credi tu questo? - Villa Elena da Persico

Transcript

credi tu questo? - Villa Elena da Persico
2° - 2012/13
Don Franco Mosconi
CREDI TU QUESTO?
(Gv 11,26)
La fede è decidere di stare con il Signore per vivere con Lui.
LA FEDE DIFFICILE DI MOSÈ
DALLA PAURA AL CANTO DI GIUBILO
[ES. 14,10-18]
EVANGELIZZARE È COMUNICARE LA LIETA NOTIZIA
____________________________________________________
Affi – Villa Elena, 17 novembre 2012
Don Franco Mosconi
Affi, 17 novembre 2012
Come sempre iniziamo con il canto e una preghiera:
Signore Gesù,
nel nostro cuore abita il credente e il non credente;
essi lottano: qualche volta prevale il credente,
in altre occasioni prevale il non credente.
Vi sono momenti in cui la tua parola ci riempie di entusiasmo,
altri momenti nei quali essa diventa muta e non ci parla.
Vi sono tempi nei quali la fede ci spalanca larghi orizzonti,
e tempi nei quali la fede ci pare un peso insopportabile.
Anche noi, Gesù, conosciamo l’incredulità.
Qualche volta ci sentiamo vicini a te, proclamiamo di conoscerti,
altre volte diventiamo indifferenti,
quasi che la tua presenza non ci dica nulla.
Signore, tu conosci i nostri cuori, sai le nostre debolezze
e non ti scandalizzi della nostra incredulità,
ma continui a camminare verso la Città Santa
per rivelarci sino al dono della vita quanto ci ami.
Amen.
Oggi rifletteremo sulla difficile fede di Mosè.
LA FEDE DIFFICILE DI MOSÈ
DALLA PAURA AL CANTO DI GIUBILO
ES. 14,10-18
[10] Quando il faraone fu vicino, gli Israeliti alzarono gli occhi: ecco, gli Egiziani muovevano il campo
dietro di loro! Allora gli Israeliti ebbero grande paura e gridarono al Signore.
[11] Poi dissero a Mosè: “Forse perché non c'erano sepolcri in Egitto ci hai portati a morire nel deserto?
Che hai fatto, portandoci fuori dall'Egitto?
[12] Non ti dicevamo in Egitto: Lasciaci stare e serviremo gli Egiziani, perché è meglio per noi servire l'Egitto
che morire nel deserto?”.
[13] Mosè rispose: “Non abbiate paura! Siate forti e vedrete la salvezza che il Signore oggi opera per voi;
perché gli Egiziani che voi oggi vedete, non li rivedrete mai più!
[14] Il Signore combatterà per voi, e voi starete tranquilli”.
* * *
[15] Il Signore disse a Mosè: “Perché gridi verso di me? Ordina agli Israeliti di riprendere il cammino.
[16] Tu intanto alza il bastone, stendi la mano sul mare e dividilo, perché gli Israeliti entrino nel mare
all'asciutto.
[17] Ecco io rendo ostinato il cuore degli Egiziani, così che entrino dietro di loro e io dimostri la mia gloria
sul faraone e tutto il suo esercito, sui suoi carri e sui suoi cavalieri.
[18] Gli Egiziani sapranno che io sono il Signore, quando dimostrerò la mia gloria contro il faraone, i suoi
carri e i suoi cavalieri”.
NOTE INTRODUTTIVE
Il tema di fondo è l’uscita dalla schiavitù d’Egitto.
2
Prenderemo in considerazione un testo ancora più ampio: da Esodo 13,17 a Esodo 15,21. In tale sezione
viene narrata l’uscita di Israele dall’Egitto, il vero e proprio esodo, che si svolge in base ad una certa
sequenza di avvenimenti, culminanti nella traversata del Mar Rosso.
Per cogliere in profondità il vero significato di questa narrazione, è utile distinguere tra la realtà storica dei
fatti raccontati e le interpretazioni teologiche, che tali fatti subirono nell’ambito delle tradizioni di Israele.
In tal modo si riuscirà ad afferrare quella forza di testimonianza, di annuncio, che dalla fede di Israele si
rivolge direttamente alla nostra stessa fede.
Secondo la tradizione ci sono due diversi modi, due diverse tradizioni, relative all’ uscita di Mosè con il
popolo: una la vede come una fuga, e una come una espulsione.
Dall’esame dei nomi delle località che compaiono nel racconto dell’Esodo, si rivelano due itinerari diversi.
Nell’attuale racconto, i due modi di uscita dall’Egitto, avvenuti in epoche diverse, per motivi diversi e strade
diverse, sono fusi in un’unica narrazione, che poi si è venuta polarizzando attorno al racconto della fuga, di
cui fu protagonista il gruppo guidato da Mosè verso il 1250 a.C..
Tale racconto conserva un ruolo determinante: il ricordo di questa fuga è anche legato al miracolo del mare
che si divide.
Quindi si individuano due modi di presentare anche il miracolo del mare.
Nel testo che abbiamo letto, i tre asterischi dividono i due brani:
- una prima presentazione raffigura Mosè in veste di protagonista, che con il suo bastone fende in
due le acque consentendo agli Israeliti di passare sull’asciutto; poi l’ordine alle acque di
ricongiungersi sommergendo gli Egiziani che si erano lanciati all’inseguimento dei fuggitivi;
- la seconda presentazione mette in primo piano l’intervento guerriero di Javhè che conforta gli
Israeliti spaventati, getta la confusione tra gli Egiziani e li sconfigge miracolosamente.
Quel che conta per noi, è prendere atto che con questa pagina Israele ha inteso testimoniare la propria
fede nella salvezza operata da Javhè.
L’AVVENIMENTO CENTRALE DELLA NOSTRA FEDE
Qui veramente tocchiamo uno degli eventi centrali anche della nostra fede. Quando diciamo: “gli Ebrei, i
nostri fratelli maggiori”, diciamo il vero, poiché questo avvenimento tocca anche noi, specialmente
durante la Veglia Pasquale. Nella nostra attuale liturgia pasquale questo testo di Esodo 14 fino a 15 è la
terza lettura della Veglia, è l’elemento centrale, cui segue il Cantico di Esodo 15.
Già gli antichi Padri cristiani hanno commentato ampiamente questo passaggio del Mar Rosso, vedendolo
come la profezia della Pasqua cristiana.
In fondo quando gli Ebrei si radunano per la loro pasqua, celebrano l’evento del passaggio del Mar Rosso: la
liberazione, che per noi è profezia della vera liberazione che è passaggio dalla morte alla vita: il Cristo
morto e risorto.
L’“Exultet”, che cantiamo o recitiamo nelle chiese la Veglia di Pasqua, cosa dice?
Questa è la notte in cui hai liberato i figli di Israele, nostri Padri,
dalla schiavitù dell’Egitto e li hai fatti passare illesi attraverso il Mar Rosso.
Questa è la notte in cui hai vinto le tenebre del peccato
con lo splendore della colonna di fuoco.
Questa è la notte che salva su tutta la terra i credenti nel Cristo
dall’oscurità del peccato e dalla corruzione del mondo;
li consacra all’amore del Padre e li unisce alla comunione dei Santi.
É già uno splendido commento al testo che stiamo per meditare, testo di fronte al quale si rimane stupiti
per ciò che ha significato per tutte le generazioni cristiane, dai commenti dei Padri alle catechesi
battesimali della Chiesa antica, fino a noi.
SIAMO BATTEZZATI IN MOSÈ
C’è qualcosa da ricordare prima di occuparci direttamente del testo: è il fatto che già Paolo faceva meditare
su di esso i suoi cristiani.
3
Nella 1^ Cor 10 Paolo scrive: Non voglio infatti che ignoriate o fratelli
che i nostri Padri furono tutti sotto la nube,
tutti attraversarono il mare,
tutti furono battezzati in rapporto a Mosè,
nella nuvola e nel mare.
Cosa vuol dire “essere battezzati in Mosè”.
Significa che hanno preso su di loro il rischio di Mosè.
Nella notte, in mezzo al Mar Rosso, c’era un rischio, un battesimo, da affrontare.
I cristiani, nella Pasqua Ebraica, dovrebbero aggiungere: “anche noi eravamo là, anche noi siamo stati
battezzati con i Padri”.
L’esperienza del Battesimo, che noi riceviamo in Cristo, si collega con quella che è stata l’esperienza dei
Padri: meditando il loro battesimo, non meditiamo un’esperienza a noi estranea, ma quella che è l’inizio, la
spiegazione, il tipo della nostra esperienza battesimale fondamentale.
Quindi essi “furono battezzati in Mosè” così come noi siamo battezzati in Cristo.
Nella nostra riflessione ci chiederemo che cosa significhi questa frase: «furono battezzati in Mosè», dato
che Paolo la usa con tanta forza.
Nel N.T., c’è un altro testo molto importante, in cui il cammino sotto la guida di Mosè viene interpretato
proprio come un cammino di fede: Eb.11,27-29:
Per fede lasciò l'Egitto, senza temere l'ira del faraone; rimase infatti saldo, come se vedesse
l'invisibile.
Per fede celebrò la pasqua e fece l'aspersione del sangue, perché lo sterminatore dei
primogeniti non toccasse quelli degli Israeliti.
Per fede attraversarono il Mare Rosso come fosse terra asciutta; questo tentarono di fare anche
gli Egiziani, ma furono inghiottiti.
L’autore della lettera agli Ebrei intende affermare che la fede dei cristiani è in continuità con quella che fu
la fede dei Padri.
Poste queste premesse, ho pensato di proporvi questa riflessione in modo molto semplice, suddividendola
in 4 parti:
~ LA NOTTE DEL TERRORE;
~ CHE COSA FARÀ MOSÈ;
~ IL PASSAGGIO DEL MAR ROSSO;
~ IL CANTO PASQUALE DEI BATTEZZATI.
Adesso dovremmo immaginarci la scena.
Pensate a questi Ebrei che stanno fuggendo e arrivano sulla sponda del Mar Rosso.
LA NOTTE DEL TERRORE
Il primo punto è presente in Es. 14,10:
Quando il faraone fu vicino, gli Israeliti alzarono gli occhi: ecco, gli Egiziani muovevano il
campo dietro di loro! Allora gli Israeliti ebbero grande paura e gridarono al Signore.
