Introduzione - Laboratorio MAPPE
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Introduzione - Laboratorio MAPPE
Laura Faranda Viaggi di ritorno. Itinerari antropologici nella Grecia antica. Armando Editore, 2009 Introduzione Imperversa la canicola e un gruppo di amici decide di trascorrere quel che resta dell’estate in viaggio per l’Europa... Inizia così una convulsa consultazione dell’atlante, ma presto il pomo della discordia semina il caos. C’è chi vorrebbe oltrepassare le colonne d’Ercole, c’è chi, sensibile al canto delle sirene, veleggerebbe sul Tirreno non distante dalla costa, magari da Partenope a Capo Peloro (evitando ovviamente le correnti di Scilla e Cariddi); e c’è chi propone di inseguire la luce verso i mari del nord. Insomma ognuno alla ricerca della propria Itaca minaccia di piantare in asso l’amico discorde. Il più anziano del gruppo infine tenta di sciogliere il nodo gordiano proponendo laconicamente di non andare troppo lontano, di evitare che una vacanza si risolva in una inutile fatica di Sisifo: meglio non allentare troppo il legame edipico e onorare la madre-terra con un viaggio meno esotico e più “intimo”, senza sforzi titanici. Gli fa eco, enigmatica, la più giovane del gruppo: “Dovunque si vada, che nessuno rifugga dalla proprie chimere, che ciascuno di noi sappia convivere con il narcisismo di un ritorno, senza alibi né timori per quel tallone di Achille che ci appartiene”. Come Gilgamesh e Ulisse, come Conrad e Indiana Jones i nostri amici, consapevoli o meno, hanno già iniziato il loro viaggio nel mito: specchio immaginale di un’odissea interiore o mappa di una geografia non sempre decifrabile, il loro viaggio sarà anzitutto l’ombra opaca, la palestra virtuale di un sapere che si appalesa, prima ancora che nel paesaggio, nei transiti straordinari del linguaggio. Una lingua che importa storie e nella quale si snodano e si depositano le occasioni, le metafore, le locuzioni che danno forma al significato di un termine, di una figura retorica, di una evocazione mitica. Per cominciare il nostro viaggio di ritorno proviamo allora a ripercorrere la mappa mitica del loro progetto. Viaggiare per l’Europa potrebbe indurci a viaggiare “con” l’Europa del mito greco da cui prende il nome il Vecchio Continente: una giovane rapita da Zeus mentre raccoglie fiori lungo la spiaggia di Tiro, in Fenicia, e che dopo essere stata posseduta dal dio viene condotta dalle coste africane verso Creta, nell’estremo sud dell’attuale Europa mediterranea, dove sposerà il re dell’isola, affiancata da quella stella canicola, la “piccola cagna” che Zeus porrà a custodia del suo passo, per poi restituirla alla sfera celeste come Sirio, la stella che brilla nelle torride notti d’estate. 1 Nel consultare un atlante per disegnarvi idealmente le tappe di un percorso, forse a molti torna ancora alla mente il destino mitico dell’omonimo Titano, l’Atlante che Zeus punisce per la sua insubordinazione, costringendolo a sostenere sulle spalle la volta celeste, a tutela di quell’ordine cosmico che si contrappone al caos originario. E le virtuali Colonne d’Ercole che delimitano lo stretto di Gibilterra non rinviano forse a un’altra fatica mitica, quella di Eracle che, spintosi ai confini del mondo occidentale, spacca i monti Calpe (in Europa) e Abila (in Africa) perché il Mediterraneo unisca le sue acque con quelle dell’Oceano? Un gesto fondativo che dilata i confini del conoscibile e che si origina in una narrazione ricca di conflitti e di contrasti, nello stesso universo divino in cui Eris, dea greca della discordia, getta sulla tavola imbandita la mitica mela d’oro su cui sta incisa la dedica “alla più bella”, originando una lite fra tre dee per il possesso di quel pomo della discordia ancora vivo nel nostro linguaggio corrente. Mondi mitici sempre in movimento, quelli del nostro Mediterraneo antico, come le figure che li animano, in un pantheon olimpico antropomorfizzato che fronteggia mostri arcaici, come Scilla, Cariddi o le Sirene appostate sulle coste del mare nostrum, a delimitare le rotte dei marinai dal golfo di Partenope (città, sirena e madre) alla punta sicula di Capo Peloro. Se ogni viaggio prevede una meta, la memorabile Itaca non può che