leggi un assaggio - Ad est dell`equatore
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la parola mala a cura di giovanni chianelli ambrosino, carillo, conforti, frasca, furfaro, gioia lombardi, sansonna, ursini, velonà, ziviello ad est dell’equatore guida alla lettura e alle eccezioni del libro La nostra ambizione era quella di realizzare un viaggio della parolaccia nella cultura italiana. Il volume, dunque, è generalmente diviso per categorie. Nella prima parte sono grossomodo corrispondenti a moderne ‘muse’: letteratura, cinema, teatro, musica. Nella seconda a canali, più o meno, sociologici come la politica, lo sport, i cult e la filosofia. Alcune lacune appariranno vistose: manca, ad esempio, la tivvù. Ma se ne parla in diversi luoghi del volume e, per così dire, sarebbe stato troppo facile. Il piccolo schermo non ha bisogno di presentazioni in questo senso. L’idea era quella di illuminare ogni campo con due contributi: uno generale e un altro speciale, come si suddividevano una volta gli esami universitari. Fortunatamente la rigidità di questo schema è stata progressivamente minata dalla scarsa vena del curatore e dagli affanni dell'editore che hanno, via via che si faceva sotto la scadenza per la stampa, subappaltato ad esperti anche i contributi generali. Fortunatamente perché così il volume è risultato meno monocorde, e fortunatamente perché gli specialisti erano decisamente più bravi del curatore e dell’editore – soprattutto del curatore. 10 Così per una carrellata completa nella sezione generale (letteratura, musica, politica, sport, filosofia) a cui corrisponde un focus nella sezione speciale, si potrà avere l’inverso (cinema) o nessuno dei casi (teatro e cult). Ma si, sennò sai che noia. Infine, la premessa era concentrarsi solo sull’italiano. E anche qui abbiamo scelto di operare delle eccezioni. Oddio, scelto. Sapete come vanno queste cose: tu chiedi a un’autorità come Gennaro Carillo di scrivere per te e se lui ti invia un saggio splendido e definitivo sull’osceno nella commedia durante la crisi della democrazia ateniese durante il quinto secolo avanti Cristo, il cui titolo è l’italianizzazione di un disco di Frank Zappa, posto che sempre tu ci abbia capito qualcosa, che fai, gli dici “Prof, mi scusi, il libro era sull’italiano?”. No. Giammai. Che poi gli ellenici sono un po’ come dei numi tutelari, dei lari, per noi del sud magnogreco. Oppure, un “polutropon”, per dirla con Carillo, come Gianluca Ursini, uno che ha vissuto in sette continenti su sei, alla sezione sport inserisce riferimenti a McEnroe e alla Corrida, con rimandi a Hemingway, puoi mai mostrarti zelante, campanilista, più realista del re? Che poi in questo caso non si capisce neanche chi è il re. Perciò si è eccepito, eccome. Tanto che Simona Frasca, stimata e rigorosa musicologa, in sede di consegna di un suo brano sulla musica, ha voluto fare la centrifuga e spendersi su hip hop americano e Mozart. Capito come vanno queste cose? 2 fuck, si ingiuria da totò a benigni, maleparole al cinema Quindici anni. Non sono molti. Neanche una generazione. Eppure è questa la distanza cronologica tra le uscite dei film “I due colonnelli”, con Totò, del 1962, e “Berlinguer ti voglio bene”, con Benigni, anno 1977. Pellicole esemplari, per il nostro studio. Prima di tutto perché hanno come protagonisti due comici di calibro: uno è probabilmente il più grande attore della storia del cinema italiano – c’è chi dice europeo, se non oltre – mentre l’altro diventerà vincitore di un Oscar. Due campioni, comunque, più che rappresentativi. Ed entrambi i film sono noti per l’uso del turpiloquio. In un modo diametralmente opposto: “I due colonnelli” è l’unico caso, in 97 film, in cui Totò pronuncia una parolaccia. Segnatamente “Culo”. Non particolarmente volgare, dunque. Mentre in “Berlinguer ti voglio bene” si assiste a un monologo di 2 minuti e 20 secondi dove maleparole e imprecazioni la fanno da padrone: “La merda della maiala degli stronzoli nel culo delle poppe pien