“Siamo perduti!” gridarono gli Israeliti. Ecco perché parlo di ‘NOTTE DEL TERRORE’.
Per cercare di capire meglio cosa stia avvenendo, quando gli Israeliti furono presi da grande paura, ho
costruito un piccolo midrash.
Cos’è il midrash? Il midrash nella letteratura rabbinica è un racconto con un messaggio interessante.
-Il midrash della tenda- Immaginiamo la scena:
La notte cala molto presto nel deserto. Siamo all’inizio della notte. A qualche centinaio di metri dalla
spiaggia, dove c’è l’accampamento degli Ebrei, si sentono le onde del mare. Si accendono i primi fuochi.
Sono tutti affaccendati. Raccolti in piccoli capannelli gli uomini discutono, gesticolano. Si avverte qualcosa
di grave nell’aria: sembra che una tragedia si stia avvicinando, perciò cresce l’eccitazione.
4
Ci avviciniamo a questo accampamento e chiediamo spiegazione: ci viene indicata una grande tenda al
centro del campo. Ci avviciniamo alla tenda e cerchiamo di vedere cosa sta avvenendo là dentro: c’è un
uomo pallido, ansimante, senza parola e, intorno a lui, altri uomini con lunghe barbe, con i pugni tesi.
Comprendiamo che quell’uomo deve essere Mosè e gli altri gli anziani di Israele. Cosa fa Mosè? É fermo, sta
zitto, sembra quasi paralizzato.
Gli anziani di Israele che cosa fanno? Parlano, gridano, inveiscono, come fanno gli Orientali quando si
adirano.
Cerchiamo di capire cosa dicono, cosa avviene in quella tenda.
É un momento drammatico.
Uno dice: “Ecco,Mosè, dove ci hai portato! Ti abbiamo creduto, pensavamo che Dio ti avesse parlato, e
invece siamo qui a morire come topi. O ci gettiamo in mare e moriamo annegati o ci lasciamo uccidere dal
faraone. Ecco dove siamo: è la fine per Israele!”.
Un altro si alza e dice: “Credevamo che tu Mosè fossi cambiato. Ti conoscevamo imprudente e cocciuto, ma
pensavamo che il deserto ti avesse giovato. Invece, sei rimasto tale quale eri e ci hai fatto precipitare in
questo disastro”.
Sospendiamo brevemente l’ascolto della disputa in quella tenda per cercare di capire cosa avviene nel
cuore di Mosè.
Mosè ascolta le dichiarazioni degli anziani di Israele, ma non può dimenticare quello che gli è successo,
quello per cui era lì in quel momento.
Riprendiamo Esodo 3: la narrazione biblica che ritrova Mosè presso il monte di Dio, l’Oreb, oltre il deserto,
dove sta pascolando il gregge di Ietro, suo suocero:
ESODO 3
[1] Ora Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian, e condusse il bestiame
oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l’Oreb.
[2] L’angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco in mezzo a un roveto. Egli guardò ed ecco: il
roveto ardeva nel fuoco, ma quel roveto non si consumava.
[3] Mosè pensò: “Voglio avvicinarmi a vedere questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?”.
[4] Il Signore vide che si era avvicinato per vedere e Dio lo chiamò dal roveto e disse: “Mosè, Mosè!”.
Rispose: “Eccomi!”.
[5] Riprese: “Non avvicinarti! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa!”.
[6] E disse: “Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe”. Mosè allora si
velò il viso, perché aveva paura di guardare verso Dio.
[7] Il Signore disse: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei
suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze.
[8] Sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello
e spazioso, verso un paese dove scorre latte e miele, verso il luogo dove si trovano il Cananeo, l’Hittita,
l’Amorreo, il Perizzita, l’Eveo, il Gebuseo.
[9] Ora dunque il grido degli Israeliti è arrivato fino a me e io stesso ho visto l’oppressione con cui gli
Egiziani li tormentano.
[10] Ora và! Io ti mando dal faraone. Fa uscire dall’Egitto il mio popolo, gli Israeliti!”.
[11] Mosè disse a Dio: “Chi sono io per andare dal faraone e per far uscire dall’Egitto gli Israeliti?”.
[12] Rispose: “Io sarò con te. Eccoti il segno che io ti ho mandato: quando tu avrai fatto uscire il popolo
dall’Egitto, servirete Dio su questo monte”.
[13] Mosè disse a Dio: “Ecco io arrivo dagli Israeliti e dico loro: Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi.
Ma mi diranno: Come si chiama? E io che cosa risponderò loro?”.
[14] Dio disse a Mosè: “Io sono colui che sono!”. Poi disse: “Dirai agli Israeliti: Io-Sono mi ha mandato a
voi”.
5
[15] Dio aggiunse a Mosè: “Dirai agli Israeliti: Il Signore, il Dio dei vostri padri, il Dio di Abramo, il Dio di
Isacco, il Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi. Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui
sarò ricordato di generazione in generazione.
Per lunghi anni -la tradizione ci parla di un periodo di quarant’anni- Mosè ha vissuto come straniero in casa
del suocero; ha imparato a pascolare il gregge altrui.
Per lunghi anni, giorno dopo giorno, Mosè si è sentito consumare, bruciare lentamente dal silenzio che
cancella anche i ricordi, schiacciare dalla solitudine che uccide ogni speranza: anni occupati da una
prolungata e intensissima meditazione.
Ed ecco che, presso il monte di Dio, mentre osserva un roveto che brucia, Mosè scopre improvvisamente
qualcosa che gli fa incontrare un mistero non ancora sondato.
C’è qualcosa anche dentro di lui che non viene meno (la sua storia...quando aveva ucciso l’egiziano, quando
era fuggito...): al fondo della sua intera esperienza di uomo ormai finito, condottiero mancato, Mosè
avverte una presenza che non si consuma: scopre dentro di sé l’ardore di una fiamma che brucia senza
consumarsi, come una passione profondissima.
Mosè ancora non capisce: “Voglio avvicinarmi a vedere questo spettacolo: perché il roveto non si
consuma?”. Ed ecco che, repentinamente, mentre contempla quel roveto, Mosè riconosce la voce di Dio
(v.4) e rimane come impietrito di fronte alla semplicità della rivelazione.
Al fondo di tutto: del suo cuore, della sua vita, del suo sperare, del suo morire, c’è questa presenza che non
si consuma mai. Perché? Quella presenza è Dio stesso.
Mosè deve togliersi i sandali perché quel luogo è terra santa (v.5); poi la voce di Dio finalmente l’investe
con potenza (v.6):
“Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe”. Mosè allora si velò
il viso, perché aveva paura di guardare verso Dio.
La chiamata del Signore non lascia spazio a Mosè per intimismi inutili, perché subito la voce di Dio gli spiega
la ragione del suo intervento (vv. 7, 8, 9):
Il Signore disse: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto…
(Dio, l’ Onnipotente, il Creatore e anche il Salvatore, il Trascendente, è anche l’Immanente).
“Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido [...]
conosco infatti le sue sofferenze.
Sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto [...].
Ora dunque il grido degli Israeliti è arrivato fino a me [...].
La vocazione di Mosè non è un regalo che premia la sua premurosa e paziente attesa, non ha nemmeno il
valore di un conforto spirituale destinato a sostenere il suo privato programma di vita, bensì si riassume
integralmente nell’impegno di una missione (v.10):
“Ora và! Io ti mando dal faraone. Fa uscire dall’Egitto il mio popolo, gli Israeliti!”.
La storia di Mosè qui subisce una svolta: è giunto il momento di tornare in Egitto, perché Dio lo manda a
trarre fuori Israele dalla sua schiavitù.
Questo per dire anche a noi, che leggiamo questi testi:
Ogni persona umana è depositaria di una vocazione che viene da Dio.
Ogni vocazione ha sempre il significato di un impegno a vantaggio dell’umanità.
Per chi affronta sul serio il mistero della propria chiamata -la vocazione cristiana- tutto comincia a girare
ad una velocità vorticosa.
Anche Mosè viene strappato alle sue abitudini. Ha ormai compreso quanto fossero pretenziose le sue
smanie giovanili quando ha ucciso l’Egiziano. Deve riconoscere che la sua presunta missione di salvatore
risulta ridicola di fronte all’ esperienza nuova che sente esplodere dentro di sé.
Eppure questo Mosè, invecchiato (quarant’anni di deserto), ma reso sapiente, riesce soltanto a dire (in
questo consiste la saggezza): “Chi sono io?”, nonostante le sue smanie. “Chi sono io per andare dal faraone
e per far uscire dall’Egitto gli Israeliti?” (v. 11).
6
Sembra che la vocazione lo abbia come inchiodato alla evidenza della sua inutilità “Chi sono io?” (É lo
schema della chiamata dei profeti “Chi sono io?”).
Così la missione di Mosè acquista la sua reale portata, perché non è altro che il frammento di un mistero in
cui Dio stesso lo sta coinvolgendo. La risposta alla domanda di Mosè, infatti, non si farà attendere “Io sarò
con te” (v. 12).
Ma prima di partire per la sua missione Mosè vuole ancora sapere qualcosa (v. 13):
“Ecco io arrivo dagli Israeliti e dico loro: Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi. Ma mi diranno:
Come si chiama? E io che cosa risponderò loro?”
A Mosè sembra necessario conoscere il nome di Dio. Perché? Perché, secondo la mentalità semitica, nel
nome risiede tutta la potenza del personaggio, è condensata la personalità di un individuo, il segreto di un
destino, le prerogative del suo carattere.
Conoscere il nome di Dio significa avere in mano quello strumento magico che potrebbe anche garantire
agli Ebrei il modo per risolvere ogni difficoltà, per sconfiggere ogni opposizione.
La risposta di Dio è a prima vista un po’ deludente (v. 14):
Dio disse a Mosè: “Io sono colui che sono!” (è una delle traduzioni).
Poi disse: “Dirai agli Israeliti: Io-Sono mi ha mandato a voi”.
Sembra che con questo misterioso gioco di parole Dio intenda sottrarsi alla richiesta di Mosè, celando il suo
segreto sempre più in fondo nella sua insondabile identità divina.
