Tescari M.A., Agiografia cistercense. Dagli inizi al

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Tescari M.A., Agiografia cistercense. Dagli inizi al
Madre Augusta Tescari
O.C.S.O.
AGIOGRAFIA
CISTERCENSE
Dagli inizi al XX secolo
Documenti
Madre Augusta Tescari, o.c.s.o.
AGIOGRAFIA CISTERCENSE
SOMMARIO
Linee-forza della spiritualità cistercense, illustrate da alcune figure agiografiche
minori, lungo i secoli della storia dell’Ordine .....................................................................7
La fine dell’XI secolo: LE ORIGINI....................................................................................... 8
1: Il Nuovo Monastero. .........................................................................................................8
Il XII secolo: IL SECOLO DI S. BERNARDO ......................................................................9
1: La famiglia di S. Bernardo. ............................................................................................. 10
BARTOLOMEO............................................................................................................... 10
2: I primi discepoli. ............................................................................................................. 13
GOFFREDO DI PÉRONNE ............................................................................................ 13
LETTERA 109 .................................................................................................................. 13
ALL’ILLUSTRE GIOVANE GOFFREDO DI PÉRONNE E AI SUOI COMPAGNI .. 13
LETTERA 110 .................................................................................................................. 15
LETTERA CONSOLATORIA AI GENITORI DELLO STESSO GOFFREDO ............ 15
3: La diffusione prodigiosa................................................................................................. 17
BEATO PIETRO MONOCOLO ..................................................................................... 19
Il XIII secolo: FERVORE, PROSPERITÀ E SEGNI DI DECADENZA. .......................... 26
1: Himmerod e Heisterbach. .............................................................................................. 27
2: Villers e Aulne ................................................................................................................. 27
3: La santità belga... al femminile. ..................................................................................... 28
4: La comunità quasi-cistercense di Helfta. ...................................................................... 30
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Il XIV e XV secolo: DECADENZA. ..................................................................................... 39
Il secolo XVI: la riforma protestante ................................................................................... 42
L’Europa cistercense dopo il Concilio di Trento ............................................................... 42
VERONICA LAPPARELLI ............................................................................................ 43
MARÍA VELA Y CUETO ............................................................................................... 48
I TRAPPISTI .......................................................................................................................... 53
ALEXIS GRÊME ............................................................................................................. 55
Il secolo XVIII: il secolo dell’illuminismo ......................................................................... 57
LUDOVICA OLANDINA .............................................................................................. 58
La bufera della rivoluzione francese .................................................................................. 60
1: Il martirio dei pontoni. ................................................................................................... 62
BEATI MARTIRI DEI PONTONI .................................................................................. 64
2: I deportati in Guyana ..................................................................................................... 65
3: Il piccolo resto: la Valsanta. ........................................................................................... 66
Secolo XIX - La 'quasi' scomparsa della vita monastica cistercense ............................... 67
1: Il seme trapiantato attecchisce ....................................................................................... 68
2: l'incredibile odissea monastica ...................................................................................... 69
Secolo XIX - Il governo centrale restaurato. ....................................................................... 70
Nuova separazione delle Congregazioni trappiste. .......................................................... 70
L'unione dei trappisti e la spaccatura dell'Ordine ............................................................ 71
1: Il Capitolo dell'unione del 1892 ..................................................................................... 73
2: Tentativi di riunificazione .............................................................................................. 74
3: Cîteaux restaurato .......................................................................................................... 74
EUGENIO BONHOMME DI LAPRADE...................................................................... 75
EFREM SEIGNOL (1837-1893)...................................................................................... 77
Il XX secolo : il secolo missionario ...................................................................................... 80
Il periodo preconciliare ........................................................................................................ 81
P. PIO HEREDIA ............................................................................................................ 82
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PIERRE FAYE (1917-1992)............................................................................................. 87
Il periodo conciliare............................................................................................................... 92
Gli ultimi venticinque anni di storia cistercense .............................................................. 94
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Linee-forza della spiritualità cistercense, illustrate da alcune figure agiografiche
minori, lungo i secoli della storia dell’Ordine
Si è molto discusso a proposito del carisma cistercense, che può essere descritto, ma
difficilmente definito, perché è caratterizzato da un’armonia e semplicità dell’insieme
che rifugge da ogni ‘specializzazione’. Ha assunto accenti e sfumature diverse a
seconda dei tempi e dei luoghi, ma si può facilmente riconoscerlo anche oggi in
comunità e in persone che lo vivono integralmente.
Come?
-
A causa di una sua particolare tonalità evangelica, insieme tenera e robusta.
-
Per il realismo della sua visione antropologica.
-
Per la sua concezione dell’amore e dell’amicizia, per il monastero concepito come
“schola caritatis”.
-
Per l’austera e dolce sobrietà della sua “conversatio”.
-
Per la bellezza essenziale della sua architettura.
Per tutte queste ed altre ragioni, il carisma cistercense delle origini dà la netta
impressione di aver avuto il privilegio di collocare l’uomo al posto giusto e di indicargli
la giusta direzione. L’uomo infatti è
 essere creato ad immagine di Dio
 -segnato e imbruttito dal peccato
 redento da Cristo
 bisognoso di ascesi
 ‘capace di Dio’, la cui esperienza può essere fatta fin da quaggiù, mediante
‘l’ordinamento della carità’, che fa ridiventare figli e fratelli.
Il dono di questa presa di coscienza e di questo semplice ed esigentissimo programma
di vita, fiorito in maniera molto evidente nei secoli XII e XIII attraverso una geniale
riforma, che ha interpretato la Regola di S. Benedetto in maniera più letterale ed insieme
più creativa, è stato tuttavia accolto in pienezza, comunitariamente o singolarmente, in
tutte le epoche della ormai lunga storia cistercense, in quelle buie della decadenza come
in quelle del rinnovamento. É per questo che vive anche oggi e che può essere proposto
come fonte di felicità e di pienezza ad uomini e donne di ogni cultura e di ogni luogo.
Può essere proposto, direi, soprattutto agli uomini e alle donne del nostro tempo, nel
nostro mondo globalizzato, che sta perdendo di vista lo scopo dell’esistenza e il senso
dell’insieme, per accontentarsi di desideri corti e di piccole realizzazioni di felicità
immediata, che finiscono per tradire la vera natura dell’uomo.
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La fine dell’XI secolo: LE ORIGINI
É un’epoca di riforma, ma riforma vuol dire essenzialmente ritorno alle fonti: il Vangelo
e il modello della Chiesa primitiva. Il programma rivoluzionario della riforma
gregoriana ha certamente accentuato questo movimento, che però è più profondo; viene
dallo Spirito e investe tutti: monaci, canonici e laici.
Le tre grandi idee-forza del rinnovamento furono la povertà, l’eremitismo e la vita
apostolica. Le forme di vita religiosa e monastica nuove e originali si svilupparono a
seconda dell’integrazione particolare di questi tre elementi.
L’aspirazione alla povertà, alla vita solitaria e a quella apostolica ebbero come base
comune il desiderio di mettere Dio al primo posto, di estraniarsi dagli affari del mondo,
di vivere una vita eroica. É in questa atmosfera di fervore, di ricerca, di tentativi più o
meno riusciti della fine del XI secolo che nacque e si sviluppò il "Nuovo Monastero".
1: Il Nuovo Monastero.
Uomini del loro tempo, i fondatori di Cîteaux seppero rapidamente incanalare le
ispirazioni della loro epoca in una via già sperimentata e sicura: la Regola di S.
Benedetto.
Anche se alcuni studiosi pensano che la motivazione iniziale non fu con tutta
probabilità la fedeltà esatta alla Regola, l’aver scoperto che l’attenersi nel modo più
autentico e concreto al testo della Regola dava modo di realizzare nella maniera più
vera ed equilibrata i loro desideri profondi, fu il grande merito degli iniziatori della vita
cistercense, che ne garantì in parte lo straordinario successo.
Che cosa volevano esattamente i Padri di Cîteaux? Indubbiamente la separazione dal
mondo e la povertà, una vita libera dagli affari temporali, silenziosa, austera e nascosta,
interamente dedicata al servizio di Dio. Ma non era questo che proponeva la Regola, se
osservata in tutti i suoi aspetti, senza privilegiarne o sottovalutarne alcuno? Questo
preteso ritorno ‘letterale’ alla Regola fu in effetti una riscoperta creativa. Il Nuovo
Monastero fu ‘nuovo’ in molti sensi: se infatti l’equilibrio ristabilito fra le grandi
osservanze benedettine fu solo un recupero e se le altre correnti monastiche dell’ epoca
avevano già come comune denominatore la ricerca della povertà, della solitudine, della
semplicità di vita, Cîteaux è intransigente sul lavoro manuale come unico mezzo di
sussistenza; vuole l’umiltà e la rusticità dell’esistenza; cerca testardamente l’autenticità
della parola di Dio e dei testi liturgici; rafforza l’amore appassionato per l’umanità di
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Cristo e la devozione a Maria; introduce la novità del principio di filiazione e tutta
l’organizzazione della Carta di carità; approfondisce la teologia dell’immagine, si
arricchisce di una dottrina sull’amicizia spirituale e, attraverso i grandi scrittori del XII
secolo, diffonde ovunque una spiritualità ricca, diversificata e adatta ai tempi.
Il XII secolo: IL SECOLO DI S. BERNARDO
L’influenza e l’azione del Santo hanno segnato la sua epoca in una maniera molto
profonda. Bernardo vive in un mondo la cui unità è basata sulla fede cristiana e sull’uso
di una lingua comune: il latino. La liturgia veicola l’unità della fede, traducendola in
simboli espressivi. Gli ideali della cavalleria, di cui il secolo XII è l’epoca d’oro,
penetrano i vecchi temi dell’epopea.
Non ho nessuna intenzione di presentarvi S. Bernardo, che conoscete meglio di me, ma
dico di lui due parole, perché il suo influsso fu determinante sul cammino del suo
Ordine:
Bernardo fu un uomo di tradizione, profondamente impregnato della dottrina e della
prassi del monachesimo antico e, nello stesso tempo, un innovatore e un riformatore.
Egli interpreta il movimento storico che è la fondazione e la diffusione del
monachesimo cistercense, ne discerne il senso, lo presenta come una visione nuova,
completamente cristiana, dell’ uomo e della società.
Cîteaux è costituita da carismi evangelici che si rinnovano e da un’istituzione, che ne
garantisce la solidità e la durata. La purezza della Regola rimanda alla purezza del
cuore, che deve portare alla carità perfetta, in un contesto ascetico di povertà
liberamente accettata e di libertà dalle ingerenze secolari. La famosa descrizione del
genere di vita cistercense che Bernardo fa nella lettera 142 è forse la testimonianza più
completa della realizzazione delle intenzioni dei fondatori, ormai comprovate
dall’esperienza e arricchite da una solida dottrina:
"Il nostro Ordine è rinuncia, è umiltà, è povertà volontaria, è obbedienza, è pace e gioia
nello Spirito Santo. Il nostro Ordine è stare sotto un maestro, sotto un abate, sotto una
Regola, sotto una disciplina. Il nostro Ordine è applicarci al silenzio, praticare il
digiuno, le veglie, la preghiera, il lavoro manuale e, soprattutto, seguire la via ancora
più eccellente che è quella della carità; e poi, in tutte queste cose, progredire di giorno in
giorno, e perseverare in esse fino all’ultimo giorno".
Faccio una parentesi, parlando ancora un poco di S. Bernardo: Dante, prendendolo
come guida nella salita verso la visione, lo definisce semplicemente: "Quel
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contemplante"e parla della " vivace carità di colui che in questo mondo, contemplando,
gustò di quella pace" (Par. XXXI, 109). Il suo amore per la Vergine segna profondamente
la storia della spiritualità: un secolo e mezzo dopo la sua morte, ancora Dante poteva
descriverlo come "colui ch’abbelliva di Maria come del sole stella mattutina" (Par.
XXXII, 106).
Posso lasciarvi negli appunti una cronologia della sua vita, che può essere utile per
richiamare alla mente molte cose che si dimenticano facilmente.
Alla morte di Bernardo, l’Ordine conta 338 abbazie, di cui 66 direttamente fondate da
lui, mentre in totale erano 164 i monasteri che, spesso per via di affiliazione, si
richiamavano alla paternità di Chiaravalle.
1: La famiglia di S. Bernardo.
La personalità di Bernardo fu talmente grande e l’ascendente di cui godette fu cosi
vasto e profondo, che l’ammirazione e la venerazione di cui era circondato non
potevano non riflettersi anche sui membri della sua famiglia. Del resto, tranne la madre,
che morì prematuramente e che era considerata una donna di grande pietà, tutti gli altri
familiari entrarono in religione. I fratelli Guido, Gerardo, Andrea, Bartolomeo, lo zio
Galdrico, il cugino Roberto furono conquistati dal giovane Bernardo ed entrarono con
lui a Cîteaux, dove poi li raggiunse il fratello più giovane Nivardo.
La sorella Umbelina, la nipote Adelina e la cugina Ascelina divennero anch’esse
religiose.
Sebbene, fin dai primi tempi dell’Ordine, i membri della famiglia di Bernardo siano stati
considerati santi, non c’è nessuna traccia di un culto liturgico loro tributato. Anche il
titolo di ‘beati’ non appare prima del 1534. Come sempre avveniva nei primordi di
Cîteaux, la reputazione di santità riguardava non tanto la loro persona, quanto la loro
virtù. Dato che è pochissimo conosciuto, mi fermerò un attimo sulla figura di
Bartolomeo, il penultimo dei fratelli di S. Bernardo.
BARTOLOMEO
Voi sapete l’ordine dei figli di Aleth e Tescelino: Guido, Gerardo, Bernardo, Umbelina,
Andrea, Bartolomeo, Nivardo. Quindi Bartolomeo era il più giovane dei fratelli che
seguirono Bernardo a Cîteaux: come ci dice Guglielmo di St Thierry nella Vita di S.
Bernardo, lo fece senza nessuna difficoltà, aderendo immediatamente alle ammonizioni
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e agli inviti salutari del fratello, che, prima di lui, aveva già conquistato al suo santo
progetto lo zio Galdrico.
Non aveva ancora abbracciato la vita militare ma, malgrado la giovane età, era già
maturo e virtuoso. Della sua vita sappiamo soltanto l’episodio-confessione di cui parla
Bernardo nella lettera 70: è un esempio bellissimo del carattere irruente, ma magnanimo
e umilissimo dell’abate di Chiaravalle. Sta scrivendo a Guido, abate di Trois-Fontaines
(che succederà a Stefano Harding come abate di Cîteaux nel 1133 e sarà deposto dopo
solo un mese per indegnità. Non conosciamo i dettagli che hanno giustificato questa
rimozione). In questa lettera il santo dà consigli circa la riammissione di un fratello che
era già uscito più volte dal monastero e che chiedeva ancora una volta di essere
riaccolto in comunità.
“ Non accetto consolazione, finché scorgo la disperazione del fratello…
…anche se questo sciagurato, con tutte le sue uscite dal monastero e i successivi ritorni ti sembra
che abbia sciaguratamente sorpassato le volte che sono stabilite nella Regola, poiché egli la pensa
diversamente, credo che tu lo debba ascoltare non solo pazientemente, ma anche benevolmente in
ciò che egli umilmente argomenta, e cercare se si può trovare una qualche ragionevole occasione
per recuperare una salvezza che appare ormai insperabile, che, se la tua esperienza sa intendere
giustamente insieme con la mia, gli sarà difficile ottenere in seno alla comunità, ma molto più
difficile ancora fuori. Convocata perciò l’assemblea dei fratelli, non rifiutarti di ritrattare
diligentemente tutti i giudizi che hai pronunciato contro di lui, in maniera che, con la tua
umiltà, si ripari alla sua disobbedienza, se almeno così si potrà trovare un modo che egli riesca
ancora una volta ad essere riaccolto in forma regolare. E non c’è da temere di arrecar dispiacere
con questa ritrattazione a Dio giusto e misericordioso, dato che nel giudizio sarebbe così esaltata
su tutto proprio la misericordia”.
Notate la preoccupazione per il bene del fratello, l’ansia di salvarlo, malgrado che il
retto discernimento e l’esperienza dicano che la salvezza è ormai quasi insperabile.
L’abate e la comunità – l’uno con un’umiltà che accetta di mettere in discussione giudizi
e comportamenti precedenti dell’autorità, l’altra con una misericordia inventiva –
devono trovare il modo di riammettere in modo regolare il fuggiasco. E Bernardo
continua con questa confessione:
“Vi riferisco come esempio una storia analoga che ricordo essermi capitata. Una volta, mentre
viveva ancora mio fratello Bartolomeo, un giorno, poiché egli mi aveva amareggiato, infuriatomi,
gli ingiunsi con volto e voce minacciosi di uscire dal chiostro; egli uscì immediatamente e
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direttosi a uno dei nostri granai (le famose grange) vi prese dimora. Saputolo, io lo volevo
richiamare, ma egli rispose che non sarebbe tornato se non l’avessimo reintegrato nel suo ordine e
non in quello degli ultimi, e non come un fuggitivo, ma come uno cacciato in modo irriflessivo e
senza regolare giudizio. Diceva infatti di non dover subire per ritornare il giudizio contemplato
dalla Regola (V. RB cap. 29), dato che ad esso non era stato fatto appello per cacciarlo. Poiché
consideravo sospetto il mio giudizio personale, in quanto dettato da un affetto carnale, affidai a
tutti i fratelli il giudizio sulla sua risposta e sulla mia azione. Pertanto, in mia assenza, fu
giudicato che il riaccoglierlo non sarebbe stato contrario a una norma regolare, dato che era
evidente che la sua cacciata non era stata praticata secondo la Regola.
Se perciò riguardo a quello, uscito soltanto una volta, ha avuto tanto peso la riflessione della
pietà, quanto pensiamo che ne debba avere riguardo a questo, che si trova in una congiuntura di
assoluta necessità?”
Quest’episodio fu stralciato dai manoscritti claravallensi, perché ritenuto dannoso alla
fama di S. Bernardo, ma è presente in tutte le altre famiglie di manoscritti; anche
Mabillon lo cita in una prima edizione delle lettere del santo, ma lo esclude, su consiglio
– o meglio su un pregiudizio! – dell’Abate de Rancé, in un’edizione successiva. É invece
una prova di ammirevole umiltà da parte dell’abate di Chiaravalle, che riconobbe il suo
torto, e una chiara testimonianza del suo senso della giustizia. La sua forte e travolgente
personalità, come potete constatare, si lasciava a volte trasportare (anche la sua
diplomazia è stata viziata in alcune occasioni da una certa passionalità), ma egli ha
rappresentato per il suo secolo "l’uomo di Dio" per eccellenza, colui che era in grado di
guidare nell’ascesa verso Dio, perché egli stesso era immerso in Lui.
Questa lettera è anche una prova del senso evangelico che animava le comunità
cistercensi e del peso che veniva dato alla lettera della Regola, che tuttavia doveva
essere persino sorpassata in qualche caso, per poterne cogliere lo spirito, come
traduzione del Vangelo che comanda di perdonare 70 volte 7.
Riguardo a Bartolomeo, la lettera ci fornisce qualche particolare: aveva un carattere
molto vivo e non temeva di opporsi al fratello e di rivendicare i suoi diritti. Inoltre, dato
che la lettera fu scritta prima o durante il 1133 e a questa data Bartolomeo era già morto,
possiamo dedurne che egli morì molto giovane, prima di raggiungere i 40 anni.
(Hag. 328 / Vita Prima, I,3 n.10 / Ep. LXX / Nota alla lett. 70, in S. Bernardo, Lettere I,
Milano 1986)
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2: I primi discepoli.
Nel secolo XII il fascino di S. Bernardo e il fervore della comunità di Chiaravalle
esercitarono un’attrattiva straordinaria: dappertutto si accorreva in questa piccola valle
della Champagne, per vedere, ascoltare, mettersi sotto la direzione del Santo. Bernardo
stesso, di ritorno dai suoi viaggi, riportava schiere di postulanti.
Già all’inizio egli aveva saputo attirare fratelli, parenti e compagni, tanto che la Vita
Prima afferma che "le madri nascondevano i figli, le mogli trattenevano i mariti, gli amici
distraevano gli amici, perché lo Spirito Santo dava tanta forza di richiamo alle sue parole, che era
difficile per chiunque continuare a sentirsi vincolato dai legami affettivi" (I, 3, n. 15).
Queste doti di conquistatore e di trascinatore aumentarono sempre più durante il suo
abbaziato a Chiaravalle. “...Fra la gente che lo ascoltava, (l’abate Bernardo) riusciva a mettere
in crisi e a convertire anche le persone che avevano il cuore duro. Era difficile che ritornasse a
casa senza aver ottenuto dei risultati. E col tempo faceva molti progressi sia nel talento oratorio
sia nell’esempio che dava con la sua stessa vita, per cui nella rete della parola di Dio, in mano al
pescatore di Dio, cominciavano a entrare delle masse di pesci umani così abbondanti che, ogni
volta che egli pescava, la navicella del suo monastero sembrava si dovesse riempire.
Perciò nel giro di poco tempo ... quella valle fino ad allora oscura diventò di nome e di fatto una
Chiara-Valle, perché diffondeva nelle terre più lontane, come da una specie di cima altissima, una
luce di una chiarezza per così dire divina. E da allora in quella valle, che prima si chiamava Valle
dell’Assenzio ed era amara, le montagne cominciarono a stillare dolcezza” (I, 13, 61).
Dopo la fondazione di Trois-Fontaines, Fontenay e Foigny, le case figlie di Chiaravalle
continuarono ad essere fondate al ritmo di circa due all’anno.
Tratteggio brevemente la figura di uno dei primi discepoli di S. Bernardo.
GOFFREDO DI PÉRONNE
Fra i trenta convertiti alla vita monastica, che S. Bernardo condusse con sé a Chiaravalle,
tornando dal suo primo viaggio in Belgio nel 1131, si trovava Goffredo di Péronne.
Di nobile famiglia, tesoriere della chiesa cattedrale di S. Quintino, letterato famoso,
dopo aver ascoltato la predicazione del Santo, scrisse a nome dei suoi compagni la
lettera in cui gli chiedeva l’ammissione a Chiaravalle. Il Santo rispose ai giovani
approvandoli e incoraggiandoli. Riporto tutta la lettera 109, ma ne cito solo alcuni brani:
LETTERA 109
ALL’ILLUSTRE GIOVANE GOFFREDO DI PÉRONNE E AI SUOI COMPAGNI
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Ai diletti figli Goffredo e suoi compagni, Bernardo, noto come abate di Chiaravalle, augura
spirito di giudizio e di fermezza.
Il discorso che ha cominciato a farsi sentire edifica molti, anzi per intero “rende lieta la città di
Dio”, si che “si rallegrano i cieli ed esulta la terra” e ogni lingua glorifica Dio per la vostra
conversione […] Se dunque godono gli angeli per un solo peccatore che fa penitenza, come non
debbono godere per tanti peccatori, e di quel livello che cioè, quanto più apparivano illustri nella
vita secolare per dottrina, per stirpe, per gioventù, per tanto maggior numero di persone erano
esempio di perdizione? Avevo letto: “Dio non ha eletto molti nobili, molti dotti, molti potenti”,
ma ora, al di fuori della regola, per la miracolosa potenza di Dio si converte una folla di tali
persone. È tenuta a vile la gloria mondana, è calpestato il fiore della gioventù, non è tenuta in
conto la nobiltà dei natali; la saggezza del mondo è reputata stoltezza; non ci s’inchina alla carne
e al sangue; si rinunzia all’affetto verso i genitori e i propri cari; i favori, gli onori, le dignità
sono considerati sterco, perché il guadagno vada tutto a Cristo [...]
Di che ha bisogno dunque, carissimi, questo fatto, se non che sia sollecitamente compiuto, sì che
il lodevole proposito raggiunga un degno risultato? Siate dunque accuratamente perseveranti,
perché questa fra le virtù è la sola a ottenere coronamento. Non si alternino in voi il sì e il no, “si
che possiate divenire figli del Padre vostro che è nei cieli, nel quale” certamente “non v’è
mutamento né trascolorare di vicende” [...] E io, carissimi, quanto mi congratulo con voi,
altrettanto mi congratulo con me stesso, per il fatto d’essere stato ritenuto degno, come ho
saputo, d’essere scelto a tramite operativo di questo vostro proponimento. Vi do il consiglio e
insieme vi prometto l’aiuto. Se vi sembro necessario o almeno se mi giudicate degno, non mi
sottraggo alla fatica, non vi verrò meno nell’ambito delle mie forze. Piego devotamente le mie
spalle a questo fardello, anche se le ho stanche, purché me lo si imponga dal cielo [...] Il resto l’ho
posto in bocca al nostro, anzi al vostro Goffredo. Tutto quello che egli vi dirà a nome mio, non
dubitate che non sia un mio consiglio.
Il gruppo di aspiranti ebbe poi alcune esitazioni prima della decisione finale, a causa
del complotto che i concittadini avevano ordito per dissuadere i nobili giovani del
luogo ad entrare nella vita monastica, che veniva dipinta a tinte molto fosche. S.
Bernardo accorse a S. Quintino e, facendo opera di discernimento con ogni membro del
gruppo, dissipò i dubbi e rafforzò i santi propositi; con molta delicatezza, scrisse anche
ai genitori di Goffredo per consolarli e rassicurarli. E questa lettera la leggo tutta, perché
è un capolavoro di finezza e di comprensione, che tutti i genitori dei postulanti e delle
postulanti sarebbero lieti di ricevere:
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LETTERA 110
LETTERA CONSOLATORIA AI GENITORI DELLO STESSO GOFFREDO
Se il figlio vostro Dio lo rende anche suo, che cosa perdete voi e che cosa perde egli stesso? Da
ricco che era diventa più ricco, da nobile ancora più nobile, da illustre ancora più illustre e, ciò
che vale più di tutto questo, da peccatore diventa santo. È necessario perciò che egli si prepari al
regno che gli è preparato dall’origine del mondo, e che in vista di questo rimanga con me per
quel po’ di tempo che gli rimane da vivere, finché, grattata via la sozzura della vita secolare e
spazzata la polvere della terra, divenga adatto alla dimora nel cielo. Se lo amate ne godrete,
perché egli va al Padre, e a un Padre di tal genere! Egli perciò s’incammina a Dio; ma voi non lo
perdete, perché anzi per mezzo suo vi acquistate molti figli. Quanti stiamo a Chiaravalle o ne
dipendiamo accogliamo lui come fratello e voi come genitori.
Ma forse temete per il suo corpo la durezza della vita, forse perché sapete che è tenero e delicato.
Ma di un timore del genere si suole dire: “Si sono lasciati cogliere dal timore, quando non c’era
ragione di averlo”. Confidate, consolatevi: “Sarò per lui un padre, ed egli sarà per me un figlio”,
finché dalle mie mani lo raccolga “il Padre delle misericordie, il Dio di ogni consolazione”.
Dunque “non portate il lutto e non piangete”, perché il vostro Goffredo s’incammina alla gioia,
non al lutto. Io sarò per lui il padre, io la madre, io il fratello e la sorella. Io gli trasformerò “le vie
scoscese in vie dritte e le vie faticose in vie agevoli”; io gli regolerò e gli disporrò tutto in modo
che il suo spirito ne profitti e il suo corpo non s’abbatta. Insomma servirà il Signore in letizia ed
esultanza e canterà “nelle vie del Signore, perché grande è la gloria del Signore”.
S. Bernardo conosce benissimo tutti i registri del cuore umano, specie di quello dei
genitori, e li sa maneggiare benissimo. Inizia la lettera prospettando la felicità vera del
figlio e assicura che, anziché perderlo, acquisteranno tanti altri figli quanti sono i
monaci di Chiaravalle. Di fronte ai timori legittimi dei genitori nei riguardi
dell’austerità della vita cistercense, li tranquillizza e – con esagerazione evidente ma
cara alle ragioni del cuore di un padre e di una madre, che si lascia facilmente
ingannare - prende interamente su di sé la cura della salute fisica e spirituale del futuro
monaco.
A quanto pare, la lettera ottenne il suo effetto e i convertiti furono lasciati partire in
pace. Goffredo e i suoi compagni si diressero dunque con il santo abate verso
Chiaravalle. Nel libro IV della Vita Prima, Goffredo d’Auxerre narra che, mentre S.
Bernardo e gli aspiranti erano in cammino, Goffredo fu assalito da una tentazione
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fortissima di tedio e di tristezza. Uno dei fratelli, leggendogli in viso l’angoscia che lo
tormentava, gliene chiese la causa. “So che non sarò mai più felice”, rispose Goffredo.
Rattristato, il fratello riferì a S. Bernardo la tentazione d’accidia e di pusillanimità del
postulante: il santo allora entrò in una chiesa che si trovava sulla strada e pregò per lui,
mentre Goffredo, sedutosi fuori su una pietra, dormiva a causa della tristezza.
Uscito il santo e svegliatosi il postulante, la tentazione scomparve e Goffredo “Si mostrò
agli altri molto più gioioso e allegro di quanto prima era stato triste”. Aveva capito che
l’entrata a Chiaravalle significava non una condanna alla tristezza, ma alla gioia. Di
fronte all’inaspettato cambiamento, il fratello lo rimproverò amichevolmente,
ricevendone questa risposta: “Sì, anche se prima ho detto: non sarò mai più felice, adesso dico:
non sarò mai più triste”.
É possibile che Goffredo d’Auxerre abbia convertito in episodio reale, drammatizzando
–secondo il gusto dell’epoca – la frase consolatoria rivolta dal santo abate ai genitori di
Goffredo: “…il vostro Goffredo s’incammina alla gioia, non al lutto”, ma se si è trattato di un
artificio letterario, dobbiamo ammettere che è stato geniale. Che cosa più frequente e
normale di una tentazione di tristezza, prima di cambiare completamente le abitudini di
vita? Malgrado la sobrietà del racconto, si può notare la finezza della descrizione, che
segue il procedere psicologico della tentazione: il silenzio durante il cammino e il
tormento dei pensieri; il cedimento e l’angoscia susseguente, che si riflette sul volto;
l’affermazione categorica e inappellabile: “… so che non sarò mai più felice”; da ultimo,
l’evasione del sonno. S. Luca, descrivendo il sonno degli apostoli nel giardino del
Getsemani, prima della cattura di Gesù, dice che questi andò da loro “ e li trovò che
dormivano per la tristezza” (Lc. 22,45). Da buon medico del corpo e delle anime, S. Luca
fa una diagnosi molto precisa.
