FILOMENA La vita non è mai inutile, anche se è fatta di vuoto, do

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FILOMENA La vita non è mai inutile, anche se è fatta di vuoto, do
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Maria Concetta Preta
FILOMENA
La vita non è mai inutile, anche se è fatta di vuoto, dolore e miserie, anche se ti senti una sepolta viva. C’è una
forza che riaffiora, anche nei momenti disperati, in cui
sei sola e vorresti farla finita.
Vivo da dieci anni in questo penitenziario femminile, ne
ho viste di tutti i colori. Dieci anni. Entrai col volto liscio,
ora ho mille rughe. Un tempo lunghissimo, sottratto alla
giovinezza, ai desideri di donna. Una lenta agonia, un
morire dentro di giorno in giorno. Il carcere abbruttisce
l’anima, rende astiosi, ti allontana da tutti. Eppure mi
sforzo di vivere, basta anche lo sguardo di una compagna o la luce di un ricordo a risvegliare le mie cellule,
a farmi accelerare i battiti del cuore e a ridarmi colore.
Mi chiamano “la muta”, infatti non parlo mai. Ognuna
di noi, qua dentro, cerca di ritrovare la sensazione di se’
nell’automatico consumarsi del tempo. Io lavoro in silenzio, faccio quello che devo fare, senza aprire bocca.
Ma oggi voglio far uscire dal corpo la mia voce, sarà
un’evasione da questa lurida cella, da questa non-vita.
Non saranno parole che volano, ma che restano. Ho carta, inchiostro e penna … sono loro gli strumenti della
mia libertà. Con loro recupererò il passato dal fondo
dell’oblio, poi di nuovo il silenzio mi seppellirà.
Fino a ieri vivevo stretta nel presente, i ricordi erano sogno e incubo. Ora, inaspettatamente, il tempo si è schiuso e di nuovo, davanti a me, sono libera di rivolgermi
direttamente agli altri che, leggendo queste pagine, saranno mossi dalla volontà di conoscermi, non di giudicare e punire.
Alcuni antropologi criminali sostengono che le donne
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commettono meno delitti dell’uomo ma, nel farli, sono
più crudeli e ostinate e si ravvedono meno. Se ripenso a
ciò che ho fatto, riconosco che ho agito sotto l’impulso
di un sentimento forte, incontrollato, che ha travolto le
resistenze del mio corpo, dimenticando di essere donna.
La donna è maternità, affetto, accoglienza, amore, pace.
Nel suo lessico non c’è posto per parole contrarie: morte,
violenza, durezza.
Anch’io ero donna, prima di essere classificata come un
criminale.
Tutte le memorie iniziano con un nome. Il mio è Filomena. Come molti altri, ho condiviso la sorte di un destino
nero e cupo, figlia della terra del Sud Italia nel dopoguerra. Nata tra le macerie, non poteva essere diversamente.
La mia terra: una manciata di bellezza sprecata, lanciata per caso o per sbaglio, dall’alto dei cieli. Una piccola
distrazione dei celesti… ed ecco la Calabria, in cui l’abbaglio della perfezione si unisce all’abominio della nefandezza. No, gli dei non ci pensarono molto nel crearla,
questa terra maledetta. Però fu baciata dal sole, lambita
dal mare… Madre Natura fu generosa, l’arricchì di monti e sorgenti… poteva avere tutto per essere un angolo
magnifico, un Eden… e invece ci pensò l’umanità a insudiciarla.
Il mio paese è nascosto in una pozza d’ombra scavata
tra i monti e circondato dalla campagna coltivata poco
e male. La terra ci sfamava appena, eravamo in sei. Mia
madre morì di parto nel dare alla luce il quinto figlio, una
femmina, a cui venne addossata la colpa di nascere ed esistere. Io, prima figlia, mi presi cura di tutti. L’infanzia svanì di colpo, crebbi con la sofferenza, la paura, le minacce.
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Mio padre era insofferente d’aver attorno me e le mie
sorelle, per lui esisteva solo ‘u masculu, trattato come un
figlio unico. Si risposò abbastanza presto con una vedova
di guerra, senza figli, e pensò bene di sbarazzarsi di me,
avviando le trattative del mio matrimonio, con un giovane sarto che stava per partire per la ‘Merica.
Un giorno bussarono: una signora portava in dono ‘na
guantiera di dolci: la madre dello sposo, vedova pure lei
e dietro c’era lui, Nicola, un perfetto sconosciuto. Era
l’avvio delle trattative matrimoniali.
Io non sapevo niente degli uomini se non dei loro panni
sporchi da lavare e degli ordini che davano a noi fimmani. Lo guardavo di sottecchi, ne avevo paura.
Ci pensò lui, mio marito a svezzarmi, nella lontana Novajorca. Avevo tanti sogni! Sposina fresca, venni sverginata in un letto sudicio di un pensionato per emigranti…
e mi ritrovai reclusa a sforbiciare, rattoppare, scucire e
ricucire un’interminabile tela di Penelope, alla luce di un
lume a petrolio, sotto lo sguardo di mia suocera e di suo
figlio, che le obbediva in tutto e pretendeva di essere obbedito da me, su cui riversava fallimenti e amarezze.
Dovevamo accumulare dollari su dollari, niente bambini. Non c’era tenerezza, solo la sigla del possesso. Nella
topaia di periferia, con me e Nick viveva l’onnipresente
madre che mi gettava addosso sguardi increduli e interrogativi, trattandomi da serva. Questa la mia ‘Merica.
Me ne stufai molto presto. Avevo vent’anni e desideri che
la metropoli avrebbe alimentato.
Una notte misi le mie bagattelle nella valigia di cartone e
fuggii in silenzio, come fino ad allora ero vissuta.
