Storia dell`istituto 1887/1987

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Storia dell`istituto 1887/1987
Istituto d’Arte di Grottaglie
Cento anni di storia
Il sistema produttivo grottagliese cominciò a dare segni di cedimento già sul finire del
XIX secolo; infatti la Scuola, fondata nel 1887, nacque in seguito alla richiesta di un
cospicuo numero di ceramisti che caldeggiava la venuta di un tecnico ceramista, dal
quale ricevere una serie di consigli per migliorare la produzione.
La risposta governativa alla loro richiesta fu l’istituzione di una scuola serale di ceramica
diretta da Camillo De Rossi di Roma; ma, se la estemporanea venuta di un tecnico
poteva creare pochi problemi agli operatori locali che avrebbero filtrato, attraverso la
loro cultura e la loro esperienza, le indicazioni avute, la fondazione di una istituzione
permanente sul territorio poneva certamente tutt’altro ordine di problemi.
Sin dalla sua fondazione la Scuola fu caratterizzata da una interna conflittualità; infatti
essa, dopo appena quattro anni, fu chiusa a seguito proprio dei malumori che generava.
Così Saverio Pansini scrive in “La Regia scuola d’arte di Grottaglie”.
L’urgente necessità di migliorare il prodotto ceramico che si realizzava in quel tempo a
Grottaglie, portò alla riapertura della Scuola che Anselmo De Simone ebbe l’incarico di
dirigere. La sua preparazione e la sua formazione professionale, tesa ad una visione
produttiva di tipo industriale, mal si conciliava con le esigenze effettive della produzione
locale e la mentalità degli artigiani, pronta come era a difendere il patrimonio artistico
locale e la propria cultura produttiva che in questa “nuova ottica”, portava una certa
lacerazione al sistema.
De Simone, napoletano, prima di approdare a Grottaglie, aveva diretto la manifattura di
ceramica artistica Palladini di San Pietro in Lama, in provincia di Lecce. In quella
attività si produceva, in massima parte, piastrellame da pavimentazione maiolicato e
decorato, prodotto questo che, visto l’indirizzo della fabbrica, doveva essere necessariamente realizzato in serie. È significativo apprendere, leggendo alcuni documenti
d’archivio sulla manifattura Palladini, che il De Simone pretendeva essere affiancato da
tecnici napoletani che nella predetta azienda occupavano ruoli di responsabilità sia nelle
mansioni tecnologiche che in quelle artistiche. L’opera di De Simone a Grottaglie fu
lenta ed ostacolata. Il Direttore cercò con tutte le sue forze e la buona volontà, di
ritagliarsi uno spazio utile all’interno del paese per poter espletare il suo insegnamento,
soprattutto tra i giovani artigiani, e tralasciava sempre quelli che egli stesso definiva
“riottosi fabbricanti di stoviglie”.
La relazione datata 1911, scritta di suo pugno,che presentava la scuola di Grottaglie
all’esposizione didattica di Torino, è certamente interessante perché in essa il De
Simone faceva emergere chiaramente la linea didattica che intendeva attuare. Questa
relazione è una impietosa radiografia della situazione grottagliese sia sotto il profilo
sociale che produttivo. “Grottaglie - esordisce il De Simone - all’estremo lembo d’Italia,
ha soltanto scuole elementari, ed è lontana dalle città nelle quali l’alunno potrebbe
apprendere la geometria, elementi di architettura, disegno, ecc., istruzioni tanto
necessarie all’inizio di quest’arte. Se si potesse fare a meno di tali studi preliminari, il
programma della scuola resterebbe di molto semplificato e gli alunni si atterrebbero al
solo insegnamento ceramico. Se egli - continua il De Simone - non conosce le
costruzioni geometriche, la misura, lo sviluppo e la compenetrazione dei solidi, non può
costruire i suoi oggetti in ceramica, né calcolare il ritiro delle argille che subiscono prima
e dopo la cottura di ciascun manufatto, massimo poi se d’ogni singolo modello deve
farsene l’originale e la forma in gesso per regolarne la matematica grandezza”. Ma è in
altra parte della stessa relazione che il De Simone scatena la sua polemica, quando egli
tratta “i criteri sul miglioramento dell’industria figulina”. “Questa industria - scrive il De
Simone - che qui in Grottaglie viene esercitata da circa duemila figuli ed in 43
fabbriche, con forni e sistemi primitivi, produce cretaglie o meglio stoviglie di assai
rozzo aspetto e pesantissime, ma che tuttavia, per il loro mitissimo prezzo e la bontà
del materiale resistente, trovano largo smercio sui mercati meno progrediti della
Turchia, Albania e di qualche isola dell’arcipelago greco, nonché qui in Italia, nelle
Calabrie, nelle Puglie ed anche in Basilicata. Le argille locali che si usano per queste
stoviglie sono povere di allumina, invece ricche di silicati doppi, calcari ed ossido di
ferro per cui, ad alta temperatura si deformano e per difetto di cottura escon sempre
rosse. Sicché, per mascherare tale colorazione, è necessario più ossido stannico da
introdurre nella calcina per avere uno smalto perfettamente bianco. I figuli sono
costretti a ricoprire gli oggetti ancora crudi, con un’engobe, o meglio, con uno strato di
gesso caolinico per imbianchirli e, dopo una prima cottura, sottoporli alla smaltatura,
abbastanza povera e trasparente, per poi ricuocerli. I forni - sostiene il De Simone - non
sono ‘idonei’, per la irrazionale costruzione, l’atmosfera interna si mantiene quasi
sempre affumicata ed ossidante, per cui l’ossido di ferro si riduce a silicato di
protossido. Per il cattivo funzionamento delle loro fornaci, i fabbricanti sono costretti a
fare tre accordi dei loro smalti, cioè duro, tenero e tenerissimo, e quindi adoperare il
primo, meno fusibile per quelli oggetti che si collocano nei punti più violenti del calore;
gli smalti fusibili, per gli oggetti che si adattano sui primi; e quello più fusibile per i
manufatti che si situano sugli strati superiori, ove il calore arriva per irradiazione. Su
questi si infornano gli oggetti crudi o ingobbiati”.
