montefalcone di valfortore
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L E O N A R D O (P. S E R A F I N O ) Z E P PA MONTEFALCONE DI VALFORTORE Appunti di storia tradizioni cronaca folklore " Poi che la carità’ del natio loco mi strinse, raunai le fronde sparte" Inf.XIV, 1.2. 1 L E O N A R D O (P. S E R A F I N O o.f.m.) Z E P PA MONTEFALCONE DI VALFORTORE APPUNTI DI STORIA TRADIZIONI FOLKLORE " Poi che la carità' del natio loco mi strinse, raunai le fronde sparte" Inf.XIV, 1.2. Questo lavoro è rimasto per oltre una dozzina di anni abbandonato tra le altre mie carte, poi amici mi hanno convinto che non poteva essere di una qualche utilità' per la conoscenza delle nostre radici locali. Quando è stato compilato, attraverso pazienti ricerche, ancora nessuno aveva scritto sull'argomento, ma nel frattempo sono venuti alla luce altri lavori sul nostro paese. Non e' il caso, naturalmente, di vantare diritti di primogenitura quando si lavora per la propria terra, il vanto può consistere proprio nell'averlo fatto. Presento ai lettori e agli amici il frutto di queste mie ricerche, senza aggiunte e senza pentimenti, nella convinzione che esse possano essere un umile omaggio alla terra che mi ha dato i natali, e a quanti ad essa sono affettivamente legati. Benevento, 8 dicembre 1985 Padre Serafino Zeppa o.f.m. 2 INTRODUZIONE La storia dei nostri paesi la potremmo identificare, quasi sempre, con la vita abituale dei suoi abitanti, fatta di lavoro e di umanità'. Questa cronaca, che è storia di vita, è un po’ l'anima dei nostri padri che vive in noi, che continuare in quelli che dopo di noi verranno. È patrimonio da salvaguardare per l'uomo di domani, prima che tutto si dimentichi. Era stato un mio desiderio di sempre, poi spinto da amici e con la collaborazione dei miei fratelli, ho messo insieme queste note. Non è tutto, non è molto, ma scrivere la storia di un paese è sempre un'impresa ardua ed io spero che altri dopo di me facciano meglio. Queste note vogliono essere l'attestato di un atto di amore a quelle case arroccate sul monte, ai suoi abitanti legati alla nostra terra dallo stesso affetto. Lassù' c'è tanto di noi, i nostri morti, il ricordo della nostra fanciullezza, la speranza di un sereno domani. Lassù' c’è tutto di noi: il primo plasmarsi del nostro carattere che ci fa tutti un poco simili: spalle forti alle avversità della vita, cuore aperto alle sofferenze, animo proteso alla fraternità'; per questo, noi Montefalconesi, costretti ad emigrare "con la speranza di far altrove fortuna", anche se siamo dappertutto, ci sentiamo come membri di un'unica famiglia e le cose di casa vanno ricordate. 3 CONFIGURAZIONE Sugli Appennini che poi degradano e fanno corona al Tavoliere, sull'estrema parte della Campania che s'accosta al Molise e alle Puglie, a cavaliere sullo spartiacque tra l'Adriatico ed il Tirreno, è situato Montefalcone di Valfortore. Sorge questo paese su solida roccia puddinga (1) sul declivio di un ampio colle che si eleva maggiormente dalla parte occidentale, all altezza di 850 metri s.l.m. in modo che fino a poco tempo fa assumeva la forma di un falco in volo. È l'ultimo comune della provincia di Benevento. Dall'alveo del Fortore, presso la confluenza con il Vallone San Pietro, inciso nelle arenare mioceniche, inizia il confine del suo tenimento, che raggiunge M. Fagotto (m.897), da qui, seguendo la Valle dei Cesari o Varo di Cesare, sino a m.870, tra le cime della Difesa Vecchia. Passa quindi presso il bosco di Castelfranco in Miscano ed il Poggio Monticelli (m.834), raggiunge m. 742. Infine, girando a N.O., raggiunge il greto del Vallone Giuliante, ritornando sull'alveo del Fortore. Resta, perciò, delimitato a N.E. dal territorio di Foiano Valfortore verso S.O. con gli agri di San Giorgio la Molara, mentre a S.E. con gli agri di Castelfranco e di Ginestra, infine, ad Est con quello di Roseto Valfortore. È posto a 41, 15 gradi di latitudine Nord, a 2, 30 gradi longitudine Ovest. Dal colle, nella parte superiore, sono visibili i monti della Terra di Lavoro, del Molise e della Capitanata. Fa parte della XII zona montana del Fortore con una superficie di kmq. 41, 72. Però la sua particolare posizione geografica aperta ed esposta ai venti, per la sua altimetria e per la sua lontananza dal mare, Montefalcone ha il clima con le caratteristiche quasi di quelle "Boreali": l’inverno è particolarmente freddo, umido con abbondanti nevicate ed è abbastanza lungo; la prima nevicata si ha abitualmente ai principi di novembre e l'ultima verso la fine di aprile. Le stagioni di transizione (primavera ed autunno) sono brevi, umide e fredde; l'estate mite. Durante il periodo invernale la neve cade abbondantemente e spesso si resta completamente isolati. Ghiaccioli traslucidi, poliformi, a guisa di svelte stalattiti, pendono dai tetti, mentre un gelido vento trasporta innumerevoli granellini di neve, oscurando il cielo ('a pulivina!). Era abitudine, fino a poco tempo fa, di suonare le campane a intervalli nei giorni di tempesta: il loro suono serviva a fare orientare facilitare, quindi, la strada del ritorno ai contadini che si trovavano sparsi per i campi. Dominano sovrani per quasi tutto l'anno la borea, lo scirocco e la tramontana. 4 IDROGRAFIA Da questi monti, come le passerelle di un grande anfiteatro, tanti torrentelli confluiscono, al disciogliersi delle nevi, nel Fortore (antico Frento), che in questo territorio ha la sorgente (a Grotte m. 835) e sbocca nell'Adriatico segnando il confine della zona frentana, secondo alcuni geografi, segna anche il confine tra l'Italia Centrale e quella Meridionale. Il suo corso è di 76 Km fuori della nostra provincia. La larghezza dell'alveo varia dai 10 ai 200 metri. È a carattere torrentizio, magro d'estate e procede lento e pacifico; si ingrossa paurosamente d'inverno, rodendo centinaia di metri cubi di terra fertile e provocando paurose frane. Anticamente fu chiamato anche Theano, dalla omonima città (di cui non vi sono più tracce) che sorgeva alla sua destra. È ricordato da Plinio nella Historia Naturale: "Flumen pontuosum Frento, Theanum Apulorum, itaque Larinum Cliterea, Tifernus hominis". (2) Plinio lo assegnò alla Daunia, secondo la ripartizione orografica di Augusto. Secondo l'Alberti fino al secolo XVI era navigabile alla foce. I danni che il Fortore reca alla valle che attraversa sono parecchi, pochi invece i vantaggi, ad eccezione del lavoro procurato ai nostri operai per i tanti cantieri che dall'epoca fascista si sono susseguiti per opera della Forestale, per cercare di arginarlo e limitare i danni alle colture. A SW di Montefalcone, verso la montagna di S. Giorgio la Molara, è ubicato un laghetto detto "lago Mignatta", perché ivi si trovavano moltissime sanguisughe, distrutte poi perché, per pescare le anguille ed altri pesci che vi si trovavano, vi buttavano dentro la calce. Ora il lago, anche a causa dei detriti terrosi depositati per lo spostamento di terra per la strada Montefalcone-Bivio di S. Giorgio-90bis, è diventato un acquitrino paludoso ed alle sue sponde vegetano erbe selvatiche, nonostante le promesse che sarebbe stato curato per allevamento delle trote ed altri pesci pregiati. Parlando dell'idrografia di Montefalcone è necessario dare un accenno alle numerose fontane di cui è ricca, e direi che allietano, il suo territorio. In contrada "Prato" sorge una bella fontana dalle acque limpide e cristalline. Ha sul davanti un vasto prato in dolce declivio, dove tanti cittadini vanno a consumare la loro merenda nei meriggi estivi. In contrada "Turzo Vecchio", non lontano dal centro, nella sua parte più bassa, sotto un balzo di roccia calcarea sorge un'altra fontana di acqua purissima con dinanzi la visione del bosco detto "dell'Abate"; mentre sulla provinciale che mena a Castelfranco in Miscano, vi è l'acqua detta del "Pilone", luogo della quotidiana passeggiata dei giovani e dove, durante il periodo di magra, vanno ad attingere acqua numerosi forestieri dei paesi limitrofi. Numerose poi le fontanelle lungo gli agresti sentieri che nel loro limpido gorgoglio o nel murmure sommesso fanno da bordone allo spirar dei venti, danno un senso di refrigerio e tanta nostalgia producono quando si è costretti a vivere lontano. Nel libro di Filippo Cirelli: "Il Regno delle Due Sicile descritto ed illustrato" si legge: "Vi sono nel tenimento di questo Comune, e quasi tutte vicino all'abitato, meglio che ottanta fontane, tutte di acque perenni, potabili e di ottima qualità. Vi è poi a Sud il torrente Mazzocca che serpeggia alle falde di Ginestra degli Schiavoni ed il S. Angelo che confluiscono nel Miscano". (3) 5 FLORA La flora, essendo il clima variabile, ne risente sensibilmente. V'è la vegetazione spontanea della ginestra che, come la nostra gente, ne sembra infatti il ritratto, si abbarbica a poca terra, dà al brullo paesaggio estivo una nota di colore e contiene il terreno franoso lungo i dirupi. Nel periodo della guerra di Abissinia, durante le sanzioni economiche, fu pure fittato il terreno alla "Crocella", attuale rione S. Marco per farvi sorgere una industria tessile per sfruttare le fibre delle ginestre; poi sopraggiunse la seconda guerra mondiale e non se ne fece più niente. Una volta grandi ed estesi querceti dominavano buona parte del territorio, dando facile rifugio ai "briganti" che infestavano la zona; l'aumento della popolazione relegò queste maestose piante in macchie più o meno estese, lasciando ai luoghi solo il ricordo del nome: bosco Gallizia, bosco dei Coralli, ecc... Venuti meno i boschi si cominciarono a coltivare i cereali su più vasta scala, tanto da poter soddisfare l'esigenza del Comune e poterne anche esportare; ora si coltiva frumento, granoturco, avena, ecc. Oltre ai piccoli boschetti accennati, vi è un bosco di proprietà del comune, folto ed incantevole, con un'estensione di 500 tomoli. (4) Fra gli alberi più diffusi, oltre al quercia, vi è il pioppo, olmo, l'acacia e l'acero ed ora cominciano a svilupparsi le piante resinose (pino, abeti, ecc.) messi a dimora dal Corpo Forestale dello Stato per l'opera di rimboschimento. Nella parte bassa dell'agro montefalconese, specie in contrada "Isca", vi sono dei vigneti, oliveti e limitati frutteti che, per la configurazione ed esposizione della zona, producono, anche se poco, vino ed olio di ottima qualità. Da menzionarsi sono gli asparagi ed i funghi, e fra questi il più squisito il "Cardarello", che crescono spontanei e sono ricercati per il loro sapore. La popolazione, anche quella agricola, vive nel centro abitato, tanto più che d'inverno, date le abbondanti nevicate, è impossibile vivere in campagna ed i contadini ogni giorno percorrono fino a tredici quattordici chilometri, tra andata e ritorno, per recarsi nei campi. Il territorio è occupato anche da prati e pascoli, e, benché vi sia un'ottima pietra cementizia, questa è solo in parte sfruttata dalle cementerie di Ariano Irpino, ma senza alcun vantaggio economico per il nostro paese, con danno solo delle nostre strade per il passaggio continuo di mezzi pesanti. 6 FAUNA Si allevano in questo centro tutti gli animali domestici e da cortile, come in ogni parte d'Italia. Fra gli animali selvatici sono da notarsi; qualche lupo di passaggio, durante il periodo invernale, proveniente dall'Abruzzo, la volpe, il tasso, la faina, la donnola, la lepre, la talpa, il cinghiale. Fra i rettili se ne trova anche qualcuno di grosse dimensioni, comunemente chiamato " 'mbastora vacche" (5), perché si attorciglia intorno alle gambe dei bovini. Abbondanti e numerosi sono i volatili di ogni specie fra cui l'anitra selvatica, la ghiandaia, al gazza, il passero, il cardellino, il pettirosso, il piccione casalingo e selvatico, la tortora, il merlo, il rigogolo, l’usignolo, la quaglia, la starna, le beccacce durante il loro passaggio, insieme alle pernici e qualche gallo selvatico o di bosco. Durante la stagione estiva, il paese è messo a festa dal trillo gioioso di mille rondini che volteggiano intorno alle abitazioni elevate ed ai campanili. È da notare che tutto l'agro di Montefalcone è ricco di cacciagione e la zona, durante il periodo di apertura di tale attività sportiva, è percorsa in tutta la sua estensione dai devoti di S. Uberto. Come abbiamo accennato prima, vi si incontrano volatili di ogni sorta, ma vi abbondano, data la caratteristica configurazione del terreno anche le lepri, specie in contrada "Pagliano", "Serra", "Trivolicchio", "Acqua Santa" e "Fontana Iatella", mentre le beccacce si incontrano lungo gli affluenti torrentizi del Fortore nel periodo invernale. Il bosco di Montefalcone, come quello di Castelfranco, durante la stagione venatoria è il posto ideale per i cacciatori ed infatti vi giungono da tutte le parti ed il loro arrivo - all'apertura della caccia - è come una festa ed i montefalconesi hanno modo di manifestare il loro cuore con la più cordiale ospitalità che è nota distintiva della nostra gente. 7 ARTIGIANATO Sulla massa dei contadini spiccava, in altri tempi, l'esiguo numero degli artigiani. Ancora oggi gli artigiani sono i migliori della zona e sono apprezzati in qualunque luogo si portano a prestare la loro opera; ma molti ricordano ancora le figure di quelli che non sono più e che col loro prestigio riempirono la vita del paese. Chi non ricorda ancora mast'Abele Lucarelli, Florestano, Guglielmo, Luigi, Battista Belpedio, ecc.? Era un bel titolo, più che ambito, quel "masto" che adornava più di un bel "Don". In paese vivevano pochi "don": il parroco, il farmacista e qualche altro; questi però esulavano dal vero ambiente della nostra gente, perché non vivevano la vita di tutti gli altri dediti ai campi. Gli artigiani erano i più stimati del paese e la stima proveniva dal continuo riconoscimento della loro superiorità. Lavoravano in bottega o "andavano a giornata" a offrire le loro prestazioni presso gli altri e, pur distinguendosi come classe operaia privilegiata, impediva ai contadini quell'invidia che, quasi sempre, ha fatto chiamare sfruttatori quelli che non fanno un lavoro materiale. Essi poi sapevano leggere e scrivere ed erano i soli, insieme ai "don", a sapere tanto. Il motivo vero, però, di tanta stima e che li ha fermati nel ricordo delle generazioni succedutesi, è che questi erano degli "artisti" e nel senso più alto della parola. Ognuno di questi non solo costruiva un muro, ma di questo muro aveva preparato col suo scalpello ogni pietra adornandola di fregi che riteneva necessari e quel muro faceva parte di un progetto che egli stesso aveva ideato, disegnato, preparato minutamente in tutte le sue parti: era nello stesso tempo operaio specializzato, ingegnere scrupoloso, architetto completo. Il loro sapere non si arrestava solo a leggere o a fare di conti, sapevano dei calcoli per la costruzione di una casa o di un ponte, valutavano le scelte di un colore o indicavano la preferenza di un materiale. Avevano soprattutto una innata genialità che faceva risolvere di volta in volta ogni problema del tempo e del luogo, comunque o dovunque si affacciasse. Basta soffermarsi dinanzi a qualche vecchio portone che non è stato distrutto dalla mania del moderno dei nostri muratori per rimanere incantati e riandare al ricordo di quelle vecchie figure. Oggi l'artigianato in paese è quasi finito: mancano i "mast” e mancano i ragazzi ed i giovani che trascorrono la loro vita in bottega per imparare faticosamente il mestiere. Anche a Montefalcone si studia e si va fuori: si ha bisogno di lavoro per il guadagno. 8 ORIGINE DEL POPOLO Dovendosi parlare delle memorie storiche della nostra terra riteniamo opportuno soffermarci brevemente a considerare l'origine del nostro popolo. È certamente di origine antichissima. Il Cirelli parlando dell’Origine e Storia" di Montefalcone così scrive: "Quando di una terra abitata non si trova accenno in un libro di geografia antica, o d'istoria, o di corografia; ovvero passeggere menzioni soltanto se ne leggono, dalle quali niuno argomento può trarsi della sua origine, allora per lo più sorgono curiose patrie tradizioni che attribuiscono a quella terra origine favolosa, e talvolta eroica. Non disconveniamo che talvolta la tradizione è la migliore ausiliaria della storia; ma perché se ne possa far conto, conviene con rigorosa critica decifrare il vero dal falso, il probabile dall'improbabile, depurando le popolari tradizioni da quel municipalismo che le altera: diversamente si scriveranno storie ideali e fantastiche, come le tante volte è avvenuto. Or di Montefalcone non si trova menzione alcuna negli antichi scrittori. Da ciò due conseguenze: una più consentanea al vero, ed è che nei tempi in cui quegli autori scrissero, questa terra non avesse un'esistenza civile, l'altra sostenuta della supposizione tradizionale di quei naturali che l'origine di Montefalcone risalga a tempi remotissimi, e si disperda nella notte dei secoli". (1) Non sono concordi gli storici nello stabilire se siano stati i Frentani a dare nome al fiume (Fortore), o il fiume a dare il nome al popolo; Cluverio, infatti, (2) dopo aver fatto tutta una chiarificazione affinché non si confondano i Frentani con i Ferentani, scrive: "Caetero, utrum Frentani, quum digressi a Samnitibus in haec loca pervenerunt, novum sibi nomen ab Amne imposuerint; an vero de suo nomine Amnem appellaverint, incertum est". L'Anonimo di Milano nella sua Tavola Corografica sostiene che i popoli hanno preso il nome dal fiume Frento e lo suppone come di cosa certa: "Certum est vetere Frentonem, a quo sunt cognominati, fuisse protensos". (3) Così vuole la Martiniere nel suo Dizionario Geografico: cioè che il fiume Frontone, oggi Fortore, abbia dato il nome ai Frentani. (4) Leandro Alberti in Italia Antiqua - sopra citata - è di parere diverso e vuole che i Frentani abbiano preso il nome dal Castello Frontone, che mette vicino a Teano di Puglia, oggi detto Civitate, ma ciò è negato da tutti gli storici, in quanto presso Civitate non v'è mai stata traccia o tradizione di un tal castello; riteniamo piuttosto che si tratti proprio del castello di Montefalcone, infatti Jamalio dice: "Una torre antichissima, forse sannita, sorge nel mezzo del paese". Così anche Domenico Maggiore in Napoli e la Campania, - Guida Storica, Pratica ed Artistica. (5) Il P. Lodovico Ventura dice: "Dalla sconfitta di Caudio in poi le azioni guerresche dei Romani contro i Sanniti si svolgono in massima parte nel Sannio Meridionale; era di qui che i nemici minacciavano continuamente la Campania; qui anche le legioni Romane per le condizioni topografiche della regione potevano meglio spiegarsi e combattere. La sede dei Caudini dai quali avevano subito l'onta del giogo; di qui la via più breve, diretta e facile per giungere ad Arpi, città appula alleata sin dal 326 e da Arpi a Luceria che con la rotta di Caudio era rimasta in mano ai Sanniti. Infatti, dopo le Forche Caudine la prima brillante azione militare dei Romani fu quella del 320, quando entrambi i consoli combinarono i loro movimenti contro i Sanniti. Papirio Cursore, girando dall'alto e scendendo lungo l'Adriatico, si diresse ad Arpi, di qui iniziò l'assedio di Luceria per liberare i cavalieri romani dati in ostaggio nella pace di Caudio. 9 Publilio avanzò nel Sannio Meridionale contro le legioni Caudine, le sbaragliò con tanto impeto che non riuscirono a riordinarsi nemmeno nei propri accampamenti, ma fuggirono sbandate e dissipate, fin verso Luceria dove finalmente potettero raccogliersi insieme (XII- XIV). Chi conosce anche superficialmente la regione beneventana, identifica senza difficoltà il cammino seguito dai Sanniti fuggiaschi verso Luceria e l'inseguimento di Publilio. Sia che la rotta dei Sanniti avvenne nella valle Caudina, sia in quella Telesina o anche Alifana, la via per fuggire verso Luceria era in tutti i casi verso il territorio settentrionale di Buonalbergo. Essi scavalcarono la linea dei colli tra Montefalcone e Castelfranco, si gettarono nella vallata del Fortore, e furono alla presenza di Luceria". (6) Anche il compianto Arciprete Sisto Di Giuseppe, in alcuni suoi appunti, asseriva che le origini di Montefalcone vanno ricercate in un antico Vallum Sannita, di cui ancora oggi restano tracce nella contrada chiamata Vallo di Cesare. Quanto all'origine dei Frentani, nemmeno concordano gli storici; alcuni ritengono che i Frentani provenissero dai Sanniti; altri che provengono dai Luburni; altri dai Sabini, ed altri dagli Etruschi. Quelli che vogliono che i Frentani provengano dai Sanniti si rifanno alla autorità di Strabone lib.5 Supra Picenum, dove dice: "........... atque Frentani Samnitica Gens". Lucio Camarra volendo dire che i Marrucini non provenissero dai Sanniti, ma dai Sabini, vuole che sia cosa diversa dire Samnitica Gens come Strabone chiama i popoli Frentani, che dire Samnites Populi, utmox Hirpinos, e che chiamando i nostri popoli Gens Samnitica, ciò debba riferirsi vel ad genus, cioè rispetto alla loro origine Sabinese, comune anche ai Sanniti, vel ad armaturam, che usavano tanto gli uni che li altri popoli; "Quippe Scriptor ille, parla di Strabone, non Samnites nostrates appelavit, ut mox Hirpinos, sed Gentem Samniticam, vel ad armaturam. Ad genus quidem, quia ut alibi diximus, nostrates Populus a Sabinis ortos consuere nonnulli, a quibus etiam Samnites, unde et ii pariter Sabelli dicti. Ad armaturam vero, propter hastae genus, unde et Samnitibus nemen Festus ait = quae, ut nostratum, sic etiam ad Silii mentem Sabinorum erat, e quibus Samnites, nostratesque prognati". (7) Quelli che vogliono, poi, far discendere il nostro popolo dai Liburni, Dalmati e poi Toscani o Etruschi basano le loro argomentazioni su frammenti che si attribuiscono a Catone: "Frentani primum a Liburmis et Dalmatis, inde his pulsis, a Tuscis orti" (Orig.lib.2). Noi siamo propensi, piuttosto, a congetturare che in diversi tempi ed occasioni diverse i luoghi dei Frentani sono stati abitati da gente diversa; in più trovandosi la nostra zona ai confini e dividendo gli "Apuli dai Frentani", come dice Leandro Alberti nella descrizione dell'Italia, ove parla della Japigia (p.228), è logico che ci sia anche miscuglio o comunanza di popolazioni. 10 ORIGINE DEL NOME Diverse e curiose sono pure le investigazioni sulla origine del nome. Alcuni dicono fosse stato imposto dal suo fondatore di nome "Falcone" o da un grande possessore terriero del periodo normanno, da cui prese il nome di Monte di Falcone; altri perché qui si annidano a stormi gli uccelli di questo genere; altri per la disposizione delle case che offrivano fino a poco tempo fa la figura di un volatile con le ali spiegate, come se il falcone fosse l'uccello per antonomasia; altri congetturarono essersi così chiamato dal vicino monte Gallizi tramutato poi, e non comprendiamo per quale analogia, in quello di Falcone, e finalmente per qualche uccello di questo nome apparso, e ritenuto come favorevole auspicio allorché di questo paese si gettavano le prime fondamenta. Così il Cirelli: "Egidio Finamore nel suo libro "Origine e Storia dei nomi locali Campani" (riteniamo che i nomi composti, nella seconda parte possono essere ispirati al culto delle piante o degli animali e tra gli altri cita Montefalcone di Valfortore). In quest'ultimo caso troviamo il toponimo completo da quello della Valle che il paese domina dall'alto dei suoi 800 metri". Non è da escludersi però, che tale nome sia stato assegnato per la sua posizione elevata; ritroviamo infatti diversi luoghi elevati che aggiungono alla prima parte del nome quello di falcone e basterebbe citare il celebre "Pizzo Falcone di Napoli". Pur non potendo stabilire qualcosa di preciso circa l'origine del nome, noi riteniamo più probabili le ipotesi del fondatore o proprietario terriero e della sua posizione elevata e non quella della disposizione delle case, in quanto la forma l'ha assunta con il tempo; prima era tutt'intorno al castello, e il nome avrebbe già dovuto averlo. Non accettiamo l'ipotesi del falco apparso e ritenuto come buono auspicio nel gettare le fondamenta, perché sappiamo che i paesi sorgono un poco alla volta e senza intenzione. Se poi riteniamo che il falco fosse l'uccello per antonomasia della nostra terra, entriamo nella ipotesi del luogo elevato, perché il falco è proprio l'uccello delle alture, che resta, insieme all'ipotesi di Falcone proprietario, la più plausibile. Nel 1863 Vittorio Emanuele II fece assumere la specificazione di Vallo Fortore per evitare confusione di omonimie. 11 STORIA Intorno a Montefalcone vi erano diversi casali: S. Luca, dove esisteva un monastero dell'Ordine Eremitico di S. Agostino; il Cirelli dice, infatti: "Nell'elenco dei Monasteri dell'Ordine Eremitico di S. Agostino, che leggesi come appendice a quelle costituzioni stampate, fra i conventi della Congregazione Dulcetana di Puglia si trova registrato un Convento con le parole: Montisfalconem". Cirelli asserisce ancora che tra i ruderi di detto Monastero sono stati rinvenuti diversi arredi sacri. Vi erano ancora i Casali di S. Marco, S. Lorenzo, S. Cristoforo, S. Angelo e Castello, dove oggi si estende Montefalcone. Secondo il linguaggio medioevale, il Casale era posto di presidio militare ed era chiamato anche Castello nel senso di "Casale Alto". Questi Casali, sempre secondo la tradizione, si vennero a formare a seguito della distruzione di Equus Tuticus (oggi S.Eleuterio, nei pressi di Castelfranco in Miscano), città osca ed importante nodo stradale. Vuole la tradizione, ancora, che gli abitanti di S. Luca dovettero abbandonare quel contado per invasioni di formiche e per motivi tellurici e si stabilirono dove è l'attuale rione S. Luca o Ripitella. La toponomastica di Montefalcone ricorda ancora questi borghi. Montefalcone ebbe una cinta di mura con tre porte che servivano di accesso anche al Castello. Una detta "Orientale" era costruita vicino al campanile di Santa Maria, l'altra alla contrada "Ponte" ed era detta "Latrona", la terza a S. Giovanni ed era chiamata "Porta del Castello" che era un sicuro propugnacolo alle aggressioni nemiche. 12 IL CASTELLO Su una roccia di natura puddinga sorgeva il castello di Montefalcone, il quale dominava tutta la Valle del Fortore e la parte montuosa della provincia di Foggia. Dell'antico castello si conservano oggi solo i ruderi di un massiccio torrione. Esso si ergeva superbo fra le umili casupole allora esistenti, come gigante fra una turba di servi. Sulla torre, esposta ai quattro venti, vigilava la sentinella, che, col suono del corno, annunziava ai villani l'avvicinarsi dei nemici, perché i fanti si apprestassero alla difesa del castello. La sua pianta aveva forma di rombo, nella parte centrale vi sorgeva il cortile, in mezzo al cortile v'era una cisterna profonda una decina di metri, la quale forniva l'acqua agli abitanti del castello. Era recinto di mura massicce. Nell'interno tutto era costruito a fine di difesa e non per comodità. Il castello era composto da due piani; al disotto del primo piano vi erano i depositi di armi e comunicavano con i rifugi segreti che uscivano fuori dell'abitato. Due erano questi rifugi: uno attraversava la parte sinistra del paese, l'altro quella destra; quest'ultimo con una galleria lunga 1500 metri sboccava in contrada Grotta, sotto un balzo tufaceo, l'altro sboccava in contrada Concilio; lungo 2000 metri. L'origine del castello risale all'epoca di Federico II, nipote del Barbarossa, che sposò Costanza d'Altavilla, figlia di Ruggiero III. Federico II, divenuto Re di Sicilia, volle risolvere la questione dei Musulmani delle Isole, tradizionalmente fedeli e devoti alla monarchia, ma irrequieti e turbolenti, anche per la generale avversione che verso di loro sentivano i cristiani, in mezzo ai quali essi vivevano. Federico II li trasferì in parte a Lucera, in Capitanata, ed in parte a Nocera, in Campania. La colonia di Lucera fu particolarmente numerosa ed ivi nel 1237 Federico II fece costruire un castello per la tutela degli stessi Musulmani. In questo secolo sorsero pure i castelli di Tertiveri, di Motta Montecorvino, di Pietra, di Alberona e di Montefalcone Valfortore.(1) La tradizione patria attribuisce la costruzione del castello a Federico Barbarossa, che lo teneva come luogo di sfuggita nelle vicende guerresche. È questa una attribuzione del tutto errata, in quanto il Barbarossa tentò di scendere nell'Italia Meridionale, ma dovette retrocedere, poiché il suo esercito era stato colpito da una forte epidemia. In questo castello venivano a trascorrere i periodi di riposo gli Angioini di Napoli. Nel giugno del 1440 il castello era abitato da un certo Giannotto, signore di Montefalcone (2) e nello stesso anno vi fu Alfonso d'Aragona I, re di Napoli. Questo ultimo avendo saputo che il re Renato si era recato a Carpignano, per abboccarsi col Duca di Bari, andò nelle terre del Conte di Avellino, Troiano Caracciolo, e tutte le mise a sacco e fuoco; di qui si diresse a Montefalcone, sebbene Giannotto fosse fedelissimo al re Renato, dopo uno strenuo combattimento, per la poca costanza dei suoi vassalli, fu costretto ad arrendersi al re Alfonso. Nel 1343 il castello fu colpito da una scossa di terremoto ne devastò la parte settentrionale. Nel 1806 fu nuovamente colpito da una scossa tellurica, riportando lievi danni. 