leggi - Liceo Classico Dettori

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Sete di neonati
Molte leggende raccontano che, in passato, in Sardegna vivevano insinuate tra la gente normale strane donne,
chiamate da tutti is cogas; si riteneva che fossero streghe vampiri, infatti si sarebbero nutrite come loro di
sangue umano, preferendo quello dei neonati non battezzati, e sarebbero state anche in grado di trasformarsi
in qualunque animale avessero desiderato; ma, inoltre, avrebbero avuto come segno di distinzione una piccola
coda animalesca, nascosta dai lunghi vestiti. Si narra anche che vivessero, sempre sull’isola, altre creature,
ritenute gli spiriti delle donne morte di parto; queste povere madri, uccise da ciò che desideravano di più al
mondo, sarebbero state costrette dal destino a sciacquare tutte le notti sulla riva di un ruscello un indumento
del piccolo figlioletto per cui erano morte: così conducevano la loro esistenza le cosiddette panas. Ma is cogas e
is panas erano realmente solo leggenda?
Sardegna, Nuraminis. Anno 1381.
Una fitta nebbia avvolgeva tutto il piccolo paese e gli conferiva un’aria inquietante, rafforzata dall’ imminente
arrivo di una tempesta. In una piccola casetta di campagna una donna gridava di dolore e disperazione,
temendo di non riuscire a sopravvivere alla creatura che aveva portato in grembo per nove mesi. Aveva la
febbre troppo alta per riuscire a pensare con lucidità e vedeva tutto ciò che la circondava una minaccia per sé e
per il suo bambino, o almeno sperava fosse tale dopo sei bellissime figlie; riteneva un pericolo perfino
l’ostetrica che per ore aveva vegliato su di lei. Le speranze della donna non erano state esaudite e la levatrice
prese tra le braccia l’ennesima femminuccia. Il pianto della bambina risuonò in tutta la casa; non sembrava il
semplice pianto della nascita, ma aveva dentro di sé come la consapevolezza di un crudele destino. Tuttavia
quelle lacrime provenivano dalla più bella bambina nata da cent’anni; le sue guance erano paffute e rosee, i
suoi occhi parevano le due prime gemme primaverili, le sue labbra rosse sembravano intagliate da una mela
succosa e i suoi capelli avevano lo stesso colore dorato del grano maturo, aveva nel viso la tenerezza di un
angelo. Solo un piccolo dettaglio offuscava la dolcezza della creatura: una piccola coda animalesca. La
partoriente, stremata dallo sforzo, ricadde sul letto priva di sensi, dopo aver fatto giurare alla levatrice di tenere
il segreto. E così al suono del dodicesimo rintocco la sua anima lasciò il corpo, lasciandosi dietro niente più delle
membra immobili di una moglie e una madre amata, rendendo vani tutti gli sforzi di strapparla alla morte. La
donna portò con sé la consapevolezza di aver dato alla luce una strega e il terrore immane che scaturì dalla
conoscenza del futuro della figlia conosciuta per pochi istanti. La natura aveva stabilito il suo equilibrio, dando
una vita in cambio di un’altra. Il padre della neonata crebbe la bambina senza sapere cosa fosse in realtà,
ritenendo che per la piccola una balia avrebbe potuto sostituire la madre.
La bambina era cresciuta sana e bella ed ora aveva raggiunto sei anni. In una bella mattinata di sole come tante
era andata al ruscello con le sorelle che dovevano lavare i panni, spensierata come si è sempre a quest’età; non
sapeva che quell’anonimo giorno di metà ottobre avrebbe segnato per sempre la sua vita.
Appena varcò la porta di casa notò che il padre era piuttosto strano; sembrava adirato ma lei non riusciva a
capirne il motivo. La prese da parte e iniziò a dire frasi di cui la bambina non riuscì a capire il senso. <<La
nutrice mi ha detto tutto!>> Lei non rispose, cercando nella memoria una marachella così grave da suscitare
quella reazione, e questo fece infuriare ancora di più il padre, che non poteva più trattenere il fiume di parole
che doveva trovare sfogo.
