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Il Viaggio Avventuroso Di Lodovico
Davide Baraldi
Classe II D
Liceo Scientifico Tecnologico “F. Corni”, Modena
Anno scolastico 2007/2008
Era il dì 12 Giugno 1476, un Lunedì di tensioni per la città di Bologna a causa dell’emanazione di una
legge che prevedeva l’espulsione dalla città dei forestieri che erano venuti a sostarvi; per chi
trasgrediva era applicata la pena dell’impiccagione. Il provvedimento era stato adottato perché anche
Bologna, così ricca, si trovava in notevole difficoltà per la grande carestia che stava minando l’intera
regione. La legge era stata promulgata per evitare che quei forestieri venuti in Bologna e registrati
come residenti temporanei, potessero approfittare di questa loro condizione e rimanessero nella città
abusivamente oltre il termine loro concesso. Bologna infatti, nonostante il triste periodo che stava
vivendo, era pur sempre una stupenda città, ricca di magnifici monumenti, di gente colta e cordiale, e di
ottime osterie.
Lodovico era un pellegrino, proveniente da una famiglia di modeste origini, che aveva preso alloggio a
Bologna in cerca di qualche giorno di tranquillità e riposo prima di riprendere il suo viaggio verso
Roma, ultima tappa del suo pellegrinaggio prima del ritorno a Ferrara dove viveva con la sua famiglia.
Lodovico quindi si organizzò al più presto per uscire dalla città.
Dalla piazza in cui si trovava e dove aveva appreso dell’emanazione di questa nuova ed ingiusta legge,
si diresse in fretta verso la locanda, di lì poco distante, in cui alloggiava e, prese le sue poche cose, uscì
dirigendosi verso la porta più vicina che lo avrebbe condotto fuori dalla città, divenuta ora per lui luogo
pericoloso.
Il suo permesso era già scaduto e pertanto doveva affrettarsi a fuggire per non finire impiccato.
Fece infatti appena in tempo ad uscire dalla città, grazie ad un gendarme che, fortunatamente per lui, fu
comprensivo, e che dopo averlo solo rimproverato per il suo ritardo, ne registrò l’uscita.
Una volta fuori, si sentì sollevato per lo scampato pericolo, e si mise in cammino senza tuttavia sapere
con esattezza dove dirigersi. La carestia di quei mesi e la desolazione che si presentava ai suoi occhi lo
portarono al ricordo del suo vecchio amico Ruberto, frate francescano che era certo stesse soccorrendo,
anche ora, la povera gente per non farla morire di fame. Lo aveva conosciuto dieci anni prima, durante
una breve soggiorno a Mutina, e aveva legato molto con lui. Avevano trascorso molte giornate insieme
e aveva avuto modo di vedere che frate Ruberto, nonostante la giovane età, era molto attivo e sentiva
profondamente il senso della sua missione ed era molto ligio agli obblighi della comunità francescana.
Lodovico decise dunque di sostare in Mutina per qualche giorno, rilegando questa vecchia amicizia
che, col tempo e la distanza, si era un po’ persa.
Si prospettava un lungo viaggio. Quel mattino l’aria era torrida, il cielo azzurro e nessuna nuvola
all’orizzonte.
Verso il mezzodì del 16 Giugno il nostro Lodovico finalmente riuscì ad intravedere in lontananza la
città; allungò il passo e in poco meno di un’ora si ritrovò dinnanzi le mura.
Era contento e smanioso, nonostante la stanchezza, di poter rivedere la splendida città di Mutina e
Ruberto. Le mura erano imponenti, così ampie che su di loro passava una strada tanto ampia da essere
utilizzata per la corsa dei cavalli, oltre che per il passaggio dei pedoni.
Lodovico varcò quelle mura e si fece registrare precisando che sarebbe rimasto in città per tre giorni.