Con il rispetto massimo per la persona di Anselmo De Simone, è doveroso correggere
certe sue affermazioni di natura squisitamente chimico-tecnologica che, per la verità,
mettono in serio dubbio la sua esperienza e le sue conoscenze in tale settore. Non mi
sento, infatti, di condividere, anche se animato da buona volontà, quanto egli afferma
circa la conduzione della cottura nei forni di tipo grottagliese, né tanto meno, in
relazione alle reazioni chimico-fisiche che avvengono nei prodotti ceramici, per effetto
della cottura, tra le sostanze che compongono l’argilla. L’ampia analisi che il De Simone
fa della situazione grottagliese, se per un verso sottolinea i problemi della produzione e
l’atteggiamento dei ceramisti dinnanzi al radicale rinnovamento tecnologico, evidenzia
anche e soprattutto il fallimento delle finalità della scuola, a dimostrazione che la stessa
aveva mancato il suo naturale inserimento nella realtà produttiva grottagliese. La classe
figulina, quindi, rifiutava l’auspicato inserimento nel quadro produttivo nazionale che,
nel frattempo, aveva già messo in moto anche in campo ceramico una produzione di
tipo seriale, per non troncare le proprie matrici culturali e quindi per non rinnegare la
propria identità. I rischi giustificati potevano essere proprio quelli che senza ironia
venivano individuati da Walter Weibel nel 1910 a seguito di una visita a Grottaglie,
proprio nella scuola d’arte ceramica. “In fine - egli scrive - siamo condotti nella scuola
[…] Con maggiore raccoglimento si visitano i lavori artistici della scuola. Se uno volesse
cambiare il gusto innato e tramandato attraverso i secoli, non potrebbe procedere con
altri mezzi. Schizzi non personali di gesso e fiori, quadri mal modellati della Divina
Commedia, ridicole teste di donne con un velo messo su di esse capricciosamente,
rappresentano il corso di formazione di tre classi. Qua e là, accanto a tutto questo, su di
un piatto rotondo, è dipinto un antico schizzo adatto per vaso che fa un effetto diverso
da quello che avrebbe avuto sulla superficie curva di un oggetto tipico delle forme
grottagliesi. Nelle fabbriche moderne, che considerano con disprezzo i prodotti delle
antiche fabbriche, noi verifichiamo le conseguenze di questo insegnamento. Qui nascono
quell’infinità di cosettine graziose che empiono il mondo e che non si sa mai donde
provengono: piatti da muro con fiori e testine dall’espressione faceta, piccoli vasettini
con una rosa attaccata ad essi, calamai di tutte le forme, gondole, stivali, gigli ed altri
oggettini adorni di piante fantastiche e di animali; - egli conclude - anche la terra si
lascia con pazienza plasmare in queste forme ‘sensate’”.
È opportuno a questo punto una riflessione che nasce spontanea: come poteva la
ceramica di Grottaglie nei primi anni del secolo, periodo in cui il De Simone ha diretto
la Scuola d’Arte, essere ad un livello così basso, ridotta cioè al rango di ceramica
rudimentale o addirittura rozza? Il grande ed interessantissimo patrimonio, vanto e
gloria delle botteghe locali, che fine aveva fatto? Come è potuto sfuggire alla visione
del maestro De Simone? Oppure c’è da domandarsi se questo patrimonio è mai esistito?
o meglio, all’epoca fu considerato nella sua reale importanza così come lo consideriamo
oggi giorno? Non ha ritenuto forse il maestro De Simone il patrimonio ceramico
grottagliese idoneo ad essere revisionato e aggiornato sotto il profilo tecnico-estetico,
per ricavare un prodotto adatto ai tempi e capace di soddisfare le esigenze della società
del tempo? In realtà, dai documenti esaminati, non si evince chiaramente cosa e in che
modo, il De Simone volesse effettivamente trasformare, in quale aspetto produttivo egli
intendesse introdurre le sostanziali modifiche tecnologiche a cui spesso allude nella
relazione del 1911. Mi permetto solo, come del resto ho fatto in precedenza, di porre
all’attenzione del lettore gli interrogativi, conseguenza di un’analisi attenta e scrupolosa
della situazione produttiva di Grottaglie in quel tempo. Non è chiaro, infatti, come il De
Simone intendesse trasformare una produzione costituita da manufatti spesso di notevoli
dimensioni, per lo più realizzati al tornio, in un processo produttivo di tipo industriale
con l’impiego di materie prime locali. Come egli intendesse realizzare con processi
industriali i manufatti che costituiscono il vastissimo patrimonio vascolare grottagliese e
in quali forni, che certamente non potevano essere del tipo intermittente - qualsiasi
fosse stata la modifica sul piano strutturale - egli intendesse cuocere i manufatti. A
tutto questo non ci pare siano state date adeguate risposte. Forse il Direttore De
Simone, reduce dalla direzione della Manifattura Palladini, dove, come si è già detto, si
realizzava un prodotto che in campo nazionale aveva assunto l’iter industriale, non
aveva molto chiare le idee sulla realtà artigiana grottagliese e sulla tipicità dello stesso
patrimonio ceramico, immenso per la varietà di forme, nate per uso pratico, che doveva
rispondere a requisiti e esigenze ben precise, che ancora oggi sono immutate. Il tanto
discusso forno, per il quale, come si è letto nei documenti d’archivio, si sarebbe
scatenato il “conflitto” tra il Direttore e i figuli grottagliesi, non può essere obiettivamente ritenuto unico motivo sufficiente per giustificare i fatti, visto che in campo
ceramico ben altro si poteva e si doveva fare sotto il profilo tecnologico, per tentare di
mettere in essere la visione del De Simone. Queste riflessioni portano ad un solo
interrogativo: in realtà, chi era Anselmo De Simone? Quale, effettivamente, il suo
valore professionale? Il Petraroli gli attribuisce lodi e significativi apprezzamenti;
definisce il De Simone artista e tecnico ceramico di primissimo piano. Mi permetto, in
tutta umiltà, alla luce delle suddette considerazioni, di riconoscere al De Simone grandi,
grandissime capacità di raffinato decoratore maiolicaro; di più non mi sento di dire. Al
contrario farei violenza alla mia coscienza professionale. La visione dei figuli
grottagliesi, compresi i “riottosi”, era, a nostro parere, sana e lungimirante. Il De
Simone, pur animato da grande volontà, non capì, forse, che la necessità primaria
dell’artigiano ceramista era di sviluppare la ricerca tecnologica sulle materie prime
impiegate per la lavorazione, i relativi processi di purificazione e i criteri di composizione dei rivestimenti ceramici, nonché la revisione delle forme tipiche della ceramica
locale, finalizzate alle quotidiane necessità. Non vi era certo bisogno di inventare nuove
forme e nuovi decori per proiettare la ceramica di Grottaglie in campo nazionale, né,
tanto meno, di sottoporre la stessa a processi di fabbricazione seriale, visto che alle
spalle di questo patrimonio locale vi erano duemila anni di storia del bacino Mediterraneo e, più esattamente, della civiltà Magno-greca.
Nel 1941 Pasquale Morino scriveva sul “Cellini”: “La tradizione riaffiora sempre,
quando è originale. In un certo periodo recente, in Grottaglie si è dovuta deplorare
l’infiltrazione di concetti di stile estranei. Si è creduto che fosse bene proporre a questi
ceramisti modelli lontani, e per qualche tempo statuette di tipo Lenci e vasi tipo Upim ci
hanno fatto rabbrividire e temere. Il periodo sembra ora superato. Tutti hanno compreso
che la valorizzazione di Grottaglie può venire solo da una valorizzazione del suo
inconfondibile stile, nel cui ambito è possibile produrre opere nuove e modernissime”.
Le indicazioni date da Anselmo De Simone, tutte tese da una forzata industrializzazione
della realtà produttiva locale, non solo erano foriere di una tensione culturale, implicita
nel cambio del valore semantico dell’oggetto da una realtà artigianale ad un’altra
industriale, ma portavano anche ad un continuo ed inesorabile isolamento dell’istituzione
scolastica all’interno del paese.