L’efficacia della preghiera si manifesta poi attraverso un cambiamento rapidissimo: la
mente e il cuore di Goffredo sono stati illuminati; egli ha consentito alla croce di Cristo,
e anche il suo volto è divenuto raggiante. Dio, il cui essere e la cui beatitudine sono una
cosa sola, ha invaso completamente il suo discepolo. Adesso egli sa che il naturale
appetito di felicità che è nel cuore dell’uomo può essere saziato solo da Dio, bene
perfetto e beatitudine infinita, ma solo percorrendo la via della croce, della rinuncia alle
piccole felicità immediate, cercate egoisticamente. Il nostro Ordine è la croce di Cristo –
dirà in modo lapidario Guerrico d’Igny.
Goffredo fece professione nel 1132 e fu un ottimo monaco, realizzando nella sua vita la
profezia di una gioia che non lo avrebbe mai più abbandonato. Le preghiere del suo
santo abate gli ottennero anche la conversione di suo padre, che si fece monaco a
16
Chiaravalle e fu un monaco esemplare. Il vecchio, colpito da malattia gravissima,
agonizzò per 5 mesi, ma aspettò il ritorno di S. Bernardo per morire, avendo il santo
predetto a Goffredo che avrebbe lui stesso seppellito suo padre.
Mentre Goffredo svolgeva il servizio di priore, fu eletto vescovo dal capitolo di Tournai
ma, nonostante le insistenze del suo abate e del papa Eugenio III, rifiutò la nomina,
dicendo di non aver lasciato una dignità ecclesiastica per assumerne un’altra ancora più
temibile.
Morì nel 1145. La sua libertà di spirito è testimoniata da un altro episodio: il priore
Goffredo apparve dopo la morte ad un fratello che, come altri, temeva che la sua
disobbedienza al suo santo abate e al papa gli avesse procurato un giudizio severo da
parte di Dio. “Per nulla – lo rassicurò – anzi mi è stato rivelato che se avessi accettato la sede
episcopale, sarei ora fra i dannati”. La sua fedeltà allo spogliamento della vita monastica
gli aveva invece procurato una corona eterna.
(S. Lenssen, Hag. Cist. 77 / Vita Prima, IV, 3, 16 / S.cti Bern.di Ep. CIX e CX / I.Gobry, Il
secolo di S. Bernardo, Roma 1998, pp.190-94)
3: La diffusione prodigiosa
Pietro di Celle scriveva al capitolo generale di Cîteaux che, per merito "del beato
Bernardo, Dio ha dilatato l’Ordine di Cîteaux fino al di là dei mari e l’ha esaltato fino ai
cieli" (Epist.174 in P.L. 202,632).
Come si spiega questa diffusione prodigiosa, così rapida e così estesa? Tanto rapida ed
estesa che nel 1152 il capitolo generale interdiceva ogni nuova fondazione o affiliazione!
Naturalmente, nonostante la saggezza del provvedimento, il movimento continuò e già
nel 1158 si fondarono cinque case, e nel 1162 quattordici...
Le ragioni di uno sviluppo storico di un movimento spirituale, come quelle di ogni
chiamata personale, sono sempre un po’ "a posteriori", perché è Dio che guida la storia
degli uomini. Comunque cerchiamo di penetrare quelle che agli studiosi sembrano
esserne le cause: Cîteaux, lo abbiamo già detto, convogliava le aspirazioni profonde di
molti uomini e donne del XII secolo, perché realizzava il desiderio di estraniarsi dal
mondo per andare "nel deserto"; permetteva di vivere "la vita apostolica" in comunità;
favoriva il desiderio di ascesi e di povertà mediante il lavoro. Tutto questo però era
comune anche ad altre realizzazioni monastiche. Ma Cîteaux, oltre all’ascendente della
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persona carismatica di S. Bernardo che, dove passava "catturava", seppe riunire altre
condizioni favorevoli, che ne consentirono lo straordinario sviluppo:
 L’organizzazione originale della Carta di Carità costituiva un compromesso fra
l’eccessiva indipendenza delle abbazie tradizionali e la centralizzazione
dell’Ordine di Cluny: i monasteri cistercensi, con la loro relativa autonomia,
potevano adattarsi alle condizioni di vita e alle necessità dei paesi in cui erano
radicati.
 L’adozione dei conversi permetteva alle classi di umili lavoratori non istruiti di
entrare nel chiostro e di elevarsi anche umanamente.
 I cistercensi che via via erano promossi al seggio episcopale favorivano
l’impianto di comunità dell’Ordine e influivano sulla protezione dei principi e
dei grandi signori, che aiutavano materialmente l’insediamento dei monaci e
fornivano il reclutamento, in buona parte composto da giovani aristocratici.
 Non solo la figura di S. Bernardo agì come una calamita nella diffusione dei
monasteri cistercensi, ma altre figure sante ed esemplari attirarono imitatori e
discepoli.
Il XII secolo vide 525 fondazioni cistercensi, uscite dal grembo di Cîteaux e delle sue
prime filiali, che a loro volta generarono altre comunità:
Chiaravalle, con le sue case figlie, è presente dappertutto, perfino nell’Impero e nelle
regioni della Scandinavia. La sua presenza però si concentra nella Francia del nord
(Champagne e Normandia), in Inghilterra e Irlanda, in Italia, in Spagna.
Morimond fonda in Spagna, ma soprattutto nella Borgogna settentrionale, nella Lorena,
nel regno germanico e nell’Europa centrale.
Cîteaux, la terza per numero di fondazioni, si espande soprattutto in Francia e in
Inghilterra.
Pontigny non è molto feconda: fonda quasi esclusivamente nell’ovest e nel sud della
Francia.
La Ferté si sviluppa poco: alla morte di S. Bernardo ha sei case figlie, di cui cinque in
Italia.
Il movimento di espansione, iniziato dalla Borgogna, si estende in tutta la cristianità
latina.
Fra il 1120 e il 1125, il vescovo di Langres, S. Stefano Harding e la contessa Elisabetta di
Vergy fondarono Le Tart, prima abbazia femminile cistercense, ma questa casa, con le
sue 18 filiali, appare associata all’Ordine solo verso la fine del XII secolo. Per questo
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motivo nessuna monaca cistercense appare fra le figure "di santa memoria" del primo
secolo di Cîteaux, benché molte comunità femminili, anche al di fuori della
Congregazione di Le Tart, osservassero le usanze dell’Ordine, assistite spiritualmente,
ma a titolo personale, da qualche abate cistercense.
Vediamo una figura di quest’epoca:
BEATO PIETRO MONOCOLO
Mentre era abate di La Valroy, il beato Pietro fu colto da una gravissima malattia che gli
fece perdere un occhio: da qui il soprannome di “Monocolo”. Con molto umorismo egli
commentava la sua disgrazia, dicendo: "Sono riuscito a scampare da uno dei miei
nemici, ma quello che mi è rimasto mi fa ancor più paura di quello perduto".
Nato verso il 1120, di ascendenza nobilissima che tentò sempre di nascondere (era
consanguineo della famiglia reale di Francia, probabilmente nipote di Filippo I), era
entrato a Igny, di cui divenne priore durante l’abbaziato del beato Guerrico. Era piccolo
ed esile ma, nonostante l’apparenza delicata, asciutto e solido. Molto parco nel vitto e
nel vestito, paziente e dolce nelle infermità, amante del nascondimento, godeva di un
grande dono di orazione e di contemplazione infusa.
Eletto abate a La Valroy nel 1164, nel 1169 dovette assumere la guida di Igny e fu sotto
il suo governo che, durante la visita regolare all’abbazia, il monaco Ugo, che conduceva
una vita scandalosa, assassinò il beato Gerardo di Chiaravalle. Tutti conoscono
l’episodio, quindi leggiamo dal Grande Esordio solo la visione che Pietro ebbe durante
le esequie di Gerardo.
“Mentre la comunità di Chiaravalle cantava, secondo la consuetudine, la Messa solenne in
suffragio di quell’anima beata, il signor abate Pietro si trovava al santo altare con la devozione
che gli era abituale per immolarvi la Vittima della salvezza. A chi lo guardava il suo volto
appariva sereno, ma era molto triste e addolorato per una morte così indegna del Padre buono;
soprattutto perché il Signore aveva permesso che così mostruoso delitto avvenisse nella sua casa,
cioè Igny. Era agitato da molti pensieri e rifletteva se per caso ciò non fosse accaduto per i suoi
peccati, quand’ecco vede d’un tratto il beatissimo Bernardo in aspetto sensibile che sta a destra
dell’altare e anche quello di cui piangeva la morte, il signor Gerardo, a sinistra; entrambi
circonfusi da inestimabile splendore di gloria. Pieno di stupore per tale visione, mentre
l’osservava incantato, gli disse il beato Bernardo: "Ti prego, perché piangi come morto colui di
cui la morte passeggera, tramutata nella perennità della vita beata, è preziosa agli occhi del
Signore (Sl 115, 15)?" E indicando con la mano il martire di Cristo Gerardo, che stava dalla
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parte sinistra dell’altare: "Ecco, disse, questo è il mio fratello per il cui funerale celebrate le
dovute esequie. Quanto più crudele e indegna è la morte che agli occhi degli uomini pare aver
subito, con tanto maggior gloria, innalzato dal Signore, ha meritato di ricevere il premio della
sua vocazione tra le vittoriose schiere purpuree dei martiri". Detto questo, la visione così
rasserenante fu sottratta agli occhi di chi la contemplava.
Tanta gioia e certezza della glorificazione del suo caro amico subentrò nel cuore di colui che
aveva meritato di vedere e udire tutto ciò, che non lo considerò più come un morto da piangere,
ma, allontanata ogni nube di dolore e d’ansietà, ritenne lo dovesse avere quale fedelissimo
intercessore presso l’onnipotente misericordia di Dio”.
Nel 1179, temendo di essere eletto abate di Chiaravalle, Pietro Monocolo non si recò
all’elezione, ma si nascose in una fattoria dell’abbazia dove, quando vennero ad
annunciargli la sua nomina, stava aiutando i conversi nel lavoro del fieno.
Fu l’VIII abate di Chiaravalle. Saggio e discreto nel governare, dotato del carisma della
profezia e delle guarigioni, favorito da visioni soprannaturali, l’abate Pietro aveva un
senso acuto della propria indegnità e dovette essere incoraggiato dal re Luigi VII per
rinunciare a dimettersi. Può benissimo essere che Pietro avesse un complesso di
inferiorità, ma se pensiamo che cosa rappresentava il governo di Chiaravalle e l’essere
Padre Immediato della sua numerosissima filiazione, ci rendiamo conto che i suoi
timori erano pienamente giustificati. Leggiamo sempre il Grande Esordio:
“Questo servo di Dio, prima di assumere il governo della chiesa di Chiaravalle era considerato
nella stima di tutti perfetto e santo, ma, come se la sua vita passata fosse stata di nessun valore,
si lanciò nella nuova gara, procurando in tutti i modi di dare "alla propria voce la voce della
virtù" (Sl 67, 34), cioè di non distruggere con l’operato ciò che insegnava con la bocca, di
mostrare tutto ciò che è santo e giusto con i fatti più che con le parole (RB, 2, ); di tenere anche
continuamente davanti agli occhi le orme dei Padri che l’avevano preceduto, specialmente del
nostro santissimo padre Bernardo, di cui si giudicava indegno sostituto. E se fioriva in tutte le
altre virtù, risplendeva però a tal punto per la grazia della mansuetudine che nel suo vestito,
nell’incedere, nel volto, nel parlare non appariva nient’altro se non segni di quella santa umiltà
che nel suo cuore aveva gettato così profonde radici. Infine, affidata quasi tutta
l’amministrazione della casa sotto l’aspetto materiale ai cellerari e ai procuratori della casa
stessa, quanto a sé decise di attendere a Dio solo e alla salvezza delle anime.
Cosicché, tutte le volte che poteva esser libero, se ne stava seduto solo in silenzio in un parlatorio
con lo sguardo rivolto a terra, perché se qualcuno dei fratelli più giovani o più fragili si sentiva
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assediato da un mucchio di tentazioni o provato da una qualsiasi difficoltà, avesse la possibilità di
rivolgerglisi liberamente. E subito, secondo la grazia a lui concessa, con esortazioni salutari e
dolcissime parole d’incoraggiamento lo rincuorava a sopportare la lotta intrapresa per Cristo…
Aveva sempre in cuore, e spesso anche in bocca che lui era indegno, era incapace di reggere una
casa tanto grande; che lui non era l’uomo adatto, non era l’uomo preparato, perché da tutte le
parti del mondo un così gran numero di abati e di fratelli dovesse guardare a lui.
Si racconta perciò che una volta disse anche al re dei Franchi, il quale era suo parente: "Vedi,
signore mio re: io, meschino omuncolo, che non ho davvero nessuna presenza, povero anche
d’intelletto e di raziocinio, mi son messo a governare una casa così illustre, e ho un grave timore
che a causa della mia imprudenza e incapacità lo stato di Chiaravalle, il quale è rimasto sinora
perfetto, possa andare in rovina." Il re fu davvero incantato della sua umiltà e gli rispose:
"Perché, signore e padre, ti getti in uno scoraggiamento tale da voler abbandonare la cura delle
anime che per disposizione di Dio hai intrapreso a governare? Non far così, ti prego, ma secondo
la grazia che ti è stata conferita dal Signore, non trascurare di esercitare attentamente la custodia
del suo gregge. Tu sii abate soltanto all’interno, in quelle cose che riguardano l’onore di Dio e la
salvezza delle anime; io sarò abate all’esterno, in tutte quelle che riguardano il profitto della
vostra casa, proteggendo i vostri possedimenti ed esonerandoli da ogni tassa, colpendo pure con il
castigo della regia incriminazione chiunque con perfida volontà avesse l’ardire di darvi in
qualsiasi modo fastidio".
Fu stimato persino da Federico Barbarossa, che acconsentì a prendere sotto la sua
protezione i monasteri cistercensi. Dopo aver tentato di comporre la grave contesa che
opponeva i coristi e i conversi di Grandmont, il papa Lucio III volle vedere il beato
Pietro e ricevette da lui l’assoluzione e la comunione. Nel 1186, mentre faceva la visita
regolare alle case della sua filiazione, raggiunse a fatica Foigny, terzogenita di
Chiaravalle, dove fu ricoverato in infermeria. Ebbe ancora la forza di ricevere in chiesa
il sacramento degli infermi e morì il giorno dopo, 29 ottobre, in concetto di santità. Fu
sepolto a Chiaravalle, nel luogo dove era stato dapprima deposto S. Bernardo, in un
sarcofago sopraelevato, accanto al corpo del suo predecessore, il beato Gerardo, martire.
Per completare il suo ritratto, leggiamo due episodi che lo riguardano, citati da Cesario
nel Dialogus Miraculorum:
“Don Pietro, abate di Chiaravalle, che vedeva solo da un occhio a causa di una malattia, uomo
santo
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imitatore di nome e di fatto dell’apostolo Pietro, fu detto figlio di una colomba, a causa della sua
grande e pura semplicità. Un certo cavaliere era in lite con lui e i suoi fratelli a proposito di
alcuni beni. Fu stabilito il giorno in cui il cavaliere doveva mettersi d’accordo con l’abate oppure
intentare un processo davanti al giudice. Quel giorno il cavaliere venne con i suoi amici e l’abate
giunse accompagnato solo da un semplice monaco, e non a cavallo, ma a piedi. Dato che il
venerabile abate era amante della pace e della povertà e disprezzava i beni passeggeri del mondo,
di fronte a tutti diceva al cavaliere: “Sei un uomo cristiano. Se dici, sulla tua parola d’onore, che
questi beni per cui siamo in lite sono tuoi e di conseguenza debbono essere tuoi, per me è
sufficiente la tua testimonianza”. Il cavaliere, curandosi più dei beni di cui si voleva appropriare
che della parola d’onore, rispose: “ In verità dico che questi beni sono miei”. Al che l’abate disse:
“ Siano dunque tuoi; da ora in poi io non te li reclamerò”. E così ritornò a Chiaravalle.
Anche il cavaliere ritornò da sua moglie quasi come un vincitore, raccontandole per ordine ciò
che l’abate gli aveva detto e ciò che egli aveva fatto. Ella, spaventata di fronte a delle parole così
pure e così semplici, rispose: “Hai agito in maniera dolosa contro questo santo abate e l’ira di Dio
ci punirà. Se non restituirai al monastero i suoi beni, io mi separerò da te”. Intimorito, egli andò
a Chiaravalle, rinunciò spontaneamente ai beni e chiese perdono al santo abate per l’ingiusta
vessazione. Questo sant’uomo visitò il nostro monastero ai tempi dei nostri anziani. Era nobile
di nascita e parente del re di Francia, che era molto amante della santa semplicità”.
_____
“Fu necessario che certi abati del nostro Ordine fossero mandati per un affare dell’Ordine
dall’imperatore Enrico, figlio di Federico. Fra questi sembrò che il primo per santità e dignità
dovesse essere il signor Pietro Monocolo, abate di Chiaravalle…E poiché il signore di Cîteaux
non poté venire personalmente, mandò in sua vece il suo priore. Giunti a Spira, entrarono a
pregare nella chiesa della Beata Madre di Dio, la cui struttura
architettonica è di una
meravigliosa grandezza. Mentre tutti terminarono di pregare troppo in fretta e cominciarono a
girare, esaminando le varie cappelle, il succitato Pietro, la cui meditazione e il cui diletto non si
trovavano negli edifici corruttibili, ma nella struttura della Gerusalemme celeste, perseverò nella
preghiera.
Infine, quando tutti uscirono, dopo essere stati salutati onorevolmente nel portico della chiesa dai
canonici e invitati a pranzo con molta insistenza, un abate chiese in onore di chi fosse stata
dedicata quella chiesa. I chierici risposero: in onore della Madonna. L’abate di Chiaravalle, senza
pensarci su, soggiunse: Io lo sapevo già. Il priore di Cîteaux rifletté su quelle parole, ma sul
momento non disse nulla. Appena usciti però dalla città, ricordandosi dell’osservazione, chiese
all’abate: Signor abate, ditemi, come facevate a sapere che il monastero di Spira era stato
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consacrato in onore di Nostra Signora? Egli, dispiaciuto di essersi lasciata sfuggire
quell’espressione, rispose: Mi sembrò che fosse molto conveniente che la patrona di una struttura
così meravigliosa fosse la madre di Dio e regina del cielo. Il priore, che conosceva bene la santità
di Pietro, dedusse dalla sua risposta che egli aveva avuto una rivelazione mentre era nella chiesa,
per cui aggiunse: Io, in questo viaggio, faccio le veci del signor abate di Cîteaux, per la cui
autorità vi comando di dirmi soltanto la verità.
Allora, costretto dall’obbedienza, egli rispose con una certa vergogna: Quando ero prostrato
davanti all’altare e pregavo con più intensità per i miei peccati e per le negligenze del nostro
viaggio, mi apparve la stessa Beata Vergine Maria, che tracciò su di me la benedizione che si è
soliti dare nel nostro Ordine su coloro che ritornano da un viaggio, con queste parole:
Onnipotente, Sempiterno Dio, abbi pietà di questo tuo servo e tutto ciò che nel viaggio può aver
commesso di male con la vista o con l’udito o trattenendosi in oziose conversazioni, tutto
perdonagli nella tua ineffabile pietà, per Cristo nostro Signore. Da questa benedizione, Pietro
aveva compreso che la Madonna era la patrona del luogo.
Tutto ciò mi fu raccontato da un santo abate del nostro Ordine, che Pietro visitò spesso nel suo
monastero.
(Hag.117 / Ex. Magn., II, pp. 32-33 / Caes. Heist., Dial.Mir., VI, 11; VII, 11 / C. Henriquez,
Fasc. Sanct. Cist.,II, 22, pp.214-31 /
I. Gobry, Il secolo di S. Bernardo, Roma 1998, pp.
273-75 / M.A.Dimier in Bibl. Sanct., X, pp.710-12)
Facciamo un accenno ai monaci scrittori.
Il movimento cistercense si presenta come la più ricca e matura corrente spirituale del
monachesimo del pieno Medio Evo e, forse, di tutti i tempi.
Il secolo XII fu molto ricco di scrittori cistercensi, che hanno saputo descrivere e
presentare felicemente la spiritualità cistercense. Già l’attività dello "scriptorium" di
Cîteaux sotto l’abbaziato di quel genio organizzativo che fu S. Stefano Harding, a cui
sono in parte attribuiti i documenti fondamentali delle origini cistercensi, fu molto
intensa. S. Bernardo però emerge come la figura più grande, in cui tutti gli elementi
della spiritualità cistercense si trovano riuniti.
Dopo Bernardo, la cui influenza abbraccia e determina l’evoluzione ulteriore della
spiritualità dell’Ordine, i luminari cistercensi furono Guglielmo di S. Thierry, Elredo di
Rievaulx, Guerrico d’Igny e Isacco della Stella , che sono considerati i quattro grandi
dottori della teologia monastica cistercense.
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Attorno a questi grandi c’è tutta una costellazione di autori minori, ma non meno
importanti dal punto di vista spirituale. Alcuni gravitano attorno alla persona di S.
Bernardo e perciò possono essere chiamati "claravallensi", anche se non tutti hanno
vissuto a Chiaravalle. Alcuni furono notevoli non solo per dottrina, ma anche per
santità. I principali scrittori che dipendono da S. Bernardo sono: Amedeo di Losanna,
Goffredo di Auxerre, Nicola di Chiaravalle, Serlone di Savigny, Enrico di Marcy,
Garniero di Rochefort, Oddone di Morimond.
Altri autori, interpreti della spiritualità cistercense, ma meno dipendenti da S. Bernardo,
sono: Fastredo, Adamo di Perseigne, Elinando di Froidmont, Enrico di Mont-St.-Marie,
Oddone di Ourscamp, Gilberto di Hoyland, Ruggero, Baldovino e Giovanni di Ford,
Folchino di Sittichembach, Cesario di Heisterbach, Nicola Maniacoria, Gioacchino da
Fiore, Oglerio di Locedio.
Ognuno di questi autori ha una spiccata personalità propria, ma fusa a causa di un
quadro comune della vita monastica, in cui esiste una dottrina coerente e una profonda
unità interiore fra teoria e prassi. Infatti l’indirizzo cistercense, che è decisamente
orientato verso l’interiorizzazione dei misteri della fede, è aiutato da una forma di vita
marcata dalla solitudine, dal lavoro manuale, dalla semplicità degli edifici,
dall’austerità del vitto e del vestito, dalla liturgia ricondotta alle sue linee essenziali, dal
contatto con la natura. La povertà e l’austerità erano state solo il punto di partenza per
un’esperienza interiore che andava al di là delle "cose" e che nutriva il desiderio del
divino.
Gli elementi fondamentali della spiritualità cistercense – ripetiamolo ancora una volta non sono difficili da discernere e possono essere riassunti così: nella scuola del servizio
divino che è il monastero, seguendo la Regola, difesa tenacemente nelle sue osservanze,
ma sempre accostata alla Bibbia e in particolare al Cantico dei Cantici il discepolo
impara
1. A conoscere l’uomo: se stesso e il prossimo, cioè l’uomo concreto, decaduto, ma
capace di nuovo di dirigersi verso Dio. La spiritualità cistercense è, a questo
riguardo, fondamentalmente ottimista: l’uomo ha perduto la somiglianza ma,
per la natura che gli è propria, è e rimane immagine di Dio ed è chiamato a
ristabilire la somiglianza con quell’ Immagine perfetta che è il Verbo incarnato.
La perdita della somiglianza viene riconosciuta soprattutto nella deviazione della
facoltà dell’amore, che deve rivolgersi nuovamente verso il Bene supremo, per
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poter adempiere i due comandamenti dell’amore di Dio e del prossimo. L’amore
deve essere ri-ordinato.
2. Il cammino dalla regione della dissomiglianza a quello della somiglianza avviene
attraverso l’ascesi. Con la rinuncia e il distacco, l’uomo impara a lasciare il
mondo (esteriore ed interiore) per "habitare secum", pentirsi e convertirsi. Dovrà
aprirsi a Dio per ricevere in dono e poi sviluppare le virtù teologali e monastiche,
per rendersi conforme al Signore Gesù.
3. Il ritorno a Dio, che si compie nel quadro della storia della salvezza, si realizza
essenzialmente mediante il mistero dell’Incarnazione che, per i cistercensi occupa
il posto centrale.
-
L’umanità di Cristo è venerata come sacramento della presenza di Dio.
-
Cristo è l’unico mediatore fra Dio e l’uomo (e Maria partecipa a questa
mediazione, perché strettamente legata al mistero di suo Figlio).
-
Cristo è il modello (l’exemplum): egli solo può restaurare la somiglianza
originale, ma questo implica, da parte dell’uomo, un’imitazione delle sue
virtù.
1. L’esperienza di Dio avviene qui, sulla terra, nel chiostro, ed è legata alla carità: è
descritta come visione, unione spirituale, pace e riposo in Dio, sabato, giubilo e
contemplazione.
Gli elementi antropologico, ascetico, dogmatico e spirituale, riscontrabili con sfumature
diverse in tutti gli scrittori cistercensi, sono espressi con entusiasmo, con fervore, in
modo vivo ed esuberante: gli autori spirituali cistercensi, dice il padre Penco, sono i
testimoni privilegiati della "rinascita" del secolo XII.
(E. Mikkers, Dict. Spir., XIII, cc. 740-773 / G. Penco, Cîteaux e il monachesimo del suo
tempo, pp. 223-236)
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Il XIII secolo: FERVORE, PROSPERITÀ E SEGNI DI DECADENZA.
L’importanza di Cîteaux, a differenza di altre realizzazioni monastiche, fu di prevalente
indole interiore: la povertà, l’austerità e tutti i valori ascetici che furono i moventi
iniziali della sua fondazione, costituivano il supporto e la guida all’interiorizzazione dei
misteri della fede. Questo supponeva un equilibrio difficile, che si manterrà ancora nel
secolo XIII, ma che si perderà nei secoli successivi.
L’inizio del secolo vide il conflitto fra l’abate di Cîteaux e i primi padri dell’Ordine (gli
abati de La Ferté, Pontigny, Morimond e Chiaravalle): le rivalità si inasprirono durante
buona parte del secolo, nonostante i vari arbitrati. Clemente IV, con la bolla "Parvus
fons" e il giudizio definitivo di Guido di Borgogna, cardinale e ex-abate di Cîteaux,
posero fine nel 1265 all’annosa questione.
Il prestigio delle nascenti università e la necessità di acquisire solide basi teologiche per
la predicazione imposta dalla S. Sede contro l’eresia albigese, determinarono, fra
perplessità ed esitazioni comprensibili in un Ordine strettamente contemplativo, la
creazione di collegi teologici. Nel 1237 il Capitolo Generale autorizzò gli abati ad
inviare dei chierici per frequentare corsi universitari a Parigi; dietro intervento di
Innocenzo IV, nel 1245 si stabilì un collegio teologico in almeno un’abbazia per
provincia; nel 1249 si costruì il collegio S. Bernardo a Parigi. La nuova teologia
scolastica ebbe una ripercussione notevole sulla spiritualità dell’Ordine, che non era più
sostenuta e alimentata dalla teologia monastica, pur conservando le stesse osservanze e
la stessa liturgia.
Il XIII secolo, che può ancora considerarsi l’età d’oro dell’Ordine, vide un grande
arricchimento liturgico e uno sviluppo dell’architettura, soprattutto nel piano delle
chiese, che divennero simili a cattedrali, anche per la necessità dell’ aggiunta di cappelle
per le Messe private dei monaci sacerdoti. Anche gli edifici monastici divennero ampi e
sontuosi e il mobilio raffinato.
Donazioni, contratti e privilegi avevano fatto delle abbazie cistercensi delle potenze
economiche, ma in seguito era iniziata la parabola discendente, a causa principalmente
di litigi e processi, e anche per la diminuzione del numero dei conversi, che avevano
rappresentato una forza-lavoro di grande importanza economica. Nonostante gli edifici
sempre più grandi e la vastità delle proprietà fondiarie (si diceva, con evidente ma
significativa esagerazione, che gli abati dell’Europa settentrionale, andando al Capitolo
Generale, potevano raggiungere Cîteaux senza mai uscire dai possedimenti delle
abbazie dell’Ordine), i Cistercensi avevano conservato il senso della bellezza nella
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semplicità che, fin dalle origini, aveva caratterizzato il loro habitat, la loro architettura,
la loro liturgia, le opere dei loro autori spirituali, tutta intera la loro forma di vita. Nei
monasteri del XIII secolo ferveva una profonda vita interiore, che sfociava nella mistica;
ospitalità, elemosina, cura dei poveri e dei pellegrini ammalati erano in onore. Cîteaux
era presentato dai papi come un modello per gli altri Ordini religiosi; continue missioni
di pace e di arbitraggio erano affidate ad abati, priori e monaci cistercensi, tanto che nel
1211 il Capitolo Generale chiese ad Innocenzo III di essere un po’ risparmiato: la
supplica si dimostrò vana. Nell’Europa del XIII secolo, Cîteaux ebbe ancora una
grandissima importanza religiosa, sociale e politica.
1: Himmerod e Heisterbach.
Himmerod,
contrariamente
alla
maggior
parte
dei
monasteri
tedeschi
che
appartenevano alla filiazione di Morimond, fu fondato da Chiaravalle nel 1134. Nel
1188 fondò a sua volta Heisterbach e le due comunità furono dei vivai di santi e dei
centri di profonda spiritualità fin dal XII secolo. La massima fioritura avvenne però nel
XIII secolo. Ne cito alcuni: Gualtiero di Bierbeek; Cristiano, Ermanno, Enrico e Cesario
(tutti di Heisterbach); Godescalco di Volmustein; Remigio di Himmerod.
Questi santi incarnano la tipica santità cistercense, fatta di semplicità, di laboriosità e di
nascondimento. Dopo la loro entrata in monastero, sono pochissimi gli avvenimenti
esteriori degni di nota nelle loro esistenze: tutto avviene all’interno.
Il gusto del meraviglioso proprio dell’epoca e l’intento pedagogico di Cesario, che
sapeva benissimo come farsi ascoltare o leggere dai suoi novizi e dai contemporanei,
fanno sì che venga introdotto nelle loro semplicissime vite quello che potremmo
chiamare ‘un eccesso di soprannaturale, dove lo stravagante si approssima alle
esperienze mistiche più normali e ammissibili. Sfrondate dallo stile dell’epoca e dalla
fioritura dei dettagli, le figure di Cistercensi tedeschi che sono descritte nel Dialogus
miracolorum si presentano però come testimonianze autentiche del più puro spirito di
Cîteaux, in cui l’amore all’umanità di Cristo e la devozione a Maria giocano il ruolo
principale.