Ma, in verità, la risposta di Dio contiene una rivelazione nuova, che fa fare un passo avanti nel cammino
della Storia della Salvezza:
Mentre Dio Javhè nasconde la sua identità trascendente, in realtà la voce di Dio -per il fatto stesso del
suo parlare- rivela la sua presenza nella storia umana.
Questa mi pare una cosa da sottolineare grandemente.
Il suo nome è sì indecifrabile “Io-Sono”, però Dio ha parlato, è presente, ha visto la sofferenza del suo
popolo.
Dio, nonostante tutto, rivela la sua presenza nella storia umana.
Il nome di Dio manifesta più che l’identità, una presenza vivente.
Dio aggiunge a Mosè (v. 15):
“Dirai agli Israeliti: Il Signore, il Dio dei vostri padri, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di
Giacobbe mi ha mandato a voi”.
- Javhè è colui che si fa presente nelle vicende della nostra vita, colui che mai ci abbandona, perché il Dio di
Mosè è anche il nostro Dio, in questo momento storico, difficile.
- Javhè si ricorda delle sue promesse.
- É il Dio di sempre, chiama e promette, porta a compimento il suo disegno secondo la sua volontà.
- Il disegno è di Dio, non è il nostro: per questo bisogna credergli.
- É Lui che accompagna la storia umana valorizzando in essa i poveri e i dimenticati come sacramento della
sua presenza, ed è così che lungo i secoli il nome di Dio dà continuità alle vicende del suo popolo.
“Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione”
(v. 15).
Se dunque gli Ebrei chiederanno a Mosè quale sia il nome di Dio che lo manda ad essi, la risposta di Mosè
dovrà rinviarli alla loro storia (anche noi siamo rinviati a questa storia passata ed anche alla storia futura).
Javhè è colui che all’origine della loro discendenza: ha chiamato i patriarchi; Javhè è colui che ascolta oggi il
grido della loro povertà e, soprattutto, egli sarà il loro compagno di viaggio nel cammino della loro
liberazione.
Ricordiamo tutti i prodigi nel deserto, dalla colonna di fuoco, alla manna, alle quaglie, all’acqua... Quindi Dio
accompagnerà questo popolo. Essi lo incontreranno Signore e Padre nelle opere che compirà a loro
vantaggio, mentre già comincia a manifestare loro la missione di Mosè e le meraviglie della sua
benevolenza, anche attraverso la stessa missione di Mosè.
7
Torniamo alla nostra tenda.
Noi abbiamo sentito i rimproveri che Mosè sta ricevendo dagli anziani di Israele:
“Credevamo che tu Mosè fossi cambiato, che il deserto ti avesse giovato, invece sei rimasto proprio uguale a
quello che eri e ci hai fatto precipitare in questo disastro”
Un altro dice: “Fratelli, ascoltatemi: abbiamo delle armi. É vero che gli Egiziani sono potentissimi, ma, se
andremo contro di loro, almeno chiuderemo la nostra storia gloriosamente: moriamo da eroi e diamo lode a
Javhè cadendo con le armi in pugno”.
Un altro, forse più venerabile degli altri, cosa dice?
“Fratelli ascoltatemi! Ho molta esperienza della vita. Conosco bene Mosè e non ho avuto molta fiducia in
lui, nemmeno quando è tornato. Capivo che era un visionario. Ora ascoltatemi. Il Faraone -lo conosco- non è
poi così cattivo; ha bisogno di noi; non ha nessuna intenzione di sterminarci, anzi, ha tutto l’interesse a
reintegrarci nella precedente situazione. Siamo umili: non tentiamo Dio! La nostra posizione qui è
insostenibile: mandiamo un’ambasceria al Faraone. Mosè, per carità, non si faccia più vedere. Alcuni dei
nostri più saggi vadano dal Faraone a dirgli: «Abbiamo sbagliato! Riaccoglici. Siamo pronti a tornare
indietro. Ci siamo fidati di quell’uomo che ci ha ingannati». Poi il tono di questo anziano si fa ancora più
suadente, più forte: “Fratelli, il Faraone significa la sicurezza, il pane per nostri figli. Non rigettate questa
offerta, non siate pazzi!”
Ancora un altro si alza e dice: “Mah! E se veramente Dio avesse parlato a Mosè? Cosa faremo? Andremo
contro Dio?”.
Un altro lo contraddice: “Ma non è possibile! Dio non può abbandonare il suo popolo! La nostra situazione
qui è disperata. Come può Dio volere la nostra disperazione?”.
Ecco cosa succede in quella tenda!
Da una parte c’è Mosè, che non ha ancora aperto bocca; dall’altra il Faraone con le sue minacce, ma anche
con le sue promesse e con ciò che egli significa di ragionevole e giusto accomodamento alle complesse
situazioni dell’esistenza.
In mezzo ci sono questi anziani divisi tra Mosè e il Faraone e, in questo momento, sembra che davvero le
azioni del Faraone salgano, mentre solo pochi osino difendere Mosè.
É qui che bisogna arrivare!
Riflettiamo su questa scena e chiediamoci: chi è il Faraone? E chi è Mosè?.
Il Faraone rappresenta una vita accomodante e accomodata; una vita che tiene conto dei compromessi
necessari per garantire una certa quiete; una vita in cui si salvano capra e cavoli. Una vita nella quale
mantengo la mia professione di fede, la mia confessione cristiana esteriormente, però mi aggiusto in modo
che questo genere di vita non sia troppo compromettente; mi adatto ad una certa esteriorità, a certe
sicurezze che in ogni caso mi salvano.
Insomma, il Faraone rappresenta qui l’accomodamento alla tranquillità mondana, che è un equilibrio
ottenuto attraverso un sapiente dosaggio di sequela del Signore e una certa sicurezza a cui non rinuncio.
Sto nel giusto mezzo.
In fondo il Faraone è ragionevole, accetterà questo compromesso, ci lascerà ogni tanto sacrificare nel
deserto...
Ecco, questo Faraone rappresenta davvero la tentazione di ciascuno di noi in questo mondo. E ciascuno
potrebbe riflettere su cosa significhi per lui questo Faraone dal ragionevole compromesso, dalla
ragionevole quiete.
E chi è Mosè?
8
Mosè è l’insicurezza della sequela di Gesù. Quella insicurezza sulla quale il Signore a volte insiste, quasi
pungendo, quasi provocando le persone che si fanno avanti. C’è tanta gente di buona volontà che vuole
seguire Gesù, ma a volte Gesù li affronta con una certa asprezza:
«Uno scriba gli si avvicinò e gli disse: Maestro, ti seguirò ovunque tu andrai.
Gli rispose Gesù: le volpi hanno le loro tane, gli uccelli del cielo i loro nidi,
ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo».
«Un altro discepolo gli disse: permettimi di andare prima a seppellire mio padre.
Gesù gli disse: seguimi e lascia i morti seppellire i loro morti».
Gesù diventa anche provocante, pare quasi offendere le persone.
É come Mosè al Mar Rosso, che propone a Israele una scelta netta, ma priva di sicurezze.
Questa è la sfida della nostra fede.
Mosè rappresenta l’insicurezza della sequela di Gesù: essa riguarda tutti coloro che accettano la sfida di
una vita evangelica, dato che questa, proprio come vita evangelica, a volte può essere uno schiaffo per
questo nostro mondo, per i nostri tentativi di salvarci costruendoci degli angoli di tranquillità.
É la sfida della fede, da cui siamo provocati fortemente tutte le volte che ci troviamo in ambienti nei quali
sembriamo essere soli o almeno in pochi a credere. Sorge allora una domanda: Ma come? Tutti gli altri si
fanno i loro comodi, cercano di godersela quanto possono e io devo sacrificarmi? Ma perché?
La maggioranza a volte istintivamente cerca di star bene, di sistemarsi, di procurarsi fin che può, adesso, la
maggior quantità di beni di ogni genere. Ma la sfida della fede si fa più chiara proprio quando ci si trova tra
persone per le quali conta solo questa vita. Noi continuiamo a credere che non c’è solo questa vita.
Dobbiamo ammettere che a volte ci sentiamo un po’ soli, strani.
É la sfida della fede quando la massa, i non credenti, fanno opinione.
É la sfida di Mosè.
Per capire meglio l’impatto di questa sfida, ricordo la bellissima scena descritta da Matteo (Mt. 27,39-44)
che può essere meditata proprio alla luce dal seguente episodio.
Gesù è in croce, è deriso, oltraggiato:
«...e quelli che passavano di là lo insultavano scuotendo il capo e dicendo: tu che distruggi il tempio
e lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso. Se tu sei Figlio di Dio scendi dalla croce.
Anche i sommi sacerdoti, con gli scribi e gli anziani lo schernivano: ha salvato gli altri e non può
salvare se stesso. É il re d’Israele? Scenda ora dalla croce e gli crederemo. Ha confidato in Dio? Lo liberi lui
ora, se gli vuol bene! Ha detto, infatti: sono Figlio di Dio».
Come negare che i sacerdoti e gli anziani hanno delle buone ragioni quando dicono a Gesù: “Ecco come è
andato a finire! Lui voleva che la gente gli credesse! Meno male che noi abbiamo impedito questa follia!
Come poteva essere Dio con lui se poi è finito così? (anche Hitler diceva: “Dio è con noi”) Noi sapevamo cosa
bisognava dire alla gente; anzi, gli avevamo detto di starsene tranquillo, ma non ne ha voluto sapere”.
Mosè è nella stessa situazione di Gesù; viene esposto alla massima contraddizione: “Dio non è con lui, ma è
con noi! ”
Cerchiamo di continuare a scavare.
Chi è dunque il Faraone?
Il Faraone rappresenta la vita secondo lo spirito del mondo.
E questa tale vita si trova dappertutto: nei conventi, nelle Chiese…
A volte lo spirito del mondo ci spinge a spostare la nostra speranza dalla Parola di Dio alle opere, anche
buone, che intendiamo realizzare a qualunque costo.
Tale atteggiamento di spirito è inevitabilmente un po’ settario, per cui non avendo messo sufficiente fiducia
nella speranza che solo Dio ci dà, cerchiamo di fondarla su qualcosa che ci rappresenti, che ci estrinsechi, in
modo da trovarvi la nostra sicurezza.