di piscio co’gli stronzoli che escan dalle poppe de budelli de vitelli con le cosce della sposa che gli sorte fra le cosce troppe seghe dentro il cazzo troppi cazzi dentro il culo che gli spuntan dalle cosce che gli tornan dalle gambe con la mamma ni’ppompino della nonna che gli schianta da il su’ corpo che gli leccano la schiena poi gli sputa ne’coglioni e gne lecca ni’ggroppone co schiantassi tra le zolle che si 46 striscia’n mezz’all’erba che le mamme tutte gnude che si struscian dalle file e si sgroppan con la schiena co le poppe sbatacchiate senza latte che si scopran tra le mucche che si infila che gli sorte’n mezz’all’erba che gni gira’mmezz’a’denti che gli sputa qunand’e’n’terra e gli mettano le seghe nella fica e si gode tutti insieme e si gode tutti insieme e lo guardan da lontano co i’ggroppone’nsudiciato e le cosce la su sposa co’i’mmarito i’pparente gliene schianta gni piglia d’ipparente con la carne dentro il corpo co i’ccorpo nella carne e la mamma sdraiata tra le zolle che gli mena le zolle che gli tornan sulla terra e gni schiantano’parenti glene leano tre vorte glene sortano diciotto…”. Pure il casus ingiuriae è distante anni luce. Totò, che nel film è il colonnello Antonio Di Maggio, distaccato sul fronte greco, stava replicando all’ordine impartito da un ufficiale della Wehrmacht di attaccare un paese inerme occupato dagli inglesi. Nonostante siano nemici, Di Maggio durante l’occupazione ha stretto rapporti ottimi con il colonello inglese, Henderson, interpretato da un meraviglioso Walter Pidgeon. E non vuole fare una carneficina nella comunità che lo ospita ormai da anni. Quando il sanguinario Kruger, il maggiore nazista, gli chiede di far esplodere i mortai e radere al suolo l’abitato, Di Maggio, anche per via delle suppliche dei suoi soldati che nel frattempo in paese hanno trovato fidanzate e amici, fa un passo indietro. Il maggiore gli ricorda che “ha carta bianca”: e lì Totò, prima collerico e poi quasi imbarazzato, gli risponde un liberatorio: “E ci si pulisca il culo, va bene?”, tra gli applausi e le ovazioni della truppa. Benigni, nelle consolidate vesti di Mario Cioni, alter ego che il comico trascinava dai tempi delle feste di paese, nel film è un muratore venticinquenne della campagna toscana che passa il tempo con gli amici o al cinema, a vedere film porno. Tanto scurrile quanto sessualmente impedito, tenta maldestramente di abbordare le ragazze nella sala da ballo del bar sotto casa; proprio nel giorno in cui sta per riuscirci alcuni suoi amici gli fanno uno scherzo, facendo annunciare la morte di sua madre. Il giovane, sconvolto, 47 vaga allora da solo per la campagna, esplodendo in questo soliloquio al ritmo di una parolaccia ogni due termini. Quindici anni per una rivoluzione. Perché quella detta da Totò ha anche un altro motivo di interesse: è la prima parolaccia a fare la sua apparizione nel cinema italiano. Da sempre capofila, con quel veloce riferimento al posteriore Totò ha aperto la strada a un genere che da quel momento in poi sarà più che frequentato dalla nostra settima arte. Commedia all’italiana, B movie, trash, fino ai cinepanettoni. Cosa è successo nel cinema italiano? Cosa ha permesso, in soli quindici anni, di passare da un pudico ‘culo’ a una tale scarica di volgarità? Considerando che ci ha messo quasi settant’anni – per convenzione si fa risalire la nascita del cinema italiano alla prima proiezione pubblica dei fratelli Lumière, avvenuta il 13 marzo 1896 presso lo studio fotografico Le Lieure di Roma – si può dire che l’osceno in celluloide nel Belpaese recupera presto e bene. Merito, da una parte, dell’aria di censura che si respirava in tv: rispetto al piccolo schermo il cinema divenne megafono di licenza e libertà espressiva. Dall’altra della politica. Per cui nel volume La commedia all’italiana. Il cinema comico in Italia dal 1945 al 1975 si sostiene che “la via libera ai seni nudi – i primi due si videro in un film di importazione, L’uomo del banco dei pegni di Sidney Lumet, 