Diedi un ultimo sguardo allo sconosciuto che aveva dor-
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mito per un anno nel letto con me, russando così forte
da pietrificare l’aria e imponendomi la presenza fino a
soffocarmi. Il corpo riverso occupava tutto il lato destro
del letto, inerte come un morto. Non lo odiavo e non lo
amavo, non provavo niente di niente per lui.
Mi gettai in strada, senza paura. Le mille luci della città
in eterna festa mi stordirono. Mi sentivo libera, per la
prima volta e non c’era voluto molto.
Entrai in un bar, conobbi gente… uomini e donne, si usava darsi del tu anche se io smozzicavo frasi in un pallido
slang… capirono subito che ero un’emigrata, mi offrirono da bere… mi proposero un lavoro da cameriera…
e da quel momento non fui più la persona che ero stata
fino ad allora.
In capo a un anno, divenni un’altra. Dalla famiglia di
mio marito, non era venuto nessuno a cercarmi. Libera
come l’aria, assaporavo la vita. Parlavo a voce alta, ridevo, cantavo, ballavo, sognavo. Mi chiamavo Flo’, ero
‘na ‘mericana. Mi ero ossigenata i capelli, mi truccavo,
facevo la manicure, vestivo scollata, usavo tacchi vertiginosi, avevo cambiato modo di parlare e di essere. Avevo
seppellito il pudore.
Ah, il pudore! Che cosa sarà mai questo mito con cui
c’hanno pasciute? Dopo la maternità, il più forte sentimento femminile. Tutta l’evoluzione psichica della donna lavora da secoli con energia estrema a consolidare
questo sentimento.
M’accorsi subito di non possederlo. Ricevevo complimenti, mi puntavano tutti i maschi, dapprima mi schernivo, poi cominciò a piacermi. Facevo la cassiera e di notte
arrotondavo il salario concedendomi a qualche cliente di
passaggio. Non fu ne’ difficile ne’ traumatico. Accadde
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semplicemente e pensai bene di ricavarne dei vantaggi.
Non mi sono mai considerata “una di quelle”, mai battuto il marciapiede o acceso fuochi ai crocevia o frequentato un bordello. Mai avuto padroni. Se l’ho fatto, è perché
l’ho scelto come reazione a un modello di vita imposto.
Ho iniziato a prostituirmi per reagire alla noia, e perché
il primo cliente mi attraeva. Ero un fiore, avevo i miei
desideri. Con lui sfogai il mio istinto, e basta. Con gli
altri, fu solo lucro. Mi accorsi che mi pagavano, e bene.
La clientela si allargò a macchia d’olio, con gli uomini
imparai a saperci fare in men che si dica, ero io a comandare, non viceversa. Non fui mai felice.
Mi sentivo vuota e apatica mentre mi davo a loro e non
vedevo l’ora che finissero per avere i soldi. Ho “fatto la
vita” solo per guadagno, per comprarmi un abito, una
borsa, una pelliccia, un’automobile, per essere libera.
In galera ci sono arrivata senza rendermene conto. Mi
trovavo al massimo del fulgore, ma stavo maturando
l’idea di mollare per ricrearmi una vita vera, una famiglia. In America si può fare, qua te la danno una seconda
chance, qua pure l’impossibile diventa possibile.
Me ne sarei andata lontano, magari in California, sotto
il suo caldo sole che mi avrebbe ricordato il mio Sud…
quando conobbi lui.
Lui mi parve diverso da tutti. Lui mi voleva salvare dalla
perdizione, mi promise mari e monti. Persi letteralmente
la testa, io che ero abituata a frenare ogni istinto e a razionalizzare ogni sentimento. A trent’anni non è a come
a venti, e forse ero già stanca.
Lui mi aveva redento, diceva di amarmi alla follia, credevo che non mi avrebbe mai rinfacciato ciò che ero stata.
Sbagliato. L’uomo non può ammettere che la sua donna
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sia stata con altri, che magari abbia ricevuto godimento
in braccia altrui o che abbia deciso di vivere liberamente.
Il passato riaffiorava sempre: insultata, vilipesa, oltraggiata.
Una sera, invece di finire con la testa spaccata da una
bottiglia scheggiata, decisi di spaccargliela io a lui. Fu un
attimo, fatale come lo sono certi momenti inspiegabili.
Mi ritrovai allo sbaraglio, senza accorgermene. Immobilizzata sul pavimento, in una pozza di sangue, i vicini che
ora mi volevano aiutare. Senza una lacrima, muta come
un sasso, svuotata… mi sono ritrovata in carcere. Ho
lasciato che mi facessero tutto quello che c’era da fare.
Al processo non fiatai, mi condannarono senza intoppi.
Finii in prima pagina, ebbi il mio quarto d’ora di celebrità, poi… tornai invisibile.
Per anni senza parlare, chiusa nel dolore.
Ora, ho deciso di scrivere di me, non per accusare qualcuno o per prendermi una vendetta… ma per sentirmi
viva ancora una volta, forse l’ultima. Viva nel semplice
riaffiorare dei ricordi, nel tentativo di ripensarmi e di conoscermi attraverso lo specchio della memoria.
La mia è stata una vita a metà, un’esistenza spezzata.
Non so ancora quanto vivrò, non so se sarò viva quando mi scarcereranno, se mai uscirò da qui. Il giudizio
inappellabile degli uomini mi ha condannata, io stessa
mi sono condannata al silenzio.
Ma oggi ho smesso con la reticenza e ciò che ho pensato di
me, l’ho scritto. Ora, e mai più, per non morire inutilmente.
Filomena, penitenziario femminile di Pittsburgh