Chi è invece Mosè?
9
Mosè rappresenta la vita secondo il Vangelo, una vita fondata soltanto sulla Parola di Dio, una vita che
non ammette il compromesso.
Ecco qui l’opposizione irriducibile tra le due ipotesi di vita.
Riprendiamo il nostro midrash.
CHE COSA FARÀ MOSÈ?
Mosè finora è stato zitto, ma non a caso abbiamo ripreso il testo di Esodo 3, per evidenziare ciò che gli era
successo, l’esperienza che ha fatto nel deserto. Mosè è bersagliato dai rimproveri degli anziani.
Cerchiamo di entrare nel suo cuore, dove ronzano mille pensieri.
Cosa avrebbe potuto fare Mosè?
Certamente aveva delle possibilità, anche lui aveva dinnanzi delle scelte possibili.
La prima possibilità era quella di svignarsela: “Fratelli, ciò che avete detto è molto importante, degno di
attenzione, di considerazione, dunque tornate alle vostre tende”.
E Mosè poteva ritornare nel deserto.
Altra possibilità era quella di armare il popolo, come qualcuno aveva detto: “Armiamoci e moriamo da
eroi”. Anche questa è una scelta falsamente evangelica, è faraonica: “Lasciamo un nome di gloria”, gloria
mondana.
Un’altra possibilità, anch’essa faraonica, era quella di organizzare il ritorno: “Fratelli, avete ragione! Io sono
l’unico che posso proporre questo agli Israeliti, che mi ascolteranno. Mandiamo un’ambasceria al Faraone e
trattiamo”.
L’altra possibilità consisteva nel fidarsi di Dio.
Mosè lo poteva dire consciamente; non era lì per caso: “Signore, tu, tu mi hai portato qui; tu agirai”.
É una possibilità quasi pazzesca perché consiste nel non fare niente.
“E se Dio decidesse (poteva pensare Mosè) di non aiutarmi? Tutto mi crollerebbe addosso”.
Proprio qui sta la scelta di fede che viene chiesta a Mosè: affrontare l’incognita di Dio, il mistero di Dio.
Notate la drammaticità di quest’ultima possibilità, penosa, soprattutto quando sono coinvolti gli altri che
reclamano decisioni di tipo faraonico, concrete, immediate. D’altra parte la fede richiede anche decisioni
coraggiose che, a volte, si ha paura di prendere. Se Mosè avesse deciso di armare tutti, sarebbe stato un
disastro, ma, almeno, avrebbe fatto qualcosa: avrebbe tolto l’angoscia di quel momento.
Quanto più terribile invece, in quella situazione di angoscia insopportabile, dire : “il Signore ha parlato. Ed è
vero! Il Signore si mostrerà”.
Anche organizzare il ritorno dal Faraone, per quanto umiliante potesse essere, era sempre meno
angoscioso di quella situazione di abbandono nella fede.
Farei ancora un’analogia con Gesù: pensate a Gesù angosciato nell’orto degli Ulivi. Anche Gesù avrebbe
potuto dire: “Me ne vado, lascio questa situazione, non ce la faccio”. Suda sangue, e, non a caso, suda
sangue.
Oppure poteva seguire il consiglio di Pietro che aveva la spada in mano: armarsi e morire con i discepoli.
Gesù sceglie l’agonia, lasciando che l’opera di Dio si manifesti.
Che cosa sceglie, dunque, Mosè quando la gente grida?
Capitolo 14:
[11] “Forse perché non c'erano sepolcri in Egitto ci hai portati a morire nel deserto? Che hai fatto,
portandoci fuori dall'Egitto?
[12] Non ti dicevamo in Egitto: Lasciaci stare e serviremo gli Egiziani, perché è meglio per noi servire
l'Egitto che morire nel deserto?”.
Mosè cosa risponde?:
[13] “Non abbiate paura! Non lasciatevi travolgere dall’angoscia. Vedrete la salvezza che il
Signore oggi opera per voi; perché gli Egiziani che voi oggi vedete, non li rivedrete mai più!
E la bellissima conclusione:
[14] Il Signore combatterà per voi, e voi state tranquilli”.
10
Sì, questo è il momento della fede, il momento del coraggio, però è innegabile che anche Mosè avesse la
sua paura. Infatti, subito dopo queste parole coraggiose, il racconto biblico prosegue :
[15] Il Signore disse a Mosè: “Perché gridi verso di me?”
Ciò significa che, mentre Mosè diceva alla gente di starsene tranquilla, dal canto suo egli stesso gridava al
Signore e la sua paura non doveva essere piccola, come testimonia un altro passo dell’Esodo, dove Mosè
invoca l’aiuto del Signore:
“Cosa farò io per questo popolo? Ancora un poco e mi lapideranno” (Es. 17,4).
Da una parte Mosè segue l’ispirazione dello Spirito che lo spinge al coraggio della fede; dall’altra, anche lui
è preso dall’angoscia che lo trascina verso la disperazione: il suo è un cuore diviso.
Ma in questo suo gridare verso il Signore, la fede di Mosè si purifica, finché il Signore stesso interviene:
[15] Ordina agli Israeliti di riprendere il cammino.
[16] Tu intanto alza il bastone, stendi la mano sul mare e dividilo, perché gli Israeliti entrino nel
mare all'asciutto.
C’è una tradizione rabbinica che dice che gli Ebrei erano talmente sicuri, con davanti Mosè, che il Signore
avrebbe aperto il mare che prima ancora che il mare si dividesse, hanno incominciato ad entrare nell’acqua.
Appena messo piede nell’acqua -sicuri che Javhè avrebbe risposto- il mare si è diviso: non hanno aspettato
che si creasse l’asciutto, sono entrati prima ancora che Javhè dividesse il mare.
Viene descritta la scena del passaggio del Mar Rosso.
IL PASSAGGIO DEL MAR ROSSO.
Tutto si svolge in modo solenne, dignitoso. Sembra una processione regale.
Israele avanza nella notte, come per dire che Dio fa le cose impossibili per noi quando ci si abbandona a Lui,
quando ci si fida totalmente e gli si dice:
“Eccomi Signore per fare la tua volontà.
Non capisco niente, ma avrà certo un senso questa prova che tu mandi.
Ti offro la mia vita desiderando seguirti in povertà,
nell’assenza di mezzi umani, nell’assenza di successo umano”
Allora le cose si svolgono con esemplare semplicità, senza quell’affanno frenetico e spasmodico:
“Combattiamo fino alla morte”, “Mandiamo un’ambasceria”.
La notte del terrore diventa la notte della pace e della tranquillità.
Qui scopriamo altre piccole verità interessanti.
Dice Paolo che gli Israeliti sono stati battezzati in Mosè.
Cosa vuole dire? Vuol dire che hanno avuto fiducia in Mosè fino ad entrare nell’acqua del mare.
Dio gli aveva parlato, quindi: Avanti! Era terribile inoltrarsi nell’oscurità della notte, lungo una striscia di
terra lambita dalle onde ai due lati “Eppure noi ci lasciam guidare da Mosè perché diamo fiducia a lui”.
Essere battezzati in Mosè significa per gli Israeliti prendere su di sé il rischio di Mosè, accettare le sue
insicurezze.
Allo stesso modo per noi, essere battezzati in Gesù significa prendere su di noi il rischio di Gesù e dirgli:
“Signore, ti seguirò dove tu andrai, voglio vivere come tu vivi, affrontare le tue stesse contrarietà”.
Questo vuol dire decidersi verso una vita pasquale, una vita secondo lo Spirito, cioè decidere di lasciarsi
salvare dallo Spirito di Gesù.
Gli Israeliti, seguendo Mosè, non fanno niente se non decidere di lasciar fare a Dio. Si lasciano portare come
“su ali di aquila”.
E noi, seguendo Gesù, decidiamo di lasciarci salvare da Lui, diamo fiducia alla sua potenza infinita, alla
sua sapienza, alla sua capacità di guidarci. Ci lasciamo immergere in lui, prendendo volentieri i suoi rischi
e le sue insicurezze giorno per giorno.
Corriamo il rischio di Gesù senza cercare le nostre realizzazioni, che forse sarebbero ancora un’opera
faraonica.
11
Allora comprendiamo l’importanza della frase: “Il Signore combatterà per voi, e voi starete tranquilli”
La decisione fondamentale è presa dal Signore: l’opera è sua!
Essere battezzati in Lui, vuol dire lasciarsi invadere dalla potenza del suo Spirito.
IL CANTO PASQUALE DEI BATTEZZATI
Il capitolo 15 dell’Esodo, una delle pagine più antiche, è il canto pasquale dei battezzati, un canto molto
bello.
Tutti coloro che, avendo accettato di prendere su di sé il rischio di Gesù, scommettendo la propria vita sul
Vangelo, contro l’evidenza mondana, dicono: “Ma com’è stato tutto così semplice! Il Signore ci ha preso
senza che nemmeno ce ne accorgessimo. Abbiamo visto cadere gli Egiziani; avevamo paura di loro, che
erano il popolo più potente del mondo, ed ecco sono là che galleggiano sul mare”.
Tutti i condizionamenti per i quali si aveva tanta paura, una volta presa la decisione totale di lasciarci
invadere dallo Spirito del Signore, si rivelano dei giochi da bambini.
Nello stesso tempo appare che la vita evangelica è una cosa semplice, splendida, meravigliosa.
Cosa dice il cantico di Mosè?
“Voglio cantare in onore del Signore:
perché ha mirabilmente trionfato,
ha gettato in mare
cavallo e cavaliere.
Io avevo paura dei cavalli che corrono più di me, dei cavalieri che sono armati di lancia, e invece....:
Mia forza e mio canto è il Signore,
egli mi ha salvato.
É il mio Dio e lo voglio lodare,
è il Dio di mio padre
e lo voglio esaltare!
I carri del Faraone, tutto il suo esercito, tutta quella potenza che mi atterriva, tutti quegli ostacoli che mi si
ponevano davanti dicendomi: “Non ce la farai, sarà una vita impossibile, dovrai andare contro le tue idee, la
tua vita non sarà più autentica”. Tutte quelle inquietudini che spesso si ammantavano di psicologia e di
sociologia, tutto ciò è ormai sommerso nel Mar Rosso.