1965 – e alle parolacce fu il più vistoso contributo del Partito Socialista al grande schermo italiano”. Non è dunque necessariamente un caso che proprio in quegli anni il principe della risata aprisse le danze e che queste continuassero, sfrenate, fino all’acme benignana. Il problema è però il percorso. La strada opposta che i due comici si trovano a compiere, su questo terreno quasi minato. Come si può notare dai periodi siamo in fasi differenti della rispettiva produzione. Nel film del 1962 troviamo un Totò all’apice della maturità, padrone incontrastato del botteghino ‘popolare’, e nel momento forse migliore della carriera. Benigni è invece agli esordi nel mondo della cellu- 86 Molte o poche che siano, le parolacce vergate sul pentagramma continuano a incuriosire anche dopo secoli e non potrebbe essere diversamente: abituati a pensare ai grandi compositori come esseri senza macchia e distanti da qualsiasi volgarità, non si può credere che dalla bocca di un genio della musica potessero uscire parole da trivio. E infatti non si trattò di un solo genio ma, come sanno i musicologi, di più autori che espressero una loro personale visione del turpiloquio lasciando a noi il piacere di una scoperta dai connotati talvolta pruriginosi. Così ascoltiamo Ammore, brutto figlio de pottana - superflua la traduzione dalla lingua napoletana - una cantata per tenore e basso continuo di Alessandro Scarlatti, uno dei maggiori esponenti e fondatori dell’opera barocca di scuola napoletana. In un esplicito atto di autocommiserazione l’infelice Ciccio se la prende con Amore che l’ha fatto innamorare di Zeza facendogli perdere la ragione: “Me facea lo fatto mio, lo cerviello stava stabile”, mentre l’innamoramento l’ha reso “storduto e ‘mpezzentuto”. L’esortazione finale a Zeza di concedersi all’innamorato anche se dotato di scarsi attributi è tutta una soave antologia di doppi sensi tratti dal mondo vegetale che tirano la narrazione verso una conclusione comica e ingloriosa del povero Ciccio al quale Zeza dichiara: Non voglio pezzenti innamorati, non lo sai che non è per tutti lo “magnare allesso”?! Vero è che il contesto musicale napoletano nella sua prossimità al mondo plebeo e contadino ha spesso fatto riferimento a quel linguaggio dando in questo modo identità ad un genere musicale e operistico del tutto specifico. Basti pensare a come Roberto De Simone nel 1976 miscelò l’eccezionale materiale che aveva a disposizione per scrivere la sua opera collage La gatta Cenerentola. Ma ancor più di Scarlatti e dell’opera buffa napoletana ha fatto Mozart. Nel film Amadeus (1984), Milos Forman ci ha mostrato un artista lontano dal comune immaginario e le sue celebri 87 Lettere alla cugina2 Maria Anna Thekla Mozart confermano e rafforzano l’interpretazione del regista ceco, illustrando anzi nuove ipotesi. Fin dallo stile, il compositore dimostra una grande padronanza della lingua tanto da servirsene come in una composizione dadaista ante litteram. Mozart ironizza sul suo stesso nome, definendosi “Joannes Chrisostomus Sigismundus Amadeus Wolfgangus Mozartus” e quel che segue non è da meno. Le lettere indirizzate alla amatissima bäsle häsle, “cuginetta coniglietta”, sono ricche di allusioni tra il sessuale e lo scatologico e di riferimenti espliciti alle feci, alle scorregge, agli organi genitali, ai porci e alle loro code, sempre sospese tra il calembour e la trivialità diretta. Ma possiamo davvero definire volgare, ad esempio, quella inviata da Mannheim il 5.11.1777? Qui Mozart racconta di una “triste storia che è accaduta in questo momento. Mentre sono tutto intento a scrivere la lettera, sento qualcosa fuori in strada. Smetto di scrivere – – mi alzo, vado alla finestra – – e – – non sento più niente – – mi risiedo, ricomincio a scrivere – – non ho scritto neanche 10 parole che sento di nuovo qualcosa – – mi rialzo – – come mi alzo sento ancora qualcosa, ma molto debole – – però c’è odor di bruciaticcio – – puzza, ovunque mi sposti. Se guardo fuori dalla finestra l’odore scompare, come guardo dentro, rieccolo – – finalmente la mamma mi dice: scommettiamo che ne hai mollato uno? – – non credo, mamma. Sì, sì, è proprio così. Faccio la prova, mi infilo il primo dito nel culo, poi annuso e – – ecce provatum est: la mamma aveva ragione”. C’è avanguardia linguistica in tutto questo. E non basta; il 13-11, apre con decisione all’autoanalisi del testo: “Perdoni la mia brutta scrittura, ormai la penna è vecchia, da quasi 22 anni cago dallo stesso buco, e non si è ancora consumato! – nonostante le volte che ho cagato – – e con i denti la merda ho staccato”. 