Naturalmente il tutto accompagnato dalle risate generali delle donne. Così scorreva il tempo e si alleggeriva la fatica.
(Chi rifà con l’ascia la scalinatura dello stropicciatoio)
Ogni tanto si sentiva all’angolo della strada, “allu capechjazze”, un
grido di richiamo, il vocione, conosciuto da tutti, era quello di
“Ciucce Muligne” un personaggio sangiovannese molto simpatico.
“Adasciateve lu lavature” 26 gridava giungendo all’angolo della strada
con l’ascia sulla spalla e la sega in mano. Anche questo lavoro necessitava alla massaia perchè una volta non c’erano le lavatrici e tutti i
panni si lavavano a mano strofinandoli energicamente e battendoli
sul lavaturo, un attrezzo di legno di circa 60 centimetri di larghezza,
scanalato. I denti (le scanalature) del lavatoio si consumavano velocemente perché i lavaggi erano frequenti e la roba da lavare molto
sporca per cui lo strofinio della massaia era energico. Se i denti erano troppo lisci e appiattiti si faceva molta più fatica e gli indumenti non si lavavano bene.
Il lavoro dell’adascialavaturo era duro e richiedeva molta precisione:
i denti dovevano risultare precisi e ben levigati. Ogni tanto mentre
“Ciucce Muligne” lavorava, la massaia si affacciava alla porta e osservava il lavoro. L’artigiano approfittava della sua presenza per lamentarsi scherzosamente “Se la patrona jè tosta come custu lavatùre, povere a mmè quanne adda pajà” 27 e la donna di rimando all’allusione
alla sua tirchieria rispondeva per le rime “se lu mastre d’ascia saria jo-
26. Rifatevi la scalanatura allo stropicciatoio.
27. “Se la padrona è dura come questo lavatoio, povero me quando dovrà pagare”.
28. “Se il mastro dell’ascia fosse un uomo valido, non perderebbe il suo tempo a fare i denti ad un pezzo di legno”.
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Lu Lattare
le, ricotta e caciocavallo, formaggio molto richiesto e ricercato ancora oggi, prodotto con il latte di mucche podoliche. Per la vendita
porta a porta da quel momento si videro per le strade del paese i pastori-lattai con il camice azzurro e i contenitori d’alluminio o di latta, creati da artigiani locali, i “callarali” (gli stagnini), dotati di ganci per i misurini. I moderni lattai annunciavano il loro arrivo con
un campanello. Come tutti gli ambulanti anche i lattai intrecciavano rapporti di fiducia e di confidenza con gli utenti.
Gli allevatori di pecore e capre, invece, si adeguarono alle nuove
norme ritirandosi dall’attività di lattai per passare a quella di produttori di ricotta, formaggio pecorino lavorato in diversi modi e cacio ricotta, ottimo prodotto di latte di capra.
Tra le tante figure di lattai è da ricordare “Nunziata la lattàra”. Una
donna di bella presenza, spiritosa, spregiudicata quanto bastava per
la decenza. Per il suo “savoire faire”, per il comportamento, per la sua
eleganza signorile nell’indossare il grembiule blu, che contraddistingueva la categoria, ben presto si meritò il titolo di “stella dei lattai”.
Le sue doti erano tante, spigliatezza, sensibilità, delicatezza verso gli
anziani, per i quali aveva sempre un riguardo particolare, un comportamento generoso e disponibile. Non disdegnava di aggiungere
nella ciotola “nu squicce” (una goccia) in più al quinto o al mezzo
quinto del latte comprato o anche di fermarsi qualche minuto a parlare con loro e ascoltarli. Era sempre pronta a dare una mano a chi
era in difficoltà, come ad una giovane mamma inesperta, che non riusciva a calmare il bambino che piangeva disperatamente. Per tutti,
insomma, aveva qualcosa da dire o da dare e della sua giornata era
sempre soddisfatta. La sua clientela era numerosa e contava molti
clienti fissi, tra cui i “signori”.
Il dott. Leandro Giuva, uomo lungimerante e di spiccato senso pra-
Il Lattaio
Caseificio, Centrale del latte, latte parzialmente scremato, latte intero... erano termini una volta sconosciuti. I negozi di prodotti caseari
non esistevano. Il latte e i suoi derivati si compravano direttamente
dai produttori, né vigevano regole igienico-sanitarie sofisticate come nella nostra epoca. Anzi il latte veniva munto direttamente dalla
mammella della capra, della pecora o della mucca per le vie del paese e venduto caldo caldo a chi lo richiedeva. Tutti i giorni, infatti, di
buon mattino giungeva in paese il pastore con un piccolo gregge di
pecore, sei o sette o una mucca. Esse si annunciavano con lo scampanellio delle campane dalla diversa grandezza e quindi dal suono
differente, che pendevano da un collare di legno intagliato o inciso
con disegni di varie fogge, posto al collo degli animali. Ogni animale aveva il suo nome e per nome il lattaio lo chiamava perché si avvicinasse per elargire il suo caldo e genuino liquido bianco.
Il lattaio si fermava vicino la porta del cliente o dove vedeva un bambino, una donna, una nonna con la ciotola in mano, quindi prendeva la ciotola e accovacciato dietro l’animale, premeva con abilità e
delicatezza i capezzoli, da cui fuoriuscivano due sottili flussi di latte
finendo direttamente nella ciotola.
Questa vendita in “diretta”, per motivi d’igiene, fu interrotta da
una ordinanza del Comune intorno agli anni Venti. Gli allevatori
di mucche risposero alle nuove norme adeguandosi e ammodernandosi: introdussero nelle loro mandrie mucche da latte e intensificarono la trasformazione della materia prima in scamorze, mozzarel-
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tico fin da giovane si impegnò per il progresso del suo paese. Grazie anche alle sue buone condizioni economiche potè attuare iniziative all’avangurdia, da vero pioniere e come veterinario non poteva
non interessarsi della zootecnia. Introdusse, infatti, la pastorizzazione del latte e impiantò una piccola industria per l’imbottigliamento del prodotto.
Capitolo IV
Gli Ambulanti
Capitolo IV. Gli Ambulanti
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Lu Gelatere
Il Gelataio
A San Giovanni Rotondo un tempo non c’erano bar, pub, pizzerie,
che oggi si trovano in ogni angolo del paese. Come luogo di ritrovo per i soli uomini la domenica, vi erano le “cantine”: la cantina di
“Maste Paule”, di “Rucuttalla”... dove gli uomini si recavano portandosi in tasca un pugno di ceci “alla marina” (ceci cotti nella sabbia
marina) o fave abbrustolite, che compravano strada facendo da “Rosa Leccia” o da “Maria Dunata” per stimolare la sete e per non bere
a stomaco vuoto.
Agli inizi del ‘900 fu aperto “lu cafà” di “Stanzine”. Ma quando
“Scaringe”, Pietro Lalla, aprì il bar in Corso Umberto Primo, l’aroma del caffè e dei pasticcini si diffondeva per tutta Piazza dei Martiri e nei dintorni. Pochi erano però “li segnùre”, (i signori), che la domenica mattina entravano nel bar per prendere un pasticcino con
un bicchiere di latte e caffè. I più, i poveri, non si sognavano neppure di entrare e gustare un bicchierino di marsala. Era già un evento
eccezionale per tutto il parentado e per tutta la strada quando, per le
grandi occasioni, si preparavano in casa “propati” e rosolio.
Il laborioso popolo di San Giovanni Rotondo si è sempre mostrato intraprendente e industrioso, lo attestano le varie attività commerciali in cui si distinse nei tempi antichi come per l’industria e
il commercio della neve, delle patate, delle mignatte, di cui i primi
documenti che ne attestano la presenza, risalgono alla prima metà
dell’800.
Nell’immediato primo dopoguerra un personaggio simpatico e go-
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liardico con camiciotto bianco e cappello alla marinara, spingendo
un carretto bianco con disegni colorati e immagini di coni ripieni
di fresco gelato, si aggirava per il paese. Si fermava agli angoli delle strade e prolungava il suo “gelati, gelati freschi!” accompagnandosi allegramente con il tintinnio di un campanello perché piccoli
e grandi ne avvertissero la presenza. Al suo richiamo i bambini, che
a frotte giocavano liberamente per le strade sotto gli occhi vigili del
vicinato, accorrevano tralasciando il gioco e accalcandosi attorno al
carretto pregustando il dolce e fresco gelato. Con gli occhi sgranati e
pieni di voglia i bambini cominciavano a piangere e a battere i piedi
di fronte alle mamme restie a concedere loro quella leccornia e non
smettevano fino a quando non venivano accontentati. Non tutti però se lo potevano permettere e allora la mamma, perché il proprio
figlio non stesse “a guardare le mani degli altri”, lo prendeva per un
braccio e lo trascinava ricalcitrante in casa, mentre i suoi occhi si riempivano ancor di più di desiderio e di pianto. Non c’era la possibilità economica di comprarlo. Non di rado “Pinozze”, era questo il
nome o meglio il nomignolo del gelataio, al secolo Antonio Russo,
dal cuore grande e generoso, in silenzio portava un cono pieno del
saporitissimo gelato al bambino sfortunato. Nella strada per un po’
regnava un silenzio innaturale. I bambini pensavano a gustare il gelato e a sognare che durasse a lungo. Leccavano quella crema soffice
e la lasciavano sciogliere in bocca lentamente.
Talvolta anche le massaie e le ragazze, che erano sedute davanti le
porte di casa intente ai lavori femminili, si concedevano il lusso di
un buon gelato.
Quell’occasione era una festa gioiosa tra frizzi e battute con il simpatico gelataio. Era salutato sempre con “Lu vi mo arriva lu rattarat-
tamarianna. Ratta, ratta. Quanta chjù ratte chjù uadagne” 29. Stuzzicato dalle donne il venditore stava al gioco e senza perdersi d’animo
rispondeva con le sue battute.
29. “Ecco lo vedi adesso arriva il gratta gratta marianna. Gratta, gratta. Quanto più gratti, più guadagni”.
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L’Industria della Neve
sportata di sera tarda con i carri. Non sempre però andava tutto liscio.
A volte, infatti, l’animale si imbizzarriva e il carico veniva rovesciato per terra e andava perduto tra le imprecazioni del carrettiere 30. Attorno alla bottega della neve non mancavano bambini pronti a cogliere
al volo una scheggia di ghiaccio freddo da succhiare. Quando il “neveròle”, infatti, con il punteruolo battuto dal martello staccava dalla neve indurita un pezzo di ghiaccio si staccavano anche delle schegge pronte per essere raccolte al volo.
In paese non vi era la produzione del ghiaccio, ma vi era molta neve
per le abbondanti nevicate durante il lungo inverno, per cui si diffuse il
mestiere “dillu nevaròle” cioè quello di conservare la neve per poi venderla durante la bella stagione. La neve veniva conservata in grosse buche, “le nevère”, scavate nella roccia o nella terra sulle cime più alte dei
monti. La più famosa era quella in località “Tuppe rusce” nella zona
sovrastante il Convento dei Cappuccini.
Questa gustosissima, graditissima e molto fragile materia, veniva ammassata a strati e pressata con il “paravise”, strumento con la base di legno di 69 centimetri e con un manico centrale per l’impugnatura.
La neve veniva poi coperta con abbondante paglia anch’essa pressata.
La sua conservazione era in stretto rapporto con le condizioni atmosferiche, era una lotta e a volte una gara di velocità tra l’uomo e la natura.
Al momento opportuno veniva portata in paese su muli e asini in grosse
“balle” o casse di legno coperte da sacchi e paglia e depositate nella bottega, un seminterrato fresco con il pavimento in terra battuta. Veniva
poi sottoposta al controllo sanitario, che colorava ogni cassa e “balla” di
rosso o verde secondo l’uso che se ne doveva fare (uso domestico o altro).
Intorno alla neve si sviluppò un florido commercio molto redditizio perché molto richiesta dai paesi limitrofi, Foggia, Manfredonia, San Severo. In questi paesi così caldi d’estate serviva per tenere in fresco soprattutto la frutta e raffreddare un po’ d’acqua infilando pezzettini di
ghiaccio nella “cùcuma” di terracotta o nella brocca e per preparare gustose granite al caffè, al limone, alla amarena. La neve veniva venduta a chili e pesata con la bilancia a stadera. Nei paesi vicini veniva tra-
Antonio Pinozzo
Antonio Russo, detto Antonio Pinozzo, era la tipica figura del “tuttofare”, il factotum intraprendente, dalle varie attività commerciali che,
per l’arte di fare il gelato, era detto “l’industriale del freddo” di San Giovanni Rotondo.
Alto, agile, allegro, vendeva con allegria la neve, la materia prima per
fare il gelato, di cui fu il primo produttore a San Giovanni Rotondo.
Antonio Russo preparava un gelato squisito per tutti i palati. In una tinozza fatta di doghe di legno alta circa 30 centimetri e del diametro di
50-60 centimetri infilava un cilindro di rame di dimensioni più piccole e tra questi, creando un’intercapedine, poneva due pezzi di ghiaccio, che portava dalla “nevère” di Monte Nero. Nel cilindro vi versava
il latte, lo zucchero e il colorante e miscelava il tutto con un lungo cucchiaio di legno tenuto con la mano destra. Con la sinistra, prima lentamente e poi con più rapidità, faceva girare su se stesso il cilindro di rame
30. Anche per il commercio della neve il Comune dovette intervenire per regolamentarlo secondo le leggi vigenti. Emetteva il bando di appalto per la durata di tre anni a principiare dal 1° maggio al 31 ottobre. Imponeva il prezzo di vendita al popolo di San Giovanni,
ne controllava la qualità e l’igiene. Per questo prodotto l’aggiudicatore doveva aggiungere al
prezzo raggiunto dell’asta una certa somma da stabilire per sostenere le spese per la festività
del santo protettore di San Giovanni Rotondo, San Giovanni Battista.
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premendo fortemente sull’orlo. L’azione era così rapida che in poco tempo sotto l’azione rotatoria del cilindro e l’azione refrigerante del ghiaccio che lo circondava, il latte si solidificava lentamente producendo così
un gelato di ottima qualità. Aveva il suo posto di vendita in Piazza degli Olmi. La bancarella non era altro che il carrettino a due ruote con
cui una volta alla settimana girava per le strade del paese, come detto
precedentemente. Sul carretto erano collocati due contenitori cilindrici
di rame stagnato, contornati da ghiaccio e sale per conservare la temperatura giusta e costante. Vi erano poste anche delle bottigliette di gassosa con tappi a palline di vetro, utilizzate poi dai bambini per il gioco.
Su quel carrettino colorato, lungo il lato superiore, trovavano posto anche coni biscottati (cialde) infilati l’uno nell’altro e inframmezzati, tra
una pila e l’altra da bicchierini di grosso vetro inseriti in incavature.
Durante le fiere era sempre il primo a piazzare la sua bancarella ben
ordinata, luccicante e stracolma di sorbetti verdi, rossi, gialli, granite e
bibite fresche per dare refrigerio a mercanti assetati e visitatori accaldati vivacizzando l’atmosfera con la sua solita “arietta”.
Antonio Russo era il tipo di persona che sapeva camminare con i tempi,
si adattava e si evolveva con essi senza rimpianti. Non appena, infatti, il turismo religioso incominciò a crescere e Viale Cappuccini a popolarsi di pellegrini e visitatori, fu il primo ad aprire un chiosco per generi alimentari e mercanzie varie fino a quando ebbe energie sufficienti.
“Gilate e gilatine
Ce renfresckene le signorine
Se la pàcia inte la casa vulìte tanà
Pure la socra avìta fa rìnfresckà”
“Gelati e gelatini
Si rinfrescano le signorine
Se la pace in casa volete avere
Anche la suocera dovete far rinfrescare”
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Lu Cinciare
ti i costi l’aggiunta di denaro. Facevano un po’ di tira e molla finché
non giungevano ad un accordo.
Si conservavano anche oggetti di ferro, di alluminio, di rame, insomma tutti gli oggetti ormai inservibili, perché tutto veniva riciclato e aveva un prezzo. Si aspettava che passasse “lu callaràle”, lo stagnino specializzato in caldaie, con il suo richiamo “Che tàna callàre
e callaròle, ramère vècchje da vènne! 31”. La massaia si affacciava sulla
porta e lo invitava ad avvicinarsi. Anche con lui avveniva lo scambio di vecchi oggetti con utensili nuovi. Un baratto questo, che lasciava soddisfatte le due parti. Una perché aveva fatto un affare ricevendo in cambio un oggetto nuovo, l’altra perché si era guadagnato da vivere sapendo già come trasformare quegli oggetti vecchi ed
inservibili.
Lo Straccivendolo
Oggi l’imperativo è: “Bisogna far circolare il denaro, i cittadini devono consumare! Altrimenti l’economia si ferma”. Tutto si svolge su
questo categorico imperativo.
Raramente si chiamano i tecnici per le riparazioni di elettrodomestici, è più facile e conveniente buttarli via e comprarne dei nuovi
e della tecnologia più avanzata. Non c’è più tempo né maestria per
il rattoppino. Gli indumenti è meglio comprarli nuovi, ce n’è una
vasta scelta per ogni tasca e per ogni gusto. Non è giusto e dignitoso passare gli indumenti ancora nuovi da un figlio all’altro; hanno
la colpa di essere stati indossati dal figlio più grande e dismessi perché piccoli e non perché logori o vecchi. Allora ad ogni cambio di
stagione si vedono fuori dalle porte o vicino i cassonetti dei rifiuti
sacchetti pieni di indumenti da consegnare, per fortuna, ai centri di
raccolta, ad Associazioni di volontariato. Speriamo per il riciclaggio!
Un tempo quando una federa, un asciugamano, una camicia... si
consumava ben bene, si conservava. La donna, accorta amministratrice della casa, raccoglieva gli stracci in un sacchetto e aspettava il
giungere dello straccivendolo. Egli giungeva al termine di ogni stagione e qualche volta anche durante la bella stagione.
Il suo carretto, spinto da lui stesso, era colmo di ogni specie di mercanzia: strofinacci, bicchieri, forchette e cucchiai, tintinnante di
brocche, conche e bacinelle da dare in cambio di cenci. A volte oltre
agli stracci bisognava dare “nu refuste”, bisognava aggiungere del denaro. Allora iniziavano le trattative, la massaia voleva evitare a tut-
31. “Chi ha caldaie e piccole caldaie, piatti di rame da vendere!”.
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Lu Ghjarulare
l’utilizzo del sodio, per lavare la biancheria e gli indumenti da lavoro. Non mancava qualche massaia che si era attivata anche a prepararsi da sé il sapone, sempre in nome del risparmio.
Un’altra figura di venditore ambulante era “lu pannacciàre”, il venditore di stoffe. Egli percorreva le strade con una carretta trainata a
mano, con delle assi longitudinali, su cui svolazzavano stoffe colorate. Con il migliorare delle condizioni economiche questi ambulanti
divennero negozianti, adibendo a locali commerciali vecchi ed abbandonati sottani rimessi a nuovo.
Sono da ricordare tra questi personaggi “Marcello” ,“Tunene lu merlettane e Ricucce”, “Paulucce”. “Li Pannacciàre” giungevano anche dai
paesi vicini, ed erano per lo più venditori di biancheria. Essi andavano per le strade con un grosso fagotto sulle spalle portando tela di
cotone, tela grezza, tela cruda, pelle d’ovo...
Da Monte Sant’Angelo giungeva il venditore di minuscoli animali
di pasta di caciocavallo: agnello, cagnolino, cavalluccio, coniglietto,
propatelli, succhiotti. Le giovani mamme li compravano per darli ai
bambini da stringere tra le gengive per alleviarne il prurito e il dolore provocati dai dentini che stavano per spuntare, i piccoli animali fungevano da massaggiatori. Anche i bimbi più grandi ne godevano, strillavano e piangevano perché anche loro erano stuzzicati dalla voglia di quegli animaletti di pasta bianca di formaggio e dal richiamo del venditore.
A volte alcuni di questi ambulanti erano molto attesi dalle massaie
perché praticandosi un commercio basato sul baratto conservavano
sempre ciò che poteva rappresentare un prodotto di scambio.
La raccolta differenziata non è certamente una trovata intelligente
dell’età moderna.
Il Compratore d’Olio
Tanti erano i venditori ambulanti e molti giungevano da altri paesi.
San Giovanni Rotondo per la vastità del territorio di uliveti è un
ottimo produttore di olio per cui in primavera giungeva in paese
“lu ghjarolaie” per comprare l’olio in eccedenza e la morchia dell’olio. Prima che giungesse il forte caldo si faceva il travaso per separare l’olio dalla morchia, che si era depositata sul fondo del contenitore. La massaia conservava anche questo scarto in attesa del
compratore e poter così ricavare qualche soldino o pezzi di sapone per lavarsi e lavare i panni. Egli giungeva gridando a squarciagola il suo invito di richiamo, la donna lo invitava ad avvicinarsi e gli consegnava la feccia, che aveva conservato in un vecchio
recipiente, non senza discutere sul baratto. Ovviamente si cercava sempre di trarre un buon guadagno puntando sulla qualità e
la durezza del sapone e sulla corrispondente quantità di morga.
Per produrre il sapone la morga veniva poi posta in otri di pelle di
capra e in seguito mescolata e lavorata con la cenere, ottima quella
ricavata dalle scorze di mandorle verdi perché contengono potassio,
elemento chimico indispensabile per fare avvenire l’idrolisi alcalina
degli acidi grassi. Il miscuglio veniva versato in un recipiente collegato con dei tubi a delle vasche piene d’acqua. Veniva quindi bollito
per 5 ore e man mano che si formava il sapone, veniva versato nelle vasche di raffreddamento da dove veniva rimosso e posto nei recipienti pronto per la vendita; era di due durezze diverse il “sapone
molle” adatto per l’igiene personale, “il sapone duro”, ottenuto con
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Lu Capillare
suddivisa in tanti scomparti in cui era posta la mercanzia di scambio; con molta attenzione contava gli aghi, gli spilli da balia... il numero dipendeva anche dalla grandezza che la donna preferiva. “Fulippe” faceva anche molta attenzione a contare le forcine per capelli perché per sbaglio non ne desse qualcuna in più. A volte pure su
una di queste c’era un lungo discutere tra la donna e il venditore.
Attorno a lui si raccoglievano festose e vocianti le ragazze che dovevano scegliersi gli spilloni, i fermagli e i pettinini più belli per adornare le folte chiome. “Fulippe lu capellàre” non si faceva certo pregare nel dispensare consigli su come meglio pettinarsi o intrecciarsi i
capelli, come lavarli e curarli per renderli lucidi e belli o come valorizzare una bella chioma con un pettinino o un fermaglio.
Se per le ragazze era un abile acconciatore, per le mamme era anche
un originale speziale. Spesso offriva loro gratis le sue conoscenze sulle virtù medicamentose delle erbe e come preparare degli infusi per
curare tosse, bronchiti, emorroidi...
Insomma “Fuleppe la capellàre” era sempre molto atteso da donzelle e donne maritate.
Il Compratore di Capelli
“M’aia vènne li capidde, che tènghe ncape” 32. Un modo di dire che
pur di realizzare un sogno, un progetto, una mamma, una moglie,
una sorella avrebbero venduto il bene più prezioso che possedevano,
i capelli, che erano sempre lunghi e ondulati, portati di solito intrecciati o arrotolati a crocchie dietro la nuca dalle donne sposate, sciolti
dalle ragazze. Una bella chioma era l’attrattiva di bellezza più ambita. Ma il detto dimostra anche che erano una mercanzia di mercato.
Un tempo tutto era fatto con materiale e fibre naturali.
Una volta alla settimana giungeva “Fuleppe lu capellàre” (F. Siena) e
si annunciava con l’inconfondibile e abituale invito “O capellàre!!! O
capiddi, o capellàre!!!”. Le donne, sempre con le orecchie attente ad
ogni voce di richiamo degli ambulanti, si affacciavano sulla porta e
chiamavano “Fulippe” per consegnargli il loro bottino in cambio di
aghi, forcine, spilloni, specchi e fermagli, pettini, pettinini e pettinicchi. Neanche un capello doveva andare perso, infatti, i capelli,
che cadevano sotto il pettine o sotto le forbici quando si accorciavano le chiome, venivano conservati gelosamente a mucchietti in un
sacchettino appeso dietro la porta d’ingresso del sottano o nel buco
della “varreciadda”, pezzo di legno tondo e verniciato che serviva per
chiudere la porta di notte.
“Lu capellàre” portava sul petto con una fascia di cuoio a tracolla, legata ai fianchi da un’altra fascia di cuoio, una cassetta rettangolare
32. “Devo vendermi i capelli che ho in testa”.
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L’Olivo
Si narra che Romolo e Remo, figli del dio Marte e fondatori di Roma,
nacquero sotto un albero di olivo; la storia riferisce, invece, che nel VI
secolo a.C. l’albero di olivo non era ancora conosciuto.
Per il popolo ebraico fu Dio a donare l’olivo all’uomo tramite Adamo,
a cui, prossimo alla morte, il figlio Seth prese dalla bocca tre semi e da
questi germogliarono cetro, cipresso e olivo.
Come vediamo, per quest’albero storia e leggenda si intrecciano.
L’olivo, albero sempre verde, “eterno”, a differenza degli altri alberi,
cresce, si svuota e invece di morire continua a crescere, restando uno si
scinde in più virgulti, che riavviano il ciclo entro certi limiti di tempo e di spazio. Raggiunta l’età matura l’olivo incomincia a dividersi:
il tronco ormai vuoto secca, si crepa verticalmente, si frantuma in più
parti e mentre esso muore ognuna di queste parti comincia una propria
vita portando con sé una parte delle radici e continuando a vivere nella
parte esterna del vecchio tronco, mentre la parte interna viene tagliata
e portata via per essere bruciata.
In definitiva esso si rigenera separandosi dal vecchio tronco, che mentre
marcisce emette bolloni dalle radici sporgenti in superficie e dalla base del tronco. In questo processo di rivitalizzazione è aiutato dall’uomo
con la potatura, della cui importanza si dirà in seguito, con la “scorporatura” con la quale dai tronchi grossi si asporta la parte secca e marcia
dando così all’albero più vigoria, con le zappature, con cui si rimuove
il terreno ossigenandolo.
Lavoro e cure continue, quasi a rispettare, secondo la mitologia, il patto religioso con la divinità.
Prima che l’uomo intervenisse piantando i virgulti in perfette file ordinate, si vedevano alberi secolari a volte di straordinaria grandezza con
i loro fusti scavati e contorti, vere sculture della natura, raggruppati in
3 o 4 in mezzo a larghi spazi vuoti.
L’olivo, albero simbolo del bacino mediterraneo, è ritenuto sacro ed
“eterno”. Sacro alla dea Atena a tal punto che era proibito bruciarne la legna.
Secondo la mitologia greca due abitatori dell’Olimpo, il dio Nettuno e
la dea Minerva si contentevano il primato sull’Attica e in particolare su
Atene. Per porre fine alla contesa si decise che i due contendenti offrissero ciascuno un dono al popolo, che poi avrebbe deciso a chi assegnare
la palma della vittoria. Nettuno, signore delle acque, offrì un bellissimo cavallo, Minerva, dea della saggezza, un olivo, fatto germogliare da
una roccia. Gli Ateniesi apprezzarono molto il cavallo, ma preferirono
l’olivo ritenendolo più utile all’uomo. Giove decretò la vittoria di Atena, che divenne protettrice dell’intera Attica e di Atene. Fu allora che
l’albero di ulivo si diffuse in tutto il bacino mediterraneo determinando il percorso della storia e dei popoli.
Per gli storici, invece, l’olivo è nato intorno ai 5000 anni a.C. e giunse
nel Mediterraneo, “il mare degli uliveti”, dall’Oriente spandendosi in
Grecia e di qui in Spagna e in Italia.
Dell’importanza che assunse nella storia economica e sacra già nell’VIII
secolo a.C. si trovano testimonianze in autori greci e latini, Tucidide,
Varrone, Ovidio, Plinio... Tucidide, storico greco del V secolo a.C. scriveva; “i popoli del Mediterraneo cominciarono ad emergere dalla
barbarie quando impararono a coltivare l’olivo e la vite”. Al tempo
dei Romani ebbe così grande importanza e sviluppo nell’economia, che
si diffuse anche come elemento esornativo nelle ville rustiche. Anche oggi c’è un florido commercio in tal senso.
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L’olivo fin dal suo apparire ha accompagnato il cammino dell’uomo ed
inciso nella storia dei popoli divenendo elemento d’interesse culturale ed
economico. I nostri padri definivano il suo frutto “campanedde d’oro” 33. Columella, scrittore latino di agricoltura lo definì “olea prima
omnium arborum est” (l’olivo il primo fra tutti gli alberi). Si sviluppò, infatti, un florido commercio intorno al “gustoso olio verdasrto”,
elemento importante nella dieta mediterranea e nella quotidianità della vita materiale come alimentazione e cura del corpo, della vita spirituale come elemento indispensabile per impartire i sacramenti: Battesimo, Cresima, Ordine Sacerdotale e Unzione dei malati. L’olio per le
sue tante virtù intrinseche è importante, perché esso è vita, è companatico, è oro per la cucina e per la lucerna. Di esso non viene buttato nulla neppure il suo scarto, la “morchia” che viene utilizzata per farne saponi, famosi quelli di Marsiglia e di Genova. I suoi impieghi, dunque,
sono molteplici. Esso è presente nella storia della medicina e dell’erboristeria, nella concia delle pelli e nelle industrie laniere, nella cosmetica.
Nella Genesi si trova la prima menzione... L’olivo, dono di Dio o della
dea Atena, ha in sé qualcosa di sacro e nelle grandi religioni monoteistiche ha un forte valore simbolico. Dagli Ebrei viene usato per la consacrazione al Signore, Messia vuol dire appunto “l’Unto del Signore”;
la tradizione cristiana l’ha ereditato come simbolo di pace. Per l’Islam
l’olivo è l’albero cosmico, pilastro del mondo, fonte di luce per l’olio che
produce. La lucerna accesa davanti al Tabernacolo, segno della presenza
viva di Gesù, è alimentata dall’olio. E’ con i rami dell’olivo che si ricorda l’ingresso trionfale di Gesù in Gerusalemme la Domenica delle Palme. E’ con il ramo dell’olivo nel becco che la colomba ritorna sull’Arca
di Noè ad annunciare la fine del Diluvio, segno di riconciliazione e di
alleanza di Dio con l’uomo.
La Puglia è la regione più olivica del mondo, grazie ad un Decreto di
Carlo di Borbone che introdusse la riduzione delle tasse per chi avesse coltivato i terreni ad uliveto incentivandone così la diffusione; Ferdinando
II per salvaguardarne la qualità emanò, il 12 Dicembre 1844, un decreto con cui prescriveva la necessità di un “certificato d’origine” per l’olio di oliva, che era esportato in tutto il mondo, anche negli Stati Uniti.
Come ogni elemento importante dell’economia di un popolo, di un periodo storico, di una civiltà, anche l’olio è stato soggetto alle leggi di
mercato. Nel Medio Evo quando ci fu la crisi dell’agricoltura italica la
coltivazione dell’olivo fu molto ridotta e solo grazie all’impegno dei religiosi, che per motivi liturgici lo tennero in vita, non fu distrutto. Riconquistata importanza i potenti gli diedero impulso commerciale sui
mercati internazionali. Divenne così anche oggetto di speculazione da
parte dei baroni che imposero ai produttori il pagamento delle decime
e l’obbligo di usare i loro frantoi per la molitura delle olive. Anche oggi per il fenomeno della globalizzazione l’olivo vive un momento di forte crisi tale dall’essere incentivata dal Parlamento Europeo l’estirpazione di alberi secolari simbolo della nostra identità di popolo e di civiltà.
L’olivo, di cui il Gargano è così ricco, è simbolo, con il suo rigenerarsi e
riprodursi, di speranza e di fiducia nella vita. E’ simbolo della vita stessa, che trova in sé la forza del rinnovamento e della rinascita, così come i suoi rami contorti e nodosi simboleggiano le difficoltà e le strozzature della vita umana.
33. Campanelli d’oro.
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I Piccoli Venditori di
devano per le strade del paese contribuendo così al misero menage
famigliare. Non mancavano persone generose e dall’animo sensibile
che, per evitare ai piccoli venditori lunghi giri, prenotavano di settimana in settimana le utili “scuparadde”.