13 Nel 1809, essendo divenuto ricettacolo di manipoli di briganti, fu distrutto dalla Guardia Civica. Tommaso Vitale, nella storia di Ariano e sua diocesi, parla di questo castello ed il Cirelli lo riporta quasi integralmente. Il Vitale (3) parlando del castello così si esprime: "Nel palazzo (i montefalconesi ancora oggi lo chiamano così), un tempo Baronale, chiamato ben anche Castello, oggi col Demanio pervenuto alla Università, in una lapide fregiata di molti lavori di intaglio, che doveva servire da architrave di porta, leggesi inciso: HOC OPUS CONDITUM FELICI FERDINANDI TEMPORE REGIS MCCCCLXXXVII FELICETER ERAT AMENA e sulla porta della stessa scala dello stesso Castello A.D. MCCCCLXXXVII Da un lato di essa porta vi è inciso in pietra un'impresa con un pesce in mezzo, e nel lato opposto ve n'è un'altra; nella metà del di cui scudo vi si osserva un leone in piedi". Il cronista Falcone Beneventano, descrivendo l'accampamento di Rainulfo vicino al castello di Tufo, per assediarlo, parla dei soldati a piedi ed a cavallo riuniti da Giordano, famoso conte di Ariano, che si recavano sopra il castello di Montefalcone, poco lontano dal padiglione ed accampamento di Rainulfo = Giordano, famoso conte di Ariano, audienes Rainulphum Comitem super Tufum illud Castelli munitiones costruxisse et oris omnibus peditumque manu copiosa ad Castellum, qod Montefalconis dicitur, non longe a Rainulphi comitis tentoriis tetendit". Il Vitale ed il Cirelli ben si oppongono a questa ipotesi, ritenendola un errore dei copisti, dovendosi leggere Montefalcione, che è vicino alla terra di Tufo, vicino anche a "Montefuscoli", mentre Montefalcone ne dista più di venti miglia. "Dalla iscrizione su riferita, inoltre, scrive il Cirelli, (4) non possiamo con certezza dedurre che il castello sia stato edificato in tempo di re Ferdinando d'Aragona; tanto più che la lapide in cui leggesi la epigrafe suddetta, si suppone che dovesse servire di architrave di porta nel castello, ma in effetti non fu mai vista situata in nessuna parte di questo edificio. Noi, nulla volendo togliere alla probabilità, che il castello una opera fosse di Re Ferdinando d'Aragona, ai tempi del quale sappiamo che molte di tali opere furono costruite in vari punti di questo Reame; crediamo di doversi pure tenere in qualche conto la tradizione patria, la quale attribuisce la fondazione del castello medesimo a Federico Barbarossa, ad oggetto di averlo siccome luogo di sfuggita nelle vicende guerresche". Noi, come prima abbiamo accennato, riteniamo, invece, il castello opera di Federico II e che con l'andar del tempo il popolo che diceva: "il nipote di Federico Barbarossa" ha ridotto la frase solo a "Federico Barbarossa". Nei registri delle Cancelleria Angioina troviamo (5): "Per la difesa contro i Saraceni il Re ordina munirsi il Castello di Crepacode, inviandovi da ciascuna delle città convicine duecento serventi". "KAROLUS magistri iuratis Baiulis et universis hominibus Ariani Montis fusculi Padulis Apicii-Montis calvi. Junculi Casalbuli Flumarii. Vici et Casalium ipsorum Cripte et Ripelonge. Cum ad custodiam et defensionem vestram mandavimus refici. Castrum Crepacordis (6) et muniri militibus nostris et peditibus ut Saraceni non possint vos et res vestras recipere vel aliter ledere vos mandamus etc. quatenus ducentos servientes bene munitos armis ferreis vel acutis et capellis, juppis et lanceis vel balistis et aliis necessariis ad bellandum ibidem et quingentos alios cum securibus sive cunnatis et palis et zappis magnariis et omnibus aliis necessariis ad faciendum fossata et clausuram 14 dicti castri sive palicia seu palaciatas et ad reficiendum dictum locum visis litteris seguenti die post receptionem presentis apud montem calvum trasmittere debeatis ita quod ibi congregatos omnes ad plus die dominico quartodecimo mensis Julii deinde venient ad dictum locum crepacordis ubi invenient miliciam nostram existentem ibi et expectantem servientes et alios sopradictos, et detis pro unoquoque servienti tres augustales per mensem facientes eis pagam pro uno mense et sciatis quod si aliquis vestrorum locorum non miserit bonos servientes et bene armatos predictos homines cum palis et aliis supradictis ad predictum locum et terminum pro quolibet serviente vel alio qui deficiet vel erit minus, sufficiens, quattuor augustales a loco negligentiam commictente inremissibiliter exigi faciemus, et volumus etiam quod in numero destro sint castrum sancti severi et montis mali licet superius propter oblivionem non fuerint denotata et ut celerius fiet inter vos servientes et predictos alios dimidium et adequare fecimus prout inferius continetur, scilicet arpinum servientes XXVIII et alios cum palis cunnatis seu securibus zappis mannaicis et aliis necessariis homines XXXXV junculum servientes XII et alios cum zappis et aliis supradictis XXX. Arianum servientes XXX et alios cum zappis et aliis LXXV. Monsfalconis servientes VII et alios homines cum zappis et aliisXVIII… Trattando il documento citato di avvenimenti del 1252 e parlando già di Montefalcone che manda i suoi uomini, e rilevando dai registri della Cancelleria Angioina, (7) come vedremo, che nell'anno 1266 a Matteo di Letto fu da Carlo I restituita Montefalcone, e metà di Montecalvo, che aveva per concessione dell'Imperatore Federico II, è da supporsi che il castello fosse opera di questi. "Carlo ai mastri giurati, ai balivi, e a tutti gli abitanti di Ariano, Montefusco, Paduli, Apice, Montecalvo, Zungoli, Casalbore, Flumeri con i rioni e casali di Cripta e di Ripalonga. Quando stabilimmo per vostra protezione e difesa che fosse riparato e rinforzato con nostri soldati e fanti il castello di Crepacorde, perché i Saraceni non potessero impossessarsi dei vostri beni o altrimenti ledervi, mandammo per la necessità 200 ausiliari ben muniti di armi ferrate e scudi ed elmi con dardi e lance e frecce e l'altro necessario alla guerra; altri 50 con scure fatte a punte e pale e zappe larghe e ogni altro utensile necessario a scavare fossato a difesa del detto castello; e ugualmente pali di palizzate per la riparazione del luogo: viste le lettere nel giorno successivo alla ricezione della presente dovrete trasmettere notizie a Monte Calvo così che tutti quelli ivi radunati, al massimo la domenica 14 luglio possano venire alla suddetta località di Crepacorde dove troveranno la nostra milizia ivi stazionante in attesa di aiuti e di tutto l'altro suindicato: darete a ciascuno ausiliare tre agostali (moneta di Federico II) a mese per la paga di 1 mese: sappiate che se qualcuno di codesta località non avrà mandato validi ausiliari bene armati con pale ed il resto già specificato al predetto luogo e nel termine suindicato, per ciascuna unità mancante e per altro che sia di meno per numero, per qualità insufficiente, obbligheremo che siano pagate irremissibilmente per colpa della negligenza 4 Agostali: vogliamo anche che nel numero destro siano annoverati il castello di S. Severo e Monte Malo benché prima per dimenticanza non siano stati indicati. Affinché ciò avvenga al più presto abbiamo fatto distribuire a metà tra voi i serventi e gli altri indicati così come si chiarisce sotto, cioè: Arpino con 18 ausiliari e altri con pali appuntati; 35 uomini con l'altro necessario; 12 serventi e altri 30 con zappe e l'altro materiale suindicato; Ariano 30 serventi e altri 75 con zappe e altro. VII serventi di Montefalcone e 18 altri uomini con zappe ed altro. 15 FEUDATARI Nell'epoca normanna, come si rileva nel catalogo dei Baroni al N^ 323, rubrica Contea di Civitate = Domina Montis fiasconis sicut dixit Guardemus, tenet Montefalconem quod est feudum duorum militum (La padrona di Montefalcone, come disse Guaremondo, possiede Montefalcone, il quale è un feudo di due soldati) sembra quasi certo che questa feudataria dovesse essere la moglie di Guglielmo Petrofranco, il quale possedeva Roseto. Ancora nello stesso Catalogo, sotto la medesima rubrica Contea di Civitate al N^ 341, vengono nominati i seguenti signori di Montefalcone: Robertus de la Rocca, Robertus Manerius, Raynaldus Montis Dragonis, Hugo Elia, Hericus de Laysa, et Robertus de Laysa tenet Montefalconem quod, sicut dixit Hugo filius Acti, est feudum duorum militum et cum augumento abtulerunt milites quatuor et servientes X. (Roberto della Rocca, Roberto Manerio, Rinaldo di Monte Dragone, Ugo di Elia, Enrico e Roberto di Laysa possiede Montefalcone, il quale, come disse Ugo figlio di Atto è feudo di due soldati e con l'aumento quattro soldati e dieci servi). Nell'anno 1266 a Matteo di Letto fu da Carlo I restituita Montefalcone e metà di Montecalvo, che aveva per concessione dello imperatore Federico II. Essendo stato ribelle a Manfredi da questi fu privato dei feudi, che vennero dati al genero Jacopo Da Matteo, infatti erano nate due figlie: Sica, la maggiore, aveva sposata Jacopo Danzella, Pergus, la minore, era andata sposa a Bartolomeo di Tocco, figlio di Matteo. Jacopo Danzella combatté contro re Carlo I a Benevento per Manfredi, perciò la linea primogenita fu esclusa dalla successione che il re aggiudicò alla secondogenita sua figlia Margherita. Poiché il De Tocco aveva ereditato dal padre Matteo l'altra metà di Montecalvo, con Buonalbergo, l'intero feudo si ricostituiva così nelle mani della figlia. Nel 1320 il feudo di Montefalcone fu messo nel giurisdizionato del Principato Ultra e tassato per once 10, tarì 15 e grana 17. Successivamente, essendo stato colpito dal terremoto, ebbe un esonero di tasse, come rilevasi da un documento riferibile agli anni 1343-1344 esistente nei registri angioini del grande archivio di Napoli (fet.FN.341, fol.235, intitolato "Universitatis Castris Montis Falconis, provisio minoratione collectarum quia terremoti concessa et pars dicti Castri et abissa"). Nel 1439 era signore di Montefalcone Giannotta, il quale seguiva la parte Angioina. Dopo di questo il feudo di Montefalcone passò a Filippo Caracciolo, che nei documenti viene nominato Pippo, che fin dall'anno 1415 possedeva i feudi di Montefalcone, Pugliara, Bagnara, Montedurso, S. Giorgio, Pescolamazza, Pietrelcina, Monterone, Orta, Toccanisi ed una parte del casale di Torrioni. (1) 1.Riportiamo un documento che si legge nel fol. 414 del vol. 299 degli atti pe’ rilevi, intitolato Notamento fatto dal Procuratore Fiscale Giovan Vincenzo de Mari appresso l'Attuario Squillante contro il Marchese di Casalbore et altri sopra le robbe che furono di Pippo Caracciolo. 2.ECCONE LE PAROLE: Pippo Caracciolo seniore fu patrone delli subscripti beni feudali verso l'anno 1415 Videlicet. 3.Lo Castello de Pagliara con casale de Bagnara et Monte d'urso 4.Lo Casale di Toccanise con certa parte del casale de Torrioni 5.Lo Casale de Sangiorgio 6.Lo Castiello de Montefalcone 16 Filippo Caracciolo ebbe come figlio primogenito Berardo, che nel 1446 conseguì dal Re Alfonso I d'Aragona l'investitura dei beni feudali del padre con la condizione di non potersi quest'ultimi ereditare se non dai maschi soltanto. Dopo la morte di Berardo (essendo da lui nata una sola figlia di nome Antonella che sposò Antonio della Ratta e poi in seconde nozze Ludovico Minutolo, che nel documento riportato viene denominato Giacomo (2) divennero Barone di Pagliara, Montefalcone, Toccanisi e di una parte del casale di Torrioni i suoi fratelli Giovan Nicola e Carlo, che pagarono alla Regia Corte il relievo nell'anno 1458 (3) 1.Lo Piesco 2.La terra de Petrapolcina 3.Lo feudo de Montero 4.Lo bosco de lo Pino et lo feudo d'Orta con altri beni burgensatici Detti beni feudali foro concessi per li Ripassati ad esso et suoi antecessori et per se et suoi heredi mascoli et femine. Pippo ebbe cinque figli mascoli de li quali il primogenito si nominò Berardo Caracciolo, il quale hebbe una figlia femina nomine Antonella che detto la istituì sua herede universale in li beni burgensatici et feudali mediante testamento cominciato e non finito convalidato poi per privilegio da Re Alfonso prima detta Antonella Caracciolo si maritò con Jacovo Minutolo, et si ben da detto matrimonio ne nacquero più figli mascoli, al tempo che detta Antonella morse rimase solamente sua herede universale Marella Minutula sua figlia che si casò con Marino Thomacello, li quali fecero più figli, et tra li altri Jacovo Thomacello in lo anno 1528 fu ribelle e il fisco confiscò tutti li beni che trovò e che possedeva. In lo anno 1574 il Fisco per revelatione fattali hebbe notitia del tutto il predetto et che il Marchese de Casalarbore et altri possedevano indebitamente le dette Castella e feudi che spettavano a detto Thomacello descendente da detto Pippo Caracciolo mediante la linea di detto Berardo figlio primogenito et si indiriezò per comparsa che presentò a 2 de decembre 1574 et domandò la reintegratione de detti castelli et feudi una con li frutti perceputi, li poxessori compresero adverso la detta pretendentia del Fisco et portaro diverse scritture per exudere il Fisco et particularmente il detto Marchese di Casalbore presentò uno privilegio de Re Alfonso primo de lo anno 1446, per lo quale essendo morto detto Pippo Caracciolo investio Berardo de li detti beni pro se et heredibus masculini sexus tantum cum conditione che morendo detto Berardo senza figli mascoli succedano li fratelli excluse le figlie femine di Berardo che si haveano da dotare di paragio et così per virtù de detto privilegio pretende’ che detta Antonella Caracciolo sia stata exclusa da la detta successione de li beni feudali, atteso di detto Berardo patre ci restaro più fratelli carnali figli de Pippo, et particolarmente Cola Caracciolo dal quale deriva detto Marchese de Casalarbore, et perché quando tale pretensione andasse bene il Fisco poteva pretendere la doteche spettava a detta Antonella che nunquam fuit dotata de paragio, detto Marchese de Casalarbore ha prodocto Albarano de Re Ferrante primo che donò detta dote a detto Cola Caracciolo.Cfr. Giacomo Guglielmo Imhof: "Corpus historiae genealogicae Italiae et Hispaniae, famiglia Caracciolo, tavola XVII, pag. 280.Vol. 287 Atti dei Relevi, che prima veniva chiamato "Liber primus originalium releviorum Principatus Ultra et Capitanatae anni 1448 ad 1539, f. 13. Giovan Nicola Caracciolo sposò Eleonora Carafa, e con lei generò Filippo, secondo di tal nome e detto "Pippo", il quale il 19 maggio 1475, essendo già signore di Montefalcone, stabilì col Cardinale de Ursinis i limiti tra il suo feudo e quello di Santa Maria in Galdo. 17 L'instrumento di tale convenzione fu stipolato nello stesso giorno dal notaio Bartolomeo de Petrillis, e venne convalidato dal re Ferrante I d'Aragona il 30 giugno 1477 (4). Filippo Caracciolo II ebbe un figlio: Giovanni, che morì celibe, e quattro figlie femine: Camilla, Floripessa, Beatrice ed Ippolita che andò in isposa ad Antonio Guindazzo (5). Camilla ebbe dal genitore la donazione della terra di Montefalcone in occasione delle tavole nuziali stipolate il 10 gennaio 1501 tra lei e Giovan Tommaso Mansella di Napoli, figlio di Angelo, con la condizione di dover pagare mille ducati alla sorella secondogenita Floripessa. (6). È da ritenersi che Camilla e Floripessa non abbiano lasciato figli, in quanto la sorella Beatrice divenne Baronessa di Montefalcone. Quest'ultima sposò Francesco de Loffredo, Reggente la Regia Cancelleria e con lui ebbe il figlio Ferdinando I, che nel 1547, essendo morta sua madre, dovette soddisfare al Fisco il relevio sulla terra di Montefalcone (7). Ferdinando de Loffredo I nel 1558 vendette la terra di Montefalcone ad Alessandro de Antinoro col patto di ricompra, e con la medesima condizione Francesco de Loffredo II assegnò nel 1574 il predetto feudo a Giulia, sua sorella e consorte di Giovan Francesco d'Afflitto, per ducati 13150 di dote (8). Ferdinando II, Marchese di Trevico, nell'anno 1602 sostenne una lite col Regio Fisco intorno alla giuresdizione delle terra di Montefalcone e ad istanza dei creditori (9). Il tribunale del Sacro Regio Consiglio vendette il feudo di Montefalcone ad Andrea de Martino per 31, 500 ducati. L'istrumento di tale vendita fu stipolato il 24 settembre 1622 dal notaio Carlo Lombardo di Napoli, e venne approvato dal Duca d'Alva, Vicere di questo regno il 21 giugno 1523 (10). Il 24 ottobre 1626 il re Filippo IV di Spagna, in considerazione della nobiltà della famiglia de Martino, concesse ad Andrea il titolo di Marchese di Montefalcone, (11) ma questi morì il 5 settembre 1627 ed il figlio primogenito Scipione ereditò il marchesato soddisfacendo alla Regia Corte il relevio nell'anno 1628 (12). Scipione de Martino rinunziò al feudo di Montefalcone ed al titolo di Marchese in favore del fratello secondogenito Giovan Domenico in virtù del regio assenso dato a Madrid il 12 luglio 1628, cui dette "l'exequatur" il Duca d'Alva, Vicerè di Napoli, il 30 novembre dello stesso anno (13). Scipione e Giovan Domenico de Martino morirono senza lasciare legittimi successori ed i feudi nel 1640 ritornarono alla Regia Corte che per 20.200 ducati vendette la terra di Montefalcone a Francesco Montefuscoli, dottore in legge, (14) con l'istrumento del 13 novembre 1645 del notaio Pietro Oliva di Napoli.(15). Francesco Montefuscoli morì il 4 aprile 1650 e divenne Barone di Montefalcone il fratello secondogenito Agnello che pagò il relevio alla Regia Corte. Di Agnello Montefuscoli fu figlia primogenita Lucrezia, la quale dal Re Carlo II di Spagna conseguì il titolo di Marchesa di Montefalcone "per sé, per i suoi eredi e successori" per la nobiltà ed i servizi resi al Trono dai suoi avi. Il diploma di tale concessione fu sottoscritto a Madrid il 3 settembre 1696 ed ebbe il "regio exequatur" in Napoli il 13 ottobre dello stesso anno (16). La marchesa Lucrezia Montefuscoli sposò Giovanni de Sanctis e morì a Montefalcone il 5 ottobre 1725 come risulta dalla seguente lapide funeraria che ancora si conserva nella sala S. Michele. 18 D. LUCRETIA MONTEFUSCOLO, ET COPPOLA MONTIS FALCONIS EX PATRE MARCHIONISSA FAEMINA SUPER SEXUM AD VIRILIUM IMAGINEM COMPOSITA: RELIGIONIS VINDEX JUSTITIAE SOSPITA SIBI MAGISQUA ALIJS INPERAS, ADVERSAE FORTUNAE IMPAVIDA PROSPERA MAJOR DIU VIXIT, SED SUBDITORUM SPEI TAM MODICUM UT LICET LONGA SENECTUTE, EAM FATA SUBRIPUERIT TANQUAM IMMATURO FUNERE EREPTAM OMNES AMARIS LACRYMIS DEPLORANT FILIJ INCOSOLABILES MATRI OPTIMAE NON MEMORIAE QUA PRUDENTIA, PIETATE, CONSTANTIA IMMORTALAE SIBI COMPARAVIT, SED IMMENSI DOLORIS TESTEM LAPIDEM POSUERUNT DIE V. MENSIS OCTOBRIS ANNO M.DCC.XXV D. Lucrezia Montefuscoli della discendenza dei Coppola Marchese di Montefalcone, donna al di sopra del sesso conforme più ad indole virile; vindice della religione, protettrice della giustizia dominatrice più di se stessa che degli altri, impavida contro l'avversa fortuna e più grande ancora nella prospera, visse a lungo, ma tanto poco per la speranza posta in lei dai suoi sudditi che sebbene il fato l'abbia rapita nella tarda vecchiezza, tutti la piangono con amare lacrime come se strappata da immatura morte, i figli inconsolabili posero questa lapide per ricordo dell'ottima madre che procurò a sé un ricordo incancellabile per la sua prudenza, pietà e costanza, ma come testimonianza del loro immenso dolore. 5 ottobre 1726. Dalla Gran Corte della Vicaria con decreto del 17 settembre 1726 fu dichiarato erede dei suoi beni feudali il figlio primogenito Francesco de Sanctis, il quale, in virtù di un decreto della Regia Camera della Sommaria del 7 luglio 1727, ebbe nel cedolario l'intestazione del feudo di Montefalcone e del titolo di Marchese il 25 settembre dello stesso anno(17). Francesco De Sanctis morì il 6 settembre1761 (18) senza lasciare eredi; perciò divenne Marchese di Montefalcone Gaspare, suo fratello secondogenito con decreto emanato dalla Gran Corte della Vicaria il 9 luglio 1762 e l'11 agosto dello stesso anno ne conseguì l'intestazione del castello di Montefalcone col titolo di Marchese (19). Neppure Gaspare De Sanctis ebbe eredi ed essendo morto il 13 dicembre 1773 (20) il marchesato di Montefalcone fu ereditato da Vincenzo Capece, figlio primogenito di una sua sorella germana della quale signora il nome, il quale vendette la terra di Montefalcone a Pietro Stravino per 70395 ducati, con istrumento stipulato il 27 gennaio 1778 dal notaio Luigi Montemurro di Napoli ed approvato dalla Real Camera di Santa Chiara il 4 febbraio dello stesso anno (21). Pietro Stravino morì il 23 aprile 1780 e dalla Gran Corte della Vicaria fu dichiarato erede dei beni feudali del padre il primogenito Giacomo, intanto l'Università di Montefalcone fin dal 28 giugno 1779 aveva chiesto alla Regia Camera della Sommaria di diventare demaniale. Nel 1760 l'Università di Montefalcone prese il possesso formale per mezzo di un barone scelto dal popolo. 19 Fu eletto un tale Filippo Sacchetti, cittadino del luogo e padre di dodici figli, condizione indispensabile per la scelta. In tale occasione fu vestito delle insegne baronali, con parrucca, spada e bastone e per la circostanza fu celebrata una gran festa popolare con fuochi di artificio. 20 FEUDATARI DI MONTEFALCONE Anno 1415. FILIPPO CARACCIOLO I^ _______________________!_______________________ ! ! ! ! ! ! BERARDO CARACCIOLO GIOVAN NICOLA CARACCIOLO CARLO CARACCIOLO ! con ! Eleonora Carafa ! ! ! ! ANTONELLA CARACCIOLO FILIPPO CARACCIOLO II^ ______________________________!______________________________ ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! Giovanni Camilla Flopessa BEATRICE Ippolita morì con CARACCIOLO con celibe Giovan con Antonio Tommaso Francesco Guindazzo Mansella de Loffredo I^ ! ! 1548. FERDINANDO DE LOFFREDO I^ con Diana de spinello ! 1573. FRANCESCO DE LOFFREDO II^ con Lucrezia de Capua ! 1586. FERDINANDO DEL LOFFREDO II^ ! ! Anno 1622. ANDREA DE MARTINO Marchese di Nontefalcone nel 1626 _______________________!______________________ ! ! ! 1627. SCIPIONE DE MARTINO 1628. GIOVAN DOMENICO DE MARTINO ___________________________ Giuseppe Montefuscoli _______________________! ! ! 1643. FRANCESCO AGNELLO MONTEFUSCOLI MONTEFUSCOLI ! ! 1695. LUCREZIA MONTEFUSCOLI Marchesa di Montefalcone nel 1696 con Giovanni de Sanctis 21 ______________________!__ ! ! ! ! 1725. FRANCESCO GASPARE N.N. DE SANCTIS DOMENICO DE SANCTIS DE SANCTIS Marchese De Sanctis di Montefalcone !________________________ ! ! 1773. VINCENZO CAPECE Francesco Saverio Marchese di Polignano Capece ___________________________ 1775. 1780. PIETRO STRAVINO ! ! GIACOMO STRAVINO 22 FINE DEL FEUDALESIMO A MONTEFALCONE Con l'apertura del testamento del Marchese Don Gaspare De Sanctis, avvenuta il 13 settembre 1773, il feudo di Montefalcone doveva essere diviso tra il di lui nipote ex sorore Marchese don Vincenzo Capece ed il Barone Pietro Stravino, erede universale fiduciario, con l'obbligo a quest'ultimo di ottemperare a quanto il testatore gli aveva comunicato ad aures e cioè: "costituire quattro maritaggi all'anno da distribuire a quattro donzelle vergini e povere di Montefalcone" secondo che "sarebbero sortite dal bussolo da farsene dai Parroci di quella terra". Il testamento fu impugnato dagli eredi diseredati e così tutta l'eredità fu portata davanti al S.R.C. Fu fatta causa prima in tribunale e nella Gran Corte della Vicaria e poi nella Real Camera di Santa Chiara, finché si venne ad una transazione. Fu compilato un Alberano col quale si stabilì doversi procedere all'apprezzo e vendita, servatis servandis, del feudo stesso e che dall'eredità burgensatica e feudale si dovevano trarre legati, debiti e pesi perpetui ed il restante dividersi tra gli eredi costituiti. Il relativo Decreto interposto di exeqatur conventio venne approvato. Il Regio Ingegnere Cannitelli, preposto a tanto, apprezzò tutto i feudo per ducati 72.856. Avverso tale prezzo che si suppose "dettato con termini equivoci e maliziosi", insorse l'Università di Montefalcone protestandosi formalmente nel S.R.C. con lunga e ragionata istanza affinché "in qualunque tempo pregiudizio alcuno non potesse provvenirle da siffatto consegnato apprezzo". Purtroppo, non si tenne, in un primo momento, nessuna considerazione di questo ricorso ed il 24 luglio 1777 il feudo venne venduto all'asta e dopo l'estinzione della terza candeletta ne rimase aggiudicatario un tal Don Francesco Antonio Faraone con un aumento di dieci ducati. In seguito a maneggi architettati dal Marchese Don Pietro Stravino, il Regio Commissario Guidotti, assegnò il feudo allo stesso Stravino col consenso del primo aggiudicatario Don Francesco Antonio Faraone. Allo stesso Don Pietro, oltre al feudo, furono vendute anche le rendite feudali e cioè il Corpo della Mastrodattia "che consiste nello esercizio delle prime e seconde cause civili, criminali e miste, il mero e misto imperio, con la podestà di commutare le pene e giurisdizione della Bagliva". Il 19 luglio 1778 prese possesso del feudo e da quel giorno i Montefalconesi incominciarono a subire violenze, angherie ed oppressioni. A frenare tali eccessi non valsero le premure del Sindaco Gabriele Paoletta che si recò personalmente per ben due volte in casa del Barone "a pregarlo" ma non ebbe soddisfazione, anzi le sue preghiere inasprirono l'animo dell'avido feudatario peggiorando la situazione. Dietro un tal modo di procedere il Sindaco convocò, il 24 giugno 1779, tutti i cittadini in pubblico parlamento facendo accorata e dettagliata esposizione delle circostanze proponendo ricorso per il S.R.C.. I Montefalconesi, resi consapevoli delle prepotenze e sovercherie del nuovo padrone e conoscendo l'indole del Marchese per "l'ansia di eccessivo interesse ed oppressione molto afflittive verso quella popolazione", in considerazione che a tenore delle R. Prammatiche competeva all'Università la prelazione jure Demanio nella compra del feudo e poiché non era trascorso l'anno dal giorno del contratto di compra e dal possesso che si era preso, stabilì proclamare il Regio Demanio. Ma anche qui le inique ed infernali macchinazione dello Stravino stavano per capovolgere la situazione facendo "comparire alcuni pochi della stessa terra li quali mossi da privati interessi e specialmente dalle seduzioni dello Stravino e decoratosi dello specioso titolo di 23 ZELANTI CITTADINI umiliarono supplica al R. Trono ed industriandosi di dipingere il Demanio dimandato per la VERA E IRREPARABILE RUINA della loro patria supplicarono S. Maestà (D. G.) ordinare alla detta Camera a non dar luogo alla istanza con cui detto Demanio erasi dimandato". Questa volta le insidie dei traditori non riuscirono ed il Sindaco Paoletta ebbe l'onore di annunziare ai suoi carissimi cittadini: "...... dopo tre anni di litigio strepitoso, dopo tante cavillazioni e dilazioni, che abbiamo dovuto soffrire, dopo tante angosce e dispendi, il Signore ha benedetto la causa del nostro Demanio, imperocché la Regia Corte con Decreto in grado di tutti i rimedi ci ha accordato il Regio Demanio e la clemenza di Sua Maestà (D.G.) si è degnata di deferire alle nostre suppliche con accordarci quel Regio Assenso (Regalis Assensus et Consensus sit-Ferdinandus) che hanno domandato coloro che ci danno a mutuo il denaro pel prezzo del Feudo, essendo da valere anche in caso di devoluzione se si estinguesse la linea del nostro concittadino FILIPPO DI FRANCESCO SACCHETTA, a cui voi miei diletti Cittadini avete risoluto d'intestarlo". Era necessario cautelare gli interessi dei mutuanti ed all'uopo gli Amministratori dell'Università, i Deputati del Demanio e quaranta particolari Cittadini benestanti fra i quali Carmine Romano, Giuseppe Si Stasio, Notar Giovanni del fu Antonio Zeppa, Antonio di Ciriaco Zeppa, i dottori Ricciardelli, Di Stefano, Regina, etc.. nomi narono Procuratore dell'Università il "coscienzioso e dotto" DON GAETANO LOTTI, al quale concessero tutta la facoltà bastante "anche coll'alter ego, vices et veces etc." per stipolare i contratti di mutuo. Una parte del mutuo fu concesso da S.E. il duca DON NICOLA DI SANGRO e la rimanenza da Don Vincenzo Maria Carafa Cantelmo Stuard Principe di Roccella "Difensore e Protettore della libertà di quella Popolazione" da estinguersi entro lo spazio di 30 anni con l'interes se "a titolo di mora, lucro cessante e danno emergente alla ragione del 4% e con la accensione delle ipoteche sulla proprietà di tutti i Cittadini" come correi, tanto per li beni presenti che futuri, che li medesimi possedono sì nel tenimento di detta Università come in altri lochi". Si constituì all'uopo il CONSIGLIO DEI SOCI presieduto dall'Arciprete Caruso, da tutti i Preti, dai Dottori del tempo, dal signor Antonio Lupo, Carmine Vecchilla, Mattia Miniello , Michele