2 W.A. Mozart, Lettere alla cugina, Feltrinelli, Milano 2013. 126 LA LAVATRICE. NON MI SERVE. NE LA LAVATRICE NE IL FRIGORIII… COSO… Bontempi: ma scusa… allora… vabbò ma scusa, non te serve, ma tu nu domani se sposa a fija, te jela dai? Magnotta: MA CHE ME NE FRÈGA A ME DE MIA FIJA, DI DOMANI? MA PERCHÉ MI VUOI APPOPPIARE STA LAVATRICE, PORCA MADONNA! FRA VENT’ANNI SE SPOSA MIA FIJA, CHE CAZZO ME NE FREGA FRA VENT’ANNI? IO NON HO CAPITO PERCHÉ VOI MI VOLETE APPIOPPIARE STA BENEDETTA LAVATRICE. IO QUESTO ANCORA NON RIESCO A CAPIRLO. Bontempi: ma… Magnotta: IO, IO STASERA STESSO TELEFONO AL MIO AVVOCATO E VEDIAMO UN PO’ COME SI… Bontempi: vabbò, non mette con gli avvocati… Magnotta: NOOO… IO CI METTO L’AVVOCATO PERCHÉ MI AVETE ROTTO I COJONI Bontempi: Gli avvocati… Magnotta: IO STASERA STESSO TELEFONO Bontempi: Gli avvocati della San Giorgio… Magnotta: NOOO… Bontempi: …te fa nu culo come na chiesa Magnotta: …io sto a posto… senda… Bontempi:eh Magnotta: per cortesia… io so a posto, io sta benedetta lavatrice l’ho pagata, l’ho presa… eeehhh… Bontempi: ma pijate o frigorifero, no? Magnotta: MA CHE ME NE TENGO A FARE DEL FRIGORIFERO SE CE L’HO. MA PERCHÉ MI VO… MI VOLETE APPIOPPARE LA ROBA A ME… IO QUESTO NON CAPISCO… PERCHÉ MI VOLETE APPIOPPIARE LA ROBA PORCO DIOOO… MANNAGGIA LA MA- 127 DONNA! LA DOVETE SMETTERE PORCA MADONNA, CHE IO, MANNAGGIA DIO VE METTO NA BOMBA, EH. LA DOVETE PIANTARE, MAGNOTTA PER VOI È MORTO… È MORTO, PORCA MADONNA. Bontempi: oh, non fa o delinquente. Magnotta: MA NON FACCIO O DELINQUENTE MA IO FACCIOOO…VERAMENTE MI ISCRIVO AI TERRORISTI EH, MI ISCRIVO AI TERRORISTI PORCO DIO! Bontempi: vabbè… Magnotta:eh! Bontempi: tu resolvemo la… Magnotta:NOOOOOO!!!!!!!!! NOOOOOOOOOOOOOOOOOO!!!!!!!!! NOOOOOOOOOOOOOOOOOO!!!!!!!!! NON NE VOGLIO SAPERE… PORCO DIO! … Bontempi: …ma… che cazzo te strilli? Magnotta: MA CHE CAZZO, TU MI STAI ARROMPENDO I COGLIONI, PORCO DIO! ADESSO NON NE POSSO PIÙ, EH. LASCIATEME PERDE, EH. Bontempi: ma te demo… Magnotta: LASCIATEMI PERDERE PORCO DIO! Bontempi: ma scusa, ma… Magnotta: NOOO!!! NOOO!!! Bontempi: ma pijate’… Click. Stremato, Magnotta chiude. È l’ultima parola che sentiremo dello “scherzo della lavatrice”. Per quanto le si possa riportare, non esistono parole scritte che si avvicinino alla potenza espressiva di Lavatrice 4. 128 Ci limiteremo a dire che è un’opera d’arte. L’urlo conclusivo e disperato di Magnotta è assoluto. È la voce che uscirebbe dal quadro di Munch se questo potesse parlare. È una dimensione senza salvezza, come se nella centrifuga della lavatrice ci fosse finito lui in persona. Ancora più crudele è il cosiddetto “scherzo della moglie”. Magnotta riceve le telefonate del presunto amante della moglie, che, con tono confidenziale e amichevole gli chiede di riprendersela o, quantomeno, di aiutarlo a mantenerla. Anche questo è paradossale, e “Bruno il pasticciere” non può che ricordarci Diego Abatantuono nei panni di Cecco il panettiere, il nipote del fornaio in Fantozzi contro tutti e supposto amante di Pina Fantozzi. Sia la moglie del “ragionier Ugo” che quella di Magnotta si chiamano Pina, ma le analogie terminano qui (mentre ce ne sono tra Magnotta e la creatura di Paolo Villaggio): nel film, il rapporto extraconiugale con il panettiere esiste solo nelle fantasie di Milena Vukotic – Pina Fantozzi; nella realtà, “Bruno il pasticciere” pare sia stato davvero l’amante di Pina Magnotta, mentre