<<Non serve fingere di non sapere niente, ho scoperto ciò che sei, piccolo mostriciattolo! Credevi che avresti
potuto stare in casa mia, mangiare il mio cibo, dormire sotto il mio tetto come una delle mie figlie?>>
<<Ma padre, non capisco, io sono tua figlia…>>
<<L’hai fatto credere a noi per anni, ma io non posso aver generato una creatura malvagia come te! Ma ormai il
problema è risolto, perché tu stasera stessa raccogli tutte le tue cose e te ne vai via, per sempre, fuori da casa
mia!>>
La piccola non riusciva a credere a quello che aveva sentito, non voleva crederci. Ma la sua ostinazione non
riuscì ad impedire che gli occhi le si riempissero delle lacrime che le rigarono le guance appena il padre volse lo
sguardo. Non tentò di replicare, sapeva che sarebbe stato inutile, e andò nella sua stanza, dove diede libero
sfogo al suo pianto. I singhiozzi scossero tutta la casa, ma solamente il babbo e la sorella maggiore sapevano il
motivo di quei forti singhiozzi. Questi si trovavano nel salotto e tacevano, entrambi pensierosi. Fu la ragazza a
rompere il silenzio.
<<Padre, sapete che ho grande stima delle vostre decisioni, ma è proprio necessario cacciarla di casa?>>
<<Sai meglio di me che lo è…ho altre sei figlie oltre a lei, come credi che potreste vivere tu e le tue sorelle più
piccole se la tengo in casa? Te lo dico io, la gente parlerebbe di voi come delle parenti del mostro, non
trovereste un uomo disposto a spostarvi e come potreste andare avanti, povere bambine mie?>>
Un’espressione triste si impresse sul volto del padre, i cui quarantadue anni si fecero sentire con tutta la loro
stanchezza.
<<Non potevate almeno spiegarle i fatti, senza parlarle in modo così brusco?>>
<<Sembra quasi che tu non la conosca, è più testarda di un mulo>> a queste parole una risata malinconica gli
attraversò il viso. Ma riprese subito dopo il discorso, più per convincere sé stesso che la figlia <<No, se provassi
a chiarire la faccenda con lei non mi ascolterebbe…insisterebbe a dire che una soluzione diversa esiste, non se
ne andrebbe mai; ma è meglio così, per il bene di tutti, anche il suo: ora sei scettica, ma presto capirai che vita
infelice avrebbe condotto restando qui.>>
<<Ma almeno non potete aspettare che sorga l’alba? Lei è tanto piccola, avrà molto freddo stanotte>>
<<Credi che non abbia pensato a lei? Mi ritieni veramente così crudele?>> Mentre rispondeva alla figlia, il suo
viso era trasfigurato dalla rabbia, ma dopo alcuni istanti questa lasciò il posto a delle lacrime calde, che rigavano
il volto di un uomo che non piangeva da trent’anni <<Vostra madre è morta di parto, dovrebbe essere diventata
una pana; aiuterà lei la bambina, ne sono certo, a patto che lei la trovi: e questo può accadere soltanto di
notte.>>
La piccola fu messa alla porta appena il giorno lasciò il posto al buio. Venne accompagnata dalla sorella
maggiore, la stessa che aveva dovuto consolare il padre poche ore prima. <<Cerca di andare verso il ruscello,
devi camminare sempre dritto, non ti puoi sbagliare. Segui il mio consiglio, ti prego.>> le disse lei.
<<Ma, Ignazia, perché?>>. Ma lei non rispose, immersa com’era nei suoi pensieri. Il suo volto rifletteva tutta la
preoccupazione contenuta nel suo corpo di donna ormai già fatta.
<<Perché devo andare al ruscello? Perché mi cacciate di casa? Vuoi rispondermi?>> La bambina si voltò verso il
punto in cui credeva che fosse la sorella, ma non c’era più; Ignazia era già tornata in casa per non dover rivelare
la verità alla piccola.