Il gendarme di guardia lo frugò per assicurarsi che non portasse con sè alcuna arma. Una severa norma
emanata dall’autorità comunale, infatti, proibiva l’ingresso in città di armi, pena una sanzione di cento
libre: in mancanza del pagamento, la norma stabiliva l’amputazione della mano destra.
Il nostro pellegrino entrò dunque dalla porta San Pietro e subito notò come anche Mutina non fosse
stata risparmiata dalla carestia.
Ricordando i luoghi che aveva frequentato con l’amico Ruperto, si diresse in direzione dell’altissima
Torre del Duomo, che sovrastava la città. Si trovò a percorrere la via principale della città, in direzione
del vero fulcro della vita cittadina, ovvero Piazza Grande e il Duomo Si trovò così ad ammirare il
grande edificio universitario di Mutina, il secondo al mondo dopo quello edificato dal Comune
Bolognese.
Dalla facciata laterale del Palazzo del Comune si addentrò nella piazza e rimase sorpreso vedendo poca
gente: ricordava una gran moltitudine di persone che da tutte le strade affluiva senza sosta nella piazza,
tra la schiera di banchi dove i mercanti presentavano vociferando i loro prodotti.
Un’altra cosa lo sorprese: la statua della Bonissima non c’era più. Avrebbe dovuto ergersi proprio di
fronte a lui, su di un piedistallo a quattro colonne che le dava quell’aria maestosa che lui ricordava.
C’era invece ancora quella grande pietra sulla quale ricordava di avere visto salire i funzionari del
Palazzo Comunale, con la loro aria importante, tutti ben vestiti, che andavano pronunciando i loro
proclami alla folla assiepata ai loro piedi: ricordava che quella pietra veniva chiamata dai cittadini “la
pietra ringadora”.
Da un passante Ludovico seppe che la statua che lui rammentava, da otto anni, ormai era stata spostata
all’angolo del Palazzo Comunale. Quando la scorse, seguendo l’indicazione ricevuta, ne rimase deluso:
in quell’angolo, senza il piedistallo che le rendeva quella grandiosità, sembrava piccola, di poco conto,
davvero insignificante. Riflettè su come si poteva metter da parte la statua di una nobildonna che aveva
aiutato la povera gente durante la terribile carestia che flagellò nel 1178 ogni città del nord della
penisola italica. La carestia di quell’anno era stata forse la più terribile della storia, non paragonabile a
quella che stavano vivendo.
Lodovico traversò allora la piazza, raggiunse la facciata principale della Casa di San Geminiano e
decise di entrare per parlare con il vescovo Codebo, che ricordava ancora energico e vigoroso
nonostante la sua già avanzata età.
Entrò da una delle porte laterali che affiancavano il grande portone centrale, adornato dai bassorilievi
narranti la genesi dell’uomo che tanto lo affascinavano, e si trovò dentro, osservando l’immensità e la
solennità dell’interno della Cattedrale. Di lì a breve Lodovico si trovò di fronte Codebo. Erano trascorsi
dieci anni, era molto invecchiato e aveva perso il vigore che sempre lo aveva contraddistinto, ma fu
contento di rivederlo.
Lodovico raccontò il motivo di questa sua visita in Mutina e chiese del frate Ruberto.
Ruberto spesso veniva in piazza a predicare sulla pietra ringadora. Codebo gli chiese se avesse voluto
assistere alla messa ma Lodovico, vedendo che dal grande rosone la luce si faceva fioca, garbatamente
rifiutò l’offerta e uscì dal Duomo.
Diede un ultimo sguardo alla piazza; sempre più si diradava la gente, molti entravano in Duomo, altri
andavano verso la propria dimora e lui continuò invece per la Via Emilia. Aveva ancora molta strada da
fare ed era piuttosto stanco, ma camminando ricordava le vie, le case, e la fatica sembrava svanire; vide
tristemente che all’angolo della via che doveva imboccare non c’era più l’osteria dove aveva passato
piacevoli notti assieme a i suoi genitori; ora c’era un’importante bottega di tessuti, vendevano persino
abiti di seta, molto pregiati, che di sicuro provenivano da Bologna, città che deteneva il dominio di
questo mercato di lusso.