incarnarne la metafora, e chi si avventura in un viaggio senza inseguire una fantasia di ritorno, fedele al legame edipico con la terra-madre, rischia di ripercorrere il destino di Arianna, che dopo aver reso possibile a Teseo, grazie al suo mitico filo, l’orientamento nel labirinto e la vittoria sul Minotauro, viene “piantata a Nasso” dall’irriconoscente eroe (da cui l’espressione piantare in asso, che deforma e occulta la geografia mitica dell’evento, ma non il senso tragico di un abbandono immeritato). Nodi e insidie accompagnano ogni viaggiatore e si disseminano in ogni linguaggio che pretenda di riconoscersi nel cammino della storia: come quel nodo gordiano al quale ancora oggi si allude per evocare una questione assai intricata che richiede la stessa energia investita da Gordio, il fondatore eponimo della capitale della Frigia che saldò il suo carro di viaggiatore nomade alle radici della terra con un nodo inestricabile. La leggenda vuole che solo Alessandro Magno, prossimo alla conquista di quella terra, dopo infruttuosi tentativi sciolse il nodo con la risolutezza di un’azione imprevista, tagliandolo di netto con la spada. Deciso e incisivo il gesto di Alessandro, come concisa e laconica fu la lingua degli abitanti della Laconia, quegli Spartani noti per i loro costumi sobri (spartani per l’appunto) e per lo stile insofferente a ogni retorica, da cui la nostra lingua mutua una postura, un atteggiamento, una espressione ispirata alla misura del “laconico” distacco. Diverso il destino consacrato alla retorica della dissipazione, quello del mitico Sisifo, ricordato come il più astuto fra i mortali, punito dagli dèi per la sua tracotanza e condannato a spingere in eterno, nell’Ade, un enorme macigno che giunto all’estremità 2 di una collina rotolava nuovamente in basso, così da costringerlo a ricominciare un cammino estenuante e infruttuoso, ancora oggi ricordato come fatica di Sisifo. Sforzi titanici, infine, quelli con i quali ancora oggi ci misuriamo (nella lingua come nella vita) quando non ci rassegniamo al fatto che i nostri viaggi, i nostri percorsi, le nostre avventure identitarie hanno perso consistenza dialettica, non si affidano più alla tenacia mitica di quelle divinità primordiali (i Titani) impegnate a transitare verso un mondo “nuovo” senza perdere di vista che non si dà luce senza ombra, non si dà confine senza coscienza dell’oltre, non si dà patria senza una madre (o una madrelingua) che scandisce ogni viaggio, confinandolo o dilatandolo nelle rotte dell’io. In fondo ogni viaggio – per terra o per mare, nei labirinti del sé o in quelli della lingua, fra i gorghi di un’intuizione onirica o fra le pagine di un libro – dovrebbe essere anzitutto una promessa di fedeltà all’enigma della giovane viaggiatrice che ci introduce nel nostro “viaggio di ritorno”: figlia di una fantasia narrabile nella coscienza mitica (e reiterabile nelle locuzioni della lingua), ci piace immaginarla giovane come una ninfa e imperscrutabile come una sfinge, con il volto velato dall’ansia di chi conosce la natura vulcanica, tellurica, inferica di ogni chimera; consapevole delle insidie che riattualizzano il Narciso del mito, condannato a perdersi nella propria immagine per non aver prestato ascolto al richiamo d’amore della ninfa Eco; ma anche vulnerabile, come ogni viaggiatore che si rispetti, figlia di una nostalgia che si incarna in una ferita mitica, nell’ossimoro in cui si ingenera il mito di un tallone fragile che muove il passo di un eroe dal pié veloce. Questo libro parte da qui. E se il motivo del viaggio ne connota il titolo, la partenza va quanto meno dichiarata. Si parte dal presente, o meglio dalle tracce nel presente di un passato che ritorna, che affiora sul solco di una lingua o si insinua nelle mitologie contemporanee; un passato mitico che ancora si riveste di senso nei messaggi subliminali di uno spot pubblicitario o nelle stazioni devozionali di una processione mariana, oppure nella navigazione sul web che ogni giorno congiunge, mette in link, connette, immette la nostra mente di viaggiatori in un sistema di appartenenze. “Miti d’oggi” li potremmo chiamare con un omaggio all’impegno demistificante e ancora attuale del grande semiologo Roland