La piccina camminò a lungo nella direzione indicatale dalla sorella, ma non riusciva a trovare il ruscello. Vi
giunse verso le tre di notte, e se non fosse stato per la luna che splendeva alta sopra di lei sarebbe certamente
caduta in acqua e affogata, poiché il fondale era veramente profondo all’epoca. Dopo aver fatto pochi metri
lungo la sponda incontro una donna che non aveva mai visto prima. Questa era vestita di stracci e lavava i
panni sporchi di una neonata; chiunque le avesse viste insieme le avrebbe scambiate per madre e figlia, tale era
la somiglianza tra le due. Ed effettivamente quell’ipotetico passante non sarebbe andato lontano dalla verità: lei
era proprio la donna morta di parto dando alla luce la piccola coga, tramutata in pana dal destino.
Riconoscendola, ella le rivolse subito la parola: <<Piccola, – le disse – cosa fai al ruscello a quest’ora della notte?
Qui ci sono buio e freddo, non credi che staresti meglio nella tua casetta?>>. Allora la bambina, che pur non
sapendone il motivo sentiva un profondo legame con quell’insolita figura, le raccontò tutto, dallo strano
comportamento di quella che credeva la sua famiglia fino a quel momento. La madre era una donna sveglia e
comprese ciò che era accaduto, quindi giurò a se stessa di portare al sicuro la figlia senza serbare rancore per il
marito. <<Vuoi venire con me bambina? Ti farò arrivare in casa di una mia amica, che abita in un paese qui
vicino, avrà cura lei di te.>> Attese un segno positivo della bambina per continuare. <<Molte delle mie
raccomandazioni ti sembreranno strane, ma io voglio soltanto il tuo bene. Soltanto se ti fiderai di me riuscirai a
salvarti dalla cattiveria della gente, quindi fa tutto ciò che ti dico. Ora dobbiamo iniziare a camminare, il viaggio
è lungo.>> Andarono avanti per tre notti, la piccola troppo spaventata per domandare spiegazioni e la donna
troppo in ansia per parlare. Durante il cammino non incontrarono anima viva e questo fu un sollievo per la
madre: troppi erano nei dintorni quelli che aveva conosciuto e che sapevano che era morta. Durante il giorno
non potevano guadagnare terreno, proprio per la sua natura; e così, mentre la coga dormiva riparata solamente
da foglie e arbusti dalle intemperie e dagli sguardi indiscreti, la pana si dissolveva, semplicemente svaniva nel
nulla, lasciando come traccia del suo passaggio un sottile filo di fumo che il vento disperdeva in fretta.
Arrivarono in un paese vicino, Pramantellu, che la bambina non aveva mai visto. Attesero però il giorno
seguente, perché ormai era tardi. All’imbrunire si addentrarono nel paese e bussarono alla porta di una casa
vecchia ma graziosa. Il portone era in legno scuro, con delle incisioni floreali agli angoli e grossi battiporta in
ottone con sembianze di delicate mani femminili; le pareti, formate da blocchi regolari di pietra cruda, erano
quasi interamente ricoperte da folti rami d’edera, divenuti ormai un tutt’uno con l’abitazione. Al loro bussare
rispose una giovane donna, che le invitò ad andare all’interno; la piccola venne lasciata a giocare in una stanza
con la figlia di Vicenza: così si chiamava la padrona di casa. Le due vecchie amiche si riunirono nel salotto, dove
ben presto si persero in chiacchiere. Ma la viva, pur essendo contenta per il riconciliamento, veniva avvolta
costantemente da una fitta nebbia di dubbi: la persona che le parlava non era forse morta? Lo sapeva
benissimo, era stata al suo funerale! Quindi non poteva essere che una…no, non voleva pensarci. Ma ben presto
dovette aprire gli occhi e guardare in faccia la realtà, perché lo spirito poco tempo prima dell’alba le chiarì ogni
incertezza.