Scuparadde (Scoparelle)
In contrada Coppe, caratterizzata da lastre di rocce affioranti, che
il lavorio continuo di piogge, vento e gelo ha eroso dando loro forme diverse e a volte strane con ricami, intrecci e ritagli, veri capolavori artistici della natura, crescono in abbondanza erbe aromatiche, medicamentose ed erbe proteiche, che costituiscono cibo nutriente per le numerose mandrie di bovini ed ovini. In questa zona
si respira un’aria pregnante di profumi. Nei tanti buchi e spaccature, che adornano le pietre, crescono dei cespugli simili al timo dalla
ricca fioritura di piccoli fiori dal profumo intenso, una volta caduti
i fiori, seccano, ma rimangono compatti. Questi cespugli sono detti
“scuparadde” (piccole scope) perché il loro utilizzo era principalmente quello di ricavare delle scope rudimentali atte a spazzare nelle case di campagna, nei locali usati dai pastori e dai contadini, per raccogliere grano e altri cereali quando avveniva la “pesatura” (la frantumazione delle spighe). Venivano però usate anche per accendere
il fuoco nei camini, unica fonte di calore in tutte le famiglie, e nelle
fornacette, piccoli barbecue di ferro. Questi cespugli non mancavano mai nelle case dei pastori, dei contadini e nei forni, essi stessi se
ne procuravano in abbondanza.
Anche attorno a questo dono spontaneo e gratuito della generosa
natura era nato un commercio, il commercio dei poveri. Gli artigiani, i commercianti li acquistavano dai venditori ambulanti, di solito dei ragazzini, i quali si recavano alle “coppe” a procurarsi i cespugli e ne facevano delle fascine, che poi portandole sulle spalle le ven-
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Lu Mastre d’Ascia
girelli, asciugapanni, cassepanche...
Questo servire porta a porta era per lui anche l’occasione per pubblicizzare i suoi prodotti. Prima di iniziare il lavoro per cui era stato
chiamato, esponeva alla curiosità dei presenti i suoi prodotti di legno: rudimentali strumenti musicali, utensili per la casa, forchettoni, cucchiaioni, mestoli, mortai con i pestelli, schiaccianoci, piccoli
cofanetti multiuso, tutti oggetti decorati con incisioni a formare disegni e figure varie, caratteristici e unici. Non mancavano giocattoli
per bambini: per i più piccini cavallucci su pedana munita di rotelle e adatta per essere trascinata con una cordicella, cavalli a dondolo e tanti piccoli animali; per i più grandi: carrozzi e “curli” (trottole); per le femminucce piccole culle, pupe di legno o di paglia, forchettone e cucchiaini... Protagonista, la materia prima che offrivano
in abbondanza i nostri boschi, le nostre colline e le nostre pianure.
Il Maestro dell’Ascia
“Lu mastre d’ascia” era un abile artigiano, un vero specialista nell’uso
dell’ascia, che era un attrezzo di forma ricurva, costituito da un ferro tagliente inserito perpendicolarmente su un’asta di legno.
Il lavoro di questo artigiano era molto utile ed indispensabile per il
contadino, che lavorava tutto il giorno con vanghe, forche e zappe.
“Lu mastre d’ascia” andava di strada in strada con sulle spalle un fascio di “stile” (aste di legno), di varie dimensioni per lunghezza e
spessore e di legnami diversi, adatti per i diversi tipi di attrezzi e per
le diverse possibilità economiche degli acquirenti.
Il fascino di questo lavoro era la destrezza con cui si “lisciava” e si
“accarezzava” il legno e questo induceva piccoli e grandi a fermarsi
per ammirare il mastro d’ascia mentre lavorava. Si aveva la sensazione che da un momento all’altro sarebbe saltato sotto i colpi dell’ascia insieme alle schegge del legno un dito della mano. Ma ciò non
accadeva mai, grazie alla sua abilità. Dopo che era stato scelto dal
contadino il pezzo di legno, che doveva essere compatto, diritto, alquanto stagionato, senza nodi, e sporgenze, che avrebbero potuto
dare fastidio alle mani, il mastro d’ascia, prendeva le misure, incominciava a dirozzarlo ben bene della corteccia e passava poi alla seconda fase del lavoro. L’asta doveva essere ben levigata. Raffinava il
suo capolavoro con la raspa, che usava con ritmo preciso e continuo
come se fosse l’arco di un violino, come un violinista, infatti, poggiava sulla spalla lo strumento di lavoro “la stila” e la teneva ferma
con la testa reclinata. Nella bottega creava altri oggetti quali culle,
Rosa Di Maggio. Le Radici della mia Infanzia
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Gli Strumenti Musicali
ereditato dalla millenaria tradizione mitologica: costruito dal dio Pan,
signore dei monti e dei campi e protettore delle greggi e degli armenti.
Fioriti dalle mani tuttofare del mastro d’ascia, del panieraio, del pastore erano, oltre ai piccoli utensili casalinghi e i giocattoli, gli strumenti
musicali, perfetti nei suoni, anche se alcuni rudimentali.
Le Castagnole (Le Nacchere)
Dette così perché il miglior legno per realizzarle era il castagno, erano
un vero gioiello di perfezione e di eleganza: due pezzi di legno a forma
di piccola pera, esternamente decorati con incisioni e disegni geometrici o floreali, internamente ben levigati e su ambedue le parti un piccolo incavo rotondo, dalle precise dimensioni perché emettessero il suono
giusto. Le nacchere erano un rudimentale strumento musicale, che infilate alle dita delle mani dei suonatori e dei ballerini accompagnavano
il ritmo frenetico della tarantella, tipico ballo popolare. Esse si distinguevano in maschio e femmina ed erano per questo di diversa grandezza. La più grande veniva impugnata con la mano destra e la più piccola con la sinistra. Ciò produceva un suono diverso, più cupo in quella
di destra. Tale distinzione aveva anche un significato allegorico: la mano destra con la “castagnola” maschio dominava la femmina (superiorità e dominio dell’uomo sulla donna).
Li Ferlarute (I Flauti)
Di legno, di ferule o di canne, erano strumenti a fiato dalle emissioni di
suoni diversi dovuti alla grandezza dei fori praticati verticalmente nello strumento, alla qualità del legno e naturalmente al genio creativo del
suonatore. Non si usava certo lo spartito. Strumento tipico dei pastori,
Li Racanadde (Le Raganelle)
Uno strumento composto da un pezzo di legno variabile dai 15 centimetri in su, della larghezza dai 7 ai 10 centimetri, incavato nella parte superiore per circa 10 centimetri. In una delle due parti dell’incavatura, fornita di impugnatura, era inserita una rotella dentellata, l’altra
parte con una linguetta di legno, che veniva mossa dalla ruota, faceva
da cassa di risonanza ed emetteva un suono simile al gracchiare delle rane, di qui il nome. Questo strumento era utilizzato da grandi e piccoli
in tutto il paese per inneggiare a Cristo Risorto quando il Sabato Santo
“sfirravene li campane dille chiese”34.
Li Racanone
Versione molto più grande delle raganelle, tanto da doverle portare a
spalla e usare molta forza delle braccia per girare la manovella. Era uno
strumento non di facile utilizzo e quindi poco usato se non nelle feste
di campagna.
Li Feschkètte (I Fischietti)
Erano di legno o di canna lacustre, di varie dimensioni e forme. Il più
bello e richiesto era “lu ucedde!” (l’uccello), di legno, che aveva il becco forato e la coda schiacciata e leggermente aperta, lungo i lati del corpo dei fori. Anche questi piccoli strumenti, dalle modulazioni e suoni
diversi, erano perfetti e magistralmente usati dai suonatori e inseparabili compagni dei pastori nella solitudine delle lunghe giornate trascor34. Suonavano le campane delle chiese annunciando la Resurrezione di Gesù.
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se ai pascoli tra i monti o nelle grandi distese della pianura. Il loro suono rompendo il profondo silenzio si diffondeva per valli e piani e a volte diveniva mezzo di comunicazione con gli altri pastori, che rispondevano a loro volta con il suono.
Lu Zighede-bù
Tamburo a frizione. Strumento molto diffuso in tutta l’area meridionale e pertanto vario per materiale e per dimensioni. La cassa di risonanza
poteva essere un recipiente di latta o di creta o di legno sempre però di
forma cilindrica. Il piano armonico era di pelle o di capra o di agnello
sempre opportunamente preparata. Al centro della pelle veniva praticato un foro in cui veniva inserito un’asticella di legno, di canna o pungitopo. Il suono veniva prodotto sfregando l’asta con il palmo di una o due
mani, a seconda della grandezza dello strumento, dall’alto verso il basso. Per ottenere un suono più cupo bisognava bagnare di tanto in tanto
con acqua o saliva la mano.
Lu Tamburrèdde (Il Tamburello)
Tipico strumento a percussione delle popolazioni garganiche. Era costituito da un telaio di legno piegato a cerchio, sul quale era fissata una
pelle di capretto o di agnello precedentemente e opportunamente conciata. Lungo il telaio venivano praticati degli incavi oblunghi dove venivano inseriti dei sonagli metallici di diametro variabile dai tre ai quattro centimetri, ricavati dai tappi di bottiglie schiacciati o da ritagli di
stagno che scartavano gli stagnini o anche da recipienti metallici ormai
inservibili per qualsiasi uso.
Gli spazi liberi tra gli incavi venivano adornati con incisioni riproducenti disegni vari, semplici e lineari, ma a volte anche complessi come
figure umane danzanti, e nastrini colorati. La pelle costituiva il piano
su cui la mano batteva per la percussione. Nasceva così un suono misto,
prodotto dai sonagli e dalla mano battente sulla pelle.
Lu Scisciule
Il cosi detto violino del povero, perché si suona in modo simile al nobile strumento. E’ formato da due pezzi di legno della lunghezza che poteva variare dai quaranta ai cinquanta centimetri. Il primo non presentava nessuna particolarità e veniva poggiato con una estremità sulla spalla. L’altro pezzo era da un lato dentellato per tutta la lunghezza,
sull’altro lato erano fissati dei sonagli metallici di forma rotonda. Il suono era prodotto dallo scorrere del pezzo di legno con i sonagli su quello
appoggiato alla spalla.
Lu Murtale cullu Pesature (Il Mortaio con il Pestello)
Questo strumento non era altro che il comunissimo mortaio di legno, in
seguito di bronzo, che si usava per pestare il sale grosso o la cannella per
aromatizzare i dolci. Nelle mani abili di uomini e donne si trasformava in un ottimo strumento musicale per ritmare tarantelle e quadriglie
durante le feste.
Lu Mezzètte (Il Mezzetto)
Un recipiente dalla forma di un cono tronco, fatto di doghe in legno e
tenute unite tra loro da due cerchi di ferro, era una unità di misura per
cereali e altro, pari a circa 22 kg. Di dimensioni più piccole veniva riempito di pietruzze o di noccioli di olive e albicocche e utilizzato come strumento musicale. Agitandolo, infatti, produceva un suono ottimo nell’accompagnare gli strumenti più importanti. La parte superiore
veniva chiusa con una stoffa alquanto robusta, di solito a strisce o fiori
colorati per una nota di vivacità.
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Lu Quagghjaròle (Il Quagliere)
Strumento di osso e di pelle riproducente un suono simile al canto delle quaglie e usato come richiamo. Era costruito con un pezzo di osso buco di circa 6-8 centimetri sul quale veniva inciso un taglio e un foro.
nell’interno dell’osso veniva calato uno strato di cera vergine e sul foro
veniva lasciato un sottilissimo spazio. Nella parte inferiore veniva legata una sacca di pelle di circa 10-12 centimetri di lunghezza e di 4-6
centimetri di larghezza, riempita di crini di cavallo, che servivano a tenerla sempre rigonfia.
Lu Carevunere
Il Tracchebballacche
Strumento musicale popolare di legno, che emetteva un suono come di
nacchere.
Strumenti musicali, da sinistra: tamburello, raganelle, mortaio, nacchere.
Il Carbonaio
Sul maestoso Gargano ricco di alberi centenari se non millenari, era
diffuso il mestiere del carbonaio. Esso è nato per necessità perché il
carbone sviluppa un grande potere energetico, indispensabile quindi per riscaldare i lunghi inverni.
Il carbonaio sul finire dell’estate e per tutto l’inverno conduceva in
paese il carretto carico di sacchi di carbone e carbonella, lo fermava in una piazzola e con la stadera,“la stataja”, in spalla girava per le
stradine e i vicoli del paese annunciando con il suo richiamo la vendita del carbone. Il suo lavoro lo teneva impegnato per tutto l’anno
perché quello della vendita era l’ultimo atto del faticoso mestiere.
Tra l’autunno e la primavera doveva provvedere personalmente o
con l’aiuto di qualche operaio al taglio degli alberi dal legno forte e
duro, regolato da leggi che stabilivano la durata e la quantità di legna da tagliare con asce e ronche, nelle zone prestabilite dalla “concessione” del Comune, dietro pagamento. Il tutto poi veniva trasportato con muli e asini nelle radure. Si separavano i rami doppi
dai piccoli tronchi e questi da quelli più grossi, di essi si facevano
poi cataste diverse di un metro di altezza, del diametro di 4-5 metri. Anche per preparare le cataste ci voleva esperienza ed abilità nel
disporre ed incastrare la legna per poter ottenere i migliori risultati. La legna veniva sistemata in senso circolare attorno ad una canna fumaria e i pezzi, tutti uguali non venivano perfettamente accostati tra di loro, ma leggermente scostati assumendo una forma piramidale. La catasta veniva poi coperta con la “camicia”, uno strato di
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paglia e terra. Si dava quindi fuoco infilando della brace nella canna fumaria, poi si chiudeva la “buca” con una pietra piatta. Il fuoco veniva rimboccato con piccoli pezzi di legna per farlo espandere
verso le pareti più lontane dal centro, la combustione doveva essere
regolare. Quando incominciava ad uscire fumo azzurrognolo voleva dire che la distillazione era avvenuta e si praticavano dei fori intorno al cono per consentire la carbonizzazione degli strati inferiori
della catasta. Finita la distillazione, il rogo si era consumato e il carbonaio copriva la massa dei carboni ardenti con abbondante terra e
lasciava raffreddare per 8-10 ore perché il fuoco non divenisse cenere ma carbonizzasse e in base alla doppiezza della legna si sarebbero ottenuti carboni di diversa grandezza. Quindi iniziava la “sfornatura”. Diverso il processo per ottenere la carbonella. La combustione dei rami, non eccessivamente grandi e all’aperto, veniva regolata
con getti d’acqua aspersi a pioggia sul fuoco acceso, questo portava
alla carbonizzazione del legno.
Il lavoro del carbonaio era lungo e paziente, in luoghi lontani e solitari, immersi nel silenzio.
Le Antiche Bilance
La scoperta della bilancia, strumento prezioso, segna il passaggio da una
società primitiva ad una più evoluta in senso sociale, politico ed economico. Il suo uso, infatti, presuppone una conoscenza, pur elementare,
dell’aritmetica e il possesso di cognizioni tecniche.
La bilancia per una società in cui l’interscambio dei prodotti era basato
sul baratto, fu un’invenzione rivoluzionaria, uno strumento indispensabile per misurare il peso di qualunque corpo solido non più in modo
approssimativo. Tutte le unità di misura esistenti erano imprecise e non
corrispondenti con quelle degli altri Paesi con cui si commerciava ed è
facile intuire quali problemi comportasse ciò. La bilancia rappresenta il
primo strumento di precisione scoperto dall’uomo.
E’ azzardato pensare che la sua invenzione sia paragonabile alla scoperta dei moderni computers?
L’eccezionale scoperta, la sua straordinaria funzione fecero sì che l’uomo
ne attribuisse significati allegorici, cantati nella Letteratura ed eternati
nell’arte. La bilancia è divenuta strumento, per antonomasia, di attributo della Giustizia divina e umana, della legge e della uguaglianza.
Mercurio nell’antichità era ritenuto il dio delle attività di scambio ed
era preposto alle misure e ai pesi. Giove è cantato da Omero nell’ VIII
libro dell’Iliade con una bilancia per decidere della sorte dei Greci impegnati da 10 anni nella guerra contro la città di Troia. Nella nostra
tradizione cristiana l’Arcangelo Michele porta in una mano una bilancia per ricordarlo come giustiziere degli angeli ribelli e, nell’immaginario collettivo, come l’Intelligenza a cui è affidato il compito di pesare le
anime dei defunti quando si presentano al cospetto di Dio Padre per es-
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sere giudicati; il simbolo della bilancia è presente anche in altre religioni. E’ anche simbolo della maestà imperiale e della imparzialità. Il simbolo della bilancia alludeva nell’antichità all’arte della mercatura, infatti lo si trova inciso su antiche lapidi per indicare il lavoro esercitato
dal defunto e oggi è simbolo-insegna per molti negozi e mercati di prodotti ortofrutticoli. La bilancia è il segno zodiacale che dà inizio all’autunno e al relativo equinozio proprio per sottolineare l’uguaglianza fra
la durata del giorno e della notte.
L’evoluzione dell’uomo ha accompagnato l’evoluzione delle unità di misura e di peso. All’origine l’uomo avvertendo la necessità di uno scambio equo prese a riferimento il suo corpo: il piede, il palmo della mano,
il braccio, il pollice... i primi documenti sono stati rinvenuti in Mesopotamia e in Egitto e risalgono all’epoca neolitica, al 5.000 a.C.; penetrò
in Europa nell’età dei metalli, 2000-1500 a.C. A San Giovanni Rotondo, come in tutto il regno di Napoli venivano usate unità di misura legate alla realtà contadina. Quelle più conosciute e diffuse erano la
soma, corrispondente a 120 Kg di grano; il tomolo corrispondente a 40
Kg; il mezzetto a 20 Kg; il quarto a 10 Kg; la misura 1,750 Kg; lo stoppello a 300gr. Queste unità erano così radicate nella mentalità popolare che continuarono ad essere utilizzate anche in seguito alla decisione
di introdurre le unità ufficiali in tutti i Paesi, a cui, però, non aderirono i Paesi Anglosassoni e gli Stati Uniti, dove rimangono quelle della civiltà contadina. Per praticità, soprattutto tra gli anziani, sopravvivono
ancora presso di noi le antiche unità di estensione, quali il passo, il piede, il palmo, la spanna di circa cm. 25; il tomolo... altre sono ricordate
nella nomenclatura di alcune zone terricole: quadrone, quattro carri...
Il termine bilancia deriva dal latino bilanx-bilances (due piatti, attestato nel IV secolo) in riferimento ai due piatti posti alle estremità di
un’asta. Con tale nome, ancora oggi, si indicano tutti gli strumenti di
peso, anche quelli che sono privi di piatti.
I primi esemplari venivano sostenuti con le mani o appesi ad un sostegno o fissati ad un muro e sono vissuti attraverso i secoli giungendo fino ai nostri giorni.
Il simbolo della bilancia nella civiltà umana rappresenterà per sempre
l’importanza della Giustizia.
Bascula.
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Capitolo IV. Gli Ambulanti
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L’Accatta Iova
gli occhi. Il compratore da parte sua ribatteva che non erano poi così grosse perché ce n’erano di migliori, parola di un esperto intenditore. Alla fine naturalmente si giungeva ad un accordo con soddisfazione da ambo le parti.
Il Compratore di Uova
Un altro personaggio tra i commercianti ambulanti era il compratore-venditore di uova.
Le galline e tutti gli animali da cortile un tempo abbondavano non
solo nelle campagne, ma anche in paese. Non c’era casa dove non ci
fosse una stia con le galline, che di giorno veniva posta fuori casa,
davanti la porta. Dopo che ponevano il loro uovo giornaliero venivano lasciate libere di razzolare per la strada. Il quartiere diventava
una grande aia e al calare del sole, nonostante la promiscuità, ogni
gallina ritornava alla propria gabbia e se qualcuna perdeva l’orientamento, veniva restituita alla legittima padrona. Nessuno se ne appropriava. Le uova venivano ben conservate dalle massaie, guai se
uno di esse si rompeva cascava il mondo, perché vendere le uova significava poter comprare con il ricavato il fabbisogno della famiglia
o contribuire a raggranellare un gruzzoletto da tenere da parte per
qualche evenienza. Ogni settimana uno o due volte passava “Summaria l’accattaiova”. Al suo grido di richiamo, veloci le donne si affacciavano alla porta per invitarlo ad avvicinarsi a ritirare il prodotto delle galline. Egli portava al braccio un grosso cesto dove deponeva le uova disponendole in modo tale che non urtassero l’uno contro l’altro e non si rompessero. Naturalmente anche per un uovo vi
era la contrattazione. La massaia sosteneva che le sue uova erano le
più grosse, le più saporite e profumate perché le galline mangiavano scaglia di cereali, granoturco, grano e pastone di crusca, e le uova avevano quindi un bel colore giallo, che le avresti mangiate con
Capitolo V
Artigiani
di Bottega
Calzolaio con apprendisti a lavoro.
Capitolo V. Artigiani di Bottega
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Lu Mastre Carre’re
Il Maestro Carraio, Costruttore di Carri
Il maestro “carrère” era un vero specialista nel costruire “traini” (carretti), “trainelle”, “carri”, “carretti”, “carrettoni”, “birocci”. Era il carpentiere, che con una tecnica particolare e specifica incastrava i pezzi che componevano il carretto. “Lu traine” era il mezzo usato per il
trasporto su strade e tratturi di cose e merci; “le trainelle” erano invece usate in paese per trasporti di piccole quantità di cose e per lo più
usati dagli ambulanti e spinti a mano; “il carrettone”, carro di grandi dimensioni, era adibito a trasporti agricoli: covoni, paglia, foraggi, fogliame, fascine...; il “biroccio” elegante e leggero mezzo molleggiato, era, invece, usato per spostamenti veloci dai grandi possidenti e commercianti di bestiame, che spesso si recavano alle fiere e
ai mercati nei paesi vicini o per andare in paese il sabato sera. Questa era una abitudine molto diffusa e radicata, una forma di status
quo. Era, infatti, l’occasione per mettere in mostra il buon ed elegante cavallo di razza dal pelo lucido e ben strigliato che si possedeva, se ne faceva un punto di onore e sulla strada si intraprendeva una gara per velocità, destrezza ed abilità, soprattutto tra i giovani di ricche famiglie, che facevano schioccare la frusta segno del loro entusiasmo giovanile e dell’orgoglio di appartenenza. Vi era anche “lo sciaraballone”, molleggiato anch’esso e usato come trasporto
di passeggeri. Il mastro “carraio” curava anche la manutenzione delle ruote. La composizione della ruota era uno spettacolo strabiliante da vedere: il cerchione di ferro fumante veniva posato sfavillante
sulla ruota di legno e usando il maglio di legno e il martello il ma-
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Capitolo V. Artigiani di Bottega
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stro carraio con destrezza e con l’aiuto dei “discepoli”, che, a richiesta del mastro versavano l’acqua con barattoli bucherellati, impedivano che il legno bruciasse. Era un lavoro duro e lungo, che richiedeva abilità straordinaria, per le ruote non ci si poteva permettere
errori, dovevano essere perfettamente calibrate.
Egli creava mobili e arredi diversi, da quelli più semplici a quelli più
elaborati ed artistici ritenuti di scuola napoletana, cosa possibile visto che tanti maestri di bottega, intagliatori, cartapestai, decoratori spesso si spostavano per periodi più o meno lunghi nei vari centri
del Regno di Napoli per realizzare dei lavori su commissione di ricche famiglie. E non è difficile immaginare che si servissero dei garzoni del posto, che ne apprendevano l’arte, trasmessasi poi attraverso i secoli. Era il falegname che realizzava il mobilio per le giovani
coppie, gli utensili per la casa dalla madia alle sedie, dalla cassapanca
all’attaccapanni... E se le famiglie meno abbienti si accontentavano
della linearità ed essenzialità, purché di buon legno e di buona fattura, quelle benestanti si affidavano alle capacità artistiche dell’artigiano e nascevano così dei pezzi unici, che divenivano ricchezza ereditata dai figli. Ancora oggi molti sono i giovani che riscoprono la
bellezza di un mobile artigianale e non disdegnano di farlo restaurare e ridargli vita e splendore continuando così la storia di una civiltà, di un popolo, di una famiglia. Lavori unici che non temono
il confronto con i mobili firmati dalla modernità e dalla produzione in serie, anzi ne sfidano la bellezza e la fattura. Non c’era pericolo che un mobile potesse deformarsi a causa del materiale scadente.
Erano i nostri boschi a fornire la varietà del legname: il noce, il castagno, il ciliegio e il falegname ne curava personalmente la stagionatura, cosa lunga e non facile, il legno é una materia viva e come
tale va trattata ed “accarezzata”. Di botteghe ce n’erano tante e tutte
di ottimi maestri, alcuni di essi hanno realizzato anche mobili disegnati da architetti. Non mancano testimonianze di vere opere d’arte come il Crocifisso posto sull’altare della Chiesa di San Giuseppe
Artigiano nonchè tutto l’arredo realizzati da Nicola Ritrovato. Ma i
tanti mobilii sono la vera firma artistica dei nostri artigiani.
A ttempe perse jè sbampejà nu poche,
jè me ne vaje da lu mastre carrere,
pè vvedè vvatte lu ferre ‘nfucate.
M’appicce nu sikere e ddà me stanghe:
chè me piace sentì quiddi tramute de musica
de lli tre magghje che vattene
lu ferre sope la ‘ncutene.
‘ndonghe, ’ndinghe-ndonghe, ’ndhinghe, ’ndonghe.
A tempo perso io devo prendere un po’ d’aria,
io me ne vado da un mastro carraio
per vedere battere il ferro infuocato.
Mi accendo un sigaro e là me ne sto:
perché mi piace sentire quei terremoti di musica
dei tre magli che battono
il ferro sull’incudine
‘ndonghe, ’ndinghe-ndonghe, ‘ndinghe, ‘ndonghe.
L’arte è “mobile”. Ci sono cose che non sono mai demodè, non sono mai fuori moda e per tanto va ricordato in quest’ambito un altro artista della lavorazione del legno, il falegname, il cui impegno
era rivolto ad altre realizzazioni artigianali, per un diverso utilizzo.
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Capitolo V. Artigiani di Bottega
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Lu Ferrare
delle scale interne delle case oppure osservare gli arredi nelle chiese,
opere artigianali preziosissime: candelabri, trespoli... Un esempio la
meravigliosa colomba, che si trova nella chiesa di San Giuseppe Artigiano, la splendida inferriata che ha protetto per 40 anni la tomba
di San Pio, il trespolo per il cero pasquale, che si trova nella chiesa
di San Leonardo dove la fantasia e la perizia dell’artigiano Costanzo
Cavorsi hanno creato veri capolavori e con lui tanti altri.
Ricordare gli antichi artigiani che ci hanno lasciato delle opere autentiche, che ci parlano della nostra tradizione e della nostra storia è
doveroso, come doveroso è ringraziare tutti quelli che ne hanno ereditato l’arte e la coltivano con passione.
Il Fabbro
Nella società moderna ci sono ancora, nei piccoli centri, i fabbri anche se la tecnologia ha invaso le loro botteghe artigianali con il solo compito, però, di aiutare e facilitare la lavorazione della dura materia prima, il ferro. Sono ancora gli artigiani con la loro intelligenza e il loro genio creativo i protagonisti che realizzano le opere d’arte in ferro, piegandolo alla loro volontà: é dalle loro mani che nascono cancelli per ville e case di campagna, inferriate e recinzioni, cornici e testiere da letto, sedie e tavoli da giardino, porta oggetti e ninnoli... tante, molte sono le loro creazioni dalle più ricercate e complesse alle più semplici, spettacolari nella varietà di disegni e forme,
uniche... certo anche i fabbri sono stati “costretti” a camminare con
i tempi e adeguarsi ai cambiamenti. Alcuni oggetti, infatti, utensili e strumenti di lavoro sono scomparsi. Viviamo nell’era della macchinizzazione, nei campi non si lavora più con gli animali e gli aratri, le zappe e le falci, le forbici da pota e da tosatura, accette, scure
e seghe, rancole e rastrelli; per i trasporti e i trasferimenti non ci sono più le carrozze, i carretti e gli “sciarabba”, hanno preso il loro posto le macchine, i trattori, le falciatrici, le moto-zappe... e per essi
c’è l’officina del meccanico. Per fortuna che della tradizione artigianale rimangono testimonianze che narrano la loro bravura e la loro genialità e non solo. Basta guardare i balconi del borgo antico per
capire la cura e la perfezione con cui sono state realizzate le inferriate
dalle più semplici a quelle impreziosite con evolute, geroglifici, elementi geometrici, floreali, zootecnici, umani o ammirare le inferriate
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Capitolo V. Artigiani di Bottega
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Lu Scarpare
ra, pece, vetro per levigare le suole. Tutti perfettamente ordinati nei
piccoli scomparti del tavolinetto. Chino su di esso, con il grembiule di pelle o di tela grezza e i manicotti alle braccia, batteva, cuciva,
incollava tutto il giorno e quando il tempo lo permetteva, poneva il
suo tavolo da lavoro davanti casa e così tra una chiacchierata e l’altra, un saluto e una battuta con i passanti, trascorreva il suo tempo.
Non gli mancavano certo “li discipule”, gli apprendisti, che come
bravi soldatini obbedivano al maestro e in silenzio ascoltavano i suggerimenti su come usare chiodi, chiodini, tenaglie e martello senza
schiacciarsi le dita.
Se riparare le scarpe, di qui il nome, era l’attività più frequente, non
mancava però occasione per mostrare la propria bravura come creatore della scarpa. Fino agli anni ’30 non c’erano negozi di scarpe
confezionate. Si andava dal calzolaio ed egli creava scarpe nuove,
prendeva le misure del piede, sceglieva il materiale più adatto per il
tipo di scarpa richiesta e poi vi lavorava con passione, contento a fine lavoro di poter ammirare quelle scarpine così belle da personaggi delle favole o gli scarponi forti e resistenti che avrebbero difeso e
protetto i piedi dei lavoratori. Confezionava anche grosse borse di
cuoio, cinture, piccoli borsellini porta monete.
Il calzolaio come la maggior parte degli artigiani amava la musica e
imparava da autodidatta a suonare uno strumento per poi far parte
della banda del paese. La bravura e la precisione dei nostri calzolai
ha permesso che la scarpa italiana fosse apprezzata in tutto il mondo
e di questa fama oggi ne usufruiscono i grandi industriali che esportano il marchio dell’antica tradizione.
Il Calzolaio
“Tacchi espressi” si legge su un cartello attaccato ad una vetrina. Entri, ti togli le scarpe e poco dopo sono pronte per essere rimesse ai
piedi. Sì perché il lavoro del calzolaio, come tanti altri, si è velocizzato. Non è più quello di una volta lungo e laborioso. Le scarpe consumate, scucite, rotte tornavano quasi nuove sotto le mani abili e pazienti del calzolaio. Oggi nessuno più si fa riparare le scarpe né confezionare. L’industria ha preso il posto dell’artigianato, produce di
più e a minor costo. Addio scarpe, stivali e pianelle di velluto nero o
rosso, eleganti per uscire o di pelle per la quotidianità della vita, ma
tutte di ottima fattura per bellezza, perfezione e durata.
Il calzolaio lavorava in silenzio da mattina a sera accompagnando i
suoi pensieri e il suo lavoro con i colpi secchi del martello su chiodini appoggiati sulla suola delle scarpe mal ridotte. Ma non appena arrivava un cliente gli si scioglieva la lingua e discuteva delle tante cose che accadevano o non accadevano in paese, mentre attaccava tacchi e sopratacchi, fibbie e mascherine, suole e mezze suole. A
lavoro finito poneva su di esse un po’ di crema e strofinando velocemente con un panno di lana o di pelle le faceva brillare come nuove; soddisfatto le consegnava alla padrona belle e pronte da calzare. Aveva sempre in un cantuccio, vicino al suo tavolino da lavoro,
un mucchio di scarpe da riparare; era fornito di tutto ciò che occorreva per un buon lavoro: forme di ferro di varie dimensioni, un caratteristico e affilato coltello, lima, lesina, martelletti, tenaglie, spago, chiodini di ogni forma e grandezza per lunghezza e spessore, ce-
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Lu Cusciutore
stro di bottega” consigliava di frequentare una scuola di perfezione
in una grande città.
Oggi ci sono Scuole Superiori di II grado con indirizzo di Moda che
danno accesso all’Università con propi corsi di laurea attinenti alla
Moda. Ma è la gavetta vissuta nella “bottega” il denominatore comune dei grandi stilisti, la bottega rimane la strada maestra per la
formazione della figura professionale del sarto-stilista. Molti di essi,
infatti, hanno iniziato spazzando la bottega di un “maestro” dove si
confezionava di tutto dai pantaloni alla giacca, al cappotto, alla camicia. L’apprendistato avveniva per gradi e il lavoro veniva affidato
in base alle esperienze acquisite.
Il ragazzo di bottega era addetto a varie manzioni pratiche: spazzare
la bottega, togliere i fili dell’imbastitura, preparare il ferro da stiro,
“assistere” il maestro durante le prove dei capi, fare “l’ntirlante” 35.