2: Villers e Aulne
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Un altro grande centro di santità cistercense fu l’attuale Belgio. I monaci di Chiaravalle
arrivarono a Villers, nel Brabante belga, nel tempo pasquale del 1146, portando con sé
solamente la loro austerità, il loro fervore e la loro povertà.
Altri monaci, sempre di Chiaravalle, giunsero a Aulne nel 1147 e sostituirono i canonici
di S. Agostino nella vecchia abbazia di S. Landelin.
I Cistercensi incontrarono subito il favore dei vescovi, dei nobili e della popolazione. Lo
sfruttamento diretto delle loro proprietà contribuì a rovesciare il vecchio sistema
feudale e a far progressivamente sparire i servi della gleba. I poveri furono aiutati a
migliorare la loro condizione e molte miserie ottennero il soccorso delle abbazie.
L’influsso fu soprattutto spirituale e si esercitò particolarmente in ambiente femminile.
Le beghine furono aiutate materialmente e dirette spiritualmente: la direzione da parte
dei monaci provocò una certa fusione della corrente di pietà bernardina con quella delle
beghine. Queste ultime contribuirono a far erigere o a far affiliare molte abbazie
femminili cistercensi, a partire da Herkenrode nel 1182 fino a Clairefontaine nel 1247.
L’ascesi rigorosa dei monaci cistercensi, unita alla pietà affettiva dell’ambiente belga,
doveva produrre grandi frutti di santità nelle comunità di uomini come in quelle di
donne.
Gli esempi proposti nelle "Gesta sanctorum Villariensium" e nelle varie "Vitae" non
hanno niente di eccezionale: si tratta di monaci e conversi che hanno vissuto
nell’anonimato, la cui vita è stata nascosta con Cristo in Dio. Poche le relazioni dei
miracoli nelle loro vite, molte invece le manifestazioni soprannaturali come visioni,
locuzioni e apparizioni. Tutti questi fenomeni, in genere luminosi, sono testimonianze
dell’amicizia con Dio e, destinati ad essere riferiti in ambienti religiosi, sono descritti a
scopo di edificazione. Si avverte però la convinzione degli agiografi: criterio della
santità è essenzialmente la carità, che fiorisce nelle virtù, soprattutto l’umiltà e lo zelo
per le anime.
Fondati sull’umiltà e il distacco, i santi di Villers e di Aulne tendono, mediante
l’umanità di Cristo, all’unione con la Trinità nella carità perfetta, con una grande pietà
eucaristica e mariana.
Vi cito alcuni nomi: Carlo, Arnolfo, Abbondio, Guglielmo, Arnolfo di Lovanio, Goberto
di Aspromonte, Francone di Arquenne, Arnolfo di Ghistelles, Ulrico, Everardo ecc. ecc.:
i menologi sono pieni di Beati di Villers, in genere abati o conversi. A Aulne i due beati
più famosi sono il priore Werrico e il converso Simone.
3: La santità belga... al femminile.
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Inizia la serie delle figure femminili, che saranno sempre più numerose nei cataloghi
della santità cistercense. Nel secolo XII le uniche donne riportate (la sorella e le parenti
di S. Bernardo) non appartennero ufficialmente all’Ordine di Cîteaux. In compenso, il
secolo XIII fu il grande secolo delle monache cistercensi, con figure di primissimo piano
nella agiografia e nella spiritualità dell’Ordine.
Benché i monasteri femminili che seguivano le osservanze cistercensi fossero
numerosissimi fin dai primi tempi dell’Ordine, il Capitolo Generale cominciò ad
occuparsi delle monache solo verso la fine del secolo XII. In antecedenza, sia la
Congregazione di Le Tart, sia le abbazie indipendenti vivevano sotto la giurisdizione
dei vescovi e la cura dei vari abati cistercensi, che se ne occupavano a titolo personale.
Fu nel 1188 che il Capitolo Generale, su richiesta di Alfonso VIII di Castiglia, autorizzò
in maniera ufficiale la costituzione della Congregazione di Las Huelgas, che doveva
riunire tutte le case di osservanza cistercense di Castiglia e di Léon, con Capitolo
Generale proprio, a cui partecipavano gli abati spagnoli. In un anno imprecisato anche
le badesse dei monasteri francesi dipendenti da Le Tart cominciarono a riunirsi in
Capitolo Generale: abbiamo una lettera non datata di Guglielmo II di Paray, abate di
Cîteaux, che testimonia l’organizzazione di una Congregazione di Tart, il cui superiore
è appunto l’abate di Cîteaux.
All’inizio del XIII secolo, le case di monache in qualche modo associate all’Ordine, al di
fuori delle due Congregazioni ufficiali di Le Tart e Las Huelgas, erano così numerose
che si avvertì il bisogno di un metodo di incorporazione e di amministrazione più
specifico.
Nel 1213 uno statuto stabiliva la clausura come condizione per l’ammissione all’Ordine.
Nel 1228 un decreto proibiva l’affiliazione di nuove case femminili, ma su richiesta del
papa o "per altre esigenze", monasteri di monache vennero ancora incorporati. Le
domande di affiliazione divennero talmente frequenti che gli abati capitolari, nel 1251,
ottennero dal papa Innocenzo IV una bolla in cui la stessa S. Sede rinunciava ad
imporre all’Ordine l’incorporazione di monasteri femminili.
Nei monasteri belgi, che furono grandi centri di spiritualità, – Parc-aux-Dames, La
Ramée, Florival, Aywières, Nazareth, La Cambre, Val-des-Roses – fiorì molta santità
femminile.
Le mistiche cistercensi, come i loro fratelli di Villers e di Aulne, furono caratterizzate da
un amore vivissimo per l’umanità di Cristo: nelle loro "Vitae" ci sono ancora più visioni
e fenomeni soprannaturali che in quelle dei monaci. Per entrambi però non è tanto la
visione di Gesù bambino che li attira (sebbene Ida di Nivelles e Ida di Lovanio abbiano
29
una devozione grandissima per l’infanzia del Salvatore), quanto il Cristo della passione:
di conseguenza c’è in loro una profonda tristezza, un acuto desiderio di condividere le
sofferenze del Redentore, una fiducia immensa nei meriti della croce e delle piaghe del
Crocifisso.
S. Lutgarda aspira al martirio con tanta veemenza che le si rompe una vena nel petto e
Ida di Lovanio riceve le stimmate della passione. La loro spiritualità, che unisce quella
cistercense-bernardina a quella beghinale, accentua il carattere sponsale del loro amore
per il Verbo incarnato e spiega l’intensità della loro devozione eucaristica: lo sposo
mistico, non ancora posseduto, è cercato nel tabernacolo e la comunione realizza l’unità
tanto desiderata. Nelle "Vitae" dei monaci invece questo aspetto è molto meno
sottolineato.
Tutti però questi beati, monaci e monache, percorrono l’itinerario bernardino,
oltrepassando l’amore sensibile e razionale per l’umanità di Cristo, per raggiungere,
mediante l’amore spirituale del Verbo, Dio uno e trino. Non è certamente ancora la
visione beatifica, ma una certa "esperienza" di visione intellettuale e di unione di spirito
e di volontà con Dio.
4: La comunità quasi-cistercense di Helfta.
Lo statuto del Capitolo Generale che proibiva l’affiliazione di case femminili è del 1228:
abbiamo visto però che il movimento di incorporazione durò ancora, perché si faceva
ricorso al papa per scavalcare l’interdizione dell’Ordine.
"Paci et tranquillitati vestrae" erano le prime parole della bolla datata 7 agosto 1251, in cui
Innocenzo IV rinunciava ad imporre all’Ordine di Cîteaux l’incorporazione di altri
monasteri di monache. Il carico che rappresentava per l’Ordine la cura spirituale di
innumerevoli comunità femminili era certamente pesante ma, per noi che le leggiamo
oggi, le parole suonano un po’ ironiche. Alla pace e alla tranquillità dei monaci si
sacrificò l’appartenenza all’Ordine di molti monasteri ferventi, veri vivai di santità,
come quello di Helfta in Sassonia.
Voluto dai conti di Mansfeld, Helfta fu fondato nel 1229 da sette monache cistercensi
provenienti da Halberstandt. Era un monastero indipendente, che viveva sotto la
Regola di S. Benedetto, sotto la giurisdizione del vescovo e la protezione dei conti, con
abito e usanze cistercensi (almeno in un primo periodo), attingendo allo spirito del
rinnovamento cistercense dell’epoca. In alcuni documenti che ci sono rimasti, si
autodefiniva oppure veniva definito come cistercense.
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Gli scritti di S. Matilde di Hackeborn e di S. Gertrude, la Grande, testimoniano infatti di
un tipo di vita cistercense intensamente vissuto secondo il loro proprio genio e la
sensibilità tedesca. A fianco di elementi della mistica renana, grande è l’influsso di S.
Bernardo.
----------Nel V libro delle Rivelazioni, al cap. 7°, S. Gertrude racconta della morte di una
monaca di Helfta. Dice che, mentre la consorella era in agonia, ella chiedeva al
Signore quale sarebbe stata la sorte della sua anima; allora il Signore le rispose
interiormente:
“Io l’assorbirò con la mia virtù divina, così come il sole ardente fa evaporare la goccia di
rugiada”. E poiché ella si domandava perché egli permetteva che la morente [che delirava] avesse
apparentemente perduto il senno, il Signore rispose: “Perché si sappia che la mia azione [in lei] è
più nell’intimo che in superficie”…Poi vide il Signore degli eserciti, il Re della gloria, il più bello
di tutti i figli degli uomini e anche di tutti i volti angelici: stava al capo della malata e il suo
fianco sinistro riceveva il respiro che, dalle labbra della morente, si dirigeva come un luminoso
arco d’oro verso il suo Cuore divino…Alla fine del salmo “A te innalzo l’anima mia [24]”, il
Signore, con una meravigliosa tenerezza, si chinò verso l’inferma, come se volesse dare un bacio
alla sua sposa; si rialzò un momento e poi ripeté lo stesso gesto. Durante la recita dei suffragi,
all’antifona “Affinché possiamo vederti”, apparve la Vergine Maria, illustre figlia di una stirpe
regale, rivestita di fastosi vestiti purpurei. Chinandosi teneramente verso la sposa di suo Figlio e
prendendo con le sue mani delicate la testa della malata, la dispose in modo che il suo respiro
potesse dirigersi verso il Cuore divino…Gertrude vide poi che la fulgida Rosa del cielo, cioè la
Madre Vergine, abbracciava teneramente suo Figlio e lo baciava con estrema dolcezza, come per
congratularsi per questa unione felice con una novella sposa. Allora comprese che in quel
momento si erano compiute le nozze gioiose che avevano introdotto quell’anima assetata nelle
celle eterne del vino o meglio l’avevano felicemente immersa nello stesso abisso della vera
beatitudine, dalla quale non sarebbe più riemersa”.
Di chi sta parlando Gertrude? Chi era la consorella in questione?
Vi voglio parlare un po’ di MATILDE DI MAGDEBURGO, meno conosciuta della sua
omonima, Matilde di Hackeborn o di Helfta.
Matilde di Magdeburgo era chiamata così perché visse durante trent’anni in una
comunità di beghine nella città di Magdeburgo. É la prima mistica che utilizza la lingua
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volgare nei suoi scritti. E lo fa da poetessa, con un linguaggio di cui Enrico di
Nördlingen, che nel 1345 traspose il dialetto di Matilde nel tedesco parlato, dice: “É il
tedesco più meraviglioso e il frutto dell’amore più profondamente rassicurante che io abbia mai
letto in tedesco” (lettera 43 a Margherita Ebner)
Di famiglia agiata, probabilmente nobile, Matilde nacque fra il 1207 e il 1210 in una
località imprecisata ma, a giudicare dal dialetto con cui scriveva, nella bassa Sassonia.
Ebbe senza dubbio un’educazione accurata, ma la sua cultura era di stampo
cavalleresco. Non sapeva il latino o almeno non tanto da poterlo scrivere e se ne
dispiaceva, perché la sua lingua materna le sembrava troppo rozza per esprimere la
sublimità dell’esperienza di Dio. Fu favorita di grazie mistiche fin dall’età di dodici
anni, in cui – come ella stessa dice – ricevette “un saluto dello Spirito Santo, che ogni
giorno si rinnova”; lasciò i suoi verso i vent’anni, per seguire la chiamata di Dio nella
solitudine e nell’esilio, e per vivere per Dio solo. Andò a Magdeburgo, dove conosceva
una sola persona (probabilmente il domenicano che la dirigeva) e visse nella preghiera e
nella penitenza come beghina.
Tenne nascoste le grazie mistiche che Dio le dava e che la riempivano di gioia e di
angoscia e, solo per ordine del confessore, verso il 1250 cominciò a scrivere le sue
visioni e rivelazioni. Il domenicano Enrico di Halle, allievo di Alberto Magno, che era
suo amico e confidente, raccolse il tutto in un volume di sei libri o capitoli, a cui lo
stesso Gesù diede il titolo: "Luce fluente della Divinità nei cuori di coloro che vivono
senza falsità". In esso, con tranquilla franchezza, come S. Ildegarda prima di lei e come
S. Caterina da Siena dopo, Matilde criticava l’Impero e la Chiesa, stigmatizzando la
condotta dei chierici e dei monaci dissoluti. Matilde era venerata da molti, ma
incompresa e osteggiata da altri. La tempesta sollevata contro di lei per questi suoi
scritti indusse probabilmente i Domenicani, verso il 1270, ad affidarla, ormai vecchia e
quasi cieca, al convento di Helfta, dove visse per almeno dodici anni.
Accanto alla badessa Gertrude, alla sorella minore di lei, Matilde, e a S. Gertrude la
Grande, Matilde di Magdeburgo trovò ad Helfta un ambiente liturgico e sapiente, e
compagne della sua stessa profondità spirituale. Guidata dallo Spirito Santo,
intimamente unita alla passione di Cristo, trascorse i suoi ultimi anni nella carità,
nell’umiltà, nella pazienza e nella mitezza.
Si ignora l’anno esatto della sua morte, che dovette avvenire tra il 1282 ed il 1285.
Poco dopo la sua morte il libro di Matilde, scritto in basso-tedesco, fu tradotto in latino.
Forse questa traduzione fu conosciuta da Dante, che – sembra – ne trasse ispirazione
per la figura di Matelda. Nel 1345 il libro, con l’aggiunta di un settimo capitolo, redatto
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da Matilde durante la permanenza ad Helfta, fu tradotto in tedesco letterario ed ebbe
ampia diffusione, testimoniata dai numerosissimi frammenti, disseminati un po’ in altre
opere religiose dell’epoca, che aiutano gli esperti nella ricostruzione del testo originale.
Dimenticato nei secoli dell’umanesimo e dell’illuminismo, il libro fu pubblicato in
tedesco moderno nel 1869 e inserito nelle Rivelazioni di Geltrude la Grande e di Matilde
di Hackeborn dai Benedettini di Solesmes nel 1877. Da allora le edizioni si sono
moltiplicate, seguendo i filoni delle due tradizioni – latina e tedesca – con traduzioni in
tutte le lingue. P. Daniel Gutiérrez de La Oliva, nel 2003, ha pubblicato la traduzione
spagnola (“La luz divina illumina los corazones”) della versione latina, che però ordina
la materia in modo diverso e annacqua lo stile poetico audacissimo di questa mistica
straordinaria. Nei brani che citerò, io mi servirò di testi pubblicati con la traduzione
italiana dal tedesco antico o moderno.
Matilde scrive: « Non posso e non voglio scrivere se non lo vedo con gli occhi della mia anima,
lo odo con le orecchie del mio spirito immortale e non sento in tutte le membra del corpo la forza
dello Spirito Santo » (4,13).
Io stralcio qualcosa da ciascuna delle sette parti del libro, ma non ho alcuna pretesa di
presentare in modo esauriente l’esperienza spirituale di Matilde, che è molto ricca e
complessa. Come lei stessa dice nel prologo del suo libro: “Tutti coloro che vogliono
comprendere questo libro, lo devono leggere nove volte”.
Dalla prima parte prendo l’affermazione della natura spirituale dell’uomo, fatto ad
immagine di Dio. Il tema è prettamente biblico e cistercense:
Il pesce non può affogare nell’acqua, l’uccello non può cadere nell’aria, l’oro non è mai svanito
nel fuoco, perché là si riceve chiarezza e luminoso splendore. Dio ha dato a tutte le creature di
poter vivere secondo la loro natura. Come potrei oppormi alla mia natura? Devo lasciare le cose e
andare a Dio che è mio Padre per natura, mio Fratello per la sua umanità, mio Sposo per amore.
E io voglio essere sua senza inizio. Pensate forse che io non senta questa natura?(1,44)
Dalla seconda parte, vi cito questo dialogo fra la Contemplazione e l’Anima, ambedue
personificate:
- Signora Anima, preferireste essere un angelo del coro dei Serafini o un essere umano dotato di
anima e corpo nel più basso coro degli angeli?
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- Signora Contemplazione, avete ben visto come gli angeli del coro dei Serafini sono nobili
principi e sono un amore, un fuoco, un respiro, una luce insieme a Dio.
- Signora Anima, avete ben visto come gli angeli sono esseri semplici e non lodano e amano e
conoscono Dio più di quanto sia nella loro natura. E ciò la più umile delle persone può ottenere
mediante la fede cristiana, la contrizione, il desiderio e la buona volontà: solamente la sua anima
non può ardere così forte come gli angeli nella Divinità.
- Signora Contemplazione, avete ben visto come i Serafini sono figli di Dio, eppure sono suoi
servi. Ma la più piccola delle anime è figlia del Padre e sorella del Figlio e amica dello Spirito
Santo e in verità una sposa della Santa Trinità. Se un giorno il gioco si decide, vedremo da che
parte si china la bilancia. L’angelo più meraviglioso, Gesù Cristo, Dio indiviso insieme al Padre,
che là aleggia alto al di sopra dei Serafini, io prendo sotto braccio, pur essendo misera. E lo
mangio e lo bevo e faccio di lui ciò che voglio. Non può mai accadere questo agli angeli, per
quanto stiano in alto sopra di me. E la sua Divinità non mi sarà mai estranea, che io non la senta
sempre liberamente in tutte le mie membra e perciò mai mi raffreddi. Che m’importa allora
quanto provano gli angeli?(2,22).
Nella terza parte siamo testimoni di una purificazione dolorosa: già nei due libri
precedenti, descrivendo l’incontro amoroso dell’anima con Dio, era stata specificata più
volte la necessità dello spogliamento completo. Matilde non esita ad utilizzare il
linguaggio dell’amore erotico: l’anima deve essere nuda e deve osare di porsi in potere
dell’amore nudo (cfr. 2,23). Adesso subentra anche il disprezzo da parte di altri. Il
colloquio che segue si svolge fra l’anima assetata di Dio e la Sposa del Cantico dei
Cantici, che l’ammaestra e la consiglia:
- Se vuoi venire con me nella cella vinaria, devi pagare un alto prezzo…Devi sopportare…di
essere invidiata da quanti vanno con te nella cantina. Oh quanto ti disprezzano, perché non
possono pagare un prezzo così alto. Vogliono tagliare l’acqua con il vino.
Al che l’anima risponde:
- Mi lascio trascinare attraverso i carboni ardenti dell’amore e battere con l’incendio del
disprezzo, pur di accedere alla beata cella del vino…Del vino diverrò così ebbra da chinarmi
davanti a tutte le creature; penserò allora alla mia pochezza umana e alla malvagità da me
causata: nessuno si comporterà così male nei miei confronti da commettere qualche colpa verso di
me infelice…
- Cara compagna – dice la Sposa del Cantico – se può accadere che si apra la cella vinaria,
allora devi uscire sulla strada, affamata, povera, nuda e tanto disprezzata da non poter trattenere
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del cibo della vita cristiana nient’altro che la fede. Se allora sei tanto capace di amare, non perirai
mai.
- Signora Sposa – risponde l’anima – ho fame del Padre celeste: in lui dimentico ogni affanno.
E di suo Figlio ho una sete che mi toglie ogni piacere terreno. E per lo Spirito Santo ho tanto
cruccio d’amore che supera la sapienza del Padre, che non posso comprendere, e la sofferenza del
Figlio, che non posso sopportare, e il conforto dello Spirito santo, che non posso avere. (3,3).
Nel libro IV la purificazione continua ed è volontaria: Matilde chiede al Signore di
allontanare da lei le grazie di cui gode, per amore e onore di Lui e per assomigliare a
Cristo crocifisso, che sperimenta il totale abbandono. C’è una descrizione magnifica
della notte dei sensi e dello spirito:
A questo punto ambedue, anima e corpo, giunsero in un luogo così tenebroso che perdetti la
conoscenza e la luce, e dell’intimità di Dio non seppi più nulla, e anche la beatissima
Minne(=l’Amore cortese, l’amore cavalleresco) se ne andò per la sua strada.
La fedeltà, che sembra sparita, è garantita solo da una santa pazienza; l’incredulità
viene combattuta dalla fermezza della vera fede: rimane solo l’estraneità di Dio, che
Matilde così canta:
Orsù, beata Estraneità divina, quanto amabilmente son congiunta a te! Tu rafforzi il mio volere
nella pena e rendi gradita la lunga, difficile attesa nel mio povero corpo. E quanto più mi
avvicino a te, sempre in modo tanto più grande e meraviglioso Dio è caduto su di me. O Signore,
nel profondo della vera umiltà non posso sfuggirti, ma, ahimé, nella superbia ti posso facilmente
sfuggire. Ma quanto più profondamente cado, tanto più dolcemente mi abbevero (4,12).
Nel libro V abbiamo il completamento dell’esperienza mistica: non si tratta di elevarsi,
quanto di sprofondarsi dell’anima nell’umiltà più profonda:
Questa è l’umiltà pronta ad abbassarsi, che compie tante opere mirabili e dolci prodigi nell’anima
amante. Essa conduce l’anima a tutte le creature, una per una, e dice: “Vedi, tutto questo è
migliore di te” e la porta al suo posto, sotto la coda di Lucifero. Se potesse rimanere là, nella
brama di onorare Dio, lo preferirebbe a qualsiasi altra cosa…Se dunque l’anima è salita fino
all’Altissimo che può raggiungere mentre è ancora legata al suo povero corpo, e se è discesa nella
parte più profonda possibile, allora è del tutto cresciuta in virtù e santità. Deve poi adornarsi con
i dolori di una lunga attesa. Così vuol permanere in fedeltà e tutto contempla con grande
sapienza, delle cose nulla le può sfuggire, poiché ne guadagna la lode di Dio (5,4). (cfr. Rom.
9,3)
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Signore Gesù Cristo, che senza inizio sei fluito in modo spirituale dal cuore del tuo eterno Padre,
nato secondo la carne da una perfetta vergine, dalla carne di Santa Maria, e che insieme a tuo
padre sei uno Spirito, una volontà, una potenza, una forza altissima al di sopra di tutte le cose,
che è stata e sarà sempre senza fine.
Signore, eterno Padre, poiché io, di tutte le creature la più indegna, sono a mia volta fluita dal
tuo cuore in modo spirituale e sono nata, Signore Gesù Cristo, in modo carnale dal tuo fianco, e
poiché io, Signore Dio e Uomo, sono stata purificata con la Spirito di ambedue, così parlo, io
povero essere afflitto: Signore, Padre Celeste, tu sei il mio cuore! Signore, Gesù Cristo, tu sei il
mio corpo! Signore, Spirito Santo, tu sei il mio respiro! Signore, Santa Trinità, tu sei il mio
unico rifugio eil mio eterno riposo (5,6)
Nessuno sa cos’è conforto o dolore o desiderio, se non viene afferrato egli stesso da questi tre
sentimenti. Cerco aiuto perché sto troppo male. Ho tre figli in cui vedo grande dolore (5,8).
Chi sono i figli per cui Matilde soffre? I peccatori, le anime del Purgatorio, gli
ecclesiastici imperfetti, cioè i preti e i religiosi infedeli (5,8).
Dal libro V in poi la tematica dell’amore, espressa in modo audacissimo nei primi libri,
passa in secondo piano e acquistano spazio le parti dottrinali legate alla storia della
salvezza, la critica alla Chiesa, la morale delle virtù.
Nel libro VI Il Signore spiega a Matilde l’uguaglianza fra l’amore di Dio e l’amore del
prossimo: Chi conosce e ama la nobiltà della mia libertà non può sopportare di amarmi solo per
me stesso, ma deve amarmi anche nelle creature. Così io continuo ad essere il Prossimo per la sua
anima (6,4). Voglio toccare il cuore al Papa di Roma con grande dolore e nel dolore voglio parlare
a lui e deplorare che i miei pastori di Gerusalemme siano divenuti lupi e assassini, poiché davanti
ai miei occhi uccidono i bianchi agnelli, e le vecchie pecore sono tutte impazzite, poiché non
brucano più nei pascoli sani che crescono sugli alti monti, cioè l’amore di Dio e la sana dottrina.
Chi non conosce la via dell’inferno, guardi bene il clero decaduto, come il suo cammino si dirige
verso l’inferno con donne e figli e altri evidenti peccati (6,21).
La grazia descritta in questo libro – dice Matilde –il Signore me l’ha data in tre modi. Prima
con grande dolcezza,poi con intima confidenza, ora con amara pena. In questa voglio trattenermi
con gioia, piuttosto che nelle altre due (6,20).
Nel libro VII, scritto a Helfta, quindi fra il 1270 e il 1282 circa, il Signore rivela a Matilde
tutto l’itinerario spirituale della sua vita: La tua infanzia era una compagna del mio Spirito
Santo, la tua giovinezza era una sposa della mia Umanità, la tua vecchiaia è ora una consorte
della mia Divinità (7,3). Matilde soffre per la lunghezza dell’attesa: “Signore, non vorresti
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accogliere domani l’anima mia, quando avrò ricevuto il tuo sacro corpo?” Ed egli rispose: “tu
sarai più ricca se soffrirai”. “Signore, che devo fare qui, in questo convento?”. “Devi illuminare
le sorelle e ammaestrarle e vivere con loro in grande onore”(7,8). Matilde si prepara alla morte
con i 7 salmi penitenziali e per ciascuno invoca il Signore con attributi diversi:
Amatissimo, ti prego, quando verrà il tempo in cui vorrai adempiere il tuo comandamento in me
mediante la morte, vieni da me come un fedele medico da suo figlio e concedimi una santa
sofferenza…Ti prego, carissimo Signore, di venire come l’amatissimo amico nel mio bisogno,
portandomi la vera contrizione…Ti prego, amatissimo Signore, di venire come il fedele
confessore al suo caro amico. Portami la vera luce del dono del tuo Spirito Santo per conoscere il
mio vero volto e piangere di cuore i miei peccati…Ti prego, mio caro Signore, vieni come fratello
fedele alla sua cara sorella. Portami la santa armatura e la mia anima sia pronta…Ti prego,
Signore, vieni in quest’ora come Padre fedele a suo figlio e proteggi la mia fine…Ti prego,
Signore, di voler poi mandarmi la tua Madre verginale, di lei non posso privarmi…Ti prego,
caro giovinetto, Gesù, Figlio della pura Vergine, vieni come mio amatissimo Sposo e regna su di
me come fanno i nobili sposi…(7,35).
Matilde si chiede come, piccoli come siamo, possiamo diventare simili a Dio, tanto
grande, e ne dà una magnifica spiegazione:
La grande dovizia dell’amore divino che mai non tace , ma sempre continua a fluire senza sosta e
senza alcuna fatica con questo fiume instancabile, fa sì che il nostro piccolo recipiente si riempie e
trabocca e – se noi non l’ostacolassimo con la nostra volontà – il nostro piccolo recipiente
traboccherebbe sempre del dono di Dio... Allora, dice Matilde, noi riversiamo continuamente
il nostro piccolo nel grande recipiente che è la compiacenza di Dio, che egli riceve dalle
nostre opere. Signore, tu ci hai coperto di doni e anche noi dobbiamo donare a nostra volta agli
altri...Dobbiamo versarne con santo desiderio sui peccatori, in modo che vengano purificati...
sull’imperfezione degli ecclesiastici…sul bisogno delle anime tormentate in Purgatorio…sui
bisogni della povera Cristianità, afflitta da molti peccati. Man mano che ci svuotiamo, Dio ci
riempie e noi riversiamo in lui il nostro amore, riuscendo a renderci simili a lui (7,56).
Termino le citazioni con questo passaggio magnifico: Costante desiderio nell’anima,
costante tormento nel corpo, costante dolore nei sensi, nel cuore costante speranza in Gesù
soltanto – chi ha abbandonato tutto per volere divino ben capirà che cosa intendo (7,63).
In queste “Confessioni”, Matilde ci descrive una straordinaria mistica trinitaria,
cristologica, ecclesiologica ed escatologica. Il libro, molto ampio, che purtroppo non ci è
giunto nella stesura originale, non è privo di prolissità, di tratti ripetitivi o oscuri, ma
contiene numerosissime perle. Ci si può chiedere perché non ha avuto la diffusione e la
fama delle opere di S. Geltrude e dell’altra Matilde. Ciò dipende senza dubbio dal fatto
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che il suo carattere “cattolico” è meno avvertito per il fatto che Matilde era una beghina
e non una religiosa regolare, anche se il suo amore alla Chiesa non può essere messo in
dubbio.
(Hag.458 / Dict. de Spir., X, 1, cc. 877-85 / La luce fluente della Divinità, a cura di Paola
Schulze Belli, Firenze 1991 / Kurt Ruh, Storia della mistica occidentale, II, Milano 2002 /
Spiritualità cistercienne, histoire et doctrine, Beauchesne, Paris 1998 )
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Il XIV e XV secolo: DECADENZA.
Il passaggio dal medioevo all’epoca moderna è segnato da cambiamenti radicali e
profondi, che hanno avuto una grande incidenza sull’istituzione monastica.
L’Europa unita sotto l’autorità spirituale del papa e la protezione dell’imperatore non è
più una realtà: cominciano a sorgere i nazionalismi; papato e impero si fanno sempre
più distinti e antagonisti; anche l’unità cristiana comincia ad incrinarsi con il
trasferimento della sede papale ad Avignone.