<<Non sei sciocca, so che hai capito>>
<<Cosa vuoi dire?>>
<<Per favore non fingere, non ne sei capace. Ormai avrai capito che non sono come te, che non sono umana,
ma una pana. E sai anche che non posso, né voglio, farti del male; ti chiedo solamente un favore.>>
<<Quale favore?>>
<<Ho una figlia piccola, l’ultima. Ora non posso spiegarti le ragioni, ma è sola a questo mondo, ed io per ovvi
motivi non posso prendermene cura. Mi hai rivelato di volere un’altra bimba, ma di non potere. I dottori
temono per la tua vita, giusto? Sei ancora giovane, non rischiare, ti offro la mia; con te so che sarà al sicuro.>>
<<E perché dovrei farlo? L’hai ammesso tu stessa: non puoi farmi niente.>>
<<Se non vuoi farmi questo favore,ricorda che mi devi la vita….ti ho salvata io anni fa quando un cinghiale ti
inseguiva, trascinandoti sul ramo su cui mi ero rifugiata anch’io, ricordi? Non puoi ricambiarmi salvando me,
salva mia figlia allora!>>
Vincenza fece ancora un ultimo, disperato tentativo <<Ma cosa dirà la gente? Chiunque sa che non è mia
figlia!>>
<<Sei una ragazza sveglia, sono certa che troverai un modo>> Subito dopo svanì e un filo di fumo prese il suo
posto; infatti sorgeva il sole. Le due donne non si rividero mai più.
Vincenza però non ebbe il coraggio di abbandonare la bambina al suo destino, l’accolse in casa sotto un nuovo
nome. Raccontò a tutti, familiari e marito compresi, che fosse una trovatella passata davanti alla loro porta per
caso, e questo le portò grande ammirazione per la sua generosità. La bambina veniva trattata come la piccola
sorellastra e il ricordo delle persone che aveva amato sbiadì a poco a poco dalla sua memoria, tanto che a nove
anni le credeva frutto della sua immaginazione, sognate una manciata di anni fa.
Sardegna, Prammantellu. Anno 1397
<<Un maschietto, è un maschietto!>> gridò Vincenza uscendo dalla camera da letto.
<<Oh è fantastico madre. Come lo chiameranno?>> chiese subito Norma.
<<Stavano pensando a vari nomi, ma credo che alla fine lo chiameranno Antioco>>
<<Beh, il mio nipotino avrà un bel nome. Spero che diventi un buon partito, il nostro Antiogheddu>>
<<Ma Gaspare, marito mio, certo che lo diventerà>> Vincenza aveva aspettato il neonato più della figlia
Costanza, che lo aveva tenuto in grembo. <<Dovreste vederlo, ha i bellissimi occhi della madre e i capelli scuri
del padre. Quando diventerà ragazzo farà strage di cuori, il nostro piccolino>>
<<A proposito del padre, è veramente un peccato che Cesare non possa essere qui>>
<<Eh sì, ma sai meglio di me che non poteva restare>>
<<Hai ragione Norma, non poteva lasciare il campo in simili condizioni. Ma ora è tardi; Vincenza, andiamo a
riposare, sono sicuro che Norma sarà felice di assistere Costanza ed il piccolo, non è vero?>>
<<Certo padre, dormirò nella stanza affianco alla loro e così potrò accorgermi subito se hanno bisogno di me>>
E così fecero. Vincenza e Gaspare si addormentarono subito, cullati dal pensiero del loro primo nipotino; anche
Costanza e il piccolo Antioco dormivano beati. Solamente Norma non riusciva a prendere sonno; sentiva
qualcosa che la disturbava, come un bisogno, un istinto primordiale che non riusciva a comprendere. La sua
bocca aveva fame e sete, ma non sapeva comunicare alla mente di che cosa. La povera ragazza sentiva come un
prurito per tutto il corpo, la sua indole le diceva che non era quello adatto a lei, ma tutto questo non faceva
altro che spaventarla, essendo del tutto irrazionale. Per un’ora si agitò nel letto, cercando di trovare delle
risposte. Le sue sembianze cambiarono: la dolce e tenera fanciulla si trasformò così in una splendida lupa grigia.