Al “mezzo giovane” (l’adolescente) era affidata la realizzazione di tasche e taschini. Il “giovane” aveva il compito di assemblare fianchi,
spalle e collo. Quella del sarto è un mestiere completo e complesso,
occorrono oltre a doti particolari, competenze specifiche quali tecniche di composizione, disegno tecnico, conoscenza degli strumenti e San Giovanni Rotondo vanta una tradizione sartoriale di grande rilevanza, con maestri che hanno raggiunto livelli di grande professionalità, Michelino Giuffreda, Giuseppe Pazienza, Leonardo Ricucci... Alla fine degli anni ’60 con l’avvento della produzione industriale iniziò la crisi della sartoria artigianale, per cui molte botteghe, come tante altre attività artigianali, dovettero chiudere i battenti, ma non si è mai estinta e il sarto non è andato fuori moda, an-
Il Sarto
Il mestiere del sarto è antichissimo ed affascinante, di grandi soddisfazioni, ma anche di grandi sacrifici. Quello del sarto più che un
mestiere è un’arte per la genialità e la creatività degli operatori.
E’ attraverso le opere pittoriche e scultoree che, se non le origini,
possiamo apprendere e costruirne la storia, l’importanza presso i diversi popoli, l’evoluzione. I drappeggi dei pepli e delle tuniche della
civiltà greca e romana, le finissime pieghettature del mondo egiziano, lo studio e l’utilizzo delle finissime e delicatissime stoffe da loro
usate parlano di ricerca di eleganza e raffinatezza e sono frutto non
solo dell’innato gusto del bello, ma anche dello studio e della esperienza, che diventa arte nelle mani dei curatori di abiti, dimentichi
delle tante ore chini solo per studiare e realizzare un particolare che
possa personalizzare e rendere unico un capo.
Lungo è il periodo di apprendistato per chi vuole imparare questo
mestiere, dai 6 ai 10 anni per 10-11 ore di lavoro al giorno e, nei periodi di super lavoro, fino a notte inoltrata.
A San Giovanni Rotondo tante erano le botteghe di sartoria maschile e femminile. Quelle maschili erano frequentate da ragazzi e ragazze che venivano avviati all’apprendistato giovanissimi, verso i sette
anni e se di mattina i poco più che bambini frequentavano la scuola per apprendere l’indispensabile, così come ritenuto dai genitori,
di pomeriggio frequentavano la bottega. L’insegnamento era gratuito e si riceveva una buona base più che sufficiente per avviare l’attività in proprio; per chi voleva fare di quel mestiere un’arte il “mae-
35. Fare punti lenti nell’assemblare le varie parti del capo. Lat. inter lentum: lenti tra (loro).
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zi oggi è di grande attulità, torna a farsi notare da solista, capace di
creare capi unici. Quello del sarto è il mestiere del futuro in alternativa alla produzione in serie.
La creatività e la genialità sartoriali italiane sono sempre state elogiate e la moda creata ed esportata in tutto il mondo è sempre stata un
punto di forza nell’economia dell’Italia.
Il Maestro dell’Ago e del Filo
Attrezzi di sartoria da uomo.
Nella storia dell’arte sartoriale di San Giovanni Rotondo spicca la figura professionale di Giuseppe Pazienza, da tutti conosciuto come “Pippine mpisseble”, una volta tutti avevano un sopranome e con questo erano conosciuti, il cognome era usato raramente. Uomo di grande curiosità intellettiva e acutezza, allegro e gioviale, iniziò l’apprendistato verso gli otto anni presso il rinomato “maestro di bottega” Michelino Giuffreda, detto “quarantova” mentre di mattina frequentava la scuola primaria. Le sue doti innate, il gusto per il bello e l’ abilità non sfuggirono
al maestro, che al termine dell’apprendistato lo indirizzò verso la scuola di perfezionamento e di specializzazione di Roma, che con quella di
Firenze era la più prestigiosa. Il suo estro, sotto la guida dei grandi maestri, emerse subito tanto da attirare l’attenzione delle grandi sartorie
della capitale determinate ad assumerlo, ma egli preferì tornare a San
Giovanni Rotondo, non trascurando, però, il suo aggiornamento nella
capitale della moda dove puntualmente si recava ogni anno.
Nonostante nel difficile momento storico di grande miseria durante la
seconda guerra mondiale fosse stato assunto nelle Poste Italiane preferì
lasciare l’impiego per aprire il suo laboratorio artigianale in Via Fraticelli dove lavorò ininterrottamente a pieno ritmo fino a quando la crisì
non investì il settore e l’apprendistato finì. Continuò la sua attività da
solista, ma gli mancavano i “suoi giovani”. A chi gli faceva notare l’errore di aver rinunciato ad un impiego sicuro diceva “L’artista che è in
me era in gran disagio e non voleva morire dietro le scartoffie, sottostando ai dictat che imprigionavano l’estro”.
Oggi, per il numero di apprendisti che lavoravano nel suo laboratorio,
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potrebbe essere definito “imprenditore di sartoria, industriale”, per la
sensibilità, il gusto estetico, le capacità creative, la precisione e la facilità di rapporti interpersonali: “stilista”, capace di imporre e diffondere
nuovi stili. A completarne la figura, a queste virtù va aggiunta l’ottima
conoscenza e l’adeguato utilizzo di tutti gli strumenti di lavoro. Particolare importanza dava alla stiratura e per questa usava sempre ferri da
stiro di ultima generazione.
Lui era il Figurista, realizzò il “suo” album con modelli da sottoporre
ai clienti per la scelta, il Disegnatore, sviluppava il disegno secondo
il desiderio, a cui poneva molta attenzione, e il fisico del committente,
il Tagliatore, che dopo aver posto il modello sulla stoffa con millimetrica precisione delle misure prese personalmente e con molta attenzione al cliente, tagliava il capo e lo affidava ai “discepoli” competenti per
l’imbastitura e l’assemblamento delle varie parti. Toccava ancora a lui
fare una o più prove e rifinire il tutto. Ricercava e curava il particolare, che lui stesso realizzava: l’impuntura, perfetta e minuziosa, l’intessitura precisa delle asole, monumento di perfezione, l’attaccatura dei bottoni, di cui curava anche la scelta convinto che da questi si capiva l’importanza e il quid distintivo di un capo di alta sartoria. Ed era per questa cura del particolare che il cliente si affidava a lui anche per la scelta
della stoffa. I suoi capi erano rigorosamente realizzati a mano. In definitiva aveva il totale controllo del lavoro e la responsabilità dei risultati e coordinava personalmente il lavoro degli apprendisti, degli aiutanti e dei collaboratori più prossimi. Era molto esigente con se stesso e con
i “discepoli” a lui affidati perché apprendessero il mestiere nel modo migliore e soprattutto perché divenissero uomini e donne mature pronti ad
affrontare le difficoltà della vita.
“I nostri capi devono uscire dalla sartoria perfetti, impeccabili perché,
ricordatevi, noi vestiamo l’uomo non il manichino”, era solito dire. Non
era geloso dei segreti professionali, anzi voleva che i suoi “discepoli” lo
onorassero divenendo tutti bravi sarti. Non voleva che il suo talento,
la sua esperienza andassero perduti e molti furono i “suoi” giovani, che
aprirono una sartoria tenendo alto il nome del loro maestro che chiamavano “Somà” e che altro non significa che “signor maestro” dal romanesco “sormastro”, e nel nostro dialetto “somà”.
Dalla sua sartoria uscivano capi firmati, “griffati”, fu il primo, infatti, ad usare il marchio di sartoria: un’etichetta nera con le lettere del suo
nome, di colore giallo-oro, impresse; si confezionavano capi particolari:
frac, tight, rendigote, aveva, infatti, una clientela numerosissima e selezionata, che proveniva da tutta la provincia. Dalla sua bottega uscivano sarti, ma anche operai specialisti: camiciaie, stiratrici, pantalonai di qualità.
La sua “bottega” era una fucina in cui battute spiritose, ilarità, gioia di
vivere, gaiezza giovanile nel sottofondo di musiche trasmesse dalla radio
sempre accesa o del canto che in coro s’intonava, frizzanti accompagnavano il lavoro sotto la guida del “maestro dalle forbici d’oro”.
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Lu Seggiare
La Buffetta
Il Seggiolaio
Svelto svelto di buon mattino il seggiolaio percorreva le strade del
paese con un carrettino per ritirare sedie, “buffette”, “scannetedde”...
per un fondo rotto, un piede o un asse sconnessi e che le massaie volevano far riparare. A fine mattinata con il suo carrettino carico se
ne tornava nella botteguccia e lì per tutto il pomeriggio fino a tarda sera, spesso aiutato dalla moglie, lavorava sulle sedie rifacendo i
fondi con intrecci di paglia, metteva a posto gambe e spalliere sconnesse, aggiustava banchetti. Il mattino dopo rifaceva il giro del paese per consegnare i lavori finiti e prenderne altri da riparare. Ce n’erano sempre di “buffette e buffettole, sedie e banchetedde” in attesa di
riparazioni. Finché si potevano riparare, si dovevano riparare.
“Le cose vecchie riservano le nuove” era il motto diffuso.
Egli realizzava anche sedie nuove, per queste il lavoro era più impegnativo e più fantasioso. Bisognava fare la sagomatura, l’intaglio e
l’incollaggio delle aste di legno lavorate variamente; intrecci e definizione del fondo della sedia. La sua abilità consisteva nell’incidere
e definire i singoli elementi per assemblarli bene, gusto della decorazione per le varianti del modello di base.
Capolavoro, direi dell’arte povera, era la realizzazione delle “furrizze”, sgabelli realizzati con il legno tenero, ma resistente, delle ferule
che sul territorio garganico abbondano in primavera.
Le buffette erano tavoli rettangolari, modestissimi, di varie grandezze
secondo le esigenze della famiglia ed erano presenti in tutte le case. Erano appoggiate ad una parete, pronte per essere utilizzate in ogni occasione e per ogni uso. Era su di essa che si poggiava la madia per fare il pane, su di essa si poggiava la spianatoia ogni giorno per impastare la farina per la pasta (orecchiette, troccoli, tagliolini, tagliatelle, cicatelle...),
su di essa si stirava, si giocava a carte... ma il suo ruolo più importante era quello di accogliere intorno a sé tutta la famiglia per il desinare. Allora sì che diventava il “trono della casa”, veniva posta al centro
della stanza, di solito all’ora di cena quando rientrava a casa dal lavoro dei campi il pater familias, solo allora si “apparecchiava la buffetta”,
che veniva ricoperta con una bella tovaglia pulita e profumata di bucato; a pranzo la mamma con i figli ancora piccoli per mangiare si sedevano, se d’inverno, attorno all’asciuga-panni posto sul braciere e nella bella stagione attorno ad una sedia o all’angolo della “buffetta”. Era
così importante apparecchiare la tavola al centro della casa per mangiare che se per disgrazia avveniva la morte del capo famiglia per anni
non si apparecchiava più.
A sera sulla “buffetta” troneggiava un unico grande piatto di creta o di
rame, fumante e profumato di pancotto o pasta e fagioli o di... e quando il papà dava il via con la prima forchettata tutti gli altri affondavano la loro posata per assaporare e gustare la buona minestra e smaltire così la fame non senza prima ringraziare il Buon Dio per la Sua Generosità.
Attorno alla “parca mensa”, all’umile “buffetta” di legno si radunava la
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numerosa famiglia, di cui erano parte integrante i nonni ed era per tutti una gioia intima perché quel momento era vissuto come rito religioso dove tutto era condiviso.
La “buffetta” diveniva, inconsapevolmente, simbolo dell’altare dove la
famiglia spezzava il pane e la parola: intorno ad essa si impartivano ai
piccoli le buone maniere di stare a tavola, il rispetto dell’uno per l’altro anche nel parlare, nel raccontarsi di come era trascorsa la giornata o
degli avvenimenti accaduti. Tutto sotto lo sguardo benevolo dei nonni,
pronti ad intervenire con la loro esperienza e la saggezza dell’età avanzata. Una volta, infatti, i nonni vivevano in casa dei propri figli nella
buona e cattiva sorte, assistiti dai propri cari e allietati dalla gioia dei
nipoti. “Dove ne magnene iotte, ne ponne magnà nove” 36 era la loro parola d’ordine.
Da sinistra in alto: buffetta con sedia impagliata, scanno ricavato da un solo pezzo di
legno d’ulivo, banchetedde e scannetedde, furrizze.
36. “Dove ne mangiano otto ne possono mangiare nove”.
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Capitolo V. Artigiani di Bottega
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Aneddoto
la situazione, anche perché una volta si mangiava tutti nello stesso piatto. Si decise, quindi, di far mangiare da solo in un cantuccio vicino al
camino il nonno. Un giorno per il forte tremore, accresciuto anche dallo stato ansioso e triste dell’uomo, gli cadde dalle mani la ciotola, che si
ruppe. La donna stizzita incominciò a sbraitare e a rimproverare a voce
alta il poveraccio. All’improvviso vide il figlio che accoccolato raccoglieva i cocci della ciotola. La mamma stupita chiese con rabbia cosa stesse facendo e il bimbo candidamente rispose “Raccolgo i cocci per sanare
la ciotola. Potrà servire per te quando sarai vecchia”. Da quel giorno il
nonno tornò a sedere alla “buffetta” insieme alla famiglia.
Si racconta che una volta in una famiglia viveva un vecchio nonno, che
purtroppo gli anni e gli acciacchi avevano indebolito parecchio: le mani e le gambe gli tremavano, la vista gli si era abbassata ecc... e naturalmente aveva sempre più bisogno di aiuto. Con il passar del tempo, di
questa situazione la nuora incominciò a lamentarsi con insistenza con
il marito a tal punto che il povero uomo ad un certo punto decise di
portarlo all’ospizio dei poveri presso il monastero della Maddalena. Nel
nostro paese, infatti, anticamente vi era, presso il convento delle suore
clarisse, per i vecchi soli, abbandonati e poveri, un ricovero gestito dalle suore e mantenuto dalla carità.
Un mattino ben presto il figlio, anche se con grande dispiacere, si caricò il padre sulle spalle e si avviò verso il convento, che si trovava nella
parte alta del paese, in cima alla “Chiazza Ranna” 37. Strada facendo
a causa del peso e della salita dovette riposarsi, si fermò e pose a sedere
il vecchio padre su una grossa pietra e mentre si asciugava il sudore, lo
sentì che tra i sospiri diceva “Eh!!!!, qua ai sposte a patème qua a sposte a mmee e qua anna spònne a tè” 38. Il figlio, sconvolto, si ricaricò
il padre sulle spalle e lo riportò a casa dove sarebbe rimasto fino a quando Dio avrebbe voluto.
Un altro racconto narra di un vecchio padre, che per l’età avanzata non
riusciva a tenere ferme le mani mentre mangiava e quindi lo spettacolo,
a volte, non era bello a vedersi. La giovane nuora mal sopportava quel37. “Piazza Grande, Via Pirgiano”.
38. “Ahi! Qui ho posto mio padre, qui hai posto me e qui porranno te”.
Buffetta apparecchiata per il pranzo.
Capitolo VI
Arti e
Mestieri
Album con modelli realizzato da Giuseppe Pazienza.
Capitolo VI. Arti e Mestieri
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Lu Sangnettare
Il Venditore di Sanguisughe
Il sanguettaro era colui che era bravo a praticare salassi e ad usare le
“sanguètte” (le sanguisughe, le mignatte) per curare diversi malanni: queste venivano applicate su una parte dolorante o dietro l’orecchio a chi soffriva di pressione sanguigna alta. Un tempo il suo utilizzo faceva parte della medicina, essa succhiava il sangue, di cui si
alimentava, rimanendo attaccata fino a quando non era sazia.
Dunque il sanguettaro non era né un infermiere né un diplomato o
un medico, ma un artigiano: maniscalco, barbiere o lo stesso pantaniere, il pescatore delle sanguisughe del lago o dei pantani.
A San Giovanni Rotondo, dotato del lago di Sant’Egidio, oggi ridotto ad un semplice pantano, la sanguetta era molto conosciuta
e utilizzata. Il nostro lago, infatti, era ricco di un tipo di mignatta
molto apprezzata. La sua buona qualità era dovuta alla abbondanza
di acque stagnanti, dove trovava ottimo nutrimento e per tanto era
molto richiesta sul mercato tanto da far nascere un commercio così florido che il Comune dovette intervenire per regolarne la vendita 39. Diverse le famiglie che commerciavano in sanguisughe, le più
Particolare di una giacca realizzata da Giuseppe Pazienza.
39. Il Comune era intervenuto con l’istituzione d’asta per concedere l’affitto del lago di
Sant’Egidio per la durata di tre anni. L’affitto era limitato alla pesca delle tinghe e delle sanguisughe nei limiti consentiti dalla legge 4 marzo 1877 e dal relativo regolamento approvato dal R° Decreto del 15 maggio 1884 e da altre disposizioni di leggi e regolamenti in materia di pesca. Stabiliva l’uso di 4 sandali, la dimensione delle reti e della lunghezza del pesce
da pescarsi, la obbligatorietà della vendita esclusiva nel Comune al prezzo stabilito dall’Assessore Delegato. Anche per le sanguisughe, che dovevano essere della migliore qualità si imponeva il prezzo per i cittadini. Si permetteva l’esportazione.
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Capitolo VI. Arti e Mestieri
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conosciute erano: La Scarpara, Scarparadda, Perdejurne. Erano ottimi navigatori e possedevano i “sandali”, caratteristiche imbarcazioni a remi dal fondo piatto.
Le mignatte erano di varie specie, la più conosciuta aveva un corpo
appiattito, più stretto sul davanti, due estremi che terminavano con
una piccola bocca a ventosa, con la quale si attaccava così fortemente alla parte su cui era posta che si doveva aspettare che si staccasse
da sola altrimenti si correva il rischio di staccare con essa anche parte della pelle. Aveva il dorso color verde oliva con strisce rosso-ruggine punteggiate di nero, il ventre giallo-verdognolo. Con il progredire della ricerca nel campo della medicina e delle norme igienicosanitarie, la vendita delle mignatte fu vietata.
Lu Trainere
Asino e mulo con piccolo carro da trasporto.
Il Carrettiere
I mezzi di trasporto usati un tempo erano carretti e carrettoni trainati da cavalli e di questi qualcuno ne aveva fatto un mestiere: “lu
traienère”.
I carrettieri si alzavano che era ancora buio, preparavano il cavallo, il
mulo o l’asino, lo legavano al carretto e partivano verso i campi per
rifornirsi delle mercanzie di cui la popolazione era priva e che non si
producevano in loco. Inseparabile compagno di viaggio era il cagnolino, oltre naturalmente il cavallo con il quale il carrettiere era un
tutt’uno. Con esso viveva in perfetta sintonia, gli si rivolgeva come
ad un amico e nel silenzio del mattino non ancora annunciato dalla
luce del sole parlava delle sue ansie, dei suoi progetti, delle sue preoccupazioni. Da parte sua il cavallo capiva ogni parola, ogni gesto o
comando col solo schioccare delle labbra o della frusta che fendeva
l’aria. Non appena il carrettiere si poneva al posto di guida e allegramente faceva schioccare la frusta esortando l’animale con un “jamme belle jà” 40, il cagnolino, salito sul carretto, abbaiando e scodinzolando percorreva da una parte all’altra il piano del carro con un continuo andirivieni. Il cavallo percorreva da esperto la strada evitando
fossi e ciottoli. La lampara, penzolante sulla parte inferiore del carretto, accompagnata dal rumore ritmato degli zoccoli, aspettava il
sorgere del sole. Quello stesso ritmo di zoccoli e l’abbaiare festoso
40. “Su, bello, su”; o “Andiamo, bello, andiam”.
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Capitolo VI. Arti e Mestieri
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del cane accompagnavano i pensieri dell’uomo, che già pregustava il
ritorno a casa dove l’aspettava la sua donna e a mezza voce, con nel
cuore una grande gioia, intonava la “strapuletta” 41 a lui tanto cara:
Lu Spruatore
Jole e sì, jole e sì, jole sì
trainare lu zite mija
trainare adda jasse
e m’adda dduce la pettinessa.
E dirate lu traine m’adda
adduce le ricchjne, li ricchjne
a pesature come l’ajusene li signure
li ricchjne a pompa d’ore
come li jusene li signore.
Gioia sì, gioia sì. gioia sì
carrettiere il fidanzato mio
carrettiere deve essere
e mi deve portare il pettinino.
E dietro il carretto mi deve
portare gli orecchini, gli orecchini
pendenti come li usano i signori
gli orecchini a pompa d’oro.
41. Strapuletta: strambotto, canto tradizionale sangiovannese.
Il Potatore
Quello del potatore è un mestiere non ancora tramontato sul nostro
territorio ricco di uliveti e mandorleti, se non i mezzi. Gli attrezzi,
di cui i giovani potatori non si servono più, erano accette di diverso spessore e grandezza e forbici. Oggi invece si usano forbici, cesoie dal lungo manico, motoseghe di varie grandezze per le diverse dimensioni dei tronchi e rami da tagliare. E’ un lavoro importante e
delicato quello del potatore per la salute delle piante tanto che il 24
agosto del 1924 da parte del Comune di San Giovanni Rotondo fu
inoltrata al Consorzio Antifilosserico, con sede in Torremaggiore la
richiesta di una “Scuola d’innesto e campo sperimentale”.
E’ un mestiere meraviglioso quello del potatore. Tra lui e la pianta
si instaura un dialogo intimo e segreto, che solo lui, il vero potatore capisce e sa interpretare. Egli da innamorato della natura osserva
con occhi attenti ed esperti la pianta, muto le gira attorno, la studia
attentamente... ha capito di cosa ha bisogno quella sua creatura, che
forse lui stesso ha piantato e curato perché crescesse sana, rigogliosa
e forte per sostenere la lotta contro la forza violenta delle intemperie
o gli assalti del caldo afoso e arido della bella stagione.
Il potatore salta leggero come un fringuello sull’albero e con mano
forte e decisa, ma nello stesso tempo con delicatezza paterna, assesta
colpi sicuri eliminando rami secchi e rami superflui.
Da maestro taglia tutto ciò che affatica la pianta e fa sì che si senta più leggera e respiri meglio. Da esperto qual’è si accorge subito
quando questo intervento non è sufficiente, che la pianta soffre per
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qualche malanno e ha bisogno di interventi più radicali. Allora sì
che diventa un vero specialista. Dopo un’attenta analisi, toccando,
osservando, studiando a fondo il suo stato di salute decreta la sua
diagnosi e senza perdere tempo interviene ridandogli forza e vigore
Al termine guarda soddisfatto e compiaciuto la sua opera e pensa
che l’albero è il simbolo della vita, di ogni vita, che obbedisce all’eterna legge della natura : i rami vecchi muoiono, i nuovi cresceranno. Gli uomini fanno il lavoro, Dio le stagioni.
Aneddoto
Alberi di ulivo.
Spesso mio padre, abile ed esperto potatore, raccontava che trovandosi
un giorno a chiacchierare con il cugino, don Giuseppino Ricciardi, medico sanitario, incominciarono a discutere in una scherzosa sfida sulla
loro diversa attività lavorativa e sulla loro abilità nell’esercitarla. Naturalmente il medico esaltava la sua nobile arte e le sue capacità professionali: a lui erano affidate vite umane, da lui e dal suo intervento dipendevano la vita e la morte, aveva insomma nelle sue mani il futuro di
un essere umano. “Io sono un dottore come te, esclamò mio padre ad un
certo punto, anzi, per dirla tutta, senza dubbi io sono anche più bravo
di te” “Ah sì? E dove hai studiato? In quale Università?”
“All’Università delle piante” fu la risposta sicura e pronta. Il cugino
scoppiò in una allegra risata. “C’è poco da ridere”, ribadì mio padre.
“Tu, medico degli uomini, interpellato da un malato, cominci a chiedergli: «Cosa ti senti, dove ti fa male, quali sintomi hai...» e il malato
risponde a tutte le tue domande. Poi incominci a toccarlo in varie parti del corpo e gli chiedi: «Qui ti fa male e qui e qui?». Alla fine rifletti su quale “potrebbe” essere il suo male e decidi di cosa “potrebbe” aver
bisogno.
Io invece come medico delle piante, non aspetto che io sia chiamato, me
ne prendo cura spontaneamente, mi avvicino a ciascuna di loro, la osservo attentamente dalla chioma alle radici, la tocco, sempre in silenzio, senza porle alcuna domanda, e alla fine decreto di cosa ha bisogno
ed intervengo deciso, senza alcuna esitazione.
Dunque sono io più bravo, perché a te ha detto tutto il malato, a me la
pianta non ha detto niente.
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Sappi anche che io sono un allevatore e anche con gli animali mi comporto allo stesso modo e su di essi intervengo pure chirurgicamente,
quindi da specialista”.
Tutto finì in una fragorosa risata generale.
Lu Furnare
Il Fornaio
L’attività del fornaio iniziava molto prima del sorgere del sole sia
d’inverno che d’estate. Vi era molto lavoro, ogni giorno bisognava fare almeno due infornate (turni di cottura di pane) e per ognuna tra preparazione del forno e cottura di pizze e pane occorrevano dalle sei alle sette ore. Il pane era il primo indispensabile alimento di nutrizione, le famiglie erano numerose e si panificava in casa.
Basti pensare che nella prima metà del secolo scorso a San Giovanni Rotondo per una popolazione di 15.000 persone vi erano 8 forni (Trancanedde, Leffone, Nzaccaricotta, Macchione, Ruucèdde, Cioccalonga, Scaringe, Lu Rocchie). Vi era persino una strada denominata “La Chiazza de li Furne”, l’attuale Via Placentino a testimonianza
di tale importante attività. Già nel 1885 si attestano 6 forni, di cui
due comunali, il forno Nuovo e il forno Gaffio 42.
Il fornaio verso le tre e mezzo del mattino con il freddo, con il gelo
e con la pioggia, usciva per le strade del paese per avvisare le massaie che era ora di alzarsi e prepararsi per impastare il prezioso alimento. La massaia da parte sua per quel senso di pudore e di efficienza che la contraddistingueva, era già sveglia e pronta. Orologi in casa non ce n’erano, la vita era regolata dal corso del sole e il passag42. Si hanno notizie di istallazione per un forno meccanico per cottura pane nel 1911 da
parte di Siena Giuseppe e nel 1912 della sig.ra Cuozzo Vittoria. Con la delibera della Giunta e del Consiglio Comunale del 6/07/1912, sindaco Lecce, si rese obbligatoria la trasformazione meccanica dei forni nell’arco di tempo tra il 1915 e il 1929 per evitare il rischio di
distruggere le aree boschive.
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gio del fornaio e il toc toc alla porta diventavano anche per i vicini
il segnale che era ora di alzarsi. Le mamme, i contadini, i lavoratori tutti, ancora assonnati si dicevano “Jauzammece, jè passate lu furnare” 43. Finito il giro, il fornaio si recava direttamente al forno dove
attizzava con un’altra manciata di legna il fuoco acceso precedentemente, quindi riordinava il tutto aspettando che giungesse l’ora per
rifare il giro tra le clienti e avvertirle che era ora di “resinare” (scaduto il tempo della lievitazione) e che bisognava mettere la pasta gonfia e calda nelle “ceste di vimini”, “le cistarelle”. Poi di corsa tornava al forno e raccolto il bel fuoco ardente, ne puliva ben bene il fondo con “lu munnele”, uno straccio bagnato e attorcigliato attorno ad
una lunga pertica. Intanto giungeva il garzone con il primo carico
di pagnotte di sette-otto chili ciascuna poggiate su una lunga tavola portata a spalla, seguito dalla massaia recante anch’essa sulla testa
una piccola tavola rettangolare, la “sckanaturèdda”, carica di pizze al
pomodoro e abbondante formaggio pecorino.
Il fornaio con molta delicatezza, anche se velocemente per non far
perdere calore al forno, come se si trattasse di un rito sacro, infornava prima le pizze e poi, dopo la loro cottura, il pane. Faceva molta attenzione a disporre le pagnotte a debita distanza e ben ordinate tra loro. Chiudeva, quindi, la porta del forno dove il bene di Dio
sarebbe rimasto circa tre ore.
Intanto le massaie con le loro pizze dal caldo profumo che faceva
“resuscitare i morti” e sgranare gli occhi ai bimbi, tornavano a casa
in attesa che giungesse l’ora della “sfornatura”.
Era una festa per tutto il vicinato perché la massaia distribuiva prima la pizza e poi il pane caldo e fragrante ai bambini, e alle vicine
“assaggia un po’ di pizza, assaggiate il pane caldo caldo” era il suo
sincero invito. Le vicine a volte accettavano a volte no, ma l’augurio era sempre lo stesso “Sante Martine, fallu cresce!” 44 Per un po’ la
voce dei bimbi taceva. Qualcuna delle vicine, che gustava la buona
pizza esclamava: “Pane e pizza jnte la vrascia, la prejezza de lla casa” 45
e un’altra di rimando “Macare che te ni magne de ficure e cerase, trista
quedda trippa che pane ne ntrasce” 46.
Era l’orgoglio della massaia se il pane era ben lievitato, soffice e morbido, orgoglio del fornaio se era ben cotto, croccante e non deformato e lui faceva di tutto perché questo avvenisse e non solo per evitare le lagnanze delle massaie.
Il profumo del pane appena sfornato si diffondeva per tutto il quartiere, mentre il fornaio caricata sulle spalle la lunga tavola con quattro o cinque pagnotte le consegnava a domicilio.
Allora la mamma per premiare i bambini, come aveva promesso se si
fossero comportati bene, spezzava il cocuzzoletto, la scorcitella fragrante e profumata e dopo averla baciata e fatta baciare dai piccoli,
era grazia di Dio il pane, lo dava da rosicchiare. Anche quando cadeva un pezzettino di pane per terra veniva raccolto e baciato e, dopo avervi soffiato sopra per togliervi eventuale traccia di sporco, si
mangiava. Nemmeno una briciola doveva andare persa di quel prezioso alimento, era “Grazia di Dio” e le briciole piccole si raccoglievano e si davano da mangiare alle galline, che allora ruzzolavano libere per la strada.
Benedette quelle pagnotte che risolvevano il problema della fame!
44. “San Martino, fallo abbondare”.
45. “Pane e pizza (cotta) nella brace, la gioia della casa”.
43. “Alziamoci, è passato il fornaio”.
46. “Magari che ne mangi di fichi e ciliegie, infelice quella pancia, dove pane non entra”.
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La Panificazione
co di pasta di pane perché se ne facesse una pagnotta per i poveri. Nessuno si rifiutava. Il pane era per tutti. Il contadino lo condivideva anche con il cane.
Quando il fornaio dava il via alla panificazione con il suo toc toc, la
massaia senza perdere tempo prendeva il colabrodo e l’acqua calda, vi
scioglieva le patate lessate e schiacciate il giorno precedente, vi mischiava il lievito e la quantità necessaria di sale e impastava la farina china
sulla madia per circa due ore. Concludeva il suo lavoro facendo un segno di croce sulla massa dell’impasto dicendo “cresce, cresce massa, come cresce Giàse Criste jnte li fasce” 48 e si segnava con il santo segno
della croce. Copriva il tutto con un telo bianco e pulito, anche questo
era portato nel corredo della sposa, con una coperta di lana e dei cuscini per facilitare la lievitazione. Da quel momento nessuno più doveva
avvicinarsi alla madia, solo lei di tanto in tanto controllava che l’impasto fosse caldo, non si doveva raffreddare altrimenti la lievitazione si
sarebbe arrestata. All’invito del fornaio di mettere pronte le pagnotte, la
massaia alzava in un angolo la coperta e con un dito premeva la pasta
per accertarsi che la lievitazione fosse avvenuta in maniera perfetta: se
l’impronta del dito scompariva subito era segno che la pasta era pronta
e così si spezzavano grosse quantità d’impasto da 2 a 10 chili e si ponevano nelle apposite ceste, foderate da tovaglioli (salviette) cosparsi di farina, pronte per essere portate al forno.
Si facevano pagnotte così grandi per vari motivi, frutto della saggia
esperienza delle massaie, innanzitutto per chi lavorava in campagna e
non rientrava a casa tutte le sere, ma tornava una volta la settimana
per il rifornimento e per il cambio della biancheria, poi perché la pagnotta grande si conservava meglio e morbida, terzo perché al fornaio si
L’arte del panificare richiedeva abilità e forza delle braccia. Le ragazze venivano avviate alla panificazione fin dalla prima adolescenza; dovevano abituarsi con l’aiuto della mamma a lavorare di polsi e pugni, dovevano con forza e velocità immergerli nella pasta perché questa non si raffreddasse. Panificare, per la classe contadina, era un rito
sacro, che cominciava con la raccolta del grano sull’aia e il suo trasporto al mulino, dove si ricavava della farina bianca e fine. Per panificare occorrevano varie ore. Si iniziava dal pomeriggio del giorno precedente con il lessare le patate, ingrediente facoltativo, che a San Giovanni era molto usato sia per l’abbondanza che per l’ottima qualità delle patate, famose quelle rosse delle Murge, una località della zona montuosa 47. Nella tarda serata la massaia disponeva in un angolo della casa la madia,“fazzatora”, sopra poggiava il buratto “lu cerniture” e su
di esso il setaccio “la setarola” per toglierle ogni forma di impurità. Dopo di che con un mucchietto di farina si impastava “lu cresciante”, la
pasta madre, il lievito naturale, ricavato dalla panificazione precedente e conservato in una ciotola con un filo d’olio, oppure fornito gratuitamente dal fornaio, il quale se lo procurava prelevando un pezzo di
pasta, grande quanto un pugno, da una pagnotta per ogni massaia, per
darlo appunto a chi ne faceva richiesta.