Barthes, che in un saggio destinato a fare epoca, riflettendo sull’abuso ideologico del binomio natura-storia, credette di rinvenire nel mito la parola scelta dalla storia per dare forma al senso.1 La storia sceglie il mito per mettersi in forma e, parafrasando Barthes, tra le figlie della storia la lingua (lo si è visto) è quella che oppone meno resistenze al richiamo del mito. Il nostro viaggio parte quindi dal presente e non si tratta di una falsa partenza, anche se i miti d’oggi, la loro sopravvivenza subliminale, la loro persistenza semantica, la loro “godibilità” saranno pretesti più o meno arbitrari per interrogare quelli di ieri. 1 R. Barthes (ed. or. 1957), Miti d’oggi, Einaudi, Torino 1974, p. 192. 3 L’ambizione ultima sarebbe infatti quella di restituire efficacia antropologica a un percorso nel mondo antico, proprio a partire dalla ineludibilità di un simile riscontro per una revisione critica della materia etnografica e di quella antropologica tout court. Da diversi anni il mio impegno scientifico e di ricerca convive con due anime, una rivolta al passato – e a un suo recupero antropologico rigorosamente mirato, se si vuole posto a servizio di un presente da restituire ai suoi calchi identitari – e l’altra proiettata sul presente, sui transiti e le memorie che affiorano nella dialettica di un incontro con mondi altri, sulle sfide di uno sguardo rivolto a quei corpi “mirabili e narrabili”2 che viaggiano (più spesso naufragano) stranieri a se stessi e che approdano nel nostro paese come icone del dolore, partendo forse dalle stesse coste da cui arrivavano quelle Madonne nere destinate a incorporare la devozione popolare del nostro Sud. Due anime in fondo prolungabili nella stessa natura epistemologica delle discipline antropologiche, che ancora oggi, specie all’interno della tradizione di studi italiani (persino nelle loro denominazioni formali) resistono a una collocazione monolitica nell’ambito delle scienze sociali o all’interno di una tradizione prevalentemente storiografica. Le tappe formative che hanno caratterizzato la mia attenzione antropologica sulla Grecia antica ho cercato di riassumerle altrove;3 le ragioni autobiografiche (ammesso che abbia senso evocarle) si originano significativamente in un viaggio che risale ai miei anni di formazione universitaria: ero iscritta a Roma, alla Facoltà Lettere e Filosofia e frequentavo con esiti incoraggianti il Dipartimento di filologia classica. Totalmente rapita dalla passione per la drammaturgia antica, l’incontro con la Grecia l’avevo progettato come un’occasione di immersione (a dire il vero un po’ tardoromantica) nella vertigine del mito: l’ebbrezza dell’Acropoli o del teatro di Dioniso, la rilettura delle Eumenidi di Eschilo in una mattina di agosto, seduta (a rischio di insolazione) tra gli spalti del teatro, in prima fila, di fronte alla schené, nel posto che nell’Atene classica spettava all’arconte eponimo; e dopo Atene Delo, terra natale di quell’Apollo “che non dice, né nasconde, ma accenna”; e quindi l’arcipelago delle Cicladi, dove la familiarità di un ritmo insulare e la potenza straniante del meltemi (il vento che soffia implacabile sull’arcipelago) mi dischiudevano un mondo nuovo, inatteso. La sosta più lunga la feci a Tinos, un’isola a quei tempi disdegnata dai turisti, che scoprii roccaforte cattolica in una Grecia ortodossa. Vi approdai il 13 agosto e proprio in quei giorni si celebrava una festa in onore della Vergine Assunta che avrebbe affollato l’isola di pellegrini. Arrivavano da tutta la Grecia su navi fatiscenti e pernottavano nel santuario, mentre gli isolani riattualizzavano quei rituali di ospitalità che allora mi richiamavano soltanto celebri passi omerici. All’alba li raggiungevo per sentirli pregare e cantare; e mi sembrava di riconoscere un legame di continuità tra 2 Tra gli altri, i corpi vissuti dei bambini stranieri ripercorsi nel volume a mia cura Non uno di meno. Diari minimi per un’antropologia della mediazione scolastica, Armando, Roma 2004. 3 In particolare nei miei lavori Le lacrime eroi. Pianto e identità nella Grecia antica, Qualecultura Jaca Book, Vibo Valentia 1992 e Dimore del corpo. Profili dell’identità femminile nella Grecia classica, Meltemi, Roma 1996. 