FILOMENA La vita non è mai inutile, anche se è fatta di vuoto, do
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FILOMENA La vita non è mai inutile, anche se è fatta di vuoto, do
128 Maria Concetta Preta FILOMENA La vita non è mai inutile, anche se è fatta di vuoto, dolore e miserie, anche se ti senti una sepolta viva. C’è una forza che riaffiora, anche nei momenti disperati, in cui sei sola e vorresti farla finita. Vivo da dieci anni in questo penitenziario femminile, ne ho viste di tutti i colori. Dieci anni. Entrai col volto liscio, ora ho mille rughe. Un tempo lunghissimo, sottratto alla giovinezza, ai desideri di donna. Una lenta agonia, un morire dentro di giorno in giorno. Il carcere abbruttisce l’anima, rende astiosi, ti allontana da tutti. Eppure mi sforzo di vivere, basta anche lo sguardo di una compagna o la luce di un ricordo a risvegliare le mie cellule, a farmi accelerare i battiti del cuore e a ridarmi colore. Mi chiamano “la muta”, infatti non parlo mai. Ognuna di noi, qua dentro, cerca di ritrovare la sensazione di se’ nell’automatico consumarsi del tempo. Io lavoro in silenzio, faccio quello che devo fare, senza aprire bocca. Ma oggi voglio far uscire dal corpo la mia voce, sarà un’evasione da questa lurida cella, da questa non-vita. Non saranno parole che volano, ma che restano. Ho carta, inchiostro e penna … sono loro gli strumenti della mia libertà. Con loro recupererò il passato dal fondo dell’oblio, poi di nuovo il silenzio mi seppellirà. Fino a ieri vivevo stretta nel presente, i ricordi erano sogno e incubo. Ora, inaspettatamente, il tempo si è schiuso e di nuovo, davanti a me, sono libera di rivolgermi direttamente agli altri che, leggendo queste pagine, saranno mossi dalla volontà di conoscermi, non di giudicare e punire. Alcuni antropologi criminali sostengono che le donne 129 commettono meno delitti dell’uomo ma, nel farli, sono più crudeli e ostinate e si ravvedono meno. Se ripenso a ciò che ho fatto, riconosco che ho agito sotto l’impulso di un sentimento forte, incontrollato, che ha travolto le resistenze del mio corpo, dimenticando di essere donna. La donna è maternità, affetto, accoglienza, amore, pace. Nel suo lessico non c’è posto per parole contrarie: morte, violenza, durezza. Anch’io ero donna, prima di essere classificata come un criminale. Tutte le memorie iniziano con un nome. Il mio è Filomena. Come molti altri, ho condiviso la sorte di un destino nero e cupo, figlia della terra del Sud Italia nel dopoguerra. Nata tra le macerie, non poteva essere diversamente. La mia terra: una manciata di bellezza sprecata, lanciata per caso o per sbaglio, dall’alto dei cieli. Una piccola distrazione dei celesti… ed ecco la Calabria, in cui l’abbaglio della perfezione si unisce all’abominio della nefandezza. No, gli dei non ci pensarono molto nel crearla, questa terra maledetta. Però fu baciata dal sole, lambita dal mare… Madre Natura fu generosa, l’arricchì di monti e sorgenti… poteva avere tutto per essere un angolo magnifico, un Eden… e invece ci pensò l’umanità a insudiciarla. Il mio paese è nascosto in una pozza d’ombra scavata tra i monti e circondato dalla campagna coltivata poco e male. La terra ci sfamava appena, eravamo in sei. Mia madre morì di parto nel dare alla luce il quinto figlio, una femmina, a cui venne addossata la colpa di nascere ed esistere. Io, prima figlia, mi presi cura di tutti. L’infanzia svanì di colpo, crebbi con la sofferenza, la paura, le minacce. 130 Mio padre era insofferente d’aver attorno me e le mie sorelle, per lui esisteva solo ‘u masculu, trattato come un figlio unico. Si risposò abbastanza presto con una vedova di guerra, senza figli, e pensò bene di sbarazzarsi di me, avviando le trattative del mio matrimonio, con un giovane sarto che stava per partire per la ‘Merica. Un giorno bussarono: una signora portava in dono ‘na guantiera di dolci: la madre dello sposo, vedova pure lei e dietro c’era lui, Nicola, un perfetto sconosciuto. Era l’avvio delle trattative matrimoniali. Io non sapevo niente degli uomini se non dei loro panni sporchi da lavare e degli ordini che davano a noi fimmani. Lo guardavo di sottecchi, ne avevo paura. Ci pensò lui, mio marito a svezzarmi, nella lontana Novajorca. Avevo tanti sogni! Sposina fresca, venni sverginata in un letto sudicio di un pensionato per emigranti… e mi ritrovai reclusa a sforbiciare, rattoppare, scucire e ricucire un’interminabile tela di Penelope, alla luce di un lume a petrolio, sotto lo sguardo di mia suocera e di suo figlio, che le obbediva in tutto e pretendeva di essere obbedito da me, su cui riversava fallimenti e amarezze. Dovevamo accumulare dollari su dollari, niente bambini. Non c’era tenerezza, solo la sigla del possesso. Nella topaia di periferia, con me e Nick viveva l’onnipresente madre che mi gettava addosso sguardi increduli e interrogativi, trattandomi da serva. Questa la mia ‘Merica. Me ne stufai molto presto. Avevo vent’anni e desideri che la metropoli avrebbe alimentato. Una notte misi le mie