Una volta c’era anche la cristiana e solidale usanza di lasciare un po47. La coltura della patata a San Giovanni Rotondo ebbe inizio, secondo lo storico sangiovannese Cirpoli nel 1798 ad opera di F. Antonio Pizzi. La coltivazione si diffuse moltissimo tanto che ne nacque, anche per la sua ottima qualità, un florido commercio.
48. “Aumenta, aumenta (lievita, lievita) massa, aumenta come Gesù Cristo nelle fasce”.
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pagava per il numero delle pagnotte e quindi una in meno era risparmio per la famiglia. Questo a volte però era motivo di discussione con il
fornaio perché per lui era molto più faticoso portare sulle spalle un peso maggiore, alla fine le gambe non lo reggevano più, ma era anche più
difficile da porle sulla pala di legno nel momento di metterle nel forno,
si rischiava che la pasta debordasse e cadesse per terra.
Ogni massaia per riconoscere le proprie pagnotte le segnava nella pasta
con un simbolo personale quale un pizzicotto, una crocetta o cerchietto
d’impasto, la lettera iniziale del proprio nome o inserendovi una o due
mandorle, che si tostavano e diventavano premio per i figli.
A volte le mamme in occasione di feste particolari come il Natale, la Pasqua creavano delle forme simboliche di pane: bambinello, stella, farfalla e animali vari, di tutte le dimensioni, sempre adornate con mandorle. La stessa cosa si faceva con i dolci.
Attrezzi per la panificazione, da destra: la madia, il buratto, il setaccio.
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Li Miteture
La Metetora
Prima che giungessero sul mercato le mietitrici meccanizzate la
mietitura dei cereali: grano, orzo, frumento... era affidata alle mani dell’uomo, che con sicurezza maneggiava la falce. Il lavoro di raccolta dal taglio delle spighe all’immagazzinazione del prodotto durava tutta l’estate. La configurazione geografica pianeggiante, collinare e montuosa del territorio consentiva ai lavoratori stagionali di
lavorare fino a settembre inoltrato in quanto la maturazione delle
messi avveniva in momenti diversi. Già dal mese di Giugno, quando le spighe stavano imbiondendo, i mietitori scendevano in “Puglia”, nel Tavoliere di Capitanata, per cercare lavoro. In quel lavoro
ponevano molte loro speranze. Giungevano con una bisaccia contenente pane e qualche patata, da bere, acqua attinta direttamente dal
pozzo se un padrone generoso non dava loro un bicchiere di vino.
Tutto il giorno sotto il sole che “spaccava” le pietre tagliavano con
lena e sapiente maneggio le grosse e preziose spighe gonfie di chicchi
duri e maturi. Dopo una giornata di sudore, finalmente si cucinavano una minestra di verdure trovate nei campi o il pancotto, a volte
solo con pane raffermo, una sorsata di acqua o vino e poi, stanchi,
a letto su un sacco pieno di paglia o su una coperta vecchia vicino
“le rutàdde” o “ausèlle”, covoni ammassati ordinatamente a forma di
cerchio o a forma di schiena d’asino, fissando gli occhi nel cielo dal
nero vellutato, trapunto da miriadi di stelle come non se ne vedono
altrove. Quanti pensieri, sogni, ricordi, hanno affollato la mente di
quegli uomini abbrutiti dalla fatica ma dal cuore buono e sincero.
“Cull’aiute di Dì” (Con l’aiuto di Dio). Così incominciava la giornata lavorativa per i raccoglitori di quel dono prezioso di Dio, che avrebbe portato un po’ di sollievo economico ai lavoratori della terra.
I mietitori si muovevano a gruppi di tre o quattro persone che formavano la squadra, la “paranza”, di cui faceva parte un legatore di spighe,
“nu ljànte”, di solito una donna. I mietitori indossavano una “vandera”, grembiule di tela rigida e dura, per evitare che le spighe pungessero
le gambe, alle dita lunghi ditali fatti di legno di canne, “li cannèdde”,
non solo per difendere le dita della mano sinistra dai colpi della falce,
ma anche per sostenere la mano allargata quanto bastava per impugnare con una presa migliore il ciuffo di spighe tagliate,“la mannadda”, che
poggiata sul braccio sinistro coperto da un “manechitte”, manicotto di
pelle d’agnello o di capretto, veniva poi poggiato per terra e raccolto con
gesti veloci dal legatore insieme ad altri sette o otto ciuffi che legati formavano dei covoni (li manocchje). Le gambe erano coperte con sottocosce anch’esse di pelle per frantumare il gambo duro delle spighe.
La squadra era guidata da un capo squadra, “l’antenère”, che tracciava la striscia da seguire nella mietitura (l’ante).
I covoni sparsi per il campo venivano raccolti e ammucchiati a formare
le “rutadde”, le “auselle” ordinate in modo tale che non potesse penetrare l’acqua in caso di pioggia in attesa che fossero trasportate sull’aia per
la “pisatura”, dove sarebbero state disposte in “banchi, mèete” di forma
rettangolare sempre per evitare infiltrazioni d’acqua. I covoni venivano trasportati a fine mietitura con animali da soma, sui quali venivano
I Mietitori
La Mietitura
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poste le “cevère”, specie di gabbie, presso le grandi aie alla periferia del
paese. Le più conosciute erano l’aia di “Ciccamaria”, “a meze lu chiane” a Sud del paese; l’aia “dilla morte” sulla strada per Monte Sant’Angelo, ad Est e quella di “Frajasse” sulla strada per San Marco, ad Ovest.
Quando tutto era pronto si disponevano un po’ per volta i covoni per
terra in forma circolare per la “pisatura” sui quali girava a trotto il cavallo o altro animale con gli zoccoli ferrati per calpestare ben bene le spighe e facilitarne la frantumazione. Un altro animale affiancato al primo aveva il compito di trainare un travicello di legno con un rettangolo di metallo bucherellato, “rattacascja”, che trasportava la paglia accumulata sul piano dove si doveva porre la “mèta”, il pagliaio.
Al centro del cerchio di covoni si poneva la persona, che tenendo gli animali per la cavezza, che tirava e allentava opportunamente per guidarli
nel tragitto da percorrere, li incitava facendo schioccare per aria la frusta “lu scruiate”, corda con la punta di cuoio, mentre elevava al cielo
il suo canto. Di tanto in tanto un altro contadino con il forcone rivoltava dall’esterno verso il centro la massa delle spighe frantumate perché
il cavallo continuasse a pestarle e i chicchi uscissero tutti. Il lavoro non
finiva qui. Quando la paglia era ben frantumata e i chicchi tutti fuoriusciti si raccoglieva il tutto in mucchi e si cominciava, con l’aiuto del
vento favorevole a “vuntuluià”, prima con un forcone di legno a quattro
corna si facilitava così la separazione dei chicchi dalla paglia più grossa, poi con una pala anch’essa di legno per eliminare la paglia più sottile. Ma il cereale non era ancora ben pulito per cui si allestiva “lu cascature”, un trespolo di legno dalla cui cima pendeva una fune a cui era
legato un grosso recipiente di stagno bucherellato, il crivello, “lu farnare”. Agitandolo in moto rotatorio si faceva sì che i chicchi cadessero su
un telone. A questo punto il lavoro veniva affidato alle donne perché bisognava liberare i chicchi da ogni impurità prima di riporli o portarli
al mulino. Esse, con l’aiuto “dellu farnaro” più piccolo “pe cernà” e la
forza della loro pazienza, dividevano i chicchi migliori, sani e belli dalla scaglia. Solo quando era ben pulito il grano veniva posto nei sacchi e
portato a conservare: parte per essere venduto, se il raccolto era stato abbondante, parte da portare al mulino per farne farina per tutto l’anno.
Tutto questo è finito nel 1924 con l’avvento delle macchine: mietitrice
e trebbiatrice, che facilitano e velocizzano il lavoro alleviando la fatica
dell’uomo e dando migliori risultati in qualità.
“[...]
Je sonne giugne cape mititore
E mo me l’aja fa’ ‘na gran mituta :
se la truvasse qua ’na donna vecchia,
la suttecasse culla mia serrècchja
[...]”
(da filastrocca dei mesi)
Io sono giugno capo mietitore
E adesso me la devo fare una gran mietuta:
se la trovassi qui una donna vecchia
la inseguirei con la mia falce dentata.
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La Macinatura
ambito da molti, infatti nel 1929 risulta dagli atti che venne denunciato alle Autorità Comunali l’apertura di due mulini abusivi e che nel
1930 Siena Vittoria chiedeva di istallare un mulino in contrada “Montagna”, ottenendo la licenza in quanto la zona ne era priva. Nel 1931
i mugnai inviavano al Prefetto un’istanza con cui, lamentando la grave crisi di lavoro per i mulini integrali dovuta all’importazione di farine provenienti dai grandi mulini della Provincia e per i troppi mulini
presenti sul territorio (n.5) proponevano di stabilire dei turni di lavoro; ogni giorno avrebbero dovuto lavorare due mulini e gli altri rimanere fermi. Nel 1932 venivano concesse altre due licenze a Fini Nicola e Nardella Pietro.
Il locale doveva essere ampio per contenere macchinari, attrezzi, depositi di sacchi di grano e di farina. Il mulino era composto da una grossa
piattaforma orizzontale fissa, su questa girava veloce una ruota di pietra, realizzata con pietra focaia. Dalla tramoggia scendeva il grano che
veniva triturato e macinato secondo la richiesta del cliente. Aveva 4 separatoi per la produzione differenziata di semolino, farina bianca, cruschello e crusca. Per ottenere ciò vi era un regolatore, che influiva sulla ruota dalla cui posizione dipendeva la qualità della farina, a coprire
piattaforma e ruota vi era un cassone di legno e sopra la tramoggia (trimonnia), vaso di tre moggi 50 senza fondo, di forma quadrangolare a
piramide, in legno, nella cui bocca si versava il grano che scendeva nella
macina. La farina finiva in una specie di mestolo triangolare che girando la raffreddava (per l’effetto della ruota posta sulla piattaforma usciva calda).Tra la piattaforma e la ruota c’era una paletta con la funzione di raccogliere la farina che fuoriusciva dai loro lati forniti di scanalature. La percentuale del prodotto ottenuto era dell’80% di farina e il
La Molitura
Il mulino nella nostra tradizione agli inizi era un rudimentale e piccolo congegno di pietra, che quasi tutte le famiglie avevano in casa (questo
mezzo tornò in auge nel periodo fascista quando per necessità di approviggionamento dell’esercito Benito Mussolini ordinò la “perquisizione”
del grano. Per tanto ogni famiglia nascondendo una parte del raccolto
necessario per il proprio sostentamento in luoghi impensabili, di notte e
in piccole quantità lo macinava. Famoso divenne il detto tra i paesani
“Vede ch’a ffatte Musuline, ogne famigghia nu muline” 49). In seguito nacque per iniziativa di privati il mestiere di mugnaio. Nel 1887 i
soci della Società Cattolica Operaia Artistca di Mutuo Soccorso deliberarono l’impianto di un mulino a vapore che passò poi a Matteo Siena,
in seguito si ebbe quello a nafta che con il sopraggiungere dell’elettricità fu sostituito da quello elettrico. All’inizio del ‘900 San Giovanni Rotondo contava ben 5 mulini ed erano classificati in tre categorie: mulini automatici che ottenevano farine con lo sfruttamento dell’intero chicco di grano; mulini semiautomatici la cui macinazione veniva ripetuta
cioè i prodotti dovevano essere ripassati; i mulini a macinazione di frumento a resa integrale e macinazione di altri cereali. A San Giovanni
Rotondo nel 1928 il Prefetto rilasciava la licenza definitiva a Leggieri
Maria, Massa Costanzo, Siena Giulio, che possedeva un mulino a motore a testa funzionante a nafta e a Cuozzi, risultavano affittuari Vinelli Michele e Cassano. Era un lavoro quello del mugnaio redditizio e
49. “Vedi che ha fatto Mussolini, ogni famiglia un mulino”.
50. Unità di misura per solidi.
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20% di crusca per il grano duro, per il tenero il 75% e il 25%. In tempo di guerra o di carestia si macinava anche il granoturco, farina adatta per la polenta e un’ottima pizza gustosa, e l’orzo, la cui farina si mescolava con quella del grano.
Il mestiere di mugnaio, sempre infarinato e con il fazzoletto legato al
collo, richiedeva energia, esperienza, padronanza dell’arte, ognuno aveva i suoi segreti. Doveva essere anche un bravo artigiano per far fronte
alle emergenze, alla pulizia e alla manutenzione.51
Anche il mulino aveva una funzione sociale.
L’Estrazione dell’Olio delle Olive
51. Durante il regime fascista si sosteneva un mercato granario italiano, per cui si decretò
con il R.D.L. 10 giugno 1931 n.723 e con il D.M. 13 giugno U.S. l’obbligo per i mugnai
di macinare il 95% di grano nazionale. Per questo programma politico nel 1929 si istituì la
cerimonia della benedizione delle sementi per sostenere la “Battaglia del grano” ed era stato
istituito anche un Concorso Nazionale del grano e dell’Azienda Agricola.
Se i nostri avi definivano le olive “campedde d’oro”, i Fenici le denominavano “oro liquido” per le sue tante qualità alimentari e mediche. Ma quanta fatica costava e costa quel dono prezioso di Atena,
quell’olio stillato goccia a goccia da quei piccoli frutti pendenti dai ramoscelli! Quanta delicatezza nel raccoglierle a mano quasi ad una ad
una,usando le scale per giungere ai rami più alti, con intorno alle pendici dell’albero grandi teloni stesi in modo che le olive non venissero a
contatto con il terreno e badando bene che non fossero schiacciate nel
trasportarle, nel deporle nei recipienti giusti e nella molitura che doveva avvenire possibilmente nel giro di 24 ore! Da tutto ciò dipendeva e
dipende la qualità dell’olio. L’arte della produzione olearia è una delle
arti più antiche ma anche delle più immutabili. Si compone di tre fasi più una:
1) Raccolto-trasporto-accumulo;
2) Macinatura-spremitura;
3) Separazione olio-morchia;
4) Conservazione.
La estrazione dell’olio ancora oggi vede intorno a sé una “ciurma” solo al maschile organizzata secondo le regole di un lavoro che non poteva
essere interrotto, doveva essere svolto ad orario continuato e necessariamente con turni di lavoro anche notturni, per tanto gli operai dovevano risiedere in loco per lunghi periodi. Tra essi vi era “lu negghiare”52
52. Colui che governa la nave e dalla cui abilità e destrezza dipende il destino dell’equipaggio, così per il prodotto oleario.
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(il nocchiero), il più esperto degli operai e fungeva da capo; “lu sottenegghiare”, sostituto e collaboratore di “lu negghiare”; “li trappetari”,
che svolgevano le normali attività lavorative e spesso vi era anche “lu
turlecchie”, un ragazzino che aiutava i grandi nelle attività collaterali.
La Puglia che è la regione più olivica e che dall’ulivo trae da millenni
benessere e ricchezza, ha visto fin dal ‘500 sorgere sul suo territorio centinaia di trappeti-frantoi per l’estrazione dell’olio e che pur assumendo
forme differenti in epoche e luoghi diversi, gli attrezzi sono sempre gli
stessi, sono cambiati solo i modi del loro utilizzo grazie alla tecnologia:
1) La base, in muratura con la parte superiore concava;
2) La mola, simile alla mola granaria, costituita da 2 pietre cilindriche
una fissa (bacino), l’altra mobile (verticale);
3) Il torchio;
4) I filtri (fiscoli).
I frantoi più antichi sono gli Ipogei scavati nella roccia o presenti nelle
grotte e anfratti naturali dove la temperatura invernale é molto più elevata di quella esterna e questo favoriva la lavorazione delle olive, per le
quali occorre una temperatura costante fra i 16 e i 20 gradi per far “riscaldare le olive” e quindi far fluire l’olio più facilmente e più abbondante (convinzione oggi ritenuta inesatta) dalle olive macinate e torchiate e favorire la separazione dell’olio dalla morchia. Per questo motivo nello stesso ambiente trovava posto un grande camino sempre acceso, che serviva anche per cucinare; di buon mattino, infatti, la massaia preparava un appetitoso piatto di pancotto, di tagliolini e fagioli...
per gli operai e durante il giorno si abbrustoliva il pane più volte per assaggiare la bontà dell’olio fresco di molitura e assaporarne il gusto e il
profumo. La scelta dell’ipogeo oltre al risparmio economico era dovuta
anche ad un motivo tecnico, era più agevole, infatti, scavare nel terreno che costruire in alto. Un soffitto di struttura in alto non avrebbe po-
tuto reggere la pressione esercitata dai torchi durante la spremitura, che
invece venivano incastrati tra la base della grotta e la volta di grande
spessore roccioso. Nel Salento, nel Tarantino e nel Brindisino sono presenti un buon numero di questi frantoi. Nella provincia di Foggia, invece, non ne sono emersi perché non viene ancora effettuata una ricerca investigativa nè da parte degli archeologi, nè da parte degli speleologi, ciò non vuol dire che non ce ne siano, visto la struttura geologica del
Gargano, che pur essendo di roccia calcarea dura e compatta, è ricca di
anfratti e grotte. Semi ipogeo era, a San Giovanni Rotondo, il trappeto
della famiglia Colacelli che sorgeva a ridosso della montagna nella zona
delle Matine; ipogeo era nella stessa zona il trappeto della famiglia Crisetti. A San Giovanni Rotondo, nel centro storico, vi erano, all’inizio
del ‘900, tre frantoi: il frantoio di Vincenzo Maresca in Via Sant’Orsola, di Antonietta Palumbo in Via Cocle e di Pirro in Via San Nicola.
Gli ipogei cominciarono a decadere tra la fine dell’800 e l’inizio del
’900 per le nuove leggi emanate:
1) Per avere livelli qualitativi migliori in rapporto ai nuovi mercati offerenti, bisognava introdurre nuove attrezzature che richiedevano più
spazio;
2) Per motivi igienici, dovevano avere luogo extra moenia e nelle campagne più vicine agli uliveti, nei pressi di grotte e cavità naturali idonei o presso le masserie. E’ in questo periodo che anche sul territorio di
San Giovanni sorgono vari frantoi extra moenia, nei pressi dell’abitato:
il frantoio di “Marcantonio”, Matteo Lecce, sito prima in un sottano di
Via Piave e poi in Via Foggia, di “Palumme”, Antonietta Palumbo in
Via Foggia (trasferito da Via Cocle); nelle zone delle Matine, che ne risulta la più ricca, delle Costarelle, Capone, Granara, Miscilli e presso
le grandi masserie. L’estrazione avveniva a pressione: il mosto dell’olio
veniva separato dalle sanse attraverso una filtrazione per effetto di una
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pressione. Fino ai primi anni dell’800 in tutto il regno di Napoli veniva usato il torchio alla calabrese, sostituito poi da quello alla genovese
che dava risultati migliori in qualità e quantità.
Le olive, giunte al frantoio, venivano pulite di foglie, rametti e terriccio, lavate e portate alla molitura, che avveniva tramite una macina di
pietra che non riscalda, detta frantoio. Era costituita da una vasca circolare, contenente una o più ruote di pietra, che venivano fatte girare
da animali bendati mediante la stanga, un’asta di legno, la cui estremità era collegata ai finimenti dell’animale sottoposto alla mola, attorno
ad un’ asse di legno mobile imperniato al centro della macina e in una
trave orizzontale incastrata nel soffitto. Le ruote poggiavano su una base di pietra concentrica alla conca, di dimensioni più piccole dove con
una pala il trappetaro poneva le olive per la frantumazione. Avvenuta
la frantumazione la pasta ottenuta veniva posta in una “madia”, vasca con i bordi rialzati e con al centro un cilindro forato per reggere i
filtri, di qui la pasta veniva spalmata nei fiscoli (filtri), a forma di canestro per il torchio alla calabrese, a forma di dischi per quello genovese. I fiscoli erano un doppio disco filtrante saldato ai margini e forati al
centro, realizzati in fibra di canapa o di giunchi per la prima spremuta, avveniva tra i torchi. I fiscoli, sovrapposti e intercalati a dischi semimpermeabili, formavano una pila che veniva posta nel cilindro forato per la pressatura. La pressa era a trave: una estremità era incastrata nel muro, l’altra veniva tirata giù a mano con corde e pesi e la parte
centrale pressava la pasta. Quindi l’olio passava in un serbatoio di pietra e veniva cimato con una paletta rotonda un po’ concava, in seguito
veniva trasportato con i secchi in altre vasche di pietra. I fiscoli venivano sottoposti ad una seconda pressatura su altri torchi. A volte era necessaria l’aggiunta di acqua calda per ulteriore spoglio dell’olio e si aveva,
quindi, la terza pressatura. L’olio veniva lasciato nelle vasche per un po’
a decantare, per una chiarificazione spontanea e infine,separato dalla
acqua, conservato in vasche di pietra o in contenitori evolutosi nel tempo: pitali di terracotta senza il collo superiore, zinchi realizzati con lamiere zincate, contenitori d’acciaio.
Un lavoro, questo della molitura, sicuramente oneroso perché tutto veniva svolto a mano. Oggi la tecnologia facilita il lavoro dell’uomo e abbrevia di molto i tempi di lavorazione.
A lavorarvi erano i contadini e molto probabilmente i marinai a riposo durante l’inverno, questo spiegherebbe la terminologia marinaresca
usata: ciurma, negghiere... L’olio fuoriuscito spontaneamente dalla pasta frantumata e depositata nella madia era detto “pesolo”, olio vergine
di alta qualità, quello che invece sarebbe fuoriuscito dalla prima spremitura era l’”olio vergine”.
La parte legnosa e frantumata del nocciolo, detta sansa, veniva venduta
agli stabilimenti per ricavarne olio di sansa e, secca, ai fornai per essere
bruciata e così alimentare i forni per la cottura del pane e altro, oppure
usata per la concimazione degli stessi uliveti.
Anche la morchia allungata con l’acqua serviva da fertilizzante della
terra; bollita produceva sapone e olio per lucerne. Se non veniva utilizzata veniva dispersa in inghiottitoi carsici, capiventi, o in pozzi neri disperdenti, posti nei frantoi stessi.
Intorno ai frantoi si era sviluppato un vasto indotto, necessitavano, infatti: maestranze di muratori, carpentieri, mastri d’ascia, scalpellini,
cestai, stagnini, funai, boscaioli, fabbri e carrettieri.
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Li Spiculatrice
Ancora oggi nella nostra tradizione è conosciuta e cantata la famosa “Filumena adonna vai”.
La spigola non era limitata solo al frumento, ma veniva praticata
per le olive, per le quali tutti si muovevano, bambini, donne, giovani, vecchi, era un prodotto troppo prezioso ed indispensabile, per le
mandorle, i legumi, per tutti i prodotti, insomma, che la terra offriva e che si potevano conservare.
Le Spigolatrici
Nel mondo agro-pastorale non un ruolo marginale aveva la donna,
a cui come si è visto era affidata l’educazione dei figli, l’economia e
la gestione della casa e non solo. Molti erano i lavori che in casa essa svolgeva. Ma era soprattutto un’ottima ed indefessa collaboratrice dell’uomo nei lavori della campagna, dove si occupava dell’orto,
degli animali da cortile e della vendita dei loro prodotti. Tra le famiglie meno abbienti le donne andavano a giornata nei lavori dei campi per estirpare le erbacce dai seminati, per zappettare... o per la raccolta di olive, mandorle, pomodori, ortaggi... Emblematica era la figura della spigolatrice. Per la spigolatura si formava una vera e propria comitiva di ragazze, compravano un asino e andavano nei campi falciati dopo aver chiesto il permesso al padrone o al massaro di
raccogliere le fruttuose spighe che erano sfuggite alle mani dei mietitori. Quasi tutti i contadini e gli agricoltori davano il permesso e se
qualcuno non lo concedeva era perché possedeva un piccolo gregge
e quelle spighe sfuggite alla falce sarebbero state un ottimo alimento nutritivo per le pecore.
Le spigolatrici sotto il sole cocente non perdevano la gioia di vivere e la spontanea e naturale gaiezza della loro età, e cantando, scherzando e ridendo raccoglievano le spighe che avrebbero poi battuto
con una grossa mazza di legno e finalmente portare al mulino i chicchi ricavati.
Tanti i componimenti poetici, le canzoni e i racconti nati intorno
alle spigolatrici, alle “mondine” del Sud.
“[…] pane
belle, pane d’oro
int’ li spine t’aje scuvate,
cu sudore t’aje pigghiate,
cu lu sole a fatià […]”
(G. Scarale, Sciure de roccia) 53
Vaso contenitore di liquidi.
53. Pane bello, pane d’oro // tra le spine ti ho scovato /, con sudore ti ho preso / ,con il sole a lavorare.
Rosa Di Maggio. Le Radici della mia Infanzia
Capitolo VI. Arti e Mestieri
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La Lavannara
na di casa, li disponeva ben piegati in un cesto, pronti per stenderli
se era una bella giornata, altrimenti si aspettava che apparisse il sole.
La stesura dei panni per l’asciugatura avveniva o vicino casa lungo la
strada o alla periferia del proprio quartiere, che non era molto lontana, in aperta campagna alla “costa”, a “meze lu chiane”. Si stendeva una grossa corda legandola ai chiodi conficcati nel muro delle case o da un albero all’altro e reggendola con forconi di legno. I panni venivano fermati alla corda con mollette di legno, che a volte si
prestavano tra vicini di casa perché non se ne possedevano a sufficienza e in balia del sole e del vento si asciugavano sventolando come bandiere bianche.
Il lavoro della lavandaia non finiva con la lavatura dei panni, anche
l’asciugatura era un suo compito ed era quasi un rito. Stesi i panni
la lavandaia di mestiere o la massaia si sedeva su una seggiola con
un lavoro tra le mani, rattoppo, lavoro a maglia, all’uncinetto..., a
guardia a chè il suo capolavoro non subisse alcun “incidente”. Guai
se i bambini si avvicinavano troppo mentre giocavano, li allontanava subito con apparenti sguardi severi, minacciandoli con la ciabatta. Di tanto in tanto si alzava per controllare l’asciugatura e per dare
con le mani una stiratina alle grinze o rivoltarli verso il sole per una
migliore asciugatura. Come profumavano quei panni bianchissimi!
Man mano che si asciugavano, appena umidi, li toglieva dalla corda
e seduta li stendeva sulle gambe, li piegava e in una carezza li lisciava
con le mani in modo che rimanessero ben stirati senza l’uso del ferro
da stiro, che allora era a carbone con dei fori laterali per il passaggio
dell’aria affinché il fuoco fosse ravvivato ininterrottamente. Fare la
lavandaia era per molte un mestiere. Erano donne che facevano “li
panni a pèzze” per aiutare l’economia della famiglia. Venivano chiamate ogni settimana dalle famiglie benestanti e il lavoro veniva re-
La Lavandaia
Che bella invenzione la lavatrice! Quanta fatica e tempo risparmiati! E’ il più utile di tutti gli elettrodomestici.
Per fare il bucato le nostre nonne impiegavano tre giorni e tanta
energia e forza delle braccia. Certo i panni erano molto più sporchi di quanto lo siano oggi. Polvere, terra e sudore impastavano le
povere carni dei contadini. Bisognava mettere a mollo i panni per
una notte intera, la mattina, dopo una rapida stropicciata per eliminare il grosso dello sporco venivano insaponati e posti in una grossa tinozza con acqua fredda fino al pomeriggio quando, riscaldata
l’acqua con lisciva e versatela sui panni, la lavandaia pezzo per pezzo con tutta la sua forza cominciava a strofinarli sul “lavaturo”, asse
di legno scanalato; batteva con tanta energia che grosse gocce d’acqua si spandevano tutto intorno. Scompariva ogni traccia di sporco. Era tanta la fatica, ma la lavandaia accompagnava il lavoro con
il canto, che si diffondeva per tutta la strada. A volte quando si trattava del bucato grosso, qualche vicina offriva il suo aiuto e sostituiva per un po’ di tempo la massaia. Completato il lavaggio con acqua e sapone, si disponevano a strati i panni nella tinozza bagnando
ogni strato con lisciva bollente e profumata. Infine si copriva il mastello con un panno perché il vapore caldo non si disperdesse e li lasciavano a riposo per tutta la notte. La mattina dopo si ripassavano
ancora una volta e poi si risciacquano più volte finché ogni traccia
di sapone non fosse scomparsa e l’acqua risultasse chiara. Quindi la
lavandaia strizzava i panni, se erano grandi con l’aiuto di una vici-
Rosa Di Maggio. Le Radici della mia Infanzia
Capitolo VI. Arti e Mestieri
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tribuito parte in denaro e parte con un piatto di pasta e un bicchiere di vino. Non raramente la padrona di casa generosa dava il prezzo pattuito per intero e nello stesso tempo non rifiutava un piatto di
minestra calda e un bicchiere di vino, anzi la sera dava qualcosa da
mangiare da portare a casa ai suoi bambini.
C’erano però, come sempre, anche quelle che sfruttavano la condizione d’indigenza della donna. Spesso, infatti, si pattuiva una certa quantità di panni da lavare e poi si tiravano fuori a poco a poco
calze, pantaloni da lavoro, stracci... E la poverina subiva in silenzio.
Aveva bisogno di quel lavoro.
Aneddoto
“[...]
Stendevano panni al sole i nostri avi,
tra muro e muro; le vie a selce
erano decoro di gente umile,
lieta di essere povera.
Animate quasi alveari le strade
da vorticosi bimbi. Pirgiano borgo
era segno, fronde, radici
d’una storia che è mia
[...]”
(M. Totta, Pietre di fuoco)
Una volta le suocere non sempre erano dolci con le nuore. Il più delle
volte erano invadenti e profittatrici. Non si lasciavano sfuggire occasioni per approfittarsi di loro. Pretendevano aiuto, anche se ancora in ottima salute, nel fare il pane, nel pulire la casa... e spesso la giovane nuora le doveva lavare anche i panni.
Si racconta che una nuora, che mal si adattava a questa situazione,
ogni volta che lavava i panni della suocera veniva presa dalla rabbia e
dal rancore. Per cui quando lavava la biancheria del marito la batteva con delicatezza sul mastello al ritmo di “bene bene a te e bene bene a me”. Quando invece aveva tra le mani la biancheria della suocera con rabbia a ritmo veloce e a colpi forti batteva dicendo tra sé “male male a te, bene bene a me”. Naturalmente la biancheria della suocera risultava sempre più bianca della propria. La suocera da parte sua
era ben contenta dei risultati, ma la giovane nuora non riusciva a capire il perché di quei risultati. Un giorno si confidò con una vicina di casa e questa scoppiando in una allegra risata le spigò che proprio dal suo
atteggiamento di rabbia derivava l’esito positivo.
Quel giorno la giovane capì non solo che una lavandaia gli ottimi risultati li ottiene con l’energica forza dei polsi, ma anche che dal male non deriva sempre male e che anche dalle cattive intenzioni può derivare il bene.
Capitolo VI. Arti e Mestieri
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Lu Uannetore
Il Banditore
Vasi contenitori di liquidi.
Con l’struzione di massa, la scomparsa dell’analfabetismo, la diffusione dei mezzi di comunicazione è stato “messo al bando” il banditore civico. Era una delle figure più pittoresche che una volta animava e vivacizzava i nostri paesi.
Egli iniziava il suo giro per strade, vicoli e scaforchi di solito nel tardo pomeriggio quando quasi tutti erano in casa, si annunciava con
il rullo del tamburo o il suono di una trombetta. Allora era un accorrere di mambini e un affrettarsi di donne che si affacciavano sulla porta o si avvicinavano per apprendere meglio le notizie. Da parte
sua il banditore aspettava qualche minuto perché si riunisse più gente, quindi iniziando con il solito “Udite! Udite!” e il rullo del tamburo, annunciava prima i bandi commissionati dalle Autorità, poi
quelli dei privati cittadini, intercalando le notizie con un rullo o il
suono della trombetta.
Il banditore, il più delle volte, era un dipendente comunale che svolgeva diverse mansioni. Questo lavoro richiedeva genialità, forza inventiva e agilità fisica. Egli, infatti, doveva avere gambe buone e
molto fiato per percorrere strade, vicoli e scaforchi non sempre facilmente percorribili, e voce alta e sonora per gli annunci. Decantare le merci, attirare l’attenzione degli ascoltatori, interessarli agli annunci era frutto di grande inventiva: doveva saper modulare il tono
di voce, accompagnarsi con cantilene musicali, inventare spot, saper
scegliere i luoghi giusti dove fermarsi per far sì che la voce si propagasse meglio e con meno sforzo delle corde vocali.