Da lì a poco trovò la strada verso il convento dei francescani.
Il monastero era in una zona abbastanza tranquilla della periferia, circondato da vigne e ulivi.
Un anziano frate lo accompagnò da frate Ruberto, il quale lo riconobbe subito, nonostante gli anni
trascorsi. Il pellegrino chiese asilo per un paio di notti e Ruberto fu ben felice di accoglierlo all’interno
del convento. Gli venne assegnata una cella che, anche se piccola e disadorna, servì tuttavia a
permettergli di riposare: ormai esausto per il lungo cammino e le emozioni della giornata, si coricò e
dormì beato fino al mattino.
Il giorno seguente Ludovico e frate Ruberto decisero di fare un giro in città. Si incamminarono verso
Piazza Grande narrandosi ciò che avevano passato in quel lungo decennio.
Giunti in prossimità, sentirono una gran confusione provenirvi, e svoltati verso la facciata principale
del Duomo, si trovarono di fronte ad una scena inquietante.
Un funzionario del Comune stava leggendo un proclama di condanna nei confronti di tre contadini,
accusati di avere testimoniato il falso contro il loro signore feudatario: la pena prevista per tale reato
era il taglio della lingua. Il funzionario leggeva con voce tonante perché tutti sentissero, anche quelli
più distanti occupati a comprare o vendere merci, a che la punizione servisse da monito per tutti. Era
infatti quello il giorno in cui si teneva il mercato, ove venivano esposte anche le merci più preziose, i
beni di lusso, come la seta, o le spezie, che portavano i mercanti provenienti anche da città vicine.
Ruberto era furente e disperato, non poteva sopportare tali inutili brutalità, ma nulla potè.
Di lì a poco infatti, alzando gli occhi, videro il podestà nel pulpito dirimpetto la piazza, che assisteva
impassibile all’esecuzione della sentenza.
Allontanandosi udirono i terribili lamenti dei tre poveri disgraziati; sconvolti da questa triste
esperienza, tornarono in silenzio al convento.
Al monastero un poco si ripresero ed entrambi pregarono, ma, di notte, il loro sonno fu turbato da
angoscianti incubi. Dunque, appena fu l’alba, ebbero entrambi l’intenzione di recarsi al Palazzo
Comunale per manifestare il loro dissenso per l’uso di questi disumani metodi punitivi.
Ritornarono quindi al Palazzo del Comune e giunti là, dopo insistenti richieste di incontrare il Podestà,
vennero scortati all’interno dell’edificio. Qui, nei corridoi, tra grandiosi dipinti e decorazioni, notarono
la Secchia Rapita, la famosa secchia simbolo dell’eterna lotta fra le città rivali di Mutina e Bologna,
lotta conclusasi con la vittoria di Mutina.
Vennero infine introdotti al cospetto del Podestà.
Appena entrato, Ruberto espose le sue ragioni con grande veemenza, quasi con tono minaccioso,
mentre Lodovico, rimasto inizialmente sbigottito per la violenta aggressione di Ruberto all’autorità
comunale, finì per sostenere le ragioni dell’amico.
Il Podestà li fece immediatamente cacciare e non vennero a loro volta puniti solo per rispetto dell’abito
che Ruberto portava.
Mestamente fecero ritorno al convento, ripromettendosi l’indomani di passare una mattinata tranquilla
fra i lavori e la preghiera, cosicché Lodovico potesse osservare il modo di vivere dei francescani. Così
trascorse la mattinata di Domenica 18 Giugno, tra i roventi campi e il refrigerio dell’interno del
monastero; ma il pomeriggio Lodovico decise di recarsi nuovamente in piazza per un’ultima visita al
centro cittadino prima di partire alla volta di Roma.