La società, pur restando nell’orbita del cattolicesimo e avendo come fondamento i valori
cristiani, si secolarizza: nasce l’uomo "laico", opposto al "clericale". Si sviluppa una
concezione individualista, che prelude al rifiuto della mediazione della Chiesa: le eresie
di Wiclef e di Huss preannunciano la riforma di Lutero.
In campo sociale le città si ingrandiscono, trionfa il regno del denaro, appare il
capitalismo, la ricca borghesia diventa onnipresente.
Come si situa l’Ordine di Cîteaux in questa rivoluzione epocale?
Nel secolo XIII molti monasteri avevano esteso le loro proprietà, ingrandito gli edifici,
accumulato benefici monetari: tutte cose che contrastavano evidentemente con
l’austerità di vita degli inizi. Si riproponevano quindi le condizioni che si erano
verificate nelle precedenti riforme e che gli stessi Cistercensi avevano combattuto. La
bolla "Fulgens sicut stella matutina", emanata nel 1335 dal papa cistercense Benedetto XII,
che riguardava la gestione dei beni, il governo dell’Ordine e l’organizzazione degli
studi nei collegi cistercensi, fu un grande beneficio per la riforma dell’Ordine, ma non
potè avere molta efficacia a causa dei mali dell’epoca e quindi non poté arrestare la
decadenza.
I secoli XIV e XV portarono con sé un grande cambiamento economico-sociale e una
forte diminuzione delle vocazioni, con la quasi totale scomparsa dei conversi, dovuta in
parte all’attrazione esercitata dagli Ordini mendicanti e in parte alla tendenza
laicizzante e secolare, per cui gli antichi servi della gleba trovavano forme di libertà ed
emancipazione nuove, senza dover entrare nel chiostro.
In questa situazione la magnificenza e superfluità degli edifici e la vastità delle
proprietà terriere divennero un peso molto grave: l’Ordine era aggravato da debiti,
dovuti alle tasse esorbitanti imposte dai re e dai papi; le liti e i processi crescevano ogni
giorno; la scarsità delle risorse obbligò ad accettare chiese, decime e benefici, in
contraddizione palese con l’atteggiamento dei fondatori; abati e cellerari si trovarono ad
essere molto mescolati con gli affari del mondo.
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All’inizio del secolo XIV l’espansione, l’influenza e la grandezza religiosa dell’Ordine
erano praticamente finite.
Ci furono inoltre tre fatti che influirono pesantemente sulla storia europea di questo
periodo ed ebbero ripercussioni tragiche anche sull’Ordine di Cîteaux:
I) - la guerra detta dei Cento anni (1340-1453) oppose l’Inghilterra alla Francia, con il
succedersi di invasioni, battaglie, tregue, saccheggi e distruzioni. Nell’ultimo periodo
della guerra Giovanna d’Arco liberò Orleans e contribuì a far coronare re di Francia
Carlo VII. La Pulzella cadde però prigioniera dei borgognoni, che la consegnarono agli
inglesi. Processata come eretica e fattucchiera, Giovanna fu condannata al rogo nel 1431.
La sua morte risvegliò nei francesi l’amor patrio: gli inglesi furono sconfitti e scacciati.
L’Ordine, soprattutto in Francia, subì distruzione di monasteri e vessazioni da parte
delle "grandi compagnie", soldati mercenari che rubavano e saccheggiavano. Ai Capitoli
Generali la partecipazione degli abati era forzatamente ridotta: la conseguenza fu
l’indebolimento generale dello spirito monastico e la crescita del numero di monaci
viziosi e girovaghi.
II) - la peste nera del 1348 mieté quaranta milioni di vite umane, la metà circa della
popolazione europea dell’epoca.
Le abbazie furono spopolate, particolarmente quelle francesi, che già soffrivano le
conseguenze della guerra dei Cento anni. Per far fronte al numero ridottissimo di
monaci, in molte comunità vennero ammessi bambini o cadetti di famiglie nobili, senza
vera vocazione. Il livello religioso, morale e intellettuale si abbassò molto. Il clima di
insicurezza che regnava in tutta l’Europa rese vano o non durevole ogni sforzo di
riforma (tranne nel Belgio e in Olanda, dove Giovanni Eustachio, il movimento di
Soleilmont e l’Unione di Sibculo portarono molti frutti di rinnovamento).
III) - lo scisma di Occidente (1378-1417) fu il più grave sorto nella cristianità dopo quelli,
relativamente brevi, del secolo XII. Scoppiò con l’elezione di Urbano VI, dichiarata
illegittima perché fatta sotto costrizione, per paura del popolo romano. I cardinali
opposero al papa residente a Roma un anti-papa residente ad Avignone.
Con il consumarsi e il prolungarsi dello scisma, anche l’Ordine si divise: Francia,
Spagna, Portogallo, regno di Napoli e Scozia parteggiarono per il papa di Avignone;
Inghilterra, Fiandre, il resto dell’Italia e tutto l’Impero accettarono il papa di Roma. I
monasteri che si trovavano in questi paesi seguivano l’uno o l’altro papa.
L’Ordine diviso in due ebbe due Capitoli Generali distinti. Quando il Concilio di Pisa,
che non fu né generale, né legittimo, nominò un terzo papa deponendo gli altri due,
l’Ordine ritrovò l’unità e il Capitolo Generale del 1409 fu pressoché plenario. In seguito
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il Concilio di Costanza (1414-17) depose i tre papi illegittimamente eletti e scelse
Martino V, che fu finalmente accettato da tutta la cristianità. Martino de Vargas,
fondatore della Congregazione di Castiglia, separata dall’Ordine, ma madre di tanti
santi, fu appunto confessore e predicatore di Martino V.
Subito dopo la pace cattolica riconquistata, l’Europa centrale conobbe il flagello delle
guerre Hussite. In generale poi l’Ordine decadde a causa della ‘commenda’, che
introdusse abusi gravissimi in molti monasteri. Infatti, la pratica eccezionale e
provvisoria, ma in seguito divenuta normale di affidare un beneficio regolare ad un
chierico secolare, senza esigere da lui la professione religiosa, fu nefasta nella
stragrande maggioranza dei casi.
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Il secolo XVI: la riforma protestante
Tutte le calamità dei due secoli precedenti avevano prostrato la Chiesa e il
monachesimo: urgeva una riforma. Nell’Assemblea convocata a Tours nel 1493 l’abate
di Cîteaux Giovanni de Cirey pose il dito su tre piaghe dell’epoca: le elezioni dei
superiori non libere, con la conseguenza di nomine di persone non adatte, che
impedivano ogni sforzo di riforma; la commenda, che concepita all’inizio come misura
amministrativa provvisoria, stava diventando definitiva, con abati commendatari che
divoravano il patrimonio dei monasteri; il moltiplicarsi dei processi.
L’anno successivo, l’abate Giovanni riunì a Parigi nel collegio S.Bernardo molti abati
dell’Ordine e presentò loro sedici articoli che, osservati, avrebbero ricondotto la vita
monastica alla sua primitiva purezza.
Ogni vera riforma però deve partire dalla conversione del cuore e gli sforzi di Giovanni
de Cirey non diedero i risultati sperati: fu necessaria la bufera della rivoluzione
protestante per risvegliare le coscienze.
Le perdite che causarono all’Ordine di Cîteaux le guerre di religione furono enormi. La
tormenta era già iniziata nel secolo XV con le rivolte degli Hussiti, in cui furono
distrutte una quarantina di abbazie e si ebbero numerosi martiri. Si trattava però solo
del preannunzio della grande distruzione del secolo XVI, in seguito alla riforma di
Lutero. In questo secolo non solo non fu fatta nessuna fondazione, ma furono
incendiati, rovinati o secolarizzati centinaia di monasteri. Di tutti i martiri e le martiri di
questo periodo storico, solo Dio conosce esattamente il numero.
Il nuovo punto di partenza per un vero rinnovamento dell’Ordine fu poi il Concilio di
Trento.
L’Europa cistercense dopo il Concilio di Trento
Il panorama dell’Ordine dopo il Concilio di Trento (1545-1563) è profondamente
cambiato: tutta l’Europa settentrionale (paesi scandinavi, Inghilterra, Paesi Bassi del
nord e Germania settentrionale) non hanno più monasteri cistercensi: Francia e Italia
sono devastate dal regime della commenda. La Spagna ha anticipato il movimento
riformatore post-tridentino costituendo la Congregazione indipendente di Castiglia, a
cui seguiranno ben presto la Congregazione italiana di S.Bernardo e la Congregazione
portoghese di Alcobaça, entrambe staccate da Cîteaux. La riorganizzazione dei
monasteri che ancora sussistono dopo la bufera protestante avviene mediante
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Congregazioni nazionali e, per la Francia, il Belgio, l’Austria e la Boemia, mediante il
sistema di vicariati e la divisione in province. Il Capitolo Generale si riunisce ancora a
Cîteaux, ma ad intervalli molto distanziati e con un autorità molto più scarsa.
La spiritualità di questo periodo, che assume sfumature differenti a seconda dei diversi
paesi, è caratterizzata da un ritorno alle sorgenti della tradizione cistercense, alle sue
osservanze, alla dottrina dei grandi scrittori del XII secolo, soprattutto S.Bernardo. Le
coscienze sono state scosse dalla riforma protestante e la santità rifiorisce. Nei nostri
menologi questa santità è soprattutto femminile e si sviluppa un po’ dappertutto, in
Belgio, nelle Fiandre, in Francia (dove un grande centro di santità è il monastero di
Parc-aux-Dames), in Svizzera (soprattutto alla Maigrauge) e in Spagna, dove fiorisce
una grande corrente mistica e dove emerge il monastero di sant’Anna di Ávila.
Vediamo due figure di quest’epoca, una italiana e l’altra spagnola:
VERONICA LAPPARELLI
Nata nel 1537, otto anni prima dell’inizio del Concilio di Trento, Veronica entrò in
monastero nel 1560, tre anni prima che il Concilio terminasse. Il clima era ancora quello
delle guerre di religione: alle lotte fra cattolici, luterani e calvinisti si era aggiunto lo
scisma di Enrico VIII. A quell’epoca l’Ordine Cistercense non aveva già più la sua
struttura originaria: le tendenze nazionaliste dei secoli XIV e XV, le circostanze storiche
decisamente avverse alla conservazione di un sistema centralizzato, la poca efficacia dei
decreti di riforma del Capitolo Generale di Cîteaux a cui, soprattutto a causa delle
guerre, potevano partecipare sempre meno abati europei, avevano creato via via delle
separazioni; dopo la formazione della Congregazione di Castiglia, la prima che ne seguì
l’esempio fu la Congregazione italiana di S. Bernardo, che nel 1496 raggruppò i
monasteri di Toscana e di Lombardia, fino a raggiungere il numero di 45 comunità, in
genere piccole. Le monache italiane si unirono a questa Congregazione o vissero sole,
mantenendo malgrado tutto le osservanze cistercensi. I Capitoli Generali delegarono
spesso dei priori claustrali delle abbazie in commenda come visitatori dei monasteri
femminili. Dopo il Concilio di Trento ci fu un vero rinnovamento nelle comunità di
monache, che però dovettero quasi tutte rifugiarsi nelle città a causa dell’insicurezza e
della violenza che dominavano.
Appunto in uno di questi monasteri urbani, ma di recente fondazione ( sorto fra il 1540
e il 1545 ), già reputato per il fervore, entra la giovane nobildonna Veronica Laparelli. É
discendente di una delle famiglie più antiche e aristocratiche di Cortona. Nasce alla
vigilia di S. Martino da Antonio Laparelli e da Maddalena Rustichelli e cresce nel
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palazzo paterno, in condizioni di agiatezza, servita e vezzeggiata. La bambina è vivace,
ma buona e docile; si affeziona a una gallinella, quasi un pulcino, che ella alleva con
cura e che la segue dappertutto, svolazzandole sulle spalle e sul petto. Un giorno però il
pulcino muore e Veronica, dopo averlo ben fasciato, gli scava una piccola fossa,
convinta di poterlo vezzeggiare anche morto. Tornata a vederlo dopo un po’ di tempo,
lo trova tutto fradicio e pieno di vermi. Il colpo è terribile: Veronica, che ha cinque anni,
intuisce la caducità delle cose terrene e risolve di volgere il suo cuore verso un amore
che non venga mai meno. In età molto avanzata conferma al Confessore di aver sempre
mantenuto quella promessa infantile.
Nella fanciullezza e nell’adolescenza si dà a mortificazioni corporali, digiuni e
preghiere, che le attirano i rimproveri e le opposizioni dei genitori e dei domestici, che
la controllano e tentano con ogni mezzo di distoglierla da quel genere di vita. La
ragazza non disarma, ma diviene più prudente; si alza nel cuore della notte per pregare
e per infliggersi dure discipline. Trattenuta dall’amore naturale per i parenti, tergiversa
a lungo prima di manifestare loro la sua vocazione religiosa e sopporta con pazienza
rimostranze, suppliche e indugi. É saggia e prudente e vuole che i genitori accettino
liberamente di donare la loro figlia al Signore. Ecco come l’antico biografo racconta la
resa : ”Vedendo i genitori di Veronica essere ormai giunta la figlia ad un’età da prendere stato,
né potersi sperare che a nozze terrene giammai fosse per dare l’assenso,...stimarono di non dovere
né potere più lungamente opporsi ai suoi disegni. Perciò, e per non aver più a cuore di vedere in
tanta afflizione la figlia, le accordarono finalmente, con somma ripugnanza dell’animo loro, il
sospirato consenso.” (F. Salvatori, Vita, pp. 10-11)
Veronica ha ventitré anni: l’11 novembre 1560, nella festa di un santo che le fu sempre
carissimo – S. Martino e S. Diego furono i suoi protettori e ad essi attribuiva i miracoli
che compiva – Veronica, vestita da sposa secondo l’uso del tempo e adorna di gioielli,
entra nella chiesa del monastero, mentre la badessa da dietro la grata le porge le
domande rituali. Lasciamo la stessa badessa, Margherita Cortonesi che fu sua biografa,
descrivere la scena: “Mentre lei diceva queste parole di renunziare le vanità, pigliava le perle,
pigliava la collana, i vezzi che lei aveva al collo, e le gittava come si fussero state fango. Gittava
gli ornamenti della testa, gittava le vesti, quale aveva in dosso, e per dir meglio le scaraventava
di sorte che tutti i circustanti furono commossi a ridere, non sapendo la causa di tal novità. Le
monache anco non si potevano contenere di ridere...” (Vita manoscritta).
Il carattere di Veronica è ben dipinto in quel gioioso ed entusiasta ‘scaraventare’, così
poco consono ad una cerimonia che doveva invece essere compiuta con lentezza e
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dignità. Dopo qualche giorno dall’ingresso, la stessa fonte ci informa di un altro
episodio emblematico; oltre alla gioia evangelica del distacco, troviamo nella novizia
un’altra grazia cistercense: un sicuro intuito comunitario, che la spinge a rompere con
tradizioni inveterate nell’ambiente monastico dell’epoca. Le monache di Cortona,
poverissime, provvedevano individualmente ai loro bisogni con piccoli lavori, ma
dipendevano ancora molto dalle rispettive famiglie per il vitto, l’abbigliamento e le altre
necessità. Ognuna prendeva il cibo nella sua cella particolare e si mangiava in comune
solo nei giorni di festa. Veronica, ignara dei valori dell’autentica tradizione cistercense,
si comporta spontaneamente nel modo giusto: va dalla badessa e le consegna la parte
“del suo dotamento per suo uso, come si suol concedere a tutti l’altre...rimettendosi tutta in Dio
sotto l’obbedientia di chi governava. Un giorno di poi mi portò dei quattrini, i quali gli erano
rimasti che non se n’era acorta, e per concludere, il principio e vero fundamento della vita sua
esemplare, sì è che mai ha voluto niente di proprio”. Volle sempre indossare le vesti di
sorelle defunte e si accontentò di ogni cosa smessa dalle altre monache. Non amava
andare in parlatorio e ci andava solo se costretta. Non partecipava neppure alle
ricreazioni speciali che la comunità aveva costume di fare nei giorni di carnevale.
Veronica fece la professione definitiva dopo un anno dall’ingresso, secondo l’uso del
tempo. Prestava obbedienza non solo alla badessa, ma a tutte le sorelle, anche le più
giovani, comprese le converse. Era capace di correggere le compagne senza offenderle,
quando avvertiva infiltrarsi nella comunità lo spirito di mormorazione. Veronica era
una vera cistercense, donna di comunità, che reclamava per sé il privilegio di servire:
servì infatti le inferme e prese gioiosamente per sé i lavori più umili e pesanti. Sempre
pronta al servizio di mensa, fedelissima agli atti comuni, durante i sessanta anni della
sua vita in comunità, la premura nel servizio fu il suo programma quotidiano. Se la si
lodava per la sua disponibilità o per altro, si mostrava molto dispiaciuta, per cui era
diventato un detto comune nel monastero che ‘per far dispetto a Sr. Veronica e vederla
adirata, bastava lodarla’.
Lo spirito cistercense di cui era impregnata si manifesta anche nella sua grande
attrattiva verso i misteri del Natale e dell’infanzia del Signore, ad imitazione di S.
Bernardo, di Elredo e di quasi tutti i Padri del XII secolo. Emula in questo della Beata
Ida di Leau, ricevette il dono di ricevere dalla Vergine il Bambino Gesù, come è riferito
nella deposizione giurata di una testimone oculare: “... Nel tempo che io stava nel
Monastero della SS.ma Trinità, che fu intorno a nove anni, detta Suor Veronica ogn’anno
ottenne grazia, e meritò, che dalla gloriosa Vergine le fosse dato Gesù Bambino: e questo lo so,
perché vedevo ogn’anno la notte di Natale detta Suor Veronica in estasi tenere alto lo scapolare,
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stare inginocchione nell’Oratorio, e poi drizzarsi, fare una riverenza, poi stendere le braccia,
rivoltare sopra le braccia l’altra parte dello scapolare per ricuoprire il Bambino, e poi fare
un’altra riverenza, ed andare per il Monistero gridando: ‘Amore, Amore’. Ed io vidi ogn’anno,
come sopra, nel detto scapolare la forma del detto Bambino, cioè di lunghezza di circa tre palmi; e
vedevo la forma del capo, dÉ piedi, e di tutta la vita, ma il Bambino non lo vidi mai. Dipoi vedevo
che detta Suor Veronica andava al fuoco, e faceva atto di scaldare detto Bambino, e poi tornava
nell’Oratorio, e s’inginocchiava: e parlando con la Madonna, io sentivo che dimandava in grazia
alla gloriosa Vergine di tenere quel Bambino un altro poco, e che lo lasciasse vedere alle altre sue
Monache; e di poi taceva. Di lì a poco ripigliava: ‘ Esse l’amano, e gli vogliono bene, ma se lo
vedranno, l’ameranno maggiormente, e s’innamoreranno del di lui amor divino, e grideranno
‘Amore’, come facc’io’. Poi faceva l’atto di rendere il Bambino alla Beata Vergine...e quando si
lasciava calare lo scapolare, io vedevo che nello scapolare non vi era cosa alcuna.” (F. Salvatori,
Vita, pp. 106-107).
Come le mistiche cistercensi del XIII secolo, anche Veronica ama follemente il Cristo
della Passione, di cui rivive tutte le tappe dolorose, specialmente durante la Settimana
Santa. Come le grandi cistercensi del territorio di Liegi vive nel Sacramento Eucaristico
il momento culmine dell’unione sponsale a cui aspira la sua anima amante: il libro III
della Vita, che parla dei suoi doni soprannaturali gratuiti, narra che la santa monaca fu
spesso comunicata da angeli e, almeno una volta, da Cristo in persona “che, dopo averla
comunicata col pane della vita, in luogo della purificazione del semplice vino, che si usa tra noi,
le diede a bere nel calice il suo pretiosissimo sangue.” (Vita manoscritta)
L’intensità dell’amore e il bisogno di comunicarlo spinsero più volte Veronica a suonare
le campane a festa; in una vigilia di S. Francesco suonò per ben tre ore, facendo
accorrere al monastero tutta la città. Per farla smettere si dovettero tagliare le funi, che
però non caddero, ma rimasero tese fra le sue mani. Queste manifestazioni stravaganti
di folle amore erano bilanciate da un solido buon senso e da molta umiltà: sempre
diffidente e confusa di fronte ai doni soprannaturali che la spaventavano e la
umiliavano, Veronica, a forza di preghiere, ottenne dal Signore che cessassero gli stati
mistici “qualora trovavas’ in pubblico”. Come S. Lutgarda, Veronica digiunava per la
conversione e la salvezza dei peccatori: dal 10 novembre a Natale e dall’Epifania a
Pasqua faceva le sue ‘Quaresime’ e la badessa Cortonesi racconta che “assaissimi giorni è
stata che non ha preso se non la santa Comunione. Questo s’è visto più volte. Tra l’altre una
volta passando 18 giorni senza mangiare e bere niente niente se non quando si comunicava, il
che era ogni mattina.” (Vita manoscritta) Per i peccatori e in modo speciale per la sua
Cortona supplicava la misericordia di Dio con insistenti preghiere. Le monache del
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monastero della SS. Trinità riferiscono le sue invocazioni, quando pregava senza
pensare di essere udita o veduta: “Signore, in benefizio di queste creature; Signore, in
benefizio di queste creature... Signore, distendete le braccia della vostra infinita pietà verso
queste creature... Misericordia, misericordia.” (F. Salvatori, Vita, p.90)
La sua vecchiaia fu tormentata da gravi e frequenti infermità. Anche quando a stento si
poteva muovere dalla cella, pregava qualche sorella caritatevole di darle il braccio per
portarla in coro o agli esercizi comuni. Soprattutto in questo periodo di lento
disfacimento Veronica dà la prova più evidente della sua santità, vivendo le malattie - e
a volte chiedendole per assimilarsi al Cristo sofferente - in atteggiamento di offerta ( si
pensi a S. Aleide o a S. Lutgarda...). Porta le molestie e le umiliazioni della vecchiaia con
un umorismo e una gioia tutta cistercense, nell’obbedienza, e cercando di dare il
minimo fastidio alle sue sorelle. É già all’infermeria e le sorelle infermiere la alzano dal
letto e la siedono su una sedia, allontanandosi poi per un altro servizio, Veronica cade,
incastrandosi fra un altarino e la sedia in una posizione che suscita il riso. Difatti le
sorelle accorse la trovano che ride, dicendo ‘Gesù, Gesù.’ Ed esse stesse, di fronte alla
comicità della situazione, la lasciano a terra e non finiscono più di ridere. Quando la
rialzano e la interrogano, vengono a sapere che il suo riso era provocato dalla gioia di
soffrire qualcosa per amore di Gesù.
Veronica muore placidamente, senza agonia, il 3 marzo 1620, anno in cui il Papa Paolo
V aveva esteso a tutte le chiese locali il Giubileo straordinario, indetto l’anno precedente
per portare rimedio ai tanti mali
dell’epoca. Anche Veronica aveva lucrato
l’indulgenza, trasportata in chiesa dalle sue infermiere: seduta su una sedia, con due
suore inginocchiate a lato, aveva assistito alla Messa; al momento dell’elevazione
dell’Ostia e del Calice fu udita ripetere sottovoce per tre volte: “Signore, se è in salute
dell’anima mia, e se vi piace, tiratemi a voi.” (Ib. P.156)
I tratti salienti di questa grande mistica furono l’umiltà, la semplicità, la gioia, la libertà
e un grandissimo senso comunitario: in lei la ricerca di Dio, la dedizione a Cristo e
l’amore per le sorelle e per il prossimo trovarono una sintesi felice in un’umanità calda,
in una sponsalità e una maternità pienamente riuscite, perché vere. Veronica Laparelli,
monaca cortonese del Seicento, fu compiutamente cistercense.
(- Margherita Cortonesi, Vita di Madre Veronica, scritta mentre ella era ancora vivente,
Manoscritto, Archivio Vescovile di Cortona
Veronica Laparelli, ed. Salomoni, Roma 1774
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-F.M. Salvatori, Vita della Venerabile
- C. Waddell, Corso di agiografia cistercense, Dattiloscritto, Vitorchiano 3-8 novembre
1986)
MARÍA VELA Y CUETO
Nel 1943 fu esumato il corpo di questa monaca del monastero di S. Anna di Avila e fu
trovato incorrotto: era morta il 24 settembre 1617, tre anni prima della Venerabile
Veronica Lapparelli.
Maria Vela y Cueto, soprannominata "la donna forte", era nata nel 1561 a Cardeñosa,
nella Vecchia Castiglia, da una famiglia nobile. Era entrata a quindici anni, dopo una
grave malattia, nel monastero che aveva per badessa sua zia. Altre due sue sorelle
furono monache del monastero di S. Anna, ma entrambe morirono giovani. Ella invece,
di salute fragilissima, di cui la gente diceva che entrava in convento solo per morirvi
subito dopo come religiosa, vi rimase più di quarant’anni. Il Signore le aveva rivelato a
quale profonda intimità con Lui desiderava condurla. Ella allora si era offerta al suo
Sposo come un oggetto di cui egli potesse disporre a piacimento.
La sua orazione era continua e non la interrompeva neppure durante la notte,
prendendo il poco riposo che si concedeva seduta o inginocchiata accanto al letto. Per
essere maggiormente assimilata al suo Signore, chiese ed ottenne di poter soffrire per
Lui: da allora la sua vita fu una serie ininterrotta di contraddizioni e di patimenti,
aggravati da durissime penitenze volontarie, specialmente digiuni. Il dolore per i
peccati suoi e del mondo l’affliggeva tanto che il Signore interveniva per consolarla,
lavando e purificando il suo cuore con il sangue delle ferite delle sue sante mani. In
tutto ella ricorreva a lui con fiducia totale ed egli la chiamava "la mia Maria".
Le grazie mistiche di cui godeva, le estasi come pure le vessazioni diaboliche le valsero
incomprensioni in comunità e delazioni presso il tribunale dell’inquisizione. Le furono
dati come direttori dei gesuiti, poi dei domenicani e da ultimo dei carmelitani, che
l’obbligarono a mettere per iscritto tutte le sue esperienze e valutarono in modo diverso
le sue grazie mistiche, combattendo anche fra di loro. Dopo il giudizio del tribunale
dell’inquisizione, nel 1603, in cui si condannavano otto punti dell’esperienza mistica,
che però María non riconosceva facessero parte della sua esperienza personale, soffrì di
una grande oscurità spirituale, di tristezza e di dubbi. L’opposizione che incontrava la
fece isolare nella sua cella. Negli ultimi 8 anni della sua vita, a partire dal 1609, tuttavia
sopravvenne la semplificazione e la pace, con una ripresa della vita comune.
Desiderava morire arricchita dell’indulgenza plenaria dell’anno giubilare che il Papa
Paolo V aveva indetto nell’anno 1617 e di cui si parla anche nella vita della Venerabile
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Veronica. Colpita da grave malattia, comprese di essere stata esaudita; predisse il
momento della sua morte otto giorni prima che questa avvenisse. Poco prima del
trapasso invitò le sorelle a recitare il salmo 22: “Il Signore è il mio pastore, non manco di
nulla; in pascoli erbosi mi fa riposare”, a cui ella stessa aggiunse la parte finale del
salmo 72: “Il mio bene è stare vicino a Dio: nel Signore Dio ho posto il mio rifugio”. Unì
anche il versetto del Cantico dei cantici: “Dilectus meus mihi et ego illi”.
Alle esequie, presiedute dal vescovo, era accorsa una grande folla che chiedeva reliquie.
Per ordine del vescovo, fu sepolta nella chiesa. Dato che la devozione si estendeva,
l’università di Salamanca fece un’inchiesta, per sapere fino a qual punto si doveva
lasciar sviluppare il suo culto da parte del popolo. Avvennero guarigioni e si iniziò un
processo informativo, in vista della Beatificazione: ne abbiamo una copia manoscritta
nel monastero di Avila. Il processo tuttavia non giunse mai a Roma, perché colui che lo
portava morì durante il viaggio. L’ultimo confessore di María ne scrisse la Vita subito
dopo la morte.
María Vela è autrice di un’ ‘Autobiografia’ o “Libro de vida” e di un ‘Libro de las
mercedes’, scritti di grande ricchezza spirituale, pubblicati nel 1961 a Barcellona.
Il P. Damián Yañez Neira, nel suo contributo nel Dizionario di spiritualità, dice che è
difficile valutare con esattezza l’universo psicologico di María, la sua tendenza alla
malinconia e il suo attaccamento ai fatti straordinari, favoriti anche dal clima del tempo,
dai suoi confessori e dalle sue superiore: ignoriamo troppe cose della sua infanzia e
della sua formazione cristiana. Questo non diminuisce la sua virtù e la sua santità:
María Vela fu un’anima di preghiera e di penitenza, innamorata di Cristo, in continua
stupefazione di fronte alla grandezza e alla paternità di Dio. Sopportò sofferenze
indicibili, senza perdere il suo equilibrio.
Anche se certi fenomeni mistici sono loro comuni, come anche l’asprezza di certe
penitenze (per esempio, i digiuni prolungati), María non ha certo la semplicità, la gioia,
la mancanza di scrupoli e l’amore per la vita comune che caratterizzano la Venerabile
Veronica Lapparelli. La contraddizione, l’opposizione, la croce sono molto più marcati
nella vita di María Vela, senza che possiamo dare un giudizio sicuro su di lei. Quindi il
cammino da lei riferito nelle sue opere non può essere seguito con sicurezza. Tuttavia il
confronto fra le vie spirituali di queste due sante monache – Veronica e María – può
aiutarci come testimonianza di un’epoca di fervore dopo il Concilio di Trento, vissuto
differentemente in Italia e in Spagna.
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(Hag.554 / Comm.Hist., Les moniales Cist., IV, p. 180 / Dict.Aut.Cist., pp. 719-20 /
Dict.Spir., XIII, c. 791; XVI, cc. 354-357 )
Sec. XVII - I ‘riformati’ e la guerra delle osservanze
La Stretta Osservanza del XVII secolo fu un movimento riformistico che abbracciò
soprattutto i monasteri francesi. L’atmosfera generale di riforma che si respirava dopo il
Concilio di Trento aveva fatto nascere diverse riforme particolari: Congregazioni più o
meno indipendenti, i Foglianti, le Bernardine. Si aspirava però ad una riforma generale,
più radicale delle misure prese dagli abati di Cîteaux Giovanni di Cirey e Gerolamo de
la Souchière.