Il De Simone gestì la scuola sino al 1919, anno della sua morte. A sostituirlo fu
chiamato nel 1920 Gennaro Conte, insegnante della Scuola di Castelli d’Abruzzo. Il
taglio culturale che il nuovo direttore ritenne opportuno dare alla scuola era eminentemente tecnico; ma per le tipologie decorative, il suo indirizzo fu diverso da quello del
De Simone. Sin dalla prima relazione redatta dal Conte e inviata al Sindaco di Grottaglie per l’anno scolastico 1921-22, si nota che fu dato maggiore impulso alla ricerca
inerente la maiolica decorata, dopo aver abbandonato quella relativa all’arte figulina che
tanto aveva appassionato il De Simone. Stupiscono maggiormente in questa relazione le
critiche che il nuovo direttore muoveva allo smalto, non quello usato dai figuli, ma
quello elaborato dal De Simone. Scrive Panzini che “il Conte si vanta di aver introdotto
a Grottaglie, e in particolare di aver insegnato alla scuola la decorazione su smalto
crudo e la composizione dello smalto, tecnica certamente più veloce di quella su smalto
cotto o a terzo fuoco, prediletta dal vecchio direttore. In particolare lo smalto elaborato
dal De Simone non era adatto all’argilla di Grottaglie; infatti, una volta cotto il pezzo, si
presentavano delle imperfezioni sulla superficie consistenti in piccole bolle presenti sotto
la coperta stannifera che, oltre ad inficiare, distruggevano il disegno sul cotto”.
È opportuno interrompere per un attimo il “racconto” di Panzini, per chiedersi se è vero
che nella scuola di Grottaglie, durante la gestione De Simone, non si conoscesse ancora
bene lo smalto bianco stannifero, o meglio non si conosceva ancora la tecnica che
portava alla composizione del rivestimento vetroso. Tutto questo è molto strano e
inesatto, se si considera che le testimonianze lasciate da Anselmo De Simone, dimostrano chiaramente che lo smalto bianco e la relativa decorazione su smalto crudo
erano tecniche già acquisite e con lusinghieri risultati dal punto di vista tecnico e
artistico. A conferma di quanto si sostiene, è il fatto che non esiste alcuna opera
lasciate dal De Simone, tra quelle esistenti nel Museo Didattico delle Maioliche dell’Istituto Statale d’Arte di Grottaglie, realizzata con la tecnica del terzo fuoco, come afferma
il direttore Conte. Tra l’altro, come avrebbe potuto il De Simone auspicare una totale
rivoluzione dei processi produttivi grottagliesi, se avesse rilevato che a Grottaglie non si
conosceva ancora lo smalto bianco stannifero? Inoltre, come avrebbe potuto il direttore
De Simone decorare al terzo fuoco, come afferma il Conte, se il supporto ceramico
invetriato non garantiva una efficente superficie di applicazione, visto che la stessa
precede la decorazione a terzo fuoco? Quello che ci lascia perplessi nelle affermazioni
del direttore Conte è la superficialità con cui tratta gli argomenti tecnologici, che egli
ascrive a suo precipuo merito quasi fossero scoperte scientifiche originali e stupefacenti.
A nostro parere non emerge dal linguaggio tecnico che il direttore Conte usa - quando si
riferisce alle composizione di smalti da lui realizzati -, una convincente competenza nel
ramo. Non ci risulta infatti, dalle testimonianze di insegnanti suoi collaboratori ancora in
vita che nell’edificio scolastico dove il Conte ha operato, vi fossero strumenti, strutture
o apparecchiature idonee ad attuare un processo di ricerca, sia pure rudimentale, in
grado di realizzare smalti stanniferi o esperimenti di altra natura ceramica. Dopo tutto,
è molto improbabile che il direttore Conte, proveniente da Castelli con la qualifica di
insegnante di disegno, disponesse di un bagaglio di conoscenze tecnologiche così ampio
e approfondito che gli consentisse di finalizzare la ricerca sui rivestimenti vetrosi in
campo ceramico. Passando agli aspetti didattici, scrive ancora Panzini “…il Conte
precisava che nel corso dell’anno scolastico si erano effettuati disegni - a mano libera in
stile antico e moderno - con particolare attenzione allo studio delle volute. Era stato
anche sperimentato il disegno a memoria. La particolare cura verso questa attività
nasceva dal fatto che il disegno dal vero è stato ben avviato dopo che da tanti anni era
stato abbandonato in questa scuola …” E per il disegno dal vero era necessario per
l’alunno “…conoscere l’organografia, cioè l’anatomia delle piante…” così come si rendeva
necessario l’insegnamento dell’anatomia artistica, come studio delle parti superficiali del
corpo umano. Queste conoscenze necessitavano - sempre secondo il Conte - per meglio
definire le ornamentazioni vegetali da riportare sui vasi. Queste erano, secondo lui, le
parti più importanti dell’insegnamento; infatti le altre attività della scuola erano trattate
sommariamente.
Ormai la scuola era appoggiata in pieno dal competente Ministero e il 28 dicembre
1922, con regio decreto, fu elevata di grado: cioè a laboratorio-scuola con un
conseguente e consistente aumento dei finanziamenti. Il Conte, nella relazione sull’andamento didattico dell’anno scolastico 1922-23, si dichiarava soddisfatto dell’elevamento di grado della scuola e delle maggiori entrate relative ai predetti finanziamenti.
Nella medesima vengono ribaditi e chiariti ulteriormente i principi del suo insegnamento.
Il momento più significativo della produzione rimane la decorazione, per la quale i suoi
sforzi erano principalmente concentrati nell’ampliare le conoscenze degli allievi su un
maggior numero di stili decorativi, pur continuando a considerare la decorazione
vegetale come elemento centrale, integrandolo con drappeggi, cartocce, festoni, ecc. La
scuola aveva prodotto in quell’anno 450 pezzi decorati tutti su smalto crudo. Da questa
relazione si può facilmente evincere quale fosse la posizione del Conte rispetto alle
forme tradizionali: se da un lato ne riconosceva l’importanza ed in particolare per quella
grottagliese, dall’altro mostrava un chiaro interesse per il loro superamento. Infatti la
produzione della scuola comprendeva sia un repertorio di forme tradizionali, fedeli ai
loro modelli, sia uno che inseriva gradualmente concetti moderni, spesso legati a motivi
decorativi ed architettonici. In pratica, le convinzioni del Conte miravano a conservare
dell’antico il carattere e, al tempo stesso, non rimaneva insensibile alle nuove tecniche
che, a livello nazionale, si andavano affermando in campo ceramico. In quest’ottica di
rinnovamento e di apertura a nuove esperienze si inseriva la richiesta di produrre a
Grottaglie sia il grès che la porcellana. Un’altra tecnica che il direttore si vantava di aver
introdotto in loco era l’ingobbio inciso che “…ha riscosso successo alla mostra didattica. I
risultati sono bellissimi, intendo continuare…” soggiungeva. Come è facile notare, il
Conte nella sua relazione aveva perso quegli slanci polemici verso la classe figulina
locale, perché l’istituzione, seguendo la linea scelta dal De Simone di non considerare la
classe figulina locale nel suo complesso, era andata man mano chiudendosi in sé,
lavorando unicamente con gli alunni che sceglievano una preparazione pubblicamente
avallata da un titolo di studio, anziché il consueto tirocinio in bottega.