Gli abissi li ricoprirono,
sprofondarono come pietra.
E io non ho fatto niente!
La tua destra, Signore,
terribile per la potenza,
la tua destra, Signore,
annienta il nemico; [...]
É questo il canto del battezzato che si riconosce salvato e dice: “Dio veramente ha combattuto per me. Io
ho detto Sì allo Spirito e il Signore ha fatto il resto”.
A chiusura di questa riflessione chiediamo al Signore che ci faccia comprendere la semplicità della scelta
evangelica, che va rinnovata ogni giorno.
La parola di Dio è un’energia, perchè non è solo parola umana ma è Parola di Dio!
Non a caso -lasciatemi ricordare ancora il card. Martini- la prima cosa che ha fatto andando a Milano, ha
scritto le sue lettere pastorali sulla vita contemplativa... In principio la Parola” e poi ha organizzato la scuola
della Parola.
Al di fuori della Parola dove andiamo?
La ricchezza di questi testi, anche del Primo Testamento sono qui per riorientarci.
12
Cosa diceva Paolo a Timoteo? La Parola di Dio è ispirata e serve per correggere, formare, indirizzare,
orientare.
Noi abbiamo bisogno ogni giorno di raddrizzare il cammino della nostra vita. Quindi la fedeltà alla Parola
non è un precetto da osservare, ma è una scelta che uno fa liberamente perché vuol dare un senso
evangelico alla sua vita. Nessuno ci obbliga a seguire il Vangelo, neanche Gesù. Il Maestro non vuole dietro
nessuno per forza, però se uno vuole andare dietro a Lui, non può mettere da parte ed emarginare la sua
Parola.
∗ ∗ ∗
EVANGELIZZARE È COMUNICARE LA LIETA NOTIZIA
Iniziamo di nuovo con una preghiera che ci introduce nel clima della lectio.
Signore Gesù,
tu hai proclamato il Vangelo, la buona notizia,
e così ci hai rivelato il mistero di Dio.
Donaci lo stupore assorto della sorpresa
di fronte alla bellezza e alla novità della tua parola.
Apri il nostro cuore alla conversione,
perché possiamo adeguare i nostri pensieri ai tuoi.
Guida i nostri passi dietro ai tuoi,
perché affidando l’intera nostra esistenza alla tua,
camminiamo seguendo le tue ombre,
Signore Crocefisso e Risorto
che vivi e regni nei secoli dei secoli.
Amen.
Dunque, evangelizzare è comunicare la lieta notizia.
Lo so che a volte lo dico un po’ in senso critico: ogni tanto anche ‘Avvenire’ ha qualche pagina saggia, anche
perché qualche volta qualcuno possa.
Feci una relazione a settembre per l’Azione Cattolica e nella pubblicazione degli atti del Convegno questo
giornale mi ha totalmente tagliato fuori, come se nemmeno fossi stato presente, ma la mia fede non
dipende da queste cose; mentre l’Azione Cattolica, non solo ha messo sul suo sito la relazione, ma adesso
mi hanno chiamato di nuovo per gennaio per tutti gli assistenti d’Italia.
Allora, questo è un articolo della Paola Bignardi che è stata sei anni presidente dell’Azione Cattolica (è
un’amica nonché conterranea).
Prima di incominciare, un’osservazione che lei fa sulla evangelizzazione.
Da una parte, dice, il punto di partenza è l’Anno della Fede, perché è emerso, perché il Papa stesso per
primo riconosce la crisi che attraversa credenti e comunità.
Parla di stanchezza, ripiegamenti, pigrizie, che rendono meno trasparente la testimonianza dei cristiani e
meno efficace la loro proposta, soprattutto alle nuove generazioni e, lei dice, almeno due sono i problemi
da affrontare.
Il primo è quello che riguarda (notate) la profondità e la tenuta dell’esperienza di vita cristiana di coloro
che si ritengono credenti.
Oggi ci si rende conto che molti vivono di una fede data troppo per scontata, chiusa nelle cose da fare, a
perdita di slancio. Il rischio è nella perdita di slancio.
E, l’altro problema, quello più spinoso, è la capacità di leggere ciò che sta avvenendo nella vita delle
persone comuni, la difficoltà a interpretare il loro progressivo estraniarsi dalla vita ecclesiale e, alla lunga,
anche dalla fede.
Per esempio: il fenomeno della diminuzione della pratica religiosa, l’allontanamento dei giovani, ma senza
che si riesca a leggere il fatto al di là della freddezza dei numeri.
13
Sì, uno può dire: una volta andavano al cinquanta per cento, ora vanno al venti per cento. Ma perché?
Perché tanti giovani e adulti si allontanano oggi dalla fede? La loro oggi non è la scelta di chi ha deciso di
mettersi contro Dio, ma semplicemente il frutto del sentirsi estranei alla mentalità di tanti cristiani, di un
modo di presentare la fede e la vita cristiana che non li tocca, che non li interpreta nelle loro domande.
Ora cosa sta succedendo, dice, nella coscienza dei giovani?
Come sta cambiando la loro ricerca di valori assoluti, la loro tensione verso Dio?
É proprio vero che i giovani hanno imparato a fare a meno di Dio o, piuttosto, rivelano in forme che
appaiono indecifrabili, una sete di Dio cui non si sa rispondere? Un bisogno di Dio che si intreccia con la loro
domanda di vita e di pienezza?
Allora, lei dice, giustamente, l’anno della Fede potrebbe avere questa motivazione e si rifà a Giovanni XXIII
quando avviò il Vaticano II.
Certamente -ha affermato Giovanni XXIII- c’è una dottrina certa e immutabile: il Vangelo è Vangelo nessuno
lo cambia, va approfondito. Poi aggiungeva: c’è un Concilio perché bisogna che il Vangelo venga
ripresentato secondo le esigenze del nostro tempo. Questo diceva Giovanni XXIII cinquant’anni fa.
Allora la Paola Bignardi dice: sarà difficile compiere questa revisione senza un percorso anche spirituale,
che ponga la questione della fede al centro della vita della comunità cristiana, per recuperare una
prospettiva più nitida.
Insomma, lei alla fine qui dice, bisognerà smascherare tante storie e arrivare, anche se c’è la fatica,
all’essenziale.
É una pagina e mezza di un testo. Conoscendo la persona me lo sono rivisto, perché mi sembrava facesse
una lettura abbastanza attualizzante.
Qui vediamo di entrare dentro il nostro discorso.
GESÙ CRISTO È LA RADICE
EVANGELIZZARE È COMUNICARE LA LIETA NOTIZIA,
anche se domani andando alla Messa sentirete un Vangelo che
sembra un po’ catastrofico: la luna, le stelle, il cielo, ma il Vangelo è sempre un buona notizia.
Gesù Cristo è la radice, lo scopo di questo incontro è individuale. Proprio in riferimento al tema della nuova
evangelizzazione: la radice da cui tutta l’esperienza cristiana si irradia.
Questa radice è ovviamente Gesù Cristo: parole, storia, persona.
Molte sono le cose che si possono dire di Lui, ma qui voglio raccogliere quella che, a mio avviso, più
direttamente costituisce l’anima di ogni autentico slancio cristiano, di ogni autentico annuncio missionario.
Dico subito che incontrare Gesù Cristo significa incontrare una realtà a due livelli: -la realtà di Dio e- la
realtà dell’uomo. Sono due livelli che si intrecciano continuamente:
L’anima di ogni vera esperienza cristiana va individuata ascoltando Dio e l’uomo, frutto nel contempo di
una esperienza di Dio e di una riscoperta della nostra profonda umanità.
Quando si dice “la mistica è alla base dell’etica”, cioè l’etica cristiana si radica nella mistica, che non vuol
dire avere visioni, vuol dire una comunione personale, essenziale con Dio. Da lì si irradia la tua storia, la tua
vita, il tuo modo di essere.
Quindi l’esperienza cristiana nasce da una lieta notizia.
L’ESPERIENZA CRISTIANA NASCE DA UNA LIETA NOTIZIA
MT 13,44-46
Ci sono nel linguaggio cristiano, anche nel parlare comune, alcune parole importanti, orientatrici, che però,
per l’uso, possono essere anche un po’ logorate. Una di queste parole è la parola ‘Vangelo’, ormai ridotta ai
quattro libri che raccontano la vita di Cristo.
Troppo poco!: il suo significato è molto più profondo.
Vangelo significa: “LIETA NOTIZIA”.
14
Quindi alla base di tutto c’è l’incontro con un vangelo, con una lieta notizia, una notizia sorprendente, che
muta il senso dell’esistenza intera, che quando la senti, ti rallegra il cuore, ti ridà la voglia di vivere.
Ecco perché dico: quando viene spiegata la Parola, dopo ogni omelia, uno dovrebbe uscire dalla Chiesa con
il cuore più largo perché ridà la voglia di vivere.
Nei testi biblici tipo di chiamata, di missione, c’è sempre un comando: «Và, Annuncia, Ti mando», come ha
fatto con Mosè stamattina, ma è un ordine da intendere bene.
Uno non diventa un serio cristiano su comando per imposizione esteriore, ma sempre, soltanto, sotto la
spinta di uno slancio che nasce dall’interno.
Uno non va a fare il missionario come un mestiere: è uno slancio che nasce dall’interno, dal cuore.
É vero che c’è anche un imperativo nei testi di missione: «Và», ma l’imperativo di Dio nasce dal di dentro.
Due piccole parabole illustrano molto bene questo (Mt. 13,44-46):
Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo; un uomo lo trova e lo nasconde di
nuovo, poi va, pieno di gioia, e vende tutti i suoi averi e compra quel campo.
Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una
perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra.
Quindi innanzi tutto un uomo scopre un tesoro. É il momento della scoperta, è il momento della sorpresa,
cioè è il momento dell’incontro con la lieta notizia che getta una luce nuova sulla vita, mette una luce
nuova su tutte le cose; è un modo di vedere la vita e le cose in modo diverso.
Poi l’uomo prende coscienza di ciò che ha trovato e passa all’azione: vende tutto quello che ha. É il
momento del distacco, della conversione.