Coduti, Carmine Antonio Sacchetta, Nicolangelo Paoletta, Angelo Ciarmoli, Janzito e Gabriele Paoletti, i quali si recarono dal Notaio Don Ignazio Coduti di Montefalcone per obbligarsi verso i Creditori ed infatti "tacto pectore et tactis scriptis, ..... giurarono sotto la pena del doppio patto e sotto la clausola del Costituto(Sacchetta)". Col 27 maggio 1782 ebbe fine il Feudo e cessò il ciclo delle violenze, oppressioni e soprusi della tracotanza baronale in Montefalcone, grazie al "Regalis Assensus et Consensus di Ferdinandus", che se non fosse stato disturbato dalle idee rivoluzionarie importate d'oltre Alpi avrebbe finito col dare tutte le riforme che si richiedevano, per il bene del popolo". L'Università di Montefalcone, che non aveva mai subito supinamente il potere che da secoli aveva sulle spalle, colse l'occasione propizia per correre alla riscossa, prima ancora che il regime feudale entresse in agonia, per annullare del tutto le prerogative ormai anacronistiche e divenute insopportabili, compiendo così un passo coraggioso verso l'abrogazione dei privilegi di classi e d'individui, che già d'allora non potevano più resistere all'ondata di riforme sociali, economiche e politiche. Il grande avvenimento costituì la vittoria finale di una lotta secolare e sostenuta sempre con onore ed ardore, pur nei momenti di depressione. Fu, infatti, una bella vittoria ed una magnifica affermazione dell'autonomia municipale, dell'imprescrittibilità e della inviolabilità dei diritti dei cittadini e della 24 naturale eguaglianza delle leggi. Ma il Comune, toltosi l'incubo dello Stravino, non curò di pagare le somme prese in prestito ed i creditori provocarono l'esproprio dei beni feudali per la somma di 27.936 ducati. Così il Duca di Sangro si rese padrone dei seguenti beni comunali: "Palazzo diruto (il vecchio castello feudale), casa alla Ripilla, territori Stringarelli, Montagna di S. Luca, masseria Vallebona, territori Ferregna, podere Mulino Vecchio e casella dei Porci, Difesa, Porpono, Prato, Ischia, Giardino, masseria Stellara, territori Costa dell'Orso. Apertosi il giudizio di graduazione, per il prezzo di aggiudicazione fu attribuito al Duca di Sangro; ma la Gran Corte Civile di Lucera, ordinando che fossero ridotte le spese di esproprio e di graduazione e che il resto si fosse diviso fra Duca di Sangro e quello di Bruzzano (quest'ultimo, rappresentante il Principe di Roccelle) in proporzione dei rispettivi crediti. L'istrumento fu rogato il 15 marzo 1827 dal Notaio Emmanuele Caputo di Napoli, ed avvenne fra i due suddetti Duchi la divisione degli immobili espropriati. Al Duca di Bruzzano furono assegnati i seguenti beni: Palazzo diruito, casa alla Ripitella, il territorio alla Scomunicata, il territorio ed il mulino adiacente alle Cesine, la montagna di San Luca ed il territorio Stringarelli, tutti gli altri beni furono attribuiti al Duca di Sangro. Quest'ultimo restò ancora creditore di una ingente somma, per cui nel 1828 iniziò una seconda azione legale contro il Comune ed i cittadini obbligati. Non mancarono opposizioni da parte dei debitori e la Gran Corte di Napoli, con decisione del 18 agosto dello stesso anno, condannò il Comune a pagare il Duca Riccardo di Sangro, succeduto al padre, la somma di ducati 30.754, 06, oltre alle spese di giudizio. Questa sentenza fece mettere senno ai maggiorenni del Comune, i quali pensarono di soddisfare il Duca con i beni comunali e, ottenuta l'autorizzazione, fu fatto l'istrumento dal Notaio Benedetto Conte di Napoli il 23 febbraio 1839. Il signor Albenzio Paoletti, nella qualità di procuratore del Comune di Montefalcone, cedette al Duca Riccardo, in soddisfazione del suo credito di ducati 37.079, 29 le tenute Gallizzi, Pagliano, e demani e una prestazione della semenza. Finirono così le contese del comune ed ebbe inizio la proprietà del Duca di Sangro. In seguito il Duca di Sangro vendette i predetti beni ai cittadini di Montefalcone e dei paesi limitrofi; la vendita fu fatta dal Notaio Leonardo Capozzi, quale amministratore del Duca. 25 SOLLEVAZIONE POPOLARE Con la invasione francese del 1806, il Re Ferdinando si rifugiò in Sicilia (30/3/1806), e salì sul trono di Napoli Giuseppe Bonaparte, sostituito dopo una paio di anni da Gioacchino Murat che dichiarò abolita la feudalità, le sue prerogative ed i suoi attributi. "Era un processo di fatale decadimento, fatale e perciò generale", dice lo storico Gioacchino Volpe, e così la scena finale del dramma accelerava il suo ritmo per le straordinarie vicende dei tempi e le cose, nei riguardi del regime feudale, precipitarono ed ebbero l'ultimo colpo ed il definitivo tracollo. I discendenti del Consiglio dei Savi di Montefalcone sfruttarono tale processo di decadimento, che fu lento nei tempi normali, ma terribilmente accelerato negli anni torbidi, e profittando della pubblicazione della legge del 2 agosto 1808, vennero meno agli impegni assunti dagli avi nel 1782. Interessi e capitale non furono pagati né al Duca di Sangro, né all'unico figlio del Principe Roccella: Don Gennaro Maria Carafa duca di Bruzzano. Dati i tempi non favorevoli, tanto il Principe che il Duca non si sentivano la forza di resistere alla pressione cui erano sottoposti, anche perché nuovi avvenimenti si prospettavano all'orizzonte e la Monarchia non aveva volontà di proteggerli. Con la caduta dell'Impero Napoleonico, che travolse nelle sue rovine anche Gioacchino Murat, e col ritorno di Ferdinando IV dalla Sicilia, il Principe ed il Duca per sostenere i loro diritti e per non perdere del tutto i loro titoli di creditori, colsero l'occasione propizia per iniziare gli atti coattivi contro il Comune ed i cittadini firmatari, dando così principio ad un giudizio civile, ricco di masse di documenti e memorie. La causa fu agitata davanti il Tribunale di Capitanata e si risolvette con la vendita all'asta dei beni di parecchi cittadini e con la corresponsione della mezza semenza a beneficio dei creditori instanti fino alla totale estinzione del debito.(1) I Montefalconesi accusarono il colpo ed attesero tempi migliori. Dopo aver pazientato per oltre 40 anni, la mattina del 7 maggio 1848 scoppiò la sollevazione popolare, causata da cattiva interpretazione della circolare ministeriale del 22 aprile, con la quale si "richiamava i Comuni a rivendicarsi i fondi già stati Demaniali o Feudali ceduti ai creditori, Baroni, Principi, per debolezza, per miseria, ignoranza o raggiri degli amministratori". Animati da questa notizia tutti i popolani corsero alla casa del Sindaco Michele Marcantonio, minacciando la vita, se non avesse fatto proclamare il bando di proibire la misurazione dell'agro semenzato e l'espulsione dell'agrimensore, per non pagare la mezza semenza ai Duchi di Sangro e di Bruzzano. Il Sindaco "atteso i clamori del popolo e premendo vieppiù le minacce", visto che non poteva dissuadere la plebe dal criminoso proposito e ridotto a mal partito, gli fu forza concedere quello che non poteva "est quidam humanarum virium modus, qui nulla virtute reparari potest" e di concerto con il Capitano della Guardia Nazionale, ordinò al servente comunale Michele Abatessa di pubblicare il bando richiesto.Dopo una tale legalità la ciurma credette lecito invadere i terreni e per conseguire i suoi presunti diritti si affidò all'arbitrio e alla violenza "id quod deberi sibi putat non per judicem reposcit”. -------------------e corse, con tamburo e fanfara in testa, che colà trovandosi in occasione della festa di S. Michele, a porre i termini lapidei nei possedimenti dei Duchi "che 26 da più tempo, dice il Sindaco, si erano ceduti ai creditori, stimando in simil maniera riconquistare il loro perduto diritto di padronanza ed antico lor patrimonio". Sul fare della sera tutto il popolo si radunò nel largo S. Vincenzo fuori l'abitato, per attendere l'arrivo del corriere postale e sequestrare la corrispondenza, nella speranza di impadronirsi di quella famosa circolare ministeriale. Appena arrivato prelevarono il procaccia e lo condussero in paese, ma giunti al largo della Croce si fece innanzi nuovamente il Capitano apostrofando aspramente quei tumultuanti e così il procaccia rimase libero e fu accompagnato al Comune, ove alla presenza del Sindaco, di tutte le Autorità Civili ed Ecclesiastiche e di tutto il popolo fu aperta la valigia e letta la corrispondenza ad alta voce. Non rinvenutasi la circolare "la ciurma vieppiù inferiva verso gli amministratori e gli impiegati archivari, supponendo che questi tendevano defraudare i loro diritti con l'involamento di essa". Il Capitano "dopo lunghi e pericolosi contatti avuti col popolo", si obbligò a rintracciarla o richiederla dalle rispettive autorità poi presentarla il dì seguente". In quel tafferuglio due dei dimostranti furono feriti ed uno perdette la vita per mano di Don Pantaleone Corso. Alla vista del sangue tutti i galantuomini scapparono via cercando riparo e salvezza, ma una parte del popolo inseguì l'Arciprete, lo maltrattò e malmenò, ed il di lui fratello Don Giuseppantonio Palazzi, con viva forza fu portato a casa dell'esattore della fondiaria don Claudio Sacchetti per rintracciare la diabolica disposizione. L'altra parte della moltitudine si recò in folla, per rappresaglia, a scassinare la farmacia di don Pasquale Corso, padre dell'uccisore, devastandola in pieno ad onta della resistenza opposta dall'Ufficiale di settimana signor Ricciardelli, ivi destinato con una pattuglia a serbare l'ordine pubblico. Non seguirono altri eccessi per la "prudenza, zelo, compromissione e attività del Capitano che non desistette tuttavia sorvegliare contro i perturbatori e garentire sempre più i diritti del pubblico e del privato". All'alba del giorno 9, punto dimenticandosi le pretenzioni della antecedente sera, l'intero popolo, sempre armato come nei giorni precedenti, prelevò il Sindaco e lo condusse davanti la casa del Capitano per ricevere la famosa circolare, che non essendosi rinvenuta fu supplita da una copia del Giornale Costituzionale della stessa data e con la lettura del medesimo si pacificò l'animo irato di quella gente rimanendo finalmente soddisfatta. Non contenti i tumultuanti di quanto avevano per l'innanzi abusivamente praticato, vollero essi stessi, non per loro particolare profitto bensì per garantire sempre più gli interessi del Duca di Sangro, fare apporre i sigilli di ceralacca per mano del Sindaco sui magazzini in modo da estromettere i famelici amministratori. Poi il ciclo delle tre giornate, recandosi, sempre armati con i più svariati arnesi agricoli, alla contrada Stellara e Vallebona per prendere anche il possesso di queste zone, come pure s'impadronirono delle chiavi dei mulini che consegnarono al Sindaco insieme all'estaglio della Montagna in ducati 480 dovuti dal fittavolo don Vincenzo Riccio al Duca di Bruzzano. Dopo questa breve pausa di completa anarchia torna la calma e la tranquillità. Dal verbale redatto dalle Autorità Comunali ed Ecclesiastiche si rileva che la causa principale di questa sollevazione popolare va ricercata nella fraudolenta amministrazione degli agenti ducali. "La pace, dice il Sindaco, che serbavasi in questo Comune, quantunque oppresso dalla miseria, era invidiabile, proveniente dalla docilità, buona indole ed affabilità che sempre ha distinto questi cittadini. Ella però era cosa di pubblica conoscenza, nonché causa originaria di tanti subbugli popolari, che l'agente del 27 Duca di Sangro don Giuseppe Maria Cirelli di Castelfranco, nel giro di 18 anni ha depauperato questo Comune, usando sempre atti abusivi ed arbitrari, ecc... ecc." e continua che è un voto pubblico allontanare subito il Cirelli dal Comune e "i molti soprusi commessi a danno di questo popolo, che l'hanno soverchiamente vilipeso, ha cercato finalmente rimuoversi da quel gioco, che da più tempo l'aggravava, avendo perduto in simil modo tranquillità, roba ed onore". Il verbale a firma del Sindaco, del Capitano Tutolo, del 1^ Tenente Grassi, del 2^ Tenente Mansueto, degli alfieri Ricciardelli e Pasquale Tutolo, del Conciliatore Sacerdote don Nicola Tulino, dello Arciprete Palazzi, di Antonio Doto, Alessandro Paoletti, Giuseppe Miresse, Giovanni Dimperio, Agostino D'Alessio, Giuseppe Zeppa, del Segretario Giuseppe De Luca e di molti altri, così conclude: "possiamo intanto assicurare ogni Autorità che questo popolo fin dalla sera del giorno 9, ha ripreso la sua primiera quieta e speriamo perduri nella risoluzione intrapresa". Dopo qualche giorno l'agente Cirelli denunzia il fatto a S.E. Federico Campobrin, Sottointendente del Distretto di Bovino, incriminando il popolo, il Sindaco, Decurioni, Parroci, Autorità Civili, Comunali e Pubblica Sicurezza. Si inizia cosi una lunga e voluminosa procedura che durò parecchi anni per atto arbitrario contro i diritti civili dei Duchi di Sangro e Bruzzano di Napoli ed alla fine, come in quasi tutti i processi di tal genere, dopo una dotta requisitoria del procuratore Uva che si riporta alla notissima legge Julia "De vi pubblica et vi privata" la Gran Corte applica l'Art. 38 delle leggi p.p. e "dichiara non esservi luogo a procedimento penale contro tutti gli imputati". È uno dei tanti processi che traggono origine da moti proletari: dalla sempre viva aspirazione degli agricoltori nullatenenti di possedere un pezzo di terreno senza tener presente il "facimus sed in iure facimus" (2). 28 GOVERNO PROVVISORIO Mentre il Governo Dittatoriale di Garibaldi emanava proclami e decreti, raccomandando a tutti "che questo stato transitorio passi con calma, con prudenza, con moderazione", in attesa dell'arrivo di Vittorio Emanuele che da Ancona aveva già annunziato che la sua politica in Europa "non sarà forse inutile a riconciliare il progresso dei popoli con la stabilità delle monarchie, formando nella libertà la forte monarchia italiana", in quasi tutti i paesi del Molise e SubAppennino avvenivano accessi, tumulti e reazioni. In Montefalcone, approfittando che la truppa di stanza in provincia fu fatta ripiegare su Napoli per accorrere a Gaeta, i rivoltosi ne colsero l'occasione per creare quello stato di anarchia, eccitando i proletari a prendersi la rivincita sui fatti del 1848. Il 12 agosto 1860 ci fu un nuovo tentativo di sollevazione popolare capeggiato dai germani Pietropaolo e Antonio Altobelli fu Giambattista e Pietro Tudisco fu Bartolomeo "i quali si resero promotori del tentato disordine a comunismo che fino a tre ore di notte non cessarono di esternare disegni di reazione, promettendo che tutto avrebbe eseguito col grido di Viva Francesco II! Si fotte la Guardia Nazionale! Il 15 agosto, mentre le autorità erano intente a presenziare alle sacre funzioni, "quei perturbatori si conferirono arbitrariamente nella tenuta erbifora di S. Luca dei Sig/ri Filiasi e Frascolla e con modi violenti cacciarono dal pascolo gli animali e gli stessi proprietari. Ritornati in paese si recarono nell'abitazione dell'Agente del Duca scassinando tutto, rubando e bruciando quanto vi era, dopo si condussero nel magazzino dei cereali ove praticarono lo stesso". Il giorno dopo si recarono ad occupare anche i terreni del Demanio tenuti in fitto da Saverio Sgalia. Al povero Cirelli, Agente del Duca di Sangro e proprietario della Difesa di S. Luca, già duramente provato durante i moti del 1848, dopo essersi messo al sicuro in Castelfranco insieme all'altro Agente Bozzuto Salvatore, non rimase che ricorrere al Ministro Segretario di Stato per l'Interno al quale indirizzò un dettagliato rapporto sottolineando che "in quel Comune si era risvegliata l'infame idea del Comunismo" ed implorava misure di rigore contro i colpevoli.Il Ministro dette subito disposizioni all'Intendente "perché la Autorità Civile tenesse in una mano la forza per farsi rispettare". L'Intendente, però, privo di una forza repressiva, emanava circolari ai Comuni per assicurare e tutelare la pubblica tranquillità dalle mene dei reazionari, imponendo a tutti i Sindaci di mobilitare una parte della Guardia Nazionale e spedirla nei centri di raccolta per tenersi pronta ad accorrere dove il bisogno lo richiedeva e dove le libere istituzioni erano attentate da incauti anarchici e reazionari. La Guardia Nazionale non bastava perché era stata divisa un po’ da per tutto in quanto quasi contemporaneamente ogni comune era insorto e l'Intendente stesso fa rilevare questa lacuna dicendo di non aver "alcuna forza disponibile meno quella dei Dragoni, decimata dalla malattia, e che debbono accorrere al bisogno di due altri Distretti importantissimi ed alla conservazione dell'ordine pubblico in questo Capoluogo" e così ogni paese creava la sua avventura. Fu sollecitato il Giudice Simonelli da Castelfranco a prendere provvedimenti contro i sobillatori e rei di Montefalcone; ma questi in data 8 settembre 1860 rispondeva all'Intendente di aver fatto il suo dovere informando tutte le Autorità Governative ma certo non poteva però esporre la sua persona ad un sicuro pericolo 29 "per procedere all'istruzione dei reati ivi commessi". E dichiarava pure che non "credeva opportuno il concorso della Guardia Nazionale di Roseto Valfortore per non assumersi responsabilità di qualche fatto di armi che potrebbe avvenire fra i due Comuni" però assicurava che non appena "si sarebbero pacificati gli animi" avrebbe proceduto "rigorosamente contro i colpevoli di Montefalcone". In risposta l'Intendente fece sapere che "dopo la distruzione è inutile il rimedio. La giustizia punirà i colpevoli ma non riparerà i danni essendo i rei tutti proletari" e raccomandava caldamente al Giudice ad "agire con la possibile sollecitudine, eccitando almeno lo zelo della Guardia Nazionale". Tutte le persone probe e di provata fede liberale si erano rifugiate in luoghi più o meno sicuri, dai quali facevano pervenire ricorsi infuocati all'Intendente domandando giustizia. Così l'Arciprete don Carlo Palazzi, che era stato designato come vittima da sacrificare insieme al Sindaco ed al Capo Plotone della Guardia Nazionale don Carminio Goduti, da accorto buon prete conservatore si rifugiò in Roseto Valfortore da dove rapportò che l'ex Capo Compagnia della Guardia Nazionale sig. Sacchetti si era eretto a "protettore della plebe disseminando nel volgo mille falsità, arrivando fino a dire che Montefalcone sarà tra un giorno all'altro elevato a GOVERNO PROVVISORIO". Il 7 settembre mentre si festeggiava Garibaldi a Napoli, si sparse la notizia che una banda di insorti dei paesi limitrofi bene armata si sarebbe recata a Montefalcone per assecondare i turpi desideri dei rivoltosi e così tutta la plebaglia si rimise in movimento con a capo Pietro Maffia al grido: "all'armi! all'armi! che giunge la truppa amica" minacciando la vita a chi avesse pronunziato o festeggiato il nome del Dittatore. La Guardia Nazionale e quella parte sana della popolazione, a suon di campana, fu mobilitata per difendersi dall'assalto che sarebbe venuto di fuori. Ad un'ora di notte, infatti, si presentò alla porte del paese una ciurma urlante, ma venuta a conoscenza che quasi tutto il popolo era contro, stimò allontanarsi immediatamente. In questo frattempo il rivoltoso Maffia "si avventò contro il Primo Tenente don Carminio Goduti tirandogli un colpo di scure dal quale si difese ed indi con lo stivale che fu anche sbalzato senza essere punto offeso". L'attentato impaurì don Carminio a tal punto che immediatamente ricorse all'Intendente affinché facesse arrivare "un'importante armata, onde far riconoscere il nuovo Governo e ripristinare l’ordine, non tralasciando disporre il disarmo di coloro, che non essendo facoltati a detenerle, se ne sono provvisti dai soldati borbonici sbandati, che per qui transitavano". Non mancò pure far rilevare, forse per ragioni personali, che tutta la Guardia Nazionale si cooperò per il bene della Patria ad eccezione del solo Secondo Tenente don Pantaleone Corso che "tradendo il suo sacro mandato si teneva tranquillo e chiuso in casa di suo suocero don Claudio Sacchetti", per cui fu destituito per espresso. Fu ordinato al Capitano DE PEPPO di Lucera di abbandonare la sua città "poiché per la sua avanzata civiltà è immune da perniciosi pericoli di comunismo" e di recarsi a Montefalcone per reprimere con energia quei disordini ed arrestarne i responsabili, "il maggior utile che Ella trarrà dal disagio che le cagione questa spedizione sarà il bene del Paese". Contemporaneamente all'ordine del Governatore della Provincia arrivò pure un telegramma del Dittatore che invitava il DE PEPPO a partire subito per Napoli e così della cosa si interessò il Capitano don Gaetano De Troia il quale affermò 30 che "i Lucerini abbenché pronti ad affrontare ogni pericolo per il pubblico e privato interesse, sono però affatto estranei e conoscitori di Montefalcone e quindi non potrebbero dirigere l'azione e prendere di mira quei luoghi richiesti da una sana strategia fissando il punto da cui muovere alla sorpresa dei facinorosi comunisti". Intanto a Montefalcone si viveva nella più completa anarchia, tanto che il Sindaco Palazzi all'oscuro di qualsiasi disposizione governativa, scriveva a tutte la Autorità ma non aveva mai nessuna risposta fino a che si decise denunziare al Capo della Provincia per fare arrestare una quarantina dei suoi più accesi amministrati quali fautori e responsabili degli eccessi rivoluzionari. Nel contempo pregava il Governatore affinché si compenetrasse una buona volta "del deplorevole stato di quel disgraziato paese che invece di smorzarsi il fuoco dell'anarchia si sta riaccendendo con minacce di vita nella mia persona e di pochi galantuomini che vi sono rimasti. Se si indugia altro tempo si avranno a deplorare fatti irresponsabili che certo la di Lei coscienza non potrà mai tollerare". E così finalmente fu spedito da Bovino una forza non indifferente la quale dopo aver "approfondito con ogni zelo le indagini sugli autori del disordine e raccolti gli elementi procedette all'immediato arresto dei medesimi" che furono tradotti alla Sotto Intendenza di Bovino per indi istruirsi a loro carico la corrispondente processura a termini di legge. Dopo una tale operazione punitiva tornò la calma e la tranquillità in Montefalcone. Questo movimento popolare chiamato RIVOLUZIONE - SOLLEVAZIONE BANDITISMO ANARCHICO sarebbe un po’ come ieri, come oggi, come sempre l'eterna guerra della parte proletaria contro il ricco, che a differenza del BRIGANTAGGIO, il cui scopo pratico era senza dubbio la rapina, l'appropriazione delle ricchezze altrui e la mania di distruggere per sfogo di vile e feroce vendetta personale, aveva di mira conseguire le proprie secolari esigenze, sia pure sotto il velo della difesa del trono. La secolare aspirazione di questa gente, la loro vera libertà sarebbe stata la spartizione delle terre ed il possesso della cosa pubblica nelle mani dei contadini e perciò nulla di più naturale che per realizzare i propri disegni tutti i popolani approfittassero dello sconvolgimento nazionale per inscenare la propria rivoluzione. Ma, purtroppo, doveva passare ancora molto tempo prima che queste moltitudini campestri potessero cercare la via del loro riscatto non in endemici sussulti, ma entrando attraverso i partiti dei lavoratori nel libero gioco delle forze pubbliche, facendo valere i propri interessi col metodo democratico, sul piede di una effettiva eguaglianza, in uno Stato espressione di tutte le classi. 31 IL BRIGANTAGGIO Il brigantaggio fu un fenomeno generale di tutta l'Italia del Sud e quindi anche della nostra terra. Pasquale Villari dice: "Il brigantaggio non nasce da una brutale tendenza al delitto, ma da una vera e propria disperazione. Diventa la protesta selvaggia e brutale della miseria contro antiche e secolari ingiustizie". (1) Anche se tanto è stato scritto sull'argomento, è opportuno, sia pure brevemente, puntualizzare la situazione per poter meglio capire il movimento. La situazione economico-sociale della nostra penisola era costituita quasi in un doppio profilo: un'Italia cittadina e un'Italia rurale o agricola, con due diverse ideologie e con due diverse strutture economiche. L'Italia settentrionale era caratterizzata prevalentemente da una civiltà urbana, cittadina, industriale, ad economia aperta (economia di mercato o finanziaria); da un'ideologia liberale che si traduceva sul piano politico nelle forme della monarchia costituzionale. Nel sud, invece, la situazione era ad un livello precapitalistico, preliberale, premoderno (economia agraria, chiusa, di consumo) ed era strettamente connessa con forme politiche ancora feudali o semifeudali. Questa diversità sostanziale era la ragione prima di tutte le difficoltà in cui venne a trovarsi la nuova classe dirigente. L’incontro e lo scontro delle due strutture politiche ed economiche si risolse evidentemente a danno di quella più debole e più arretrata. Prima dell'unità nel meridione la situazione aveva un suo equilibrio interno quantunque ad un basso livello di civiltà: la deficienza dei beni economici era compensata dalla presenza di istituzioni civili e religiose (confraternite assistenziali ed opere caritative) legate al demanio comunale o alla mano morta ecclesiastica; inoltre, i ceti specialmente più umili erano esenti da imposizioni fiscali e da obblighi civili, come la leva militare. Il vecchio stato se nulla dava, nulla pretendeva. Dalla letteratura verista, che è regionalistica e meridionalistica, possiamo capire meglio la situazione: nei Malavoglia di Verga la intromissione dello stato italiano nella povera famiglia, mediante la leva militare e le imposizioni fiscali, determina il tracollo della già stremata economia: "'Ntoni dopo il servizio militare diventa contrabbandiere e ribelle, la casa del Nespolo è sequestrata, il vecchio patriarca va a morire in uno squallido ospizio. Nei Viceré di De Roberto comprendiamo un altro aspetto della questione meridionale: il trapasso delle vecchie famiglie baronali alla nuova realtà politica, il che ci dice che le classi dominanti rimasero le stesse sotto nuova forma e le classi subalterne subirono un aggravamento di oppressione e di sfruttamento. La rapida trasformazione politica e l'atteggiamento assunto dal governo piemontese, che si avvalse di uomini che non conoscevano le reali condizioni delle province meridionali, suscitarono ovunque risentimenti e malcontenti non solo negli esponenti della vecchia classe dirigente borbonica, ma perfino negli stessi liberali, molti dei quali ritenendo che la libertà e la nazionalità siano sinonimi di ricchezze ed impieghi, lamentano di non essere chiamati a ricoprire incarichi remunerativi. Mutato il governo, le condizioni delle nostre zone rimangono le stesse, anzi si aggravano: oppressi dalla miseria, tormentati dalla fame e dalla disperazione, non si vede alcuna via di uscita ed i vinti e gli oppressi guardano con odio coloro che si sono avvantaggiati degli avvenimenti politici riuscendo ad ottenere cariche e nuovi guadagni. 32 "Questo stato di cose, come dice Anianello (2) li sconvolge, li esaspera, li rende facili vittime di chi mal sopporta di essere stato sostituito dai fautori del nuovo ordine politico. Nella miseria che avvilisce le plebi, nel risentimento di coloro che sono tenuti in disparte dalla vita del proprio paese, nell’incomprensione del potere costituito e dei suoi rappresentanti in provincia, si sprigionano le prime scintille del brigantaggio". A favorire questo movimento si aggiungono anche la pusillanimità e l'avidità di guadagno del ricco proprietario di terra, il quale, non sentendosi protetto dai rappresentanti del potere centrale, cede al brigante, lo accoglie nelle proprie terre, lo protegge, lo favorisce, lo sfrutta. Ad accrescere il malcontento che serpeggia tra le masse contadine per la mancata risoluzione della questione demaniale, nel 1860 furono chiamati in servizio tutti i soldati dell'esercito borbonico e questo mentre il prezzo del pane e dell'olio erano in aumento, così come la miseria. A queste cause si aggiungano poi gli oidi ed i rancori personali, la prepotenza della nuova classe dirigente e si comprenderà come era facile divenire ribelle, e per sfuggire ai tutori dell'ordine si cercava riparo nelle boscaglie, ci si riuniva in comitive ed il brigantaggio era in atto! Nel meridione abbiamo avuto due periodi in cui il brigantaggio ha fatto sentire maggiormente il suo peso ed entrambi legati alla caduta borbonica: il primo al principio dell'800 con la conquista napoleonica e quindi col governo di Murat ed il secondo a metà del secolo lo con la conquista dei Savoia e quindi di Garibaldi. Entrambe le conquiste -come sempre avviene- portarono malcontento, rapine, soprusi e questo fomentò il banditismo, che veniva pure stimolato e protetto dalla stessa corte borbonica. Lo scopo che si prefiggevano i Borboni era quello di sabotare il rafforzamento del nuovo governo e di mostrare all'Europa, ancora perplessa ed in parte ostile, che lo stesso, non aveva l'autorità e la forza di imporre il rispetto della legge e di garantire la tutela della vita e degli averi di pacifici cittadini. Naturalmente il brigantaggio ebbe a diffondersi più rapidamente, rinnovandosi di continuo in quelle province dove lo stato economico e la condizione sociale dei contadini era più infelice. Montefalcone per la sua posizione geografica a cavaliere tra la Capitanata ed il Principato Ultra, con un imponente castello che lo dominava, ed essendo la sua Signoria, come del resto la maggior parte del popolo, fedele al Reame Borbonico, non poteva rimanere estraneo a questo fenomeno che, ripetiamo, è da considerarsi non solo come semplice manifestazione di criminalità, ma anche e specialmente come manifestazione politico-sociale. Le prime manifestazioni di brigantaggio le troviamo a Montefalcone già nel 1809; infatti leggiamo nel Cirelli: "Nel 1809 detto castello fu demolito da un'orda di assassini, della quale era antesignano un tale Tommaso Quartucci, naturale di Montefalcone. A ciò fu indotto dal timore di poter essere da quel sito offeso o turbato nei suoi criminosi disegni. Egli nutriva un sentimento di vendetta contro la famiglia de Matteis ed altri suoi compaesani. Simulò amicizia ed affetto alla patria, ai parenti, agli amici. Ebbe quindi libero accesso nel paese, e dopo un banchetto che rassomigliava ad un'orgia, togliendo dal viso la maschera della simulazione, si recò di filato, in unione dei suoi depravati compagni nella casa de Matteis, dove al saccheggio unirono ogni altra maniera di misfatti. 