“Comunque - scrive Panzini - la scuola ceramica di Grottaglie continuava ad essere il
centro di qualsiasi tipo di intervento educativo e didattico che il governo voleva
compiere nella parte sud-est dell’Italia; infatti, proprio nel 1923 a seguito delle
conferenze tenute anni prima dal De Simone nell’Avellinese, tre insegnanti della scuola
di Grottaglie erano chiamati a fondare una scuola ceramica ad Avellino. Più tardi, verso
il 1926, il torniante Ciro Petraroli, sempre della scuola di Grottaglie, andava a dirigere la
sperimentale scuola ceramica a Ruvo in provincia di Bari, poi miseramente fallita, dopo
essere sorta sotto gli auspici del comitato piccole industrie della Camera di Commercio
di Bari e dell’Ente Cultura; il medesimo era impegnato in una serie di corsi nel Salento,
in particolare a Lecce e Gallipoli. Nella relazione al Podestà di Grottaglie ed al Ministero
dell’Economia Nazionale relativa all’anno scolastico 1923-24, il Conte poneva maggior
accento sulle ricerche che la scuola faceva. Da ciò si può dedurre che lo sforzo del
direttore si concentrava nel preparare maestranze capaci di introdursi nel più largo giro
delle manifatture del centro e nord Italia. Questa - si badi bene - era una tendenza
implicita nella linea scelta dal De Simone all’indomani della mostra di Torino, ma
assume, col Conte una valenza diversa. Rimaneva, è vero, un certo interesse per le
forme locali, ma nessun collegamento venne tentato a livello culturale capace di fondere
forme e decorazioni grottagliesi. Con la gestione Conte in pratica, viene meno qualsiasi
problematica legata ad un intervento sul territorio, unico scopo rimane quello della
preparazione di decoratori capaci di operare in qualsiasi ambito produttivo italiano. Il
risultato concreto di quanto si è detto è l’elenco che il Conte allegò alla relazione del
1924, di allievi della scuola di Grottaglie assunti in manifatture di Sesto Fiorentino, di
Firenze, Deruta, Potenza, Gallipoli, Vasto, Verona, Arezzo e Nervi”.
Il fausto periodo delle aziende italiane si doveva chiudere proprio nel 1925; infatti la
manovra economica che va sotto il nome di “Quota 90”, ovvero un innalzamento forzato
della lira, chiudeva il momento della facile espansione. La manovra fu appoggiata dalla
grande industria che così vedeva aboliti i dazi che i Paesi europei avevano stabilito
contro il competitivo prodotto italiano, mentre portò al malessere completo le piccole
industrie e quelle artigiane che commerciavano ancora quasi esclusivamente con i paesi
sottosviluppati. Un chiaro sintomo della situazione che si era determinata in Italia è la
lettera scritta dal ceramista Giuseppe Del Monaco presidente della società anonima
cooperativa industria ceramica di Grottaglie, ed inviata al Podestà della città. “È a tutti
nota la grave crisi che l’industria ceramica attraversa con la conseguenza di licenziamento della manodopera. Allo stato attuale delle cose non è neanche da concepire una
ripresa di migliore condizione di lavoro e di vendita perché il commercio in genere è
segnatamente quello nostro ha subito una profonda depressione per cause molteplici che
qui è inutile elencare. Si fa perciò viva alla S.V. Ill.ma affinché voglia persuadere
l’agente delle Imposte di Manduria a ridurre sensibilmente la ricchezza mobile della
quale siamo gravati in modo troppo aspro. Preghiamo anche di intercedere i suoi buoni
uffici affinché per le cretaglie che si mandano per la vendita della nostra provincia si
avesse un termine più prolungato perché è inconcepibile che in solo due giorni, si possa
smerciare tutto il prodotto. Questo anche uno dei motivi che inceppa seriamente la
vendita della nostra produzione. Ringraziandola distintamente Il Presidente Giuseppe Del
Monaco”
Di fronte a questa grave crisi ben poco potevano gli sforzi della scuola per un miglioramento del prodotto maiolicato. Come si evince nella relazione al Podestà di Grottaglie e
del Ministro della Educazione Nazionale relativa all’anno 1923-24 il Conte diversamente
dal De Simone che intravedeva l’unica possibilità di salvezza per l’intero apparato
produttivo di Grottaglie nella produzione seriale ed industriale da indirizzarsi principalmente nel sud-est europeo, il Conte, in linea con quello che si andava proponendo a
livello nazionale, vedeva nuove possibilità di sviluppo nel campo della ceramica
artistica. Ma per migliorare l’intero prodotto grottagliese necessitava una più lunga fase
di elaborazione e presa di coscienza della propria cultura da parte degli operatori locali.
Indubbiamente il lavoro che si svolgeva nella scuola, l’obbligo dell’insegnamento per
quarantotto ore settimanali, l’impegno che insegnanti ed alunni avevano nella produzione della scuola stessa, gli estenuanti disegni di “…tutte le linee della natura…”, le
classificazioni degli elementi decorativi per una corretta ed equilibrata utilizzazione, gli
studi sugli stili, anche la libertà lasciata all’elaborazione dell’artista, hanno senz’altro
lasciato un segno in Grottaglie, hanno contribuito a quel processo di maturazione e di
maggiore consapevolezza che di lì a poco dovevano mostrare i produttori grottagliesi.
D’altro canto per l’intera classe figulina non era possibile fare i conti con la propria
cultura, non era possibile fare un discorso che potesse migliorare l’intera produzione
senza confrontarsi con i sistemi produttivi, con ciò che erano capaci di creare le mani dei
ceramisti, senza scoprire il perché del formarsi della loro cultura.
Per dominare una produzione, per indirizzarla, per dare una continuità che non facesse
sentire agli operatori diretti di essere stati privati di una loro identità culturale e storica,
per dare strumenti di controllo e capacità di elaborazione autonoma, era necessaria
un’analisi che - come abbiamo visto - non si era ancora affrontata nell’istituzione. Per
l’anno scolastico 1924-25 i sussidi per la scuola furono nuovamente aumentati così - ci
informa il Conte - fu possibile far conoscere agli alunni la composizione delle terre
colorate, la fabbricazione dei colori, il modo di correggere le argille. Si progettava anche
di introdurre tecniche completamente sconosciute a Grottaglie come gli smalti cristallini
ed i lustri metallici. Comunque il tema centrale della relazione del 1925 era la decorazione ed i problemi connessi tra arte ed artigianato. “Si è ricercata - scriveva il Conte
- una sintesi semplice nel disegno con una nitidezza di movimento e di equilibrio delle
parti piane e ordine perfetto nella disposizione degli elementi decorativi”. Per quanto
concerne lo studio dell’antico il direttore ci informa di un interessante esperimento:
“Sono stati sviluppati antichi motivi presenti in oggetti ceramici di una chiesa di
Grottaglie”. Purtroppo con questa relazione terminava il fascicolo nell’archivio del
Comune di Grottaglie dedicato alla gestione di questo direttore della scuola ceramica. Il
Conte diresse la scuola sino al 1933 e molto probabilmente non si discostò mai dalla
linea d’intervento che fin qui abbiamo esaminato. Il rapporto con l’ambiente produttivo
del paese non doveva essere affatto variato se il Blasi nel 1931 scriveva in un suo
articolo sulla rivista “Faenza”: “La nostra tecnica figulina non ha subito modificazioni
notevoli; anzi direi è rimasta fedele alle antiche tradizioni, e quasi primitive; se si
eccettuano casi sporadici di lodevoli innovazioni nei motivi decorativi e nella maggiore
precisione ed accuratezza nella fattura; dovute, più che a libera creazione, a ragioni di
adattamento all’esigenze del commercio e alle richieste dei committenti. Oltre a ciò il
singolare fenomeno dell’attaccamento dei nostri maiolicari è dimostrato dalle poche
simpatie, di cui gode presso di loro la nostra R. Scuola Ceramica, la quale fu creata
(anno 1887) allo scopo precipuo di migliorare la vasta produzione figulina paesana, che
allora impiegava assai più di un terzo della popolazione.”