Infine l’uomo che tutto ha venduto per avere quel tesoro, resta completamente legato ad esso, cioè tutta la
sua vita è in funzione di quel tesoro.
É in questa ricca esperienza di scoperta, di conversione e di gioioso possesso che si radica un dinamismo,
chiamiamolo missionario o di testimonianza. La voglia cioè di dire a tutti che c’è un tesoro, che vale la pena
cercarlo, addirittura vale la pena vendere tutto per possederlo, perché una volta che lo possiedi ti accorgi di
avere in mano ciò che dà senso alla vita.
Ecco perché la fede non è un fatto così superficiale, pietistico: o ti cambia la vita. Non a caso quando oggi si
parla di nuova evangelizzazione, non presento un catechismo in mano, io dovrei dire come è cambiata la
mia vita da quando ho incontrato Cristo.
Come è cambiata la mia vita?
Pensate a Paolo sulla via di Damasco, come lo ha stravolto quando lo racconta nella lettera ai Filippesi. Si
vantava della sua obbedienza alla legge alla Torah, “ma da quando ho conosciuto Cristo, tutto questo è
spazzatura”.
A questo punto non resta che leggere altri testi dove si parla di questa lieta notizia. Lo facciamo non solo
per trovare un’autorevole conferma di ciò che abbiamo intuito, ma anche per rispondere a una domanda
importante:
In che cosa consiste precisamente questa lieta notizia?
Iniziamo con un passo in cui la lieta notizia è annunciata con tono di urgenza, di compiutezza.
IL TEMPO È COMPIUTO E IL REGNO DI DIO È VICINO
MC.1,14-15
Leggiamo Marco: Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù si recò nella Galilea predicando il vangelo di Dio e
diceva:
«Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo».
15
Gesù proclamava quando si dice ”ipsissima verba Jesus” = “le parole stesse dette da Gesù”. Sono le parole
che Gesù pronuncia nel Vangelo di Marco. Sono parole programmatiche, riassuntive, per spiegare le quali
occorrerebbe commentare l’intero vangelo di Marco.
Portare una notizia: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino»
E sollecita una risposta: « Convertitevi», se è vero che sto proclamando la lieta notizia del vangelo e che il
tempo si è compiuto: «Convertitevi e credete al vangelo».
La parola “Vangelo” qui veramente è la lieta notizia, che ha fatto vendere a quell’uomo per comperare il
tesoro nel campo.
La parola Vangelo-Lieta Notizia, era conosciuta e usata anche al tempo di Marco, ma l’evangelista qui la
riempie di una contenuto nuovo. Cioè la lieta notizia non è per lui l’annuncio, come si usava appunto a quei
tempi, che poteva essere una vittoria sui barbari ai confini dell’impero, e nemmeno le promesse di pace e
di giustizia di un nuovo imperatore salito al trono.
Lieta Notizia è per Marco il fatto che Gesù di Nazareth è il Messia, è il Figlio di Dio.
In altre parole: Lieta Notizia è la proclamazione che la solidarietà di Dio nei nostri confronti è definitiva, è
stabile.
Abbiamo avuto un esempio stamattina quando Javhè: «Ho visto la sofferenza del mio popolo» e manda
Mosè.
Quindi Lieta Notizia è anche, non solo che Gesù è il Messia, ma c’è questa solidarietà di Dio nei nostri
confronti che è stabile, è definitiva.
In Gesù, Dio si è talmente avvicinato da farsi uno di noi, nostro fratello, si è immerso nella storia, si è
coinvolto nella nostra avventura, senza pentimenti: non può più tirarsi indietro.
Questa solidarietà di Dio nei nostri confronti -ed è la seconda caratteristica della lieta notizia- è
universale: Cristo ama ogni persona. Gesù dichiara decadute tutte le barriere, e se c’è una predilezione è
per gli ultimi. L’amore di Dio è apparso in Gesù di Nazareth che è vissuto mettendosi dalla parte degli
umili.
Questa lieta notizia è vicina, è a portata di mano, ma occorre allungare la mano per afferrare, bisogna
convertirsi, bisogna crederci.
Tutto questo è il significato dell’affermazione:
«Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi».
L’UOMO È COME L’ERBA, MA LA PAROLA DI DIO DURA PER SEMPRE
IS.40,1-11
E poi facciamo un passo indietro nel tempo per leggere un testo splendido di Isaia 40 (leggo alcune parti):
«Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio.
Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele
che la sua tribolazione è compiuta, la sua colpa è scontata,
[....]
Una voce grida: «Nel deserto preparate la via al Signore,
appianate nella steppa la strada per il nostro Dio.
Ogni valle sia colmata, ogni monte e colle siano abbassati;
[....]
Allora si rivelerà la gloria del Signore
e tutti gli uomini insieme la vedranno,
poiché la bocca del Signore ha parlato».
Una voce dice: «Grida» e io rispondo: «Che dovrò gridare?».
Ogni uomo è come l'erba e tutta la sua gloria è come un fiore del campo.
Secca l'erba, il fiore appassisce [....] Veramente il popolo è come l'erba.
Secca l’erba, appassisce il fiore, ma la parola del Signore, del nostro Dio, dura per sempre, ma la fedeltà di
Dio dura per sempre.
16
Sali su un alto monte, annunzia liete notizie in Sion;
alza la voce con forza, annunzia liete notizie in Gerusalemme.
Alza la voce, non temere; annunzia alle città di Giuda: «Ecco il vostro Dio!
Ecco, il Signore Dio viene con potenza, con il braccio egli detiene il dominio.
Ecco, egli ha con sé il premio e i suoi trofei lo precedono.
Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna;
porta gli agnellini sul seno e conduce pian piano le pecore madri».
Queste parole del profeta di rara poesia, di grande carica emotiva, si indirizzavano ad un popolo schiavo,
rassegnato, disperso.
Sono un grido ripetuto, un grido che parte da Dio, notiamolo dove il testo dice:
«Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio», dice Isaia.
Quindi sono un grido che parte da Dio e che di bocca in bocca deve raggiungere ogni uomo: Una voce dice:
«Grida», «alza la tua voce con forza».
É un grido ripetuto che vuole scuotere uomini scoraggiati, impigriti dopo il lungo esilio.
Quindi la lieta notizia che viene gridata «annunzia liete notizie in Sion» è come una sferzata che scuote dal
torpore, che magari non cambia subito gli avvenimenti e le cose, ma il cuore, il cuore dell’uomo: gli ridà
speranza, gli dà voglia di riprendere a camminare.
E in cosa consiste questo annuncio che scuote, che gli dà voglia di vivere?
Il messaggio è racchiuso in queste quattro espressioni in cui c’è una specie di progressione:
- la sua colpa è scontata, è finita
- nel deserto preparate la via al Signore
- ogni uomo è come l'erba, ma la parola del nostro Dio dura per sempre
- il Signore Dio viene con potenza
Il primo grido annuncia che la schiavitù è finita, non però perché l’uomo l’ha fatta cessare, ma perché Dio
di nuovo ha offerto la sua misericordia, il suo perdono, la sua solidarietà.
La sua colpa si è scontata: è sempre l’amore di Dio che ha il sopravvento sulle nostre miserie.
Il secondo grido trae le conseguenze dal primo e il suo messaggio è un imperativo “preparate”. Se la
schiavitù è finita, bisogna scuotersi, agire, tracciare una strada verso la patria, il perdono di Dio è gratuito.
Prima questa notizia, poi un imperativo morale: Preparate la strada al Signore.
L’ultimo annuncio è in un certo senso il più completo, il più globale:
Ecco, il Signore Dio.
Tuttavia mi pare che la chiave di Volta di tutta la costruzione sia proprio il terzo annuncio: L’uomo è come
l'erba, (è vero, c’è anche un bellissimo Salmo, il Salmo 103)
ma la parola del nostro Dio dura per sempre.
Qui l’uomo è raggiunto nella sua profonda umanità, qui si tocca il problema cruciale che nessuno riesce a
scuotersi di dosso: è vero, la nostra esistenza è come l’erba che oggi c’è e domani non c’è più, ma è
altrettanto vero -ecco la lieta notizia, ecco il Vangelo- che la nostra esistenza è accompagnata, sostenuta,
dalla parola di Dio. E tutto cambia!
A questo punto non si può non pensare a quella lapidaria affermazione del prologo del Vangelo di Giovanni:
«E la parola si è fatta carne».
Qui la notizia gridata dal profeta giunge alla sua pienezza.
Quella di Giovanni è un’affermazione che nella sua brevità contiene tutta la novità di Gesù, che è la vera e
unica soluzione del problema dell’uomo: la parola che dura per sempre, si è unita alla fragilità come l’erba
dell’uomo.
Guardate che è splendido! La Parola che dura sempre si è fatta fragile come l’erba, come l’uomo.
Ma se la potenza di Dio si è calata nella nostra fragilità, la Parola si è fatta carne, allora la nostra schiavitù
è proprio finita, è distrutta alla radice.
17
E ha ragione il profeta per dirci: «Gridate che la schiavitù è finita».
Lui la profetizzava, ma poi si è concretizzata nell’incarnazione.
É una notizia talmente importante che dice: “uno non può tenerla per sé, bisogna gridarla forte: è finita la
schiavitù della morte, dell’impotenza, dell’inutilità, della paura”.
Con l’avvento di Cristo morto e risorto, è veramente finita la morte, è finita l’impotenza, è finita la paura.
E a questo punto comprendiamo di nuovo anche l’altro grido:
«Tracciate una strada nel deserto».
Non è un imperativo, è una notizia lieta, è un importante annuncio da gridare a tutti.
«Nel deserto»
Ovverosia nel cumulo delle nostre macerie, nel deserto dei nostri fallimenti, nel cumulo delle nostre
banalità, delle nostre futilità, che sembrano costruire le nostre giornate, è possibile aprirsi un passaggio
verso la durata, è possibile costruire un sentiero che conduce lontano verso il Regno di Dio.
E poi c’è il famoso capitolo 61 di Isaia.
MI HA MANDATO A PORTARE IL LIETO ANNUNZIO AI POVERI
IS.61,1-11
In Isaia troviamo un secondo passo nel quale questo tema della buona notizia del Vangelo è riproposta.