Appena imboccata la Via Emilia, vide una serie di lussuose carrozze che fiancheggiavano la Cattedrale;
guardie armate dell’esercito di Mutina erano ordinatamente schierate in omaggio al Duca d’Este. Una
gran folla era lì presente e Lodovico, avvicinatosi, vide anche il vescovo Codebo, il Podestà, e i più alti
funzionari del Comune che omaggiavano l’autorità ducale di doni, per quanto il periodo consentisse.
Il Duca d’Este, che aveva dimora fissa in Ferrara, possedeva infatti anche altre residenze nelle città in
cui esercitava il ducato, come ad esempio in Mutina, dove alloggiava nel suo grande castello,
circondato da un ampio fossato che ne garantiva la difesa.
Lodovico seguì l’intera cerimonia sino a quando i gendarmi scortarono le carrozze del duca e della
servitù fino al naviglio, il porto, da cui si sarebbero imbarcati per ritornare in Ferrara.
Quindi la gente iniziò a disperdersi. Il Podestà scorse allora il forestiero che quella mattina lo aveva
minacciato. Aveva in mente di vendicarsi, voleva vedere dal suo balcone quell’uomo, che tanto aveva
osato, sul patibolo, e di lui solo si accontentava; il frate sarebbe stato un azzardo.
Aveva già in mente il da farsi. Ordinò a due guardie di pedinare Lodovico fino al suo alloggio, di
irrompere, catturarlo e portarlo alla prigione. Aveva già progettato di mentire sul tempo di alloggio del
pellegrino, così da poterlo punire pubblicamente.
Nel mentre ritornava verso il convento, Lodovico deviò verso il castello; l’aveva incuriosito tutta la
autorità del duca anche in Mutina, e voleva confrontarne la dimora, che mai aveva visto, con quella in
Ferrara. Il nostro pellegrino, tutto assorto nei suoi pensieri, non si accorse di essere pedinato e rientrò
nel monastero felice di trascorrere il resto della sua ultima giornata in compagnia di Ruberto.
Pochi istanti, e subito bussarono alla porta i due gendarmi. Lodovico venne preso, portato fuori con la
forza e condotto alle prigioni, secondo l’ordine del Podestà.
Solo un poco di esitazione e poi anche Ruberto si incamminò dietro di loro, ma si diresse alla
cattedrale, per chiedere a Codebo, nonostante l’incrinato rapporto, il grande favore di aiutare Lodovico,
di entrambi affezionatissimo. Lodovico venne condotto nelle stanze sotterranee del Palazzo Comunale,
che venivano utilizzate come prigioni, non essendovi un edificio adibito appositamente a carcere.
Erano stanze buie, sporche e molto umide, rischiarate a malapena da un piccolo lume.
Nel frattempo il Podestà predisponeva l’esecuzione, fissata per il giorno seguente.
Il vescovo in persona dunque, sorretto dal suo bastone e da Ruberto, si mosse per salvare Lodovico;
uscì dal Duomo, attraversò la piazza tra lo stupore della gente, che lo riveriva, e, giunto all’ufficio del
Podestà, ordinò la fine di questa crudele farsa.
Ruberto, seguendo il carceriere, aprì la porta della stanza in cui si trovava segregato Lodovico che,
ancora incredulo, ne uscì rendendo infiniti ringraziamenti a Codebo e Ruberto.
Così conclusasi la giornata, il mattino seguente, dopo calorosi abbracci al suo grande amico e salvatore,
ripartì con i suoi pochi viveri necessari al viaggio, la sua ritrovata amicizia e la pioggia, che finalmente
segnò la fine di quel triste periodo di carestia.
Davide Baraldi
Elenco dei documenti consultati e conservati presso l’Archivio Storico del Comune di Modena:
“Lancillotto”, Tomasino De Bianchi:
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26 marzo 1476 allo ore 22
giorno ignoto del marzo 1476
sabato 17 febbraio 1476