Rosa Di Maggio. Le Radici della mia Infanzia
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Quello del banditore era un lavoro molto importante perché essendo la popolazione analfabeta gli annunci, le notizie dovevano essere
proclamate a voce; il popolo doveva essere informato su quello che
erano le leggi da rispettare: bandi pubblici, ordinanze, decreti, scadenze ed adempimenti: apertura delle scuole, vaccinazioni, inizio e
termine ultimo per l’utilizzo dei pascoli di uso civico ecc... Propagandava le attività commerciali. Fungeva da pubblicitario, da promotore di iniziative, ma anche da ricercatore di oggetti e animali smarriti, era a lui che ricorreva una mamma quando si smarriva
un bimbo. Regolava, insomma, la vita civica della comunità. Tutto nel vivace linguaggio dei padri, il dialetto. Il banditore era un
personaggio che veniva ascoltato da tutti. Il suo arrivo era salutato
dai bambini con grida gioiose, ma il loro vociare veniva subito zittito dalle mamme, che volevano capire bene gli annunci. Il banditore veniva accompagnato di strada in strada a passi di danza, saltelli e battitio di mani da un numero sempre più crescente di bambini incantati dal ritmo del tamburo. Il banditore, quindi, è stato il
precursore delle moderne forme di pubblicità, a poco costo. Oggi le
aziende italiane in iniziative pubblicitarie attraverso quotidiani, riviste, TV, radio, promozioni, sponsorizzazioni, internet investono ingenti somme di denaro. La pubblicità è stata e rimane l’anima del
commercio, ma la pubblicità moderna è un’anima senza vita perché le strade non risuonano più del rullio del tamburo, dello squillo della tromba, della voce poderosa di Michele Savino (soprannominato Palla palla), di Antonio Impagliatelli (Cistaredde), che vivacizzavano la vita del paese. Ma nella nostra mente risuona ancora il
grido “Sintite, sintite! Si vulite lu vine bbone iate alla cantina de...” 54
54. “Udite, Udite! Se volete il vino buono andate alla cantina di...”
Capitolo VII
Le Arti
Femminili
Capitolo VII. Le Arti Femminili
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La Majastra de Cosce
La Sarta
Di sarte in paese ce n’erano tante. Non certo tutte brave e stimate,
vi erano anche le ciabattine, che “acciabattavano” i capi.
Le più brave avevano sempre al loro seguito uno stuolo di apprendiste, “le dèscipule” che volevano imparare il mestiere. Le richieste di
far parte del gruppo erano sempre molte e per tanto le ragazze venivano ben selezionate dalla maestra di cucito, che richiedeva sicura voglia di apprendere, capacità e serietà per cui stabiliva anche un
periodo di prova. Le mamme da parte loro volevano che le figliole
fossero guidate da una persona seria ed autorevole, che potesse insegnare alle giovani allieve non solo l’arte del cucire, ma anche il bon
ton non privo di principi sani.
Le ragazze sedute in cerchio sulla mezza-sedia, che ciascuna si era
portata da casa, senza mai venire soffocata la loro naturale vivacità, trascorrevano alacremente lunghe ore attente al lavoro. Si cuciva, si chiacchierava, si raccontavano storie, aneddoti e fatti accaduti,
si cantava, si scherzava e si rideva senza mai trascurare il lavoro, “la
vocca adda parlà, ma le mani anna fateià” 55 ammoniva la maestra di
cucito. Le allieve da parte loro erano sempre attente ad ogni insegnamento ricordando l’ammonimento delle mamme “Te raccumanne, l’occhie adda jasse marreiole, l’arte la da arrubbà cu l’occhjera” 56.
La sarta, che spiegava e faceva apprendere il mestiere, non trascura55. “La bocca deve parlare, ma le mani devono lavorare”.
56. “Ti raccomando, l’occhio deve essere ladro, il mestiere lo devi rubare con gli occhi”.
Rosa Di Maggio. Le Radici della mia Infanzia
Capitolo VII. Le Arti Femminili
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va di educarle alle buone maniere, frutto di intelligenza e di pazienza, perché esse erano a contatto con persone civili, con persone garbate e non cafone e maleducate. Non trascurava neppure di parlare
del vero senso della vita, dei valori e delle cose veramente importanti nell’esistenza di ciascuno. Non voleva pettegolezzi né bronci né
musi lunghi tra le sue allieve, voleva che il gruppo fosse affiatato e
compatto, in perfetta armonia. Su questo non transigeva e non esitava a mandare a casa l’elemento di disturbo all’interno del gruppo.
L’apprendimento, naturalmente, avveniva per gradi. Il primo approccio era quello di “menà li nterlante e nchjemè”, cioè imbastire i vari pezzi dell’indumento con punti lunghi e lenti. In apparenza un lavoro facile, ma non lo era. Bisognava perfettamente seguire
i tratti di gesso segnati dalla maestra nel momento del taglio del capo e non erano poche le volte in cui, sottoposto il lavoro alla sua attenzione, dovevano scucire tutto perché non perfettamente eseguito. Si passava poi per gradi man mano che si acquisivano competenze, a lavori sempre più impegnativi ma sempre sotto lo sguardo vigile della “signora” maestra, che stando seduta di fronte o accanto vigilava sul procedere, pronta ad intervenire, sgridare o correggere. I
momenti più belli erano quelli prossimi alle feste: il lavoro era tanto e le consegne dovevano arrivare puntuali. Le ore solite di lavoro
erano insufficienti. Bisognava lavorare fino a sera tardi o addirittura
per una parte della notte. Allora si cenava tutti insieme. La padrona
di casa, di solito la mamma della sarta, affettava il pane, portava in
tavola olive salate, formaggio, pomodori, quello che era disponibile
in casa e tra l’allegria generale si consumava tutto. Sul tardi, quando la stanchezza prendeva il sopravvento e gli occhi appesantiti dal
sonno si chiudevano sul lavoro, le ragazze venivano accompagnate
alle proprie case oppure veniva qualcuno della famiglia a prelevarle,
nessuna si allontanava senza permesso della maestra.
Nella bella stagione le ragazze con la maestra sedevano fuori all’aperto a lavorare all’ombra e allora si vedevano passare i giovanotti,
che avevano adocchiato qualcuna di loro e tentavano approcci. La
maestra raccomandava serietà e comportamento corretto. Se qualcuno diventava troppo invadente o non le piaceva il suo modo di fare e di comportarsi o distraeva le ragazze, la vigile maestra metteva
fine a quel ronzio di “mosconi” che giravano intorno alle “sue” ragazze facendole rientrare in casa.
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Capitolo VII. Le Arti Femminili
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Haje sapute che tanta sai cuscire
Te l’a’misse li discipule a mparaje
Ce vurria venì pure jie
la seggiulèlla me vorrei arrecare
l’ache lu file e lu dejetale.
Vurria che l’ache mia non cuscesse maje
se cosce l’ache mia fa dammaje.
Gioia de sora non te la diche na buscia
iè mègghje a stà nzurate
nen ce sta chjù ‘n vacantìa.
Ho saputo che tanto sai cucire
ti sei messa ad insegnare alle discepole
ci vorrei venire pure io
la seggiola mi vorrei portare
l’ago il filo e il ditale
Vorrei che l’ago mio non cucisse mai
se cuce l’ago mio fa danno
gioia di sorella non te la dico una bugia
è meglio essere sposato
e non essere più scapolo.
La Cupurtara e la Matarassara
La Copertaia e la Materassaia
La nascita di un figlio maschio era sempre salutata con grande gioia ed orgoglio e perché avrebbe perpetuato nel cognome la stirpe e
perché le sue sarebbero state braccia lavorative, che avrebbero contribuito all’economia della casa.
La nascita di una bimba invece, per quanto portasse gioia, destava
preoccupazione ed era salutata quasi con atteggiamento rassegnato. Era una “cambiale”, un debito, che un giorno si sarebbe dovuto pagare.
Alla luce di questa filosofia la mamma fin dalla tenera età della bambina si preoccupava di preparare un po’ alla volta, come l’economia
della casa consentiva, il corredo, che quanto più era consistente tanto più era garanzia per un futuro e migliore matrimonio. Dal numero delle lenzuola, delle coperte, delle federe… era detto: corredo
a quattro, a cinque, a dieci, a dodici. Il corredo era ritenuto così importante che a volte se mancava anche un solo fazzolettino al numero stabilito, si rischiava che il matrimonio non si facesse...
Nel corredo, che la sposa portava in dote, non poteva mancare la coperta “‘mmuttita”, imbottita. Era un capo assolutamente indispensabile perché sarebbe servita per tutto l’inverno, che a San Giovanni,
sferzato dal vento gelido del Nord, era lungo e freddo e le case non
erano dotate di riscaldamento se non di un camino o di un braciere
posto al centro della casa.
Le mamme, previdenti e risparmiatrici, provvedevano per tempo a
comprare le “pezze” di broccato lucido di due colori diversi. Le con-
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Capitolo VII. Le Arti Femminili
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servavano nella cassapanca bene avvolte in un telo bianco in modo
che quando fosse giunto il momento opportuno fosse portato alla
copertaia con un quantitativo di lana o di cotone per l’imbottitura e
avere così una coperta calda, soffice e duratura. Sarebbe dovuta durare per tutta la vita.
Poco prima del matrimonio la copertaia e le sue allieve stendevano
sul pavimento una “pezza” del broccato e sopra vi poggiavano l’imbottitura. La quantità poteva variare secondo le possibilità economiche della famiglia. Poi ponevano sopra l’altra “pezza” di broccato di colore diverso, imbastivano, cucivano e trapuntavano eseguendo disegni geometrici o floreali. Tutt’intorno la coperta veniva rifinita con un cordoncino di un colore, che si armonizzava con quelli della coperta stessa.
Capolavori di artigianato erano quelle coperte così care alle nostre
nonne e vanto delle tante copertaie, che gareggiavano per essere le
migliori in perfezione, bellezza e fantasia di ricami. Ne facevano un
punto di onore.
Non diverso era il lavoro della materassaia. Con la stessa passione,
lo stesso amore per le cose belle e perfette, confezionava i materassi (una volta era il saccone). Con pazienza certosina intesseva a mano, lungo i bordi, asole a punti regolari, fitti ed uguali, così tanti e
perfetti da sembrare una corona del rosario. Veniva poi rifinito tutto con strette borditure o sottilissimi orlini.
Qualche settimana prima del matrimonio, la materassaia si recava,
per l’imbottitura a casa della sposa. L’imbottitura del materasso era
un’occasione di festa e di allegria tutta al femminile. La materassaia con l’aiuto di alcune allieve stendeva per terra su un lenzuolo le
fodere del materasso e sotto gli occhi attenti della suocera, delle vicine di casa, delle amiche della sposa vi poneva sopra la lana bian-
ca e soffice, vi infilava qualche immaginetta di un santo protettore
con il buon auspicio di una vita serena, quindi abbottonava intorno la ghirlanda dei bottoni. Ed era a questo punto che faceva la sua
apparizione la mamma della sposa portando una grossa “vandièra”,
un grande vassoio ricolmo di dolci preparati in casa: propati e mostaccioli con frutti di mandorle e bicchierini traboccanti di rosolio.
Si brindava così alla famiglia nascente.
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La Ricamatrice e la Merlettaia
tande ricamate” erano solite dire le mamme.58
Quanta pazienza occorreva alla ricamatrice! Quante ore china sul telaio ad intessere trine, ghirlande e disegni vari frutto della sua fantasia! Quanto tempo impiegava per creare quei capolavori d’arte, unici, mai uguali tra loro, a punti semplici e difficili e retine complicate!
Lo strumento di lavoro era un telaietto rotondo di legno, due cerchi
concentrici, del diametro di 30 cm circa in cui si incastrava il tessuto dallo spessore variabile, di diverse misure per il ricamo a mano. Il
ricamo, infatti, si realizzava anche a macchina, ma era ritenuto meno pregevole. Oltre all’intaglio, diffusissimo, i punti più diffusi erano: punto rodi, croce e norvegese. Con il ricamo il lavoro non era
terminato. C’era da rifinire gli orli con “il punto a giorno”, che poteva essere semplice, doppio, intessuto, largo, stretto, gigliuzzo... o
con pizzi e merletti, tanti per grandezza, disegni e finezze. Quindi,
non di minore pregio era l’arte della merlettaia.
La merlettaia sedeva tutto il giorno dietro i vetri della porta d’ingresso del sottano o della finestra fino all’imbrunire. Indossava un
grembiulone bianco, affinché i fili di cotone e di seta non si sporcassero, con l’uncinetto tra le mani, veloce percorreva giri e giri dando vita a pizzi, merletti, smerli ed intarsi. Le mamme le portavano
la biancheria, a volte prima che la ragazza si fidanzasse ufficialmente. C’era sempre tanta biancheria da rifinire e da creare, quali coperte, copriletto, tovaglie... Le coperte di cotone, di mussola o di broccato opaco erano sempre arricchite da grosse frange o da larghe fasce di merletti, belle da lasciare stupiti. Mai una fascia, una frangia
o altro era uguale ad un’altra, la fantasia della merlettaia doveva es-
I giovani fidanzati per mettere su famiglia venivano aiutati dalle rispettive famiglie con la “dote”.
Questa se per lo sposo consisteva innanzitutto negli attrezzi di lavoro, arricchita come meglio la famiglia poteva permettersi, per la
sposa, come detto prima, indispensabile era il “corredo”, che variava
per qualità e quantità. Se la quantità era il più delle volte un incentivo per il matrimonio, la qualità era segno distintivo del ceto sociale, ma nessuna ragazza voleva rinunciare ad un corredo bello, adornato di ricami, merletti e pizzi.
Per le più povere almeno il completo del “primo letto” doveva essere bello e raffinato. Proprio per questo l’arte del ricamo era ritenuta
nobile e ricercata, molte erano le ragazze, che fin da bambine venivano affidate alla ricamatrice, il più delle volte si preferivano le suore
rinomate esperte in tale arte, perché almeno potessero prepararsi il
corredo da sé. Per questo lavoro occorreva intelligenza, perizia, fantasia e gusto del bello e occorrevano anni per apprendere bene l’arte.
Nel nostro paese pur essendovi molte famiglie povere vi erano ottime e famose ricamatrici. Tutte le mamme volevano per le proprie figlie un corredo ben fatto, che doveva durare sì tutta la vita, ma che
doveva essere bello anche a vedersi e perciò si faceva di tutto, si risparmiava “pure l’acqua”, che allora non si pagava, per avere dei capi ricamati “Pure che maja vènne li capidde de ncape” 57, ma mia figlia deve avere coperte, lenzuola, federe, asciugamani, sottane e mu57. “Anche se devo vendermi i capelli della testa”.
58. L’Italia deve considerarsi il centro europeo di diffusione dell’arte greca del ricamo, incrementata a Palermo intorno al Mille.
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sere fervida nell’inventare disegni geometrici e floreali, putti e madonne. Non mancavano scene di vita campestre, che a volte si sviluppavano in una forma narrativa: dai copri-cuscini al copriletto, al
gira-letto era un susseguirsi di scene narranti una bella favola di cavalieri e dame, animali e natura idillica.
Fortuna per lei che non tutti le realizzazioni erano così complicate!
L’Esposizione del Corredo
Così tanta bellezza e perfezione trovava il suo momento di gloria quando la ragazza era prossima alle nozze. Allora sì che la mamma apriva
con orgoglio quello scrigno prezioso quale era la “cascia” e con delicatezza e studiata lentezza tirava fuori quei piccoli e grandi capolavori, sciorinandoli ad uno ad uno sul letto sotto gli occhi dei suoceri, della madrina della sposa e dello sguardo attonito del marito, che in cuor suo si
chiedeva come avesse fatto la sua sposa a compiere quel miracolo; li mostrava descrivendoli minuziosamente ed invitando tutti a guardare da
vicino per ammirare i particolari, la perfezione e la finezza del lavoro.
Il tutto poi veniva esposto in casa per due o tre giorni ben spiegato e appoggiato a seggiole, tavoli, letto o su corde tese da una parete all’altra,
perché tutti i parenti degli sposi, gli amici, gli amici degli amici potessero ammirare la finezza del corredo, la raffinatezza dei ricami e delle rifiniture.
In un angolo la “buffettola”, coperta da una tovaglia bianca e sempre
imbandita con un vassoio ricolmo di “propati” squisiti e profumati di
cannella, con la bottiglia di rosolio prodotto in casa e i bicchierini, invitava perché tutti potessero bere alla salute degli sposi.
Se qualche parente o vicina di casa o comara non si presentava, veniva
invitata e sollecitata più volte. L’orgoglio di quella mamma, ape operaia e nello stesso tempo formichina instancabile e previdente, non poteva essere deluso dall’assenza di qualcuno. Era il segno tangibile della
sua parsimoniosa tenacia nell’accumulare in tanti anni quella ricchez-
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za. Dimostrava così che “a cicere a cicere ci aienghje la pignata”. Tutto
il corredo poi veniva posto in grosse ceste e a bella vista trasportato nella
nuova casa degli sposi tra gli applausi e gli auguri di quelli, che si affacciavano sulla porta, che in verità erano tutti, non per curiosità, ma per
condividerne la gioia e la festa, o di quelli che si fermavano a guardare
la lunga fila delle donne e dei ragazzini, che come in processione, allegri
e vocianti sfilavano anche con tutti i regali, che gli sposi avevano ricevuto dagli invitati. Piatti, bicchieri, posate, pentole, sedie, asciuga-panni, braciere... nei giorni seguenti sarebbero stati sistemati ordinatamente nella nuova casa, il letto sarebbe stato rivestito con lenzuola e coperta
del “primo letto” e di nuovo tutti i parenti e amici, conoscenti e non conoscenti sarebbero stati invitati a “vedere” la nuova casa .
La Mammana
E’ incredibile come gli oggetti possano narrare le vicende umane,
spiegare le necessità di chi li ha voluti, le esigenze di chi li ha costruiti e dimostrato l’abilità, il senso creativo, il gusto artistico. Gli oggetti sono custodi e protagonisti vivi di una cultura, di un periodo
storico e quindi documenti da leggere con attenzione, come ci insegna la Storia, per ricostruire l’identità di un popolo di cui si sono
perse le tracce.
E l’artigiano è il “creatore” di ciò che è unico.
La Levatrice, l’Ostetrica
Prima che a San Giovanni ci fosse un ospedale attrezzato, come in
tutti i paesi del Gargano e non solo, si partoriva in casa con l’aiuto
della “mammana” e di qualche vicina di casa coraggiosa. Le levatrici
erano tenute in grande considerazione e stima.
Donna “Matalana” (Maddalena) e donna Maria avevano visto nascere tanti bambini a San Giovanni Rotondo. Lavoravano di notte
e di giorno perché tanti i bambini che venivano al mondo e di ostetriche ce n’erano solo due. Le famiglie erano tutte numerose, avevano in media da 6 a 10 figli ciascuna. Quando la partoriente avvertiva le doglie, intanto che qualcuno andava a chiamare la levatrice,
non c’erano telefoni, la suocera, la mamma, la vicina di casa accorrevano in suo aiuto. Era noto il detto “lassa foche ardente e aiuta la
partoriente” 59.
La levatrice appena giungeva impartiva ordini precisi come un generale. Bisognava preparare e tenere pronti acqua calda, panni e pannolini in gran quantità. Ella, invece, non si muoveva dal capezzale e
guidava la partoriente nel respirare in modo corretto, nel gestire bene le forze, nel non disperdere energie inutilmente in lamenti e agitazione e non si allontanava da lei fino a quando non veniva alla luce il pargoletto.
Lavato e profumato, la “mammana” presentava da baciare il bambino ai presenti e poi lo poneva tra le braccia della mamma sorridente,
59. “Lascia fuoco ardente e aiuta la partoriente”.
Rosa Di Maggio. Le Radici della mia Infanzia
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già dimentica della sofferenza del parto, quindi la invitava ad attaccare il bimbo al seno perché succhiasse il latte, cosa a volte non facile
da insegnare anche se così naturale. In seguito, almeno per una settimana, più volte al giorno, faceva il giro delle sue pazienti per controllare il bambino e la mamma. I primi giorni era lei che lavava e
cambiava il neonato e insegnava così alla giovane mamma come fare, facendole vincere la paura della sua inesperienza, e le insegnava
le norme igieniche da adottare per sé e per il piccolo.
Era sempre lei che portava il bambino al fonte battesimale e imponeva il nome, che era sempre quello di uno dei nonni: il primo figlio prendeva il nome di uno dei nonni paterni, il secondo di quelli materni; era sempre lei che dopo il rito, giunta a casa, si affacciava
sulla porta e lanciava a piccoli e grandi, che si radunavano, confetti
e pezzi di “propati”. Si concludeva così il rapporto contrattuale stabilito tra il Comune e la levatrice al momento dell’assunzione come
“levatrice condotta”. Ogni famiglia aveva la sua levatrice alla quale
rimaneva fedele per tutti i parti, diventava una persona di famiglia
con cui si stabiliva un rapporto di fiducia e di confidenza. A lei ricorrevano per consigli in tante situazioni. Era una persona istruita e
sapeva tante cose. Tutti la trattavano con rispetto e insegnavano anche ai loro figli a portare rispetto per la “mammana” che li aveva fatti venire al mondo sani e forti.
Infanzia
Ti cerco nelle mani rugose e stanche
di mio padre
negli occhi liquidi e lucidi
di mia madre
O dolce mia infanzia!
E ti rivedo felice
correre per spazi infiniti
coi miei occhi di fanciulla
immersa in silenzi profondi
tra le greggi belanti
erranti per pascoli erbosi
punteggiati di sogni, di canti
innocenti.
Ti rincorro tra le note
elevate al cielo
nelle distese
del mare verde
degli ulivi eterni
E tu eterna,
o dolce mia infanzia!
mi ritorni frizzante
nelle corse di una bambina
su verdi prati
e rossi papaveri
ruzzolante e saltellante
agnello or ora fuori dallo stallo
Ti cerco e ti risento
nelle grida gioiose di giochi spensierati
e nei richiami di mia madre
ancora giovane e vigorosa
tra vicine che van parlando
del tempo che fu... e che
“non ritorna più”!
Ti ascolto,
o mia gioiosa fanciullezza!
nel richiamo del gelataio di piazza
nella voce degli ambulanti
nei rullii del tamburo
del banditore
che irrompe nel chiacchierio delle fanciulle
nelle voci stridule dei bimbi
e li zittisce…
mentre le ruote di un carretto
gracchiano sulle “chianche” sconnesse
della strada
Ti rivedo
nei sorrisi sognanti
dei miei compagni
nell’attesa del domani
o mia odorosa infanzia!
Volti sfumati e pur vividi
affollano la mia mente…
ed è dolce balsamo
Ti risento
nel lamento degli agnelli
alzarsi dagli stazzi,
nel belato delle greggi
rispondere al richiamo
nell’ansiosa attesa dell’incontro
nell’abbraccio dei dorati raggi
del sole di ponente
E ti scorgo…
in religioso silenzio accovacciata
perduta nell’inconsapevole mistero
del gratuito dono d’amore
ti ritrovo nell’abbraccio
dello sguardo sorridente
di mia madre
della mano forte
di mio padre
protesa in una carezza
nell’innocenza di teneri virgulti… che
sospesi i garruli trastulli
sorridono sfiorando
la mia mano esile e rugosa
O dolce mia infanzia!... in loro ti riconosco.
Capitolo VIII
Rosa Di Maggio
Architettura Rurale
del Gargano
Capitolo VIII. Architettura Rurale del Gargano
199
Nella foto in alto: ovile. Nella foto in basso: pagliaro. Foto di A. Cappucci
Se guardiamo il Gargano dall’alto davanti ai nostri occhi appare uno
spettacolo di straordinaria bellezza: un paesaggio naturalistico vario
e diverso. Alle montagne ritte e ripide si alternano montagne erose
dalla pioggia, dal vento e dal gelo con profonde gole, doline e voragini, protendendosi verso il cielo o cadendo a strapiombo sul mare,
colline che si inseguono verso il piano in pendii dolci, che vanno ad
adagiarsi sui prati verdeggianti e pascoli rigogliosi. Il tutto puntellato da stazzi, recinzioni, casupole, ovili e pagljai di varie forme e dimensioni costruiti con la tecnica a secco.
Sul Gargano perciò, come in altri luoghi, “vive” un’architettura rurale dovuta in parte alla natura, in parte all’opera dell’uomo e si presenta molto interessante per conoscere e capire in che rapporto vivevano i nostri avi con il territorio. E’ un documento storico che va
“letto” con molta attenzione.
Tante sono le grotte esistenti e a volte sorprendenti per le loro caratteristiche e ampiezze tali da presentarsi come piccoli appartamenti con più vani comunicanti attraverso archi naturali o pertugi, che
all’improvviso ed inaspettatamente immettono in ambienti ampi e
luminosi grazie al filtrare dei raggi del sole. Tutte sfruttate dall’uomo come rifugio per sé e per gli animali.
Il Gargano, come detto precedentemente, è un promontorio roccioso con una rigogliosa vegetazione e alberi maestosi per oltre 30.000
ettari, ma adatti solo a pascoli e quindi all’attività della pastorizia.
L’uomo con l’impegno ha fatto di “necessità virtù”. Quella dura pietra che era di inciampo e di ostacolo alla sua sopravvivenza, divenne fonte di vitale risorsa e contribuì a dare un nuovo volto all’am-
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Capitolo VIII. Architettura Rurale del Gargano
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biente. Per necessità nacque il mestiere di “macerale”, il professionista della lavorazione della pietra e del suo utilizzo.
I contadini una volta si spostavano dal paese con i muli fino alla
montagna per coltivare le “funnate”, piccoli spiazzi pianeggianti dove per trarre di che vivere si doveva cercare la terra tra le pietre, che
infestavano il terreno, disossandolo. Allora l’uomo raccolse le pietre
sparse, grandi e piccole, scavò quelle affioranti dal terreno o quelle
che emergevano durante le zappature e il rastrellamento.
Cosa fare di tante pietre, dove portarle? Ancora una volta l’uomo
usò il buon senso e l’acutezza del suo “cervello fino”. Le accumulò a forma di cono, “macerilli”, ai margini del campicello, convinto che un giorno sarebbero servite. E, infatti, questa ricchezza naturale diede vita ad un’arte vera e propria, quella rurale, e al mestiere di “macerale”.
La transumanza delle greggi ai pascoli, la presenza stagionale dei pastori e la lunga permanenza dei contadini sui monti, indusse a costruire dei ripari con la tecnica dei muri a secco, che non richiedeva
né calce né cemento, ma solo abilità e maestria nell’incastrare perfettamente le pietre tra di loro. Le pietre furono poi utilizzate per
tanti altri usi: dal segnare i confini e delimitare piccole parti del terreno, ai muri di contenimento, ai terrazzamenti dei terreni scoscesi, che poi venivano sfruttati per coltivazioni di vigneti, cereali, ortaggi... ai “pagghiari”, ai pozzi per la raccolta di acque piovane. L’intervento dell’uomo certamente non modificò l’ambiente, non soffocò la natura con cemento e calce. Grazie all’utilizzo della pietra il
Gargano, oggi, si presenta ricco di una grande varietà di costruzioni
di pietre a secco fatte a regola d’arte, tale da meritare il nome di “architettura rurale”, patrimonio storico importantissimo. La pietra e
la fatica sorretti dall’acutezza dell’ingegno dell’uomo garganico e dal
suo buon senso furono e sono le protagoniste di questa realtà “viva”,
che resiste ancora alla violenza della natura e che oggi grazie al Parco Nazionale del Gargano è protetta e salvaguardata. Le pietre usate erano quelle raccolte e ammucchiate in “macerilli”, quelle che la
montagna offriva in abbondanza.
A San Giovanni si sono avute più cave di pietra bianca striata di rosso molto ricercata, ma per l’utilizzo locale rimanevano gli scarti perché quelle grandi e piatte e i grossi macigni venivano portati via per
la lavorazione industriale e costruzioni importanti.60
Pagliaro rotondo con contrafforti.
60. Il primo contratto di affitto stipulato dal Comune risale al 1856 per la cava di pietre
sita in contrada Coppe e per la durata di 5 anni al prezzo di ducati 17,50 pagabili in due
momenti: metà maggio - metà dicembre.
Rosa Di Maggio. Le Radici della mia Infanzia
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Muro a Secco
Per costruire un muro a secco occorreva intelligenza, esperienza e arte. Nacquero così i maestri di quest’arte, i “macerali”, non mancavano però anche pastori e contadini, che sapevano usare le pietre con
abilità e maestria. Non vi erano botteghe dove apprendere il mestiere, i più sono stati autodidatti, naturalmente i più geniali ed attenti
sono diventati veri professionisti. Molto rinomato era Michele Martino, che aveva amato da sempre la pietra. Egli raccontava che l’arte
del “macerale” si apprendeva per necessità, per dover riparare un muro a secco caduto, per dover aprire un guado in una macera o una
porticina in un “pagghjaro” e poi per la voglia di apprendere un’arte così semplice in apparenza, ma così resistente da sfidare lo scorrere del tempo e le sue manifestazioni atmosferiche, tutto con l’utilizzo della materia prima, di cui la natura era così generosa. Ci si perfezionava anche osservando con attenzione la fattura dei lavori già
esistenti e ancora in buone condizioni, il resto lo faceva l’intelligenza e l’esperienza. Fino alla fine della seconda guerra mondiale non vi
era ancora l’uso del cemento e del ferro, quindi erano le pietre ben
lavorate e ben incastrate tra loro che davano vita alle case, alle cinte
murarie, alle torri di avvistamento e di difesa.
Naturalmente non tutte le pietre andavano bene, quindi bisognava lavorarle rompendole, appiattendole o solo smussandole. La prima abilità il “macerale” la dimostrava nella scelta della pietra giusta
tra le tante diverse per grandezza e forma. Dopo aver scavato le fondamenta per 30-40 centimetri di profondità perché sostenessero la
macera contro il fluire dell’acqua, alla base poneva le pietre più gros-
Nella foto in alto: muro a secco. Nella foto in basso: casupola per il pastore.
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se fino ad una altezza a cui poteva arrivare con la forza delle braccia,
poi, a scalare, pietre sempre più piccole. Il muro a secco per la difesa del terreno, non si doveva costruire a “piombo”, ma doveva avere una pendenza del 5% verso l’interno, cioè si doveva formare una
“scarpata” su cui scaricare il peso, altrimenti la macera non avrebbe
resistito alle piogge torrenziali: il terreno sarebbe “sgranato” e il muro caduto, scivolando giù. Per una macera di 3-4 metri di altezza bisognava scavare una fondamenta di 80-100 centimetri di larghezza, dalla quale dipendeva anche la durata del muro. Gli spazi vuoti lasciati dagli incastri delle pietre grosse venivano riempiti con le
“zavorre”, pietre piccole, e mai con la terra, perché l’acqua l’avrebbe
trascinata giù e la macera sarebbe “slavata” e caduta. Raggiunta l’altezza voluta, con uno spago ben teso “si tirava la linea” e lo spazio
intercorrente tra l’ultimo strato di pietre e il filo di spago veniva riempito di pietre. A lavoro terminato si appoggiavano sopra lastre di
pietre piatte, una a fianco all’altra perfettamente combacianti, perché non potesse penetrare l’acqua.
Nella foto in alto: ovile all’aperto. Nella foto in basso: casupola.
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Terrazza
Aia
L’accentuata montuosità del Gargano non dà spazio a molta terra
pianeggiante da poter coltivare, per cui l’uomo con il suo spiccato
senso pratico ha inventato, là dove c’era un po’ di terra da sfruttare,
le “terrazze” per “addolcire” le scoscese pendenze. Per costruirne una
bisognava prima costruire una “macera” di contenimento e quindi
allontanando il terreno e scavando ancora inserirvi un altro muro
a secco formando così un’intercapedine, ambedue i muri dovevano
avere un’ inclinazione verso l’interno e non dovevano superare l’altezza di due o due metri e mezzo. Si partiva con il porre le “pietre a
vista” su ambedue le facce e poi si riempiva il vuoto creatosi con pietre di forma e dimensioni diverse disponendole in modo ordinato.
Quindi si creava la terrazza rastrellando e pianeggiando il terreno,
se ne occorreva altro,veniva trasportato da altri posti. Di preferenza
le terrazze erano esposte a Sud, alla “sulagna” dove il sole batteva dal
suo sorgere fino a quasi il tramonto e questo consentiva di produrre
frutti migliori rispetto a quelli delle zone esposte “allu murìteche”, a
Nord, dove il sole giungeva solo al tramonto.