É una pagina forse da leggere più volte, dapprima in sé stessa, poi nelle sue articolazioni, nel suo
movimento, e poi alla luce del discorso di Gesù, nel quale essa viene ripresa e approfondita.
É l’autopresentazione che Gesù farà nella sinagoga di Nazareth secondo il capitolo quarto di Luca. Il passo è
molto conosciuto (Is.61,1-11):
Lo spirito del Signore è su di me
perché il Signore mi ha consacrato con l'unzione;
mi ha mandato a portare il lieto annunzio ai miseri,
a fasciare le piaghe dei cuori spezzati,
a proclamare la libertà degli schiavi,
la scarcerazione dei prigionieri,
a promulgare l'anno di grazia del Signore, [...]
per consolare tutti gli afflitti, [...]
olio di letizia invece dell'abito da lutto, [...]
Poiché io sono il Signore che amo il diritto
e odio la rapina e l'ingiustizia:
io darò loro fedelmente il salario,
concluderò con loro un'alleanza eterna.
E poi c’è quella risposta:
Io gioisco pienamente nel Signore,
la mia anima esulta nel mio Dio, [...]
«Lo spirito del Signore è su di me» questo lo diceva Isaia.
«Il Signore mi ha consacrato, mi ha mandato» E con questa espressione il profeta messaggero non intende
presentare la sua persona, né vuole attirare l’attenzione su di sé, al contrario, vuole attirare l’attenzione su
Dio e intende mostrare l’unica ragione per cui le sue parole debbono essere ascoltate.
La decisione di parlare non viene da lui, ma da Dio, e il messaggio non è suo, ma è di Dio. Cioè la
convinzione del profeta di essere il portavoce della parola di Dio è talmente viva che ad un certo punto, nel
momento culminante del suo annuncio, egli si mette da parte completamente, lasciando parlare il Signore
in prima persona: «Poiché io sono il Signore che amo il diritto e odio la rapina e l'ingiustizia».
18
È un messaggi autorevole. Se fosse una parola di uomo non sarebbe ancora una lieta notizia: troppo fragile,
infatti, per fondare una nuova speranza. Ma è una notizia che viene da Dio: questo è ciò che conta!
Cioè, destinatario del suo lieto annuncio è un popolo che sta tornando dall’esilio, un po’ abbacchiato, e
ritorna ad avere in pienezza la speranza, anche se quando è tornato ha trovato cumuli di rovine. La
situazione storica presupposta è quella in fondo del post-esilio: la Giudea era una regione distrutta, un
cumulo di macerie, città devastate. E ai rimpatriati, avviliti della sconfitta e scoraggiati, viene questo
annuncio, questa lieta notizia, questo futuro gioioso, questa completa restaurazione.
E poi sapete che Gesù prende questo brano di Isaia e lo ridice davanti a tutti nella sinagoga di Nazareth.
Quindi l’antico profeta ha gridato che il nostro mondo, a dispetto di tutte le ingiustizie, finirà e rifiorirà, e
questa rifioritura è garantita da Dio.
Ma il portatore per eccellenza di questa notizia rimane Gesù: lui è la lieta notizia, perché lui è il Dio in
mezzo a noi, un Dio fatto uomo, divenuto nostro fratello.
Nella lettera agli Ebrei c’è quella bellissima espressione:
«Il Figlio di Dio non si è vergognato di chiamarsi nostro fratello».
E, nella sinagoga di Nazareth, egli ha presentato il suo programma, diciamo, la sua lieta notizia, prendendo
a prestito le parole di Isaia.
IL DISCORSO DI GESÙ NELLA SINAGOGA DI NAZARETH
LC 4,14-30
Qui siamo al capitolo 4 di Luca :
Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito Santo
e la sua fama si diffuse in tutta la regione.
Insegnava nelle loro sinagoghe e tutti ne facevano grandi lodi.
Venne a Nazareth, dove era cresciuto;
ed entrò, secondo il suo solito, di sabato nella sinagoga e si alzò a leggere.
Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia;
aprì il rotolo (non a caso) e trovò il passo dove era scritto:
“Lo Spirito del Signore è sopra di me;
per questo mi ha consacrato con l'unzione,
e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio,
a proclamare ai prigionieri la liberazione
e ai ciechi la vista;
a rimettere in libertà gli oppressi,
a proclamare l’ anno di grazia del Signore”.
Poi arrotolò il volume, lo consegnò all'inserviente e sedette.
Nella sinagoga gli occhi di tutti erano fissi su di lui.
Allora cominciò a dire: «Oggi si è adempiuta questa Scrittura
che voi avete ascoltato con i vostri orecchi».
Ecco la Lieta Notizia, ecco il Vangelo!
Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati
delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano:
«Non è il figlio di Giuseppe?».
Ma egli rispose: «Di certo voi mi citerete il proverbio: Medico, cura te stesso»
Poi aggiunse: «Nessun profeta è bene accetto nella sua patria.
Vi dico anche: c'erano molte vedove in Israele al tempo di Elia,
quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi
e ci fu una grande carestia in tutto il paese;
ma a nessuna di esse fu mandato Elia,
se non a una vedova in Sarepta di Sidone.
19
C'erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo,
ma nessuno di loro fu risanato se non Naaman, il Siro».
All'udire queste cose, tutti nella sinagoga furono pieni di sdegno;
si levarono, lo cacciarono fuori della città
e lo condussero fin sul ciglio del monte
sul quale la loro città era situata, per gettarlo giù dal precipizio.
Ma egli, passando in mezzo a loro, se ne andò.
In questo discorso inaugurale, programmatico, Gesù fa sue le parole di questo antico profeta,
introducendovi però delle precisazioni che ci danno il senso della novità cristiana.
Anzitutto, il vero portatore del lieto annuncio è Lui, non l’antico profeta, quello era la figura, era la
premessa: Lui è la realtà, Lui è il compimento.
In secondo luogo le parole del profeta vengono in un certo senso da Gesù purificate, dilatate: nella
citazione che egli ne fa spariscono alcuni tratti particolaristici, quando si parla anche di vendetta o di rivalsa.
E, in terzo luogo, il lieto annunzio si trasforma in una realtà per il presente: adesso, oggi, si adempie questa
profezia, non è più una speranza per il futuro. Gesù afferma: «Oggi si è adempiuta questa Scrittura nelle
vostre orecchie».
(Letteralmente nel testo greco: “come avete sentito voi nelle vostre orecchie”).
E poi vi è un’accentuazione ancora più marcata che nel profeta: la lieta notizia è rivolta in particolare agli
sfortunati, agli oppressi, a tutti gli uomini che hanno maggiormente bisogno, proprio le persone più escluse,
le persone ferite per tanti motivi.
Ecco perché leggendo questi testi, come credenti, come Chiesa, non possiamo non sottolineare,
riattualizzare un po’ tutto questo discorso, che non lo inventiamo noi: è tutto scritto.
Potremmo riformulare questa lieta notizia di Gesù così:
Dio ama ogni persona, senza differenze, perché per lui ogni uomo conta, ogni persona è preziosa. Non ci
sono di fronte a Dio emarginati, noi emarginiamo, lui no, anzi per lui gli ultimi sono i primi (questa è una
notizia che rende di colpo ingiustificate tutte le emarginazioni che noi costruiamo di continuo) e Dio dona
agli esclusi una dignità capace di scuoterli, capace di infondere loro dignità e speranza.
Dicevo che la lieta notizia è Gesù stesso, la sua venuta fra noi: questo è il Vangelo!
La sua venuta tra noi... e questo è molto vero.
Infatti, Gesù, un Dio fatto uomo, non è soltanto l’esempio di un Dio che si china verso di noi, ma addirittura
difende i nostri diritti.
É un Dio che ha assunto un volto di uomo, che ha preso il posto del più piccolo tra gli uomini; non ha
soltanto annunciato la lieta notizia ai poveri, ma si è fatto uno di loro, ha condiviso la loro sorte, la loro
emarginazione. In croce finirà con due ladroni: più di così!
Ogni uomo è messo al centro: ecco la lieta notizia cristiana!
Impegnativa, lieta, proclamata da Gesù con le sue parole e con la sua storia: con la sua vita.
Proseguendo ancora un po’. Non solo i profeti come Isaia, non solo Gesù, ma anche Paolo.
LA “LIETA NOTIZIA” NELL’ESPERIENZA DI PAOLO
GAL 1,13-17; 1COR 15,8-10; FIL 3,7-14; 1TIM 1,12-17; RM 5,7-8; RM 8,31-35
Anche Paolo era un annunciatore del vangelo, della lieta notizia, e anch’egli vi imprime una sua sfumatura
di significato, così la parola ‘Vangelo’, dai profeti a Gesù, da Gesù a San Paolo, si è approfondita e arricchita
di significati nuovi, convergenti.
20
E, studiando un po’ la grande figura di Paolo, ci si accorge che la sua esperienza fondamentale, dalla quale
scaturì come conseguenza la sua vocazione missionaria e la sua teologia, fu l’esperienza di Damasco: un
incontro con la gratuità della salvezza.
Quando parliamo della “giustificazione per fede”: è proprio qui.
Se c’era uno che non meritava...
Quante volte vi ho detto: non esiste nel vangelo la meritocrazia, noi non meritiamo un bel niente, chi ha
meritato è stato Gesù Cristo e basta.
La nostra vita... diciamo così, c’è un’alleanza unilaterale: io non riuscirò mai a rispondere a quello che ho
ricevuto dal Signore; non riuscirò mai, perché Lui mi viene incontro, il resto... io posso fare neanche l’uno,
Lui fa nove per arrivare a 10.
E Paolo a Damasco ha capito la gratuità della salvezza, perché lui che era (dice) il persecutore della
Chiesa....se c’era uno che non meritava niente era proprio lui, Paolo, e lui è stato pescato proprio lì, e
questo in contrasto con la sua precedente ricerca religiosa, tutta basata sui meriti, sulle opere.
(Ecco perché gli Ebrei a quei tempi l’hanno fatto fuori).
Nei racconti della sua vocazione sottolinea unanimemente questo aspetto (Gal 1,13-17):
Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo, come io
perseguitassi ferocemente la Chiesa di Dio e la devastassi, superando nel giudaismo la maggior
parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com'ero nel sostenere le tradizioni dei padri.