33 Uccisero barbaramente il capo di famiglia a nome D. Vincenzo, e lo gettarono nelle fiamme delle quali era già preda l'intera casa. Portarono seco loro due altri fratelli dello ucciso, uno Minore Conventuale, l'altro Sacerdote secolare, che in compagnia di altri compaesani furono moschettati infamemente in luogo fuori l'abitato, dopo aver posto a sacco le case delle famiglie più agiate del paese. Coloro che furono trucidati, invano chiesero i conforti della religione: efferata barbarie della quale ben doveva essere imminente il castigo del cielo; e infatti dopo pochissimi giorni il Quartucci e suo cognato Salvatore Pauletti, che erano i più formidabili assassini e motori delle operazioni dell'Orda, furono catturati e trascinati appesi alla coda de’ cavalli per le strade del vicino Comune di Baselice, dove trovavasi il Colonnello Galloni, lasciando la vita infame tra le ripercosse dei ciottoli di quelle angustissime vie". Si ignorano le cause di tanto odio da parte dei Quartucci verso la famiglia de Matteis; ed è tradizione che gli eredi di questa, spaventati per tanta tragedia, si siano trasferiti in altro centro della Valfortore. In questo stesso periodo operava nelle nostre zone la terribile banda dei Vardarelli, "la più famosa e la più temuta a quel tempo in tutto il regno -come attesta Mario Monti-. Ne facevano parte tre fratelli: Geremia, Gaetano e Giovanni Vardarelli che avevano passato ai seguaci, temibili scorridori del brigantaggio pugliese e molisano, come Bartolomeo Minotti, Giuseppe Primerano, il loro soprannome, tolto dalla professione della famiglia, da anni dedita a fabbricare selle, cioè Varde in vernacolo. Avevano stabilito il loro quartiere generale nella vallata del Fortore, densa di boscaglie e scavata di dirupi ma, montati sui migliori cavalli, scelti nei pascoli del Tavoliere, si spostavano come lampi nelle province vicine di Campobasso, Benevento, Potenza, Bari e Lecce. Dappertutto erano ospitati dai padroni delle masserie, timorosi delle loro terribili rappresaglie, imponevano taglie, balzelli e fermavano i procaccia che portavano alla capitale i profitti delle tasse, distribuendo spesso migliaia di ducati tra i contadini più miseri che, in cambio, li tenevano informati dei movimenti della truppa e aprivano ai briganti i più sicuri rifugi dei loro villaggi, circondando don Gaetano dell'aureola del vendicatore e del giustiziere". (3) A conferma di quanto asserito dal Monti, circa la zona di operazione della banda Valdarelli, riportiamo integralmente una lettera circolare del Segretario Generale, N. Ucci e pubblicata sul Giornale dell'Intendenza di Capitanata "n^ 29 luglio 1816 p.268-270. 34 2^ DIVISIONE Foggia, lì 11 luglio 1816 Oggetto: Sulla luminosa bravura degli abitanti di Montefalcone L'INTENDENTE DI CAPITANATA Ai Signori SottoIntendenti, Sindaci, Eletti, Decurioni, Parochi, Giudici di pace, Comandanti Legionari della Guardiad'interna sicurezza, ed Amministrati tutti della Provincia. Signori, La comitiva degli assassini Vardarelli che da più mesi infesta di bel nuovo la vostra Provincia, e le confinanti, la sera del 28 del prossimo scorso giugno osò avvicinarsi al Comune di Montefalcone nel distretto di Bovino dando a divedere di voler penetrare nello abitato. Accortosi di ciò quel Sindaco, il Comandante Civico, e l'altro della Guardia d'interna sicurezza, animati da vero zelo, e risoluti di voler liberare la loro patria dagli orrori ed eccessi che quei masnadieri vi avrebbero portato, riunirono sul momento Legionari, Guardie di sicurezza e tutti i Cittadini bene intenzionati. Armati in buon'ordine colla più singolare intrepidezza, e sangue freddo uscirono coraggiosamente dalle loro mura ad affrontare gli assassini. Questi però benché soliti a mostrarsi altre volte forti, ed audaci ad incontrare, e battersi con chiunque ha cercato atttaccarli, spaventati dal voto unanime di quei bravi Cittadini stimarono abbandonare l'impresa, e dirigersi altrove. Siffatta mossa de’ buoni abitanti di Montefalcone sono stati da me ricevuti dall'arrivo in questa Provincia, ed indi dal zelantissimo Maresciallo di Campo Cancellier Commissario del Re colla podestà dell'alter Ego per impegnarsi ad uscire da ogni minima indifferenza nel muoversi contro i nemici dell'ordine. Sono stati i primi a dare il segnale del modo, come la masnada, ed orde di fuorbanditi debbano affrontarsi, se vilmente non salvansi colla fuga. È inutile il dirsi, che percorrendo quella de’ Vardarelli francamente le vaste pianure, e campagne della Puglia, dove passando da un luogo all'altro commette degli orrendi atti di ferocia, ed enormi delitti, senza esser stati finora distrutti, od assicurati alla giustizia, sia difficile cosa il vincerli. Sono voci di simil fatta sparse da vili, da vagabondi dagli oziosi, e dà pastori, che profittando del prodotto de’ di loro ricatti, e si affaticano a scoraggiare i buoni. Essi però quali corrispondenti, e fautori saranno una volta scoverti dalla Polizia, e puniti col massimo rigore delle leggi. Già da ogni dove numerose forze militari di cavalleria, fanteria, legionarj, ed armigeri a cavallo posti a disposizione del prelodato Signor Maresciallo di Campo Camcellier vanno in cerca degli scellerati per incalzargli, ed estinguerli. In momenti così fortunati proprj delle cure paterne del nostro adorato Sovrano, con esempj tanto luminosi dati dai Montefalconesi, ne starete voi nighettosi, permetterete voi, che i Vardarelli continuino a macchiare del sangue de’ vostri concittadini, de’ pacifici abitanti delle campagne il vostro territorio, 35 facciano ulteriori ricatti, ed assassinj e distruggano le vostre proprietà certamente no? Alla semplice loro apparizione continuate a passarne subito l'avviso, ajuti, e soccorso à Capi, à Comandanti della forza pubblica, e delle colonne mobili. Unitevi allora colla rapidità del fulmine ricordatevi, che la forza consiste nell'unione, cercate di affrontare come quei di Montefalcone gli assassini, fategli conoscere di essere voi degni nipoti degli antichi Dauni, e Sipontini. Date prove che non avete che cedere alle popolazioni delle Provincie di Campobasso, e Basilicata, dove i Vardarelli non trovando alcun favore sono stati costantemente battuti, e messi in fuga. Essi non essendo invulnerabili, resteranno atterrati, e distrutti. Supererete così di valore le gesta degli abitanti di Montefalcone, che rapportati da me a S. E. il Segretario di Stato Ministro della Polizia Generale, in riscontro nel ricolmare di lode, che giustamente si hanno meritato que’ zelanti, e coraggiosi Cittadini, mi ha incaricato di manifestarli la sua piena soddisfazione per l'interesse preso contro i nemici della quiete pubblica, e delle vostre sostanze. Intanto, affinché un esempio di sì singolare bravura possa essere di stimolo agli altri Funzionarj locali, e tutt'i miei buoni amministrati, se pur ne hanno bisogno, invito i Signori Sindaci, e Parrochi di dare allo stesso la più estesa pubblicità, acciò ognuno penetrato dalla circostanza, possa nelle occorrenze, gareggiando di zelo, spiegare la maggiore energia contro un pugno di miserabili, che attesi i continui movimenti della forza pubblica non può sfuggire la pena, che gli è dovuta. Felice però, e degno dell'indelebile elogio sarà quel prode mio amministrato, che ben guidando i suoi buoni concittadini riuscisse di attaccare il primo, battere, o sbaragliare i masnadieri suddetti. Egli avrebbe la gloria di aver contribuito a far riacquistare alla Provincia di Capitanata quella calma, che per i medesimi è stata da più tempo, ed è tuttavia agitata. Ho l'onore di salutarvi con distinta stima. Il Principe di Monteruduni Il Segretario Generale N. Lucci Su lo stesso "Giornale dell'Intendenza di Capitanata" n.77 del 3 maggio 1817 p.228 con data: Foggia lì 25 aprile 1817, troviamo un'altra circolare dell'Intendente di Capitanata a firma dello stesso Lucci in cui parla di un altro brigante: Signori, Il Signor Direttore del Ministero della Polizia Generale del Regno con suo foglio del dì 12 del corrente mese mi perviene: che S. M. si è degnata con Real decreto del dì 7 di accordare il premio di ducati duecento alla forza pubblica, che esterminò il Fuorbandito Filippo Tutisco, o Tudesco del Comune di Montefalcone. Nel passare tutto ciò alla di loro intelligenza, si compiacciano di dare a questa Circolare la più estesa pubblicità, onde far conoscere ai loro Amministrati, che la prelodata M.S. non lascia senza ricompensa i servizj che si prestano pel bene dell'ordine pubblico, dietro i rapporti che le vengono assegnati dal prelodato Sig. Direttore. Al secondo periodo appartiene la figura del brignate Michele Caruso. Questo personaggio che ancora oggi vive tra la fantasia e la realtà, nacque il 30 luglio 1837 a Torre Maggiore; ma di questo brigante non si riscontra nessun atto di vero eroismo o di pietà, non rari nel brigantaggio, ma solo atti di brutalità. Quando nel 1860 in Torre Maggior fu inalberato il vessillo Tricolore, Michele Caruso, che contava ventitré anni, godeva già fama di ladro emerito. 36 Nessuno aveva avuto il coraggio di denunziarlo alla giustizia, essendo a tutti noto che era capace di qualsiasi vendetta contro i delatori. In seguito, però, quando si mise a capo di un gruppo di masnadieri e pensò di intervenire per scuotere il prestigio delle istituzioni, provocare disordini ed infrangere il principio di autorità fu arrestato con la seguente motivazione: " Per associazione in banda armata avente per mira di cangiare e di distruggere la forma del governo, accompagnato da altri reati". Venne rinchiuso nelle carceri di S. Severo da dove evase, e per non ricadere nelle mani della giustizia si dette alla macchia. Dopo l'evasione, Caruso lasciò parlare poco di sé, perché ebbe bisogno di farsi delle amicizie nelle province in cui operava: Foggia, Benevento e Campobasso, per garantire la sua incolumità. Durnate questo periodo, che potremmo dirlo di preparazione, ebbe ripetuti abboccamenti con alcuni emissari della casa Borbone, i quali gli proposero, per farsi dei proseliti, il seguente programma che il Caruso accettò senza alcuna modifica: 1) Tutti gli iscritti e quelli che vorranno iscriversi alla compagnia comandata dal Colonnello Caruso, hanno l'obbligo di restaurare sul trono Francesco II e di combattere con tutti i mezzi i liberali, che sono nemici provati della Santa Chiesa e del Santo Papa Pio IX; 2) di amarsi fra loro e di garantire la vita del loro colonnello che Iddio guardi per mille anni; 3) chiunque diserta dalle fila , dopo aver giurato sul Crocifisso, sarà fucilato; 4) chiunque muore in battaglia, la famiglia del defunto avrà un forte vitalizio da Sua Maestà Francesco II; 5) chiunque vorrà in seguito arruolarsi nell'esercito di S. M. occuperà il grado di ufficiale; 6) chiunque, per sue speciali ragioni non vorrà far parte dell'esercito di S. M. avrà un impiego ben remunerato. firmato: il Colonnello Michele Caruso. Dopo l'accettazione del programma il Caruso lo fece affiggere come proclama in tutte le province, riuscendo in tal modo a racimolare 82 seguaci suddivisi in otto compagnie. I componenti delle comitive, secondo quanto narra il professore Abele De Blasio nelle vita di Michele Caruso, da cui abbiamo attinto diverse notizie al riguardo, erano per lo più contadini ignoranti, facili ad essere suggestionati e pronti a commettere qualsiasi delitto. Il Caruso non mostrava per le vittime alcuna pietà. La banda Caruso non agiva da sola, ma altre minori e parimenti terribili, erano alla stessa collegate ed operavano ai suoi ordini. La mattina del 12 ottobre, mentre la giovane Filomena Ciccaglione era intenta insieme ad altri contadini a seminare nella campagna in contrada Decorata nel comune di Colle Sannita, dove i briganti il 1 settembre 1863 le avevano ucciso il padre, volle la ventura che si trovasse a passare Caruso, che alla vista della procace e formosa contadinotta, volle con la prepotenza, farla sua e dovette per forza diventare la sua amante. Dopo numerosi conflitti avuti con le forze dell'ordine la banda si era quasi sfasciata, tanto che il 7 dicembre, dopo un ennesimo conflitto a fuoco, essendo rimasto solo, il Caruso riuscì a scappare insieme ad un certo Testa. Aveva deciso di recarsi in Basilicata per ricostituire la banda, ma, prima di accingersi alla nuova impresa volle recarsi in S.Giorgio la Molara, dove si trovava la sua amante. Filomena Ciccaglione, che già conosceva i rovesci subiti dal suo 37 rapinatore, credette giunto il momento della sua liberazione, di vencare la morte del padre ed il sacrificio della sua innocenza. Attraverso un confidente, tal Luca Pacelli, fece sapere alle autorità in qual pagliaio Caruso le aveva dato appuntamento. A seguito di tale dilazione 14 militi con a capo il sindaco di San Giorgio riuscirono a catturare il bandito, che poi per ordine del Prefetto fu condotto a Benevento insieme al suo compagno Testa, giudicato dal Tribunale militare e condannato a morte. La Ciccaglione fu assolta al processo; molte famiglie le offrirono ospitalità, ma lei preferì tornare a Riccia presso una zia, le fu assegnata una pensione di 40 ducati annui, ma dopo tre anni, il 31 maggio 1866, moralmente e fisicamente distrutta, morì. (4) In questo stesso periodo operava nella nostra zona il nostro concittadino Carlo D'Addezio soprannominato e conosciuto da tutti come Carlo Catone. Era a capo di una banda di uomini fidati e coraggiosi ed agiva in antagonismo con la banda di Caruso; però mentre questi era un puro sanguinario, come abbiamo accennato, Catone agiva più per un certo ideale e se toglieva ai potenti molte volte beneficiava i poveri, tanto che ancora oggi le sue gesta si tramandano e vivono nel ricordo della nostra gente. Tra i tanti episodi ricordiamo quello del 1870 quando Catone insieme alla sua banda, a Montefalcone prese d'assalto la farmacia del Dr. Carmine Goduti, incendiandola. Il Dr. Goduti, però, riuscì a salvarsi e a catturare sette briganti che furono fucilati al "Largo Arena"; Catone riuscì a non essere coinvolto nella cattura. Molti episodi si raccontano ancora dal popolo sul suo conto, uno infatti lo citiamo anche al capitolo de’ "circoli paesani" e ci piace citarne un altro, che copiamo integralmente dal "Valfortore" del 15 novembre 1949 a firma di Totonn (Antonio Zeppa) col titolo "Fatti di altri tempi - Un brigante di cuore", in cui, anche se in forma novellistica, risulta chiaro il coraggio ed il cuore del brigante. "Il giorno delle nozze, atteso con riserbato contento, alfine era giunto. La sposa era circondata dalle amiche che le facevano festa e che si davano un gran da fare in un armonioso ciarlare a renderla più bella. La madre, Grazia Occhiciello, riceveva i primi invitati e disponeva che nulla mancasse. Tutti insieme erano in attesa dei parenti dello sposo che, con questi, doveva arrivare da S. Giorgio, quattro ore di strada a piedi per la montagna. Il tempo in quell'inoltrato autunno era freddo e uggioso; dalla mattina una densa nebbia ovattava le case e rendeva breve la visuale, una rada neve acquosa scendeva lentamente. Gli invitati in piccoli crocchi chiacchieravano e sul tempo e sulle ultime novità. Carlo Catone era tornato con la sua banda da alcuni giorni. Era risaputo però che quando arrivava lui, Caruso e i suoi sgombravano, e quando non c'erano questi una certa distensione avveniva nell'animo di ognuno: la banda di Catone era più umana; anzi alcuni dicevano addirittura che era bene ci fosse lui perché proteggeva il contado dall'invasione degli altri banditi. L'atmosfera però era sempre gravida di panico. Zia Grazia, nell'accorrere qua e là affinché tutto fosse a posto, chiudeva nel cuore una pena grave che non osava comunicare agli altri. Era sì la pena che sente ogni mamma quando una figlia si marita; la figliuola lasciava la casa, andava in un'altra estranea ove avrebbe trovato nuovi usi e nuove abitudini; la sua poi andava in un paese diverso.... 38 C'era in lei pure l'agoscia di quella uggiosa giornata e dell'accidentato viaggio da affrontare a dorso di animali; ma più d'ogni altro era accorata per il contenuto dei discorsi che quei crocchi facevano. Le funzioni furono accelerate; il tempo stringeva e bisognava partire. Baci, auguri, abbracci, sventolio di fazzoletti, saluti e la carovana si snodò avviandosi per la montagna, stringendosi nei mantelli e facendosi riparo dalla fredda brezza. Si aveva premura di mantenersi in gruppo e per la visibilità scarsa e perché ognuno sentiva nell'animo un certo timore; pure bisognava allungare la fila per l'anfrattuoso sentiero. Era finito un tratto in discesa e cominciava un altro in salita: una sferzata alle bestie accompagnata dalla voce e il passo si fa più spedito, quando di dietro ad una meta di paglia alcuni figuri intabarrati, col fucile alla mano escono di botto: intimano l'alt e ammoniscono di obbedire: pena la morte! I pochi fucili della comitiva vengono ritirati. Grida, pianti, preghiere non valgono a commoverli e sotto vigile scorta li avviano per un sentiero traverso. Era inutile insistere con le preghiere e coi compromessi; uno di essi aveva parlato chiaro: era quello l'ordine, poi se la sarebbero sbrigata col capo. In quelle condizioni era forza ubbidire. I parenti ma le dicevano forse quando s'erano partiti, zia Grazia pensava alle conseguenze che ne potevano derivare; la sposa forse sentiva già il viso ispido di un ceffo contro il suo e sbiancava di terrore; lo sposo in cuor suo, imprecava contro la mala sorte che lo faceva vittima del ius primae noctis. Il massiccio caseggiato della Difesa si distingue tra la nebbia, sulle porte altre figure si affacciano sogghignando ed esprimono con parole poco convenevoli il contenuto della buona caccia; sullo spiazzale vengono fatti scendere e fatti entrare nell'ampio androne. Presso il camino, ove scoppietta un'allegra fiamma, è seduto un uomo che volge le spalle quadrate alla porta. È il capo, tutti lo hanno capito perché il capo drappello fa le consegne. Gli altri indirizziti e atterriti son rimasti impalati. Zia Grazia si butta prone sui piedi di quell'uomo e scongiura di lasciarli andare: implora sui suoi morti, sui suoi vivi, sulla sua mamma, sulle sue sorelle. Ma il capo bandito è immobile e tace. Non si è mosso da quando sono entrati: col viso nascosto tra le mani appoggiate sulle ginocchia, sembra non udire, e la mamma di quella povera fanciulla, che ormai più non regge, piange e si dispera. Alfine si muove, alza il viso massiccio e barbuto, col naso grasso e poroso e chiama a nome Grazia Occhiciello. La fa alzare e la invita a sedere; la rimprovera con voce nasale e grave perché egli, Carlo d'Addezio, suo parente, non è stato invitato alla festa. Anch'egli, diceva, avrebbe voluto parteciparvi, e lei la mamma, forse volutamente lo aveva escluso. Trovò la povera donna parole di scusa, ma in cuor suo e in quello dei parenti era chiaro che Catone aveva voluto imbastire quella scusa per giustificare il suo atto. La sposa gli va vicino per scongiurare anch'ella, ma Carlo si alza le piglia le mani e la conforta. Se la madre ha trascurato lui, egli non lo farà verso gli sposi, che ora gli sono vicini trepidi e ansiosi. "Voglio, dice, mostrarvi quanto io ci tenga al vostro bene e come mi piace dimostrarvi in modo palese la mia benevolenza". Regala ad essi un 39 anello, fa accostare sedie e sgabelli e fa sedere tutti intorno al fuoco. Fa allargare mantelli e scialli che alcuni guardano forse pensando di non riaverli più. Ed ora, dice, farete festa con me, mangeremo insieme e brinderemo alla salute di questi giovani. Nella stanza accanto è imbandita la tavola. I commensali siedono più per ubbidienza che per trasporto e fanno del loro meglio per mostrarsi convinti della benevolenza di quel capo a cui numerosi e forti uomini obbediscono ad un cenno. Dopo pranzo le bestie vengono imbardate e tirate dalla stalla. Tutti ricevono il saluto di Carlo Catone e l'aiuto a salire in sella. Ora andate, dice, e non abbiate timore, la mia scorta vi accompagnerà fino a S. Giorgio. Era questo il salvacondotto che a quei tempi aveva più valore di quello firmato dal Re. La carovana lentamente si snoda e riprende il cammino. Gli uomini sulle porte e per la via accennano un saluto. Non v'è meraviglia in essi perché sanno che il loro capo, audace e fiero nelle più rischiose imprese, ha atti di bontà di cui non bisogna domandare ragione. Carlo Catone guarda il corteo allontanarsi, lo segue con l'occhio finché la nebbia non lo nasconde. Resta ancora fuori taciturno e pensoso, le mani ai fianchi, la testa china. Forse pensa che la compagnia dei cari rasserena l'animo più della sua numerosa e audace scorta, che un'opera di bene rende più di quanto non renda l'impresa meglio riuscita. Poi si scuote: è tardi, la sua vita è quella. Chiama, raduna, insellano, e gli uomini partono per le scorribande usate. Un giorno però l'ordine sarà un altro, ognuno avrà il suo e anche egli Carlo D'Addezio, il terrore e l'idolo si presenterà alla legge, sconterà la pena. Dopo si formerà una famiglia per vivere con essa, a Montefalcone nel luogo dove è nato, gli anni della sua serena vecchiaia". Prima di concludere queste note sul brigantaggio mi piace riportare un altro articolo apparso sul primo numero di "Valfortore" con la stessa firma di Totonn (Prof. Antonio Zeppa) in "Fatti d'altri tempi", col titolo: "La festa dell'ottava di Pasqua a Montefalcone" dal quale si vede come la nostra terra fosse teatro di gesta brigantesche, ma anche la fede che ha sempre animato e sostenuto il nostro popolo e nello stesso tempo troviamo l'origine di questa festa: "Giorni terribili quelli della primavera del 60. Le piogge finivano, i torrenti cadevano in magra, i boschi rinverdivano. Tutto assecondava i disegni dei fuori legge che infestavano la zona che avevano sgombrata per i rigori dell'inverno. Ora tornavano baldanzosi, con maggiore ira. Le voci correvano su quanto accadeva nelle zone circostanti. I segnalatori avevano fatto i nominativi di quelli che avevano aderito al governo di Vittorio, e poi, essi, i fuori legge avevano da vendicare, e a modo loro, i soprusi che i capi del partito avverso avevano perpetrato durante la loro assenza. Il bottino: compenso agognato alle loro gesta, sarebbe stato pingue: nelle case v'era tutta la provvista; le ragazze: il sogno dei giovani banditi, erano sode e attraenti. Alcuni contadini a guardia del bestiame a pascolo sulla montagna arrivano trafelati in paese. Li hanno visti, sono in molti, tutti armati, hanno pure i cavalli. La notizia si spande rapida nelle case portata dai tanti che sfaccendavano sulla piazza, nel giorno di festa, in attesa del pranzo. Idee, proposte, grida, urla, svenimenti, confusione e in mezzo lo onore delle donne. L'altro? Eh, non conta in simili frangenti! Che fanno gli altri? Meglio 40 unirsi? Sparpagliarsi? Chi può dare un consiglio, in tanto clamore, in tanto sconvolgimento? Ecco il Parroco! Egli ha sempre saputo consigliare per il meglio, egli che pure ha ragione di scappare perché la sua condotta non va a genio ai briganti, dirà quello che si dovrà fare. Appoggiato al platano davanti alla chiesa del Carmine, taciturno e pensoso don Federico Corso attende; sa che i suoi filiani fidano in lui. In silenzio lo hanno eletto capo ed eseguiranno i suoi consigli, ubbidiranno alle sue parole come sempre e più di ogni altra volta. Ma che può fare lui? Inerme, senza via di scampo - Se la sua vita fosse sufficiente la darebbe per tutti i suoi figli. Ma questo dono pur tanto grande non può bastare a saziare l'ira folle, il desiderio di vendetta e di saccheggio dei banditi. E allora che può salvare questo popolo tanto buono, ripieno di ogni migliore sentimento, attaccato alla fede per antica tradizione, per immutato ed educato sentimento? Chi può aiutarci quando tutti i mezzi terreni vengono a mancare? Che, forse la Mamma comune, quella che conosce gli affanni e le aspirazioni di questo popolo tema quei pochi ribaldi che hanno dimenticato l'amore fraterno, che hanno volto il viso dallo splendore e dalla luce? Figliuoli! Io inerme come voi, non posso allontanare il pericolo che ci sovrasta. Nessuna via di scampo abbiamo; tutto ciò che è forza terrena è inferiore a quella dei nostri nemici. Ma la speranza c'è, chi ha fede non disperi. La nostra Madre è qui, ed Ella sola può aiutarci, deve venire in nostro aiuto, ci salverà! Ricorriamo a Lei con fede viva come sempre, ardente come non mai ed Ella non permetterà che sia fatto del male ai suoi figli.La speranza riaccende i cuori, un grido di amore e di conforto invade tutti e la chiesa poc'anzi deserta echeggia di grida, di pianti, di invocazioni. Anche Tu, o Madonna, corri pericolo, Essi, i ribaldi, non Ti risparmieranno. Vieni con noi, ci proteggerai, ci animerai, o con noi la Tua effigie sarà abbattuta. La statua della Madonna del Carmine, dal volto ilare e materno, che ricorda il suo affetto per i figli nel gesto umanamente divino nell'amplesso del Figlio, è portata a spalla. Dove si va? Ecco là, sulla collina illuminata dal sole, al lato del boschetto che sa di mistico e di conforto, dormono i nostri morti. Forse vegliano e trepidano per la mala sorte che avversa i loro cari. Vecchie croci che ricordano i nomi di quelli che hanno sopportato il duro gioco della cristiana pazienza nell'attesa di giorni migliori, ma che hanno visto il tramonto sanguigno senza l'alba radiosa. Croci fissate sulla terra di fresco smossa che ricordano quelli che nell'entusiasmo di santi ideali hanno immolato le giovani vite per un ideale di benessere, equità, pace e lavoro. Anche essi fremono, i morti: bastino i loro sacrifici, i cari si salvino e godano nel lavoro la serena pace della famiglia. E foste voi, o morti, che la Madonna del Carmine avete per patrona? Furono le grida dei bimbi o il pianto dei vecchi che compì il miracolo? Il viso sereno della Vergine che sovrasta quelli lacrimosi, atterriti e pieni di fede della turba, incuorava i trepidi, dava speranza a ognuno. Bastava guardare il suo viso per sentire nell'animo quell'alito di fiduciosa speranza. 