è certo è che i due abbiano davvero divorziato. Peccato che Bruno non abbia mai contattato il Nostro per chiedergli aiuto. È sempre il duo Videtta-De Dominicis a farlo in sua vece cercando, contro ogni logica, la complicità di Magnotta in un dialogo surreale dove lui, amante della moglie e causa principale del divorzio, vorrebbe che Magnotta lo aiutasse economicamente perché Pina chiede “tre palline” (tre milioni) e gli ha fatto anche fallire la pasticceria. Pina invece è tornata a Napoli, sua città d’origine e tra i due non esiste più nessun contatto né possibilità che Magnotta la chiami per chiedere spiegazioni. Bruno intanto prega Magnotta di bloccare le pratiche per il divorzio perché la loro relazione è finita da un paio di mesi. E anche qui c’è da stupirsi del perché Magnotta esploda solo al 7 da giulietta a hemingway l’epica scurrile dello sport gianluca ursini Giulietta, si sa, era ‘na zoccola. Per poter parlare dell’insulto tra sportivi, e in senso lato nello sport, si deve cominciare dallo scarto di genio di Toni Faiella e dei Blue Lions; estro, purissimo, prerogativa che, nel Belpaese, è spesso appannaggio di vicoli e angiporti della capitale borbonica. Se non proprio un insulto diretto, una perifrasi, irrisoria come poche ma disarmante, incapace di suscitare sdegno e rappresaglie dalla parte avversa, tutt’al più in grado di far sorgere un mezzo sorriso, quasi di compiacimento, per lo scherno ben indirizzato. Siffatto improperio, a guisa di striscione, venne eretto dagli ultra della Curva B del Napoli nella gara di ritorno del campionato di serie A Napoli – Hellas del 1996, ed era una risposta ai cori razzisti scaligeri di ben un decennio prima, nel febbraio del 1986, quando i partenopei erano stati accolti al ‘Bentegodi’ con l’accusa di essere alieni all’igiene di base di saponetta e H2O, al coro di “quanto puzzate, terroni quanto puzzate”, sulle note di Guantanamera, con considerevole sprezzo artistico – va aggiunto – per una delle perle della tradizione 144 canora caraibica del Son cubano. E il “Giulietta” si vendicò. Mai si ricorda altro insulto più capace di retropensiero, più sottile, distinto, acculturato e insieme retrivo, caustico e offensivo, mirato a minare nell’onore la specchiata moralità e insieme le fondamenta del sodalizio familiare, cioè le basi di Es, Io e super Io di tifosi e comunità scaligera tutta; geniale, come tutti i prodotti culturali partenopei, dalla canzone al teatro, passando per le novelle; anche questa è arte pura: l’arte tutta italica del dileggio e dell’insulto. Un primato che viene infatti anche riconosciuto all’estero, nell’opra maestra sull’argomento, quantomeno nelle lingue europee più parlate: si tratta del tomo fondamentale iberico Diccionario del Insulto edito nel 2000 per i tipi di Peninsula, editore di Barcellona, a firma dei tre accademici Juan de Dios Luque, Antonio Pamies e Francisco José Manjòn, i quali riconoscono una vena originale agli iberici e latinoamericani in quella che considerano una arte letteraria, un genere creativo a sé stante; ma il palmarès di migliori ‘schifatori’ del pianeta viene dagli iberici attribuito agli italiani; e non mancano certo gli esempi per provarlo. A cominciare dagli sport praticati da noi italici. Nel calcio si hanno la maggiore messe di annali: dalle umili categorie, col sarcasmo umbro del regista numero 44, Fabio Gatti, che in serie C nell’agguerrito derby di coppa con il Gubbio, riuscì a farsi cacciare con cartellino rosso per un apprezzamento nemmeno salace, scherzoso ma nemmeno livoroso, rispetto alle virtù intellettive dell’uomo in nero: “Arbitro, a te te cresce l’intelligenza come la cresta al gallo”. E parlando di espulsioni e di insulti umbri, la più famosa della nostra storia calcistica, e anche la più fortunosa per gli eventi a noi favorevoli che ne seguiranno, rimane quella di Zizou Zidane nella finale di Berlino del 2006, per la testata in petto al nostro centrale difensivo Marco Materazzi, a seguito di un insulto del perugino