L’uomo con i terrazzi ha strappato alla montagna parte del paesaggio naturale modificandolo e creandone di nuovi e nello stesso tempo producendo per sé di che vivere.
Si terrazzavano, per impedire che il terreno scivolasse, anche le doline, grandi spazi infossati e molto fertili perché in esse si raccoglievano acqua e neve fino a primavera inoltrata. Le terrazze intorno alle doline sono uno spettacolo di perfezione architettonica e tali da
formare anfiteatri naturali.
Il contadino, che sfruttava i terrazzamenti e le doline per trarre il
proprio sostentamento coltivando anche il frumento, aveva bisogno
di uno spazio abbastanza ampio per “pesare” 61 con gli animali il raccolto. Non fornendolo la natura, costruì lo spazio necessario, anche
se non era cosa facile, creando l’aia, “mezzana”. Dopo aver studiato attentamente lo spazio di cui poteva disporre, alzava un muretto
a secco con grosse pietre nella parte più bassa e scoscesa in modo da
creare una piattaforma pianeggiante, l’avvallamento veniva poi riempito; il muretto, come sempre, doveva avere la scarpa per scaricare il peso. Costruita la base, sulla piattaforma veniva creato il vespaio con pietre e terra ben pressata. Questo procedimento risultava
molto faticoso per l’utilizzo in quanto prima di ogni uso occorreva
pressare la terra di nuovo bagnandola e battendola con un’asta di legno perché gli zoccoli degli animali lasciavano dei buchi. Meno difficoltose erano invece quelle costruite con solo pietre bene assestate.
Tali piattaforme venivano utilizzate anche per costruirvi sopra “pagliai” e ovili.
61. Frantumare con gli zoccoli di un animale il frumento e i cereali vari.
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Pagliaio
nata bene la roccia, venivano costruiti due muri un po’ distanti tra
loro e il vuoto che si creava veniva riempito, come al solito con pietrisco e piccole pietre creando un “vespaio” di 50 per 50 cm. Si proseguiva con le pietre grosse strettamente e perfettamente incastrate
tra di loro, con una leggera “scarpata” verso l’esterno, i buchi, che si
formavano venivano riempiti di “pulci”, che si facevano ben aderire
battendole con una pietra più grossa, usata a modo di martella. Su
di esso si costruiva il muro a secco a forma piramidale con una leggera, ma costante inclinazione verso l’interno, si procedeva girando
intorno. Raggiunta l’altezza voluta, si iniziava la copertura, che poteva essere a cupola o a piramide. Ambedue si restringevano man
mano che si saliva. Per la copertura a cupola al primo giro venivano
poste sul muro delle pietre piatte, per due terzi verso l’esterno e per
10 centimetri verso l’interno, così iniziava a formarsi la cupola. La
parte alta era detta “resèca”, che consentiva di camminarci sopra intorno al pagliaro. Al secondo giro le pietre venivano poste “a catena” cioè incatenate tra di loro. Si procedeva così fino all’apertura di
50 centimetri, che veniva coperta con una pietra piatta mobile leggermente inclinata per far scivolare l’acqua. Alcuni pagliari hanno
doppia copertura: sulla pietra di copertura veniva aggiunto del pietrisco e si chiudeva con un muro a secco. Quella a piramide si chiudeva all’altezza desiderata, sempre con una apertura di non più di 50
centimetri; l’apertura serviva da canna fumaria ecco perché la pietra di copertura doveva essere mobile. A volte il lato su cui si apriva
la porta era di forma quadrata. La porta per avere e dare più stabilità alla costruzione veniva realizzata con due lunghe pietre appoggiate agli “squarci” a formare gli stipiti, in mancanza di una pietra
sufficientemente lunga se ne potevano usare due a catena o ad incastro, ma su di esse bisognava porne una lunga per sostenere le due
Vicino gli stazzi c’era il riparo per i pastori detto “pagliaro”, era anche la tipica dimora dei contadini.
Il pagliaro era fatto di pietre se si trovava in un luogo pietroso, altrimenti veniva costruito con rami doppi e rami più sottili. La grandezza standard dei pagliari in pietra era di 3-4 metri, ma ve n’erano
tanti anche di più piccoli, di preferenza di forma rotonda perché più
resistenti. Esternamente potevano prendere la forma quadrata o potevano essere circondati da contrafforti alla base, per dare più stabilità alle costruzioni; quelli quadrati o rettangolari erano ritenuti un
lusso: fatti ad opera d’arte i pagliari potevano sfidare il tempo e durare secoli. Essi venivano costruiti a ridosso di un muro a secco o
sulla roccia. Le fondamenta erano larghe mt. 1,20-1,30 dipendeva
dalla qualità del materiale usato e dall’altezza che si voleva raggiungere e variavano a seconda dell’uso che se ne doveva fare. Comunque bisognava scavare fino alla roccia o allo strato duro della crosta.
Le fondamenta venivano poi riempite di piccole pietre per creare il
“vespaio”, alto fino al livello del terreno o oltre, che aveva funzione
di intercapedine, per evitare l’umidità del terreno stesso. Ai quattro
angoli, a 60-70 centimetri dal piano delle fondamenta, si creavano
4 pilastrini collegati tra di loro da archetti. Al centro di questi, per
chiuderli, veniva posta una “chiave”: una grossa pietra che dava anche forza alla costruzione. Quindi le fondamenta venivano coperte
dalla terra in modo tale che risultassero sotterrati. Se il pagliaro sorgeva sulla roccia non aveva fondamenta; tracciato intorno alla roccia
con rami di rovo un cerchio largo fino a 3-3 metri e mezzo e spia-
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più corte. Quindi si costruiva l’arco di pietra o di legno duro (cerro), si formava così l’architrave con un’unica lunga pietra o con due
più corte poste a forma di piramide. Il vuoto che si formava poteva dare luce e aria all’interno e se veniva chiuso era utilizzato come
mensola d’appoggio per la “cùcuma” piena d’acqua da tenere al fresco; ai lati della porta si lasciavano delle sporgenze di pietra per appendere bisacce ed indumenti.
C’erano dei pagliari che avevano una scala esterna per salire sul “tetto” dove se c’era dello spazio si metteva ad asciugare della roba. La
scala nasceva contemporaneamente al pagliaro ponendo a debita distanza pietre più lunghe, che sporgendo formavano i gradini, oppure la si poteva creare con una struttura esterna a ridosso della costruzione. In questo caso la scaletta aveva anche l’appoggia mano,
“l’appuiatòra”. Le scalette venivano inserite anche nei terrazzi e nei
muretti di recinto.
Si trovano anche dei pagliari con “canalette” con la funzione di grondaia per raccogliere l’acqua piovana, che veniva raccolta nelle cisterne costruite poco distanti attraverso dei solchi fatti di pietre e coperti da lastre di pietre, “le chjanchette”. Le “canalette” erano realizzate
con delle tegole, “li pinci”, rovesciate, poste lungo l’ultimo strato di
pietre prima dell’inizio della volta.
L’interno dei pagliari era sufficientemente largo. Le pareti interne,
infatti, a differenza di quelle esterne, che avevano la scarpata per scaricare il peso, erano costruite a piombo creando così più spazio e il
muro, che alla base era largo 80 centimetri, si restringeva, mano
mano che si alzava, a 50-40 centimetri e anche ciò consentiva più
spazio all’interno. Le fessure poiché non si usava l’intonaco venivano chiuse con la “pozzolana”. Come arredo vi erano delle sporgenze
di pietra e delle finestrelle “cieche” utilizzate come mensole, vi pote-
vano essere anche “delli appenneture”, i cavicchi. In un angolo veniva creato il “piano cottura” costituito da due pietre distanti tra loro
20-30 centimetri dove si accendeva il fuoco per preparare da mangiare o fare il formaggio poggiandovi sopra la caldaia o semplicemente per riscaldarsi. Per consentire la fuoriuscita del fumo si utilizzava l’apertura posta sulla volta e coperta con una pietra mobile
come è stato già detto o veniva costruito un vero e proprio camino
con una coppa quadrata e una canna fumaria, che si otteneva contemporaneamente alla costruzione del pagliaro, ponendo le pietre a
“squarcio”.
Ad una parete era appoggiato il pagliericcio, “la lèttera”, che veniva protetto dal vento gelido della bora da una pelle di pecora con la
parte lanosa rivolta verso il letto.
Quando due pagliari erano distanti e necessitava averne uno più
grande si collocavano i due preesistenti con un corridoio fatto di
muri a secco. Talvolta invece i pagljari nascevano a gruppi, comunicanti tra loro con piccole porte e i diversi ambienti adibiti a vari usi.
Non mancano quelli che si presentano come veri “fortini”.
I pagljari, di cui il territorio di San Giovanni è ricchissimo, sono simili tra loro, ma mai uguali per dimensioni e forme: rettangolari,
quadrati, rotondi, sparsi o raggruppati, con ambiente unico o a più
vani. Tutto dipendeva dall’uso e dalle zone in cui sorgevano. Di pagljari ce ne sono tanti perché erano indispensabili per la vita che si
conduceva. Si risiedeva a lungo nelle campagne per coltivare la terra, non si poteva tornare in paese con il mulo o l’asino per tratturi impervi per poi tornare di buon mattino ripercorrendo le lunghe
distanze e i pastori vivevano con le greggi e non potevano certo lasciarle incustodite.
Molti luoghi hanno preso il loro nome proprio per questa ricca pre-
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senza di costruzioni in pietra, come la “posta” nella zona di “Lu Macerone”. I pastori, i contadini, i boscaioli erano degli ottimi conoscitori della natura, con la quale vivevano in simbiosi e spesso nella
loro solitudine si trovavano a confidarsi con lei, a parlare di ciò che
da essa si aspettavano e come un’amica la pregavano, la supplicavano, si arrabbiavano,imprecavano. Ne conoscevano perfettamente il
linguaggio non solo attraverso i fenomeni atmosferici, nei cambiamenti ambientali, negli atteggiamenti comportamentali degli animali, ma anche attraverso le risorse che essa offriva, i suggerimenti e
i messaggi che dava. Per cui per la costruzione dei pagljari, degli ovili, delle piscine essi interrogavano e studiavano la natura e sceglievano il luogo adatto: un’altura, un terreno roccioso, la roccia affiorante, la “sulagna”. Ed è per questo che l’architettura rurale resiste da secoli, nessun muretto a secco o ovile o pagljaro è mai caduto a causa
di fenomeni naturali, ma solo per mano dell’uomo. Erano costruiti
ad opera d’arte. Che fossero degli artisti lo testimonia non solo l’architettura rurale, ma anche i tanti oggetti in pietra, legno, selce o altro nati dalla loro fantasia e genialità ma ispirati dall’osservare, leggere e capire la natura. Conoscevano il fischio e il canto di tanti uccelli di cui i nostri boschi sono ricchi: merli, cardellini, passerotti...
li sapevano imitare ed anche catturare costruendo “tagliole” e “archetti”. Conoscevano tutte le erbe commestibili, che utilizzavano
molto per il loro cibo quotidiano. Erano soliti dire nella loro genuina saggezza: “La natura è madre. Non ti lascia mai morire di fame e
di sete. Diventa matrigna per mano dell’uomo”.
Cisterna
Naturalmente dove c’erano le greggi e le mandrie non potevano
mancare le riserve d’acqua, cisterne o piscine, per uso domestico e
per abbeverare gli animali, di forma rotonda o rettangolare, a cielo
aperto o coperte per diminuirne l’evaporazione. A volte vicino “lu
jacce”, l’ovile”, venivano costruite prima le cisterne che i ripari. Le
zone più ambite dai pastori transumanti erano proprie quelle che
disponevano di grosse piscine e ve n’erano di famose in tutto il territorio: la piscina della “Principessa”, di Ricci, di Savino...
Le piscine per uso domestico sorgevano vicino l’abitazione o poco distante, sull’aia, erano di piccole dimensioni e di forma rotonda con un “bocca pozzo” recintato con un muretto a secco. Vicino
i pozzi vi erano “le pile”, gli abbeveratoi, anch’essi diversi per forma
e grandezza ottenuti da grosse pietre scavate con maestria, lisce o
martellate. Quelle piccole, poste vicino il pozzo sull’aia a volte avevano la forma di un mortaio con due o quattro “orecchie”, manici
per la presa, di piccole dimensioni; vere opere d’arte. Gli abbeveratoi grandi per le greggi erano poste vicino le grosse piscine di forma
rettangolare sollevate da terra perché gli animali potessero abbeverarsi più facilmente.
Le cisterne venivano costruite sempre con la stessa tecnica dei muri a secco e poiché non c’era il cemento per far sì che l’acqua non si
disperdesse si usava la “pozzolana” che aveva gli stessi effetti del moderno cemento. Là dove vi erano luoghi per natura costituiti di pozzolana e roccia si scavava direttamente il pozzo; là dove, invece, non
c’era questa risorsa naturale, la si prelevava altrove e il pozzo si co-
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struiva mescolando pozzolana e pietre.
Dopo aver scavato un fosso della lunghezza e della profondità che si
voleva, si rivestiva la base con le “chianche”, lastre di lisce, ben levigate dagli agenti atmosferici. Si portava a livello con una pendenza
verso un angolo realizzando una specie di catino per raccogliere le
scorie e le impurità dell’acqua. Si costruivano poi i muri perimetrali con pietre e pozzolana, che risultava utile anche per chiudere piccole fessure che eventualmente si formavano. La forma era quella di
una pignatta: larga alla base, che poi si ristringeva un poco per tornare ad allargarsi fino a formare la cupola. Al centro veniva lasciato
il boccapozzo, che veniva recintato fino ad 80 centimetri.
Delle grosse piscine per abbeverare gli animali quelle a cielo aperto
venivano recintate con il muro a secco, quelle coperte potevano avere la volta a botte o a cupola se rotonde, in base alla loro grandezza potevano avere tre o quattro bocca pozzo. Le cisterne ancora oggi sono un capolavoro di architettura rurale, degli autentici monumenti, frutto dell’ingegno della civiltà agro-pastorale che conosceva
bene il territorio e i comportamenti della natura.
Piscina con abbeveratoio per animali di grossa stazza.
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Mungitoio
Per la mungitura di grosse mandrie venivano costruiti i mungitoi:
due pietre poste a triangolo delimitavano la porta di due ambienti,
comunicanti tra di loro, di solito l’ovile e la “mandra”, spazio all’aperto chiuso da un recinto. Il pastore seduto davanti la porta, chiamando a volte la pecora per nome: Bianchina, Corvina, Capricciosa... l’avvicinava vicino al secchio per la mungitura.
Recinto
Particolare della piscina.
I muri a secco erano indispensabili per recintare piccoli e grandi
spazi. I perimetri più lunghi erano quelli che circondavano i “parchi”, a volte vasti per diversi ettari o versure, che venivano utilizzati come pascoli chiusi. Questi avevano più aperture per entrare, che
erano detti “squarci” o “uade”. Gli “squarci” ai due lati avevano grosse pietre dove si attaccava il cancelletto di legno ad una o a due ante
a seconda dell’ampiezza dell’apertura stessa. I cancelletti erano fatti con sottili tronchi di legno incrociati o con rami doppi posti parallelamente. Per tenerli agganciati alle pietre si infilava una pertica
in una pietra bucata e poggiata a terra o a ridosso della macera, ad
essa si agganciava il cancelletto con un gancio di legno, di ferro filato o di grosso spago. Nei recinti, in modo particolare quelli posti
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in luoghi scoscesi, venivano lasciati dei fori di 10-15 centimetri per
far scorrere l’acqua.
Anche per i bordi laterali di alcuni tratturi erano usati i muri a secco, a volte interrotti da pietre poste di traverso all’interno del tratturo per attutire la scosciosità del terreno e per facilitare il passaggio
delle grandi mandrie. Lungo i tratturi della transumanza sorgevano
pozzi e poste per dare riposo a uomini e bestie.
Nell’agro di San Giovanni Rotondo di costruzioni in muro a secco era fatto il villaggio risalente alla fine del neolitico o dell’età del
bronzo ritenuto dalla tradizione l’antico borgo Bisanum.
Con pozzolana e pietre erano costruite anche le masserie dei “signori” e le case in paese, fino alla prima guerra mondiale.
Il territorio montuoso e collinare del Gargano è ricco di costruzioni a muro a secco, a tal punto importanti che erano punto di riferimento, molti luoghi, infatti, erano individuati dal nome di un ovile importante o dall’insieme di costruzioni rurali.
Appendice di
Approfondimento
Appendice di Approfondimento
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San Giovanni Rotondo
Nel IV-III secolo a.C. nel territorio di San Giovanni Rotondo, il
borgo Gargaros, sito ai piedi del Monte Castellana, era denominato Bisanum (Bis-Ianum) oppidum da un tempio rotondo dedicato
al dio bifronte Giano, incendiato e distrutto nel 642 da invasori slavi. Ricostruito nel 996 fu dedicato a San Giovanni Battista e il 14
novembre 1095 con il Diploma del Conte Errico, Monte Sant’Angelo, l’abitato prendeva il nome di San Giovanni Rotondo, in seguito protettore e padrone divenne San Giovanni Battista.
Fin dall’epoca romana il termine patrono (etimologicamente derivante da pater), faceva riferimento al rapporto di protezione che
i potenti instauravano con quelli meno fortunati, garantendo loro
appoggio e protezione.
Con l’avvento del Cristianesimo il termine per traslazione divenne prerogativa di quelle persone venerabili riconosciute dalla Chiesa come Sante, preposte alla protezione di una determinata categoria di persone accomunate da alcune caratteristiche.
Ci sono Santi che hanno un’accezione geografica per cui sono protettori di uno Stato, in genere con un rappresentante maschile e uno
femminile come per l’Italia San Francesco e Santa Caterina da Siena o di una città come San Gennaro per Napoli o semplicemente di
un Comune come per San Giovanni Rotondo.
Molti episodi della vita del precursore di Gesù ne hanno ispirato la
venerazione divenendo anche protettore di molte categorie di arti e
mestieri. Il suo abbigliamento di pelle di cammello gli valse l’autorità di protettore dei sarti, dei pellicciai e dei conciatori di pelli; il Battesimo nel Giordano dove salutò Gesù come “l’Agnello di Dio che
toglie i peccati del mondo” diventò il simbolo per i tosatori di la-
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Appendice di Approfondimento
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na e per i pastori; il rimprovero al re Erode perché conviveva con la
moglie del fratello, Erodiade, per cui venne incarcerato e su richiesta della nipote Salomè, che aveva danzato per lui durante un banchetto, decapitato, ha fatto sì che divenisse protettore dei produttori di lame, coltelli e simili utensili e protettore degli albergatori per
essere stato condannato alla decapitazione durante il banchetto. Insomma la biografia di San Giovanni e determinati aspetti tramandati dalle Sacre Scritture hanno creato un vincolo fra la sua figura e
determinate categorie professionali, e in modo particolare il suo legame con il mondo dei pastori.
La Chiesa di San Giovanni Battista (detta anche della Rotonda o
San Giovanni a ‘llonghe) divenne un centro spirituale importante
per il popolo, che istituì in suo onore una festa che cade il 24 giugno. Per tale festa era coinvolto tutto il popolo, che si preparava
“mettendo a lucido” tutto il paese e addobbando balconi, finestre e
strade con drappi e coperte le più belle, che le famiglie possedevano. La festa veniva celebrata con le “fanoje” (cataste di legna accesa,
simbolo di purificazione e rigenerazione), brucianti davanti la Chiesa della Rotonda; con una processione alla quale partecipavano molti bambini, tradizione osservata ancora oggi, portandosi dietro un
agnellino e una croce, simboli della Redenzione voluta da Dio con
il sacrificio dell’Agnello Innocente immolato sulla Croce. Una memoria risalente al 1789 riporta che gli agnelli portati in processione
dai bambini venivano distribuiti alle famiglie povere. Non mancavano, mercati, fiere e divertimenti popolari. Ogni Chiesa aveva un
altare a lui dedicato e quando nella Chiesa di San Leonardo (Chiesa Madre) venne dedicato un’altare sontuoso, la statua del Santo fu
posta in questa Chiesa e nacque la tradizione, in occasione della sua
festa, di indire una specie d’asta, in cui concorrevano con offerte va-
rie macellai, agricoltori e pastori per accaparrarsi l’onore di portare a spalla la statua del santo in processione. Di solito erano i pastori ad avere successo.
Dal 1866 la statua del Santo porta in direzione del cuore una piccola teca d’argento contenente una reliquia: un frammento di osso
del Battista e un piccolo lembo del panno in cui fu avvolto la sua testa decapitata.
Oggi la festa viene ancora celebrata con solennità, ma in modo meno folkloristico.
Il Tavoliere
Il nome Tavoliere, secondo alcuni storici, deriva o dalle Tavole Censorie o dai terreni che si davano ai pastori sotto il nome di tavolieri
o di quadroni. In Roma vi erano dei censori, che fissavano sulle tavole durissime condizioni di quello che si doveva pagare, culminando nella perdita del gregge, se dolosamente si fosse operato nella numerazione delle pecore. Secondo altri studiosi il nome Tavoliere deriva dalle Tavole Lapidee su cui era scritta la disposizione della Repubblica intorno al tributo che si pagava per ciascun pezzo di animale grosso o minuto che si conduceva ai pascoli di Puglia. Tali lapidi si affiggevano in quelle città sorte sul perimetro del Tavoliere.
Con l’invasione barbarica il tributo venne aumentato, ma Ruggiero
Normanno, per favorire la pastorizia, lo diminuì e costrinse i baroni
e altri possessori di terre a non catturare gli armenti che transitavano
per i fondi se si fossero fermati per un giorno e una notte. Le leggi
vennero rispettate e la pastorizia segnò uno sviluppo considerevole.
Con gli Angioini, che possedevano numerosi armenti, poiché venne
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meno la fida fiscale, l’attività della pastorizia diminuì e quasi cessò,
fino a che il re di Napoli vendette i demani fiscali e impose gravose tasse sugli armenti dei privati. Alfonso I d’Aragona, salito al trono di Napoli, riordinò il Tavoliere di Puglia, che era immenso, fertile e mite di clima, emanando il 1° agosto del 1447 la prammatica
“Dogana delle mene delle pecore”, provvedeva agli interessi del popolo, ma nello stesso tempo salvaguardava i propri. Formò il Tavoliere comprendendo l’immenso territorio di Puglia, che faceva parte
del Demanio regio e gran parte del territorio lucerino.
Il concorso dei pastori era tanto numeroso che ben presto fu necessario reperire altri pascoli. Il re e i suoi successori tolsero a censo dai
Comuni, dagli ecclesiastici e dai privati le proprietà boschive ed erbifere e le aggregarono al Tavoliere per l’uso del pascolo invernale
detto “Vernotica” e il pascolo estivo detto “Statonica”; lasciò il
frutto degli alberi a beneficio dei proprietari e per il riposo degli armenti durante il viaggio determinò i “Ristori” dove potevano riposarsi e pascolare; in seguito si concessero i tratturi per il passaggio,
sia i ristori che i tratturi furono aggregati alle locazioni.
Anche del demanio di San Giovanni Rotondo molte terre furono
tolte al censo del fisco e passarono a far parte del Tavoliere col diritto della Statonica, si formarono due locazioni: di Candelaro e delle
Cave. La locazione delle Cave comprendeva anche Campolato, così detto per la sua vastità. Nel 1500 per le sue ottime qualità erbifere, il governo tolse Campolato ai locati e lo adibì a pascoli delle Regie Razze. Quando le Regie Razze cessarono nel 1693 il territorio
con altre difese furono vendute. I locati, comunque, conservarono il
diritto di pascolare le greggi dal 25 novembre al 2 febbraio, giorno
della Candelora. Il Comune ottenne l’esenzione dai pesi straordinari, che fu rispettato fino alla promulgazione della Legge Fondiaria.
L’avidità di più ampio pascolo portava i locati ad invadere i territori
limitrofi e soprattutto i demani comunali. Di qui nacquero interminabili controversie, che coinvolsero molto spesso la nostra Università con il Regio Fisco, sorsero controversie tra l’Università e l’Abate di San Giovanni in Lamis e il barone Marmile. I capitoli della Bagliva di San Giovanni Rotondo testimoniano quanto fiorenti fossero presso di noi le industrie campestri, il commercio interno, l’amministrazione della giustizia, l’economia delle cose campestri e forestali, la pulizia interna del paese, l’igiene sui cibi 62, il prezzo della vendita dei diversi generi, le misure, la mano d’opera. Era il codice civile, penale, amministrativo e sanitario del nostro paese, la cui
trasgressione prevedeva multe varie seconda la gravità della colpa.
Per tutto questo e per l’importanza della vastità del territorio posseduto da tempi antichissimi, San Giovanni Rotondo era il centro
commerciale del Gargano e delle città della Puglia. Il prezzo stabilito qui aveva valore di legge. A San Giovanni Rotondo la Bagliva esisteva già al tempo di Ruggiero II, il quale, essendo protettore della
pastorizia, dell’agricoltura, del commercio e dell’industria, volle reprimere i soprusi dei feudatari sulle esenzioni devolute a quegli ufficiali del regno, chiamati poi baglivi.
Ai locati che avevano diritto di pascolare sul nostro territorio era riconosciuto anche il diritto della promiscuità delle acque di Pantano
per abbeverare gli animali.
62. Era vietato far pascolare gli animali, soprattutto quelli da macello nei “carbonarii”,
pubblici immondezzai, nei laghi, fossi siti intorno al paese, adatti a raccogliere acque putride.
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La Dogana
I Romani furono i primi a comprendere l’enorme ricchezza che poteva derivare dalla pastorizia. Il termine “pecunia”, infatti deriva da
pecus (pecora). Quando gli Aragonesi si impossessarono del regno di
Napoli constarono che la terra di Capitanata era molto ricca di erba e di questo gratuitamente godevano i pastori per il pascolo vernotico e per la statonica. Alfonso I d’Aragona pensò di strutturare
questa industria e istituì la “Dogana della Mena delle pecore in Puglia”, ordinata sul modello della “mesta” spagnola. Il doganiere a vita, Francesco Montluber, divise il patrimonio regio di Puglia per la
maggior parte in “terre salde” cioè da pascolo e in “terre da portata”, destinate alla coltivazione del grano, dei vigneti e degli uliveti.
La Dogana regolamentava l’agricoltura e l’allevamento e consentiva
la riscossione delle entrate provenienti dalla transumanza, dal diritto dei pascoli (fida) dei pastori provenienti dagli Abruzzi e dal Molise, che svernavano in Puglia. Fu istituito anche un Tribunale speciale, che risolvesse le questioni dei pastori. Di conseguenza ci fu l’abbandono dei tanti piccoli villaggi rurali e la nascita degli agglomerati urbani. Il territorio si arricchì di una densa rete di tratturi e tratturelli di varia ampiezza con la presenza di poste, di masserie, di recinti, di mungitoi e di infrastrutture (ponti, guadi, raccordi vari) per
lo più coincidenti con le vie romane.
I pastori erano tenuti a vendere i loro prodotti: lana, agnelli, capretti, formaggi alla città di Foggia, ma posero delle condizioni: la sicurezza del viaggio di andata e ritorno durante la transumanza e la sicurezza della sufficienza dei pascoli per tutta la durata del soggiorno
dal 9 maggio al 29 settembre. Per la sicurezza del viaggio il Governo
comprò i passi, le città, le torri e i castelli, che si trovavano sui fon-
di attraverso i quali dovevano necessariamente transitare. Per la sufficienza dei pascoli, non potendo garantire, stipulò contratti con i
privati alle stesse condizioni, che avevano da privati e impegnandosi
a renderli liberi da vincoli contrattuali per il periodo estivo in modo che i proprietari potessero, per quel periodo, gestirli liberamente. Di conseguenza Foggia crebbe d’importanza e con essa la Fiera
di Foggia dove partecipavano Inglesi e Francesi. La Dogana fu un
importante investimento, che fece arricchire il regno e i proprietari di erbaggi, il clero e i feudatari. Nacque anche un ceto di imprenditori e di commercianti, una generale rinascita di attività artigianali, commerciali, connesse all’allevamento, alla tessitura della lana...
La Dogana fu soppressa da Giuseppe Buonaparte con una legge del
21 maggio 1806.
La Transumanza
Le origini della transumanza e dell’asservimento delle terre del Tavoliere a questa funzione sono lontanissime. I primi documenti risalgono al terzo periodo repubblicano romano (I sec. a.C.). La prima regolamentazione giuridica, infatti, risale al 111 a.C. attuata con
la lex agraria epigrafica per l’uso dei pascoli pubblici e dei percorsi dei trasferimenti del bestiame, diretto ai pascoli del Tavoliere, che
già allora risultava sottoposto a regolamentazione fiscale. Probabilmente lo stesso nome Tavoliere deriva da “Tabulae Censoriae”, registri delle proprietà dello Stato Romano. Ne parla lo storico Varrone
Reatino (nato nel 116 a.C. a Rieti ) nella sua opera “De Rustica”, riferendo dell’obbligo dei pastori del Sannio di denunciare il numero
delle bestie portate in Puglia a svernare e pagare un tributo; ne par-
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lano pure Publio Virgilio Marone e Plinio il Giovane. Il bestiame
percorreva a piedi le “calles pubblicae”, che congiungevano le distanti
poste “come l’arconcello riunisce le due ceste da soma,” afferma Varrone, lungo le quali vi erano le chiese tratturali, campestri o pastorali sorte per iniziativa dei monaci Benedettini, che sopperivano alla mancanza di strutture economiche e produttive, capaci di offrire
non solo assistenza spirituale, ma anche un sicuro ricovero alle bestie e un tetto ai pastori. La transumanza per gli Aragonesi fu un settore trainante dell’economia, potere oltre che economico e pastorale
anche sociale, culturale e politico, che ha segnato in modo indelebile le regioni. Ancora vive sono nei territori attraversati le tradizioni,
le leggende, la letteratura, la religione, la cultura nate da questa realtà storica. La fine della “civiltà della transumanza” può essere collocata nel 1806 quando Giuseppe Bonaparte abolisce la dogana trasformando i tratturi in terre coltivabili. In realtà la transumanza appenninica è proseguita fino agli anni 1960/’70.
borghi dove si organizzavano le soste, chiese rurali, icone sacre, pietre di confine o indicatrici del tracciato. Il loro utilizzo era gratuito e
solo con i Romani, data l’importanza assunta dai tratturi, si impose
il dazio sui capi in transito, ciò provocò varie insurrezioni. Il tributo
previsto sul pedaggio e l’utilizzo del pascolo era riscosso da un “pubblicano” presente ad ogni frontiera. Ma la prima istituzione ufficiale
dei tratturi si ha con Alfonso I d’Aragona nel 1447, egli costruì tre
grandi tratturi, detti “tratturi regi” con quattro “riposi”, dove avrebbero potuto riposarsi in attesa dell’assegnazione della “Locazione” e
della “posta”. Qui poi avrebbero pascolato per tutto l’inverno.
I tratturi sono “vie d’erba” larghi 60 passi napoletani, 111,11 metri,
lunghi più di 200 Km. Questi insieme ai tratturelli, ai bracci, arterie di collegamento con i diversi tratturi e questi con i centri abitati, costituiscono una fitta rete, un sistema viario complesso dall’Abruzzo alle Puglie attraverso la Campania e il Molise.
L’indagine effettuata sui suoli tratturali dopo l’Unificazione d’Italia realizzò che fra tratturi e tratturelli erano 83 per una estensione di 2.978,29 Km e una superficie di 21.000 ettari. Con l’inizio
del Regno Borbonico i tratturi furono detti Tratturi Regi ed erano indicati da pietre squadrate su cui era scolpita la sigla R.T. e un
numero di riferimento 1574 i primi, 1884 gli ultimi. Meno presenze nelle zone montuose, più numerose in quelle pianeggianti.
Con l’Unificazione iniziarono le usurpazioni e le abusive occupazioni di ogni tipo sui tratturi, tratturelli e riposi, a discapito degli interessi della Amministrazione demaniale e a danno della pastorizia.
Né i Magistrati erano concordi nell’emettere sentenze circa i diritti provenienti all’Amministrazione dal Regolamento sui tratturi approvati col R. Decreto de14 dicembre 1858. Per cui fin dal 1868 il
Ministero delle Finanze, informato, decise di avviare una genera-
I Tratturi
Tratturo è un termine derivante dal latino tracturia: privilegio di libero passaggio dei pastori sui pubblici sentieri della transumanza,
previsto dai codici degli imperatori Teodosio e Giustiniano.
I primi tratturi si formarono spontaneamente per brevi percorsi,
probabilmente in epoca preistorica e si svilupparono nel periodo
sannita con importanti centri e fortificazioni, divenendo fondamentali per l’economia, un vero sistema produttivo strategico. Le prime
testimonianze documentali, un cippo e un’epigrafe, risalgono al VI
secolo a.C. Lungo il loro percorso vi erano campi coltivati, piccoli
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le verifica di quella proprietà demaniale. Vari furono i richiami e gli
interventi del Ministero per questa situazione che perdurava. Nel
1908 con la legge n. 746 fu stabilito di sopprimere tutti i tracciati non più necessari all’uso pubblico e di conservare solo 4 tracciati:
L’Aquila-Foggia; Celano-Foggia: Castel di Sangro-Lucera; Pescasseroli-Canosa, cioè i Tratturi Regi.