Nel frattempo la scuola non dipendeva più dal Ministero dell’Economia Nazionale, bensì
da quello dell’Educazione Nazionale. In questo modo la scuola non era più costretta ad
intervenire in modo tangibile sulla realtà produttiva. Come primo intervento il Ministero
dell’Educazione Nazionale nel 1931 favoriva la costruzione di un nuovo edificio più adatto
alle esigenze della scuola. Con il passaggio al Ministero per l’Educazione Nazionale e alla
nuova sede, si volle potenziare la scuola ed adeguarla ai nuovi dettami che il dibattito
politico sul ruolo dell’artigianato nell’economia italiana imponeva. Infatti a dirigere la
scuola furono chiamate personalità affermate ed impegnate nel mondo della ceramica.
Per l’anno 1933-34 la direzione fu affidata all’architetto Mario Urbani di Padova che
indubbiamente contribuì a dare una maggiore spinta verso uno svecchiamento delle
forme e ad introdurre a Grottaglie le problematiche del nascente disegno industriale,
portando così l’istituzione sempre più lontano dalla realtà produttiva locale. Di Urbani fu
la coppa dorata che la Scuola donò a Benito Mussolini nel 1934. La coppa di maiolica
dorata era di gusto equilibrato; una forma a calotta emisferica sorretta da fasci, una
tipologia inesistente a Grottaglie, una esemplificazione plastica che traeva origine da
forme e da culture differenti dall’arte ceramica praticata a Grottaglie. È interessante
notare come il paese, per il passaggio del Primo Ministro, volle presentarsi come la città
delle ceramiche, costeggiando da un lato e dall’altro la via che percorse Mussolini, con
capasoni ovvero con alte giare. Questo episodio oltre a documentarci l’immagine che la
città voleva fornire, ci testimonia come ancora in piena crisi economica esistesse una
ingente produzione di oggetti d’uso e quindi quale fosse ancora l’indirizzo produttivo che
la stragrande maggioranza delle botteghe perseguiva. Comunque la realizzazione tecnica
della coppa era perfetta tanto da trarre in inganno il Duce che si lasciò sfuggire
un’espressione di melanconico stupore quando si rese conto che la pesante coppa non
era interamente del nobile metallo che lui aveva sperato.
A dirigere la scuola nell’anno scolastico 1935-36 fu chiamato il prof. Carlo Polidori già
insegnante presso la scuola di Pesaro e noto studioso di storia della ceramica abruzzese.
Senz’altro l’atteggiamento del Polidori riguarda l’attività produttiva di Grottaglie sarebbe
stato diverso se il suo unico anno di permanenza nella cittadina non fosse stato
caratterizzato da difficoltà incorse con gli organi di gestione della scuola. Una lettera
datata 28 maggio 1935 ed inviata dal Polidori al Podestà di Grottaglie, ci mette al
corrente di una certa conflittualità esistente tra il Direttore ed il Presidente dell’Istituzione. Il firmatario della lettera parlava di “… calunnie (riferite) contro la mia persona
sfociate poi in una ispezione”. Il Polidori non precisava di che origine fossero, ma
lamentava la scarsa volontà della presidenza di mediare i rapporti con il corpo insegnante, anzi laconici comunicati che rimproveravano al Direttore scarsa produttività,
servivano solo a mantenere difficile la situazione. A questo punto il Direttore sentiva la
necessità di ribadire la sua estraneità al paese e quindi di non voler essere coinvolto in
quelle che lui definiva “beghe paesane”.
Altro problema che lo aveva visto ripreso dal Presidente era quello relativo all’argilla;
infatti la direzione non riusciva a reperirla sul mercato di Grottaglie, né tantomeno
riusciva a trovare impianti di depurazione adatti per cui aveva ordinato una quantità di
creta dalla ditta Tricca di Sansepolcro che poteva fornirla già depurata. La scuola, come
abbiamo visto, aveva già effettuato acquisti di argilla fuori di Grottaglie, e il Direttore,
pur precisando di aver solo ripetuto l’ordine alla stessa ditta dell’anno precedente, non
scampava a questo boicottaggio interno alla stessa istituzione.
I cambiamento che la scuola aveva subìto negli ultimi anni manifestavano ancora alcuni
inconvenienti: gli impianti atti alla produzione non erano ancora completamente
installati e così producevano notevoli ritardi nell’insegnamento, l’impiego dei migliori
alunni per la riproduzione della coppa Urbani regalata al Duce, portava a disorientamento e confusione nella scuola, così come l’adempimento alle molteplici ordinazioni che la
scuola aveva avuto. Il Polidori, sempre nelle stessa lettera, nell’enumerare tutti questi
inconvenienti aggiungeva come le materie che non avevano alcuna attinenza con lo
studio della ceramica, come la religione, l’educazione fisica e militare e quelli di cultura
generale, comportavano un enorme spreco di tempo. In chiusura il Direttore invitava il
Podestà ad un intervento risolutivo e chiarificatore verso “… le oscure manovre della
Presidenza (che) tendono ad inficiare il mio credito.” Soprattutto dopo l’ispezione
ministeriale, giunta senza che la presidenza mettesse al corrente la direzione, il Polidori
riteneva inammissibile che “… ora ristabilita la mia efficienza il Presidente perduri nel
suo contegno.”
Ma cosa poteva portare il Presidente dell’istituzione a tale atteggiamento? Dalle carte
dell’archivio di Grottaglie non emerge alcuna risposta, i documenti, copiosi per il primo
periodo, si rarefanno dopo il 1925. Certo è che l’atteggiamento del direttore fu alquanto
diverso da quello dei suoi predecessori; il Polidori, anche se sostò il breve periodo di un
anno a Grottaglie, nell’ottobre del 1935 pubblicò un articolo sulla rivista “Rassegna
dell’Istruzione artistica”, dal titolo “Appunti sulla ceramica in Grottaglie”. In questo
articolo era ripreso in esame l’intero assetto produttivo di Grottaglie: le varie botteghe
erano divise per tipi di produzione in un’attenta classificazione, si accennava ai mezzi di
produzione, si esaminavano alcune tipologie prodotte. L’atteggiamento dell’autore
dell’articolo era quello attento dello studioso che vuole comprendere i fenomeni ed il
territorio su cui intende operare; siamo ben lontani dai toni scandalizzati ed inquisitori
del De Simone, certamente un atteggiamento più corretto e scevro da moralismi, quello
del Polidori. L’analisi compiuta su alcune tipologie non si configurava minimamente
come ordinamento storico della ceramica grottagliese, bensì sono effettivamente degli
appunti che, se da un lato si presentano come un’idealizzazione della situazione locale,
dall’altro fanno emergere le incongruenze presenti nello stile grottagliese. Legata a
questa situazione è la descrizione di un piatto firmato da Cosimo Fasano e datato
1857: “Non solo è molto interessante, ma sintomatico il fatto che in un piccolo centro
della Puglia, ci fosse nel bel mezzo del secolo XIX, un pittore di ceramiche casto e
spontaneo, capace ancora di dipingere con sentimento immaginoso e libero quasi fosse
un bizantino”.