Nel maggio del 1601 fu convocato a Cîteaux il Capitolo Generale, che fu chiamato ‘il
gran Capitolo’: Edmondo de la Croix, abate di Cîteaux, presentò un progetto di riforma
generale, che venne codificato in trentacinque capitoli che costituivano una vera Somma
delle osservanze e della spiritualità dell’Ordine. Nel Capitolo successivo del 1605 non si
fece però menzione delle proposte del 1601, rimandando a decisioni precedenti. Le
aspirazioni disattese avevano comunque già trovato, spontaneamente e con inizi molto
modesti, una incipiente realizzazione nel programma di riforma intrapreso nelle
abbazie di La Charmoye, Chiaravalle, Châtillon e Cheminon.
Nel 1623 però l’abate di Cîteaux si spinse troppo oltre, perché permise ai riformati di
organizzarsi in Congregazione, creando un Ordine all’interno dell’Ordine. Il Capitolo
Generale annullò la decisione, ma la morte di Dionigi Largentier, abate di Chiaravalle,
calmo e ponderato, che portava avanti la riforma con la forza della persuasione e con
l’esempio, privò l’Ordine di un efficace moderatore. Il cardinale de la Rochefoucauld,
protettore e visitatore dell’Ordine, riformò le abbazie con estremo rigore, non tenendo
conto delle esigenze degli ‘anziani’, a cui si opponevano gli ‘astinenti’ (chiamati così
perché una delle questioni cruciali era l’uso o no della carne) e questo scatenò una vera
e propria guerra.
Il vero punto che opponeva le due osservanze era l’atteggiamento di base di fronte alla
vita monastica: da una parte l’accento messo sulla chiamata, l’abnegazione totale, un
genere di vita non accomodato e dall’altra la sottolineatura dell’obbedienza e dei valori
puramente spirituali.
Le osservanze controverse erano, oltre l’astinenza, il lavoro manuale, il silenzio, il fatto
di dormire vestiti su un pagliericcio posto su assi, l’uso di abiti grossolani (la Comune
Osservanza usava abiti fini).
Il torto principale dei due partiti fu quello di aver portato i loro litigi davanti al
parlamento della Borgogna, di Parigi e ai consigli di stato, trasformando in politico un
50
conflitto di disciplina religiosa. Era l’epoca della Fronda parlamentare e ogni decisione
del re era contrastata dal parlamento e viceversa: se il re si schierava per la Stretta
Osservanza, il parlamento lo faceva per la Comune.
Questo capitolo doloroso della storia dell’Ordine cistercense terminò parzialmente con
l’emanazione della bolla ‘In Suprema’ di Alessandro VII nel 1666. La bolla, che si
prefiggeva di ristabilire la pace e la comprensione mutua, era un’interpretazione molto
dettagliata, ma moderata della Regola benedettina: prescriveva la medesima disciplina
per le due Osservanze, tranne l’uso della carne. In effetti il papa regolava la coesistenza
delle due parti all’interno dello stesso Ordine, limitando l’autonomia della Stretta
Osservanza, ma lodandone lo spirito e incoraggiandone la propagazione. Gli ‘astinenti’,
cessavano così di essere degli scismatici: costituivano invece, secondo la bolla, la parte
eletta di una stessa famiglia, godendo del privilegio, pur essendo minoritari, di avere lo
stesso numero di definitori della Comune Osservanza.
La bolla non fu accettata pacificamente dagli ‘astinenti’, che reclamavano maggior
indipendenza e il diritto di attenersi ad un’osservanza meno mitigata. Anche la
questione dei definitori si trascinò ancora per molti anni, fra gelosie e rivalità di
ambedue i partiti, che fanno di questo periodo uno dei più tristi della storia di un
Ordine che fin dalle origini era retto dalla Carta di Carità.
Gli storici affermano unanimemente che i riformatori avevano ragione nel volere una
correzione degli abusi e un cambiamento delle forme esteriori: tuttavia questo non
bastava per il successo di una vera riforma, che è sempre conversione del cuore e delle
idee. Probabilmente non gli iniziatori, ma i continuatori della riforma mancarono di
larghezza di idee sulle situazioni concrete del loro tempo e spesso dimenticarono il
primato della carità; vollero anticipare con rigorismo ed impazienza i tempi di Dio,
forzando la libertà interiore e andando contro il senso comunitario con conflitti
interminabili e secessioni premature.
Inoltre, ed è forse questo il vero motivo del parziale insuccesso, i tentativi dei
riformatori si presentavano un poco come un corpo senz’anima. Mentre la riforma
cistercense dell’XI secolo riuscì proprio perché sostenuta e vivificata da una solida
dottrina spirituale, nei primi documenti della Stretta Osservanza ci sono pochi testi
basati su elementi di spiritualità.
Malgrado le ombre che presenta ogni periodo storico, anche in questo ci furono figure
rappresentative della santità che Dio non lascia mai mancare nella sua Chiesa: Ottavio
Arnolfini, Dionigi Largentier, Stefano Maugier, Ludovico Quinte, Nicola de Guedois,
51
Bernardo Carpentier, i due fratelli Gerolamo e Placido Petit, Anna d’Orviré, Domenico
George.
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I TRAPPISTI
Il 19 settembre 1637, tre settimane dopo la morte di Stefano Maugier, primo vicario
generale dei Cistercensi riformati, e a poca distanza dal collegio S.Bernardo dove era
spirato, un bambino di undici anni era intronizzato come canonico di Notre-Dame e
prestava giuramento come commendatario di cinque benefici.
Non furono alcuni punti della Regola più rigorosamente osservati e particolarmente
l’astinenza dalle carni praticata in circa sessanta abbazie francesi ad assicurare
l’avvenire e l’irraggiamento della Stretta Osservanza, ma la riforma in un unico
monastero, che questo canonico undicenne operò venticinque anni più tardi, dopo una
conversione che lo trasformò da abate mondano in monaco austero e riformatore
celeberrimo, molto seguito e anche molto discusso.
Quali furono le caratteristiche della riforma della Trappa?
Giuridicamente la Trappa, antico monastero della Normandia, appartenente alla
Congregazione di Savigny che fu affiliata all’Ordine nel 1147, fu sempre una casa
cistercense della Stretta Osservanza nella filiazione di Chiaravalle: durante l’abbaziato
di Rancé ebbe due o tre visite regolari effettuate dal visitatore canonicamente costituito.
Non si staccò mai dall’Ordine, ma in pratica, sotto la guida di Rancé, seguì il suo
solitario cammino di riforma.
Le delusioni che l’animo assetato di assoluto del giovane convertito incontrò all’inizio
del suo abbaziato, quando fu scelto per difendere a Roma la Stretta Osservanza, le
riunioni turbolente e i continui accomodamenti che fino al 1675 tentarono di sanare le
divisioni croniche delle due Osservanze, la decisione della Commissione reale di
sostenere la Comune Osservanza, spinsero Rancé ad attuare da solo l’urgenza della sua
chiamata al deserto, alla penitenza, all’osservanza senza mitigazioni, ispirata ai padri
del deserto e soprattutto a S.Giovanni Climaco, che egli conosceva bene ed amava.
Alla sua epoca, non solo in seno all’Ordine cistercense, ma ovunque si respirava
un’atmosfera litigiosa e meschina: le dispute continue sul giansenismo e i conflitti
interni agli Ordini (tutti divisi – tranne i certosini – in due osservanze) avevano creato
un clima polemico e di parte. Rancé scelse il silenzio stretto, la clausura
fedelissimamente osservata, il lavoro manuale e la cura costante e sollecita dei suoi
monaci come mezzi per raggiungere la pace, al di sopra di ogni disputa dottrinale.
Offriva ai suoi discepoli una vita scomoda, monotona, totalmente anonima, ma animata
da grande carità fraterna e, al momento della morte, la certezza che Cristo li avrebbe
riconosciuti come suoi, dato che ne avevano portato con gioia la croce.
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In un tempo di rigorismi giansenistici e di lassismi quietisti, Rancé proponeva la santità,
il deserto, l’abbandono completo di sé al Padre nell’umiliazione della croce, come
Cristo. Il monaco, erede degli apostoli e dei martiri, era chiamato al sacrificio totale,
all’olocausto. L’insistenza sulla penitenza per i peccati personali non era solo il frutto
della conversione drammatica di Rancé da una vita mondana e dissipata ma, in
quell’epoca costituiva una caratteristica generale nella Francia cattolica e nell’Inghilterra
protestante: da qui un grande desiderio di austerità.
L’unico requisito che Rancé chiedeva ai postulanti era la disposizione sincera ad
abbandonare "alla divina Provvidenza la cura della propria persona, della salute e della
vita", scaricandosi di tutto ciò che si riferisce a se stessi, in modo che solo Dio si
incarichi di provvedere a quanto ci è necessario. Come si viveva alla Trappa?
L’astinenza e il digiuno erano rigorosi: la dieta era povera di proteine, dato che l’uso del
pesce e delle uova era proibito e anche quello dei latticini era scarso. C’erano tre ore di
lavoro nei campi anche per i sacerdoti; la lectio divina si faceva in comune; l’Opus Dei
durava circa otto ore e il resto del tempo lo si dedicava alla preghiera privata. Il
dormitorio non era comune (Rancé scoperse tardi che i primi cistercensi dormivano
insieme nel dormitorio), ma si riposava in celle private. Il silenzio era rigoroso, ma la
sollecitudine, il servizio fraterno e la preghiera degli uni per gli altri creavano nella
comunità un’atmosfera di amore intenso e sincero.
La Trappa, situata fra boschi e laghi, era un luogo estremamente umido e freddo, con
inverni e primavere difficili da sopportare per chi soffriva a causa di problemi reumatici
o respiratori. La causa di tante morti, che fecero scandalo all’epoca, non è comunque da
attribuirsi all’austerità dell’osservanza, ma al fatto che si introdussero nella comunità
delle malattie infettive: tubercolosi e febbre tifoidea. É certo che l’aspetto escatologico
era molto marcato e i monaci vedevano nell’osservanza seguita fino all’estremo, anche
in condizioni di malattia, un mezzo per affrettare la morte e raggiungere il desiderato
incontro con Cristo.
Per quanto riguarda le famose umiliazioni, che dettero luogo a tante polemiche, come se
alla Trappa si inventassero false accuse per far sì che i monaci raggiungessero
rapidamente l’umiltà, considerata essenziale da Rancé, il suo pensiero era
semplicemente questo: essendo tutti colpevoli di peccati di cui non ci rendiamo conto,
non dobbiamo lamentarci se per caso veniamo accusati di qualcosa che non abbiamo
commesso.
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Gli ospiti furono sempre numerosi alla Trappa e i poveri vennero costantemente forniti
di cibo (in alcuni anni di carestia si soccorrevano regolarmente fino a duemila
bisognosi).
Rancé perseguiva un ideale che alla sua epoca non poté essere compreso o realizzato da
molti: solamente cento anni dopo la sua morte la rivitalizzazione trappista del secolo
XIX generalizzò la sua particolare maniera di vita, che aveva un solido fondamento
sull’amore di Dio e del prossimo.
Malgrado circolasse la leggenda romantica che la Trappa era un penitenziario per
criminali convertiti, la lettura dei profili dei trappisti comprova che la maggioranza dei
postulanti era costituita da religiosi e sacerdoti che desideravano una vita più austera o
da giovani che avevano conservato l’innocenza del battesimo. Di fatto, soltanto tre o
quattro ex-soldati, colpevoli di atti di violenza o dediti al libertinaggio, si fecero
trappisti.
Prendiamo un esempio della santità trappista che asseconda la leggenda, avvisando che
si tratta di un’eccezione: chi sa il francese può leggere dettagliatamente la biografia
della figura che presento in sintesi in Collectanea del 1946.
ALEXIS GRÊME
Nel breve arco di un’esistenza durata ventitré anni, Robert Grême - alla Trappa fra
Alexis - visse esperienze intensissime ed estreme. Apparteneva ad una famiglia fra le
più nobili del regno di Scozia. Era bambino negli ultimi decenni del secolo XVII e,
nonostante le minacce e le punizioni, si recava ogni domenica alla cappella del palazzo
regale di
Edimburgo per assistere, lui che era protestante, alla Messa cattolica.
Commosso dalla sua perseveranza e dal suo coraggio, lord Perth, alto cancelliere del
regno e cugino del ragazzo, lo adottò come figlio e lo educò nella religione cattolica.
Lord Perth fu però costretto all’esilio e dovette riconsegnare Robert alla madre, che si
adoperò a corromperne la fede e gli lasciò la libertà più completa. La natura ardente e
portata agli eccessi dell’adolescente, rimasta senza guida sicura, lo spinse al vizio e
all’empietà. Il giovane Robert divenne sprezzante di ogni religione, libertino,
orgoglioso, intrattabile. A sedici anni andò a Londra, dove continuò la sua vita
disordinata, in un’alternanza di pentimenti e di ricadute nel vizio. Il dolore umano lo
colpiva però vivamente: andava a curare i malati negli ospedali e soccorreva i poveri
con una prodigalità tale che gli faceva dimenticare i suoi propri bisogni.
Recatosi in Francia e ricevuto il sacramento della Cresima, entrò a diciotto anni in una
comunità di certosini inglesi nelle Fiandre, senza però perseverarvi. Tornato alla vita di
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prima, si dibatteva fra le sue passioni ma, sia pur lentamente, maturava in lui il
bisogno di una conversione sincera. Lo sguardo gettato su un Crocifisso nella stanza di
una locanda, fu l’occasione di un incontro profondo e appassionato con il Signore Gesù
e di una resa senza condizioni.
Mentre si recava in Italia col proposito di farsi eremita, fu invece condotto da un amico
all’abbazia della Trappa, dove giunse senza nessun entusiasmo, dopo cinque giorni di
viaggio a piedi. Affascinato dal contatto con i monaci, dal loro silenzio, dalla loro
premurosa carità, dalla gioia con cui si scambiavano il bacio di pace, sentì una voce
intima dirgli: "Qui è il luogo del tuo riposo". Ammesso come postulante, abbracciò la
vita monastica con tutto l’ardore del suo temperamento assoluto. I monaci però
esitavano di fronte ad una vocazione così singolare e, prima di dargli l’abito monastico,
vollero chiedere informazioni a lord Perth, che conoscendo l’indole incostante e
orgogliosa del cugino, le sue abitudini ad una vita lussuosa e la sua costituzione
delicata, sconsigliò la sua accettazione in un Ordine tanto penitente. Saputa l’opinione
di lord Perth, Robert ebbe una reazione così violenta ed infuriata che il maestro dei
novizi voleva che lasciasse immediatamente il monastero. L’abate però e ‘il padre
anziano’ (de Rancé), dato che la carità è paziente, vollero che fra Alexis continuasse la
sua prova, pensando giustamente che la collera e il cattivo comportamento del ragazzo
fossero stati causati dalla delusione e dal suo desiderio ardente di impegnarsi nella vita
trappista.
In effetti, provato ed umiliato in tutti i modi, fra Alexis crebbe nell’umiltà e nella
pazienza, nella mitezza e nella docilità. Durante una malattia fu deliberatamente
abbandonato alla solitudine per metterlo alla prova, ma la gioia e l’umiltà avevano
preso possesso del suo cuore e la sua vocazione ne uscì rinforzata.
Il giorno della sua professione solenne, il 30 ottobre 1700, il Signore concesse al suo
umile penitente la grazia di vedere suo padre ritornare alla fede cattolica mediante una
pubblica abiura nelle mani dell’abate della Trappa. La madre si convertì invece dopo la
morte del figlio. Fra Alexis morì di polmonite il 21 maggio 1701, sette mesi dopo la sua
professione.
Ad un novizio inglese che chiedeva all’agonizzante un ultimo consiglio, rispose: "Sii
fedele a Dio e Dio sarà fedele a te".
(Coll. Cist., 1946, VIII, pp. 97-108; IX, pp. 20-38)
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La riforma di Rancé, sia pure limitata al suo monastero e alla fondazione italiana, ebbe
una ripercussione enorme nella sua epoca e, fra dispute, polemiche, interpretazioni
deformate o consensi entusiastici, contribuì al ripristino dell’osservanza in molte
abbazie cistercensi e incoraggiò la riforma di altri Ordini monastici.
Rancé aveva rinnovato quasi tutte le osservanze del primitivo Cîteaux, a volte in un
modo un po’ troppo assoluto e letterale. Riviveva nella sua riforma anche lo spirito del
XII secolo? Gli storici hanno finora affermato che l’accentuazione della penitenza,
impressa nell’opera dal riformatore e dovuta alle circostanze personali del suo
cammino di conversione e al rigorismo della sua epoca, non ha contribuito a far
raggiungere l’intensità contemplativa dei cistercensi delle origini e non ha fatto fiorire
la meravigliosa esperienza mistica dei monaci degli inizi dell’Ordine. Tuttavia negli
ultimi decenni un esame spassionato della riforma di Rancé e una rilettura senza
preconcetti delle sue opere ha fatto scoprire in lui non il moralista, ma l’autentico
mistico.
Abbiamo già constatato l’appassionata ricerca di Dio dei monaci della Trappa, il
pentimento per i peccati personali e l’esigenza di riparazione per i mali della loro epoca,
la loro gioia, la loro mutua carità, il loro desiderio di conformazione a Cristo crocifisso,
la loro ansia di ricongiungersi a lui nella vita senza fine: tutto questo incarnato in
un’osservanza robusta, in un’epoca di mondanità e di mollezza. L’enfasi propria del
linguaggio del tempo e l’assoluto di certe affermazioni di Rancé possono dare
l’impressione di rigorismo, ma gli studi recenti hanno dimostrato che nella pratica
l’atteggiamento del riformatore era molto più equilibrato e che la sollecitudine pastorale
e l’affezione paterna davano al modo di vivere della Trappa un carattere di gioiosa ed
evangelica semplicità.
Il secolo XVIII: il secolo dell’illuminismo
Nel secolo dell’illuminismo l’Ordine cistercense si presenta con sfaccettature diverse.
Le comunità francesi risentono delle ripercussioni del movimento giansenista, che nel
secolo precedente aveva avuto come centro d’irradiamento il monastero delle monache
di Port Royal, guidate da madre Angelica Arnaud. Anche Rancé e la sua riforma erano
state accusate, completamente a torto, di giansenismo.
Nel 1709 le monache gianseniste che non vollero sottomettersi a Roma furono disperse e
l’anno successivo Port Royal des Champs fu demolito. Un certo numero di monache
espulse si rifugiarono nell’abbazia di Voisins, nella diocesi di Orléans, provocando la
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divisione nella comunità e perseverando nelle idee gianseniste. Dalla Francia il
giansenismo passò nell’attuale Belgio, sia pure con sfumature particolari. Le abbazie più
colpite furono quella delle monache di Clairefontaine e quella maschile di Orval che,
dopo la morte del riformatore Carlo di Bentzeradt e l’affiliazione alla Stretta
Osservanza, interpretando in modo rigoroso e poco ortodosso la necessità della
penitenza, cadde negli errori giansenisti.
In Francia le numerose comunità cistercensi contavano un numero ristretto di monaci
ed erano abbastanza rilassate. La Stretta Osservanza si diffuse fino a raggruppare circa
settanta abbazie, quasi tutte francesi, il cui fervore si intiepidì via via nel corso del
secolo: la Trappa e Sept-Fons restarono tuttavia comunità numerose e con
un’osservanza esemplare. Molte case sia della Comune che della Stretta Osservanza
erano in commenda. La riforma trappista guadagnò l’Italia con la fondazione di
Buonsollazzo (1703), che a sua volta rifondò Casamari (1717). Le altre comunità italiane
erano piccole e povere e i monaci si dedicavano agli studi e al ministero pastorale.
In Portogallo, il secolo XVIII segnò il massimo sviluppo dell’abbazia di Alcobaça e
un’epoca di prosperità per Tarouca, Salzedas e Bouro. Anche in Spagna Poblet e altre
abbazie conobbero un accrescimento numerico.
Nelle Fiandre, governate dall’Austria per tutto il secolo XVIII, le celebri abbazie di
Villers, Aulne e Les Dunes (trasferita quest’ultima a Bruges) ripresero vita e si
ripopolarono.
In Ungheria, dopo la dominazione turca, rinacque la vita cistercense, che fiorì
soprattutto attorno all’abbazia di Zirc.
In Germania e in Polonia, nelle abbazie magnificamente ricostruite secondo lo stile
barocco, l’architettura e la musica assunsero un ruolo preponderante. Le chiese
abbaziali diventarono parrocchie, l’Ufficio era cantato dai monaci riuniti nel presbiterio,
le celle divennero private: cambiò il tradizionale stile di vita, ma l’osservanza rimase
buona, seguendo le norme della
costituzione ‘In Suprema’ di Alessandro VII. La
formazione, che in genere aveva come base la teologia tomista, era orientata verso
l’insegnamento e la catechesi. Assieme a S. Benedetto, S. Bernardo, monaco e
predicatore, fu il modello quasi unico della spiritualità.
LUDOVICA OLANDINA
Ludovica Olandina di Boemia nacque nel 1622 in Olanda, dove vissero in esilio i suoi
genitori, Elisabetta Stuart, figlia del re d’Inghilterra Giacomo I, e Federico V, ex-re di
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Boemia. Venne educata rigidamente nella confessione calvinista della sua famiglia.
Molto intelligente, si dedicò all’arte e allo studio, specialmente delle lingue straniere.
Con il passare degli anni, attraverso un attento studio della storia, in particolare quella
della Chiesa in Inghilterra e mediante il rapporto confidenziale con la principessa
cattolica Elisabetta degli Hohenzollern, nacque in lei il desiderio di ritornare alla fede
cattolica. All’alba del 20 dicembre 1657 fuggì in segreto dalla sua casa di Anversa,
lasciando per la madre una lettera nella quale confessava di non poter più partecipare
alla Cena dei calvinisti, dato che per lei era sorta una nuova luce, nella quale aveva
riscoperto le verità della fede cattolica. Il 25 gennaio 1658, proclamando il simbolo della
fede, venne ricevuta nella Chiesa.
A causa della persecuzione da parte della sua famiglia, fuggì in Francia, dove in seguito
prese il velo nel monastero cistercense di Maubuisson, facendovi la professione nel
1660.
Quattro anni dopo venne nominata badessa dal re di Francia Luigi XIV. Assumendo il
suo nuovo incarico, Ludovica rinunciò ad ogni privilegio del suo stato e,
contrariamente agli usi dell’epoca, dormì in una cella come tutte le sorelle invece che
nell’appartamento abbaziale, prendendo il pasto comune con loro. Osservava
l’astinenza e i digiuni dell’Ordine e vestiva una tonaca di tessuto grossolano.
Fedelissima alla clausura, durante tutta la sua lunga vita monastica uscì dal monastero
solo tre volte.
Al suo posto in coro pose una statua della Madonna, per significare che la vera badessa
del monastero era la santissima Vergine. Con il suo vivo esempio risollevò la vita
spirituale della comunità, restaurandovi la pace e la concordia. Risanò inoltre
l’economia del monastero, favorendo, da artista quale era, i lavori artistici come la
famosa fontana del chiostro, il mobilio e il tesoro dell’abbazia. Fu una madre per i
poveri, che soccorreva con una carità inesauribile: nell’inverno del 1693 fece distribuire
ai bisognosi milleduecento libbre di pane alla settimana. Era amorosamente aperta
all’ascolto di coloro che cercavano aiuto spirituale e discernimento nella fede.
Gli storici le attribuiscono un ruolo importante nei tentativi di riconciliazione fra
luterani e cattolici: abbiamo una lettera di Alessandro VIII, in cui il papa le esprime la
sua riconoscenza a questo riguardo.
Morì l’11 febbraio 1709, a ottantasette anni, dopo sei anni di grave malattia e
quarantacinque di abbaziato.
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(Hag.648 / Coll. O.C.R., luglio e ottobre 1938 / Comm.Hist., Les moniales cist., II, pp.
111-12)
La bufera della rivoluzione francese
Nella seconda metà del secolo XVIII, il secolo dei lumi, penetra nel pensiero critico
‘illuminato’ la consapevolezza che il monachesimo è un’istituzione medioevale ormai
inadatta a una società che si sta trasformando.
In Francia Luigi XV, i cui collaboratori erano per la maggior parte gallicani e giansenisti,
nel 1766 si arrogò il diritto di nominare una ‘Commissione dei Regolari’ per la riforma
degli Ordini religiosi francesi. Quattrocentoventisei case religiose vennero soppresse,
ma i foglianti (a causa della loro difesa coraggiosa) e i cistercensi (per l’importanza e
l’internazionalità dell’Ordine) non vennero allora toccati. La Commissione dei Regolari
preparava però la strada all’opera distruttrice del Consiglio ecclesiastico della
Costituente.
In Austria, nel 1782, Giuseppe II, considerandole inutili, scioglieva con un decreto tutte
le istituzioni monastiche che non erano direttamente a servizio del popolo. Negli anni
successivi quasi tutte le abbazie cistercensi situate nelle terre degli Asburgo vennero
secolarizzate. Le case del Belgio resistettero ancora per circa dieci anni, non essendo
stata applicata la legge di secolarizzazione a causa della morte prematura
dell’imperatore.
In questo clima di disistima dello stato religioso e in particolare di quello monastico e
nello spirito dell’Enciclopedia che invadeva tutto, in Francia vennero ad inserirsi - e
furono determinanti - motivi di ordine economico. La nazione era sull’orlo della
bancarotta a causa di un sistema tributario sorpassato; c’erano stati inverni duri, che
avevano aumentato la miseria e provocato carestia; la guerra d’indipendenza americana
e i movimenti di riforma in Spagna, Toscana e Svezia avevano suscitato turbamento e
speranza e fatto nascere una coscienza nuova nelle masse popolari.
Il popolo era ancora fortemente attaccato ai valori cristiani e non desiderava la
soppressione degli istituti religiosi, monasteri compresi (e la prova fu la loro rapida
rifioritura dopo la tempesta rivoluzionaria), ma era turbato di fronte alla decadenza del
monachesimo: molti monasteri erano in commenda e le comunità erano in genere molto
ridotte. La gente comune ammetteva difficilmente che le abbazie non avessero alcuna
missione socialmente utile. Cresceva inoltre l’ostilità nei confronti dei privilegi, delle
esenzioni fiscali e delle decime dei primi due stati: il clero e la nobiltà.
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Per sedare il malcontento e risolvere la fortissima crisi economica si adottò allora la
semplicistica misura di prendere il denaro là dove ce n’era, cioè presso il clero e la
nobiltà. Il clero secolare era tutt’altro che ricco, ma il clero regolare possedeva un
patrimonio considerevole; in particolare gli Ordini contemplativi erano forniti di beni
immobili molto grandi ed erano troppo ricchi per i bisogni personali dei loro membri.
Se il loro genere di vita claustrale esigeva evidentemente il possesso di beni fondiari
non necessari ad altri, questi beni erano eccessivi, lasciati improduttivi e non utilizzati
per alleviare la miseria che dilagava. Si rimproverava in sostanza ai monasteri il cattivo
uso delle loro ricchezze.
Gli eventi precipitarono. Eccone in succinto l’ordine per quanto riguarda il nostro tema:
- 4 agosto 1789: i privilegi dei nobili e del clero vengono aboliti.
- 2 novembre 1789: i beni del re e della Chiesa sono messi a disposizione della nazione
(da notare che nei monasteri la confisca legale era già stata preceduta da saccheggi da
parte dei contadini e da molestie e vessazioni di ogni genere).
- 13 febbraio 1790: gli Ordini religiosi che non sono ospedalieri o insegnanti sono
soppressi.
- 12 luglio 1790: viene emanata la costituzione civile del clero.
Si procedette per tappe: i religiosi che liberamente sceglievano di uscire dal chiostro
avevano diritto ad una pensione, purché giurassero fedeltà alla costituzione, mentre
quelli che volevano vivere in comune venivano raggruppati in apposite case. Le
monache, per il momento, erano lasciate nelle loro comunità fino all’estinzione naturale,
data la soppressione dei voti.
Il comportamento dei monaci di fronte a queste misure della Costituente fu in genere
mediocre: la maggior parte rientrò in famiglia, in attesa che i tempi mutassero. La loro
scelta fu dettata da realismo e buon senso, ma non si può certo definire eroica. Molto
più coraggioso fu l’atteggiamento delle monache, anche se a loro favore giocava il
vantaggio di poter rimanere nelle rispettive comunità: la fedeltà fu quasi unanime, dato
che, soprattutto in alcune regioni, non ci furono defezioni, tranne qualche caso isolato.
Gli storici affermano che, all’epoca della rivoluzione francese, le religiose scrissero
pagine ammirevoli nel Libro della Vita.
La situazione era grave a causa dell’obbligo di prestare giuramento alla costituzione
civile del clero: la Chiesa di Francia si divise fra giurati e refrattari. Roma taceva. Il 4
gennaio 1791 scadeva il termine per il giuramento, ma solo il 13 aprile il papa Pio VI
condannò la costituzione e sospese ‘a divinis’ coloro che giuravano. Iniziarono le leggi
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di proscrizione. Chi non giurava diveniva immediatamente sospetto: non gli rimaneva
che la fuga all’estero oppure la prigione, la deportazione e la morte. Il 18 agosto tutti gli
Ordini religiosi, compresi quelli lasciati in vita un anno e mezzo prima, furono
soppressi. Legalmente, in Francia, non esistevano più né monaci né monache a partire
da questa data. I loro conventi e le loro proprietà erano messi interamente a
disposizione della nazione.
In quest’epoca di disordini e di confusione il martirologio cistercense si accrebbe di
molti nomi.
1: Il martirio dei pontoni.
Nelle ore più oscure della rivoluzione francese sacerdoti e religiosi, ormai considerati
nemici del popolo, sono inseguiti, arrestati e ammassati nelle carceri dei diversi
dipartimenti, prima di essere condotti - spesso con marce forzate - verso i porti di
Bordeaux e Rochefort, per essere deportati. Questa deportazione nella Guyana, almeno
nel 1794, non avverrà. Gli storici hanno infatti dimostrato che le autorità della
Convenzione non avevano mai pensato seriamente a questa soluzione, dato anche il
blocco totale delle coste francesi da parte della marina inglese. La deportazione dei
dipartimenti del Mezzogiorno, facenti capo a Bordeaux fu la più numerosa, ma non la
più crudele: su 1494 deportati ne moriranno circa 160.