La ragazza, non riuscendo a mutare nuovamente, fu colta da un enorme nervosismo e graffiò e morse tutto ciò
che le capitava sotto tiro con le nuove zampe e fauci. Ma questo avvenne troppo rapidamente per svegliare i
soliti abitatori della casa; solamente il piccolo Antioco fu destato da quegli orrendi ringhi. E il suo pianto
innocente giunse fino alle orecchie della belva che si trovava nella stanza affianco. A quelle lacrime la bestia
sentì l’acquolina salirle in gola e Norma riprese il suo normale aspetto; ma i canini le si allungarono e si fecero
due zanne affilate come rasoi. Ed a quel punto capì che le labbra secche le chiedevano una vita, che la sua gola
riarsa la pregava per ottenere il sangue della piccola creatura che piangeva. Sapeva quanto era sbagliato
assassinare un bambino indifeso, e proprio per questo per alcuni interminabili minuti tentò di ribellarsi ai suoi
bisogni, di lottare contro sé stessa. Ma la gola le bruciava ed il dolore era troppo forte; intanto il pianto era
cessato. Così entrò nella stanza da letto della sorella; lì era tutto così tranquillo e accogliente che sarebbe
tornata indietro se non avesse scorto la piccola culla in cui dormiva candidamente la creaturina venuta al
mondo da poche ore. In un lampo arrivò accanto il piccolo e lo afferrò. Questo si svegliò per la brusca presa e fu
terrorizzato dalla vista di quella spaventosa figura; il neonato ricominciò a piangere più forte che poté. Costanza
allora aprì gli occhi e si sedette sul letto. Inquadrò subito la scena, ma per via del buio non riconobbe la sorella.
<<Lascia stare mio figlio!>> gridò. Norma sorpresa lasciò ricadere nella culla la sua preda e si volse di scatto
verso la ragazza che aveva udito, che intanto aveva acceso una e la puntava verso l’intrusa; vide uno spettacolo
agghiacciante. Infatti, sebbene non avesse capito chi le si parava davanti, seppe di avere davanti una persona
amata. Infatti Norma era ormai irriconoscibile: la sua lunga camicia da notte era strappata quasi totalmente,
esito della sua prima trasformazione; il suo viso angelico poi era totalmente trasfigurato dal dolore della fame e
parzialmente coperto dai lunghi capelli biondi e le sue labbra grondavano sangue dalle ferite che si era
involontariamente inflitta. Ma vedendo il viso della sorella riprese il controllo e in quel momento Costanza
comprese chi aveva dinanzi dai suoi occhi, ma era troppo stupita per crederci. Quegli occhi però non avevano la
loro consueta allegria, ma comunicavano disperazione e supplica. Le due ragazze si fissarono per alcuni istanti,
senza curarsi del neonato che piangeva a pochi passi da loro. Poi Norma scoppiò in lacrime. <<Costanza per
favore aiutami, non capisco cosa mi succede, non sono più io>>
<<Infatti, non sei mia sorella. Tu non puoi essere lei, non ti credo! Tu le somigli molto, certo, ma non puoi essere
lei. Mia sorella non ha quella voce, né quelle zanne, tu sei un mostro! >>
Ogni parola le comportava un dolore atroce, non solo interiore, perché si vedeva scacciata dall’amata sorella,
ma anche perché con i suoi lunghi denti continuava a pugnalarsi la parte interna del labbro inferiore. Ma la
poveretta decise di fare ancora un ultimo, disperato tentativo.
<<Costanza, ti supplico, guardami: sono io. Sono la stessa che ti spingeva sull’altalena, credimi. Guardami negli
occhi e saprai la verità.>>
E Costanza infatti capì. Rimasero a guardarsi negli occhi in silenzio per un istante: quello fu l’errore. Infatti
proprio per colpa di quel silenzio Norma sentì i battiti regolari del bambino nella culla, e ciò fece scatenare la
sua sete. Il sangue che scorreva nelle sue piccole vene era per lei una prelibatezza a portata di mano. E difatti
stese il braccio e afferrò nuovamente il neonato; stavolta non ebbe il tempo di piangere: la coga spezzò subito il
suo fragile collo davanti agli occhi terrorizzati della madre. L’unica candela creava lugubri ombre sulla parete
mentre la bestia sotto forma di indifesa fanciulla, dopo aver inflitto con le zanne un terribile taglio sulla gola del
piccolo morto, ne beveva avidamente il sangue.