Il piatto, divenuto poi famoso per la fortunata pubblicazione del Vacca, si configura
come un “capo fassa”, cioè come quel piatto che era dato in omaggio e copriva una pila
di piatti scevra da decorazione nel catino. Ancora più sotto il Polidori annota: “Si
annovera tra la più caratteristica produzione grottagliese una rilevante percentuale di
vasi, con pancia a cono tronco e rovesciato e collo alto cilindrico a piede, sempre
biansati. Le anse aderiscono alla parte superiore del vaso, o da raccordamenti di rette e
curve; spesso dove l’ansa termina è applicata una testa di sfinge, un mascheroncino,
una testa leonina. Sono dei saporosissimi “mélanges” di classico, bizantino, musulmano,
arabo, neoclassico e persino Luigi Filippo. Fanno pensare a dei voluti conglomerati
stilistici, ottenuti da un decoratore in vena di bizzarrie, mentre di fatto sono autentici
“pastiches”, scaturiti improvvisi ed estrosi dalle mani di ceramisti strapaesani. Trovi di
tutto: squame, greche, rombi, girali, losanghe, nastri, fiori a puntini, foglie
quadrilobate, scomparti a serpentina, archetti a sesto acuto, zone a linee incrociate o a
zigh-zagh, parti rilevate e altre segnate a tratti incisi o dipinti”.
Questa tipologia, come d’altronde annota il Polidori, era abbastanza diffusa nel paese e
trae origine da modelli settecenteschi poi man mano arricchiti da motivi decorativi
moderni. Ma ben altri dovevano essere i “pastiches e mélanges” che in qualche maniera
si erano diffusi nelle botteghe grottagliesi se il Morino nel 1941 ricordava che “…per
qualche tempo statuette tipo Lenci e vasi tipo Upim ci hanno fatto rabbrividire e
temere”. Questo purtroppo era il risultato di un’introduzione acritica di modelli estranei
alla cultura grottagliese; ancora una volta risultava sconfitta la linea che vedeva come
unica soluzione del problema economico e produttivo di Grottaglie l’introduzione di
schemi a cui rifarsi, senza fornire ai figuli le capacità di controllo o di elaborazione
propria dei dati proposti loro. Questa, ci sembra di comprendere, fosse la proposta
culturale del Polidori, intesa cioè al recupero dell’intero assetto produttivo di Grottaglie e
della sua originalità creativa.
Il direttore, forse sconfitto dalle “beghe paesane”, lasciava l’istituzione dopo appena un
anno, a lui subentrava il prof. Ennio Paoloni di Chiavari. L’anno 1936 fu un anno
decisamente importante per la ceramica grottagliese: la scuola partecipava per la prima
volta alla Triennale di Milano conseguendovi il “Gran Premio”; Romolo Micera si
presentava alla stessa Triennale rompendo così un lungo silenzio che perdurava in
questa manifestazione dalla prima Biennale di Monza; Biagio Lista vinceva il Littoriale
di quell’anno con un pannello ceramico intitolato “Il ritorno dai campi”, realizzato nella
manifattura Calò di Grottaglie, la scuola era rappresentata nella sezione moderna del
Museo delle ceramiche di Faenza; la sua rivista infatti riportava: “Medaglione con testa
del Duce del prof. Ennio Paoloni eseguito nelle officine della Scuola di Grottaglie”.
Quest’altra realtà si affianca inevitabilmente a quella descritta dal Polidori per meglio
rendere la drammatica lacerazione che in quel periodo viveva Grottaglie così divisa tra
modernismo e propria identità culturale. Anche Paoloni sostò a Grottaglie solo un anno
scolastico; i tre direttori che si erano avvicendati, anche se uomini di prestigio, avevano
rotto qualsiasi continuità didattica ed avevano, in qualche modo, determinato la sfiducia
e la credibilità della scuola dinnanzi al paese.
La gestione del prof. Roberto Rosati proveniente dalla scuola di Disegno Applicata alla
Ceramica di Nove in provincia di Vicenza, si dilungherà dal 1937 al 1949, anno della
sua morte. La sua lunga permanenza alla direzione della scuola contribuì a ricostituire
l’immagine di questa e soprattutto, in un momento in cui erano mutati i termini del
dibattito sull’artigianato, seppe riprendere il discorso sulla ceramica grottagliese e
contribuire positivamente al termine di quella svolta che, apertasi con l’inizio del secolo
ed acuitasi tra le due guerre doveva portare al cambio di mercato dei produttori
grottagliesi. In assenza di documenti valga il giudizio del Petraroli che qualifica l’operato
del direttore nell’aver saputo cogliere nel recupero storico della cultura locale, il termine
di passaggio ad una produzione qualitativamente migliore. Riporta il Petraroli: “Nell’insegnamento si tenne giusto conto dell’aspirazione legittima di una migliore aderenza
delle direttive ai caratteri della produzione locale e bandite le riproduzioni servili, si
tentò felicemente di far rifiorire l’ingenuo sorriso della ceramica grottagliese-salentina.
Il ritorno alle antiche tradizioni locali non fu, come si afferma nell’ultima relazione del
Direttore al Commissario, nè gretto nè pedante ma beneinteso e ragionevole, non
riproduzione di modelli antichi, ma assimilazione del bello per farlo rifiorire in concezioni
geniali, che senza rinnegare le origini, ne affermano l’intima forza di perenne
giovinezza; traendo così dal folclore locale e dall’ambiente stesso una fonte inesauribile
di ispirazione artistica”.
La Scuola oltre a ben operare nel versante decisamente “artistico” è particolarmente
attiva anche dal punto di vista professionale, della formazione artigianale, compito
precipuo a cui non può venir meno, e per cui spesso riceve un coro di elogi sia per il
modo di condurla sia per i risultati raggiunti. Diventa opinione comune che la Scuola,
pur con i “limitatissimi mezzi di cui dispone”, abbia raggiunto un “punto notevolissimo di
efficienza”, in gran parte dovuta al fatto che è stato accettato pienamente ed attuato
quel desiderio di rinnovamento che, rientrando mirabilmente nell’atmosfera generale
creata dal Fascismo, è stato costantemente espresso dal Ministero dell’Educazione
Nazionale, per il raffinamento e l’evoluzione del gusto degli artigiani e dello stesso
pubblico. “L’atmosfera” tutta fascista che si è creata con il passare degli anni ha
acquisito una certa conformazione e caratterizzazione che ha ricevuto anche da parte
della Scuola grottagliese un considerevole contributo. In questa direzione la Scuola,
come dalle sue intrinseche possibilità, contribuisce a dare un nuovo volto all’arte
decorativa, a rinnovarla dopo la stagione della cosìddetta arte tradizionale. Tale
rinnovamento però non avviene solo per travaglio e ricerca tutta inerente all’arte
decorativa, ma trova motivazione ideale e culturale nella vita attuale, fascista, che
tende e più tenderà, a valori formali e figurativi che abbiano un contenuto allegorico e
simbolico, e sia espressione rappresentativa e universale. La didattica così come i
programmi d’insegnamento, al di là di quelle disposizioni ministeriali molto generiche a
cui ci si deve rifare per grandi linee, sono fatti “in casa”, vengono fuori dall’elaborazione
e dalla esperienza del corpo degli insegnanti. I programmi, che sono redatti annualmente, e annualmente sottoposti agli organi ministeriali, rispecchiano oltre le potenzialità e gli attributi didattici della Scuola, anche i suoi grandi obbiettivi formativi. A
quest’ultimo scopo corrisponde, infatti, l’introduzione nelle materie culturali, che sono
italiano, storia, geografia, igiene, matematica e culturale fascista.