4 l’intensità di quella devozione mariana e la preghiera mattutina che la Pizia, la veggente del dio Apollo dedicava ogni giorno alla terra: La terra anzitutto, Gea, che fu la prima profetessa, con questa preghiera io adoro.4 Chiesi e ottenni il permesso di fare foto dentro e fuori il santuario (la fotografia in quel periodo era un’altra mia grande passione) e una di quelle immagini, che abita ancora oggi nella mia cucina – mi illudo di credere che tuteli i ritmi quotidiani della mia “sfera domestica” – ritrae una coppia madre-figlia di cui ricordo ancora oggi, come fosse ora, l’intensità e la tenerezza: quasi un’emanazione della Vergine venerata nel santuario di Tinos o, ancora meglio, una coppia Kore-Demetra che riviveva nel silenzio di un mattino, in un contesto agro-pastorale in cui, senza saperlo, avevo cominciato un altro viaggio. Tornata a Roma, verso fine settembre, decisi di preparare un esame alquanto eccentrico per il mio corso di studi, Storia delle Tradizioni Popolari: un insegnamento tenuto da Diego Carpitella, con un programma che prevedeva testi di Ernesto de Martino (Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria), Eric Havelock (Cultura orale e civiltà della scrittura. Da Omero a Platone), Vladimir Propp (Le radici storiche dei racconti di fate). Non saprei dire con certezza se sulla decisione di preparare quell’esame (cui conseguì la modifica radicale del mio percorso di studi) abbia inciso la mia esperienza di viaggio in Grecia; ma sono certa che la mia avventura con l’antropologia del mondo antico sia iniziata da lì, nel mio pellegrinaggio iniziatico fra un teatro e un santuario. Sono passati molti anni e il mio “ritorno alla Grecia” non si è ancora esaurito. Né si è esaurita la convinzione che valga la pena di condividerne la suggestione con nuove generazioni di studiosi e soprattutto di studenti, di tutti quegli studenti che si pretende metabolizzino una “lingua morta” prima ancora di intenderne il linguaggio, i sistemi cifrati e le retoriche che ancora oggi transitano nella nostra comunicazione quotidiana.5 Il ritorno alla Grecia e ai suoi miti – la rivisitazione di un passato che affiora ogni giorno con le sue icone, con i suoi simboli, nei comuni denominatori della lingua o delle passioni-ossessioni della memoria – può essere anzitutto un viaggio di pensiero, di ricerca, di ripensamento critico di quella nozione di “alterità” che abbiamo rischiato di confinare entro luoghi deputati non più esaustivi, non più rappresentativi. Una volta costituita la categoria dell’altro, l’antropologo ha il dovere di mettere in discussione incessantemente la posizione del sé e il dogma della sua nonpartecipazione, del suo non-coinvolgimento. Recuperare alla ricerca antropologica uno sguardo sulla Grecia antica significa allora, in un certo senso, accettare di parlare del 4 Eschilo, Eumenidi, 1-2. Si veda a questo proposito il saggio di D. Lanza, Dimenticare i Greci, in S. Settis (a cura di), I Greci. Storia Cultura Arte Società, vol. 3, I Greci oltre la Grecia, Einaudi, Torino 2001, pp. 1443-1464. 5 5 proprio coinvolgimento nell’oggetto, accettare di ridiscutere la categoria del Sé quale si è venuta configurando nel pensiero occidentale (e nei suoi luoghi di incubazione antropologica), sopportandone un’ambivalenza spesso occultata dalla nostra storia. Significa, ad esempio, recuperare “alle radici” del nostro passato le modalità storiche e metastoriche attraverso le quali una città prende a pensarsi in termini di “purezza autoctona”, mettendo in gioco un movimento complesso di ridelimitazione dei confini, degli spazi geografici e simbolici entro cui si autorappresenta. Significa ripensare la funzione di un discorso mitico che si inscrive nello spazio civico per dare fondamento al presente della città, muovendo spesso da un progressivo e poliedrico processo di esclusione: esclusione della donna dal tema della nascita; esclusione dell’altro, dello straniero dal génos autoctono della famiglia; esclusione della storia dal presente di una polis che radica le proprie azioni nel mito, rafforzando il rapporto tra ripetizione e avvenimento. Un viaggio di ritorno, per l’appunto. Proprio come in un viaggio vero, il libro si