Ben più orrenda fu la sorte riservata ai deportati del Nord: nella primavera del 1794 i
prigionieri soggiorneranno nelle fortezze, nelle prigioni o su delle navi: la ‘Bonhomme
Richard’ e la ‘Borée’. A partire dall’11 aprile, la maggior parte di loro sarà imbarcata su
due navi negriere, la ‘Deux Associés’ e la ‘Washington’, ancorate nella rada dell’isola di
Aix, vicino a Rochefort.
Su queste navi, ‘i pontoni’, le condizioni di vita sono tali che, in qualche mese, due terzi
dei deportati trovarono la morte: 547 morti su 829.
Le navi, costruite appositamente per il trasporto degli schiavi, avevano un interponte
fra la stiva e il ponte, dove su specie di cuccette sovrapposte, trovavano posto i
deportati. La capienza della ‘Deux Associés’ era di 200-300 schiavi, mentre i deportati
imbarcati furono 409. Più di 300 erano ammassati sulla ‘Washington’. Ognuno di loro
aveva a disposizione, per passare le 13-14 ore della loro interminabile notte, in un calore
e un puzzo incredibili, uno spazio di 30 centimetri di larghezza, per 150-165 di
lunghezza e 80 di altezza. L’esiguità della spazio costringeva a stare sempre sul fianco o
seduti con la testa sulle ginocchia. Un sopravvissuto ha scritto:" Bisognava contrarsi,
62
raccorciarsi, curvarsi su se stessi per poter entrare in uno spazio lungo cinque piedi. A
causa di questo la circolazione era impedita, le giunture ingrossate, i nervi in tensione, i
dolori inesprimibili, i crampi facevano lanciare delle grida e si aveva il desiderio
legittimo di essere liberati dalla vita ".
Il mattino, senza far uscire i prigionieri (e il comandante della ‘Deux Associés’, il
cittadino Laly, che l’anno successivo sarebbe stato radiato dalla marina militare,
confessò poi che lo faceva di proposito), l’interponte veniva disinfettato durante una
mezz’ora o un’ora con dei vapori emananti da una caldaia piena di catrame, in cui
veniva immersa una palla di ferro arroventata. Questo procedimento, che era abituale,
ma in locali vuoti, provocava crisi di soffocamento e disturbi respiratori di ogni genere.
L’affollamento eccessivo, le fumigazioni mattutine, il nutrimento malsano e
insufficiente, il tormento dei pidocchi, il passaggio dal caldo infernale dell’interponte al
vento gelido del ponte fecero dei pontoni un vero inferno. Ogni giorno delle scialuppe
cariche di cadaveri sbarcavano nell’isola di Aix, dove sacerdoti addetti alla sepoltura
dovevano spogliare e sotterrare i loro compagni. La presenza inoltre di preti ‘giurati’ e
alcuni persino sposati (la rivoluzione nel suo parossismo scristianizzante aveva
coinvolto anche loro) da cui bisognava guardarsi, perché denunciavano spesso i loro
compagni di sventura, come anche le perquisizioni, le punizioni e i lazzi
dell’equipaggio furono un tormento supplementare per la coscienza dei deportati, che
venivano messi ai ferri se solo muovevano le labbra per pregare.
Dopo tre mesi dall’imbarco, nel luglio 1794, si scatenò un’epidemia: oggi sappiamo in
maniera
quasi
certa
che
si
è
trattato
di
tifo
esantematico,
provocato
dall’ammucchiamento dei corpi, dalla sotto-alimentazione e dall’invasione dei parassiti.
La febbre altissima provocava stati di torpore o di frenesia ed erano frequenti accessi di
pazzia che aumentavano ancora l’orrore specialmente delle notti. Già a partire dal
maggio del 1794 alcune golette erano state adibite a ospedali marittimi per i più malati
o contagiosi: contenevano una quarantina di moribondi, che venivano lasciati
completamente abbandonati, rimuovendone soltanto i cadaveri: ogni decesso, reso noto
attraverso una segnalazione, era salutato da grida di trionfo dei soldati dell’equipaggio
delle grandi navi.
La morte di alcuni marinai, le proteste degli abitanti dell’isola di Aix e il colpo di stato
del 9 Termidoro, che fece cadere Robespierre, addolciranno un poco quella che sarà
chiamata ‘la ghigliottina secca’. Le navi risaliranno la Charente e sull’isola Madame
verrà rizzato un ospedale di tende, dove moriranno ancora numerosi prigionieri.
Nell’autunno del 1794, particolarmente piovoso, dato che le tende si riempivano
63
d’acqua o venivano strappate dal vento, i malati verranno imbarcati su una terza nave,
‘l’Indien’. Dopo un altro inverno in cui le navi rimarranno bloccate dal ghiaccio ( e il
tormento allora per i prigionieri molto ridotti di numero fu il freddo glaciale) e dopo
una primavera in cui i prigionieri raggiungeranno Saintes su dei carretti, il 12 aprile
1975 avrà finalmente fine l’epopea dei sacerdoti deportati sui pontoni.
BEATI MARTIRI DEI PONTONI
Il 1° ottobre 1995 il Papa Giovanni Paolo II beatificò 64 di questi martiri, di cui è
attestata la piena accettazione del martirio. La Chiesa, più che estendere la
beatificazione al maggior numero possibile, ha preferito privilegiare gli esempi più
significativi per l’edificazione del popolo cristiano.
A questi 64 beatificati, sacerdoti, canonici e religiosi di vari Ordini, come probabilmente
a molti altri condannati deceduti sui pontoni, è forse possibile applicare la dichiarazione
pronunciata da uno di loro: "Se noi siamo i più infelici degli uomini, siamo anche i più
felici dei cristiani."
Fra questi ci sono due monaci di Sept-Fons e uno della Trappa, della cui pietà, carità e
spirito d’abbandono sono rimaste le testimonianze in diverse relazioni.
Fra’ Elia Desgardin, infermiere a Sept-Fons, dopo la chiusura del monastero si trasferì
con la comunità a Montluçon. Il rifiuto di prestare giuramento causò la dispersione dei
fratelli.
Fra’ Elia fu arrestato, imprigionato a Moulins e condotto a Rochefort con il terzo
convoglio dei deportati. Detenuto sulla ‘Deux Associés’, si prodigò nella cura dei
malati, amato e ammirato da tutti. Le narrazioni dei sopravvissuti parlano della
competenza e del dono di sé senza misura di fra’ Elia di Sept-Fons, che aveva con sé
alcune medicine ed era lasciato libero di curare i compagni. Contagiato dal tifo, morì a
quarantaquattro anni, martire della carità, il 6 luglio 1794. Fu sepolto nell’isola di Aix.
Dopo la sua morte, dice una cronaca, "tutto andò di male in peggio"...
Don Paul Charles era priore a Sept-Fons, quando assunse la guida della comunità,
perché l’abate in carica si era rifugiato presso la sua famiglia. Con 19 monaci occupò il
convento dei cappuccini di Montluçon che era stato designato come casa comune,
continuando a condurre la vita monastica ed esercitando una tale opera di carità,
malgrado le scarse risorse, da attirarsi la riconoscenza della municipalità. Il rifiuto di
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prestare giuramento da parte dei monaci obbligò le autorità municipali ad applicare il
decreto di evacuazione delle case religiose, nonostante la stima e l’amore da parte della
popolazione.
I monaci si dispersero. Don Paul Charles fu arrestato il 30 marzo 1793 e avviato a
Rochefort. Detenuto sulla ‘Deux Associés’, stimato e amato dai compagni di prigionia,
morì il 25 agosto 1794 all’età di cinquantun anni e fu sepolto nell’isola Madame.
Il terzo martire beatificato è don Gervasio Brunel, morto a cinquant’anni nell’ospedale
di tende allestito nell’isola Madame. Colpito da tifo e ridotto agli estremi, morì il giorno
stesso dello sbarco, il 20 agosto 1794.
Il suo calvario fu simile a quello di don Paul di Sept-Fons: superiore della Trappa dal
1790, si oppose al progetto di don Agostino di Lestrange, maestro dei novizi, di cercare
un rifugio all’estero per condurvi in pace la vita monastica. Col precipitare però degli
eventi, don Agostino fu lasciato libero e la comunità si disperse progressivamente.
Espulso con gli ultimi 28 monaci il 3 giugno 1792, Don Gervasio tentò di raggiungere la
Svizzera, ma fu arrestato. Condannato alla deportazione, fu imbarcato sulla
‘Bonhomme Richard’ e poi trasferito sulla ‘Deux Associés’. In una relazione si fa
menzione di lui come di un condannato ‘fra i più conosciuti, religioso fervente, uomo di
pietà e di grande virtù’.
(Hag.289-293-294 / Y..Blomme, Les prêtres déportés sur les pontons, ed.Bordessoules
1994 / Chronique de Sept-Fons 1992-94 / 0sserv. Romano, 1-X-1995: articoli
commemorativi)
2: I deportati in Guyana
Nella primavera del 1795 si ha un momento di tregua: le chiese sono riaperte, molti
preti tornano dall’esilio e la libertà religiosa viene ampliata. Già però nell’autunno
riprendono le persecuzioni e sotto il secondo Direttorio vengono emanate delle leggi
che prevedono per i sacerdoti refrattari la deportazione nella Guyana. Mentre però nel
1794 la relegazione sui pontoni di Nantes, Bordeaux, Rochefort dei sacerdoti e religiosi
arrestati e destinati alla Guyana era stata una tragica beffa, non potendo materialmente
le navi francesi da carico prendere il largo a causa della sorveglianza delle navi inglesi,
la deportazione avvenne realmente nel 1797.
Le truppe francesi vittoriose erano passate dalla Francia ai paesi vicini, propagando con
la forza delle armi le dottrine rivoluzionarie. I colpiti dalle leggi di Fruttidoro furono
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soprattutto i preti belgi (il Belgio era stato tolto all’Austria e annesso alla Francia) e
quelli francesi. Il blocco inglese continuava e i vascelli di sua maestà britannica
costrinsero ‘la CharentÉ a tornare indietro e catturarono ‘La Vaillante’ con a bordo 108
ecclesiastici.
Altri trasporti però riuscirono a passare: si calcola che i preti giunti in Guyana siano
stati 256, di cui 118 moriranno nella colonia penale.
3: Il piccolo resto: la Valsanta.
Nel 1790 l’abbazia della Trappa, in cui il fervore degli inizi non era diminuito, contava
novantun monaci. La gente del vicinato li apprezzava; vivevano seriamente la vita
monastica; non erano ricchi e soccorrevano i bisognosi: perché dunque temere la
rivoluzione incombente? Essa avrebbe certamente risparmiato i trappisti.
Fra i monaci c’era però qualcuno che vedeva le cose con maggior lungimiranza.
Quando, durante la primavera, il maestro dei novizi propone al priore (don Gervasio
Brunel, il futuro martire dei pontoni) di trasferire la comunità in Svizzera, questi pensa
che queste proposte siano inopportune e considera il padre maestro una testa calda,
fautore di divisione e di turbamento in comunità: al monaco viene tolta la sua carica,
perché non influenzi i giovani. Il consiglio dell’Orne, da cui dipende il monastero pensa
però che la legge del 13 febbraio che sopprime i voti monastici non debba essere
derogata in favore della Trappa, la quale viene soltanto designata come casa comune
per raccogliere i religiosi di qualsiasi Ordine che desiderino continuare a condurre vita
comune.
Don Agostino, il giovane maestro dei novizi che aveva saputo vedere nei primi
disordini rivoluzionari non episodi passeggeri, ma un cambio epocale di civiltà, ottiene
il permesso di agire, permesso confermato dal suo padre immediato e dall’abate di
Cîteaux, generale dell’Ordine. Il senato di Friburgo permette che i monaci si stabiliscano
nel loro stato e mette a loro disposizione la certosa della Valsanta.
Questo pugno di esiliati – ventitré in tutto – ha reso possibile la sopravvivenza della
vita monastica trappista nelle più aspre avversità e nelle circostanze storiche più
difficili.
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Secolo XIX - La 'quasi' scomparsa della vita monastica cistercense
L'inizio del secolo XIX e tutto il periodo napoleonico fu molto travagliato per
l'istituzione monastica, che in Francia era già stata completamente divelta. Se di
monachesimo si poteva parlare, era un monachesimo che sopravviveva in forme
ridottissime o nelle catacombe...
In Italia, tra il 1806 e il 1808, la maggior parte dei monasteri sopravvissuti furono
soppressi.
In Svizzera, il governo francese appoggiò la creazione della Repubblica Elvetica, che
controllò le proprietà dei monasteri e proibì l'ammissione dei novizi. Tuttavia i
monasteri di Wettingen, Hauterive e Saint Urban poterono sussistere e formarono la
Congregazione cistercense svizzera assieme a undici monasteri femminili. Più tardi, nel
1830, il governo liberale decretò severe leggi anticlericali e qualche anno dopo i
monasteri maschili furono secolarizzati.
In Germania, la Congregazione dell'alta Germania, molto fiorente, scomparve nel 1803,
in seguito alla concessione di Napoleone di confiscare i beni ecclesiastici, come
compenso dei possessi che i principi tedeschi avevano perduto al di là del Reno. La
legge non fu applicata subito in tutti gli stati della Germania: in Prussia la
secolarizzazione avvenne nel 1810.
In Austria continuarono a sopravvivere le poche abbazie che Giuseppe II non era
riuscito a secolarizzare.
La Polonia, divisa fra Prussia e Russia, vide la soppressione di tutte le abbazie
cistercensi, tranne due. Identico destino subirono i tre monasteri della Lituania, dove
sopravvisse fino all'estinzione una sola comunità, impossibilitata a ricevere novizi.
In Spagna, invasa dalle truppe francesi, fu decretata la riduzione allo stato secolare di
tutti gli Ordini. Il ritorno al potere di re Ferdinando VII nel 1814 fece ristabilire le
abbazie soppresse, ma solo fino al 1836, in cui una legge convertì in proprietà dello stato
tutti i beni monastici.
In Portogallo si ebbe il saccheggio della grande abbazia di Alcobaça nel 1811 e le
successive guerre civili non consentirono più la ripresa di un'autentica vita monastica. Il
governo liberale, che aveva finito per prevalere, secolarizzò i beni dei monasteri
maschili nel 1834 e impedì alle monache di ricevere novizie. Il monachesimo cistercense
sparì dal Portogallo e non fu più ricostituito, tranne un tentativo recente, che pare non si
sviluppi.
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Gli inizi del secolo videro invece un'insperata rinascita della vita cistercense in
Inghilterra e tentativi di impiantarla nel Nuovo mondo, che avrebbero ricevuto forza di
radicamento solo più tardi.
1: Il seme trapiantato attecchisce
In Francia, come abbiamo già visto, la vita monastica scomparve legalmente nel 1791. I
monaci della Trappa furono scacciati dal loro monastero nel giugno del 1792, ma un
piccolo nucleo della loro comunità stava già perpetuando il loro genere di vita nella
vicina e ospitale Svizzera. Che cosa avvenne di loro? É il caso di vederlo più in
dettaglio, dato che furono all'origine di un vasto movimento di rinascita.
I monaci rifugiati alla Valsanta vissero in grandissima povertà e carità, profondamente
uniti attorno a don Agostino. Fin dall'inizio e di comune accordo stabilirono dei
'Regolamenti' molto dettagliati, che superavano di gran lunga i già austeri regolamenti
dell'abate de Rancé: alla Valsanta il silenzio era assoluto, mancava il riscaldamento, il
cibo era costituito da pane, acqua e legumi bolliti, il sonno concesso era breve, il lavoro
manuale durava da cinque a sette ore, lasciando pochissimo tempo per la ' lectio', dato
anche l'eccesso di pratiche e di preghiere vocali. Tutta la vita era rigidamente e
minuziosamente regolata in vista della mortificazione del corpo.
Il bisogno della penitenza e della riparazione, richiesto dalla tragicità del tempo, ma
soprattutto l'influsso trascinatore di don Agostino, che aveva una personalità
affascinante, ma domi- natrice e molto sicura di sé, spinsero i rifugiati, in assoluta
buona fede, a darsi norme di vita mancanti di discrezione, mai approvate dalla S.Sede,
che ben presto crearono divisioni in seno alle stesse comunità originate dalla Valsanta.
Quasi subito infatti i rifugiati furono costretti a fare delle fondazioni, preparate in modo
molto affrettato. Il senato di Friburgo aveva concesso il diritto di asilo a soli
ventiquattro esuli, ma i postulanti affluivano numerosi e don Agostino non voleva
rimandarli: si trattava soprattutto di emigrati francesi, monaci, sacerdoti e laici che
desideravano riprendere o iniziare la vita monastica che non era possibile vivere
altrove.
Per non rischiare altre espulsioni, allarmando con il loro numero le autorità del
Cantone, i trappisti sciamarono in Spagna (Santa Susanna) e poi, nel vano tentativo di
raggiungere il Canada, si arrestarono vicino ad Anversa, fondando Westmalle (che
ripiegò subito dopo a Darfeld, in Westfalia). Un altro gruppo, sempre destinato al
Canada, si fermò in Inghilterra, fondando Lulworth, la cui comunità ritornò in seguito
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in Francia, occupando l'antico monastero di Melleray. Un ultimo gruppo tentò infine
una fondazione in Piemonte, a Mombracco.
Uomo del suo tempo, l'abate della Valsanta sentiva il bisogno di fare qualcosa di
socialmente 'utilÉ: nel 1794, con dei novizi di salute fragile, creò un Terz'Ordine
insegnante, per l'educazione di bambini poveri o orfani.
Nel 1796 fondò poi un monastero femminile a Sembrancher, nel Vallese, dove già aveva
mandato i monaci. 'La santa volontà di Dio' – tale era il nome del cenobio femminile –
contò ben presto più di sessanta monache a cui fu aggiunto il Terz'Ordine femminile.
2: l'incredibile odissea monastica
Nel frattempo la Svizzera, invasa dagli esuli, è messa alle strette dai rivoluzionari del
vicino paese e, dietro le pressioni del Direttorio repubblicano, i Cantoni espellono tutti
gli emigrati francesi. Nell'inverno del 1798 don Agostino, direttamente minacciato a
causa della presenza dei piccoli oblati "che ricevono un'educazione assolutamente
contraria ai principi repubblicani", anticipa l'espulsione con un'evacuazione volontaria.
Egli vuole raggiungere la Russia, che ritiene il solo paese dove poter condurre in pace la
vita monastica secondo i suoi 'Regolamenti', ma dichiara: "Fuggiremo, dal momento che
è necessario, ma fuggiremo in comunità."
Ha allora inizio la più straordinaria odissea monastica della storia, il cui racconto
sbalordì persino Napoleone: monaci, monache, membri del Terz'Ordine, bambine e
ragazzi, divisi in tre colonne, riunendosi in punti determinati e valendosi di tutti gli
appoggi ed influenze che la Provvidenza mette a loro disposizione, percorrono le strade
dell'Europa e ne navigano i fiumi per raggiungere la Bielorussia, attraverso la Baviera,
l'Austria, la Boemia e la Polonia.
Dopo aver stabilito almeno sei luoghi di residenza nella Russia bianca, i trappisti ne
sono espulsi nel marzo del 1800: lo zar Paolo I infatti si era stancato di appoggiare i
religiosi di cui non faceva più parte la principessa di Condé, sua protetta, che aveva
abbandonato l'Ordine prima della professione. D'altronde, pur aborrendo le idee
rivoluzionarie, egli desiderava avvicinarsi a Napoleone, i cui successi folgoranti non
potevano lasciarlo indifferente. Dal canto suo don Agostino, deluso dall'ospitalità russa,
voleva sfuggire alla giurisdizione del metropolita cattolico di Mohilev e tornava ad
accarezzare il suo vecchio sogno, mai spento, di raggiungere l'America. A Varsavia tutti
s'imbarcarono sulla Vistola fino a Danzica e poi per mare fino a Lubecca, stabilendosi
provvisoriamente in varie località: l'odissea monastica era durata quasi due anni.
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Alcune religiose furono inviate in Inghilterra, dove fondarono Stapehill, mentre il
sospirato permesso di stabilirsi in Canada veniva negato ai trappisti. Nel frattempo le
truppe francesi avevano evacuato la Svizzera e don Agostino ottenne il permesso di
ritornare con i suoi alla Valsanta, dopo aver inviato altri religiosi negli Stati Uniti.
Le fondazioni si susseguirono negli anni seguenti, ma il cambiamento di politica di
Napoleone, che era entrato in conflitto con il papa Pio VII fu causa di una nuova
dispersione. La ritrattazione del giuramento di fedeltà all'imperatore, imposta da don
Agostino ai trappisti di La Cervara, fondata nel 1804 sul golfo di Rapallo, provocò nel
luglio del 1811 un decreto di soppressione di tutti i conventi trappisti dell'impero,
compresa la Valsanta, dato che la comunità era composta quasi tutta da francesi.
Don Agostino, arrestato mentre a Bordeaux preparava la partenza di un nuovo
contingente per l'America, fu rilasciato grazie alle sue amicizie ma, avendo riparato in
Svizzera, fu ricercato e, per evitare la fucilazione, fuggì a Riga e, passando per
l'Inghilterra (dove era stato dato per morto e dove le monache di Stapehill avevano già
celebrato l'ufficio funebre), s'imbarcò per New York, ritrovando i trappisti inviati in
precedenza e recandosi poi in Luisiana, dove c'era un altro gruppo
dei suoi.
Secolo XIX - Il governo centrale restaurato.
Nuova separazione delle Congregazioni trappiste.
Fin dal 1814 Pio VII aveva restaurato l'abbazia di Casamari, di antica osservanza
trappista, perché fondata da Buonsollazzo, casa-figlia della Trappa, ma senza legame
con la Valsanta. Nel 1817 il papa aveva ridato vita anche a S. Croce in Gerusalemme e a
S. Bernardo alle Terme (antica casa dei foglianti), dando all'abate di S. Croce il titolo di
presidente generale dell'Ordine, con facoltà di confermare le elezioni abbaziali in tutti i
monasteri cistercensi, trappisti compresi. Nel 1820, con le due comunità romane e altri
monasteri italiani restaurati o che avevano potuto sussistere (Casamari e le sue
fondazioni costituirono un'entità a sé), nacque la nuova Congregazione italiana di S.
Bernardo, con le costituzioni adattate della vecchia Congregazione di LombardiaToscana.
A poco a poco, in mezzo alle contrastate vicende politiche del XIX secolo, sparivano le
Congregazioni spagnole e portoghesi, dissolte dal partito liberale che, frutto tardivo
della rivoluzione francese, aveva finito per assumere il potere. Nascevano invece la
nuova Congregazione della Comune Osservanza in Austria, comprendente anche
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monasteri di Boemia, Polonia e Ungheria. Veniva inoltre fondata la Congregazione di
Sénanque e in Belgio riprendeva vita il vicariato della Comune Osservanza di Cîteaux,
che di fatto era una vera e propria Congregazione.
La Congregazione della Trappa prosperava, ma le continue tensioni fra i due gruppi
unificati dei trappisti, che seguivano due osservanze distinte, nel 1847 crearono di
nuovo una separazione in due Congregazioni autonome: quella della Trappa e quella di
Sept-Fons, a cui si aggiungeva la Congregazione belga di Westmalle, anch'essa originata
dalla Valsanta. Il provvedimento era stato preso a malincuore da Pio IX, in vista della
conservazione della pace e della tranquillità degli spiriti. Subito dopo la separazione
infatti, anche a causa dei disordini politici del 1848, rinasceva insopprimibile il
desiderio dell'unione.
L'unione dei trappisti e la spaccatura dell'Ordine
Malgrado la separazione ormai secolare fra la Comune Osservanza e i trappisti e
nonostante le diverse osservanze che impedivano a questi ultimi di unirsi in un' unica
Congregazione, le relazioni erano buone: l'abate generale dell'Ordine aveva sui trappisti
un potere praticamente solo nominale e ogni Congregazione, avendo il suo vicario e il
suo Capitolo Generale proprio, evolveva pacificamente, espandendosi e accrescendo il
numero dei propri membri, pienamente libera di seguire l'osservanza che aveva scelto.
L'unità dell' Ordine era garantita dal legame giuridico dell' unico abate presidente,
anche se con poteri molto limitati. Nel 1869 le quattro Congregazioni della Comune
Osservanza tennero un Capitolo Generale a Roma, sotto la presidenza di don Teobaldo
Cesari, abate di S.Bernardo alle Terme, che aveva ottenuto la giurisdizione su tutti i
monasteri: era il primo Capitolo Generale dopo quello del 1786. Le Congregazioni
trappiste non vennero invitate e, cosa ancora più grave, si decise di eleggere un abate
generale, preso alternativamente da una delle Congregazioni della Comune
Osservanza, escludendo i trappisti. Si trattava certamente di un atteggiamento in parte
legittimo di auto-difesa: i trappisti erano più numerosi e i loro voti sarebbero stati
maggioritari. La stessa cosa si ripetè nel 1880, esacerbando gli animi e aumentando il
desiderio di indipendenza.
Sempre nel 1869 la partecipazione al Concilio Vaticano I, consentita solo ai superiori
generali, privava le Congregazioni trappiste del diritto ad una rappresentanza. Pio IX
risolse il conflitto riservando due posti ai vicari della nuova e dell'antica riforma delle
Congregazioni della Trappa.
71
I torti erano certamente più che condivisi: se da parte della Comune Osservanza ci
furono provocazioni e gravi mancanze di sensibilità, dall'altra parte ci fu, fin dal XVII
secolo, una tendenza separatista. L'abbazia della Trappa infatti apparteneva alla Stretta
Osservanza, ma l'abate de Rancé vi aveva operato a titolo personale una riforma nella
riforma, non approvata da alcuna delle due Osservanze. La distanza aumentò ancora
quando don Agostino di Lestrange introdusse alla Valsanta un'austerità che non
corrispondeva all' ideale cistercense e assunse atteggiamenti molto indipendenti
rispetto al resto dell'Ordine, in verità ridotto e frazionato, la cui autorità centrale era del
resto, in quell'epoca tragica, praticamente inesistente.
Con la rivoluzione francese la Stretta Osservanza era sparita, rivivendo soltanto nella
figlia della Trappa, la Valsanta, e nei suoi discendenti prodigiosamente moltiplicati, che
si ponevano però come un'entità 'a partÉ nell'Ordine di Cîteaux. Quest'entità, che nel
secolo XIX, come abbiamo visto, si era suddivisa in più Congregazioni con osservanze
leggermente diverse, era d'altra parte la più numerosa e la più vivace (nel 1864 le
monache e i monaci trappisti erano circa 2500) e non intendeva rinunciare ai propri
diritti, sottostando alla Comune Osservanza, che era minoritaria.
Un tentativo effettuato dalle tre Congregazioni trappiste nel 1878 di fondersi in una sola
Congregazione con alla testa un presidente generale non si realizzò: il progetto fu
esaminato e respinto, seguendo la proposta del padre Bianchi, consultore della sacra
Congregazione dei vescovi e dei regolari, che aveva avanzato le seguenti ragioni:
-
dato che le Congregazioni trappiste non hanno una finalità differente e non
usano mezzi essenzialmente distinti dall'Ordine cistercense,
-
dato che la Comune Ossservanza lascia i trappisti completamente liberi di
seguire la loro, non è opportuno che si formino due Ordini indipendenti, anche
se è auspicabile che le Congregazioni trappiste si uniscano.
-
L'abate generale stabilito dalla S.Sede sopra tutti i monasteri dell'Ordine come
unico erede legittimo degli antichi abati di Cîteaux ha sui trappisti un'autorità
solo nominale: si accontentino quindi questi di essere retti da un vicario generale.
Malgrado la saggezza della proposta che, con il tempo, la conoscenza mutua e un
dialogo fraterno e sincero, avrebbe potuto portare ad una unità più rispettosa dei diritti
e delle differenze, i due gruppi della Comune Osservanza e dei trappisti, che si
richiamavano alla stessa origine, con un'identica finalità e con un patrimonio comune,
ma distinti a causa della loro storia e delle osservanze, giunsero a formare due Ordini,
ciascuno dei quali si riteneva ' il vero Ordine cistercense’, erede legittimo di Cîteaux del
XII secolo.
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Come affermò lo stesso papa nella lettera apostolica ' Non mediocri ' del 30 luglio 1902,
l'unico Ordine cistercense si trasformò nella Famiglia cistercense composta di due
Ordini.
1: Il Capitolo dell'unione del 1892
Il rapporto Bianchi si augurava " che le circostanze permettano un giorno di unire più
strettamente fra loro i membri dispersi di Cîteaux, per rendere a questo grande corpo il
vigore e la vita nell'unità. Senza dubbio non è ancora tempo di realizzare una riunione
così desiderabile..., ma le due parti, camminando l'una accanto all'altra senza essere
completamente separate, si daranno a vicenda un esempio salutare. Ci è gradito sperare
che il vecchio Cîteaux, vedendo sua figlia la Trappa piena di ardore e di zelo, si
risveglierà dal suo torpore e la Trappa a sua volta potrà raccogliere negli antichi
monasteri della Comune Osservanza ciò che vi resta ancora di quello spirito di cui ella
non ha ancora la perfezione..."
La cosa restò lì: né unione fra le Congregazioni trappiste, né separazione dalla Comune
Osservanza. Questa, nel Capitolo Generale di Vienna del 1880, ancora una volta non
invitò i trappisti, che invece impararono a conoscersi e a sdrammatizzare le differenze
delle loro osservanze specialmente durante le feste per l'ottavo centenario della nascita
di S. Bernardo, disertate dalla Comune Osservanza a causa del Capitolo Generale in
corso, in cui si doveva eleggere un nuovo abate generale.
L'appoggio o, a quanto pare, addirittura il desiderio di Leone XIII, che vedeva
nell'unione delle Congregazioni trappiste una forza contro le minacce anticlericali
francesi, la nomina nel 1891 di un abate generale tedesco che succedeva ai due italiani
con cui i trappisti avevano mantenuto buone relazioni ed infine la spinta di don
Sebastiano Wyart, ex-zuavo pontificio di Pio IX e vicario generale della Congregazione
di Sept-Fons furono determinanti per la riunificazione, che avvenne rapidamente,
nonostante le esitazioni durate fino alla vigilia del Capitolo.
Un decreto di Leone XIII convocava a Roma per il 1° ottobre 1892 gli abati, superiori o
priori delle osservanze di Casamari, Westmalle, Sept-Fons e Melleray (il vicario
generale della Congregazione della Trappa era allora don Eugenio di Melleray) in vista
dell'unione. Questa fu decisa con 47 voti su 52 e sancì la riunione delle due
Congregazioni francesi e di quella belga, avendo Casamari preferito astenersi, dato che
voleva conservare la propria indipendenza.