Nell’epoca fascista, visto che i tratturi avevano perso d’importanza
per l’avvento della ferrovia e della rete stradale, la larghezza fu ridotta e i proprietari confinanti si accaparrarono i terreni fertilissime per
migliaia di anni lasciati incoltivati.
Il primo Giugno del 2006 è stata presentata la candidatura di “La
Transumanza: i Regi Tratturi” a Patrimonio dell’UNESCO, dal Ministero per l’Ambiente e le Regioni interessate. Il 26 Giugno del
2009 a conclusione del Progetto europeo “La Maratona della Transumanza”, si è deciso a Campobasso di presentare un nuovo Progetto “transnazionale” Tratturi e civiltà della Transumanza”.
sociale. Si è cercato, comunque, in tutti i modi di reprimere l’abigeato per esempio attraverso il mercato delle carni e la marchiatura.
Oggi l’abigeato non è più condannato come reato distinto, ma solo
come elemento aggravante del furto.
L’Abigeato
Furto del Bestiame
Il furto del bestiame è presente già nell’era del neolitico ed era così diffuso che fu argomento nella mitologia greca. Omero, infatti,
nell’Inno ad Ermes parla del furto di bestiame perpetrato dal dio
Ermes a danno di Apollo. Fu anche oggetto, lo è ancora oggi, della Giurisprudenza. Nel Diritto Romano si prevedevano severe punizioni per questo reato perché ritenuto grave danno per il derubato
per le conseguenze sociali e ordine pubblico. Con il tempo la gravità
delle sanzioni si è attenuata, poiché ritenuto meno grave l’illecito sul
“L’Inno ad Ermes”
Ermes-Mercurio, figlio di Giove e di Maia, la più bella delle Pleiadi, nacque in una grotta sul monte Cillene. Ancora neonato di notte si tolse da solo le fasce e uscì. Vide una grossa tartaruga, la prese e le tolse il guscio, quindi nella parte vuota pose sette corde e costruì così una cetra. Si recò poi in Tessaglia dove il dio Apollo custodiva le mandrie degli dei e ne rubò cinquanta capi. Tirandoli per la
coda li fece camminare all’indietro affinché non lo tradissero e li nascose in una profondissima caverna perché non si sentissero i muggiti. Tornò nel Peloponneso e si rimise a dormire. Ma Apollo scoprì subito che a rubare il bestiame era stato Ermes e voleva punirlo.
Il piccolo dio cominciò allora a suonare la cetra e Apollo affascinato
da quel dolcissimo suono perdonò Mercurio in cambio dello strumento musicale. Ed è per questo che il mito canta Ermes, dio protettore dei ladri e Apollo, protettore della musica e della poesia (Inno ad Ermes, di Omero).
Il Casciere
Il casciere era il pastore addetto alla produzione del formaggio. La
mungitura avveniva due volte al giorno (nel periodo di massima
produzione), la mattina prima di portare il gregge al pascolo e la sera al rientro. Il latte munto la sera e tenuto al fresco veniva mesco-
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lato con quello appena munto al mattino, si faceva riscaldare a fuoco lento insieme al quaglio fino a temperatura tiepida mescolando
lentamente il liquido verso il centro del “caccavo” con uno strumento di legno detto “monaco”. Quindi si toglieva dal fuoco e si copriva
aspettando che solidificasse, subito dopo si frantumava il quagliato
con il monaco e con le mani si lavorava la pasta casciara amalgamandola, si tirava fuori versandola nelle fiscelle. Nel liquido rimasto (il
siero) e ancora tiepido, si versava del latte “vergine” cioè non trattato; appena cominciava a “schiumare” con la schiumarola dal lungo
manico velocemente si toglievano con la prima schiuma le impurità rimaste precedentemente e si tirava fuori la ricotta ormai pronta
ponendola nelle “campese”, cestini di giunchi o di vimini. Il calore
per la ricotta poteva variare a seconda della consistenza che si voleva ottenere. Tutto doveva essere ben dosato e questo era affidato alla saggia esperienza dei pastori. Nei periodi in cui la produzione del
latte non consentiva una quagliata o si mescolavano vari tipi di latte (di pecora e capra, di pecora e mucca) o si decideva il prestito-baratto del latte tra i pastori vicini.
ipotesi c’è che ancora oggi vive la tradizione di vendere questi cavallucci nei negozi, nelle fiere e nei mercati.
Un’altra ipotesi è che per la loro forma a pera i caciocavalli si conservano legati e appaiati a cavalcioni su una pertica. Secondo Migliorini il nome è dato come marchio impresso. Ma potrebbe essere
semplicemente nome nato da una voce popolare a noi sconosciuta.
Questo formaggio si può ottenere solo con la lavorazione del latte
vaccino che quagliato può essere lavorato a pasta filata o spezzata.
Molto pregiato ed apprezzato il caciocavallo ottenuto con il latte di
mucche podoliche.
Il Caciocavallo
Il caciocavallo è un formaggio tipico dell’area meridionale. Probabilmente il termine caciocavallo, presente nella lingua letteraria fin
dal XIII secolo, menzionato la prima volta nel Registro angioino del
1311 di Napoli, è formato da cacio+cavallo, ma non è chiaro il perché di questo accostamento. Secondo la tesi di Galiani “Il nome è
preso dalla figura di piccoli cavalli che si realizzano con questa pasta
di formaggio da dare da mangiare ai bambini”. A sostegno di questa
La Bagliva
La Bagliva era l’Ufficio o Corte ove risiedevano i giudici (baglivi),
che erano inviati dal re ad esigere alcune tasse su un territorio, detto
baliaggio. I feudatari sceglievano i loro baglivi per riscuotere le tasse
per conto dei baroni. I diritti della Bagliva riguardavano i proventi
del Banco di giustizia cioè le condanne per contravvenzioni alle assise o altri pubblici ordinamenti, per danni commessi da uomini o
animali o per usi di illegali pesi e misure e per estorsioni su giochi
allora diffusi, i fossetti. Inoltre ad essa erano dovuti i diritti degli erbaggi e delle terre (gabella baiulazione).
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La Calce
La calce è materiale decisamente economico e facilmente reperibile: si ottiene con la cottura a temperatura elevata del calcare (ricco
di carbonato di calcio). Già gli Egizi e i Greci la usavano in edilizia.
Ne parlano Vetruvio nell’opera “Architectura” e Plinio. Anche la calce veniva prodotta in loco sfruttando la materia prima che abbondava: la pietra. Era un mestiere praticato dai “calicaroli”. Veniva scavato un fosso, circondato da un muro a secco e coperto a cupola. Dopo averlo riempito di pietra buona, piena, gli davano fuoco che alimentavano poi da un buco lasciato nel muro a secco e da cui fuoriusciva anche il fumo. Quando la pietra cominciava ad aprirsi la si lasciava bollire per tre giorni, sufficienti perché si trasformasse in calce. Al momento dell’uso la calce veniva idratata.
Ognuno la produceva in proprio per uso personale. La prima richiesta di costruire una fornace di calce, in Contrada “Inversa Prete”, facente parte del bosco di Sant’Egidio, da parte di un certo Bevilacqua Michele come risulta negli atti municipali, risale al 7 Agosto del 1920.
Anche la calce si vendeva per le strade del paese.
Le Cave
Nel 1883 a San Giovanni Rotondo erano presenti una cava di pietre
in Contrada “Petrera” F°87 particella del Comune n.73; una cava di
pietra, per costruzione ghiaia, sabbia e breccia F°59 particella 129 in
Contrada “Pozzocavo”; una cava di tufo in Contrada “Prato”.
Nel 1908 venne emanata un’ordinanza in cui si chiedeva al Comu-
ne di ottemperare alle norme della legge del 30 marzo 1893 N.184
sugli infortuni e sul lavoro delle donne e dei fanciulli e di stilare un
elenco delle miniere e delle cave. Dall’elenco risultò che vi è era una
sola cava di estrazione nella zona di “Patariello” di demanio vincolato. Ciò fa presupporre che le altre cave non si trovavano in demanio vincolato. Quindi l’estrazione delle pietre e della rena delle cave
del demanio comunale non era disciplinata da nessun regolamento e l’estrazione avveniva liberamente senza ingerenza del Comune
e gratuitamente, per cui il 29 novembre del 1929 veniva emanata
l’ordinanza che per utilizzare le cave per l’estrazione occorreva il permesso. Vennero emesse altre delibere per regolamentare la raccolta
delle pietre pur nella proprietà privata 63. Risale, infatti, al 30 marzo
1930 la concessione di raccogliere pietre per costruire un’abitazione
nel fondo sito a Montenero di propria proprietà a queste condizioni: che la costruzione venga eseguita nella località dove vengono raccolte le pietre; che la raccolta delle pietre venga limitata alle rocce affioranti; che le eventuali depressioni derivanti dallo scavo del pietrame siano ricolmate. Ancora oggi vi sono cave aperte e funzionanti.
Sant’Egidio di Pantano
Con Sant’Egidio di Pantano si identifica il territorio che si trova a
circa 3 Km da San Giovanni Rotondo a 460 metri s.l.m., alle falde di Monte Calvo. E’ detto di Pantano in quanto sul territorio vi è
una grande conca occupata da un vasto specchio d’acqua alimenta63. R.D. 31-1-1904 e R.D. 13-3-1904; Leg. 19-6-1902; 7-7-1907 e regolamento 291.1903.
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ta soprattutto dalle sorgenti della valle di San Nicola, uniche acque
interne del Gargano, con un terreno fertilissimo che ha avuto grande importanza nell’economia del paese sia per le risorse ittiche e il
commercio delle sanguisughe, sia per i pascoli e, grazie alle opere di
bonifica, per lo sfruttamento dei fertilissimi terreni divisi in “porche”
e coltivati a vigneti, ortaggi e frutteti. Diviso in “porche” fu affidato per due “porche” a ciascuna famiglia povera perché le coltivasse
per proprio conto, dietro pagamento di un contributo diversamente stabilito per ogni famiglia al momento dell’assegnazione quale indennizzo per spese di sorveglianza e altro da esercitarsi dal Comune. Una prima Delibera comunale per la bonifica dello Stagno risale al 2 Novembre del 1902 con il sindaco Sabatelli avv. Michele;
proseguirono fino allo scoppio della guerra nel 1940, ad opera del
Ministero dell’Agricoltura e dell’Industria. Ripresi i lavori nell’anno 1950/51, fu integralmente bonificato nel 1953. Nell’antichità
questo territorio fu così importante, che già nel secolo VIII si attesta la presenza di un Casale, il “Casale di Sant’Egidio” di grande interesse per gli ordini monastici e dove aveva sede anche l’antica “posta” della transumanza delle greggi e la presenza degli uffici doganali per le greggi e la gestione della pesca, come afferma Salvatore Antonio Grifa (negli atti del convegno: valorizzazione del Pantano di
Sant’Egidio e la Via Langobardorum, 12 dicembre 1998). Il Casale secondo testimonianze storiche fu donato nel 1086 dal Normanno Enrico, signore dell’intero Gargano e di parte della Capitanata,
ai monaci benedettini dell’abbazia della SS. Trinità di Cava dei Tirreni che, dopo quella di Montecassino, era la più grande e potente
dell’Italia meridionale.
Con gli Svevi nel XII secolo si formò un agglomerato rurale denominato Casale, come riportato nei documenti, intorno alla Chiesa
di Sant’Egidio favorito dalle buone condizioni di vita e in una posizione felicissima poiché sorgeva nei pressi del lago e della via Sacra Langobardorum, arteria viaria importante per i pellegrini, che
da tutta l’Europa si recavano al Santuario di San Michele Arcangelo a Monte Sant’Angelo. Già a quel tempo le terre del Casale erano utilizzate per la cereocultura, per i pascoli e per le vigne e i prati.
Con gli Angioini gli abitanti abbandonarono il Casale (documentato nel 1276) riparando a San Giovanni Rotondo difeso da alte mura
e torri. I monaci però rimasero anche se in confini ristretti per continuare a prendersi cura della chiesa ancora, probabilmente, frequentata dai contadini che lavoravano i campi.
Fino ai primissimi anni del XIV secolo è documentata la presenza di
un monaco del monastero benedettino di Cava per officiare il culto e di un frate laico per la custodia del luogo. In seguito fu sostituito da un sacerdote di San Giovanni Rotondo probabilmente fino al
XVIII secolo, come risulta dai documenti diocesani.
Nel 1806 con il decreto di Giuseppe Bonaparte le terre di Sant’Egidio passarono al demanio di San Giovanni Rotondo, che le assegnò da coltivare ai contadini più poveri insieme alle terre bonificate intorno a Pantano, fin dall’inizio del XIX secolo. La chiesa venne frequentata fino alla seconda metà del XIX secolo, abbandonata
ad un lento degrado. Di essa rimangono ruderi in pietra calcarea di
circa 30 metri di lunghezza e 8 di larghezza con 5 campate e l’abside
di pianta semicircolare con una monofora romanica. Il portale d’ingresso è a tutto sesto, su di esso vi è un semplice rosone circolare.
Tanti sono i convegni e le tavole rotonde dove si discute sul recupero e valorizzazione del Pantano di Sant’Egidio.
In un degrado ancora più accentuato si trova la Chiesa di San Nicola poco distante da Sant’Egidio.
Nella foto in alto: mensole con forme di formaggio pecorino di diverso grado
di stagionatura. Nella foto in basso: pastore che con “il monaco” mescola il latte.
Nella foto in alto: pastore che taglia la pasta casciara dalla pentola.
Nella foto in basso: pastore che pone la pasta nelle fiscelle.
Le Antiche Unità di Misura
nel Regno di Napoli
Prima del sistema metrico decimale
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Le Antiche Unità di Misura nel Regno di Napoli
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Per il Peso
Per la Lunghezza
La Soma corrispondeva a 120 kg di grano (quanto cioè ne poteva portare approssimativamente un animale da soma).
La Canna corrispondeva a 2,13 mt.
La Salma di Mulo o di Asino indicava la quantità di legname che si poteva trasportare sulla groppa di questi animali.
Il Braccio, Il Cubito (lu vracce) 40 cm.
Il Tomolo corrispondente a 40 kg.
Il Mezzetto a 20 kg.
La Mezza Canna 1,97 mt.
Il Palmo (lu palme) circa 25 cm (distanza che intercorre tra il pollice e il
mignolo distesi).
Il Quarto (lu quartucce) a 10 kg.
Il Fagotto (lu fangotte) circa 20 cm (distanza che intercorre tra il pollice e l’indice distesi).
La Misura a 1,75 kg.
La Spanna 25 cm.
Lo Stoppello (lu stuppedde) a 300 gr.
La Varanghe circa 22 cm (distanza che intercorre tra il pollice e il medio).
L’Oncia con diversi valori in diversi luoghi, ma sempre intorno ai 30 gr.
Il Pollice circa 6 cm.
Per l’Estensione (unità di aree)
Il Piede (pede) circa 30 cm.
Il Carro corrispondeva a 240.000 mq.
Per le Capacità
La Versura a 12.345 mq.
Lo Staio 10 lt (stare).
La Porca 816-823 mq.
Il Mezzo Staio 5 lt (mezestare).
Il Passo 205,7 mq.
Il Litro 1 lt (litro).
Il Piede (lu pede) circa 30 cm.
La Quartara circa 11 lt (la quarta parte di un barile).
La Giornata d’Aratro 4000 mq.
Lu Quartucce 2,5 lt.
Opera are 4 e centiare 12.
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Le Antiche Unità di Misura nel Regno di Napoli
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Nel regno di Napoli e a San Giovanni Rotondo
le unità di misura conosciute e molto diffuse erano:
Il tomolo era un contenitore di ferro di forma cilindrica, all’interno, infisso al centro, vi era un ferro arrotondato di circa 1 cm di circonferenza,
sormontato all’orlo da una sottile lamina di ferro con la doppia funzione
di reggerlo e di livellare il contenuto.
Il mezzetto era di forrna di cono tronco, fatto di doghe di legno tenute
insieme da sottili lamine di ferro, al centro infisso un ferro arrotondato e
sormontato da un altro ferro arrotondato e sormontato con le stesse funzioni che per il tomolo. Per la misurazione del grano il livello era rasato,
per le olive era colmo.
Lo stoppello per i cereali doveva essere a livello, per le olive, colmo.
Il tomolo e il mezzetto erano usati anche come unità di misura di aree.
Ad esempio al tempo della trebbiatura in base alla superficie che l’anno
dopo si intendeva seminare, si calcolava la quantità di semi che necessitavano con il tomolo o il mezzetto.
La stadera (stataia) è una bilancia costituita da una leva e da un fulcro
fisso. Sul braccio lungo, scanalato per le misure, scorre un peso detto romano, su quello più corto o un piatto o un gancio recante la merce da
pesare. Il romano scorrendo lungo la scanalatura raggiunge un equilibrio
dove il braccio graduato si porta in posizione orizzontale, quindi dalla
posizione del romano si legge il peso ottenuto.
Sant’Isidoro afferma che la stadera è stata inventata in Campania: “Campana a regione Italiae nomen accepit ubi primum eius usus repetus est. Haec
duas lancies non habet, sed virga signata libris, et uncis, ut vario pondere
mensurata”.
La bascula, basculla (bascuglia) è una bilancia a bilico per pesi notevoli.
E’ formata da una pedana su cui va collocata, essa oscilla intorno ad un
asse a bracci disuguali. E’ in equilibrio con un contrappeso dove si trova
la barra quadrata su cui sono incise le misure e su cui vi sono i piccoli pesi che si fanno scorrere lievemente sulla barra per creare l’equilibrio indispensabile per la precisione.
Piccolo Vocabolario
Etimologico
Il presente glossario si riferisce esclusivamente ai termini
che compaiono nel volume;
non intende in nessun modo essere un dizionario
di linguistica, narratologia, retorica ecc.
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I dialetti sono lingue che per ragioni storiche, politiche, culturali non sono diventate lingue ufficiali, la storia della nascita della lingua ufficiale
italiana ne è una dimostrazione.
La diversità dei dialetti su tutto il territorio italiano è dovuta alle tante antiche emigrazioni, fra essi si distinguono due grandi gruppi:
1) dialetti settentrionali, parlati nell’Italia settentrionale fino all’altezza
della linea ideale La Spezia-Rimini (dialetti gallo-italici e dialetti veneti);
2) dialetti centro-meridionali, parlati al Sud della linea ideale (dialetti mediani, dialetti meridionali, dialetti estremi).
Non sempre i dialetti corrispondono ai confini regionali, inoltre all’interno di ogni area dialettale si riscontrano varietà locali. Per tanto essi sono la nota distintiva di un popolo e le “nobili origini”, le antiche tradizioni saranno poca cosa se essi saranno dimenticati e col tempo scompariranno.
I dialetti dell’area garganica sono a volte molto diversi tra loro anche se
le distanze dei paesi sono di pochi chilometri e questo è dovuto all’isolamento geografico, economico, sociale, culturale in cui il Gargano è vissuto. L’etimologia va ricercata nella lingua greca, latina, francese, spagnola,
albanese. Notevoli sono le affinità con i dialetti abruzzesi e molisani perché da sempre la Capitanata è stata terra di transumanza.
A
Abigeato: furto di bestiame. Dal tard. lat. giur. abigeatus-abigeus-abìgere
(ab+agere, portare via).
Abbeveratoio: (pila) recipiente dove si abbeverano le bestie. Dal lat. parl.
abbiberare, inten. di (bibere, bere) con il pref. ad.
Accattàre: comprare. Francese achater.
Accetta: arnese tagliente per legna, più piccola della scure.
Dal fran. hacchette (XIII sec.).
Acciavattà: acciabattare. Comp. parasintetico di ciabatta con a raff.;
(etim. inc. orig. orient.?).
Acciavattone: disordinato (ved. Acciavattà).
Adascia-lavature: chi rifà con l’ascia la scanalatura allo stropicciatoio.
Termine indeur. comp. da ad+ascia+verbo lavare.
Aducchià: adocchiare. Dal lat. parl. adoculare, comp. parasintetico di adoculos.
Affittatarie: affittuario. Lat. medievale afficturum; comp. da ad+fitto
[(af )fittare].
Aggiunta: cose aggiunte part. pass. n. pl. da lat adgiungere, comp. da ad
raff.+giungere (adiuncta).
Ammolafroffece: arrotino. Da mola, macina del mulino XV sec., affilare
le lame (comp.da mola+forbici).
Ammureià: raggruppare. Dal lat. admovère; comp. da ad+movére (muovere
verso, accostare).
(J)Ante: prep. lat. avanti Jante. Striscia di un campo dove lavora una
squadra.
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(J)Iantenère: capofila, colui che traccia una striscia da seguire nella
mietitura, (che va avanti).
Basto: rozza sella imbottita per muli e asini. Etim. incerta, dal greco
bastazein (portare un peso; lat. parl. bastare).
Appenneture: piolo. Term. forse indeur. Dal lat. adpèndere,
comp. da ad+pèndere, pesare verso.
Biancaria: biancheria. Germ. blank (bianco), forse longobardo.
Appuiatora: appoggio. Lat. parl. appodiare, comp. parasintetico da
podium; grec. podiòn (piedestallo).
Architettura: lat. dotto architecturam, greco arckitektonikòs,
comp. da archi+técktonikon (tecnica della costruzione).
Bracciante: lavoratore agricolo a giornata, non specializzato. Lat. bra(c)
chium, dal greco brachàon (sec. XV vivere di braccia).
Buffetta: piccolo tavolo rettangolare. Dal fr. buffet (tavolo su cui sono
poste pietanze, vino, bibite). Radice indeur. baf.
Arrècogghje: accogliere (nel senso di radunare di nuovo con continuità
[r (i)] rafforzato con il pref. r o dal lat. parlato colligere.
C
Ascia: arnese per smussare e abbozzare il legname. Lat asciam, orig. ind.
Càcchave: grossa pentola cilindrica con due manici, di metallo;
voce centro-merid. onomatopeica.
Attrezzi: strumenti di lavoro. Dal fra. antico atrait, attratto.
Avvantate: lodare con ostentazione. Lat. vanitare (essere vano),
denominazione vanitatem.
B
Balla: sacco di tela grossolana per conservare e trasportare grande quantità
di merce. Dal fr. ant. balle, dal francone balla.
Ballone: grosso sacco per conservare il grano o la lana della tosatura (v.
balla).
Cacio: voce del centro-meridion. Lat. caseum. etim. incerta.
Cafone: contadino, voce mer. prob. di orine osca cafà (cavare),
cafune (solco profondo), cafone (cavità). Corrispondenti al latino cav(are)
e quindi riferibili al contadino che “cava” la terra o dal nome di un
centurione romano Cafo-Cafonis che nel 43 a.C. ricevette delle terre in
agro campano; etim. incerta.
Cagliata: latte rappreso. Comp. da co+àgere (riunire).
Caiola: gabbia. Spagn. jàula.
Barditura: insieme di finimenti del cavallo. Ar. barda (basto, barda).
Calicara: fornace di calce. E’ il lat. “fornacem calcariam” con desinenza in
ara e non in aia.
Bascuglia: bascula, bilancia per grossi pesi. Dal fr. bacule- bascule,
denom. di baculer (sec. XV da battre+cul, lett. battere il sedere) sul quale si
è inserito bas alludendo all’abbassarsi della bilancia.
Calecarole: chi ha a che fare con la calce. Dal greco chalix-chàlikos
(ciottolo), di origine sconosciuta.
Callara: caldaia. Lat. tardo caldariam, da calidus (caldo).
Basola: lat. basem, dal greco bàsis, derivato da bàinein (essere istallato).
Callarale: calderolo, chi costruisce caldaie, passaggio di a protonico
davanti a r in e.
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Cambiale: agget. derivante da cambio che è un derivato a suffisso zero del
tar. lat. cambiare; di orig. greca: sec. VIII “cambiare, rem pro re dare”.
Carrera: strada maestra percorsa da carri, andare di corsa (v. carro).
Campesa: fiscella. Lat. campum; etim. incerta, forse di orig. italica.
Carro: lat. carrum (carro a quattro ruote); orig. gall. corrispondente al lat.
currum (carro a due ruote) da avvicinare a cùrrere (correre).
Comàra: tardo lat. commatrem, comp. da cum+mater.
Cascia: cassa, cassapanca. Lat. capsam; etim. incerta.
Canaletta: piccola grondaia scavata in muratura. Lat. canalem.
Cassapanca: comp. da cassa + panca.
Cannedde: cannello, ditale di canna (pezzo di canna aperto ai due lati).
Orig. assiro-babilonese, cannula. Fr. canula.
Castagnola: (piccola castagna), nacchera. Lat. castàneam;
greco kàstanon; prob. di orig. indoeur.
Canocchia: conocchia. Lat. parl. canicola-calaculam (conocchia).
Castedde: castello. Lat. castellum, dim. di castum (fortezza).
Caparra: comp. da capo+arra (pegno) inizio di garanzia; capere+arra
(prendere il pegno). ARRA è di orig. ebr: grec. arrabòn; lat. arram.
Castrate o Crastate: castrato, maschio della pecora. Dal lat. castrare,
evirare, da avvicinare a castrum (ciò che è tagliato); orig. indoeur.
Capazza: cavezza. Lat. capitia neutro plur. di capitium, apertura superiore
della tunica per far passare la testa (caput-capitis).
Cavadde: cavallo. Lat. popol. caballum; probab. di orig. preindeur.
Capecanale: banchetto finale per un lavoro importante. Forse comp. da
capo, lat. caput (nel senso di finale) e canale (condotto d’acqua, quindi
abbondante).
Cavutedde: piccolo buco.
Capechjazze: capostrada. Comp. da caput+chjazza (plaza-plana-strada),
inizio della strada.
Cavute: buco. Lat. cavum (rendere cavo) etim. incerta.
Cerneture: crivello. Lat. cèrnere (separare, vagliare); rad. indoeur.
Cerneià: vagliare, scegliere. Lat. cernère.
Capellare: chi tratta o compera capelli. Lat. capillum; etim. incerta.
Cevère: una specie di gabbia posta sul basto per trasportare i covoni; etim.
incerta forse dal let. cibaria (netro plur. di cibum).
Carreuonere: carbonaio. Etim. incerta; probab. voce merid. con
desinenza aro invece di aio; greco ker-aunòs, bruciare.
Chianca: lastra di pietra (v. chiane).
Chiane: piano, zona pianeggiante. Lat. planum; orig. indeur.
Carosa: tosatura. Lat. parl. tonsàre, clas. tondère, partic. passato tonsum
(tagliare, sfoltire); molto probab. originata dall’unione di due etimi: greco
kéiro + lat. tonsare.
Ciasta: cesta. Lat. cistam, greco kìste; di orig. preindoeur.
Carosatore: chi tosa le pecore (v. tosatura).
Carrà: voce verbale trasportare sul carro (v. carro).
Cicire: cece-cecio. Lat. cicer; forse prestito da una lingua straniera.
Cimminaia: focolare. Lat. caminum, greco kàminos (fucina, fornello);
forse di orig. straniera o preindeur.
Cistaradda: piccola cesta, paniere (v. cesta).
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Cistarna: serbatoio d’acqua piovana, internata. Lat. cisternam;
da cista (cesta) con suff. etrusco.
Cucuma: cuccuma-bricco di terracotta. Etim. ignota. Forse di orig.
onomatopeica dal rumore cu-cu-cu dell’acqua che gorgoglia.
Ciucce: voce onomatopeica.
Cuddare: collare per gli animali. Dal lat. cullum (mettere attorno al collo).
Cocuzzoletto: piccolo cocuzzolo (di un monte, capo, cappello).
Probab. tardo lat. cucutium (cappuccio).
Curle: trottola. Orig. germ. da to-curle (arricciare-arrotolare).
Coffa: term. spagnolo. Dall’arabo kuffa (cesta) a sua volta dal greco
kòphinos, lat. tardo kophinum (cesta); etim. incerta. Il nome ha avuto
origine sui galeoni dove le coffe avevano forma di cesta fonda che si
chiama coffa.
Contadino: nel XV sec. etim. lat. comitatum (accompagnamento, scorta);
nel XIII sec. comitatinus (contadino, abitante del contado).
Contrafforte: comp. da contra+forte (fortemente contro un muro o altro).
Coperta: lat. cooperire (coprire).
Coppe: zona collinare. Tardo lat. coppam, clas. cuppam; orig. indeur.
Coppola: berretto. Coppula (sec. XIII-XIV); orig. indoeur.
Corie-coreje: pelle conciata. Lat. corium, originariamente da una radice
che indica un oggetto che si stacca, soprattutto pelle (secca).
Currede: corredo, insieme di capi di biancheria e vestiario che porta con
sé la sposa. Lat. conredare, got. ga-redan (provvedere) (su reths provvista).
D
Damigiana: etim. inc.; dame+jeanne: donna Giovanna.
Discipule: discepolo. Lat. semidot. discipulum da discere (imparare),
etim. incerta.
Disossare: togliere le ossa. Comp. parasintetico di osso + pref. dis.
Dogana: orig. persiana dall’arabo diwan.
Dolina: sloveno o serbo-croato da do+dola (valle); orig. indoeur.
Dote: lat. dotto dotem, della stessa radice di dare.
F
Covone: forse accrescitivo di covus forma arcaica (cavo), ciò che sta nel
Fanoia: falò. Prob. greco phanòs (torcia); etim. incerta.
cavo di una mano; etim. incerta.
Fasce: fascina di legna. Lat. fascinam, da fascis (fascio).
Cozze: contadino o parte superiore di un attrezzo di lavoro (zappa,
accetta). Forse chi usa la zappa.
Fascia: lat. fasciam ( fascis-fascio), derivato tardo fascitare.
Crescente: lievito. Dal lat. crescere (crescere-lievitare) greco achàrnas;
part. pres. (che fa crescere) etim. incerta.
Crivello: dim. del tard. lat. cribellum (vaglio), radice di cernere (separare).
Fasciadda: fiscella. Lat. fiscellam, etim. inc., dim. di fìscina (canestro di
vimini).
Fascianne: corredo per neonato (v. fascia).
Fasciatore: pannolino per fasciare il neonato (v. fascia).
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Fatja: fatiga. Lat. parl. fatigam, da fatigare (affaticare). Passaggio dalla g
alla c è fenomeno di ipercorrettismo.
Frunzute: fronzuto. Lat. frondum; dal lat. parl. frondia (specie di colletto
frons-frondis-fronda); etim. inc.
Fatijatore: faticatore-lavoratore. Tardo lat. fatigatorem.
Fulima: fuliggine. Lat. fuligo-inis; orig. indoeur.
Federa: termine longobardo. Federa.
Funare: funaio. Lat. funem; etim. inc.
Faucia: falce. Lat. falcem; etim. inc. orig. preindeur.
Funne: fondo (terreno). Lat. fundum, parte bassa.
Fazzatora: madia. Lat. magida; etim. sconosciuta forse termine
onomatopeico.
Furne: forno. Lat. furnum; orig. indoeur.
Ferlarute: flauto. Lat. ferum “che produce, genera”, verbo ferre.
Furràina: foraggio. Dal fra. fourrage (fine sec. XII); da feurre (paglia);
dal francone fodar (nutrimento).
Flauto: provenzale flaut, prob. d’orig. onomatopeica.
Ferrare: colui che lavora il ferro. Lat. ferrarius.
Fabbro: lat. fabrum con normale raddoppiamento della b nel gruppo br;
etim. inc.
Fiasche: fiasco. Gotico flasko 1344/45.
Fiaschitte: dimin. di fiasco (v. fiasco).
Furnare: fornaio. Lat. tardo furnarium; orig. indoeur.
Furrizza: sgabello di ferula. Lat. ferula (così detta perché se ne ricavano
verghe leggere) etim. incerta, forse dal gotico fauhrs, spazio tra solchi (i
pezzi che compongono la forrizza sono intrecciati in modo he tra essi ci sia
spazio).
Fuse: fuso. Etim. incerta.
Fìcura: fico. Lat. ficum; orig. preindeur.
G
Fida: da fidum-fidare a suff. zero fidarsi. Contratto di affitto di un pascolo,
Italia merid.
Ghianna: ghianda. Lat. glandum; orig. indoeur. Frutto indeiscente;
poggia una estremità in un involucro a scodella.
Fiera: tardo lat. dotto fieram con metatesi della i perché le fiere avvenivano
nei giorni di festa (feria il significato originario è festa).
Ghiarole: contenitore di olio. Lat. oleum; greco èlaion (olio).
Foche: fuoco. Lat. popol. focus, prese il significato di fuoco nel IV sec.;
l’etim. probabilmente è un calco di pyr.