41 I briganti che fan man bassa nei pochi casolari ormai deserti, che incustodito, che trasformano in falò i secchi fieni accumulati con fatica davanti ai rustici casolari arrivano sugli ultimi contrafforti; sono in vista del paese. I cavalli scalpitano, sentono anch'essi l'ansia dei cavalieri. Dalle froge dilatate esce l'ansimare dei larghi polmoni, quasi ira repressa. I cavalieri aguzzano lo sguardo, cercano i sentieri, preparano l'attacco. Ma cos'è quel nereggiare vicino al lungo recinto? Forse truppa in attesa dell'attacco? Forse popolo fiero, sicuro di aver ragione dei ribaldi, perché armato e preparato? Si calcolano le forze, si scrutano gli uomini che lentamente si raggruppano e paventano il pericolo. Prudenza consiglia di rimandare l'attacco, si avrebbe la peggio. È il consiglio di ognuno, è la decisione dei capi. Inutile attendere, potrebbe sorprenderci un'imboscata. Si girano i cavalli, si tirano le briglie, una folla di spauriti arranca, lascia il bottino per essere più libero, si chiamano per farsi coraggio, si dileguano ringraziando il cielo per averla scampata. Sono cambiati i tempi, son finiti i briganti, ma non le pene, gli affanni, i bisogni. Ogni anno, la domenica dopo Pasqua, la Vergine torna allo stesso colle, il popolo Le è intorno e nel ricordo del pericolo passato, implora per i presenti, per i futuri". Concludiamo queste note sul brigantaggio nella nostra terra riportando ancora l'elenco nominativo di alcuni montefalconesi, e non sono tutti, datesi al brigantaggio, come risulta da note somministrate dal Sindaco in esecuzione al disposto della Circolare Prefettizia del 4 ottobre 1862 e riportati dalla Sangiuolo (5): D'Addozio Carlo, di Giuseppe Marco-Antonio Giovansaverio, fu Antonio Mansueto Nicola, di Leonardo Pallotti Giuseppe Antonio, di Raffaele Sacchetti Biase, fu Gaetano Tudisco Michelangelo, fu Antonio Vecchiarella Giuseppe, di Antonio 42 SOCIETÀ OPERAIA DI MUTUO SOCCORSO Dopo l'annientamento del brigantaggio, il nostro paese riprese la sua vita tranquilla e laboriosa, anche se molti cittadini rimasero fedeli alla causa borbonica. Fu in questo tempo che si ebbe un intensificarsi di opere di risanamento edile ed igienico e di viabilità. Si terminò la strada Bivio Foiano - Montefalcone Castelfranco - Savignano Scalo (1872), creando un maggior commercio e sviluppando l'economia ed un certo movimento operaio che sfociò nella fondazione di una "Società Operaia di Mutuo Soccorso di Montefalcone Valfortore" con bandiera solennemente benedetta, sede propria e statuto approvato dal Tribunale di Benevento con deliberazione in Camera di Consiglio del 9 luglio 1907. Lo scopo della Società era, come si legge all'art. 2 dello statuto: "Di infondere nelle classi operaie ed agricole il rispetto alle leggi, l'amore alla patria, i principi liberali e di progresso, e mantenere vivo in esse il sentimento dei loro doveri verso la società e verso la famiglia, e dei loro diritti come cittadini, specialmente in ciò che riguardano la vita pubblica, sia politica che amministrativa". All'art. 8: "In nessun caso potranno essere ammessi come soci coloro che sono stati condannati a pene disonoranti, come reati di furto, frode, ecc. ed in massima a pena che fanno perdere, a chi le ha subite, i diritti civili". All'art. 10 lo statuto mira allo sviluppo ed al perfezionamento della persona umana e all'attuazione delle norme dei valori a cui ciascuno uomo deve mirare. "Tutti i soci s'intendono impegnati sul loro onore di condurre vita onesta e laboriosa, da buoni cittadini. Ma lo scopo della Società oltre alla formazione del cittadino, è particolarmente il "Mutuo Soccorso" e lo troviamo al Titolo V - Diritti dei soci, agli art. 14-15-16 e 17. Art. 14: " Il socio effettivo dopo un anno dalla sua ammissione, se incorrerà in malattia che porti assoluto impedimento al lavoro, dopo il terzo giorno di malattia avrà diritto ad un sussidio giornaliero o in contanti, o in genere alimentari, medicinali a prezzo ridotto, (e questi sino dal primo giorno di malattia) tutto ciò nelle proporzioni che stabilirà il Consiglio Direttivo per l'anno in corso, in rapporto alle condizioni finanziarie della società". Lo statuto, mentre parla delle forme di aiuto ed assistenze sorrette da vincolo di amore vicendevole fra i soci, all'art. 15 e 16, con una integralità di visione della vita, mette una limitazione, che ripeterà poi anche successivamente: " il socio effettivo non avrà diritto ad alcuno dei soccorsi e sussidi sopra detti quando la malattia provenga da rissa, ubriachezza e stravizi". Stimmatizzando così i vizi del tempo la "Società" impegna i soci sul proprio onore a concorrere a far sì che i Montefalconesi siano ammirati per la loro tranquillità e laboriosità. Presidente fu eletto Michele Pappone, segretario Giuseppe Zeppa, cassiere Donato Belpedio. Con l'avvento del Fascismo la Società Operaia fu chiusa e, da principio, nessuno dei soci volle aderire al Fascismo. È da notare che la Società fu veramente efficiente e portò un valido contributo oltre che nel campo dell'assistenza, anche nella vita democratica del paese. Caduto il Fascismo nel 1943, secondo l'art.46 dello statuto, la Società fu ricostituita e fu chiamato come presidente Michele Minelli, già in carica quando si sciolse, e come segretario e riorganizzatore il prof. Antonio Zeppa. 43 Lo stesso impegno animò i soci alla ricostituzione, ma in seguito, poiché alcuni volevano strumentalizzarla politicamente, il Presidente ed il Segretario si dimisero e la Società fu nuovamente sciolta. Questo, è logico, fu la causa ultima, ma onestamente bisogna pur riconoscere che ogni istituzione nasce ed è valida per il suo tempo che le esprime e con l'avvento delle Previdenze di Stato queste associazioni non avevano più ragione d'essere. 44 MULINO SOCIALE Nei tempi andati, anche quando le lotte per il Risorgimento erano finite da un pezzo e le gesta del brigantaggio assumevano carattere di leggenda, non vi fu in questa zona quel risveglio di civiltà che altrove fu incentivo di progresso e di benessere. Fino ai primi anni di questo secolo per avere la farina si portava a macinare il grano ai due o tre mulini ad acqua che sorgevano in località distanti e poco comode ad accedervi. Quando l'acqua mancava o la strada era impraticabile, o quando, come spesso accadeva, i pochi pugnelli di frumento rischiavano di perdersi negli anfratti della macina, allora si ricorreva al "centimolo" (una specie di grossolano mulino in miniatura, la cui mola veniva azionata a mano). Ma fosse grano o granone, si andasse al mulino ad acqua o al " centimolo" il risultato era unico: la resa era irrimediabilmente decurtata. Sorse poi in paese qualche mulino con accorgimenti tecnici più moderni, ma l'uso sulla farina, circa la trattenuta, rimase quello antico. S'impose così la necessità di ottenere un più onesto mezzo per il servizio dello sfarinato che era necessità di tutti. Sorse così l'idea del Mulino Sociale. Furono vendute delle azioni sociali da L.10 e si acquistò il suolo, si edificò lo stabile (1910), si impiantò il macchinario: un motore a gas povero che azionava due palmenti. Il contratto d'acquisto fu firmato a Bari da Giuseppe Zeppa. Il sollievo fu unanime: era stato risolto un problema vitale che beneficava molti e danneggiava quei pochi che dovettero chiudere battenti per mancanza di clienti. Il suono della sirena che annunziava l'avvio del motore sembrava il grido di vittoria e di conquista delle realizzazioni nella concordia popolare. 45 MONTE FRUMENTARIO I Monti frumentari (detti anche granatici o di soccorso) furono una importante istituzione benefica sorta negli ultimi tempi del Medioevo a favore degli agricoltori più poveri. Il contadino prelevava dal cumulo di grano comune la quantità necessaria per la semina, o anche durante l'anno per il fabbisogno della famiglia, che poi restituiva, aumentata di un tanto per l'interesse, al momento del raccolto. Se si considera che l'usura era una piaga assai diffusa in quella epoca, con grave danno specie dei poveri, si comprenderà come l'istituzione dei "Monti" fosse cosa veramente benefica. Un pregiudizio economico assai diffuso era che il danaro dovesse essere prestato gratuitamente e che il possessore del medesimo avesse quasi l'obbligo morale di metterlo a disposizione del richiedente, purché ne assicurasse la restituzione pura e semplice. Tutti i motivi che giustificano oggi davanti alla coscienza anche dei più onesti l'interesse del capitale, allora non erano presi in alcuna considerazione e l'opinione pubblica condannava ogni mutuo fruttifero. Gli stessi teologi, anche se con qualche contrasto, inculcavano tale principio. Quale la conseguenza? Che i capitalisti più coscienziosi e più timidi ritiravano per quanto era loro possibile il danaro dalla circolazione, mettendo così i bisognosi alla mercé degli sfruttatori più abili e audaci che elevavano l'aggio normale dell'interesse a prezzi favolosi. Per cercare di mettere riparo alla piaga dell'usura sorsero i Monti di Pietà prima, per opera dei francescani, P. Bernardino da Montefeltre e P. Barnaba da Terni, e poi i Monti Frumentari. L'istituzione dei Monti Frumentari ebbe origine e prosperò nelle regioni agricole e di condizioni più misere. Celebre nella storia dei "Monti" è quello di Benevento creato dall' Arcivescovo Vincenzo Maria Orsini con 500 ducati e 146 tomoli di grano; divenuto Papa nel 1724 col nome di Benedetto XIII favorì grandemente il diffondersi di quest'opera benefica che seguì alterne vicende. Altro propugnatore di quest'opera fu Ferdinando II che fece risorgere o dette vita ex novo a centinaia di Monti, specie nell'Abruzzo e nella Capitanata. Nel 1784 anche a Montefalcone, proprio per far fronte alla povertà ed evitare la speculazione, Grato Iansito istituiva per testamento un Monte Frumentario e Pecuniario, con dotazione di Tomoli 1500 di grano e 32, 62 ducati di rendita, che poi per "non buona, o trascurata amministrazione "come già diceva il Cirelli, è andato mano mano diminuendo fino a che fu incamerato dal Banco di Napoli e da qualche anno il Banco di Napoli ha venduto anche lo stabile dove era stato costituito. Fino ad alcuni anni fa si conservava la lapide che ricordava la benefica istituzione, poi l'incuria degli uomini ha distrutto la lapide, che riportiamo, ed ora il Monte è ricordato solo dal nome che è rimasto al luogo che sintetizza gli eventi di Montefalcone: prima fu ospedale dei pellegrini, poi monte frumentario, poi scuola ed ora è chiuso (proprietà privata) sottostante alla chiesa di S. Filippo, con ingresso accanto al campanile. 46 O VERE PIETATIS OPUS GRATUS IANSITO NOMINE GRATUS, COMITATE GRATIOR MISERICORDIA IN PAUPERES GRATISSIMUS A QUIBUS NE MORTUUS QUIDEM AUXILIO ABESSET, TESTAMENTO INSTITUIT AN. MORTIS SUAE 1784. MONTEM HUNC FRUMENTARIUM QUEM VICISSITUDINUM IMPROBITATE TANDEM REMOTA HAC IN ARCA DIRUTI IAM XENODOCHII A POPULO COMITIIS HABITIS IMPETRATA R.dus BALTASAR PUCCI TESTAMENTI AUCTOR ET CURATOR INSTITUTORIS AERE CONSTRUXIT An. 1792 IBIN FACTUM UT UBI NUNC PAUPERES PASCANTUR, UBI OLIM OSPITABANTUR. GRATO ERGO BENEMERITI CIVES, ESTOTE GRATI. O veramente amato per opera di pietà Grato (della stirpe dei Iansito, maggiormente caro per la sua umanità, carissimo per la sua benevolenza verso i poveri, dai quali affinché neppure dopo la morte fosse lontano con il suo aiuto, istituì nel 1784, anno della sua morte, questo Monte frumentario che in quest'area del diruto ospizio per richiesta pubblica del popolo il Rev. Baldassarre Pucci, estensore e curatore del testamento, col danaro dell'Istitutore fece costruire nell'anno 1792 Fu fatto affinché i poveri potessero nutrirsi dove prima venivano ospitati, o cittadini siate riconoscenti verso Grato benemerito. 47 Il tesoro nascosto Se l'incendio del 2 novembre 1943 non avesse distrutto tutto il carteggio dell'archivio comunale si potrebbero dare dati precisi intorno al fatto che si racconta. Ma questo anche se non fissa date e riporta solo poche generalità, anche se ha più sembianze di fantastico che di reale, è stato recepito nel racconto dei più anziani che assicurano che il racconto non ha nulla d'inventato. Grato Ianzito, detto zì Gratone, non si sa se per il fisico grosso o per l'età, da alcuni anni aveva lasciato le pecore e la masseria ove da giovanissimo era stato garzone e viveva con la moglie la tranquilla vita dei semplici che hanno tutto, perché si contentano di poco. Verso l'ora tarda di un mattino, mentre il vecchio seduto al sole intrecciava vimini per un canestro, arrivano da lui due dei "Signorini" figli del suo vecchio padrone. Accoglienza festosa e impacciata: chiama la moglie, spolvera le sedie e manifesta la sorpresa di vederli in casa sua e domanda come mai da quelle parti. I due giovani misero a conoscenza il buon Gratone della morte del loro papà, e qui l'affezionato garzone voleva esternare il sincero rammarico e manifestare il suo dolore, ma i giovani avevano fretta di arrivare al sodo e allo scopo della loro venuta. Quindi proseguirono dicendo che della risaputa ricchezza paterna essi avevano trovato molto poco… Ogni ricerca era stata vana e le indagini, fino a quel momento inutili. Essi sapevano, ed altri avevano confermato, che l'uomo fidato del loro papà ed anche il confidente era Gratone e che lui soltanto poteva saperne qualche cosa. Qui il buon vecchio ammutolì e ci volle tutta l'abilità dei giovani per fargli dire che sapeva qualcosa. Aggiunse però che era legato da impegno al quale non poteva venir meno: delle confidenze del suo padrone non aveva mai fatto palese nessuno e l'impegno diventava maggiore dopo la morte. Ma più che la parola sciolta ed implorante dei giovani, la considerazione di Gratone che questi erano suoi nuovi padroni, ebbe ragione; accostata la sedia, stretto il circolo, con voce pacata raccontò che degli anni erano passati da quando il suo padrone una sera lo chiamò e fatto bardare tre muli, dopo di essersi assicurato di essere soli, glieli fece caricare di barilotti, certamente pieni di monete, dal rumore che essi facevano. Insieme si avviarono senza parlare: Grato tirava il primo mulo, il padrone seguiva cupo e per la strada non parlò mai. Si allontanarono fra i campi fino ad un luogo che il padrone indicò. Qui fece scavare una fossa e quando la ritenne conveniente vi fece calare i barili che erano 12. Voleva a questo punto che l'anima di Grato guardasse quel denaro (era credenza a quel tempi che i tesori venissero custoditi dall'anima di una persona uccisa e seppellita col tesoro). Grato implorò, pianse e trovò misericordia nel suo padrone che gli fece giurare che non avrebbe detto mai ad alcuno dell'operazione di quella notte. Spiegò che voleva diseredare i suoi figli, i quali contrariamente all'esempio e al consiglio paterno, menavano vita scioperata. Fu rimessa a posto la terra e tutto tornò come prima. Mai più quella terra fu rimossa e i barili erano ancora là. Il luogo lo ricordava bene Gratone perché tante volte vi era passato. Ora l'erba e i cespugli vi crescevano folti. 48 Fu convenuto che sarebbe andato a indicare il luogo e avrebbe avuto due dei barili seppelliti come ricompensa. Quando Grato scelse fra i 12 barili disseppelliti non sapeva quello che contenessero, come non lo sapeva prima. Caricò i suoi barili sul mulo e tornò alla sua casa ignaro ancora della ricchezza che portava seco. A casa, a porte chiuse, mentre la moglie reggeva il lume, prese l'ascia e sfondò i barili. Un rivolo di monete d'argento si sparse sul rustico pavimento e fece trasecolare i due vecchi. La vita serena era finita! Non furono più i cesti a tenerlo occupato, né il sole a veder spaccar canne e a intrecciare vimini per i cesti e a tagliare il pezzo di pane seduto accanto alla moglie che sferruzzava, mentre i monelli seduti per terra aspettavano il pezzetto di cacio e la continuazione del racconto che non finva mai. Gravi pensieri ora occupavano la sua mente. Dovrà fare buon uso di quel denaro che la Provvidenza gli ha dato, che il padrone forse, dall'altro mondo, ha voluto affidare a lui perché ne facesse opere di bene. Non aveva Gratone eredi diretti, né parenti stretti e di quel denaro fece bene al popolo. Il cesto rimasto a metà all'arrivo dei Signorini, forse, non fu più completato ed il racconto ai bimbi non ebbe più il suo seguito. Gravi pensieri gravavano la mente del buon Grato Iansito, che la sorte aveva voluto far ricco in vecchiaia. Vissuto senza ambizioni ed essendo stata la modestia e la parsimonia sempre il suo abito, non cambiò tenore di vita. Conoscendo però in quanta miseria versavano i suoi simili, pensò di far partecipi un poco tutti della sua ricchezza e s'ingegnò con la sua mente di adusato pensatore per distribuirla e impegnarla nel miglior modo possibile. Tanti furono i poveri beneficati ed in più quelli che la miseria nascondono per intimo senso di dignità. Di questi Grato non disse mai, si sapeva però che non v'era chi ricorresse a lui senza trovarne beneficio. Diverse furono le ragazze da marito, che al matrimonio avrebbero dovuto rinunziare per l'assoluta impossibilità di un minimo di corredo e la dote. Ma Grato volle fare di più, non voleva che il beneficio si estinguesse con la sua morte, che i beneficati fossero solo i presenti e non voleva soprattutto che l'assistenza avesse carattere caritativo e quindi dar modo ai pezzenti di professione di approfittarne, mentre chi per abito morale e per dignità, ma che pur ne sentiva la necessità, rimanesse escluso. I più vecchi raccontano ancora che la miseria del tempo, quando essi erano bambini, era spaventosa. Ancora molti ricordano quando si doveva ricorrere al prestito e quanto costasse pagare quel debito contratto. Un quarto di tomolo era la ragione d'uso di quel tempo, equivalente al 25% e questo tasso rimaneva fisso anche se, come quasi sempre avveniva, il debito si pagava molto prima che maturasse l'anno. Gratone venne incontro a questa necessità tanto sentita e istituì il "Monte Pecuniario Agricolo". Quello che fino alla costruzione dell'edificio scolastico era l'aula della scuola al Monte, e che ancora oggi in paese chiamano così, era il deposito del grano a disposizione di tutti a tasso bassissimo. 49 Il credito era limitato e ciò costituiva una saggia regola: in tal modo il beneficio si poteva estendere a molti e i contraenti non si aggravavano di un debito oneroso che poi non avrebbero potuto pagare. Il Monte servì a far chiudere commercio ai diversi usurai che imperavano in paese e ad apportare un sentito beneficio sì che poi tanta miseria fu alleviata. Il testamento olografo, nella sua semplicità, rispecchiava tanto acume e buon senso e indicava tutti i servizi per il buon funzionamento del Monte: tutto era previsto, perfino la spesa delle scope e il grano che avrebbero mangiato i topi. Dopo questa lunga descrizione segnò i diversi lasciti. Simpatica la stesura del testamento per il maritaggio ai suoi più lontani parenti: gli eredi di sesso femminile, fino alla settima generazione, avrebbero avuto diritto al godimento stabilito in una somma sufficiente per il corredo e un po’ di dote. Non mancò poi di pensare all'anima sua e molti furono i legati per Messe, lampade, ecc. Il racconto di chi ha letto quei fogli scritti con grossolana grafia e con sintassi tutta personale, dice che non v'era in essi cosa che non fosse stata prevista e tutto era spiegato nei più minuti dettagli. Le mutate condizioni economiche, dovute anche al beneficio di tanta ricchezza distribuita al popolo fece perder ogni importanza al Monte perché il prestito del grano non fu più richiesto. I successivi amministratori convertirono il grano in danaro e, ferme restanti le disposizioni testamentario, il Monte continuò a beneficiare molti. Ma le sagge leggi di previsione dell'accorto Gratone si riferivano al tempo; né si potrebbe pretendere che quel vecchio garzone di masseria facesse di più. Pure il lascito di Grato ebbe il suo valore anche quando i ducati dovevano computarsi in lire, poi le lire divennero poche perché avevano perduto il valore di acquisto e allora il Monte non ebbe più la sua importanza. Continuò, però, ad avere vita ed a rendere i suoi servizi agli umili che vi ricorrevano. Fra gli ultimi amministratori, ed anche i giovani lo ricordano, fu Davide Grassi. Al mutato potere d’acquisto si aggiunsero poi le mutate condizioni politiche e lo stato accentratore evocò a sé il diritto di beneficenza. L'amministrazione passò al Banco di Napoli e la semplice nascosta richiesta divenne una pratica burocratica. 50 CLERO E CHIESA – CLERO Il Cirelli parlando delle qualità religiose dei Montefalconesi dice che: "Sono entusiasti per solennizzare le festività religiose; e grandissima è la devozione che hanno per la Madonna del Carmine"… Il popolo accorre costantemente alle funzioni chiesastiche, e contribuisce facilmente per ogni opera di culto". La laboriosità della nostra gente, educata all'onestà ed al sacrificio ha mantenuto sempre vivo il senso della trascendenza nel rapporto con Dio e ciò ha favorito il sorgere delle vocazioni sacerdotali e religiose, tanto che Montefalcone è fra i comuni che, nel rapporto della popolazione, vantano il maggior numero di sacerdoti e suore, i quali, in Italia ed all'estero si distinguono per preparazione culturale, spirito di carità e dedizione alla propria missione. L'Arciprete e l'Abate con diploma del 15 settembre 1806 furono insigniti di cappa e rocchetto. "Il Clero di Montefalcone, dice ancora il Cirelli, rammenta persone ragguardevoli, fra i quali D. Gennaro Caruso, che fu canonico della Cattedrale di Ariano e Rettore del Seminario; D. Tommaso Caruso, emerito Arciprete della Chiesa di Montefalcone; D. Pietro Paolo Goduti, Arcidiacono nel Capitolo di Ariano; D. Tommaso Lupo, Tesoriere nella Cattedrale, insigne oratore; D. Saverio Miresse, molto versato nella letteratura classica e zelante ministro apostolico; D. Paolo Pucci che veniva tolto ai viventi nominato appena Arcivescovo di Salerno; D. Giuseppe e D. Teodoro Sacchetti, uno Arciprete in Ginestra degli Schiavoni; e l'altro Abate nella Chiesa della propria patria, ambedue distinti per abilità e zelo apostolico; D. Gennaro e D. Michelantonio Pauletti; D. Giuseppe Ricciardelli; D. Francesco Saverio Dote; D. Anastasio Antonucci. Tutti costoro han lasciato di sé ottima fama tanto in fatto di cultura che di morale e di zelo nell'esercizio del loro ministero". A questi è da aggiungersi ancora l'Abate Antonio Maria Altobelli, uomo di profonda cultura, apostolo zelante e predicatore insigne; l'Arciprete D. Sisto Di Giuseppe, impiegato da giovane prete nella biblioteca vaticana, aveva conservato l'amore allo studio; l'Abate D. Antonio Petrilli, che tanto ha lasciato di sé nel nostro paese per lo zelo dimostrato e le opere compiute. Ricordiamo ancora tra i trapassati più recenti: P. Antonio Curcio, che nel necrologio della Provincia Francescana Sannito-Irpina Santa Maria delle Grazie, così viene ricordato nel giorno 7 agosto per l'anno 1941: "Giovane di belle speranze, di ottimo ingegno e di spiccata capacità nella direzione musicale. Essendo Cappellano Militare in Croazia, da partigiani comunisti fu trucidato, avendo 30 anni di età. Nello stesso Necrologio si legge: "13 luglio 1963 - M.R.P. Innocenzo Zeppa nato a Montefalcone Valfortore il 19 febbraio 1907. Ebbe da natura ingegno perspicace e generosità di cuore. Con tutti, indistintamente, fu largo di generosa carità. Si prodigò nella scuola soprattutto come Lettore di Teologia Dommatica e in molteplici forme di apostolato. Per la Provincia che governò come Superiore Provinciale e sempre servì fedelmente, sognò le mete più luminose. La sua morte, avvenuta in Benevento, mentre era Guardiano della Madonna delle Grazie, fu molto rimpianta". Per quanto riguarda la serie degli Arcipreti ed Abati succedutisi a Montefalcone riportiamo integralmente un manoscritto dell'Arciprete D. Pasquale Curcio, datato 1 Agosto 1811: "Memoria per ciò che potrà occorrere in avvenire, delle serie degli arcipreti pro tempore, estratta dagli antichi registri del Battesimo, stato delle anime 51 e da inveterati documenti, che conservansi da me Arciprete D. Pasquale Curcio. Nell'anno 1378, come rilevasi dalla copia del dietro scritto certificato, si vede segnato per Arciprete della prima parrocchia di S. Giovanni Battista - D. Domenico Melillo. Nell'anno 1577, fu Arciprete D. Giovanni Panella, come rilevasi dal Privilegio della Fondazione della confraternità del SS.mo Rosario. Nell'anno 1586, fu Arciprete D. Antonio Menabole, come da un antico registro. Nell'anno 1592, D.Ludovigo Rosato, come dal detto libro. Nell'anno 1608, D.Francesco Lupone, " " " Nell'anno 1609, D.Donato Ricciardo, " " " Nell'anno 1646, fu Econmo Curato D.Andrea Coduto, come dal detto libro. Nell'anno 1656, fu Arciprete D.Onofrio Montefuscoli, come dal detto libro. Nell'anno 1683, D.Giuseppe Giovanni Marino, " " " Nell'anno 1693, D.Giovanni Montefuscoli, " " " Nell'anno 1732, D.Francesco Paoletta, " " " Nell'anno 1734, D.Andrea Paradiso, " " " Nell'anno 1744, in sino al 1782 fu arcip.te D.Tommaso Ceneppe Nell'anno 1782 all'86 fu Economo Curato D.Donato Salvia Nell'anno 1786 in sino al 1804 fu Arcip.te D.Gennaro Paoletta Nell'anno 1805, D.Pasquale Curcio fino al 7 gennaio 1827 Nell'anno 1827, D.Simone Palazzi fino al 1837. Fin qui il manoscritto, gli altri li abbiamo ricavati noi dai registri parrocchiali: Novembre 1837, D. Pietro Tulino - Economo Curato - fino al 1839, al 1843 fu Anastasio Antonucci - Arciprete Curato. Dal novembre 1843 all'ottobre '44 fu Economo Curato D. Francesco De Matteis. Da ottobre 1844 fino al settembre 1862 D. Carlo Antonio Palazzi fu nominato Arciprete Curato e dal settembre 1862 fino al settembre 1898 fu Arciprete. Morto D. Carlo Antonio Palazzi nel settembre 1898 fu nominato Economo D. Antonio Minelli, fino al maggio 1899, quando fu nominato D. Michele Vitale. A febbraio del 1925 viene nominato economo D. Sisto Di Giuseppe. Che muore il 4 febbraio 1958. Febbraio 1958 viene nominato Parroco D. Vincenzo Perrella fino al luglio 1977. Nel settembre 1977 fu nominato Parroco D. Alberto Lucarelli. "Serie degli Abbati pro tempore di S. Maria che si leggono firmati negli antichi libri del Battesimo, con licenza degli Arcipreti pro tempore": Nel 1534 - fu Abbate di S.Maria D.Vitolo Volpe, come da un documenantico. Nel 1591 - D. Filovio Bilotta - come dal registro dal Battesimo. Nel 1600 - fu Abbate un certo di casa Golia - come dal registro del Battesimo. Nel 1646 - D. Giovanni Pietro Pennella. Nel 1664 - D. Federico Virgilio, come vedesi da un antico documento di Concordia nell'Arcipretura di D.Onofrio Montefuscoli. Nel 1673 - D. Andrea Coduti, come dal registro della Cappella della Concezione. Nel 1698 - D. Domenico Albanese, come dal registro della Cappella del Gesù. Nel 1701 al 1757 - D. Pietrantonio Torricelli. Nel 1758 - D. Gennaro Palazzo fino al 1791. Nel 1792 - D. Giacinto Palazzo fino al 1806. Nel 1806 - prese possesso l'Abate D. Eliodoro Sacchetti per sino al 1834 a dì 27 agosto. 52 Fin qui il manoscritto - Gli altri, come per la Parrocchia di San Pietro e Paolo, li abbiamo ricavati noi dai registri parrocchiali. Dal 1831 al febbraio 1834 D. Pietro Tulino fu nominato Economo. A febbraio 1834 fu nominato Economo D. Francesco De Matteis e a maggio 1835 fino all'aprile del 1850 fu Abate Curato. Nell'aprile 1850 fu nominato Economo D. Nicola Tulino. Con la Santa Visita Canonica del 13 giugno 1851 fu nominato Don Carlo Palazzi - Arciprete Curato fino ad aprile 1853. Data in cui fu nominato Economo Curato D. Daniele Tutolo e nel gennaio 1861 fu nominato Abate Curato fino alla morte avvenuta nell'ottobre 1887. Nel novembre dello stesso anno viene eletto Abate D. Antonio Altobelli che muore il 21 settembre del 1917. Dalla morte dell'Abbate fino al dicembre del 1920 regge la Parrocchia come Vicario Economo D. Antonio Minelli. Nel dicembre del 1920 è nominato Abbate D. Antonio Petrelli che vi resta fino alla sua morte avvenuta nel novembre del 1954. Nel novembre 1954 fu nominato Abbate D.Giuseppe Di Matteo e trasferitosi nel novembre 1971 fu nominato Vicario Economo D. Vincenzo Perrella, fino al 10 luglio 1977, giorno in cui annunziò al popolo di volersi secolarizzare. Nel settembre del 1977 fu nominato Vicario Economo D. Alberto Lucarelli. L’otto dicembre 1996 D. Alberto LUCARELLI è stato trasferito alla Parrocchia “Madonna di Fatima” di Ariano Irpino ed è stato nominato Vicario Economo D. Annibale DI STASIO. 