In questa direzione infatti il Rosati invita sempre gli insegnanti ad operare. “Nello
svolgimento del (…) programma, attenendosi allo spirito con cui è stato tracciato,
tenendo anche conto della praticità che deve condurre tutti gli insegnamenti ed il tempo
disponibile per le lezioni. Inoltre, il tipo di scolaresca, se pure in essa vi possono essere
dei futuri artisti delle arti decorative, la grande maggioranza è costituita da apprendisti
artigiani, i quali potranno arrivare ad essere soltanto dei buoni esecutori e non degli
ideatori. Però dato lo spirito di rinnovamento che ora sussiste, anche nell’artigianato
debbono estendersi quelle nozioni a quella cultura artistica (sia pur limitata) che
appunto necessitano per arrivare alla buona ed intelligente interpretazione delle idee
degli artisti.”
Anche l’insegnamento delle discipline più tradizionali e “tipicamente” artistiche deve
cedere il passo a quella preoccupazione “per la vita pratica”, per l’immediata sorte
lavorativa delle centinaia di giovani artigiani grottagliesi che frequentano la Scuola con
l’unico scopo di dare al più presto risoluzione al drammatico problema dell’occupazione
ben remunerata o adeguatamente remunerativa e solo poche volte di migliorare il
proprio bagaglio professionale per una “ricerca” artistica o per una “ricerca” di nuove
frontiere dell’attività lavorativa e per fini di lucro e per scopi formali.
Inevitabilmente tutti i programmi del corso risentono di questo orientamento in cui la
ricerca della “praticità” alla fine diventa una consuetudine ossessiva e assillante.
Fondato su questi programmi l’insegnamento si caratterizza per la sua praticità permettendo così lo svolgimento dell’ opera della Scuola e quella della bottega in un parallelismo perfetto, senza che ne sia interrotto il contatto. Inoltre questo addestramento
artistico non resta solo nell’ambito della scuola; tutte le Mostre locali e le migliori
Mostre nazionali sono state abbellite da una produzione abbondante e svariata della
Scuola grottagliese, abituando in tal modo il giovane artigiano al contatto con il pubblico
e addestrandolo agli urti con la critica, dandogli il senso della sua individualità artistica,
che lo obbliga ad elevarsi e a perfezionarsi. La necessità professionale e artistica di
partecipare alle mostre, di competere sempre con gli altri trova nella scuola una teoria
legittimatrice elaborata secondo i migliori principi dell’ideologia del tempo.
Nel 1949 anno della morte di Roberto Rosati, la direzione della scuola viene affidata al
professore Cosimo Calò. Al cambio della direzione si accompagnava anche un rinnovamento di tutta l’attività scolastica, delle finalità istruttive, delle tecniche e dei metodi di
insegnamento, dei programmi e via dicendo. Ciò è determinato dal bisogno di ridare
slancio e vitalità alla Scuola, la quale, dopo aver patito una lenta decadenza, un’appannamento della sua funzione formativa e professionale, nel corso della seconda metà
degli anni Trenta ora esige che vengano operate scelte drastiche, coraggiose e innovative. La Scuola infatti da alcuni anni mostra incapacità a perseguire gli scopi che le sono
propri. Dai documenti d’archivio relativi alla gestione del direttore Calò che è durata
circa cinque anni, non si colgono elementi o fatti che lascino supporre concretamente
l’idea di un cambiamento della linea didattica precedente, segno evidente che la Scuola
è rimasta tagliata fuori dai processi di evoluzione e di rinnovamento che in altre scuole
d’arte italiane stava prepotentemente attuandosi. Per assistere ad un risveglio della
Scuola d’Arte di Grottaglie, bisogna attendere il 1954, anno in cui dopo la direzione
Calò la stessa è affidata al Professore Angelo Peluso. La scuola riesce a trovare certi
equilibri di sopravvivenza e a condurre in porto un’apprezzata attività didattica. I
programmi per le materie artistiche e di laboratorio conformi al carattere della scuola
sono ben coordinati fra loro. Gli insegnanti di disegno geometrico, disegno ornato,
disegno professionale e plastica rispondono allo speciale carattere della sezione, come
pure i laboratori annessi per le esercitazioni pratiche. Sotto la spinta di questo rinnovato
fervore, con tanta voglia di fare bene da parte della direzione e del corpo docente, con il
riordinamento operato, le sorti della Scuola sembrano risollevarsi. La nostra scuola è ora
più snella, dai contorni e dalle finalità forse più spiccate, risente della nuova “vitalità”
acquistata da tutto l’apparato scolastico e si proietta verso l’istruzione artistico-professionale, sempre più immersa nei circuiti delle aspettative sociali delle masse popolari. Il
successo sembra decollare subito dopo gli anni ’60 ed esattamente dal 1961, quando da
scuola d’arte diventa Istituto d’Arte per la ceramica. Con la nuova veste giuridica di
Scuola superiore di secondo grado, cominciò la stagione dei riconoscimenti quali
conseguenze relative alla partecipazione alle varie rassegne e concorsi banditi o
patrocinati dal Ministero della Pubblica istruzione nonché da enti pubblici e privati. Il
direttore Peluso seppe con abilità, destrezza e notevole competenza coordinare ogni
attività della Scuola, compito non sempre facile dato che con l’elevazione a scuola
superiore il corpo docente era costituito da insegnanti anziani legati forse giustamente a
schemi tradizionali nella vita della scuola, e giovani docenti molti dei quali autentici
cavalli di razza, così come li definirà più tardi il Preside Antonio Arces, scalpitanti e
ricchi di entusiasmo pronti a dare il meglio della loro capacità professionale. L’affiatamento e la collaborazione tra i docenti, oltre a realizzare prodotti ceramici di pregio e
originalità altissima, coinvolgendo gli alunni, costituì il gruppo di coagulo di esperienze
nel segno della interdisciplinarità, quale principio moderno dell’attività didattica tanto
auspicato ma non sempre facile da raggiungere. L’azione trainante dei docenti fu
continua e instancabile. La scuola per effetto di questa continua spinta sostenuta anche
da docenti delle materie speculative e scientifiche, subiva un’accelerazione e un
dinamismo che si riversava sui discenti e soprattutto verso gli intendimenti che avevano
come obiettivo finale la ricerca e la razionalità in ogni operazione artistica e culturale
che essi affrontavano con le varie classi. Il direttore Angelo Peluso si rese conto della
realtà che doveva gestire, una realtà che si faceva ogni giorno più pesante anche perché
durante la sua direzione furono introdotti nella scuola per la prima volta nella storia i
decreti delegati quale momento di innovazione socio-democratico sui quali, non ci
dilunghiamo nè accenniamo alla loro validità specie in un tipo di scuola come quella a
indirizzo artistico. Intanto fra le tante difficoltà il mite e riflessivo direttore Peluso
indirizzava la didattica della sua scuola tesa a sviluppare quella coscienza nei giovani
che non è soltanto una caratteristica di alcune categorie di privilegiati, ma è comune
esigenza e diritto per il miglioramento delle condizioni di vita e del livello di cultura
delle masse. Una cura particolare il direttore Peluso la dedicava all’attività artistica
connessa ai programmi didattici che dovevano essere espletati nel corso dell’anno
scolastico. Egli curava moltissimo il rapporto tra le materie grafiche e i laboratori di
esercitazione pratica, convinto che un’organizzazione di questo tipo avrebbe prodotto
risultati convincenti che avrebbero consentito ai discenti di cogliere per intero il frutto
dell’insegnamento teorico-grafico unicamente a quello sperimentale. Proprio in questo
quadro si inseriva l’esigenza di istituire nella scuola la sezione “tecnologica”, visto ormai
che la produzione ceramica cresceva a vista d’occhio nel contesto produttivo locale. Ma
nonostante le esaurienti relazioni inviate dal direttore Peluso al competente Ministero e
gli interventi a titolo personale ripetutamente indirizzati ai funzionari responsabili la
tanta agoniata sezione purtroppo non fu istituita. Il giorno… ?… 1976 il direttore Angelo
Peluso morì nella direzione dell’Istituto a seguito di un attacco cardiaco. l’istituto d’arte
di Grottaglie aveva perduto la sua guida che era uomo saggio e artista di notevole
spessore. I meriti che gli dobbiamo riconoscere sono tanti ma consentiteci di sottolineare soltanto la fiducia che riponeva nei giovani allievi, il rispetto e l’ammirazione per le
capacità professionali dei suoi insegnanti ai quali ispirava costantemente fiducia,
serenità ed entusiasmo.