affida a un itinerario che ne scandisce l’architettura e si adegua al principio della separazione progressiva dallo scenario storico, geografico ed etnografico del qui e dell’ora. Ho inaugurato il varo nel passato con una guida d’eccezione, uno dei padri dell’antropologia vittoriana, sir James Frazer nella veste di avvertito studioso del mondo antico – una vocazione spesso disattesa dalla critica antropologica contemporanea. Viaggiando con lui – che viaggiava con Pausania6 – approderemo nel I capitolo dalla Sicilia a Delfi, per riconsiderare in un contesto greco il culto ancora oggi attivo di una Madonna nera sensibile alle faglie del passato. Sempre inseguendo le ierofanie acquatiche di una Vergine nera, nel II capitolo7 solcheremo le acque profonde di fiumi, laghi e mari che si offrono nel mito greco come varianti prototipiche dell’eterno fluire, del panta rei intrinseco in ogni metafora del divenire idrico: le stesse acque nelle quali oggi i sogni di improbabili Ulisse subsahariani naufragano e si annullano in un molo affollato che non ammette Itache di ritorno. Nel III capitolo8 ci radicheremo alla terra – alla terra come vis generativa ma anche come zolla civica – e alla proliferazione simbolica della metafora di una madre-terra che progressivamente viene a coincidere con l’evocazione di una terra-patria, 6 Cfr. J. G. Frazer, Sulle tracce di Pausania (ed or. 1900), Adelphi, Milano 1994. Destinato a un pubblico meno erudito, edito a distanza di due anni dalla pubblicazione dell’edizione critica della Descrizione della Grecia, il volume raccoglie una serie di profili e di luoghi emblematici, che Frazer descrive così come si presentano ai suoi occhi di viaggiatore moderno, comparandoli con le descrizioni di Pausania, che attraversava quegli stessi scenari nel II secolo d.C. 7 Ampliato e parzialmente rivisitato rispetto alla versione già edita, il cap. II è apparso nel volume a cura di Vito Teti Storia dell’acqua. Mondi materiali e universi simbolici, Donzelli, Roma 2003. 8 Con qualche revisione e aggiornamento rispetto alla prima versione, il III capitolo è apparso nel volume a più voci a cura di A. Petrillo, Polis e Panico. Tra vulnerabilità e immunizzazione, Sellino Editore, Avellino 2005. 6 legittimando la revisione della categoria del “tema natale” e la politicizzazione di eventi mitici connessi con il rapporto tra nascita autoctona e inclusione dello straniero, tra smarrimento e panico, tra vulnerabilità e frontiera. Il IV capitolo, recuperando lo scenario di senso del titolo del libro, affiderà alla metafora di un viaggio “verso la madre” tre modelli mitici esemplari, tre figure paradigmatiche di una enciclopedia tribale ad uso della collettività. In una Grecia che in regime di oralità accedeva alla materia epica e poetica come a una ineguagliabile palestra di saperi, Achille, Ulisse, Edipo, viaggiando altrimenti per terre e per mari, fra corpi e storie, ci sveleranno la vera natura nostalgica di una partenza e di un arrivo, nonché le insidie multiformi dell’incontro labirintico con le rotte dell’io. Con loro guadagneremo il ritorno, alterando o estendendo la nozione di arrivo, dilatandone il senso alla ricerca di una meta che soddisfi il desiderio di ricondurre la mappa simbolica di un viaggio alla prossimità dei nessi tra passato e futuro, tra mito e storia, tra distanza e intimità, tra attesa e compimento. In Appendice, un mitico breviario tenterà di rendere un servizio di “primo soccorso” agli studenti e a tutti i lettori “non addetti ai lavori” che vogliano avventurarsi nelle armonie nascoste di un viaggio a più voci, affollato di figure, profili, personaggi mitici che non sempre obbediscono al disegno della linearità. La fabrica mitopoietica ha ragioni e stratificazioni complesse, che si nutrono di continui rimaneggiamenti, che si consacrano a figure e paesaggi compositi: non vi fidate delle semplificazioni, ma diffidate degli esoterismi intellettuali di chi pretende che il mondo antico sia aperto a tutti solo nella sua valenza commemorativa. Dietro ogni tallone di Achille c’è un eroe vulnerabile e dietro ogni viaggiatore c’è un Narciso pentito, che non pago di sé insegue il richiamo di una voce o solo della sua Eco... Buon viaggio. 7