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Autonoma, la nuova Congregazione, chiamata 'Ordine dei cistercensi riformati di N.S.
della Trappa', avrebbe avuto un abate generale proprio, eletto a vita e residente a Roma.
Nel Capitolo Generale del 1893 si elaborarono le nuove costituzioni e in quello
dell'anno successivo si redassero gli usi.
2: Tentativi di riunificazione
La separazione dei due rami cistercensi, quasi inevitabile se si considera la logica dei
diversi fattori, in gran parte frutti della guerra delle osservanze del XVII secolo, era
considerata dai loro autori come totale e definitiva? Pare proprio di no. I trappisti, che
avevano preso l'iniziativa dell'unione-separazione del 1892, ora erano compatti, con
costituzioni approvate ed usi propri. Non erano più esasperati dal rifiuto di farli
partecipare ai Capitoli Generali e la loro sensibilità non era più ferita dalla privazione
anche della voce passiva nell'elezione della carica di abate generale. Con l'autonomia
dei due rami si era anche superato l'acceso nazionalismo che, alla fine del secolo XIX,
opponeva i trappisti francesi alla Comune Osservanza tedesca.
Dopo aver tentato invano di recuperare S. Croce in Gerusalemme come sede romana
del loro abate generale, nel 1895 cominciarono i tentativi per rioccupare Cîteaux. Si
avvicinava l'ottavo centenario della fondazione dell'Ordine: perché non raggruppare
intorno alla madre comune tutti i cistercensi di ogni luogo e di ogni osservanza? La
Congregazione di Sénanque si dimostrava molto favorevole alla proposta di
riunificazione, che venne presentata nel Capitolo Generale della Comune Osservanza
del 1897, che si tenne a Hohenfurt. Il papa appoggiava la cosa, che però venne rifiutata
dai capitolari, a causa di un comprensibile timore di venire in pratica assorbiti dai
cistercensi riformati.
3: Cîteaux restaurato
La restaurazione del monastero di Cîteaux avvenne soprattutto grazie agli sforzi uniti
dell'abate generale don Sebastiano Wyart e di don Giovanni Battista Chautard, excellerario di Aiguebelle e successivamente abate di Chambarand e di Sept-Fonts.
Il vescovo di Digione, monsignor Oury, spingeva la cosa, ma desiderava che i trappisti
assumessero la direzione delle opere educative dei proprietari dell'epoca, i fratelli di
S.Giuseppe, fondati dal padre Rey. Era impossibile assecondare il desiderio del vescovo
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e la faccenda si trascinava, data la povertà delle case trappiste, che non erano in grado
di acquistare da sole gli edifici e la proprietà di quattrocento ettari.
Nell'estate del 1898 l'abate generale chiama d'urgenza don Chautard e gli ricorda tutti i
tentativi fatti già dal 1895 per riscattare Cîteaux: ora però tutto sta per naufragare,
perché la municipalità pensa di acquistarlo per farne una scuola di equitazione o di
agricoltura. Il prezzo richiesto e le condizioni poste sono esorbitanti, dato che i fratelli
di S. Giuseppe sono carichi di debiti che vogliono pagare con il ricavato della vendita: la
speranza di recuperare la casa-madre sta per perdersi definitivamente.
Don Chautard, amministratore abilissimo, accetta di prendere in mano la cosa, si
assicura immediatamente la precedenza sulla prefettura e persuade la baronessa De
Rochetaillée ad acquistare Cîteaux. La benefattrice compra la proprietà e ne cede l'uso ai
monaci.
Don Chautard, guidato dal famoso Monsieur Guignard, conservatore della biblioteca di
Digione, cerca la località esatta del monastero primitivo. Vuole trovare la posizione
della chiesa, del chiostro, del noviziato e scoprire anche il luogo dove S. Bernardo fu
ricevuto da S. Stefano.
Dopo centosette anni di assenza Cîteaux ospita di nuovo, anche se come locatari e non
proprietari, i monaci cistercensi e diviene sede e titolo dell'abate generale dell'Ordine di
N.S. della Trappa.
Ma perché 'della Trappa'? Ha ancora senso chiamare così l'Ordine? La costituzione
apostolica 'Haud mediocri sane’ del 30 luglio 1902 restituisce ai trappisti il nome più
appropriato di 'Ordine dei cistercensi riformati o della stretta osservanza'.
Di questo secolo presento due figure emblematiche: una della prima metà e l’altra della
seconda metà del secolo.
EUGENIO BONHOMME DI LAPRADE
Il 16 giugno 1816, a Borsut, in Belgio, dove si erano rifugiate provvisoriamente le
monache trappiste, moriva don Eugenio Bonhomme di Laprade, abate di Darfeld.
Nobile per nascita (era nato a Carcassonne nel 1764), aveva vissuto alla corte di Luigi
XVI come paggio ed era sul punto di venire nominato ufficiale quando decise di entrare
alla Trappa. Ancora giovane professo però, nell’autunno del 1791, raggiunse don
Agostino alla Valsanta dove fu esempio non comune per virtù e sostegno non
indifferente alla comunità, soprattutto quando fu nominato sottomaestro dei novizi.
Poiché le vocazioni erano abbondanti, don Agostino pensò di inviarlo, assieme ad
alcuni fratelli, nel Québec, in Canada, per farvi una fondazione, dal momento che si
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trattava di un paese dove il cattolicesimo si stava espandendo e dove si parlava
francese. Prima però di riuscire ad imbarcarsi per l'America, Eugenio fu trattenuto dal
vescovo di Anversa, che desiderava i trappisti nella sua diocesi e fondò in Belgio il
monastero di Westmalle.
Quando, dopo appena qualche settimana dalla fondazione, i francesi invasero anche il
Belgio, i monaci lasciarono il paese e trovarono rifugio presso il monastero cistercense
di Marienfeld, in Germania. Lì alcuni fratelli, per ordine di don Agostino, presero la via
dell'Inghilterra, dove contribuirono a dar vita al monastero di Lulworth, mentre il resto
della comunità fondò a sua volta nel 1795 il monastero di Darfeld, avendo alla sua testa
come priore don Eugenio, che aveva solo 31 anni.
Don Agostino attingeva continuamente da Darfeld aiuti economici e personale. Don
Eugenio, con una generosità incredibile, lo assecondava: “Quello che ho, glielo do”, gli
scriveva. Nel 1806 don Agostino, trovando qualche resistenza e credendosi tradito,
tentò perfino di rimuovere don Eugenio dalla sua carica. Con le maniere spicce che lo
caratterizzavano, diede ordine a don Eugenio, che si trovava in Inghilterra per
raccogliere fondi, di rientrare alla Valsanta. Intanto a Darfeld si presentava don
Armando Lévêque, che a nome di don Agostino veniva a prendere la successione e a
rimandare alla Valsanta 5 o 6 monaci fra i più dotati. L'appoggio incondizionato della
comunità che amava tantissimo il suo superiore, vari interventi di laici e di ecclesiastici
vicini al monastero e la delicatezza di colui che don Agostino aveva mandato a
sostituire il superiore recalcitrante, fecero sì che il tentativo non riuscisse. Intervenne il
nunzio e Roma diede ragione ai monaci di Darfeld: il monastero fu sottratto alla
giurisdizione della Valsanta ed eretto in abbazia. Don Eugenio fu eletto abate, e don
Armando, che nelle intenzioni di Don Agostino avrebbe dovuto prendere il suo posto,
chiese di rimanere come membro della comunità. Don Eugenio ne fece il suo priore.
Con l'autorizzazione di Pio VII il nuovo abate, che aveva un grandissimo amore per la
Chiesa e grande devozione e deferenza per la S. Sede, riprese le costituzioni di de
Rancé, sopprimendo tutte le severe novità introdotte alla Valsanta, che non erano state
approvate dalla gerarchia ecclesiastica. Questo scisse i trappisti in due osservanze e la
frattura, malgrado tentativi sporadici per eliminare la separazione, durò fino all'unione
del 1892. Nonostante la divergenza nella questione delle osservanze, Don Eugenio cercò
sempre la concordia nell’ambito delle case della Riforma. Resse la carica di abate fino
alla morte con grandissima carità, umiltà e mitezza. Provvide ai bisogni non piccoli
della nuova comunità con sollecitudine veramente paterna, dandosi da fare presso
amici nobili o influenti ecclesiastici, cosicché un po' alla volta le baracche col tetto di
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paglia che i monaci avevano eretto, chiamando, non senza umorismo, il fragile
monastero ' N.S. dell'eternità ', lasciarono il posto a edifici in muratura. Il monastero
godette di un quinquennio di tranquillità e prosperità sempre crescenti. Egli cedette la
casa alle monache e si stabilì a Burloo: nel 1810 la comunità contava 70 religiosi.
Sotto Napoleone, anche la comunità di Darfeld fu dispersa, formando piccoli gruppi a
Munster, Colonia e Aix-la Chapelle per non attirare l’attenzione delle autorità, ma
soprattutto nel castello di Borsut. Quando nel 1814 i religiosi poterono pensare di far
ritorno in Francia, don Eugenio iniziò l'acquisto dell'abbazia della Trappa, che era il
monastero in cui era entrato. I tentativi riuscirono ma, con un sentimento di deferenza e
di generosità che torna a suo onore, Don Eugenio cedette la Trappa a don Agostino di
Lestrange, che era 'il più anziano abate della riforma'. E questo perché – come egli stesso
scrive – “in ogni cosa noi dobbiamo proporci la più grande gloria di Dio e la salvezza
delle anime e la carità deve essere il principio delle nostre azioni”. Nel 1815 egli invia
un gruppo di religiosi a Port du Salut, che sarà il primo monastero trappista a
riprendere vita in Francia dopo la rivoluzione. Anche le monache rientreranno e
fonderanno la comunità di Avesnière (che poi si trasferirà a Laval). Darfeld e Burloo si
ripopolarono, ma furono nuovamente disperse a causa dell’intolleranza del re di
Prussia Federico-Guglielmo III. Don Eugenio, benché gravemente malato, si mise alla
ricerca di un'altra casa per la comunità, ma lungo il viaggio soccombette alla malattia e
alla fatica all'età di cinquantadue anni. L'anno successivo alla sua morte i professi
francesi di Darfeld si raggrupperanno a Gard, che nel 1845 si trasferirà a Sept-Fons. I
professi di lingua tedesca rimasti in Westfalia, nel 1825 passeranno ad Oelemberg per
sfuggire all'amministrazione prussiana. I resti di don Eugenio furono trasferiti a SeptFons.
(Hag.672 / J.Bouton, Hist. de l'Ordre, pp. 415-16; 426-27 / B.Martelet, Coll. O.C.R. 1948,
pp. 199-209)
EFREM SEIGNOL (1837-1893)
Efrem Seignol fu il fondatore del monastero di Yang-Kia-Ping, in Cina.
Nato nel 1837 in Francia da una famiglia molto religiosa, entrò a diciassette anni a SeptFons, dopo aver letto la biografia di Padre Maria Efrem Ferrer, monaco di Aiguebelle,
deceduto prematuramente, di cui voleva seguire le orme.
Mandato a ripopolare Tamié, fu eletto priore nel 1875 ma, espulso insieme agli altri
monaci in seguito alla persecuzione del 1880, fu designato per fondare un monastero
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dell'Ordine in Cina. Infatti monsignor Delaplace, vicario apostolico di Pechino,
appoggiato da Propaganda Fide, aveva chiesto una fondazione di trappisti all'abate di
Sept-Fons, che era vicario della sua Congregazione. Questi affidò la missione a padre
Efrem, che si unì come compagno Fra Giuseppe Pavin, converso di Tamié.
Prima di partire si recò a Torino dal suo amico don Bosco. "Quale nome mi consiglia per
la mia piccola fondazione in Cina?", gli domandò. "Nostra Signora della Consolazione",
rispose il santo e su una piccola immagine della Consolata di Torino, che si conservava
devotamente alla Trappa di Yang-Kia-Ping, scrisse: "Che Dio benedica lei, le sue opere e
che la S. Vergine la protegga sempre!".
La partenza avvenne nel febbraio del 1883 e il Capitolo Generale della Congregazione
nell'agosto successivo ratificò giuridicamente la fondazione, che si realizzò a prezzo di
innumerevoli fatiche e difficoltà; i due fondatori furono raggiunti da altri tre monaci (2
di Tamié e 1 di Sept-Fons). Tre anni dopo, quando la fondazione cominciava a fiorire,
padre Efrem, che era un monaco santo, ma già malato e non buon organizzatore, fu
rimosso dalla carica in modo poco retto e delicato. Egli sopportò tutto pazientemente e
non approfittò del permesso che gli era stato dato di tornare in Francia, volendo essere
fedele fino alla morte alla sua vocazione di monaco-missionario.
Per la sua umiltà e il suo spirito di sacrificio, spinti fino all'eroismo, divenne veramente
fondatore del nuovo monastero.
Continuò a vivere sparendo nella vita comune, dapprima come sottopriore, lavorando
nella sacrestia, poi in refettorio e da ultimo al bucato e nella pulizia dei gabinetti,
sempre sereno, lieto, affabile con tutti e perfettamente obbediente al nuovo priore,
molto più giovane di lui. Gli parlava sempre in ginocchio e, nonostante questi avesse un
modo di governare totalmente differente dal suo, non si lasciò mai sfuggire una parola
di disapprovazione. Esortava invece tutti a venerare e ad obbedire al superiore, che era
molto capace e che, nel 1891, divenne il primo abate di N. S. della Consolazione. Non
faceva nulla senza il suo permesso e faceva volentieri le penitenze pubbliche che erano
in uso a quel tempo.
Soffrì molto, soprattutto negli ultimi mesi e morì santamente il 12 agosto 1893. Alla sua
morte, sia gli estranei che i familiari, che lo consideravano santo, andarono a gara nel
chiedere reliquie. Fu il primo ad essere sepolto nel cimitero del monastero. Aveva
cinquantasei anni.
Nessuno certamente aprirà il processo di canonizzazione del padre Efrem, ma se mezzo
secolo più tardi la comunità di N.S. della Consolazione diede alla Chiesa trentatré
martiri, il merito va anche a quest'umile fondatore che si lanciò con un solo compagno
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in un'impresa così ardua e che accettò di essere messo da parte, quando già apparivano
i primi frutti del suo lavoro.
(Hag.733 / P.Paolino Beltrame Quattrocchi: "Monaci nella tormenta", Cîteaux 1991, pp.
24.26-28)
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Il XX secolo : il secolo missionario
Nel ventesimo secolo si accelera il movimento espansionistico già iniziato nel secolo
precedente: Cîteaux, nelle due espressioni della Stretta e della Comune Osservanza,
diventa mondiale.
Per la Stretta Osservanza l'unione del 1892 segna un distanziamento rispetto a de Rancé
e un ritorno all'antico Cîteaux, sia nel governo e nelle strutture che nella vita spirituale
dei monaci. I monasteri, ristabiliti sotto il regime della Carta di carità, sono legati dal
sistema della filiazione, hanno come autorità suprema il Capitolo Generale e sono
presieduti e rappresentati da un abate generale.
Hanno una ben precisa uniformità di osservanze, garantita dalla sorveglianza e dalla
supervisione del Capitolo Generale e dalle visite del padre immediato. L'Ordine è
strettamente contemplativo, non ammettendo se non in casi eccezionali opere esterne.
La crescita numerica e l'espansione geografica continuano, ma i monasteri sono spesso
poveri e devono affiancare al tradizionale lavoro dei campi attività artigianali o piccole
industrie, come formaggerie, distillerie o tipografie.
Anche la Comune Osservanza si sviluppa: già nel 1891 si era formata la Congregazione
svizzero-tedesca di Mehrerau; in seguito alle vicende politiche che avevano fatto
sorgere il nuovo stato della Cecoslovacchia si costituisce la Congregazione del Cuore
Immacolato di Maria e, nel 1923, si crea attorno all'abbazia di Zirc la fiorente
Congregazione ungherese. Nel 1929 Casamari, con i tre monasteri che ne dipendono,
entra nella Comune Osservanza e dà prova di molta vitalità, fondando otto monasteri in
Italia e due in Etiopia, che seguono il rito copto. Nel 1933 è incorporato alla Comune
Osservanza il monastero vietnamita di Phuoc-Son, che si sviluppa tanto da formare in
seguito la Congregazione della Sacra Famiglia nel Viet-Nam.
Queste Congregazioni hanno carattere prevalentemente nazionale, con usi propri. Pur
conservando l'essenziale della vita monastica, la Comune Osservanza si dedica al
ministero pastorale e all'insegnamento (tranne la Congregazione di Lérins-Sénanque,
contemplativa) ed è spiccatamente pluralista.
Nei primi decenni del secolo la vita eroica dei monaci e delle monache, la loro fedeltà, il
loro amore fraterno, in una parola la loro santità, per la massima parte nascosta e
dimenticata, fu l'anima del rinnovamento dei due Ordini cistercensi.
Negli anni che precedettero la seconda guerra mondiale, alcuni maestri spirituali
contribuirono a liberare la Stretta Osservanza dal rigorismo che aveva caratterizzato i
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monasteri trappisti del XIX secolo, recuperando lo spirito autentico del primitivo
Cîteaux.
La preghiera, l'interiorità, lo spirito di fede e d'amore riebbero la precedenza sulle
osservanze monastiche, che rimasero robuste, ma che riacquistarono la loro funzione di
semplici mezzi.
L'influenza profonda e durevole di don Chautard, don Lehodey, don Le Bail diede ai
cistercensi riformati lo slancio contemplativo che li trasformò da penitenti devoti in
monaci più unificati, cultori della propria ricca tradizione spirituale e capaci di riviverla
e di riproporla nelle mutate condizioni del loro tempo.
Don Lehodey e i santi monaci e conversi di Bricquebec impostarono tutta la loro vita
spirituale sulla semplicità e la fiducia in Dio: la via dell'abbandono. La vita e la dottrina
di don Vitale sono sintetizzate in questo testo dell'Autobiografia: "Avevo cercato la
santità dapprima nelle austerità e, certo, esse hanno il loro prezzo e noi dobbiamo
portarle con amore; più tardi ho creduto di trovarla nelle vie della preghiera,
nell'unione più intima di spirito e di cuore con Dio e questo è stato un vero progresso;
ora, però, io mi sforzo di ottenere la santità per mezzo della santa piccolezza, con
l'obbedienza filiale e l'abbandono fiducioso. Certamente è molto meglio. C'è qualcosa
che supera questo atteggiamento? Fino a questo momento io credo di no". Alla sua
scuola, la comunità di Bricquebec produsse una fioritura notevole di santi.
Il periodo preconciliare
In questo periodo di transizione molte figure, specialmente dell'Ordine dei trappisti,
precorsero i tempi, incarnando in maniera nuova valori evangelici dimenticati o
mettendone in risalto aspetti non ancora abbastanza scoperti. Una superiora italiana fu
emula della grande badessa di Maubuisson del XVII secolo, Ludovica Olandina, tutta
tesa a riconciliare cattolici e luterani. Era stata conquistata all'ideale ecumenico da una
giovane malaticcia, che finirà i suoi giorni come oblata in un monastero francese. La
badessa è M. Pia Gullini e l’oblata è Henriette Ferrari.
Un grandissimo abate generale, D. Gabriel Sortais, segnerà il suo Ordine con le sue
innovazioni audaci, rompendo tradizioni ormai secolari e riportando le comunità,
mediante un sapiente equilibrio di vita, ad un maggior spirito contemplativo, fatto di
abbandono filiale e di rigorosa fedeltà al carisma dei fondatori.
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Thomas Merton, un monaco scrittore universalmente conosciuto, nella sua complessa e
inquieta ricerca spirituale, tradusse la sua esperienza in un linguaggio adatto ai
contemporanei e aprì orizzonti di dialogo inter-religioso.
La seconda guerra mondiale pesò gravemente sugli Ordini cistercensi, dando alla
Chiesa diversi martiri; del resto, la rivoluzione spagnola del 1936 aveva già chiesto un
contributo di sangue ai monaci di Viaceli e alle monache di Algemesí. L’Europa dell' Est
passò progressivamente sotto il regime comunista e numerosi monasteri furono chiusi,
soprattutto in Cecoslovacchia e in Ungheria: più di duecento monaci furono dispersi e
un certo numero di loro conobbe la prigione o i campi di concentramento. Anche nel
Viet-Nam le comunità soffrirono la persecuzione, ma furono i monasteri della Cina
quelli che pagarono il prezzo più alto alle guerre civili e alla rivoluzione comunista: 33
membri di N. S. della Consolazione e 2 padri di N. S. di Liesse morirono martiri.
P. PIO HEREDIA
P. Pio è il capofila dei martiri di Viaceli. Ripercorro brevemente la sua vita e poi vi
parlo, non del suo secondo martirio - quello definitivo, su cui è già stato pubblicato
recentemente un libretto - ma del primo – incruento - ignorato dai più, che mi offre
l’occasione di tracciare le linee maestre della sua spiritualità soprattutto mariana.
Julian Heredia nacque il 16 febbraio 1875 ed entrò a 14 anni nel monastero di Val de
San José – che nel 1927 si trasferirà, costituendo l’attuale comunità de La Oliva. Fece la
vestizione a 15 anni e la prima professione a 19. A ventidue anni era già professo
solenne e sacerdote a 24. Egli diceva: “Ci sono di quelli che entrano bambini e diventano
uomini; di quelli che entrano uomini e diventano bambini; e di quelli che rimangono sempre
bambini”. Di lui possiamo dire che, entrato bambino divenne uomo, per poi ridivenire
bambino nel senso evangelico, come conquista spirituale pagata a durissimo prezzo.
A Val San José, come cantore, riuscì a portare il coro ad un buon livello di esecuzione;
fu professore e maestro dei conversi; in seguito secondo superiore e maestro dei novizi;
fu anche confessore della maggior parte della comunità A 38 anni, nel 1913, divenne
superiore, mantenendo anche in gran parte gli incarichi precedenti, data la scarsezza
del personale: dormiva 5 ore per notte, preparando dopo Compieta i corsi e i capitoli e
sbrigando la corrispondenza.
Uomo di pace e di preghiera, con una solida formazione teologica e monastica, si trovò
a guidare una comunità non facile: conversi e novizi gli erano sinceramente affezionati,
ma tra i coristi c’erano alcuni monaci che lo avversavano. Amabile, discreto, fermo e
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indulgente nello stesso tempo, egli faceva opera di pace e di unità ed era considerato
dai più come la personificazione di S. Francesco di Sales.
Alla fine del 1917, dopo quasi 5 anni di governo, sopravvenne la crisi, che ebbe aspetti
desolatamente meschini e quasi impensabili in uomini che avevano dedicato la loro vita
al Signore. Accenno ai fatti principali, lasciando parlare il P. Immediato, D. André Malet
di N. S. del Deserto. Egli ne traccia una relazione nel luglio del 1922, che invia a D.
Norbert Sauvage, all’epoca Procuratore dell’Ordine. In quel momento P. Pío era ormai
a Viaceli da più di 4 anni e vi aveva fatto una nuova stabilità, divenendo il braccio
destro del superiore, D. Manuel Fleché. Che cosa chiedeva D. Malet al Procuratore?
Trasmetteva una supplica della comunità di Val San José, che rivoleva indietro il suo
superiore. Traduco la supplica: “I capitolanti della comunità di Val San José supplicano
il R. P. Visitatore di fare le pratiche necessarie per ottenere il ritorno di colui che fu loro
superiore, il R. P. Pío Heredia. Questa petizione è fondata sul fatto che
1° data la falsità dell’accusa mossa a P. Pio, il capitolo conventuale crederebbe di
mancare al suo dovere se non cercasse di reintegrare P. Pio nella sua carica.
2° Dato che P. Pio è figlio di questa casa e conosce bene le necessità e gli usi della
comunità, la sua direzione non può che essere fruttuosa per le anime.
3° I religiosi che furono causa della partenza di P. Pio sono morti”.
Questo richiamo di P. Pío alla sua comunità d’origine si prolungherà con insistenza
durante 16 anni (fino al 1934!), ma né P. Pio, né – soprattutto - Dom Fleché vollero mai
accondiscendere al ritorno: l’abate di Viaceli diceva che, per una dubbiosa
sopravvivenza di Val San José, non si poteva rischiare di far morire Viaceli, la cui
prosperità era in parte dovuta e legata alla saggezza e alla santità del suo Priore, P. Pio.
All’origine del passaggio da Val San José a Viaceli, che fu una prova tremenda
permessa dalla Provvidenza per la santificazione di P. Pio e da lui mirabilmente
accettata, ci fu quindi una falsa denuncia, in seguito ritrattata da uno dei denunciatori
succube di un altro, che aveva agito per vendetta. I particolari sono squallidi, ma ve li
accenno perché sono tali da toccare la fibra più intima di un uomo nella sua
reputazione, la cui distruzione attraverso la calunnia costituisce un vero e proprio
martirio.
Oltre ad un altro che non avrebbe mai dovuto farsi monaco, c’era in comunità un
povero religioso, sacerdote, che era stato sempre una croce per tutti i superiori:
nevrastenico, malato di scrupoli, viveva quasi sempre all’infermeria e cercava di far
saltare i superiori scrivendo al P. Immediato, al P. Generale o alla Santa Sede. Egli era
divenuto il confessore del suo infermiere, un monaco forse non cattivo, ma sempliciotto,
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suggestionabile e con problemi non risolti. Questi aveva riferito al malato, suo attuale
confessore, che 7 o 8 anni prima P. Pio, che in quel tempo era suo confessore, gli aveva
detto più volte in confessione alcune parole volte a risolvere un suo problema. Queste
parole, dettate probabilmente da troppo zelo e quindi imprudenti, lo avevano turbato,
invece di risolvere la situazione. Il monaco nevrastenico e vendicativo non aspettava
occasione migliore: obbligò il suo penitente a scrivere immediatamente al Santo Uffizio
per denunciare P. Pio e iniziò una campagna denigratoria in comunità, seminandovi la
zizzania. P. Pio, sbalordito e sconcertato di fronte a tanta malizia, si rifugiò nella
preghiera: abbiamo gli appunti dei suoi Esercizi spirituali mentre infieriva la tempesta.
Si era nel 1917, c’era la guerra, il P. Immediato non poté visitare subito la comunità. Ci
fu un processo canonico, ma non sappiamo se P. Pio fu convocato a Roma, perché a
quei tempi il santo Uffizio andava per le spicce. La cosa rimase riservata fra l’accusato,
Mons. Marre, e il tribunale ecclesiastico: né il Capitolo Generale, né il Definitorio, né il
Procuratore, seppero qualcosa della questione. Ci fu senz’altro una dichiarazione di P.
Pio, che ammetteva la sua imprudenza, un’ammonizione e forse una sanzione da parte
del Santo Uffizio (probabilmente una sospensione per qualche mese della facoltà di
confessare). Quello che è certo è che la Santa Sede non obbligò P. Pio a dare le
dimissioni: egli le diede spontaneamente, dietro consiglio del P. Immediato, sperando
di poter rimanere nella sua comunità che amava, ma D. Malet, per calmare gli animi,
preferì inviarlo nella fondazione di Viaceli. Partì in silenzio, nel disonore, lasciando
nella tristezza la parte buona della comunità, che non capiva quello che stava
succedendo.
Arrivato a Viaceli, dove i monaci seppero le ragioni della sua venuta solo dopo la sua
morte, vi fece stabilità dopo un anno, nominato subito Maestro dei novizi. Egli parlò
sempre bene della sua comunità d’origine e dei suoi confratelli.
Nel frattempo a Val San José un monaco che gli era molto contrario e che anche lui
sobillava gli altri, lasciava l’Ordine; l’infermiere che lo aveva denunciato ritrattava tutto
e moriva poi improvvisamente in seguito ad un incidente banale. Il Visitatore aveva
riconosciuto
la verità dei fatti, ma si mosse purtroppo tardivamente: dichiarò
pubblicamente il nome dell’istigatore della denuncia il quale, in preda a scrupoli e alla
sua nevrastenia, non potendo essere punito severamente a causa dell’età avanzata, si
vide togliere l’abito di professo e dovette rivestire quello di oblato.
Chiediamoci come P. Pio abbia potuto superare la durissima prova con serenità,
facendone anzi un motivo di crescita spirituale. Leggendo le sue lettere di direzione
spirituale, che sono gli unici suoi scritti rimastici dopo la distruzione degli archivi di
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Viaceli nella tragedia del 1936, la risposta non è difficile: egli visse la fede nella
Provvidenza di Dio e il perdono in grado eroico. Cristiano e monaco fino al midollo, la
sua pietà era trinitaria, cristocentrica e mariana, solidamente radicata nella liturgia. A
Viaceli fece crescere generazioni di monaci, si occupò anche di gruppi di laici impegnati
e diresse numerose persone e molte comunità cistercensi femminili. “Sono convinto che
cooperare, anche solo un poco, alla santificazione di un’anima è l’opera più divina che possiamo
compiere sulla terra” (L. 17). Egli però sapeva bene che poteva santificare gli altri solo
nella misura in cui santificava se stesso, perché nessuno dà quello che non ha. Il suo
programma erano le parole evangeliche: Vos in Me et Ego in vobis… cum Maria. Da buon
cistercense, l’umanità di Cristo e l’opera di santificazione mediante il suo Spirito erano
al centro della sua spiritualità, ma ora vorrei sottolineare soprattutto il suo amore filiale
per Maria. La sua vita mariana era però fortemente radicata nella Sacra Scrittura e nella
liturgia. Diceva che noi siamo di Maria per essere di più di Gesù. Tutto attraverso
Maria.
“La Sacra Scrittura può aiutarti molto a vivere la vita liturgica propria del nostro Ordine…Qui
sta la nostra vera spiritualità: deve essere questo il nutrimento della nostra vita cistercense
mariana, perché in tutta questa ammirevole e celeste dottrina appaiono Gesù e lo Spirito Santo
che vengono verso di noi e sempre con l’intervento materno di Maria” (L. 99).