A dirigere l’istituto d’arte di Grottaglie viene nominato dal competente Ministero della
Pubblica Istruzione l’architetto Carlo Martinez, la sua gestione dura solo due anni. In
questi due anni che possiamo definire di transizione, sono successe cose folli molto
simili agli episodi che caratterizzarono la permanenza nella Scuola d’arte di Grottaglie
del direttore Michele Esposito, allora docente presso la locale Scuola sotto la direzione
di Roberto Rosati. Il Professore Esposito fu “costretto” a trasferirsi per volere di
Gaetano Ballardini a Santo Stefano di Camastra (ME), dove diresse la nascente
Scuola di ceramica regionale. perché questo riferimento? perché questo passo indietro?
perché quando in una collettività scolastica prendono il sopravvento invidia, la gelosia,
la cattiveria e la falsità degli uomini anche se docenti “amici”, le conseguenze sono
drammatiche e laceranti. A farne le spese fu il compianto direttore Carlo Martinez il
quale pur avendo età matura per distinguere il vero dal falso si lasciò trascinare dalla
demoniaca voglia di perseguire professionalmente e penalmente alcuni tra i più sinceri e
onesti collaboratori. Questo è solo il succo dei fatti, i documenti ufficiali sull’intera
vicenda sono regolarmente depositati presso l’archivio dell’istituto e nei fascicoli
personali degli insegnanti e del personale non insegnante “perseguitati”. Ma la verità è
difficile da scrivere specie quando a farlo si deve fare nome di persone ancora in vita e
tutto sommato sotto il profilo cristiano buoni amici. Le vicende a cui abbiamo accennato
non hanno tuttavia intaccato il normale svolgimento delle lezioni ed il relativo espletamento dei programmi didattici, motivo per cui la scolaresca non ha subito per fortuna
alcun riflesso negativo. Molto si deve al corpo docente che con senso di responsabilità e
scrupoloso attaccamento al dovere, se la scuola ha continuato indisturbata la sua corsa
verso quella stabilità e riconosciuto prestigio che durante la gestione Peluso aveva così
faticosamente costruito. Nel dicembre del 1978 viene nominato Preside dell’istituto
d’arte dell’annessa scuola media il Prof. Antonio Arces. Compito principale del nuovo
Preside era quello di ristabilire all’interno del corpo docente e non docente, equilibrio e
fiducia condizione indispensabile per riprendere il cammino tracciato dal compianto
Angelo Peluso. Il Preside Arces uomo colto, intelligente e lungimirante sorretto sempre
da una profonda fede e morale cristiana per prima cosa tese la mano in segno di stima
e amicizia a coloro che certamente nel biennio travagliato non gli avevano accordato
solidarietà allor quando il Preside Martinez con un atto di censura lo pose nelle condizioni
di rispondere personalmente davanti alle autorità competenti. Sotto la sua presidenza,
l’istituto ha ricalcato per certi aspetti le orme del direttore Peluso, tuttavia, dobbiamo
aggiungere per dovere di correttezza che il Preside Arces grazie alla sua personalità ha
arricchito e caratterizzato più ampiamente ogni attività nella Scuola. L’impostazione
didattica del giovane Preside mira ad arricchire la linea, attraverso opportuni interventi
migliorativi che non hanno mai costituito impedimento all’atto del relativo
espletamento. Il suo pensiero mirava a “costringere” la scolaresca a sviluppare le varie
esperienze scolastiche attraverso opportune modalità di analisi, sintesi e coordinamento
logico al fine di prendere coscienza del proprio patrimonio culturale per accedere via via
ad una visione sempre più ampia, per essere in grado di contribuire ad elaborare nuova
cultura in prospettiva del futuro. Sarà opportuno - egli sosteneva - far sperimentare agli
allievi quante più tecniche possibili in modo che ciascuno possa operare scelte consapevoli ed adeguate alla propria personalità e al tipo di messaggio che intende
esprimere, utilizzando materiali alla portata della sua esperienza e della sua creatività
per acquistare così, graduale consapevolezza di procedimenti operativi finalizzati ad una
valida applicazione pratica. Nell’attuazione dell’itinerario didattico l’insegnante, nel
quadro di una programmazione interdisciplinare dovrà opportunamente sollecitare gli
interessi e le attività degli allievi con una funzione di stimolo, di coordinamento, di
sostegno, in un’azione didattica costantemente aggiornata che rende agli alunni motivati
all’apprendimento. Questa in sintesi la sua linea didattica, queste le direttive del Preside
Arces. In questo clima di rinnovato entusiasmo che trova concordi tutti i dicenti si
organizzo un piano di lavoro a lunga scadenza ed ebbe come conseguenza la partecipazione dei nostri allievi a tutte le rassegne a concorso raccogliendo riconoscimenti e
consensi attraverso una serie di affermazioni certamente prestigiose e significative.
Nello stesso tempo anche nella scuola media annessa all’Istituto si viveva un clima di
entusiasmo. I docenti, ricchi della loro esperienza, disponendo delle attrezzature, delle
materie prime e delle tecniche ceramiche sperimentate nell’Istituto, mietevano successi
ed affermazioni sia in campo provinciale, regionale e nazionale. In realtà l’Istituto e la
scuola media annessa, sotto la direzione di Antonio Arces alla luce di quanto si è detto
ha conquistato la simpatia e la stima di tutti in modo particolare degli uomini che
reggono le sorti dell’istituzioni provinciali, regionali e statali che con entusiasmo e
sempre nessuna sollecitazione hanno privilegiato la visita nel nostro Istituto allor quando
dovevano esibire il meglio del territorio alla personalità in visita ufficiale nella nostra
città. Non a caso il Ministero della Pubblica Istruzione accertata la solidità d’impianto
della nostra scuola sotto tutti gli aspetti in particolari morali e professionali, che la
colloca tra tutti gli istituti più prestigiosi d’Italia, a completamento dell’insiemi ceramici
istituisce un corso di restauro ceramico, e subito dopo due nuove “sezioni”. Disciplina
Pittorica e Oreficeria. Con questa ultima “fatica” che arricchisce il nostro Istituto di
nuovi indirizzi di studio certamente utili al territorio non solo locale ma anche
provinciale, il preside Arces lascia la direzione dell’Istituto Statale d’Arte di Grottaglie.
Nell’ultimo anno del centenario 1987 assume la direzione il Prof. Vincenzo De Filippis.