bagattelle nella valigia di cartone e fuggii in silenzio, come fino ad allora ero vissuta. Diedi un ultimo sguardo allo sconosciuto che aveva dor- 131 mito per un anno nel letto con me, russando così forte da pietrificare l’aria e imponendomi la presenza fino a soffocarmi. Il corpo riverso occupava tutto il lato destro del letto, inerte come un morto. Non lo odiavo e non lo amavo, non provavo niente di niente per lui. Mi gettai in strada, senza paura. Le mille luci della città in eterna festa mi stordirono. Mi sentivo libera, per la prima volta e non c’era voluto molto. Entrai in un bar, conobbi gente… uomini e donne, si usava darsi del tu anche se io smozzicavo frasi in un pallido slang… capirono subito che ero un’emigrata, mi offrirono da bere… mi proposero un lavoro da cameriera… e da quel momento non fui più la persona che ero stata fino ad allora. In capo a un anno, divenni un’altra. Dalla famiglia di mio marito, non era venuto nessuno a cercarmi. Libera come l’aria, assaporavo la vita. Parlavo a voce alta, ridevo, cantavo, ballavo, sognavo. Mi chiamavo Flo’, ero ‘na ‘mericana. Mi ero ossigenata i capelli, mi truccavo, facevo la manicure, vestivo scollata, usavo tacchi vertiginosi, avevo cambiato modo di parlare e di essere. Avevo seppellito il pudore. Ah, il pudore! Che cosa sarà mai questo mito con cui c’hanno pasciute? Dopo la maternità, il più forte sentimento femminile. Tutta l’evoluzione psichica della donna lavora da secoli con energia estrema a consolidare questo sentimento. M’accorsi subito di non possederlo. Ricevevo complimenti, mi puntavano tutti i maschi, dapprima mi schernivo, poi cominciò a piacermi. Facevo la cassiera e di notte arrotondavo il salario concedendomi a qualche cliente di passaggio. Non fu ne’ difficile ne’ traumatico. Accadde 132 semplicemente e pensai bene di ricavarne dei vantaggi. Non mi sono mai considerata “una di quelle”, mai battuto il marciapiede o acceso fuochi ai crocevia o frequentato un bordello. Mai avuto padroni. Se l’ho fatto, è perché l’ho scelto come reazione a un modello di vita imposto. Ho iniziato a prostituirmi per reagire alla noia, e perché il primo cliente mi attraeva. Ero un fiore, avevo i miei desideri. Con lui sfogai il mio istinto, e basta. Con gli altri, fu solo lucro. Mi accorsi che mi pagavano, e bene. La clientela si allargò a macchia d’olio, con gli uomini imparai a saperci fare in men che si dica, ero io a comandare, non viceversa. Non fui mai felice. Mi sentivo vuota e apatica mentre mi davo a loro e non vedevo l’ora che finissero per avere i soldi. Ho “fatto la vita” solo per guadagno, per comprarmi un abito, una borsa, una pelliccia, un’automobile, per essere libera. In galera ci sono arrivata senza rendermene conto. Mi trovavo al massimo del fulgore, ma stavo maturando l’idea di mollare per ricrearmi una vita vera, una famiglia. In America si può fare, qua te la danno una seconda chance, qua pure l’impossibile diventa possibile. Me ne sarei andata lontano, magari in California, sotto il suo caldo sole che mi avrebbe ricordato il mio Sud… quando conobbi lui. Lui mi parve diverso da tutti. Lui mi voleva salvare dalla perdizione, mi promise mari e monti. Persi letteralmente la testa, io che ero abituata a frenare ogni istinto e a razionalizzare ogni sentimento. A trent’anni non è a come a venti, e forse ero già stanca. Lui mi aveva redento, diceva di amarmi alla follia, credevo che non mi avrebbe mai rinfacciato ciò che ero stata. Sbagliato. L’uomo non può ammettere che la sua donna 133 sia stata con altri, che magari abbia ricevuto godimento in braccia altrui o che abbia deciso di vivere liberamente. Il passato riaffiorava sempre: insultata, vilipesa, oltraggiata. Una sera, invece di finire con la testa spaccata da una bottiglia scheggiata, decisi di spaccargliela io a lui. Fu un attimo, fatale come lo sono certi momenti inspiegabili. Mi ritrovai allo sbaraglio, senza accorgermene. Immobilizzata sul pavimento, in una pozza di sangue, i vicini che ora mi volevano aiutare. Senza una lacrima, muta come un sasso, svuotata… mi sono ritrovata in carcere. Ho lasciato che mi facessero tutto quello che c’era da fare. Al processo non fiatai, mi condannarono senza intoppi. Finii in prima pagina, ebbi il mio quarto d’ora di celebrità, poi… tornai invisibile. Per anni senza parlare, chiusa nel dolore. Ora, ho deciso di scrivere di me, non per accusare qualcuno o per prendermi una vendetta… ma per sentirmi viva ancora una volta, forse l’ultima. Viva nel semplice riaffiorare dei ricordi, nel tentativo di ripensarmi e di conoscermi attraverso lo specchio della memoria. La mia è stata una vita a metà, un’esistenza spezzata. Non so ancora quanto vivrò, non so se sarò viva quando mi scarcereranno, se mai uscirò da qui. Il giudizio inappellabile degli uomini mi ha condannata, io stessa mi sono condannata al silenzio. Ma oggi ho smesso con la reticenza e ciò che ho pensato di me, l’ho scritto. Ora, e mai più, per non morire inutilmente. Filomena, penitenziario femminile di Pittsburgh