53 CHIESE Nonostante il fiorire di vocazioni, attualmente vi sono 15 sacerdoti montefalconesi, in paese ordinariamente vi è un solo parroco, sebbene vi siano due parrocchie e quattro chiese. Da un manoscritto dell'Archivio Parrocchiale di San Pietro e Paolo risulta che la prima chiese risale al secolo XII e fu eretta a parrocchia nel 1500. La chiesa matrice era quella arcipretale sotto il titolo dei SS. Apostoli Pietro e Paolo. "Era di ammirevole architettura - come riferisce il Cirelli - contava vari altari di marmo, per materia e per lavoro pregevolissimi. Decentemente ornata, a tre navi, era sufficiente all'esercizio del culto dell'intera popolazione; ma sorse il desiderio di renderla più maestosa sostituendo una volta massiccia al sofitto di legno, l'anno 1805; e da ciò la cagione del suo decadimento poiché il terremoto avvenuto nell'anno dopo, trovandola non ben consolidata ed asciutta, la ridusse a male, sicché se ne stimò necessaria la demolizione". Si iniziò poi una raccolta di offerte, lo stesso comune assegnò dei contributi per poter riedificare la chiesa che non è mai risorta: anzi, quel cumulo di macerie divenne poi ricettacolo di rifiuti fino a quando con l'Amministrazione presieduta dal Dott. Rosario Zeppa (1960-1964) si fece una permuta del luogo e sullo spazio della chiesa si fece la "Piazzetta degli Emigranti", mettendo al centro di essa una colonna marmorea del vecchio Duomo di Benevento, donata dal Prof. Mario Rotili; su di essa è stata applicata una targa con su scritto: "Ai Montefalconesi emigrati apostoli di lavoro e di virtù civiche". Nella chiesa Aricpretale (come risulta dal manoscritto citato) vi erano tre Confraternite erette con Apostolico Privilegio: La prima, quella del SS.mo Rosario con privilegio spedito a D. Gennaro (Giovanni Pennella) in Roma nel 1577. La seconda, del Corpo di Cristo con privilegio spedito sotto Paolo V a 18 marzo del 1578. La terza finalmente è quella del SS.mo Gesù spedita ai 29 aprile 1666". La chiesa di S. Filippo Neri che dal 1806 al 1962 ha sostituito come parrocchia quella dei SS. Apostoli Pietro e Paolo e che ora è pericolante, perché è l'unica che non sia stata riaccomodata dopo il terremoto del 21 agosto 1962. Nella storia del Cirelli così è descritta: "La chiesa di S. Filippo Neri non è molto grande, ma bella. Vi si trova un capo-altare molto migliore di quello pregevole della chiesa Badiale. È capace questa chiesa di circa 400 persone. Vi sorge accanto un bel campanile di oltre 100 piedi di altezza. Edificato nel 1644, fu demolito nel 1751, ed in quel medesimo anno riedificato nel modo come ora si vede". Nel citato manoscritto di D. Pasquale Curcio leggiamo pure: "Si nota che in un antico registro dei conti della Chiesa Arcipretale, e propriamente sulla pagina 65 si osserva che l'antico Campanile a tre registri di palmi 26, tutto d'intaglio con cornicione attaccato alla Cappella del Corpo di Cristo eretta nell'Arcipretale, fu formato nell'anno 1644 e demolito poi detto Campanile nel 1751, con la spesa di ducati 92 per cui esisté per 158 anni dal sopraddetto 1644-1751 tempo in cui si diè principio dall'Arciprete Caruso col nuovo campanile". E nello stesso manoscritto leggesi; "Sopra il frontespizio della Chiesa di S. Giovanni (che è la stessa di S. Filippo) si osserva una lapide nella quale sono scritte le seguenti parole: "Haec est domus Domini firmiter aedificata Anno Dni 1538". 54 Sulla facciata c'è un’effigie, in maiolica, della Madonna del Carmine datata 1881. In questa chiesa si conserva il corpo di S. Innocenzo Martire. La chiesa del Purgatorio Era fra le altre la meno importante. Era di diritto patronato comunale. Ivi convenivasi nelle feste civili per le funzioni; ed i Parroci nelle sacre cerimonie erano obbligati a deporre la stola, venendo la reggenza affidata per turno ad uno dei preti, incominciando dal più anziano. Dopo l'emanazione della legge del 7.7.1866 riguardante l'incameramento dei beni ecclesiastici, che portò conseguenzialmente alla chiusura dei conventi si ritirò a Montefalcone Francesco Saverio Doto (P. Luca) dei Minori Cappuccini che morì nel 1914; facendo da rettore alla chiesa del Purgatorio; vi fece fiorire il Terz'Ordine Francescano, fece fare una statua di S. Francesco; prima all'altare c'era un bel quadro raffigurante l'indulgenza dalla Porziungola. Fino al 1960, quando il Parroco D. Giuseppe Di Matteo fece eseguire alcuni restauri nella chiesa, c'era ancora l'altare sotto la statua di S. Francesco, recante la scritta: A devoz. di Michele Zeppa - Priore Terz'Ordine Francescano 1899. Ebbe così tutti i privilegi delle chiese francescane, come pure l'indulgenza della Porziungola e il 30 marzo 1948 eccezionalmente vi sostò la statua della Madonna delle Grazie di Benevento, in peregrinatio nei paesi sedi di conventi delle provincia francescana Sannito-Irpina. L'avvenimento fu ricordato con una lapide murata sulla facciata della chiesa e distrutta poi con l'abbattimento della stessa. Ora la chiesa è stata riedificata ed è parrocchia col titolo del Rosario, invece di S. Filippo ancora chiusa ed in attesa di restauri. La chiesa di Santa Maria Assunta era retta in un primo tempo dall'Abate con il suo clero, dopo, però, per la carenza dei sacerdoti vi rimase solo l'Abate. Dal Cirelli e da un manoscritto dell'Abate Dott. Antonio Petrilli (Questionario per la prima visita Pastorale di S. E. Mons. Gioacchino Pedicini, 1940) ricaviamo che "non si sa quando e da chi fu edificata la Chiesa. Da alcune notizie storiche risulta che fu ampliata nel 1687 essendo abate D. Andrea Coduto e Barone di Montefalcone Aniello Montefuscoli. Fu ornata di Cappellone nel 1762, riampliata nel 1802 ed abbellita nel 1816 dall'abate Eliodoro Sacchetti. Restaurata dall'abate Altobelli nel 1890. Restaurata nuovamente dall'Abate Petrilli nel 1927 e quindi di nuovo nel 1930 a seguito del terremoto e poi ripulita altre due volte in questi ultimi anni". Il terremoto del 1962 la danneggiò seriamente, tanto che si è dovuta rifare completamente, ma la causa prima del dissesto statico della chiesa fu l'abbattimento della grandiosa sacrestia, per allargare la strada e ciò incrinò l'arco maggiore che nella costruzione della sacrestia trovava il contrafforte: ciò avvenne nel periodo che era podestà il Dott. Alberto Antinozzi ed Abate Antonio Petrilli. La chiesa è lunga mt.32 e larga mt.7, 60, vi erano otto altari tutti di marmo, ad eccezione del primo a destra che era di granito. Gli altari erano dedicati il I a S. Vincenzo Ferreri, il II a S.Rocco, il III a S. Giuseppe, recante l'iscrizione: Divo Josepho dicatum devotione ac aere familiae Joannes Chrisostomus Tutoli erexit et statuit - Anno MDCCCLXXVII Veniva poi l'altare maggiore, assai pregevole per lavoro e varietà di marmi; notevole il bassorilievo sotto la mensa raffigurante l'Assunzione della Madonna. 55 La statua dell'Assunta è di legno - capolavoro dello scultore Vincenzo Reccio di Napoli, scolpita nel 1890. Il V altare era dedicato all'Immacolata Concezione, prima però si trovava nella sottostante chiesa della Confraternita di San Michele Arcangelo ed a questo dedicato, infatti nel paliotto vi era un bassorilievo raffigurante S. Michele Arcangelo e la iscrizione: Giuseppe Miresse Priore della Congrega di S. Michele Arcangelo nell'anno 1875. Il VI altare di granito, nella cappella detta del Sacramento, dedicato all'Addolorata. Il VII a S. Antonio di Padova con l'iscrizione: Julia Grasso collexit quod ad costruendum Altare ad honorem Divi Antonii a Padua et erigere curavit A.D. MDCCCLXXVII. L'VIII altare era dedicato a S.Antonio Abate ed aveva l'iscrizione: A devozione del popolo per cura di Leonardo Vitale 1911. Vi erano due nicchie senza altare, una dedicata a S.Donato e una a S.Sebastiano. Nel presbiterio vi era la seguente lapide: D.O.M. Aaram Hanc Maximam Deiparae ad Coelum Assumptae Templi huius sospitae praesentissime Noncupatam Albario opere picturaque ante hac exornatam Anno Rep. Sal. MDCCCXVI Quum expectata pax arrisit Europae Heliodorus Sacchetti Abbas Curatus Fornice superposito tectoque camerato Erectius primum ac magnif. centius restitutis Propria ac civium collata symbola Ex pario marmore ab inchoato extructum Structura ut nihil supra eleganti In grati animi argumentum Ponere curavit D.O.M. (A Dio ottimo massimo) Questo altare maggiore dedicato alla Madre di Dio Assunta in Cielo protettrice benevolissima di questo tempio già in precedenza adorno di pietra bianca e di pittura nell'anno della Redenzione 1816 quando la desiderata pace arrise all'Europa Eliodoro Sacchetti Abate Curato fatti riparare più alti e più splendenti la volta e l'arco rivestendo questi interamente di marmo pario perché fosse di struttura quanto mai elegante con danaro proprio e il contributo dei cittadini come testimonianza di gratitudine fece costruire Il fonte battesimale tutto in pietra porta lo stemma di Montefalcone, cioè un uccello (falco) sopra tre monti e la dicitura Monte-Falcone 1780. 56 Per il campanile non sappiamo l'epoca della costruzione; sul frontale orientale vi è incisa la data 1879, ma si suppone che questa non sia la data della costruzione, bensì di qualche notevole restauro, tanto più che la campana grande porta la seguente iscrizione: Aeterea Regina potems incedis in aula et parent uni terra polusque tibi. Michael Tarantini fudit Abate Daniele Tutoli. Anno reparatae salutis 1878. Sotto la chiesa vi è una grande sala lunga 20 metri e larga 6, 65 che una volta era sede della Congrega dedicata a S. Michele, poi con l'Abate Petrilli divenne sala per opere parrocchiali e cinema parrocchiale. La chiesa del Carmine Il Cirelli scrivendo della chiesa del Carmine così si esprime: "Avvi una chiesa rurale, sotto il titolo del Carmine, che merita particolar menzione per la sua architettura, per la sua origine, per la bella statua della Vergine del Carmelo, e finalmente per la concorrenza devota dei fedeli non solo del Comune, ma ancora dei paesi vicini, e dei lontani puramco". La costruzione della Cappella primitiva risale 1604, ne fu fede il manoscritto che si conserva nella Curia Vescovile di Ariano Irpino.(1) "Il 27 novembre 1618 si presentarono al Vescovo di Ariano Mons. Ottavio Ridolfi, e al Vicario Generale Paolo Squillante, il Sindaco e gli Eletti dell'Università di Montefalcone, asserendo di essere stata costruita, fuori le mura di quel paese, una Chiesa sotto il nome di "S. Maria del Carmelo", da un certo Giacomo Zillante. Vi si celebra la Messa per la grande devozione del popolo; non è stata mai eretta in beneficio, ma è semplice Chiesa. È desiderio di detta Università e del popolo che vi sia eretta una Confraternita. Supplicano il Vescovo di prendere informazioni circa l'erezione e la qualità della Chiesa, e di compiacersi di dare la facoltà di erigere la Confraternita "S. Maria del Carmelo". Il Vicario Generale dà ordine a Don Sebastiano Musio, da Ariano, Protonostario Apostolico, di prendere le informazioni. Il 28 novembre 1618, a Montefalcone, dinanzi al Rev.mo D. Sebastiano Musio, testimoniano circa l'erezione e la qualità della Chiesa o Cappella. Don Giovanni Pietro Parrella, Abbate, di anni 34; Vincenzo (non si legge il cognome) di anni 60. Il giorno seguente: Notaio Fabrizio Paoletta,di anni 50; Don De Simone (non si legge il cognome) di anni 60; Giulio De Marco, di anni 40; Don Leonardo Rinaldi, di anni 30; Antonio Musculella, di anni 60; tutti cittadini di Montefalcone. Il Rev.mo Don Musio rivolge le medesime domande ai singoli, che prima giurano di asserire il vero, e sottoscrivono, poi, quanto hanno deposto. Le deposizioni concordano anche nei particolari. Tutti asseriscono di "sapere bene che nell'anno 1604, e propriamente il giorno di S. Martino, s'incominciò ad edificare una Cappella o Chiesa, sotto il titolo di S. Maria del Carmine, fuori del paese, da Giacomo Zillante, di S. Giorgio la Molara, per sua devozione e per voto fatto da lui, con le offerte che egli andò elemosinando, ogni giorno, in paese e nei paesi vicini". Sono ormai tre secoli e mezzo da quando Giacomo Zillante, pellegrino in cerca di pace, scelse quel poggio per erigervi la prima chiesetta a testimoniare la sua fede ed il suo culto e nell'arco del tempo, quella testimonianza è stata la "parva favilla che gran fiamma seconda". La tradizione popolare rifacendosi alla statua di pietra a mezzo busto della Madonna del Carmine, che si trovava dal 1616 sul frontespizio della chiesa in una piccola nicchia sull'architrave dell'ingresso e rubata da ignoti ladri nel mese di agosto del 1974, dice che quella statua fosse stata rinvenuta, ad un cento passi 57 dove ora sorge il Santuario, da Raffaele Paradiso; tradizione avvalorata dal fatto che sulla stessa architrave vi era una iscrizione non tutta leggibile, perché incrostata di colore e rosa del tempo, però si leggono chiaramente le parole "......a devozione di Raffaele Paradiso.." con sotto la data 1616" e la famiglia Paradiso, allora una delle più facoltose di Montefalcone, aveva larghi possedimenti là intorno. A tale tradizione si riportava Filippo Cirelli allorché ne "Il regno delle due Sicilie descritto e illustrato" scriveva "...Fu questa chiesa edificata da un devoto cittadino, che per avventura rinvenne in quel sito una statua di pietra indicante la Vergine del Carmelo, la quale venne poscia situata sul limitare della porta della Cappella che vi fu edificata". D. Donato Minelli a tale proposito giustamente scrive: "Ci sorprende, d'altronde, come mai la scoperta di tale statua - che pure sarebbe un fatto straordinario - non sia stata ricordata nelle relazioni del tempo". Potremmo anche argomentare che se realmente fosse stata tale scoperta il movente per la costruzione della cappella, certamente la statua sarebbe stata oggetto di culto. Invece, nella relazione della S. Visita del 26 giugno 1614 troviamo, dopo le indicazioni dettagliate delle misure della Cappella, la descrizione di un quadro: "Ha un piccolo quadro dipinto su tela con l'immagine della B. Vergine del Carmelo, col Figlio sul braccio sinistro, alto palmi 4, largo palmi 3 e once 1. Lo stesso quadro è fissato nel vuoto del muro, alto dalla mensa dell'altare once 8; con pittura intorno allo stesso vuoto". Il popolo vede sorgere con piacere questa Cappella, tanto che nel 1611 si trovano già lasciti e legati di Messe, come è riferito nella relazione della S. Visita del 1614, e nel 1618 il Sindaco e gli Eletti dell'Università chiedono a nome del popolo, che si eriga una confraternita. In origine non si trattava di una vera e propria Chiesa, ma di una cappella di modeste proporzioni. La campanella che è sulla Chiesa, di un suono argentino e squillante porta l'iscrizione: "Verbum Caro factum est A.D.1651. S.MC.-S. B.L." e da un manoscritto dell'Abate Petrilli del 18 gennaio 1926 risulta che "si conserva ancora un embrice o canalone d'argilla con data 1679". Nel 1902, la piccola cappella che ormai è una chiesa, ad istanza dell'allora Rettore della Chiesa Mons. Abate Antonio Altobelli e del Vescovo di Ariano Mons. Andrea D'Agostino, il Capitolo Vaticano, il 16 settembre 1902, emise il decreto d'incoronazione con corona d'oro che poi fu fatta con grande solennità, con straordinario concorso di forestieri e con indimenticabile festa il 15 luglio 1903. Mi è gradito ricordare che a portare la corona fu prescelta una giovanetta, già ammirata dal popolo per la sua bontà e che oggi, dopo diversi anni dalla sua morte, il popolo ancora ricorda e piange: Maria Sanità Vitale, mia madre. La Chiesa, inoltre, venne aggregata alla Basilica di S. Maria Maggiore di Roma con partecipazione di tutte le indulgenze ad essa annesse, l'8 marzo 1903. Due lapidi di marmo murate nella Chiesa ricordavano, fino all'ultimo restauro che furono rimosse, il fausto avvenimento dell'incoronazione. (2) Nel 1912 vi fu un movimento popolare manifestante l'attaccamento dei cittadini alla loro chiesa: l'epidemia (spagnola o colera) che mieteva vittime tra la popolazione aveva fatto decidere le Autorità a costituire un punto di raccolta e di isolamento, o il lazzaretto, per gli ammalati e pensarono di scegliere all'uopo la chiesa del Carmine con l'abitazione dell'eremita ad essa annessa, ma il popolo non gradì tale decisione e ricorse alla Sottoprefettura di S. Bartolomeo. Il suggerimento d'isolare i malati infettivi e di curare i malati senza assistenza dato dalle autorità Provinciali con la istituzione di un "lazzaretto" veniva 58 completamente falsato; le Autorità locali compresero o non vollero comprendere questo suggerimento? Alloggiando i malati in una chiesa dove l'assistenza doveva essere svolta dagli stessi familiari, con l'aggravio di portare cibarie e indumenti dalle case, metteva in condizione i pochi non ammalati a dividersi tra le occupazioni di casa, di lavoro e l'assistenza fuori sede dei familiari malati: ogni concetto di medicina preventiva risultava, in tal caso, solo un'altra sventura oltre alla paura, all'epidemia e alla miseria! Il Sottoprefetto, diplomaticamente, promise interessamento, fece delle promesse, ma lasciò che le decisioni delle autorità locali, dettate peraltro da interessi politici, venissero attuate. Si cominciarono a portare suppellettili e medicinali nei locali della Chiesa e fu allora che il popolo, che del "Carmine " aveva fatto il centro della propria fede e della propria storia, insorse e aprendo la Chiesa la sgombrò di quanto vi avevano depositato. Giuseppe Zeppa, mio padre, fu incriminato come principale istigatore perché aveva aperto la Chiesa, ma al processo che si svolse al Tribunale di Benevento il popolo di Montefalcone accorse addirittura in massa, oltre ai tanti che furono chiamati a deporre da testimoni e tutti dettero la dimostrazione di quanta stima ed amore avessero per mio padre, perché alla domanda del Giudice di che avesse aperto la Chiesa ognuno rispose, quasi fosse stata una parola d'ordine: "Siamo stati tutti noi, è stato tutto il popolo" e mio padre fu completamente assolto. Il 9 magio 1915 il Consiglio Comunale, presenti i Consiglieri: Cav. Corso Pasquale, Belpedio Ilarione, Virgilio Ignazio, Marcantonio Alberto, Vitale Rodolfo, Lucarelli Alfonso, Corso Vincenzo, Zeppa Giuseppe, Belpedio Costanzo, Micele Nicola, Cavoto Michele, Paoletti Biagio, D'Alessio Filippo, segretario Michele Varricchio, con atto consiliare n. 8 deliberava l'allargamento della piazza della Cappella del Carmine ad esclusiva opera e spese dei confratelli della Congrega di Maria SS. del Carmine". 2) Le due lapidi, prima murate sulla parte frontale, ai limiti dell'altare maggiore, furono, nel 1922, fissate di fronte, alle pareti laterali e ora, dopo l'ultimo restauro e ampliamento della chiesa, 1972, alla parte interna dell'entrata. Si faceva così ancora un passo innanzi nella sistemazione della Chiesa, che rimaneva, però, ancora incassata in una collina ed era umida e oscura. L'Abbate Petrilli, appena tornato dall'America del Nord faceva un caldo appello alla popolazione incitandola a sgombrare la terra che soffocava la Chiesa, accomodare lo spiazzale intorno e prolungare il tempio. Il popolo rispose con vero entusiasmo a tale invito e in meno di due anni tutto il movimento della terra era compiuto e la Chiesa allungata di due archi, restaurata ed abbellita, veniva solennemente benedetta dal Vescovo di Ariano Mons. Giuseppe Lojacono e riaperta al culto il 29 giugno 1922. Nel 1926 lo stesso Abate Petrilli trasformò ed ampliò i locali adiacenti alla chiesa per istituirvi un asilo infantile ed una scuola di ricamo diretti dalle Suore dello Spirito Santo con casa madre ad Ariano Irpino e nello stesso anno diede vita al bollettino del Santuario che ancora si pubblica. Nel 1934 fonda la Congregazione delle Suore Terziarie Carmelitane, perché nelle loro preghiere raccogliessero la voce del popolo, fossero fiaccola accesa di devozione alla Madonna e tanti bambini ed orfanelle trovassero accanto al Santuario un nido di vita e di amore. Nel 1968, con l'interessamento di Don Donato Minelli e Don Giuseppe Di Matteo, il Santuario fu nuovamente restaurato ed ampliato (arco centrale, cupola 59 e sostituzione della nicchia e altare marmoreo) e fu inaugurato la nuova scuola materna realizzata con i fondi della Cassa del Mezzogiorno. Circa la bella statua della Madonna non si sa con certezza quando sia stata fatta. Una tradizione popolare vuole che sia stata portata dai Francesi, ma tale ipotesi è da scartare, perché da nessuna fonte risulta che i Francesi siano stati a Montefalcone; è, piuttosto, da ritenersi che sia stata fatta verso il 1740 - 1750 da uno degli scultori della famiglia D'Onofrio di Montefalcone. In quel tempo, infatti, vi erano i Marcantonio, Giuseppe e Fedele D'Onofrio che erano degli ottimi scultori e che hanno lasciato le loro opere a Lucera, Roseto Valfortore, Castelfranco, S. Bartolomeo in Galdo, Ariano ed altri paesi della zona (ed è molto probabile che l'attuale statua sia stata scolpita da Marcantonio D'Onofrio, però non se ne hanno prove irrefutabili). Nel 1852 la statua stava esposta su di un tavolo e la caduta della statua con la faccia a terra, senza però che il volto di rompesse o si screpolasse minimamente, il che dal popolo fu ritenuto addirittura come un fatto soprannaturale; dopo di ciò la statua fu restaurata da Peppino Pastore di Benevento, dopo parecchi anni, nuovamente, da Giacomo l'Abate da Ospedaletto; poi ancora dal di lui figlio Salvatore e nel e nel 1903 da Catello di Napoli. (La statua si è bruciata ancora, allo stesso modo di prima, in anni recenti ; fatta restaurare dall'Abate Petrilli a Napoli). Nella "Descrizione Istorica" del Vitale si accenna anche ad una chiesa di S. Sebastiano, di essa non c'è alcun ricordo tra il popolo; pare, che si trovasse verso S. Luca di cui innanzi abbiamo accennato; come pure nell'Elenco dei Monasteri dell'Ordine Eremitano di S. Agostino, come si legge in Appendice alle Costituzioni, tra i conventi della Congregazione Dulcetana di Puglia, si trova un Convento Montisfalconem, ma, come scrive lo stesso Vitale: "gli abitanti di essa Terra non hanno veruna notizia, che vi fosse stato, e molto meno del tempo in cui cessasse di esservi". Concludendo queste note sulle chiese dobbiamo notare che le due Parrocchiali prima "si conferivano a nomina del Barone, passati poi i diritti baronali all'Università per mezzo della ricompra, nel caso di vacanza si conferiscono a nomina di essa, in pubblico Parlamento adunata, a tenor delle leggi e de’ decreti de’ Tribunali Supremi". Le notizie sul Carmine sono state attinte oltre che dall'articolo di D. Donato Minelli, da un manoscritto dell'Abate Petrilli, in calce al quale si legge: "L'anno 1926 il giorno 19 gennaio, nella Sacrestia di S. Maria Assunta invitati dal Parroco Abate Antonio Petrilli, si sono riuniti le seguenti persone: Michele Di Brita fu Leonardo di anni 84; Paolo D'alessio fu Filippo di anni 81; Aniello Vitale fu Raffaele di anni 80; Davide Grassi fu Alessandro di anni 78; Angelo Vitale fu Raffaele di anni 72; Filippo Micele fu Ottaviano di anni 71; Salvatore Grassi fu Alessandro di anni 64, i quali hanno deposto le surriferite notizie". Per le notizie sul Santuario del Carmine Cfr. Ferdinando Di Stasio Donato Minelli, il Santuario del Carmine di Montefalcone, Ediz.Santuario del Carmine - Montefalcone (BN), 1978 (pubblicato quando avevo già steso queste note). 60 IL DIA LETTO La lingua latina del periodo aureo era ben diversa dalla lingua incolta che si parlava quotidianamente nella stessa Capitale dell'Impero per esprimere con immediatezza i rapporti familiari e pratici. Lo stesso Cicerone, notiamo, quando scriveva agli amici lettere private usava un latino più modesto di quello che ammiriamo nelle sue orazioni e nelle sue opere filosofiche. La decadenza culturale che si accompagnò, nel mondo latino, al declino dell'Impero, e quindi le invasioni barbariche con il conseguente apporto di nuovi elementi linguistici, favoriscono, in un lungo periodo di tempo, da un lato l'indebolimento del latino letterario, dall'altro il consolidamento e la diffusione di quel linguaggio che, parlato dal volgo, si disse poi "volgare". Non solo., ma non tutti parlavano allo stesso modo: via via che ci si allontanava da Roma, le differenze dialettali, nell'uso del vocabolario, nella pronuncia, nell'accento, ecc. si facevano sentire più fortemente. Occorre tuttavia aspettare gli inizi del secondo millennio perché quel volgare cominciasse ad acquistare dignità di lingua letteraria. Fermando l'attenzione sul limitato campo del dialetto della Campania, si rileverà subito l'assenza di una storia letteraria e linguistica che dopo il secolo XIII si confonde con la storia della Scuola Siciliana. Solo più tardi, quando il toscano, sorretto dall'autorità di Dante, Petrarca e Boccaccio, si impose come lingua nazionale, quel volgare che ora può dirsi dialetto ebbe la sua evoluzione e si differenziò dagli altri dialetti anche per l'apporto di nuovi elementi linguistici, specie in conseguenza della dominazione angioina e aragonese. L'evoluzione del dialetto nostro è stata la stessa del dialetto napoletano, da cui piglia origine, ma come quello ha subito l'influsso linguistico francese e spagnolo, così il nostro ha subito anche l'influsso pugliese, per ragione di confine e l'influsso dell'emigrazione, specie dall'America, dove ci fu un esodo massiccio particolarmente dopo la prima guerra mondiale, per la nota questione economica meridionale. Riporto, solo come esempio, qualche nostro termine dialettale chiaramente proveniente da altre lingue: Latinismi: crai da cras domani pescrai " post cras dopo domani pescrillo " post diem illum dopo l'altro giorno sora " soror sorella chianca " planca macelleria laganielli " lagani maccheroni fatti in casa (ricorda Orazio Satira I-6.115: "catinum ciceris laganisq Francesismi: travaglià da travailler galopp " enveloppe lavorare busta e foglio Americanismi long da lunch spuntino cott " coat cappotto treng " trench Impermeabile e ne potremmo aggiungere ancora tanti e di altre lingue. 61 La pronuncia di alcune consonanti, principalmente p e b è notevolmente marcata. robba = roba, ppoi = poi; il raddoppiamento di g e z diventa addirittura naturale in tutte le parole terminanti in gione e zione, perché anche nella lingua letteraria la loro pronuncia è di per sé alquanto intensiva. Ugualmente nelle consonanti c'è la tendenza alle trasformazionidi d intervocalico in r (pere = piede, surà = sudare) e di t dinanzi a dentale in r (sardà = saldare). Infine rimangono nel nostro dialetto gli esiti dei gruppi latini di consonanti pi cui corrisponde py italiano, diventa ky e talvolta addirittura c palatale: chiù = più; chianta = pianta; bi e ci si riducono a y: yanco = bianco; fi si trasforma in sc: sciore = fiore. Se poi la i è parte integrante della preposizione in può cadere o per assimilazione e allora la preposizione si appoggia alla parola seguente: mmieze = in mezzo; mpietto = petto. Le e e le o atone si trasformano talora in i ed u: mustrà = mostrare; i dittonghi, generalmente, tendono a ridursi, particolarmente ia e ie tendono a monodittongarsi in e: pere = piede; uo si riducono in o ed u: core = cuore, fore = fuori. Il trattamento di e ed o del latino volgare in i ed u si riscontra anche nel nostro dialetto: stisso = stesso, suli = soli; signuri = signori. Il nostro dialetto, come del resto tutti i dialetti meridionali e specie quelli campani, adopera indiscriminatamente il verbo essere come ausiliare dei verbi transitivi, intransitivi e del verbo avere: e so scritt = io ho scritto; e so avuto = io ho avuto; e a sua volta il verbo avere, anche se più raramente, serve come ausiliare del verbo essere. Il presente è quasi sempre usato al posto del futuro, aggiungendovi, al massimo, poi: po’ veng = poi verrò. L'infinito presente dei verbi diventa quasi sempre tronco e la vocale, se trattasi di e o di o generalmente diventano acute in quasi tutte le altre parti del meridione, mentre da noi diventano gravi: nun pozz durmì = non posso dormire; vurria verè = vorrei vedere. Caratteristica è poi la cadenza che risente di una certa durezza della gente di montagna e di una tipica nenia. 