Costanza era sconvolta: mai avrebbe pensato ad una simile esperienza. Con la forza della disperazione tentò di
far ragionare quella bestia che in realtà sapeva bene essere la sorella. Si avvicinò cauta e le pose una mano sulla
spalla. <<Norma, so che non sei così, tu non sei malvagia. Un demone deve essersi impossessato del tuo corpo,
ribellati, combatti contro di lui!>> Una risata isterica uscì dalle labbra mutilate di Norma. <<Io sono tua sorella
proprio come quella ragazza che ti pettinava i capelli. Quest’istinto è parte di me, non posso ribellarmici,
stupida!>> Dei singhiozzi scossero le spalle di Norma <<Sono io che decido di uccidere, anche se vi sono
costretta. Ho una sete di sangue impossibile da domare, che mi fa male. Sento come la gola che mi brucia, e
anche se non voglio devo farlo, per far cessare la sofferenza. Da quando ho bevuto il sangue del piccolo poi la
sete invece di diminuire è aumentata. Scappa prima che riperda il controllo!>> Costanza allora fuggì dalla sua
stanza per rifugiarsi in quella della sorella e vi si barricò dentro. La camera era ancora come Norma l’aveva
lasciata: non c’era un solo mobile intatto, il letto era completamente squarciato, perfino nel muro erano
presenti dei graffi, anche profondi. In quella stanza si sentiva ancora meno al sicuro che nella sua. Passò
mezz’ora accucciata contro un angolo, sperando che Norma se ne fosse andata. Ma all’improvviso sentì che
cercava di aprire con rabbia la porta, che però, aiutata dalla barricata, non cedette. Pochi minuti dopo sentì che
tutto taceva, ed un topolino grigio si infilò sotto la porta ed entrò. Questo rimase per alcuni minuti a studiarla,
finché non si trasformò in Norma. Tutte le vie di fuga erano sbarrate, se n’era occupata la stessa assediata.
Norma avanzò lentamente verso la sorella. <<Norma, aspetta, vuoi veramente uccidermi?>> Lei stette ad
ascoltare, fermandosi <<Vuoi veramente uccidere me, tua sorella? Sono la bambina che giocava con te. Ricordi
quanti dispetti abbiamo fatto alla mamma? Per favore, non farmi del male!>> <<Illusa. Non hai ancora capito?
Io ne ho bisogno.>> rispose lei tra le lacrime <<Io non sono come te, stanotte sono cambiata. Questa è la mia
natura, non posso sottrarmi ad essa! Sarebbe come se io ti chiedessi di non bere più acqua, ma tu ne hai
bisogno. Anche per me è così, ma abbiamo esigenze diverse. So che non mi capirai mai, ma devo dirtelo. Io non
sono come te dalla nascita, sono nata con qualcosa in più: non hai notato che ho una coda? O pensavi che forse
non volesse dire nulla? Tu hai scatenato questo bagno di sangue: se il tuo bambino non mi fosse stato a portata
di mano prima di essere battezzato, probabilmente ora questo non sarebbe successo!>>
Norma sapeva che la colpa non era della sorella, che non poteva scaricare quel peso su nessuno; ma tentava di
auto convincersi di non essere un mostro. Ora sapeva che l’episodio dei suoi sei anni che credeva un sogno era
reale, e comprendeva anche la decisione del padre. Sarebbe dovuta essere abbandonata da tutti, ma ormai era
troppo tardi. E mentre la ragazza a cui aveva voluto bene cercava invano di fuggire in qualche modo, riprese ad
avanzare lentamente verso di lei. Frenò i singhiozzi, ma non le lacrime. E sempre piangendo la uccise e si cibò
del suo sangue. Riuscì a placare la sete, ma non il rimorso; e appena riprese lucidità si pentì di ciò che aveva
fatto e implorò il Signore di restituirle i familiari perduti. Ma era troppo tardi ormai e, affranta, afferrò un
pugnale e se lo piantò nel petto. Nessuno riuscì mai a comprendere ciò che era successo quella notte del 1397.