Ma quando Dio, che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, si
compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani, subito, senza
consultare nessun uomo, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me,
mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco.
Dice poi (1Cor.15,8-10):
Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto [...].
Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana;
Ma queste cose che per me erano un guadagno.
Questo dal famoso testo della lettera ai Filippesi, quando fa un po’ il resoconto della sua esperienza umana
e religiosa, quando parla della sua osservanza:
ebreo da Ebrei, della tribù di Beniamino,
pensate, lui era chiamato Saulo, perché nella tribù di Beniamino c’era Saul, il primo re, quindi ha radici ben
fondate nel mondo ebraico;
Ma queste cose che per me potevano essere un guadagno, le ho considerate una perdita a motivo
di Cristo.
Anzi, ritengo che tutto ormai sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo
Gesù, (notate) mio Signore.
(in genere parla di nostro Signore, qui dice: mio Signore)
Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, al fine di guadagnare Cristo
ed essere trovato in lui, avendo come mia giustizia non quella derivante dalla legge, ma quella che
deriva dalla fede in Cristo, basata sulla fede [...].
Poi: dimenticando quello che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta davanti, corro verso la
mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù.
Questo è il famoso capitolo terzo della lettera ai Filippesi.
Poi c’è anche la prima lettera a Timoteo:
Rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, [...].
Mi è stata usata misericordia, (parlando del suo passato) perché agivo per ignoranza, lontano dalla
fede; così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in
Cristo Gesù.
In tutti questi passi -abbiamo letto Corinzi, Filippesi, Timoteo- pur nella varietà dei particolari, si
intravedono con chiarezza alcune linee costanti, che formulano, direi, il nucleo essenziale dell’esperienza
cristiana.
21
Paolo è convinto che nel suo incontro con il Signore si è fatto chiaro il senso centrale e irrinunciabile della
lieta notizia: la salvezza viene da Cristo, non da noi.
Togliamo tutte le nostre meritocrazie: la salvezza viene da Cristo.
Ecco perché la nostra vita è soltanto una risposta di amore a Cristo.
É questa la logica che guida l’intera storia dell’uomo, di tutte le persone: l’amore gratuito di Dio, questo
patto unilaterale. É Lui che ci salva.
Noi, più ci innamoriamo del Signore, più daremo una risposta... ma, da notare, che più do una risposta in
sintonia col Vangelo, più dilato la mia umanità, più divento me stesso, più divento ciò che Dio ha sognato
per la mia vita. Ma a partire dall’amore gratuito di Dio: qui sta la sicurezza, l’unica vera sicurezza che
abbiamo, non altrove.
Questo è per Paolo il Vangelo!
Allora capite cosa è il Vangelo, questa lieta notizia:
da una salvezza-conquista a una salvezza-dono
Mettiamocele in mente queste cose.
Da una salvezza conquista “io mi salvo l’anima”: tu non ti salvi niente, è Lui che ti salva.
~ DA UNA SALVEZZA-CONQUISTA A UNA SALVEZZA-DONO ~
Ecco la rivelazione che fa per Paolo la grande notizia, che gli dischiude finalmente il senso della vita, di ogni
sua ricerca.
A parte i racconti della sua vocazione, ve ne sono altri che esprimono questa gioiosa scoperta di Paolo, ne
leggo soltanto due: pensate a Romani 5,7-8:
Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno ci starebbe a morire per
una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo
ancora peccatori, Cristo è morto per noi.
Queste sono cose che Paolo scrive ai Romani. La lettera ai Romani, è un po’ il suo monumento. E, sempre ai
Romani (Rm.8,31-35):
Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha
consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui?
Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica.
Chi condannerà? Cristo Gesù, è morto, anzi, è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi!
Chi ci separerà dall'amore di Cristo?
Visto questo amore incrollabile di Dio nei nostri confronti?
Questo è il Vangelo!
Quando dicevamo all’inizio EVANGELIZZARE È COMUNICARE LA LIETA NOTIZIA: questa è la lieta notizia, questo
amore incrollabile di Dio nei nostri confronti.
Nulla può smentire questo amore di Dio. Noi possiamo abbandonare il Signore, ma il Signore non
abbandona noi. In altre parole la nostra salvezza non è più affidata alle nostre povere forze, ai nostri meriti
sempre scarsi, alle nostre osservanze a volte smentite: la salvezza è dono dell’amore di Dio che ci ama
quando siamo ancora peccatori.
Questa è una notizia che allarga il cuore e instaura con Dio rapporti di gratitudine.
Quanta paura c’è ancora di Dio, quanta paura...
Io non so domani cosa diranno molti miei confratelli nelle omelie, alla luce del Vangelo, perché c’è una
letteratura apocalittica. Quando si parla dei generi letterari era in voga anche ai tempi di Gesù. Quindi
quando sentite certe cose disastrose che sembra caschi chissà che cosa: è un linguaggio tipico del tempo
che va decodificato, non si può leggere in modo fondamentalista. Perché?, perché io smentirei quello che
dico: la salvezza è un dono dell’amore di Dio, che ci ama anche quando siamo peccatori.
E questa è una notizia che allarga il cuore e instaura con Dio rapporti di gratitudine, sereni, non più rapporti
di paura, di ansietà. Impegno certo, impegno certo sì, ma non ansietà, nemmeno paura.
22
Per questo che gli antichi Padri della Chiesa parlavano del cristiano come di “un uomo serio e sereno”.
Siamo persone serie, ma serene. Serio perché il cristiano conosce anche l’ampiezza dei propri doveri,
misura tutta la propria responsabilità, sa che il mondo è affidato anche alle nostre mani, alla nostra libertà,
e la nostra libertà è fragile.
Ma sereno perché il cristiano sa che, alla fin fine, tutto è nelle mani di Dio, tutto poggia sul suo amore che
non può smentirci, non può abbandonarci.
E poi tocchiamo l’ultimo punto.
EVANGELIZZARE È UNA ESIGENZA
Capite perché evangelizzare diventa una esigenza?
Al centro di tutti i passi che abbiamo letto, campeggia la lieta notizia presentata non soltanto come una
notizia che sei incaricato di annunciare, ma ancor prima e soprattutto, presentata come una notizia che tu,
tu hai ascoltato, che ti ha cambiato. Ecco la vera evangelizzazione.
A questo punto (tante volte l’ho detto) non serve un catechismo, serve la tua esperienza personale, cosa ha
voluto dire Gesù per te, come lui ha trasformato la tua storia, come ha cambiato la tua vita, come ti ha
cambiato. Da qui nasce la missione, l’incarico.
Una lieta notizia identica nella sostanza, ma diversamente formulata e percepita, ma sempre gioiosa,
liberante, trasformante.
Cioè, ricapitolando e sintetizzando quanto evidenziato potremmo così schematizzare:
La lieta notizia è l’annuncio che l’esistenza dell’uomo non è più come l’erba, la Parola di Dio la
sostiene.
La persona scopre di possedere una insospettata solidità, la morte è vinta. La Parola si è unita alla
nostra fragilità e la nostra fragilità è entrata nel mondo di Dio. Cioè la vita non è più un’avventura
senza senso e nemmeno una ricerca senza un approdo.
La lieta notizia è l’annuncio che Dio ama ogni persona, senza differenze. Ogni persona conta, è
preziosa, non ci sono emarginati di fronte a Dio, anzi gli ultimi sono per Lui i primi.
Una notizia questa che rende di colpo ingiustificate tutte le emarginazioni, anche se a volte è fatica
stare accanto a certi immigrati (li chiamiamo anche mussulmani, forse un po’ rigidi), è faticoso, però
sono figli di Dio anche loro; hanno alle spalle un’altra storia, è vero. Però per Dio gli ultimi sono i
primi, quindi rende ingiustificate tutte le emarginazioni che noi costruiamo. Lui dà agli ultimi, agli
esclusi, una dignità; è capace di scuoterli, così che anch’essi intraprendano con coraggio il loro
cammino di liberazione.
La lieta notizia è che la salvezza non è più affidata alle fragili forze dell’uomo e ai suoi meriti,
sempre scarsi. La salvezza è un dono della liberalità divina, dell’amore di Dio che ci ama quando
ancora siamo peccatori.
É una notizia che allarga il cuore e instaura con Dio veramente rapporti di gratitudine.
Ecco dunque le tre esperienze dell’uomo del Vangelo: tre esperienze gioiose, liberanti, da cui scaturisce
ovviamente un imperativo, una morale; una morale che è risposta, non degli imperativi categorici, è una
risposta, è una esperienza di conversione che è gioia: prima c’è la Parola, poi c’è la mia risposta gioiosa.
Da queste tre gioiose esperienze scaturiscono l’annuncio, la testimonianza, la missione, il desiderio di
evangelizzare e rievangelizzare.
Quindi un dovere che, una volta che hai capito queste cose, un dovere che non senti più come un ordine
che viene dall’alto, ma come una esigenza che parte dal di dentro, parte dall’interno. Il senso della vita che
hai scoperto non puoi tenerlo per te, la libertà che hai trovato gratuitamente non può essere solo tua.
Quindi, vedete, lo slancio apostolico nasce dall’esperienza della lieta notizia.
Ma, non è tutto: lo slancio missionario è autentico solo se riproduce il più fedelmente possibile la “Lieta
Notizia”.
23
Fare nuova evangelizzazione significa nient’altro che questo:
far scoprire il senso dell’esistenza;
far ritrovare una dignità agli esclusi;
convincere che la salvezza è dono di Dio.
Evangelizzare è anche un richiamo alla conversione.
Ma prima c’è la lieta notizia, poi, soltanto poi, c’è anche un avvertimento morale. Prima c’è la
consapevolezza di essere salvati, poi nasce la nostra risposta.
∗ ∗ ∗
Trasposizione da audio-registrazione non rivista dall’autore
Nota: La trasposizione è alla lettera, gli errori di composizione, le ripetizioni sono dovuti alla differenza tra
la lingua parlata e la lingua scritta.
La punteggiatura è posizionata ad orecchio e a libera interpretazione del testo da parte di chi trascrive.
∗ ∗ ∗
24