62 IL CANTO DELLA MIA TERRA Ogni terra, come ogni creatura, ha il suo romanzo. Scienziati e poeti hanno saputo leggerne qualche pagina remota, coglierne la fisionomia, cantare il suo tormento. Gli uni e gli altri, però, in genere, si son fermati a far conoscere quelle parti della terra già agli altri note che, forse, hanno maggiore attrattiva. Questo non esclude che uomini di altre terre non abbiano cantata la propria, perché il luogo di origine è parte di noi stessi ed esercita sopra di noi una dolce attrattiva, fatta quasi d'incosciente abbandono. Non poteva, perciò, il nostro paese non sentire questa passione e non esprimerla col canto. Anche se non abbiamo avuto quelle canzoni espresse in uno stile in cui si trovano profuse tutte le migliori qualità del canzoniere di classe, composte da maestri che conoscono a fondo ogni segreto della tecnica che porta al battesimo la canzone, dando ad essa ogni più caloroso successo; anche i canti della nostra terra non si elevano al di sopra del livello delle normali composizioni popolari, esse hanno saputo sempre, in ogni occasione, esprimere la gioia ed il dolore, qualsiasi cosa degna di ricordo, in una parola: l'anima del popolo. Il motivo di nenia, così comune nel nostro canto popolare, porta malinconia ed espressione lirica, e le dà ad un tempo, una ingenua semplicità ed una sofferta e sentita passione. Il canto del nostro popolo è come la preghiera dell'infelice, che ondeggia tra il timore e la speranza; è come una luce che si avviva, di tratto in tratto, per illuminare antiche memorie e dare una nuova luce ai sentimenti attuali. È parola soave che diventa ancora più armoniosa perché è quasi in sintonia con la pace dei nostri campi non turbata dal rumore di ordigni, indicanti un'operosità dinamica, ma distruttrice del sentimento. È lo slancio innamorato di anime che si esprimono in forma gentile. Chi tra i nati della mia terra, o che vi ha trascorso qualche periodo della sua esistenza, non si ricorda di quelle melodie, serene e pur trascinanti, ascoltate dai buoni contadini tornanti a casa dopo il duro lavoro? Chi non si è incantato nel sentire una conzone, che faceva quasi da contrappunto al fruscio delle pannocchie, durante il lavoro in una notte estiva, al lume di luna? È tutta una produzione varia, bella, saporosa: dalle "Tarantelle" ai "I Turchi sò arrivati a la marina", alle diverse canzoni ricordanti qualche episodio avvenuto fra la nostra gente: "Zì munacella se voleva fà" a "I Pannarano" è solo palpito di passione e d'ispirazione, che canta la gioia e la malinconia, l'abbattimento e l'ardore di un popolo che ama e soffre e, perciò, non dispera. Attraverso quelle semplici conzoni si sente il cuore, le sensibilità, li lirismo interiore di un popolo che vive di lavoro e si inebria di canto. Riportiamo alcune canzoni popolari, così come le abbiamo ascoltate dalla viva voce della nostra gente. Alcune non sono neppure complete. Spusarizio du pover'omo Quann se 'nzurav 'u pover'omo Quando si sposava il pover'uomo c'era abbondanza di donne e carestia di pane; dopo gli otto giorni andava in campagna come tutti gli altri contadini. Ehi, sposo fresco, come andiamo? Andiamo come tutti gli altri contadini: 63 con la bisacia addosso e senza pane. era grascia r donne e carastia r pane; 'ncape r ott juorni ieva fore com'a tutt l'auti campagnuoli. Ahi zitillo frisco, come jame? Jame come a tutt nauti campagnuoli ca vusazzella 'ncuoll e senza pane. Sposalizio del pover' uomo Quando si sposava il pover'uomo c'era abbondanza di donne e carestia di pane; dopo gli otto giorni andava in campagna come tutti gli altri contadini. Ehi, sposo fresco, come andiamo? Andiamo come tutti gli altri contadini: con la bisacia addosso e senza pane. FA C C I A R G A R O FA N O Faccia r nu garofano 'ncarnato quann jatèa chiesa vuie sciurite, quann 'a scalella vuie acchianate, cu l'uocchi bell l'amore facite; quann l'acqua santa vuie pigliate surgite funtanella r'acqua e vita; quann pa chiesa vuie camminate, i mautunelle rore vuie ammucciate, a quill posto addò v'addinucchiate tutt r gigl e rosa è ben guarnito; quann quessa bella crona vuie cacciate che bell patre noste vuie recite e a quale santo vuie li presentate? uno p (e) me num u recite maie! FA C C I A D I G A R O FA N O Faccia di garofano incarnato quando andate in chiesa voi fiorite, quando la scaletta voi salite con gli occhi belli l'amore voi fate; quando l'acqua santa vi pigliate sorgete fontanelle d'acqua di vita; quando per la chiesa voi camminate le mattonelle d'oro voi nascondete, a quel posto dove v'inginocchiate tutto di gigli e rose è ben guarnito; quando quella bella corona voi cacciate che belli pater noster voi dite e a quale santo voi li presentate? Uno per me voi non lo dite mai ! AUZETE BELLA MIA auzete bella mia ch'è fatt juorn quann' 'i vuoi 'ntreccià tanta capilli! te mitt'affacciata a la finestra 64 finché passa 'u 'nnammurato; 'u 'nnammurato ricco, addio, addio! Faccia r luna. come te si azzimata. - Me so azzimata e preg'a Dio. sulo cu l'acqua fresca me sò lavata! - Quess'acqua ca te lava a la matina te prego, bella mia nun a jettare, addò 'a jetti ce nasce 'na spina e ce nasce 'nu rusillo pe’ profumà; picculo diamante, eppure addora, piccula tu sì, bella figliola, picculo sò io e jamme pare. Alzati bella mia Alzati, bella mia, s'è fatto giorno, quando li vuoi intrecciar tanti capelli? ti metti affacciata alla finestra finché passa l'innamorato; innamorato ricco, addio, addio! Faccia di luna, come ti sei adornata, - Mi sono adornata e prego Iddio, solo con l'acqua fresca mi son lavata! - Quell'acqua con cui ti lavi la mattina ti prego, bella mia, non la gettare, dove la getti ci nasce una spina e ci nasce una rosellina per profumare, piccolo diamante, eppure odora, piccola tu sei, bella figliola, piccolo son io e andiamo pari. FA C C I A R C I C O R I A Faccia r 'na cicoria amara, amara, Cristo te l'ha luato lu colore, te l'ha luato pe te fà rannà; tutte se maritano e tu no. Faccia r 'nu lemmeto abbattuto è bbona terra, ma male cultivà e si 'nterra te veress me sputasse mmano e me facesse 'nu tauto e no a pigliarme a te pe’ 'nnammurata. FA C C I A DI CICORIA Faccia di cicoria amara, amara, Cristo te lo ha tolto il colore te lo ha tolto per farti dannare; tutte si maritano e tu no. Faccia di un ciglio abbattuto è terra buona, ma male a coltivare e se a terra ti vedessi mi sputerei in mano 65 e mi farei una bara e non a pigliarmi a te per innammora E doie sore Aggiu saputo che doi sore site e ttutt'e doie e una qualità. a una taulella magnate e bevite a uno letticciullo ve curecate. Io sò e fuoco, se ne vulite me metto miez'a vuie e ....... caure state. LE DUE SORELLE Ho saputo che due sorelle siete e tutt'e due di una qualità ad una piccola tavola mangiate e bevete ad un solo letticciuolo vi coricate. Io son di fuoco, se mi volete mi metto in mezzo a voi e ...... calde state AFRICANELLA Africanella era tutta riso teneva pur l'uommen in cammisa zompa allariulera, zompa zompa allariulà zompa allariulera, zompa zompa allariulà. Africanella era tutta bella teneva 'u mussill a cirasella. Zompa allariulera, zompa zompa allariulà zompa allariulera, zompa zompa allariulà. E chi vo fa’ l'amor lo faccia in casa ca sott a la finestra nun è cosa Zompa allariulera, zompa zompa allariulà zompa zompa allariulera, zompa zompa allariulà E chi vo fà l'amor sott u spuort s'addà caccian prim a passapuort Zompa allariulera, zompa zompa allariulà zompa allariulera, zompa zompa allariulà Chi te (ne) i figliol bell ca se le 'nzerra ca passa 'u segretari pe(r) la terra Zompa allariulera, zompa zompa alleriulà zompa allariulera, zompa zompa alleriulà Africanelle quann jev(a) u vallon u segretario ce purtav(a) u sapon Zompa allariulera, zompa zompa allariulà zompa allariulera, zompa zompa allariulà Africanella quann jeva(a) u furn u segretario girava tuorn tuorn Zompa allariulera, zompa zompa allariulà Africanella quann jev a Messa se ne scurdava semp a pettinessa Zompa allariulera, zompa zompa allariulà NCOPP M U N T E FA L C O N E Ncopp a muntagna r Muntefalcone e là c'è sciut 'na stella bgnata A M U N TA G N A R 66 quell sò i lacrim(e) r li suldat c'hann lassat i lor 'nammurat Bo bo bo - boro boro boro - bo bo bo Quann lu ninn part pu lu fronte lu nome ra nenna lu port scritt 'nfront prima lu front e po’ 'a trincea mannaggia a guerra e chi ha miss 'n pero Bo bo bo - .... 'Nanz casa mia c'è nata 'na villa e là ce steve 'na rosa chiantata tu si la rosa e io sò lu giglio se tu ma raja io me la piglio Bo bo bo - .... Tien(i) quiss uocchi r nevra serpa e i capili r seta r(i) torta pe scucchià a nuj ce vol la mort(e) Bo bo bo - .... T'aggio ritt 'na mala parola t'aggio addummannat se vo fa l'amore riccell a mammeta riccell r core se te vo fa fa ammore cu me Bo bo bo - .... mo s'avvicina u mese r'aprile scopp(a) n i viol(e) pe sop li balcun tu nenna mia mienamenne una mienamenne una e nun me fà murì. Bo bo bo - .... Ce ne jamm(e) sciumara sciumara trova vunnell ca lava li panni ella li torce e io li spann quann sò assutti li jamm a piglià Bo bo bo - .... Ce ne jamm(e) chiazzetta chiazzetta ce jamm a cocènu chil r spaghett(i) nu chil r spaghett(i) e 'nu bell fetachiello e accuntantam a sti bel guagliuncielli. TERRA AMARA NA, NA, NA, N'AVIMM COM FA sti pover figliol non se ponne marità! Chi che mallannata secceta e ferracielle muglierema malata tene mbiett 'u guaglliunciell' Na, na, na, n'avimm com fà né sale, né lumine, né sapone pe’ lavà' U Signor mann i figli, u guvern mette i tass: i sold addò i piglj...! a fatica chi ta passa..! 67 Na, na, na, n'avimm com fà, né refe, né lumin, né tabbaco pe’fumà! Mo se ne vene viern nun teng 'nu tizzone i criature scauze senza nu cauzone Na, na, na, n'avimm com fà, sti pevere figliole nun se ponn marità. Chi tene a terra a l'Isch o i ttè a Perrazzeta eja secur ca semmena ma nn'eia secure se mete. Ncopp' a muntagna u vient e p'a vascianza a nigliara lievec affitt e sement e vai par par. I bunifiche sò state 'a ruina ru paese i sold sò sc(e)mat e sò aumentate 'e spese Na, na, na, n'avimm com fà, sti povere figliol(e) non se ponn marità A Svizz(e)ra e 'a G(e)rmania a Francia e l'Inghilterra se pigli(a)n i meglj ann(i) come durant 'a guerra Na, na, na, n'avimm com fà sti povere figliol(e) nun se ponn marità! È quest'eja a sort amar ra gente ru Furtor(e) semp luntan ra cas(a) e ca nustalgia ndu cor(e). TERRA AMARA Na, na na, non abbiamo come fare queste povere figliuole non si posson maritare; Ohi che mala annata siccita e grandine mia moglie ammalata tiene al petto il bambinello Na, na, na, non abbiamo come fare né sale, né fiammeferi, né sapone per lavare. Il Signore manda i figli il governo mette le tasse i soldi dove li piglio il lavoro chi te lo passa....! Na, na, na, non abbiamo come fare né cotone, né fiammiferi, né tabacco per fumare! Ora arriva l'inverno non tengo un poco di fuoco i bimbi scalzi e senza pantaloni 68 Na, na, na, non abbiamo come fare queste pover figliole non si posson maritar Chi tiene la terra a l'Isca o la tiene alla Perrazzeta èsicuro che simina ma non è sicuro che miete. Su la montagna il vento la nebbia per la valle togli fitto e semenza ed escil pari pari. Na, na, na, non abbiamo come fare né sale, né fiammeferi, né sapone per lavare. I lavori di bonifica sono stati la rovina del paese, i soldi son diminuiti e son aumentate le spese Na, na, na, non abbiamo come fare queste povere figliole non si posson maritare La Svizzera e la Germania la Francia e l'Inghilterra si prendono i migliori anni come durante la guerra! Na, na, na, non abbiamo cme fare queste povere figliole non possono maritare È questa la sorte amara della gente del Fortore: sempre lontana da casa e con la nostalgia nel cuore! GESU'MORIBONDO Gesù miss (i)n croce e moribondo Maria c(e) stà sott c(u) nu gran piant Mentr suspir il suo figliuol giocondo Maria è meza mort(a) e va parlenn: Gioia r mamma Figlio che male t'ho fatto Tu sei sempre tutto b(e)neritt. Ed ho paura nu schiaff in casa r'Ann vattut e flagg(e)llat a la culonn E li fu miss na grand(e) funa 'ngann 'n croc lu vidd miss la Maronn. O caro re e Giura trar'tor voi siete non tanta canità 69 per carità Non tanto strazio al mio figliuol farete non tanta spada che stu cor m'hai dato Curr Giovann fratello mio caro consol(a)m a sta mamm(a) che suspir. Cussì dicenn che non suspira mai china la testa e auz l'uocch(i) a u Patr. Mor Gesù e mpunt 'a ventun'or(a) si scura l'aria e s(i) 'ncupisc u mar(e) Anche le pietre piangev(a)n p'(e) dulor(e) la morte di Gesù che piant'amar(o). Si scura l'aria si serrano le porte, il Figlio di Maria stà 'n croce e morto. Cal(a)n a Gesù dal tronco della croce com 'mbracc(io) a Maria l'hann purtat. La Maddalena e cun 'na treccia dora jeva piangenn tutta afflitta e scura. Chi l'avess vist il caro mio tesoro la morta la vurria in sepoltura E più ti prego Vergin'Addolorata o peccator dal petto sei venuto Vieni viv(o) e muort voglio ess(ere) ij aiutat ca mor Gesù Crist e l'ha saput E più ti prego o Verginella pia e nghian (i)'n ciel e n'(on) m'(i) fà dannà. 70 A dò vaj Addul'rata Marij mo s'avvicin'(a)n li pen a lu cor Lu vostr Figliuol ch' mbraco(ia) s'(en)mor e una madre lu ver murì; e dul'(o)rat c' su maccatur lu vostr figl lu jam truenn lu vostr figl lu jam chiagnenn p'(e) si strad lu jam truenn e com maj lu putim ritruà? E Addul(o)rat c(u) si lacrim a l'uocch(i) lu vostr Figl' lu jam piangenn p'(e) si strad lu jam truenn e com maj lu putim r'(i)truà. GESU’ MORIBONDO Gesù messo in croce e moribondo Maria ci sta sotto con un gran pianto Mentre sospira il suo Figliol giocondo Maria è mezza morta e va parlando: Gioia di mamma Figlio che male ti ho fatto Tu sei sempre tutto benedetto Tu mi portasti nel mare di dolore e sopra una croce ti vedo trafitto. Ed ho paura uno schiaffo in casa di Anna battuto e flagellato alla colonna. E ti fu messa una grande fune al collo in croce lo vide messo la Madonna. O caro re e Giuda traditor voi siete non tanta canità(crudelatà) per carità Non tanto strazio al mio Figliol farete non tanta spada(strazio) che a questo cuor hai dato. 71 Corri Giovanni, fratello mio caro consola questa mamma che sospira. Così dicendo che non sospira mai china la testa e alza gli occhi al Padre. Muore Gesù e giusto a ventun'ora si oscura l'aria e s'incupisce il mare. Anche le pietre piangevan per dolore la morte di Gesù, che pianto amaro! Si oscura l'aria si chiudono le porte, il Figlio di Maria sta in croce morto. Scendono Gesù dal tronco della croce come in braccio a Maria l'hanno portato. La Maddalena con una treccia d'oro andava piangendo tutta afflitta e scura; Chi avesse visto il caro mio tesoro gli vorrei dare in morte sepoltura. E più ti prego Vergine Addolorata o peccator dal petto sei venuto Vieni, vivo e morto voglio essere aiutato che muore Gesù Cristo e l'ha saputo E più ti prego o Verginella pia che sali in cielo e non farmi dannare. Dove vai Addolorata Maria adesso s'avvicinano le pene al cuore. Il vostro Figliolo tra le braccia(vostre) muore e una madre lo vede morire 72 e addolorata con quel fazzoletto il vostro Figlio lo andiamo cercando il vostro Figlio lo andiamo piangendo per queste strade lo andiamo cercando e come mai lo potremo trovare? Addolorata con le lacrime agli occhi il vostro Figlio lo andiamo piangendo per queste strade lo andiamo cercando e come mai lo potremo trovar? GIOVEDÌ SANTO Coro Mo s(e) part' Maria lu giuv(e)rì sant e part sol e senza cumpagnia, truvav in giureo p(e) la via: "Addò vaj e che vaj piangenn?" Maria "vav piangenn e ka ci hai ragion k'agg(io) perz lu mij figliuol" Giudei Tu l'hai perz e nuj l'avim asciat vicin a 'na culonn sfrac(e)llat vicin àna culonn sta l(e)gat 'n Gerusalemm l'avim purtat. Cronista mo s'(e) part Maria e va 'n Gerusalemm truvav tutt'i port varriat, scot la recchia p' 'na singh(e)tell se sentev(a)n ogni bott r scurriat. Maria ----Vien figl bell, vien'm rap, ij sò la mamma toia scuns(u)lat! E figl(io), figl, rap(e)ma sti port ca te voglio salvar ra la mort. Cristo Mamma, mamma, n'(on) te pozz rapì ka li giurej m'hann tropp l(e)gat ka li giurei m'hann tropp l(e)gat ij stav addret a port r' P(i)lat. E mamma, mamma, già ka si m'nut, na v(e)pptella r'acqua m'viss purtat? e mamma, mamma, s(e) l'aviss purtat, la santa gola fuss add(e)fr(e)scat. Maria E figl, figli, s(e) l'avess saput... n(o)n sò passat no vall e no funtan n(o)n sò passat no vall e no funtan p(e) quisti cuntuorn n(o)n c(i) so maj stat. Coro S(e)ntier(e)n li brutt can giurej, facier(o)n cit e fel(e) e caucia stemperat 73 ngann a nostro Signore l'hann menata tutta la santa gola l'hann bruciat. Cristo E mamma, mamma, già ka sì m(e)nut 'na cann r tel m'aviss purtat; e mamma, mamma, s(e) l'avise purtat e li ferit mie m'aviss accumigliat. Maria E figl, figl, s(e) l'avess saput pur la meglia vest m'avria scusut, E figl, figl, s(e) l'avess saput, pur la meglia vest m'avria scusut. Cristo E mamma, mamma, già ka si m(e)nut piglia la via r la ferrarij piglia la via r la ferrarij addò s(e) lavor(a)n li tre chiuov mij. Riccell a quill maestr r 'na curt(e)sia ka li facess stritt, curt e suttil ka li facess stritt, curt e suttil k'anna ra passà li carm mij gentil. Maria E vui mastr ka facit li chiuov ij nu favor vogli(o) ra vuj: vuj tre chiuov m'avit ra fà l'avitra fà stritt, curt e ben suttil kann ra passà li carn r' lu figliol mij gentil. Quann vir, mastr mij, s(e) c'hai ragio: nu figl tenev e c(i)'hanno dato dulor, La curon ror c(e) l'hann luat la curon r spin c(e) l'hann miss 'n cap. Coro r(e)sponn quill brutt giurei r(e)sponn quill brutt giurei Giudeo Facit(e)cill tre palm luong e largh Facit(e)cill tre palm luong e largh Facit(e)cill tre palm luong e largh p' dà cchiù passion a la sua mamma Coro Madre Maria s(e)nteva 'sti nuvell stev'alert e car mort 'n terr. Madre Maria s(e)ntev 'a sti parol, e sbatt n' terr e l(e) trmaj lu cor. Curr Giuvann, e k(a) 'na spalla fort, a auzà Maria meza mort. Mo s(e9 n(e) ven Maria Maddalen k' nu mazz r' sciur e l nu mazz r' ment Nu mazz r' sciur e nu mazz r' ment p(e) resuscità Madre Maria; Amen! GIOVEDÌ SANTO 74 Coro Adesso si parte Maria, è giovedì santo e parte sola e senza compagnia, trova un giudeo per la via: "Dove vai e perché vai piangendo?" Maria "Vado piangendo e ne tengo ragione perché ho perduto il mio figliuolo". Giudei Tu l'hai perduto e noi l'abbiamo trovato vicino ad una colonna, sfracellato vicino ad una colonna stava legato in Gerusalemme l'abbiamo portato. Cronista Adesso si parte Maria e va a Gerusalemme trovava tutte le porte sbarrate, tende l'orecchio e per una piccola fessura si sentiva ogni colpo di scudiscio. Maria Vieni figlio bello, vienimi ad aprire io sono la tua madre sconsolata Figlio, figlio, aprimi questa porta ché ti voglio salvare dalla morte. Cristo Mamma, mamma, non ti posso aprire, perché i giudei mi han troppo legato perché i giudei mi han troppo legato io stavo dietro la porta di Pilato. Mamma, mamma, giacché sei venuta un sorso d'acqua m'avessi portato? mamma, mamma, se l'avessi portato, la santa gola avresti rinfrescato. Maria Figlio, figlio, se l'avessi saputo... non son passata né per valloni né per fontane non son passata né per valloni né per fontane per questi dintorni non ci sono mai stata. Coro Sentiron i brutti cani(cattivi) giudei, fecero aceto, fiele e calce stemperata nella gola a nostro Signore l'hanno menata tutta la santa gola gli han bruciato. Cristo Mamma, mamma, già che sei venuta una canna di tela m'avesse portato? (1) mamma, mamma, se l'avessi portata le mie ferite avresti ricoperte. Maria Figlio, figlio se l'avessi saputo pure la migliore veste mi sarei scucita, figlio, figlio se l'avessi saputo pure la migliore veste mi scucivo. 75 Cristo Mamma, , mamma, già che sei venuta piglia la strada dei ferrai piglia la strada dei ferrai dove si lavorano i tre chiodi miei. Diccelo a quei maestri di una cortesia che li facessero stretti, corti e sottili che li facessero stretti, corti e sottili ché han da passare le mie carni gentili. Maria Voi maestri che fate i chiodi io un favore voglio da voi; voi tre chiodi mi dovete fare li dovete fare stretti, corti e ben sottili ché hanno da passare le carni del figliuolo mio gentile. Vedi, maestro mio se tengo ragione; un figlio tenevo e gli hanno dato dolore, la corona d'oro ce l'hanno tolta la corona di spine ce l'hanno messa in testa. Coro risponde quel brutto cane giudeo risponde quel brutto cane giudeo Giudeo Fateceli tre palmi lunghi e larghi (2) Fateceli tre palmi lunghi e larghi Fateceli tre palmi lunghi e larghi per dare più passione alla sua mamma, Coro Madre Maria ascoltava queste novelle stava all'impiedi e cadde morta a terra, Maria Maria ascoltava queste parole cadde a terra e le tremava il cuore. Corri Giovanni, e con una spalla forte per alzare Maria mezza morta. Adesso sen vien Maria Maddalena con un mazzo di fiori e con un mazzo di menta un mazzo di fiori e un mazzo di menta per risuscitare (fare rinvenire) Madre Maria. Amen! ROSARIO A MARIA ADDOLORATA O Maria Addulurat, facci grazia a nostra pietà, b(e)n(e)rici a 'stu rusarij ch'im ritt in questa sera. Che parola ch(e) ci mancass la mia mente ca nun ce fuss... E Maria r(e)sponn e dic(e) "Lu rusario nun lu lassat, quill tiemp ca ce m(e)ttit, v(e) lu fazz guaragnà. 76 Ij trem e m' spavent stav 'nnanz 'a lu mij Signor e a Santiss(i)mo Sacrament fazz n'att di dulor. Quann Dij fuj pigliat foz verz'a li doj'or; 'ncopp a Ann foz purtat ch 'na faccia schiafitata. E Maria addret 'a port ca s(e)nteva li vattittur; li giurej rallev(a)n fort senz'avere no pietà. "Fuss lu Dij scess la lun(a) ce veress a lu camminà s(e) pa via truass a Giura c(e) vurria ragiunà Giura, Giura trar(i)tor trar(i)mient che m'hai fatt! m'hai trarut lu mio Figliuol p' li trentatrè d(e)nar: P(e) li trentatrè d(e)nar pur la mort ebbutra fà S'in casa mij fuss v(e)nut lu mij vel m'arria v(e)nnut, lu mij vel e lu mij pett ca tenev c(u) n(u) grand'affett. Ess jut addò a Maddalen, lu mantiell s'ess v(e)nnut lu mantiell s(e) vennev O Maria grazia Plena. ROSARIO A MARIA ADDOLORATA O Maria Addolorata, facci grazia a nostra pietà, benedici questo rosario che abbiamo detto in questa sera. Che qualche parola ci sia mancata che la mia mente non ci fosse stata.... E Maria risponde e dice: "Il Rosario non lo lasciate quel tempo che ci mettete ve lo farò guadagnare. Io tremo e mi spavento sto dinanzi al mio Signore e al Santissimo Sacramento faccio atto di dolore. Quando Dio fu pigliato fu verso le due ore. sopra da Anna fu portato con la faccia schiaffeggiata. 77 E Maria dietro la porta e sentiva quelli che battevano i giudei picchiavano forte senza aver no pietà. "Volesse Iddio spuntasse la luna per vedere a camminare se per via incontrassi Giuda ci vorrei ragionare: Giuda, Giuda traditore che tradimento che m'hai fatto: Mi hai tradito il mio Figliuolo per trentatré danari. Per trentatré danari pur la morte ha dovuto fare(subire) Se in casa mia fossi venuto il mio vel mi sarei venduto, il mio velo ed il mio petto che tenevo con grande affetto. Sarei andata dalla Maddalena, il mantello si sarebbe venduto il mantello si vendeva O Maria grazia piena! DONNE ED ABBIGLIAMENTO Stirpe antica la nostra, piena di volontà e di tenacia, Stirpe di forti che curva la schiena nelle lunghe ore di lavoro per strappare alla terra avara lo scarso sostentamento quotidiano. La donna, quando pur essa non si curva con l'uomo per il lavoro della terra, attende in casa a sfaccendare nelle attività più diverse: dal mettersi in ginocchio sulla sponda di un rivolo d'acqua, per rendere fresca e odorosa la biancheria, al rammendo, al lavoro di maglieria per i familiari; oppure a rendere più dignitoso quell'abituro, che tante volte pur rispecchiando la povertà del nostro popolo, esse sanno rendere gentile ed accogliente con le loro mani. Donne laboriose le nostre, più che essere pratiche a maneggiare cosmetici, sanno passare dai lavori casalinghi al cucito, al telaio: sanno fare e fanno un po’ di tutto; eppure nel volume della "Campania" edito dal Touring Club Italiano, di Montefalcone è detto: "....paese rinomato per la bellezza delle donne, che vantano antiche forme" ; ed il Cirelli nel " Il Regno delle due Sicilie descritto e illustrato" parlando della fecondità delle donne di Montefalcone così scrive: "..Alle favorevoli condizioni fisiologiche delle donne di questo Comune, le quali per validezza venusta, e bella conformazione non sono seconde alle più belle, e ben conformate appule donne...". Oggi le donne di Montefalcone seguono la moda nell'abbigliamento, ma nei tempi andati vestivano in modo tutto speciale ed il costume era veramente tra i più belli; oggi lo vediamo nelle manifestazioni folcloristiche; ed in una di queste, dinanzi all'allora Principe di Piemonte Umberto II a Telese, fu premiato con medaglia d'argento. Ecco com'era fatto il costume: una camicia di filo di cotone abbastanza scollata e guarnita di larghi merletti ed appuntata sul seno con bottoni di argento, o filo lavorato e con un nastro di colore rosso. La gonna era di panno di lana - per lo più tessuto in paese stesso - di colore blu, con 24 pieghe diagonali, ciascuna larga due pollici; un' altra piega, poi, recingeva il tutto all'intorno, detta "richippo", mezzo palmo all'ingiù della cintura: Il 78 seno veniva difeso da un corpetto attaccato alla gonna, delle medesima stoffa di questa, che veniva appuntato in mezzo alle spalle con apposito laccio, e sospeso alle scapole per mezzo di due strisce dello stesso panno. Maniche non molto lunghe né molto larghe coprivano le braccia ed erano queste, ordinariamente, di velluto o peloncino con guarnizioni di fettucce nel davanti, attaccate al corpetto con due o tre nocche, a piacere, e vestite in modo da non far rimanere celato quel tratto di camicia che copriva l'articolazione scapoloomerale. Il lembo inferiore della gonna era guarnito di un nastro a cui seguiva in su un'altra fettuccia larga, più o meno galante, secondo il gusto particolare. Portavano nel davanti della persona, situato orizzontalmente, un pezzo di panno di lana ricamato con figure e fiori di vario colore, largo più di mezzo palmo e lungo circa tre, coi capi pendenti dall'uno e dell'altro fianco. Era questo il "panno" che le donne ricamavano quasi sempre personalmente e con maggior cura. Dove questo panno finiva ai lati, cominciava un pezzo di mussolina di oltre due palmi di larghezza, che da destra passando pel tergo quasi ad arco, veniva affidato ad apposito nastro nel lato opposto. Questo veniva chiamato "pannante". Questi due ultimi ornamenti non venivano portati dalle non sposate, salvo che non avessero già passato l'età e la speranza del marito e queste, come le sposate, potevano anche vestire le calze tinte con la robbia (rosse), mentre le zitelle dovevano portarle bianche. Le scarpe di quest'ultime erano legate da legacci mentre quelle delle prime erano adornate di fibbie di argento o di ottone. Uno scialle di lana color verde cupo, largo tre palmi, lungo sei o sette, copriva la testa di tutte indistintamente. Altro distintivo delle maritate era la "carpia" di cui si adornavano il capo dal giorno del matrimonio in poi. La carpia consisteva in un pezzo di legno della grossezza di un dito e della lunghezza di un palmo involto nelle trecce e situato proprio sulla testa, coperto da una rete verde per tutti i giorni, e rossa per i giorni festivi, dentro la quale restava nascosta tutta la chioma. Su tale apparato si sovrapponeva una tela di cotone imitante il velo crespo, larga due palmi, lunga tre, guarnita di galanti merletti e che serviva di panneggio al capo. Una lunga spilla ornata di geroglifici e di fiori d'argento si conficcava alla carpia da diritta a sinistra sopra l'occipite. Infine cingevano un legaccio di lana lungo circa undici palmi e di vario colore a cui davano il nome di "sarta". Questo legaccio, oltre al vantaggio di difendere la gonna dal fango, potendola con tal mezzo sollevare, serviva ancora contro la immodestia del vento! e dava una certa rifinitura all'insieme degli ornamenti. Gli orecchini erano ordinariamente come una mezza pera legata ad un'altra parte a forma di bottone lavorato che veniva fissato all'orecchio attraverso un buco praticato nel lobo; per evitare poi che il lobo auricolare si spaccasse per il peso, si legava la parte fatta a pera con un nastrino che passava dietro il padiglione. Il collo era ornato delle così dette "cannacche"o "filodoro", cioè collane di oro con grani che iniziavano piccoli e aderenti al collo e poi andavano mano mano allungandosi e ingrossando i grani, fino ad arrivare alla grandezza di una noce, arricchiti con lavori di cesellatura. Si usavano anche collane di filigrano e di corallo. Diversi anelli di oro lavorato ornavano le dita. 79 ABITO MASCHILE Non meno bello e caratteristico era l'abbigliamento maschile: L'abito, in genere, era di panno come quello usato per le gonne delle donne. Gli uomini portavano giacca con taglio alla cacciatora, cioè con tasche comunicanti dietro la schiena; pantaloni al di sotto del ginocchio, ma finivano più stretti, perché s'infilavano in gambali di stoffa detti "gammere", che venivano mantenuti con un cordone rosso e s'abbottonavano ai lati esterni delle gambe con una fila di bottoni d'argento o lucidi. Sotto la giacca portavano il panciotto dello stesso panno; la camicia era senza colletto risvoltato (con "a pestagna") e al collo legavano un fazzoletto vistoso. A completare l'abbigliamento c'era la fascia, che sostituiva la cinghia, per reggere i pantaloni e che annodata sul lato sinistro pendeva fin quasi all'altezza del ginocchio. 