Ghirlanda: etim. incerta. (prov. guirlanda).
Frangia: lat. parl. frimbiam, forma con metatesi dal lat. clas. fimbriam;
di orig. fran. frange; etim. inc.
Ghiarolai: operaio addetto all’olio (v. ghiarole).
Gregge: lat. gregem (XIII sec.) vc. Popolare, di derivazione greca, forse
anche presente in sanscrito.
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I
Ialà: sbadigliare. Lat. halare, orig. non chiara, forse dal lat. delle glosse
bataculare (org. onom.).
J(i)use: sottano. Lat. tardo (III sec. d.C.) iusum, che spiega l’italiano antico
giuso. Che sta giù.
Iocchie: occhio. Lat. oculum, presto ridotto a oclum.
Jurnatere: operaio a giornata. Et. dal fr. jour o toujours (giorno o tutto il
giorno).
Iocchiera: plurale neutro di occhio.
L
Indeiscente: caratteristica di un frutto maturo che no si apre per far
uscire il seme; comp. da in (negativo) + deiscente (deiscenza).
Intercapedine: lat. intercapedinem (interruzione); comp. da inter e un
deriv. di càpere (contenere).
Intermediario: colui che serve da tramite. Lat. dotto comp. da inter +
medium (sta in mezzo tra).
J
Jacce: ovile, addiaccio. Lat. jacère (giacere, stare disteso).
Jalette: secchio di legno a doghe per attingere acqua dal pozzo;
term. merid. prob. “piccola galea, piccola imbarcazione”. Etim. e storia
molto discusse.
Jarzone: garzone. Dal fr. garçon, dal franc. wrakkio (mercenario) inferiore
a 15 anni.
J(i)èrmete: mannello. Da manuam, manum (manciata IV sec. d.C.)
(J)ogghie: olio. Dal lat. oleum, greco èlaion.
Jumentare: chi alleva giumente, lat. iumentum da iungère (congiungere);
iugum (giogo) con il significato originario di cavallo da giogo).
Junce: giunco. Lat. luncum.
Lampara: Lat. ant. lampadam, clas.: làmpas lampàdos, orig. indeur.;
ara é di estrazione dialettale.
Lattare: lattaio. Lat. lactum.
Lavannara: lavandaia. Dal lat. lavare; orig. indoeur.
Lavature: stropicciatoio. Dal lat. lavare, di estensione indeur. lavaturium.
Lettèra: lettiera. Giaciglio. Lat. mediev. lactarium-lectus; inc. orig.
indoeur.
Lesina: term. germanico (franc. o gotico) alisna, derivato da ala.
Il significato allegorico del verbo lesinare è dovuto allo strumento usato dai
taccagnoni per rattacconare scarpe e pianelle.
Lijante: colui che lega i mannelli per fare covoni; part. presente del verbo
latino ligare (legare).
Lijatora: filo per legare mannello o altro (v. lijante).
Lescìia: liscivia-ranno. Dall’aggettivo lat. lixivia (sott. cinerem (liquido
mischiato con la cenere del ranno (lixa).
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M
Macerillo: cumulo di pietre; dim. di maciara (v. maciara).
Maciara: muricciolo di pietre sistemato a secco. Lat. maceram der. da
macerare perché originariamente costruita con materiale di scarto.
“Maceres dicitur paries non altus de materia macerata”
(Donato sec. IV d.C., commedia Adolphae di Terenzio).
Madia: specie di grande piatto. Dal greco magèda accusativo di magis (cibo
impastato, pane, madia) dal verbo màssein (impastare); dal lat. magidam
(tra il IV e V sec. d.C.) in Marco Empirico “rasamen pastae quod in magide
adharet”.
Mèta: finale, termie. Lat. dotto metam (qualsiasi oggetto di forma conica;
come term. popolare rustico è catasta, mucchio di fieno ecc.);
per i Romani costruzione di forma conica o piramidale.
Majesa: maggese. Aggettivo di maggio (campo lasciato a riposo, per un
anno senza semina; der. da maggio + suffisso se.
Mannadda: mannello (ciuffo di spighe contenuto in una mano). Dim. di
manna, lat. tardo manua (manciata) o jèrmete.
Mammana: levatrice. Greco mammaìa (nutrice). Dialetto merid. derivante
da mamma.
Mandra: branco di bovini (1280). Senza etim.; termine greco, presente
fin dal sec. XI.
Mandria: recinto per bestiame.
Manechitte: piccola manica. Lat. tardo da manicum (strumento manuale).
Mànghine: colatoio per formaggi; prob. dal lat. tardo manganum, dal
greco mànganon.
Maniscalco: dal lat. tardo (VI sec. d.C.) maniscalcum; franc. marchkalk
(bralk servo, march addetto ai cavalli) con influsso di mano.
Manocchje: covone. Lat. parl. manuciare (agguantare), denom. di
manucium (guanto).
Màntece: mantice. Lat. manticam (bisaccia): etim. inc.
Marijole: mariuolo-ladro. Etim. inc., probab. di orig. regionale, in modo
particolare napoletana.
Marijola: tasca interna della giacca per conservare-nascondere documenti,
soldi (v. marijole).
Masculare: succhione. Lat. masculum, soppiantando mas (maschio),
nelle varie parlate assume significato di animale (animalizzazione).
Massaia: donna che governa e amministra la casa (v. massare).
Massare: massaro, conduttore di un podere. Lat. dotto (IV-V sec. in una
iscrizione protomedievale) massarium; der. da massum (ammasso).
Massa ammasso-mucchio passa ad indicare complesso di fondi con
costruzioni annesse, Masseria.
Masserizie: nome collettivo ( sing. o plur. neutro) beni, proprietà fiscale,
massericia (VIII sec.).
Mastello: recipiente rotondo-tino. Dal greco dìnos.
Matarazze: materasso. Arabo matrah (cuscino), dalla radice taraha
(gettare, propr. luogo dove si getta qualcosa). L’ Italia è stata il punto
di partenza del termine dove sotto l’influsso dei volgari plumacium
è diventato matracium-materasso. Introdotto in Europa dai Crociati
approdati nei porti italiani.
Mazzola: arnese simile al martello per battere sulla pietra o sullo scalpello.
Dim. di mazzo, lat parl. matteam; orig ignota.
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Mbranna: spuntino di metà mattinata, di qua la possibile deriv. dal verbo
spuntare (togliere la punta) orig. non accertata.
Morra: gregge. Anche gioco popolare; etim. inc. (forse da un’antica
formula di gioco).
Mbrellare: ombrellaio. Lat. umbella dimin. di umbra (ombra) per
traslazione (ripara dalla pioggia).
Mpastora: laccio per bloccare le gambe anteriori degli animali al pascolo.
Dal lat. pastus.
Mbuttita: coperta imbottita. Da imbottare (mettere in una balla),
comp. da in + un deriv. di botte.
Mpasturà: voce verb. impastoiare (v. mpastora).
Menna: mammella, poppa. Voce merid. del vocab. cristiano,
anche neutro; grc. manna (cibo, nutrimento), ebr. man (interpretazione
della domanda del popolo ebraico a Mosè man hu, cos’è questa cosa?).
Mensola: lat. dotto mensola, comp. da ula (m) piccola + mensa (m) tavola.
Merlette: dimin. di merlo (guarnizione); voce popolare indoeur. occid.
Metetore: mietitore. Lat. mètere, corrispondenza diretta con il celtico e
indiretta con altre lingue indoeur.
Mmidiatore: mediatore. Lat. dotto medium, lat. pop. mezzo (che sta in
mezzo per mediare un accordo).
Mpestate: infestato-contagiato. Comp. parasintetico di peste con a raff.,
forse per influenza dello spagn. apestar (int. sec. XII).
Mugneture: luogo per la mungitura. Lat. tardo mungere, estratto da
emùngere; estens. indoeur.
Mugghiare: moglie. Lat. mulier-mulieris; etim. sconosciuta.
Mulitura: molitura. Lat. mòlere (triturare, macinare), impasto delle olive,
particio fut.
Munnule: frucandolo, asta munita di uno straccio bagnato per pulire
il forno dalla cenere prima di infornare le pizze o altro da cuocere.
Mezzana: aia. Lat. pop. mèdium, agget. sost. dal tardo lat. con signif. di
centro (spazio posto tra la masseria e il terreno, spazio limitato). Ma anche
nel significato di intermediaria, ruffiana.
Muriteche: bacio, zona esposta a Nord. Diffuso nei dialetti in vari modi
orig. sconosciuta; potrebbe derivare dal munirsi dei grossi navigli dietro
un grosso riparo di mattoni e calcina come una corazza per cui non era
raggiunto dal sole con suffisso co, lat. cum (murato con).
Mezzadria: contratto agrario (v. mizzadre).
Musale: tovaglia, greco mesàlon; di orig. sconosciuta.
Mezzètte: unità di misura per cereali e altro, piccolo mezzo.
Dal lat. medium (misura).
Mustaccione: mostacciolo. Dal deriv. mustoceum + suff. alo; presente in
tutti i dialetti italiani.
Mizzadre: mezzadro corrispondente al lat. parlato mediarum da medium
(che divide a metà) con influenza di mediatorem.
Mocrena: morchia. Dal verbo greco amèrgein (estrarre), amòrge (feccia
dell’olio); etim. inc. o amurca (liquido amaro) termine etrusco (600 a.C.).
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N
P
Naspature: naspo. Dal gotico haspo; naspo comp. da in + aspo (sull’aspo).
Pagghjare: primitiva costruzione di ricovero contadino, detto pagliaio per
la copertura fatta di paglia minuta e frasca. Lat. paliarium, der. da palea
(paglia).
Ncine: uncino. Lat. dotto uncinum, dim. di uncum; orig. indoeur.
Ncudene: incudine. Lat. tardo (VI sec. d.C.), dal ver. incùdere (battere);
comp. da in+cadere (battere sopra); orig. indoeu.
Pagliericcio: saccone riempito di paglia. Orig. indoeur.
Negghjare: chi sta nella nebbia. Lat. nebula (poco chiaro, buio);
orig. indoer.
Pan: dio Pan, gr. paein “pascolare”; pan “tutto”.
Nèvarole: chi produce la neve. Lat. nivem; orig. indoeur.
Panieraio: cestaio. Della stessa radice di pascere.
Nevèra: luogo sotterraneo in cui si conservava la neve d’estate.
(v. nèvarole).
Panare: cesto di vimini. Lat. panem da pascere.
Ntarsie: intarsio. Da tarsia + in illativo (che porta a conclusione),
dal verbo intarsiare.
Ntasse: intessere. Lat. dotto intèxere; comp. da tèxere + rafforzato da in
(sec. XIV), intrecciare insieme.
Ntirlante: punti di cucito posti a distanza tra linee. Agget. sost. comp. da
inter+linea (fra linee).
Nzanzane: sensale. Voce onomatopeica.
Panettèra: panettiera, tascapane, della stessa radice di pascere.
Panne: panni, biancheria. Lat. pannem; prob. fr. panneau (panno);
etim. inc.
Pannacciàre: venditore di stoffe (vedi panne).
Pantano: vocabolo preindoeuropeo.
Parche: parco. Dal franc. parc (recinto); orig. preidoeur.
Pasto: lat. pastum; da pascere (pascolare, mangiare).
Pascule: pascolo. Lat. pascum, pasculum; da pascere (pascolare).
O
Pastone: cibo per animali (miscuglio di acqua+farina di vario genere).
(v. pascule); orig. indoeur.
Orcio: lat. urceum; greco hirche (brocca).
Pastore: lat. pastorem (v. pascule).
Orlino: diminutivo di orlo. Lat. volg. orulum; dim. (ulu(m) di ora
probabilm. dall’antico signif. boccatura.
Pecora: lat. pecus pecoris. Orig. indoeur.
Ovile: lat. dotto ovilem, un deriv. di ovem (pecora); orig. indoeur.
Pertosa: asola. Lat. pertusiare; part. passato di pertùndere (forare);
comp. da per+tùndere (percuotere); orig. indoeur.
Peddaiolo: pellaiolo. Orig. indoeur. pel, rivestire.
Pestello: lat. pistellum-pistillum da pènsere (pestare); orig. indoeur.
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Pezza: pezzo di tessuto. Lat. volg. petiam. Orig. celtica.
Puscina: piscina. Lat. piscinam, da piscis (vivaio di pesci).
Pignata: pentola di terracotta. Lat. parl. pignattam, comp. da
pinguiam+ollam, radice pinguis, grasso (recipiente per conservare il grasso)
oppure da pigna per la forma.
Puzze: pozzo. Lat. puteum (fossa, buca); etim. incerta.
Pila: recipiente fisso per l’acqua (1298), di pietra. Lat. polam (mortaio)
della stessa radice pìnsere.
Quagghiarole: voce onomatopeica che produce il verso delle quaglie.
Pince: lat. pincius ovvero pinculus; mediante la forma delle scaglie che
formano la pigna matura sovrapposte l’una sull’altra. Rad. lat. pinea.
Q
Quagghiate: cagliato, latte coagulato per l’acidità del caglio aggiunto. Lat.
dotto coaugulare; comp. da co + deriv. da agere (riunire).
Pinza: voce onomatopeica, forse deriva dal fr. pince (pizzicare).
Quagghiata: insieme di prodotti cagliati cagliati, lat. neutro plur. (v.
cagliato).
Pittinicchje: piccolo pettine. Lat. pectem; greco ktèis (pettine, conchiglia).
Quagghià: cagliare, voce verbale (v. caglio).
Pesatura: atto del pestare i cereali con i piedi degli animali per ricavarne i
chicchi. Lat. classico pìnsere.
R
Pesature: pestello. Lat. parl. pistellum, clas. pistillum da pìnsere (pestare).
Pizzi: merletto, trina. Voce espressiva che significa punta, lembo.
Pozzulama: pozzolana. Lat. puteolanum (polverem) polvere di Pozzuoli
(Puteoli, dimin. di pùteus, pozzo) polvere di tufo di colore rosso, ricca di
salice.
Prejezza: allegrezza. Lat. parl. alacrem con passaggio di a a l e
sonorizzazione della c in g tipici del fr. allègre.
Promontorio: Lat. promontorium, comp. da pro+mons-montis
(avanti-monte), drv. di prominère (sporgere) incrociato con mons-montis.
Pucurare: pecoraio (v. pacora).
Pupa: lat. pupam; di orig. infantile-espressivo dal dialetto romanesco.
Purcare: porcaio. Lat. porcum con drv. porcarium; orig. indoeur.
Putaca: bottega: dal greco apothèca (deposito, bottega).
Racanàdda: piccolo telone (v. rachèna).
Rachèna: telone. Da racano (con diverse spiegazioni),
primitivo con una base indoeur. rak (k) (strisciare).
Ramèra: piatto di metallo ricoperto da un sottile strato di rame.
Tardo lat. parl. (950) aeramem, dvr, da aes, aeris (rame) orig. indoeur.
Ranna: grande.
Ranno: acqua di cenere bollente, che si versa sui panni da lavare;
long. rannja (mezzo per ammollare) o dal gotico rinnen (colare, scorrere);
orig. indoeur.
Rascère: braciere (v. vrascia).
Risciarà: voce verb. bruciare.
Ratta: voce verbale, grattare. Germanico kratton, prov. grator.
Rattacasce: gratta cacio. Nome comp. da gratta+cacio; (v. ratta)
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Refuste: aggiunta. Lat. refusum, da refùndere versare;
comp. dal rafforzativo re+fùndere.
Rèseca: parte tagliata di un terreno (v. resecà).
Resecà: voce verbale resecare (stringere, diminuire). Lat. resecare;
comp. da secare+re (tagliare via).
Resinare: impastare di nuovo per fare pagnotte. Forse comp. dal pref. re
(di nuovo)+sin, dal greco syn (prep. insieme, con; primo elemento in parole
composte di origine greca che indica unione).
Recame: ricamo. Arabo raqama, raqqama (ricamare), a cui rimangono
fedeli molte varianti antiche e dialettali con rac iniziale. Le voci
corrispondenti in francese e spagnolo sono state introdotte dall’Italia.
Recamà: verbo ricamare (v. recame).
Resorie: rosolio, liquore preparato con acqua, zucchero in egual quantità
e con l’essenza che gli dà il nome tratto dalla pianta dallo stesso nome:
Drosera rotundi folia. Dal fr. rossolis-rosoli-rosolio.
Ricinte: participio passato. Lat. dotto recìngere (legare-sciogliere-legare di
nuovo), dal duplice significato positivo e negativo dato dal prefisso re.
Ristoccia: ristoppia. Lat. stupulam; comp. di stoppia + prefisso re.
Rota: ruota. Lat. rotum (ruota) di larga espansione indoeuropea.
Rote: teglia di vario materiale di forma rotonda di qui il nome.
Rurale: tardo lat. dotto ( fine del sec. III d.C.) ruralem,
da rus-ruris (campagna); orig. indoeur.
Rutadda: piccola ruota (rotella): insieme di covoni disposti in
forma rotonda, di qui il nome.
Razzolare: dall’alto tedesco antico razzen (raschiare);
comp. da razzare con l’infisso al.
S
Sacciare: grosso ago. Dal fenicio sac (stoffa grossa) attraverso il greco
sàkkos (usato per cucire stoffe dure, di sacco).
Salvietta: dal fr. serviette, servir (servire).
Sanare: etim. incerta, forse dal vocabolo di gergo militare,
sanum (mutilare).
Sanguetta: etim. incerta (v. sanguisuga).
Sanguettaro: chi alleva o vende sanguisughe; etim. incerta.
Sanguisuga: comp. da sangue+sùgere (succhiare sangue).
Sarte: sarto, lat. sartor, sartus part. pass. di sarcire (rammendare)
orig. incerta.
Sbanbià: svagarsi. Voce ver. dal lat. parl. exvagare, clas. evagari;
comp. da ex+vagari.
Scanne: scanno. Lat. scannum; orig. indoeur.
Scannetedde: piccolo scanno.
Scaforchio: vicolo. Greco skàphos (luogo chiuso, senza uscita).
Scardalana: cardalana. Dal greco kardìa (cuore) + lana + suff. s con val.
privativo-peggiorativo.
Scarpare: calzolaio. Varie le ipotesi, prob. dal germ. skarpa (tasca di pelle);
der. franc. escharpe (XII sec. sacoche, bourse).
Scarpata: prob. gotico skrapa (appoggio, sostegno); forse come uso
metaforico di scarpa, come calco dotto del lat. crepido, da crepida.
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Scazzeca: portare al pascolo; orig. sconosciuta.
Sckanatora: spianatoia. Verbo lat. explanare, spiegare; ex e planus,
piano, semplice.
Sciavorta: giovane pecora. Prob. p.p. di sceverare (separare);
lat. volg. exparare comp. da ex+seperare.
Sgranato: togliere dall’ingranaggio; da ingranare, composto paras.
Con cambio di prefisso, di grano con prefisso s con funzione derivativa.
Smerle: punto per rifinire la biancheria. Comp. parasintetico di merlo
(merletto) + prefisso s.
Sonaglio: lat. volg. sonaculum da sonare (suonare); dal prov. sonalh.
Sciarabbà: calesse. Fran. char ‘a bancs, carro a banchi (sedili di legno).
Spanne: voce verbale stendere. Long. spanna, aperta.
Scisciule: voce onomatopeica; dalla rad. lat. sonare (suonare) sonaglio.
Sponne: comp. da de+ponère (porre da, porre giù) deporre.
Scuparadda: dim. di scopa. Da scopam. Lat. scopam (nome di pianta),
poi strumento per spazzare perché fatto con i rami secchi di questa pianta.
Spruatore: potatore. lat. putare (tagliare, sfrondare); orig. indoeur.
Scurpuratura: togliere da un insieme. Da incorporare con cambio
di prefisso.
Sdlavata: che ha colore smorto, che scivola, da lavato con prefisso s con
valore intensivo.
Squarce: apertura. Der. a suff. zero dal lat. parl. exquartare; comp.
parasintetico di ex+quartus (spaccare in quattro).
Stagnare: voce verbale. Forse di orig. gallica, stagno elemento chimico
bianco argento.
Sduvacà: svuotare. Da de-vacare lat.
Statàia: stadera. Accus. della voce greca statès-statèros, denomin. di un
peso e di una moneta; orig. indoeur.
Secchia: lat. parlato siclam; medievale siclum; etim. incerta.
Stazzo: Lat. med. statio stationis (fermata, sosta), der. da stare.
Seggia: sedia. Etim. non chiara; prob. da ant. seggio [prima pers. del ver.
(sedere) o dal fr. siege (siedo)].
Strapoletta: strambotto. Orig. incerta, forse sovrapposizione di strambo
al provenz. estribot.
Sellaio: lat. sellam, radice di sedere.
Sulagna: luogo solatìo. Lat. parl. solatum.
Sensale: mediatore: arabo simsar; dal persiano sapsar.
Setarola: setaccio. Saeta IX sec. (setola, crine), rete di fine metallo.
Sfirrà: voce verbale comp. da ferro + prefisso s (togliere i ferri).
Sfurnata: part. passato, neutro plurale di sfornare (tirare fuori);
comp. parasintetico con il pref. s.
T
Tagghiola: tagliola. Lat. tardo (IV sec. d.C.) taleolam (piccola talea, forse
per la forma) o talea (trappola militare) o talum (calcagno).
Tamburredde: tamburello. Orig. orient. tambur (strumento a corde sec.
XIII) in sostituzione al timpano, forse ad opera dei crociati.
Il passaggio da strumento a corde a strumento a percussione é spiegabile
Rosa Di Maggio. Le Radici della mia Infanzia
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o con la facile confusione dell’arabo tabùl (tamburo) o con una
interpretazione onomatopeica tambur.
Trapene: trapano. Greco trapano dal verbo di orig. indoeu. trypàn
(forare, con suff. di strumento tra, con significato di movimento).
Taralle: tarallo. Etim. oscura; probab. appartenente ad una radice
italica tar (avvolgere) o dal francese antico toral (seccatoio) dal lat. torrère
(probabilmente perche venivano cotti al forno dopo averli lessati e fatti
asciugare); o dal greco doratos (abbrustolito).
Trappite: trappeto, frantoio. Lat. trapètum, greco trabèo (stringo, spremo),
ionico per tré po’, torco (con il torchio).
Telare: telaio. Deriv. popol. telarium, legato al verbo tèxere (tessere)
attraverso un intermedio teksikà.
Terrazzo: termine agrario, sistemazione a gradini di terreni in pendio.
Lat. ant. terratium.
Terrazzamento: sistemazione a ripiani orizzontali di terreni delle zone
montuose, coltivabili (v. terrazzo).
Terrapieno: massa di terra addossata ad altre opere per arginare.
Dal fr. terrapin.
Tratture: tratturo. Dal lat. tràhere (trascinare, largo 60 passi, m.111).
Tratteuredde: tratturello per strade secondarie (v. tratturo; m. 37.27;
m.18).
Trebbiatura: trebbiatura (v. trebbià).
Tribbià: verbo trebbiare. Lat. trebulare variante di tribulare da tribullum
(trebbia, deriv. dal perf. del verbo tèrere, tritare).
Tribballacche: strumento musicale popolare onomatopeico
(dal suono delle nacchere).
Trine: merletto, pizzo. Lat. trinam (tre insieme) voce fiorentina.
Traienalla: carretta. Dim. di carro con due ruote,
a sponde alte. (v. carro).
Trippède: trepiedi. Lat. medie. trespedem comp. di tres+pedem (tre piedi).
Traine: carro. Lat. parl. traginare (parallelo al classico tràhere,
tirare-trainare); dal fr. trainer-train.
Trottola: dal franc. trotton (correre) o dal pertic. passivo tòrtus,
verbo latino torquère (torcere).
Traienèdde: carretto. Dim. di carro con due ruote (v. carro).
Tuwagghia: tovaglia. Dal franc. thwahja (giunta attraverso il fr.) o da
tagaliam (tovaglia).
Traienere: carrettiere (v. carro).
Tramonia: tramoggia. Lat. tramodia (tre moggi, unità di misura)
o contenente tre moggi di materiale o dal verbo trèmere (tremare) per il
continuo movimento o modium con valore di tubo che regola il flusso.
Transumanza: comp. da trans+humus (attraverso le terre, alla ricerca di
pascoli).
Trispete: trespolo (per sorreggere il letto; v. trippède).
U
Uade (o Vuade): guado; lat. vàdum verbo vadere (andare) con gua-ova di
inflazione germanica.
Uannetore: banditore. Gotico bandwjon, fare un cenno; lat. uannum,
editto, grada con tromba o tamburo.
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Uarnemente: guarnementi, ornamenti. Lat. dotto per or(d)nare
(per un legame tra ordine e armonia).
U(o)liva: lat. elaiva; greco elàia.
U(o)liveto: lat. olivetum; comp. da elàiv+suff. collettivo di orig. indoeu.
U(o)livo: lat. olivum; greco arcaico elaìvon, class. elaion.
Ugghiaiole: compratore-venditore d’olio (vedi oliva).
Vispaie: vespaio (camera d’aria riempita di pietre piccole tra il suolo e il
pavimento per proteggere dall’umidità). Lat. vespam; di orig. indoeu.; di
formazione italica.
Visaccia: bisaccia. Lat. bisacciam, collettivo di bisaccium;
comp. da bis+saccum (doppio sacco).
Vocca: bocca. Lat. buccam (guancia, con Catone bocca).
Voria: bora. Lat. boream (tramontana); greco borèas; et. incerta.
V
Vrascia: voce region. germ. brasa.
Vaccare: vaccaio. Voce antica e popolare che trova riscontro nel sanscrito,
forse del linguaggio sacrificale indoeu.
Vruccale: brocco(lo). Lat. broccum (sporgente, oggetto puntuto in
Varrone “dentes brocchi”).
Vagnà: voce verb. (bagnare). Lat. balneare; un tardo der. latino balneum
(bagno).
Vuccone: boccone (v. bocca).
Vammacia: bambagia. Lat. bambagia, dal greco pàmbaks (prestito persiano)
pambàkion.
Vuntuluià: verbo ventilare. Dal lat. ventus, ventilare (gettare in aria con la
pala i cereali, diffuso nell’area meridionale). Orig. indoeuropea.
Vandèra: banda (grembiule). Fr. antico bende, bande da un germanico
bènda.
Vurtìcchje: piccolo pezzo rotondo di legno che si mette alla parte
inferiore del fuso per appesantirlo e per o urticchje: creare equilibrio e farlo
girare su se stesso per attorcigliare il filo. Etim. inc. voce meridionale.
Vandiera: vassoio. Lat. medievale missorium (bacino per portare (mittere)
le vivande); raccostato secondariamente a vasum.
Z
Varda: sella senza staffe. Dall’arabo bàrda ‘a (basto).
Vardare: sellaio (v. varda).
Varra: barra, spranga per chiudere l’uscio. Forse dal lat. parl. barram
di orig. preromana.
Varreciadda: piccola spranga (v. varra).
Vicolo: lat. dotto, dim. di vicum (borgo, strada).
Zampìtte: sorta di calzatura a punta fatta con pelli solitamente di capra
con il calcagno nudo dove si allacciava una cordicella (la zuculedda)
incrociata sul dorso del piede e poi a più giri sulla gamba (oggi i cosidetti
sandali alla romana, alla schiava), usati dai contadini di montagna.
Dim. di zampa, der. da zampettare (v. zappa).
Zappa: lat. medievale zappus; di orig. sconosciuta, prob. da zappo
(caprone).
Rosa Di Maggio. Le Radici della mia Infanzia
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Zavorra: lat. saburram che nella parte iniziale forse è legata a sabulem
(sabbia) e nella finale ad una voce di tramite etrusco.
Zeppa: piccolo cuneo di legno da inserire come sostegno. Prob. longob.
zippa (estremità appuntita) o antico termine mediterraneo-balcanico
(termine centro-meridionale zeppo, stecco), lat. cippus.
Zichedebù: zechedebù (tamburo a frizione), suono onomatopeico.
Zucare: funaio (v. fune).
Zoca: fune. Tardo lat. sogam (voce merid.); etim. incerta, prob. greco
zeugnumi (legare).
Zuculedda: diminutivo di zoca, (v. zoca).
Zizza: capezzolo, poppa, mammella. Merid. popolare; nel gergo pastorale
la prima fuoriuscita del latte. Dal long. zizza, capezzolo.
Bibliografia
Rosa Di Maggio. Le Radici della mia Infanzia
Bibliografia
278
279
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M. Totta: “Pietre di fuoco” San Giovanni Rotondo, 2002.
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M. Cartellazzo, P. Zolli, Deli: Dizionario etimologico della lingua
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La valorizzazione del Pantano di Sant’Egidio e la Via Sacra
Langobardorum a cura dell’Assessorato Urbanistica, N. Squarcella,
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Convegno 12-12-1998.
G. Privitera: “A tavola con i nonni”, Foggia, 1995.
M. Biscotti: “San Giovanni Rotondo ai tempi di Padre Pio”, Graf. Gercap.
Foggia-Roma, 2006.
Varie testimonianze orali.
Indice
11
Presentazione
17
Note introduttive
23
Il Gargano
27
capitolo i
I Mestieri legati alla Pastorizia
29
35
38
41
44
46
51
54
56
58
60
62
Lu Pucurare. Il Pecoraio
La Transumanza
La Carosa e Li Casurature. La Tosatura e i Tosatori
Lu Scardalana. Il Cardalana (Scardassiere)
Lu Crastatore. Il Castratore
La Fiera
capitolo ii
I Mestieri di Artigianato legati
all’Ambiente Contadino
Lu Vardare. Il Sellaio
Lu Zucare. Il Funaio
Il Garzone di Bottega
Lu Canestrare. Il Panieraio
Lu Stagnare. Lo Stagnino
67
69
70
72
75
76
78
capitolo iii
I Lavori Porta a Porta
L’Umbrellare. L’Ombrellaio
Lu Sanapiatte. Il Riparapiatti
Aneddoto
L’Ammolafroffecia. L’Arrotino
L’Adascia Lavature. (Chi rifà con l’ascia la scalinatura
dello stropicciatoio)
Lu Lattare. Il Lattaio
81
capitolo iv
Gli Ambulanti
83
86
87
90
92
94
96
100
102
104
109
111
114
Lu Gelatere. Il Gelataio
L’Industria della Neve
Antonio Pinozzo
Lu Cinciare. Lo Straccivendolo
Lu Ghjarulare. Il Compratore d’Olio
Lu Capillare. Il Compratore di Capelli
L’Olivo
I Piccoli Venditori di Scuparadde (Scoparelle)
Lu Mastre d’Ascia. Il Maestro dell’Ascia
Gli Strumenti Musicali
Lu Carevunere. Il Carbonaio
Le Antiche Bilance
L’Accatta Iova. Il Compratore di Uova
117
119
122
124
126
129
132
133
136
139
141
143
145
147
149
152
156
157
160
163
168
170
173
175
capitolo v
Artigiani di Bottega
Lu Mastre Carre’re.
Il Maestro Carraio, Costruttore di Carri
Lu Ferrare. Il Fabbro
Lu Scarpare. Il Calzolaio
Lu Cusciutore. Il Sarto
Il Maestro dell’Ago e del Filo
Lu Seggiare. Il Seggiolaio
La Buffetta
Aneddoto
capitolo vi
Arti e Mestieri
Lu Sangnettare. Il Venditore di Sanguisughe
Lu Trainere. Il Carrettiere
Lu Spruatore. Il Potatore
Aneddoto
Lu Furnare. Il Fornaio
La Panificazione
Li Miteture. I Mietitori
La Metetora. La Mietitura
La Macinatura. La Molitura
L’Estrazione dell’Olio delle Olive
Li Spiculatrice. Le Spigolatrici
La Lavannara. La Lavandaia
Aneddoto
Lu Uannetore. Il Banditore
177
179
183
186
189
191
197
202
206
207
208
213
217
217
219
221
223
226
227
228
230
231
232
233
capitolo vii
Le Arti Femminili
La Majastra de Cosce. La Sarta
La Cupurtara e la Matarassara. La Copertaia e la Materassaia
La Ricamatrice e la Merlettaia
L’Esposizione del Corredo
La Mammana. La Levatrice, l’Ostetrica
capitolo viii
Architettura Rurale del Gargano
Muro a Secco
Terrazza
Aia
Pagliaio
Cisterna
Mungitoio
Recinto
Appendice di Approfondimento
San Giovanni Rotondo
Il Tavoliere
La Dogana
La Transumanza
I Tratturi
L’Abigeato. Furto del Bestiame
Il Casciere
Il Caciocavallo
La Bagliva
234
234
235
La Calce
Le Cave
Sant’Egidio di Pantano
241
Le Antiche Unità di Misura
nel Regno di Napoli
247
Piccolo Vocabolario Etimologico
277
Bibliografia
Finito di stampare
nel mese di maggio 2013 presso
Caputo Grafiche, Borgo Celano
San Marco in Lamis (Fg)