Il nome della rosa - Atlante digitale del `900 letterario
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Il nome della rosa - Atlante digitale del `900 letterario
Atlante digitale del '900 letterario www.anovecento.net Umberto Eco Il nome della rosa Capolavoro indiscusso dell’autore alessandrino, Il nome della Rosa fu pubblicato per la prima volta nel 1980. Nonostante il consenso unanime sul successo del romanzo, Eco lo ha definito come il suo «peggiore libro» e nel 2011, al Salone del libro di Torino, ha affermato: «Odio Il nome della Rosa e spero che anche voi lo odiate». Ad oggi il libro è di fatto un best seller. L’opera è costruita sul tòpos manzoniano del manoscritto ritrovato. Il libro che il lettore ha tra le mani risulta infatti la traduzione in francese di un testo steso dal novizio benedettino Adso da Melk. Questi è il narratore del romanzo, ambientato nell’anno 1327 in un’abbazia dell’Italia settentrionale, la cui collocazione precisa non è nota. Adso, ormai anziano, racconta le vicende di Guglielmo da Baskerville, un brillante monaco dall’incredibile fiuto poliziesco, incaricato dall’imperatore di fare luce sulle delittuose vicende che gravitano intorno all’abbazia. L’azione si svolge nell’arco di sette giornate e ogni giornata è scandita dalle ore liturgiche. Dopo la scoperta della prima vittima, con il passare dei giorni, aumenta anche il numero dei morti; si arriva, così, ad un numero totale di sette in altrettante giornate. Alla fine Guglielmo riesce a portare a termine l’incarico, svelando così l’arcano che avvolge l’abbazia. Curiosa è la questione che ruota attorno a un misterioso libro maledetto, che, alla fine del romanzo, risulta essere Poetica di Aristotele, saggio filosofico che tratta della commedia e del riso, e, in maniera inaspettata, è esso stesso la causa della morte delle sette vittime. La figura di Guglielmo è sicuramente emblematica e ricorda quella di Sherlock Holmes. Eco si è ispirato, indubbiamente, al protagonista dei romanzi di Sir Arthur Conan Doyle; e non solo: il nome Adso ricorda, a livello fonetico, quello del dottor Watson). Per quanto riguarda il genere dell’opera, esso è di difficile collocazione: catalogarlo come giallo sarebbe limitante, in quanto sembra spaziare dal genere storico al poliziesco, passando anche attraverso il comico. L’ironia, infatti, è un’altra delle tante peculiarità del romanzo; lo stesso Eco affermò «La risposta post-moderna al moderno consiste nel riconoscere che il passato, visto che non può essere distrutto, perché la sua distruzione porta al silenzio, deve essere rivisitato: con ironia, in modo innocente». E, così, il romanzo si rivela figlio più che legittimo dell’autore post-moderno, il quale ha aderito al Gruppo 63 e alla Neoavanguardia, movimenti letterari degli anni Ottanta. Lo stesso autore spiega il perché decise di impostare il romanzo in questo modo: «Personalmente ho trovato nella tematica del postmoderno un modo interessante per rivisitare la letteratura precedente attraverso procedimenti citazionistico-ironici. Ma se ci pensiamo bene questo lo avevamo teorizzato nella seconda riunione del Gruppo 63, quando due anni dopo nel ’65, si diceva che ormai il romanzo sperimentale era arrivato a un punto zero. Come in pittura si era arrivati alla tela bianca, in poesia alla pagina vuota, in musica al silenzio, così anche nella narrativa si era raggiunto un “point of no return”. Mi ricordo che Renato Barilli diceva di recuperare un’avventura “altra”, che non www.anovecento.net fosse quella tradizionale, ma al contrario fosse densa di nuove sperimentazioni. Quindi quando ho iniziato a scrivere romanzi mi sono ispirato piuttosto a quei discorsi che si facevano allora in merito a un recupero della narratività attraverso l’ironia oppure, come si suol dire, la “decostruzione” narrativa, termine che però non amo usare. Da qui il mio gusto per gli incassamenti dei punti di vista, i flashback o le strutture temporali molto complesse e soprattutto per la metanarratività, dove il romanzo riflette su se stesso e sulla propria forma. Se tutto questo è tipico del postmoderno allora mi ci ritrovo, come nel caso del doppio codice, secondo cui se in architettura postmoderna si possono fare citazioni del frontone del Partenone o di una cupola di Borromini e poi ci può essere l’utente che coglie questa citazione basata sul gioco e sull’ironia, e quello che non la coglie ma gode ugualmente di una struttura architettonica bizzarra, altrettanto nei miei romanzi, che sono così densi di allusioni intertestuali, ci può essere questo doppio codice». Il linguaggio utilizzato nel romanzo richiama il carattere provocatorio della nuova letteratura, della protesta contro l’assetto della realtà e contro il realismo. Siamo dunque di fronte a un’opera moderna come “opera aperta”, costruita sulla disgregazione dei linguaggi, sull’uso del plurilinguismo (linguaggi da diverse aree, discipline, livelli) a cui aspirano i membri appartenenti al Gruppo 63. Eco ha usato la tecnica dell’intertestualità, che consiste nella ripresa, spinta fino alla citazione più o meno letterale, di espressioni o brani ricavati da altri testi, di varia origine e provenienza, come l’Apocalisse, i Vangeli, il Cantico dei Cantici e diversi altri filosofi antichi e medievali, che hanno reso l’opera un romanzo pastiche. Un’ulteriore riprova dell’impostazione citazionista del romanzo è data, infine, dalle parole dello stesso Guglielmo da Baskerville: «I libri parlano sempre di altri libri». Una delle prime domande che sorge spontanea al lettore è sicuramente relativa al motivo dell’utilizzo di un tale titolo per il romanzo. Eco risponde affermando: «Avevo tirato giù una decina di titoli, tra cui il primo era Delitti all'abbazia e il meno ovvio era Blitiri, un termine usato dai logici medievali per indicare una parola senza senso. Il nome della Rosa è venuto fuori all'ultimo, proprio pensando all'esametro finale: e come facevo vedere la lista agli amici, tutti mi indicavano quello. In fondo piaceva anche a me perché non c'entrava niente col libro, benché poi tutti abbiano cercato di darne interpretazioni sottili». L’ultima frase del romanzo, «stat rosa pristina nomine, nomine nuda tenemus», è quella che però ha generato più confusione e curiosità tra i lettori. Questo esametro, tradotto, vuol dire «la rosa primigenia esiste nel nome, noi possediamo solo i nomi». L’intero esametro assume diverse sfumature interpretative in base a quale significato si vuole attribuire alla parola «pristina», che, dotata di un valore polisemico, può assumere contemporaneamente i significati di precedente, antico, passato, primigenio, primitivo, che è all’origine. Tradotto letteralmente, il verso di Eco intende sottolineare che al termine dell’esistenza della rosa particolare, ne rimane solo il nome dell’universale. Contributo Diletta Ceschini e Maria Orati, III I (L.C. Virgilio Roma) www.anovecento.net