“É cosa buona pregare Maria e anche ricorrere a lei quando siamo in pericolo o tentati. Ma non è
sufficiente: Maria è più di tutto questo. Ella influisce molto più direttamente nella santificazione
delle anime: per la sua prerogativa di Madre della grazia, ella comunica ad ogni anima questo
dono prezioso, cioè la stessa vita spirituale dell’anima (L. 37)…La formazione di Gesù in noi si fa
mediante Maria e il suo sviluppo e la sua crescita mediante la nostra cooperazione all’azione
materna di Maria…Come farlo? Bisogna innanzi tutto rimuovere gli ostacoli volontari al
continuo sviluppo di Gesù nelle nostre anime, perché peccati commessi di proposito, una vita
dissipata e soprattutto la mancanza di carità verso il prossimo paralizzano quasi completamente
la nostra crescita spirituale. Dobbiamo familiarizzarci con l’idea che la Vergine opera questa
formazione di Gesù in noi, porci a sua disposizione in tutto quello che facciamo con l’intenzione
rinnovata di riprodurre Gesù in ogni nostro comportamento e sempre sotto lo sguardo della
Madre, che compie quasi tutta l’opera, e sotto la sua direzione.
Sto scrivendo tutto questo, figlia mia, con il più profondo gaudio dell’anima mia, ma non riesco
ad esprimere tutto quello che sento. La Vergine farà lei e, silenziosamente, ti insegnerà ad unirti
a lei con tutto il tuo pensare, volere e operare per riprodurre in te Gesù, affinché si compia la
duplice espressione dello stesso Signore: ‘Voi in me e io in voi’ …” Riconosciamo la dottrina
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di Guerrico d’Igny: la formazione di Cristo in noi per mezzo di Maria. Questa lettera (L.
48) fu scritta da Santander nell’autunno del 1936, poco prima del martirio.
“...Confórmati in tutto alla SS. Vergine, prendendola non solo come Madre e modello, ma come
forma, come stampo, che è qualcosa di più. Perché un modello è qualcosa al di fuori di noi, che ci
sforziamo di imitare, facendo una specie di copia, mentre lo stampo indica un esemplare che mi
riceve all’interno di sé e alle cui esigenze devo conformare tutti i miei atti interni ed esterni.
Maria servì di stampo ad un uomo che era contemporaneamente Dio. Ella continua la sua opera,
formando nella santità coloro che aspirano a trasformarsi in Dio (L. 38)…
“É cosa certa che, nella misura in cui ci distacchiamo dalle creature e soprattutto da noi stessi,
sentiamo un’attrattiva più grande per Dio…Se cerchiamo Dio in Maria, quest’attrattiva per il
divino arriverà ad invadere tutto il nostro essere profondo e ci farà sperimentare la verità del
regno di Dio, che sta dentro di noi…Vivere con l’umile serva del Signore e non essere umili è
impossibile: o si lascia Maria o si lascia l’orgoglio”(L.40)…Il segreto della vita spirituale consiste
nel sapere ed essere convinti della nostra impotenza per raggiungere le virtù che si trovano in
Maria e che dobbiamo far passare nelle nostre anime…Di primo acchito potremmo pensare che
dobbiamo lavorare molto da parte nostra per ottenere la carità, operando con sforzo e
accanimento. Sì, però c’è un altro metodo più semplice e più conforme all’infanzia spirituale che
consiste nell’abituarci a vivere e ad operare sotto lo sguardo e l’influenza della Madre, in modo
che, con semplicità e senza eccessiva violenza, si faccia ogni cosa come la faceva la Vergine,
imitandola nella misura del possibile. All’inizio capiteranno molte dimenticanze: perderemo di
vista la Madre e agiremo con molta imperfezione. Non importa: avviciniamoci di nuovo a Maria
e continuiamo agendo sotto lo sguardo di nostra Madre. Subito sentiremo la sua influenza
materna e cominceremo a gustare il silenzio ecc. Non preoccuparti della purezza della coscienza
necessaria per conseguire le virtù, perché Maria è il nostro supplemento e se riesci ad avvicinarti
a lei sentendoti molto piccola, in lei troverai tutto (L. 91)
Potrei fare infinite altre citazioni, ma cerco di riassumere in poche parole, certamente
inadeguate, la mariologia di Pio Heredia, che - ATTENZIONE! - è più un’esperienza
che una teologia:
-
Maria accompagna l’opera della Trinità nella nostra santificazione
-
Maria è il canale, l’acquedotto per cui passa la grazia (S. Bernardo)
-
Maria coopera con lo Spirito santo nella formazione di Cristo in noi (Guerrico
d’Igny)
-
Maria non è solo modello, ma forma della nostra santità (Grignon de Montfort)
-
Maria è il nostro supplemento: quello che manca a noi lo mette lei come madre
(Grignon de Monfort)
86
-
La vita monastica è un viaggio con Maria verso il Padre, guidati da Gesù e dal
suo Spirito
-
Attraverso la Sacra Scrittura e la liturgia (soprattutto i sacramenti) Maria ci
conduce ad un’esperienza saporosa di Dio, Trinità di persone.
Continuo a parlare a grandi linee della storia dell’Ordine negli ultimi tempi:
Contemporaneamente alle soppressioni o alle limitazioni di libertà in paesi comunisti,
avvenne nel dopoguerra una straordinaria diffusione nei cinque continenti dei due
Ordini cistercensi, soprattutto di quello della Stretta Osservanza. In Europa le case
fondate furono relativamente poche, molte invece quelle americane: i monasteri
trappisti degli Stati Uniti aprirono nove filiali e iniziarono a diffondere l'Ordine in
America latina e precisamente in Cile e Argentina, mentre in Brasile furono le diverse
Congregazioni della Comune Osservanza a far fiorire la vita cistercense.
L'Asia, che già conosceva il monachesimo cistercense in Cina, Giappone e Viet-Nam, lo
vide espandersi in Indonesia. Anche in Oceania nacquero monasteri in Australia,
Nuova Zelanda e Nuova Caledonia.
Fu però l'Africa nera ad avere il maggior numero di fondazioni maschili e femminili: la
Congregazione di Casamari aveva aperto il cammino fondando in Etiopia; il suo
esempio fu seguito dai trappisti, che stabilirono monasteri in Camerun, Congo, Kenia,
Uganda, Benin, Angola, Nigeria e Madagascar. Tracciamo ora la figura dell’iniziatore
della prima trappa camerunese.
PIERRE FAYE (1917-1992)
Il padre Pierre Faye, pioniere del monachesimo africano, fu il fondatore del monastero
che si trova attualmente a Koutaba, che fu il primo monastero trappista in Africa nera.
Africano lui stesso, la sua vita conobbe tutte le vicissitudini della difficilissima
impiantazione della vita monastica in un ambiente di evangelizzazione recente e di
cultura tanto diversa. Seguendo le tappe della sua esistenza, possiamo ripercorrere la
storia delle prime fondazioni subsahariane: Grandselve, Clarté-Dieu, Marombi, Etoile,
Bamenda ecc.
Nato il 28 agosto 1917 nella provincia senegalese della Casamance in una famiglia
numerosa e agiata di etnia sérère, Edouard Faye era di dodici anni più giovane del
fratello Joseph, il quale divenne prefetto apostolico di Ziguinchor. Edouard studiò nel
seminario dell’attuale Burkina Faso e fu ordinato sacerdote il 16 maggio 1946 nella
cattedrale di Ouagadougou. Ritornato in Senegal, dopo due anni di ministero il giovane
87
sacerdote domandò al fratello, prefetto apostolico, il permesso di entrare nella vita
monastica. Il permesso gli fu recisamente negato, data la scarsità di preti senegalesi
nella prefettura di Ziguinchor. Già a partire dal 1947 Pio XII aveva proposto
l’episcopato a Mons. Joseph Faye, volendo trasformare la prefettura di Ziguinchor in
vicariato apostolico. Mons. Faye aveva rifiutato, adducendo motivi di salute (soffriva di
postumi della malattia del sonno) e, trovandosi in Francia per curarsi, aveva chiesto al
Papa di poter abbracciare la vita monastica a Aiguebelle. Il permesso gli fu concesso, a
condizione di introdurre più tardi la vita cistercense nell’Africa nera. Nel frattempo,
Edouard aveva ottenuto dal successore del fratello l’autorizzazione di farsi monaco e
anzi l’aveva preceduto nel chiostro, scegliendo N. S. dell'Atlas, in Algeria, per essere
fedele all'Africa che, in quel tempo, non aveva altri monasteri trappisti. Veniva a
cercare, secondo quanto scriveva nella sua domanda di ammissione, solitudine
completa, preghiera e penitenza. Assunse il nome di Pierre e fece vestizione all’Atlas il
24 dicembre 1948, mentre Mons. Joseph entrava a Aiguebelle nel luglio del 1949…e
tutto ciò all’insaputa l’uno dell’altro.
Nel gennaio del 1951, appena fatta la professione temporanea, venne chiesto a Pierre,
già sacerdote e ormai 34enne, di accompagnare l’abate di Aiguebelle in un primo giro di
prospezione in vista della futura fondazione africana. Dopo aver visitato e scartato
numerose nazioni, la fondazione venne fatta in Camerun nell’estate di quello stesso
anno, prima a Nkol-Nkumu e poi a Minlaba, in ambienti provvisori. Il 25 febbraio 1954
P. Pierre emetteva i voti solenni. Minlaba era metà missione e metà monastero, per cui
si decise di fare un tentativo in una zona più solitaria, preparando un monastero
regolare e facendo venire poi numerosi monaci da Aiguebelle. P. Pierre e altri tre
fratelli, con un lavoro accanito, prepararono il monastero e le culture a Obout dal 1954
al 1956. D. Sortais nel 1956 nominava P. Pierre superiore del monastero, che prese il
nome di N.-D. di Grandselve.
Erano gli anni difficilissimi dell’indipendenza: i postulanti affluivano numerosi, ma
nessuno
restava.
Ci
furono
difficoltà
interne
ed
esterne.
Cîteaux
sostituì
provvisoriamente Aiguebelle come casa-madre di Grandselve. Assillato da problemi di
ogni genere, P. Pierre diede le dimissioni e lasciò Obout il 20 marzo 1961. Ritornò
all’Atlas, ma i superiori vollero che visitasse i nuovi monasteri delll’Africa nera, nella
speranza di recuperarlo per Grandselve. Egli fece un soggiorno a Marombi, poi divenne
secondo cappellano alla Clarté-Dieu (due monasteri – uno di monaci e l’altro di
monache – di recentissima fondazione). Nel 1963 tornò à Tibhirine, che stava per essere
88
chiuso, e condusse alle Dombes il gruppo dei più anziani (in realtà poi l’Atlas continuò
a vivere per intervento del Card. Duval).
Nel dicembre del 1963 P. Pierre va in Benin, all’Etoile, altro monastero di monache
fondato da poco, e nel 1964 viene richiamato a Grandselve come secondo superiore e
maestro dei novizi.
Nel giugno del 1966 muore quasi improvvisamente il primo professo camerunese, il
primo sacerdote ordinato nella comunità, il giovane P. Claude, su cui erano riposte
moltissime speranze. In comunità si produce una grossa crisi. Gli africani vogliono
gestirsi da soli: 15 anni di tentativi, di incomprensioni, di mancanza di stabilità
spingono i giovani neri a fare una fondazione totalmente africana, adatta alla loro
cultura. Nel 1967 P. Pierre è nominato di nuovo superiore e assume il progetto di
trasferimento, rendendosi conto che bisogna tentare altrove, non essendo la zona del
Sud del Camerun culturalmente favorevole alla perseveranza dei candidati.
Nell’ottobre del 1968, dopo aver ceduto il monastero di Granselve alle monache di
Laval che volevano fondare in Africa, un folto gruppo di novizi e postulanti,
accompagnato dai pochi professi neri e da Fr, Hubert (unico bianco e non sacerdote)
come economo, ricomincia la vita monastica a Koutaba, in paese bamoun, nel sultanato
di Foumban. Questo tentativo esclusivamente africano procurò molta amarezza ai
monaci francesi di Grandselve scartati dalla nuova comunità (che in genere rimasero in
Africa con mansioni e progetti diversi) e fece accusare P. Pierre di razzismo. In realtà,
bisogna collocarsi nell’atmosfera del tempo (1968) e nella mentalità della giovinezza
africana dell’epoca, in piena rivendicazione nei confronti dei bianchi.
A Koutaba, dopo gli inizi euforici, i giovani non accettarono il P. Maestro bamileké, un
po’ rigido e conservatore, ma accolsero con entusiasmo il giovane francese P. Roland,
venuto dalla casa-madre. Anche altri monaci di Aiguebelle integrarono la comunità. Il
progetto iniziale di una comunità solo africana cadde nel giro di pochissimo tempo. Le
difficoltà però continuarono, anche sul piano amministrativo e politico, dato il
momento storico che il Camerun attraversava: nel 1970 il monastero, molto conosciuto,
fu invaso e perquisito dalla polizia in cerca di armi e di documenti compromettenti che,
ovviamente, non esistevano.
P. Pierre, stanco, fin dal 1972 aveva cercato di lasciare il superiorato; nel 1973, non
sopportando più la responsabilità a cui lo si costringeva, ottenne un congedo. Questa
seconda “fuga” gli attirò molte critiche: secondo la sua abitudine, egli preveniva a più
riprese, ma infine seguiva l'attrattiva interiore. Suo fratello diceva ai monaci europei:
"Voi non capite niente dell'anima africana. Mio fratello Pierre è un vero monaco contemplativo:
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non vuole essere superiore. Se lo nominate, è obbligato ad accettare, ma può resistere soltanto per
qualche anno. L'amministrazione non gli interessa". Padre Pierre aveva bisogno di più
solitudine e anonimato, di più silenzio e nascondimento, di sparire nella preghiera e nel
lavoro manuale, che compiva con gusto, senza risparmiarsi. Il suo modello di vita era
San Giuseppe, di cui era devotissimo.
I superiori speravano sempre di recuperarlo per guidare Koutaba. Egli passò un anno a
Frattocchie, dove coloro che lo conobbero lo ricordano come “un bell’uomo alto e
dignitoso, un monaco silenzioso, rispettoso, discreto e umile. Soprattutto un uomo di preghiera”.
Passò poi un altro anno nella casa-madre di Aiguebelle, dove ebbe un grande successo
come foresterario: la sua intelligenza e discrezione, la sua innata distinzione, la sua
bellissima voce (era sotto-cantore), le sue omelie ardenti, il suo spirito di preghiera gli
attiravano l’ammirazione di ospiti e confratelli. Ma è proprio questo che P. Pierre non
voleva: rifuggiva dal ruolo di direttore spirituale ed era perfino reticente a prestarsi
come confessore dei monaci, dato che tutto il suo essere lo spingeva verso la preghiera
personale e liturgica e la semplicità del lavoro manuale, nel silenzio e nell’obbedienza
di una vita comune. Durante tutta la vita ha cercato di non tradire la sua aspirazione
iniziale, ostinatamente silenzioso, ma senza mai arrendersi di fronte a chi lo criticava.
La sua cieca fiducia nella Provvidenza gli permetteva di credere che Dio avrebbe saputo
arrangiare le cose molto meglio, anche senza di lui. I testimoni parlano della sua umiltà,
citando anche come esempio le lezioni d’organo impartitegli da un confratello molto
meno esperto, e accettate di buon grado da lui, che era un musicista raffinato.
Nel 1975 chiese lui stesso di ritornare all’Atlas, il monastero della sua prima
professione, a cui era molto affezionato: “Mia madre, l’Africa, mi chiama: io ho bisogno di
rivedere mia madre…”. L’abate non seppe resistere alla supplica e P. Pierre tornò a
Tibhirine, dove rimase dal 1975 al 1979 come P. Maestro. Si noti che nelle zone rurali
dell’Algeria gli africani neri erano molto disprezzati e P. Pierre non usciva dal
monastero a causa delle manifestazioni di razzismo. Christophe Lebreton, il futuro
martire, che era suo novizio, scriveva alla sorella Elisabeth in una lettera del 29 luglio
1977: “P. Pierre è malato: è colpito ad un polmone, ma spero proprio che guarisca. É veramente
un santo monaco, la cui sola presenza irraggia la pace e l’amore”.
Nel 1979 il nuovo abate di Aiguebelle (da cui dipendevano le case-figlie sia di Koutaba
che di Tibhirine) fece ritornare P. Pierre in Camerun come P. Maestro. Vi rimase fino al
1988, cioè fino al momento in cui Koutaba divenne priorato autonomo. In questo
periodo la sua felicità consisteva nell’occuparsi del giardino e del bananeto e,
soprattutto di essere solo…, solo con il suo Dio! Sempre brillante predicatore, sempre
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richiesto da ospiti per la direzione spirituale, sempre in cerca di sfuggire alle
conseguenze del fascino che, malgrado lui, esercitava sugli altri…
Nel 1988 chiese di passare un periodo di preghiera e di riposo a Bamenda, il monastero
di lingua inglese del Camerun dell’ovest. Saputolo, D. Christian di Tibhirine lo richiamò
all’Atlas, per inviarlo alla casa annessa di Fez, nel Marocco. P. Pierre, che aveva sempre
voluto conservare la sua stabilità all’Atlas, obbedì con molto timore: aveva ormai 71
anni, era reduce da un’operazione alla prostata che aveva rivelato un tumore e temeva
di dover affrontare l’eccesso di attività e la confusione che avevano caratterizzato tutti i
precedenti tentativi e spostamenti della sua vita monastica. Facendo violenza su se
stesso obbedì: andò a Fez e vi trovò la vita semplice, regolare, nascosta e laboriosa che
aveva sempre desiderato e cercato. E trovò anche un orto da coltivare e in cui piantare
delle rose. In una visita a Fez, Christophe scrive alla sorella (29 luglio 1990): “P. JeanBaptiste e P. Pierre sono andati molto lontano sulla strada dello spogliamento e dell’umiltà.
Vivere vicino a loro è una grazia. Le tribolazioni africane di P. Pierre hanno fatto l’oggetto di
un’opera recente, edita nientemeno che da Beauchesne! Egli ha la semplicità di riderne, mentre
sorveglia gelosamente i suoi banani e le sue rose”.
Dovette tornare a Aiguebelle nell'ottobre del 1991: il cancro si era esteso alle ossa e ai
polmoni. D. Christian, nella cronaca natalizia del 1991, scriveva: “…a Fez ha lottato contro
la malattia che gli erodeva le ossa e il sonno, restando con i suoi tre fratelli, con l’incarico del
canto e della cucina fino al limite dell’in-sopportabile. Ha dovuto poi riprendere la strada di
Aiguebelle (grazie alla nostra casa-madre immediata!) e dell’ospedale. Sta facendo la terapia e noi
siamo emozionati per quello che gli sta capitando, sconvolti per questa strana maniera con cui
l’Amore “lo vizia”, come dice lui…
Padre Pierre aveva scritto: "Il cancro è la mia ultima e beatissima vocazione su questa terra".
Già da tempo si sentiva spinto verso la sofferenza: “Vorrei tanto entrare nella vocazione di
Marthe Robin”, scriveva. Citiamo quasi per intero l’ultima lettera, inviata ad un
confratello dell’Atlas sette giorni prima della morte: "…c’è il segreto di una gioia profonda,
gioia riservata a quelli che hanno il coraggio di uscire da se stessi. I veri cercatori di Dio hanno
fatto l’esperienza della spaventosa tortura che comporta la conversione del cuore all’Amore,
seguito senza venir meno. Cercare Dio è volere e cercare che ci sia soltanto Lui in noi. La vita è
data all'uomo solo perché egli si adatti a poco a poco a Dio e si senta infine completamente nel
Suo clima, immerso in Dio. Qualcuno diceva che il santo è colui che intraprende un viaggio
senza ritorno alla scoperta di Cristo. Parte dal proprio io, ne esce, con l’intenzione ben decisa di
non ritornarvi più: è un eterno pellegrino di Cristo. “Non sono più io che vivo, sei Tu che vivi in
me!" ( a J.-P. S. – 26 gennaio 1992).
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Nato nella festa di S. Agostino, era entrato – unico nero in una comunità di bianchi –
nella terra del grande santo d’Ippona. Morì in Francia, nella clinica di Montélimar, dove
era stato trasportato il giorno precedente. Non sentiva la morte vicina e, all’abate che gli
aveva proposto il sacramento degli infermi, aveva detto che non era ancora il momento.
Era il 2 febbraio 1992, il giorno del Nunc dimittis, in cui la lettura del profeta Malachia
avverte: “E d’improvviso verrà nel suo Tempio il Signore che voi cercate”. Era il giorno in cui
cento anni prima fra Alberico de Foucauld faceva professione a Akbès, in Siria. Fra
padre Pierre e Charles de Foucauld c'era una certa complicità di vagabondaggio, che
permetteva loro di trovare la loro vera stabilità soltanto nella 'lectio' e nell'adorazione
del SS. Sacramento, come mendicanti.
Natura ricca, in lui si armonizzavano molti contrari: solitario e cenobita, sedentario e
nomade, amante geloso del silenzio e ardente nella parola. Nella sua innata distinzione,
fatta di riserbo e di accoglienza, aveva l'arte di nobilitare tutto quello che toccava.
Conservò fino all'ultimo il buonumore, che faceva parte del suo temperamento gioioso.
Diceva: "Il buonumore spirituale è il frutto della fede: è l'essere profondamente convinti che Dio
lavora per darci la felicità". In Maria, causa della nostra letizia, trovava conforto e rifugio.
La testimonianza unanime di quanti l'hanno conosciuto è questa: "Era veramente un
uomo di Dio".
Il periodo conciliare
L'espansione molto rapida non mancò di suscitare problemi di inculturazione negli anni
magnifici e tormentati del post-Concilio. Quale fu l'evoluzione dei due Ordini in questo
periodo?
L'O.C.S.O. conobbe una crisi di identità molto forte: era già stata migliorata la qualità
della formazione e le comunità erano state unificate, sopprimendo la divisione in due
categorie: tutto questo mirava a facilitare la vita di preghiera e lo sviluppo umano e
spirituale delle persone. Negli anni che precedettero il Concilio si era avuta, soprattutto
in America, la massima affluenza di vocazioni, che cominciò poi a decrescere negli anni
successivi, in modo precipitoso presso i monaci, lento presso le monache. Ormai diffuso
ovunque, l'Ordine subì l'influenza del movimento culturale psicologico e psicanalitico
in Europa e negli U.S.A., mentre in America latina si faceva avvertire l'influsso della
teologia della liberazione. Un po' dappertutto si subiva il fascino delle religioni
orientali, con le loro tecniche di preghiera.
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Gli adattamenti delle osservanze, iniziati già nel 1955, proseguirono dopo il Concilio,
culminando negli anni '67-'69 con la possibilità di un'intensa sperimentazione, che
minacciò l'unità e l'identità dell'Ordine. Il Capitolo Generale del 1969, considerato da
tutti come carismatico, aprì un'epoca nuova, rompendo con l'uniformità degli Usi, che
era un tratto caratteristico dell'O.C.S.O., ma che l'estensione geografica rendeva ormai
impossibile e non adatto alla mentalità delle nuove generazioni: lo Statuto sull'unità e il
pluralismo diede uno spazio più grande alle varie culture e alle differenze legittime
delle comunità locali.
I Capitoli speciali degli anni successivi proseguirono lo sforzo di rinnovamento, sia
pure fra tentennamenti e reticenze e crearono nell'Ordine una mentalità nuova, facendo
passare le comunità da un troppo rigido attaccamento all'osservanza ad una ricerca più
evangelica di comunione. Le comunità, mediante il discernimento e il dialogo,
iniziarono il cammino per giungere ad una visione comune e all'esperienza del vivere
insieme come Schola caritatis, secondo l'insegnamento dei Padri cistercensi e la dottrina
conciliare della Chiesa-comunione.
Ci furono fughe in avanti e zone di immobilismo: con l'elaborazione di una dottrina,
basata sui valori del passato studiati e interiorizzati in modo da poterli tradurre nella
realtà ecclesiale dell'oggi e con uno sforzo ventennale per arrivare alla stesura di nuove
costituzioni attraverso una consultazione capillare di ogni comunità e di ogni suo
membro, si giunse progressivamente alla pacificazione, conservando l'indirizzo
specificamente contemplativo che contraddistingue l'O.C.S.O.
Anche i cambiamenti nelle strutture furono molteplici: all'inizio degli anni '60 i
superiori cominciarono a riunirsi in Conferenze regionali, strutture informali che
avevano uno scopo pastorale, permettevano di scambiare esperienze nell'ambito di
un'area culturale più circoscritta e fornivano l'occasione per preparare insieme i Capitoli
Generali, che ormai si tenevano ogni due anni (più tardi ogni tre). Le monache, dopo
essersi riunite in modo più informale, celebrarono i loro due primi Capitoli nel 1971 e
'75, acquistando una maggiore autonomia, ma volendo tenacemente restare unite ai
monaci all'interno di un medesimo Ordine. Questa situazione evolverà fino alla
celebrazione di Capitoli giuridicamente separati, ma che si riuniscono congiuntamente
in una 'Riunione generale mista'.
L'evoluzione del S.O.C., il cui nome fu in seguito cambiato semplicemente in Ordine
cistercense, fu meno traumatica: meno numeroso, solidamente organizzato, l'Ordine
lasciava già alle diverse Congregazioni una larga autonomia, che attutì la problematica
sollevata dal Concilio e permise di risolvere i necessari adattamenti a livello locale.
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La Comune Osservanza, fin dall'inizio del suo ricostituirsi all'inizio del XIX secolo,
incoraggiò gli studi e la produzione scientifica ad alto livello. Dopo il Concilio la
liturgia si differenziò molto nelle varie Congregazioni e nelle diverse case a causa
dell'introduzione delle lingue vernacole, ma l'uso totale o parziale del latino e del canto
gregoriano rimase più diffuso e i cambiamenti furono più lenti rispetto alla Stretta
Osservanza.
Secondo lo spirito pluralistico dell'Ordine, anche il problema dei conversi fu lasciato
alle singole comunità, che determinarono il loro statuto secondo le tradizioni, le
necessità e i desideri dei membri e del luogo.
Le sessioni speciali dei Capitoli Generali del 1968 e '69 promulgarono una dichiarazione
sul ruolo della vita monastica cistercense e nuove costituzioni per il governo supremo
dell'Ordine, che venne definito come un'unione di Congregazioni, governate da un
Capitolo Generale sotto la presidenza di un abate generale. Il Capitolo si riunisce ogni
cinque anni; l'abate generale, che risiede a Roma, è aiutato da un consiglio e da un
'sinodo'. Quest'ultimo è un organo che sostituisce l'antico definitorio e che, riunendosi
ogni due anni, tratta le questioni urgenti che non possono essere rimandate al Capitolo
successivo.
Le singole Congregazioni sono ampiamente autonome per quanto riguarda la
determinazione della vita monastica a livello locale: ognuna si riunisce in Capitolo sotto
la guida di un abate preside, che ha il compito della visita regolare triennale delle
comunità della sua Congregazione.
Anche l'inserzione delle monache nell'Ordine avviene secondo formule pluraliste: o la
piena incorporazione nelle diverse Congregazioni o la semplice incorporazione
all'Ordine o l'incorporazione di Federazioni, che hanno una loro propria autonomia
governativa.
Il grave problema dell'Ordine nel periodo pre e post-conciliare è stata la persistente crisi
di vocazioni, il numero delle defezioni e l'invecchiamento delle comunità.
Gli ultimi venticinque anni di storia cistercense
Negli ultimi venticinque anni l'Ordine cistercense della stretta osservanza ha continuato
ad espandersi malgrado la diminuzione dei suoi membri, non compensata dalle nuove
vocazioni, che pure sono in netta ripresa in alcune nazioni occidentali e costituiscono
una promettente speranza nei paesi recentemente evangelizzati o che non ospitavano
finora monasteri cistercensi. Il centro dell'Ordine si sta spostando dall'Europa agli altri
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continenti; l'orientamento attuale va verso la formazione di piccole comunità, anche se
esistono ancora monasteri molto numerosi; le fondazioni in India e nel Libano
(quest’ultima attualmente attraversa una crisi di identità, che speriamo possa risolversi
positivamente) hanno aperto l'Ordine a riti liturgici diversi dal latino e a tradizioni
monastiche differenti; si cerca di introdurre di nuovo il monachesimo cattolico in luoghi
di antica tradizione cistercense come i paesi scandinavi e la Siria; i monasteri fondati in
Asia e nel Maghreb sono luoghi di presenza orante e di dialogo, sia pure appena
iniziato, con i musulmani.
Superata la crisi d'identità del post-Concilio, l' O.C.S.O. si riconosce nelle costituzioni
approvate nel 1990, che costituiscono un'ottima sintesi degli elementi fondamentali
della spiritualità cistercense con quelli giuridici che ne fondano le strutture: l'Ordine ha
una chiarissima identità contemplativa, dando il primato assoluto alla lode di Dio e
ordinando tutta la vita in modo che ogni suo membro si unisca intimamente alla
persona del Salvatore.
Nella quasi totalità delle comunità sono stati abbandonate forme devozionali o aspetti
penitenziali troppo propri di un'epoca o di un luogo. Pur nelle mutate condizioni
moderne, lo stile di vita, indice dell'autenticità cistercense, è rimasto molto semplice e
l'osservanza si è mantenuta robusta: il lavoro è generalmente manuale, il nutrimento
frugale (l'astinenza dalle carni è praticata da quasi tutte le comunità), la levata per
l'Ufficio delle vigilie è notturna, la televisione è scarsamente usata o non usata del tutto,
il livello delle costruzioni e dell'arredamento è semplice e modesto.
Il dialogo comunitario per cercare insieme la volontà di Dio è entrato, in misura e forme
diverse, in tutte le comunità, comportando una forma di ascesi fatta di ascolto, di
rispetto e di amicizia, costringendo all'abbandono di punti di vista troppo personali. Il
silenzio e la solitudine, concepiti in maniera meno rigida sono sempre dei punti forti
dell'esperienza di interiorizzazione, ma le relazioni interpersonali, divenendo più
frequenti e profonde, hanno accresciuto nelle comunità l'amicizia e l'affetto, realtà tanto
sviluppate nella dottrina dei primi padri cistercensi.
L'esperienza del Dio vivo, il senso del mistero, la fedeltà interiore alla grazia, una
spiritualità basata sul desiderio sono elementi fondamentali e sempre attuali della
teologia monastica, in cui ha un grande posto l'affettività. L'amore di Dio e dei fratelli,
all'interno delle comunità e fra le diverse comunità costituisce sempre, come nel
primitivo Cîteaux, l'ideale dell'Ordine.
Nella Chiesa l'O.C.S.O. è una presenza unica ed eccezionale per la sua qualità
dichiaratamente monastica, contemplativa e cenobitica, per la presenza in quasi tutti i
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paesi del mondo, per la sua struttura di filiazione, per l'integrazione dei rami maschile e
femminile e per lo spirito di famiglia che regna fra tutte le sue case.
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