80 TRA LE DUE GUERRE MONDIALI La nostra gente dette il suo contributo di sangue per la Patria durante la prima guerra mondiale 1915-18. Molti giovani ed uomini maturi indossarono il "grigio-verde" dirigendosi verso il fronte, mentre le donne rimasero a pregare e a piangere, a mano a mano che giungevano le comunicazioni di morte. Numerosi furono i caduti, diversi i decorati e basta ricordare Vecchiolla Leonardo, decorato con la medaglia d’argento al valor militare. Con la fine della guerra i lutti non cessarono, anzi aumentarono per l'epidemia della "spagnola". Anche alla campagna d'Etiopia e di Spagna non mancarono i nostri concittadini che si distinsero in ogni parte; tra i tanti cito mio fratello Italo che in Africa fu encomiato e nella Spagna fu decorato della "Crus roga" dal Generalissimo Franco. Molti furono i combattenti della seconda guerra mondiale, diversi i mutilati e feriti e parecchi i caduti e fra questi ricordiamo il Tenente Ennio Goduti, morto a Giarubub in Etiopia, decorato con medaglia d'oro ed il Tenente Cappellano P. Antonio Curcio, che già abbiamo citato. Durante il periodo fascista anche a Montefalcone si visse la vita del Regime con le adunate, le istruzioni, premilitari, ecc., ma non ci furono abusi degni di rilievo, perché al di sopra di ogni idea politica la nostra gente è stata animata sempre da quella della fraternità, alimentata, forse, oltre da quel senso etico, insito nel nostro popolo anche dalla configurazione topografica del luogo, distante dai centri, privo di tante cose necessarie, si sente la necessità dell'aiuto vicendevole per affrontare la vita, vissuta quasi sempre con stenti e sacrifici. La seconda guerra durava già da tanto, ma nonostante il razionamento , le tessere annonarie e quelle ristrettezze, conseguenze naturali di ogni guerra, nel nostro paese si poteva vivere, ed anche gli sfollati e la gente che veniva per fare un poco di provvista, trovava ospitalità e tranquillità. Dei bombardamenti si sentiva solo il rombo degli aerei e gli echi smorzati che giungevano attraverso notizie sporadiche o recepite con qualche radio rudimentale. Ci fu un solo bombardamento, ma di qualche bomba, alla contrada S. Pietro, per cercare d'interrompere l'unica via di comunicazione che era rimasta ancora efficiente con le Puglie. Il 9 settembre 1943 incominciò l'afflusso di numerosi soldati e profughi. È da ricordare una iniziativa stupenda della nostra gente: fin dai primi giorni, le madri che avevano i loro figli sparsi in tutte le parti del mondo, con amore veramente materno assistevano quei poveri sventurati, dando loro ogni genere di conforto. Si arrivò perfino, e per questo si deve un plauso alle giovani, ad organizzare dei posti di ristoro, dove ogni soldato o profugo poteva trovare da rifocillarsi. Il 15 settembre le truppe tedesche si accamparono nei boschi vicini al nostro paese e nei locali del Carmine misero la sede del comando, istallando un osservatorio sotto il tiglio, per controllare le strade di passaggio per le truppe alleate. Il 24 settembre alle truppe tedesche giunse l'ordine di iniziare la ritirata, mentre aerei americani sorvolando il paese lanciavano manifestini invitando il nemico ad arrendersi. Verso l'imbrunire i Tedeschi cominciarono a lasciare il paese, mentre le SS. bruciavano un locale di Francesco Nardi, dove si conservava il grano, e distrussero il "Ponte a tre luci" e il "Ponte a sette luci" per ritardare l'avanzata dei nemici. 81 Al mattino del 28 settembre giunsero le prime camionette degli alleati, mentre la popolazione, pensando che la guerra fosse finita per noi, si recava ad accoglierli con entusiasmo. Il 30 dello stesso mese l'artiglieria Canadese si appostò in contrada "Pezzi della terra", puntando sulla zona "S. Giovanni" del comune di Foiano Valfortore, dove avvennero scontri fra Canadesi e nemici. Nella stessa giornata nei locali del Carmine e sullo spiazzo antistante veniva installato un ospedale da campo ed ancora una volta si ammirò la bontà della nostra gente che si recò numerosa e costantemente a visitare i feriti e portare ad essi aiuto e conforto. Una ventina di giorni si fermarono le truppe alleate nel nostro paese e fu "il periodo" dei più anziani, che spolverando nella memoria i ricordi linguistici del periodo della loro emigrazione s'improvvisarono interpreti. La vita cominciava così a ripigliarsi mano mano con una certa fiducia in un avvenire migliore, anche perché non mancando quel poco di "mercato nero" di generi di prima necessità, si cominciò a vedere la circolazione di una certa quantità di AM lire che dettero una prima illusione di benessere. Bisogna notare però che, a differenza delle altre parti, da noi il mercato nero fu molto contenuto e si potevano indicare a dito quelli che lo facevano. Fu questo anche il periodo che fa segnare un punto nero nella storia del nostro paese e per l'azione in se stessa e per le conseguenze che ne derivarono per l'incendio del Municipio. 82 L'INCENDIO DEL MUNICIPIO La ragione di tale atto inconsulto e criminoso non è stata mai chiara, perché dopo il fatto le voci più discorde circolavano tra il popolo, attribuendo perfino tale atto ad istigatori nascosti che avevano interessi personali e che seppero ben apparire come pacificatori e portatori d'ordine; ma anche se abbiamo accennato questo, per non tacere quanto abbiamo raccolto dal popolo, riportiamo i fatti come ci provengono dagli atti di giudizio depositati presso il Tribunale di Benevento: "Leggi di ordine pubblico ed all'odio fra le classi sociali in Montefalcone Valfortore il 2-11-'43. Il 2 novembre 1943 la ventata di rivolta che si era scatenata nella Valle del Fortore, raggiunse anche il piccolo paese di Montefalcone Valfortore. Circolò dapprima la voce che il borgo sarebbe stato bombardato e distrutto dagli Alleati perché la maggior parte degli abitanti serbavano ancora sentimenti fascisti. Poi suonarono le campane a stormo per opera del sacrestano Paoletti Filippo fu Luigi e una folla di un migliaio di persone si raccolse in Piazza Umberto I. Si levarono grida contro le tasse, gli impiegati comunali, gli ammassi, il tesseramento annonario, l'ufficio accertamenti agricoli e le imposte di consumo, perché erano provvidenze dell'ex regime fascista; alcuni scalmanati, con una scure, abbatterono le porte della casa di Palazzi Ida e Esterina e attraverso tale abitazione e il sottostante ufficio postale si portarono, seguiti dalla folla, presso l'ingresso principale dell'edificio comunale. Nonostante la resistenza dei pochi carabinieri e le esortazioni del sacerdote Petrilli, il municipio fu invaso e dalle finestre furono lanciati in piazza documenti, registri e mobili e a questi e all'edificio fu appiccato il fuoco. Lo stesso accadde all'esattoria delle imposte dirette e all'ufficio accertamenti agricoli e all'ufficio imposte di consumo, dove registri, mobili e documenti contabili furono sottratti e distrutti....". Per tale atto diverse persone furono arrestate, ma protraendosi la causa furono poi assolte con la seguente motivazione: "Difficoltà di indole funzionale, dato il numero degli imputati, e anche di ordine materiale impedirono la trattazione del processo fino al sopravvento del D.G. 22 giugno 1946 n. 4, col quale si largiva una amnistia per reati politici e comunali..". "...Con la dichiarazione di amnistia deve disporsi la restituzione della somma depositata per cauzione di libertà provvisoria". Le conseguenze di tale atto furono disastrose per tutta la popolazione, perché per poter poi avere un certificato di nascita bisognava portarsi a Benevento, fino a quando il Tribunale autorizzò la compilazione dei registri, con quanta spesa, lavoro e difficoltà si lascia immaginare, perché alcuni anni dell'anagrafe bisognò ricopiarli dai registri parrocchiali, in quanto mancavano perfino al Tribunale, distrutto dai bombardamenti. 83 PUBBLICAZIONI Nel corso dei nostri appunti spesso citiamo il "Bollettino del Santuario del Carmine", "Valfortore" ecc. Dobbiamo precisare che più volte a Montefalcone s'è tentato di pubblicare qualche giornale per tenere uniti i compaesani emigrati e per la rinascita della zona, con grande coraggio dei fondatori, anche se poi - come per tutta la stampa non sovvenzionata - han dovuto smettere. Nel 1924 fu fondato dall'Abate Dott. Antonio Petrilli "L'Eco del Fortore", giornale quindicinale; nell'ottobre del 1926 non pubblicando l'eco del Fortore, lo stesso Abate Petrilli inizia la pubblicazione del "Bollettino del Santuario del Carmine" che ancora si pubblica sotto la direzione del Rev.mo D. Donato Minelli. Nel novembre del 1949 il Prof. Antonio Zeppa fonda "Valfortore" - Quindicinale di vita paesana - che dura per circa tre anni. 84 LE OPERE Trattandosi della vita del nostro popolo non possiamo tacere un bel gesto compiuto dai nostri emigrati: la costruzione di un monumento per i paesani caduti in guerra. Il Bollettino del Santuario del Carmine iniziò le sue pubblicazioni nell'ottobre 1926 con l'annunzio: "Abbiamo appreso con piacere che a New York si è costituita una Società di Mutuo Soccorso fra i montefalconesi colà residenti, avente per Presidente il pubblicista Sig. Giuseppe Valenzio, vice Presidente Santuccio Belpedio, Segretario Donato Vitale e Cassiere Gianfedele Di Brita. La popolarità e l'attività dei dirigenti è garanzia sicura che la società diverrà benpresto fiorente e si affermerà per opere di beneficenza sociale. La prima di queste opere sarà un monumento ai Caduti per il loro paese nativo. Difatti hanno già raccolto una somma rilevante, altri aiuti aspettano dai compaesani di Chicaco, del Michigan, del Minnesota ed altri luoghi dove risiedono i nostri concittadini e così fra non molto potrà concretizzarsi ogni cosa ed anche Montefalcone avrà il suo tanto sospirato monumento". In tutti i numeri successivi il Bollettino del Santuario riportava tutta la corrispondenza ed il lavorio che si svolgeva per l'attuazione dell'opera; nel numero di marzo 1927 (A.2, n.3 p.4)si legge che l'Abate Petrilli avrebbe addirittura voluto far costruire un campanile accanto al Santuario, invece del monumento: ".....potremmo suggerire un'altra specie di monumento e cioè la costruzione di un bel campanile. Alla base di esso si potrebbe collocare la lapide coi nomi dei Caduti ed una iscrizione ricordante la generosità dei concittadini emigrati, mentre dall'alto la voce delle campane richiamerebbe alla memoria i martiri della Patria invitando i fedeli a pregare nel tempio della nostra Protettrice. Si farebbe così un bel Monumento ed il Santuario acquisterebbe altro pregio e magnificenza". Il monumento fu invece fatto presso il Santuario, al "Largo di S. Antonio", "punto più sollevato e maggiormente visibile da tutto il lato orientale del paese, dal nuovo rione di S. Vincenzo, dalla rotabile che mena a Castelfranco e quella che passando sotto quella collinetta mena a Foiano e S. Bartolomeo. Finalmente nel mese di luglio (1927) sullo stesso bollettino si potette leggere: "Con fede ardente, con vibrante palpito, con entusiasmo irrefrenabile, con commozione indicibile Montefalcone ha celebrato un rito di fede e di amore quale è stato quello dell’inaugurazione del Monumento ai caduti in guerra, che s'è unito a quello della celebrazione dell'anniversario della Incoronazione della Vergine del Carmelo. Il monumento ha un basamento di mq.81 ed è artisticamente decorato, con 8 fasci littori ed un bassorilievo (in bronzo) raffigurante un soldato ferito e l'apparizione di un Angelo e della Madonna del Carmine. Sul basamento s'ergono 4 colonnine formanti un tempietto in cui vi è una lampada di ferro battuto che verrà tenuta perennemente accesa, in memoria dei gloriosi caduti. Ha un'altezza complessiva di m. 11 ed è coronato da una magnifica statua rappresentante l'Italia, che sparge l'alloro ai caduti. Autore di questo stupendo monumento n'è il valoroso scultore Ugo Rosiello da Benevento, uno dei giovani che più s'impongono per grandiosità di concezione e perfezione di linee. 85 Alle 17 precise del 15 luglio 1928 il corteo si muove da piazza Umberto I (attuale piazza Medaglia d'oro Ten. Ennio Goduti - antistante al municipio) mentre le musiche intonavano la canzone del Piave. Esso è composto da tutte le Associazioni, da tutte le Autorità e da una folla compatta e disciplinata. Giunto ove sorge il monumento prendono posto sui gradini di esso S.E. il Vescovo Mons. Lojacono, il Sig. Podestà, il Generale Medico Comm. Prof. Alberto Altobelli, i Protonotari Apostolici Mons. Pucci, Mons. Pisapia, Mons. Marino, il Can. Dott. Mons. Capobianco, il Podestà di Foiano, S. Bartolomeo, l'Abate Petrilli e molti altri prelati e insigni cittadini". Per anni fu il nostro vanto, poi nel 1958, per incuria degli uomini (sotto l'amministrazione comunista) cadde ed al suo posto un cumulo di pietre: neppure più il nome dei nostri eroi! erano morti due volte per chi li ebbe cari! Ma il 20 maggio 1962 Montefalcone ebbe la gioia di inaugurare il nuovo monumento ai caduti. Tutto il popolo di Montefalcone, con la partecipazione del Prefetto Dott. Bruschelli, del Questore, del Colonello dei Carabinieri, degli Onorevoli Lepore, Vetrone, Venditti, Papa, del Presidente della Provincia Comm. Saponaro, di numerosi Consiglieri Provinciali, del Comandante del Presidio militare Colonnello Limongelli, di numerosi dirigenti provinciali di Associazioni combattentistiche, di tutti i Sindaci dei paesi vicini, di tutte le Autorità civili, religiose e militari si strinsero intorno al Sindaco Dott. Rosario Zeppa, mentre il Vescovo di Ariano Mon.Pasquale Venezia benediceva il monumento ed un elicottero, mandato appostitamente dal Ministro della Difesa On. Andreotti, dietro richiesta del Sindaco, lanciava fiori e bandierine sul monumento. Si saliva poi verso il paese per l'inagurazione dell'Ambulatorio Comunale, stabilito nei locoli dell'ex scuola S.Maria. Più su: inaugurazione della Piazza degli Emigrati. Il largo S.Pietro (dove prima sorgeva la chiesa) era stato trasformato in una piazza giardino con in mezzo un'antica colonna marmorea del distrutto Duomo di Benevento e portata fin lassù dai Vigili del Fuoco comandati dall'Ing. Barone - su cui fu applicata la dedica: "Agli Emigrati di Montefalcone - apostoli di lavoro e di virtù civiche".Montefalcone era così il primo paese ad intestare una piazza agli Emigrati. L'Amministrazione volle così riunire in un solo palpito d'amore i figli caduti ed i lontani, perché una sia la volontà, identico l'amore fra tutti per il bene del paese. Parlando delle opere realizzate a Montefalcone non possiamo non accennare alla Strada del Rosario, che fu il sogno di tante generazioni, costruita nello stesso periodo dall'Amministrazione presieduta dal Dott.Zeppa e realizzata con un notevole contributo del Corpo Forestale per opera del Dr. Paolo De Luca, Comandante dell'Ispettorato di Benevento e Commissario per l'Azienda speciale per l'Alto Fortore. La realizzazione del grande serbatoio per l'acquedotto del Biferno nella zona della Niveiera, per l'erogazione dell'acqua a 18 comuni e la cui spesa fu di oltre un miliardo pagato dalla Cassa per il Mezzogiorno. È questo il capitolo che potrebbe essere il più lungo, perché potrebbe elencare tutte le opere che sono state compiute nel nostro paese che in questi ultimi tempi si è arricchito di opere, ha rinnovato le sue abitazioni che sono diventate veramente delle case accoglienti, dotate di tutti i conforts; ma per dovere di cronaca dobbiamo dire che il periodo di maggiore laboriosità è stato il decennio 1960-'70, durante il quale abbiamo potuto vedere - oltre quanto detto - l'ultimazione della strada di Montefalcone - Bivio S.Giorgio - 90 bis, già appaltata nel 1952; il completamento dell'edificio scolastico con la strada di acceso; il rifacimento della rete idrica, fognante ed elettrica; l'ampliamento del campo sportivo e quelle tante opere, atte a 86 renderlo sempre più bello, perciò ci è doveroso ricordare, oltre l'Amministrazione presieduta dal Dott. Zeppa, quelle presiedute dal Dott. Nicola Di Stasio, Pasquale Palumbo, Leonardo Lucarelli ed Elia Lucarelli, che hanno dimostrato tanta capacità, interesse ed amore per il nostro paese. 87 MEDICINA E CREDENZE POPOLARI Molto vi è di comune nella medicina popolare della nostra gente con quella delle altre zone meridionali, ma ricorderò qualche rimedio più caratteristico dele nostre parti, anche perché sono convinto che questi usi sono la conseguenza della miseria e dell'ignoranza; e perché l'una e l'altra tendono a scomparire sia per le tante forme di assistenze sanitarie, sia per lo sviluppo della nostra zona, prima che queste credenze ed usi che hanno sostenuto i nostri avi siano dimenticati del tutto. Qui, come dovunque, la medicina popolare esorbita molto spesso dalle qualità fisiche e chimiche della materia e dalle comuni leggi della biologia e si associa a virtù magiche di cose e persone, a oscuri poteri di parole. A debellare le febbri periodiche, nei prodomi delle stesse si era soliti bere un bicchiere di vino nel quale veniva mescolato del carbone pesto rinvenuto il dieci agosto, dedicato a S.Lorenzo. Nelle plueriti usavano la fregagione col pollice nel sito del dolore, sino a farlo diventare livido. Le ferite, le ulcerazioni e le scottature trovavano il loro rimedio nella ragnatela o nella polvere di travi di legno o anche nella cipolla; appena prodotta la ferita, però, bisognava versarvi sopra del vino o urinarvi sopra. Su queste ferite si usava anche mettere "l'olio insolfato" che si otteneva facedo bruciare dei solfanelli nell'olio da usarsi. L'urina era ritenuta buon medicamento anche per i geloni e le cefalee, ma doveva essere, in questo caso, urina di neonato. Se le ferite erano state prodotte dal morso di un cane, bisognava applicarvi sopra dei peli dello stesso cane. Per l'elmintiasi o verminazione dei fanciulli sospendevano al collo dei medesimi una corona di agli ben mondati e talvolta facevano loro bere il succo dell'aglio pesto con la menta. Ungevano inoltre l'ombelico con l'olio nel quale avevano fatto bollire la ruta el'incenso. Nei dolori enterici si prendeva l'ammalato per i piedi e rovesciandolo gli si davano cinque o sette scosse sussultorie. Nella diarree la testa del caciocavallo arrostita nelle foglie della vite moscatella o anche, in mancanza di questa, il prosciutto arrostito allo stesso modo, erano considerati ottimi antidoti. Nella malattie delle mammelle, e specie nell'ingorgo, che ancora oggi chiamano comunemente "pelo" si adoperava un pettine di avorio riscaldato. Per gli accessi, flemoni ed in genere tutti i processi infiammatori estrinsecantesi all'esterno, giovano la cipolla cotta, le foglie di rovo, crusca bruciata e -caratteristico- " 'a racca", cioè lo sporco grasso che si forma nei capelli e " 'a quagliata" specie di grasso che si estrae dal latte. Tutta l'ortopedia traumatica - e qua bisogna aggiungere che questo è ancora in voga - trovava il suo rimedio nella "stoppata": stoppa intrisa nel bianco d'uovo sbatuto e applicata sulla parte. Indiscutibilmente un ottimo sistema per l'immobilizzazione; immobilizza la "stoppata" dopo alcuni minuti, così come la fasciatura in gesso. Se il processo durava a lungo, allora si ricorreva a qualche esperto, che a qualche esperienza ortopedica aggiunggeva quel tanto di magico con preghiere non rivelabili, da formarsi un'autorità indiscussa e una non comune clientela. 88 Per le ipoacusie era buono il latte di donna e meglio ancora se madre di una femminuccia; così al Come già s'è potuto notare, è la medicina popolare che passa in medicina eroica senza una netta distinzione. I dolori addominali venivano ordinariamente "incantati" e si riteneva scomparissero facendo poggiare sull'addome dolorante le mani di un gemello, ma di sesso diverso di colui che soffriva. La prevenzione dei dolori addominali, poi, si poteva ottenere portando addosso la "veste" delle serpi. Molti credevano che l'itterizia fosse determinata da un forte spavento, ma altri asserivano che lo spavento non fosse sufficiente per la sua insorgenza; era necessario, invece, urinare sulla cenere nella quale vi fosse un chiodo arruginito e mentre in cielo era visibile l'arcobaleno:anche per l'itterizia la cura consisteva nel farla incantare. Se un bambino non muoveva i primi passi, perché affetto da poliomelite o per ritardo dello sviluppo o per qualsiasi altra causa, rimedio effice era ritenuto il "vino ferrato". Persone esperte immergevano un ferro rovente nel vino recitando delle preghiere; poi il vino veniva somministrato a cucchiai. Nell'ernia dei ragazzi, nel giorno dell'Annunziata (25 marzo) bisognava dividere una quercia a metà, con taglio perpendicolare, e mantenendo a viva forza disgiunte le parti, far passare per ben tre volte l'ammalato per quella apertura. Nel tempo che si eseguivano questi tre passaggi, i padrini che invitati erano presenti a quell'atto (condizione indispensabile), recitavano alcune preghiere. Ciò fatto congiungevano e legavano le parti scisse della pianta, se poi si aveva l'adesione si aveva anche la guarigione, come se non si aveva l'adesione non si aveva neppure la guarigione. Per le verruche bastava fare un nodo ad un temericio senza estirparlo ed il nodo doveva essere fatto ad insaputa della persona che aveva le verruche e dire per tre volte: "Tammarice, tammarice.., (si diceva il nome dell'ammalato) tè' 'o puorr e nun 'o dice". Per i porri sulla mano si usava pigliare un cece col pollice ed indice della mano sana e passandolo fra le stesse dita della mano affetta e gettandolo dietro le spalle. Nel gozzo: si doveva conficcare nell'esofago di un cadavere un ago nella cui cruna passava un filo che veniva legato al collo dell'infermo: si credeva che il gozzo si dileguasse come si dileguavano le forme del corpo morto. Le emorroidi si potevano guarire e prevenire portando perennemente in tasca " 'na pallottola", cioè una di quelle escresscenze che producono le querce e quasi somiglianti nella forma alle noci. L'enuresi notturna dei piccoli si curava seguendo ancora le prescrizioni di Plinio il vecchio: facendo mangiare dei topi lessati (urina infantium cohibetur moribus elixis in cibo datis" - Plinio Natur.Hist. XXX, 15-57, 138). È credenza quasi comune che chi nasce a mezzanotte di Natale diventa "lupo mannaro". Il lupo mannaro all'avvicinarsi della mezzanotte natalizia, e solo in essa, vaga in cerca d'acqua emettendo urli da lupo ed uccidedo quelli che incontra; capelli e unghie crescono in modo spaventoso. Questo tipo di licantropia dura otto ore ed il male può guarire se qualcuno riesce a pungere l'ammalato durante l'eccesso con uno spillo, sì da fargli uscire tre gocce di sangue; dovrà poi stringergli la mano e dire: "da oggi siamo compari". Sembra quasi che nel popolo regni un acerta influenza manicheistica: l'uomo è guidato da una doppia forza; del bene e del male, perciò è necessario che il male venga continuamente ostacolato dal bene e da ciò l'obbligo di dire "abbenerico" (Dio 89 ti benedica) ogni volta che si ammira o si ha rapporto con l'uomo o quanto a lui può appartenere. La mancanza, anche involontaria, di questa formula fa prevalere le forze del male: l'uomo si ammala, la casa corre pericoli, il lievito non cresce, ogni cosa è minacciata nel bene, viene, come dicono, "presa d'occhio", anche senza l'intenzione di chi ammira. Che fare quando il "malocchio" si è preso? Si ricorre a chi sa fare il "contruocchio", che formulano preghiere con qualche goccia d'olio in un piatto d'acqua. È sempre per neutralizzare questa forza maligna che dietro le porte mettono un ferro di cavallo o le corna, ecc.. e per la stessa ragione fanno portare ai bambini particolarmente, più facili al "malocchio" la manina con le dita a forma di corna, il cornetto di corallo o di oro, ecc. Le persone che fanno il "contruocchio" sono le stesse che "incantano" gli altri malanni: dolori addominali, itterizia, manifestazioni convulsive, ecc. ed ordinariamente si trattava di persone che sfruttando l'ignoranza e la dabbenaggine della gente sapeva trovare una fonte di guadagno nei regali dei pazienti. Ogni tanto, poi, veniva fuori qualcuno la cui fama in brevissimo tempo si propagava nella zona ed a lui correvano tutti i malati e bastava di tanto in tanto un'apparente guarigione strepitosa - e di forme isteriche e simulative non ne mancavano - li faceva mantenere sulla cresta dell'onda. A questi operatori del bene si opponevano gli operatori del male: le streghe e le "jamare". Le streghe erano d'importazione beneventana e nella nostra zona della Valfortore erano le stesse: si riunivano al sabato sotto il noce di Benevento per le loro danze e le loro magie, indi a cavallo di una scopa volavano ovunque, portando la loro opera malefica. Anche qua ci si difendeva mettendo dietro la porta la scopa o un sacchetto di miglio, perché le streghe prima di entrare avrebbero dovuto contare tutti i fili della scopa o i chicchi di miglio e così sarebbepassata la notte, unico tempo in cui potevano agire. Le "janare", invece, erano tipicamente locali. Molti le identificano con le streghe, ma la loro caratteristica specifica era quella di fare le "fatture". Ognuna poteva diventare "janara" purchè fosse andata tre volte a mezzanotte al cimitero a prendere qualche osso di scheletro umano e in più qualche osso di bimbo morto senza battesimo. Bisognava poi polverizzare con riti segreti, rivelabili solo da altre janare, questa polvere veniva poi gettata addosso alla persona a cui si voleva fare la fattura e per poterne guarire era necessario l'intervento di altra janara. Le donne, allorché per qualsiasi incidente si trovavano i capelli in disordine (e molte volte questo si attribuiva alle janare), nel rifarsi le trecce non potevano toccare cibo di sorta, perché se maritate, si credeva, avrebbero perduto il marito, se nubili il fidanzato. Le donne incinte non potevano toccare ortaggio, né cotto, né crudo dal primo al secondo vespro dell'Annunziata (dal pomeriggio del 24 al pomeriggio del 25 marzo); se l'avessero fatto il figlio sarebbe nato ricoperto di piaghe. Se camminando si fosse rinvenuto un tizzone estinto, non bisognava portarlo al proprio focolare: avrebbe provocato la morte del capofamiglia. All'avvicinarsi della morte il segno era dato dal canto della civetta, che portava male dove guardava e bene dove si posava. 90 Ma se il popolo aveva trovato la previsione della morte, non aveva però trascurato ciò che prevedesse la vita ed era ricorso per questo a S. Giovanni. Nel giorno della sua festa (24 giugno) le ragazze particolarmente versavano del piombo fuso in un recipiente contenente acqua di fiume: dalla forma assunta dal piombo consolidato vedevano uno strumento che avrebbe indicato il lavoro del futuro marito; ma prima di questo, alla sera della vigilia, si metteva alla finestra un bicchiere con la chiara d'uovo ed al mattino (naturalmente non mancava quel pizzico di fantasia!) vi scorgevano un segno del futuro; se poi il futuro era già speranza e si voleva solo la conferma alla relaizzazione, si piantava, sempre alla sera della vigilia di S. Giovanni, un fiore di cardo con "la grossa chierica" (corolla e corona) dopo averne bruciato i petali: se quelli crescevano durante la notte la speranza si avverava, altrimenti la speranza non si realizzava. Le spose andando in chiesa a celebrare il matrimonio si guardavano bene dal toccare la soglia della porta della chiesa, perch sarebbero andate soggette alla fattura o al malocchio, perciò la scavalcavano e per lo stesso motivo non pigliavano l'acqua benedetta, né passavano sopra le sepolture. Per la stessa ragione, ancora, quando si "faceva il letto della sposa" mettevano sotto il materasso un paio di forbici aperte e legate con un nastro nero. Bisognava anche essere accorti a prevenire la sfortuna, perciò la sapienza popolare insegnava: "Di venere e di marte (venerdì e martedì) non si sposa né si parte, né si dà principio all'arte (non si inizia). Si prevedeva ancora l'abbondanza o meno del raccolto osservando chi fosse per primo entrato in chiesa dopo il vangelo della Messa della festa della Candelora (festa della Purificazione: 2 febbraio). Se fosse stato un ricco il raccolto sarebbe stato abbondante (buon'annata), viceversa se un povero. Per "Medicina e credenze popolari" mi sono servito, oltre quello che ho potuto apprendere dagli anziani di Montefalcone, di quanto ha riportato F. Cirelli ne "Il Regno delle due Sicilie" e della "Demoiatrica nel Valfortore" del Dr. R. Zeppa. 91 USI I tempi sono cambiati ed è cambiato anche il modo di vivere nella nostra terra: il rumore delle automobili e motorette rompe il silenzio delle nostre strade e rende pericoloso il cammino ai vecchietti che ancora in gruppi si recano a "pigliare il sole" e vivere il senso di amicizia al "girone di Vincenzo" e ai nostri giovani che, specialmente nei pomeriggi festivi, allietano le nostre strade col loro passeggio. D'estate non manca il rumore delle trebbie o delle macchine che sgranano pannocchie: è arrivato un alito di civiltà anche sui nostri monti ed è nato quasi un paese nuovo, non solo nella configurazione topografica, ma anche nel modo di vivere, ed è morto quello vecchio di secoli fatto di semplicità, di affettuosità, di tradizione, di superstizione anche, ma tanto caro al nostro cuore. È stato questo che ci ha indotti, prima che se ne perdesse la memoria, a farlo rivivere nei nostri appunti, a ricordare quel genere di vita arcaica che aveva uno stretto vincolo di continuità col passato e quella mancanza di evoluzione, se da una parte manteneva un senso di povertànella nostra gente, dall'altra conservava pure qualcosa addirittura di subblime: il senso della fraternità: il dolore di uno era il dolore di tutti, al lutto di una famiglia partecipava l'intero popolo; ci si scambiava il lievito, ci si prestava il pane: eravamo una sola famiglia ed il forestiero che arrivava da noi era degno di ogni rispetto, perché l'ospite era sacro. Nel paese l'uomo sente e vive il senso dell'umanità, non si sente solo, ed anche se le città possono dare il benessere, il paese dà la vita. Le azioni più comuni del lavoro abituale si ripetevano in un'atmosfera che aveva qualcosa di arcano:il grano era trebbiato dai muli che trascinavano per l'aia una grossa pietra che stritolava le spighe, che si battevano poi con dei bastoni snodati "i ruvielli" ed indi tolta la paglia, con pale (ordinariamente di legno) e forconi si lanciava in aria il grano, perché il vento portasse via le pagliuzze:si "ventilava" ed infine il crivello eseguiva l'ultima operazione di pulitura. Le pannocchie di granoturco venivano egualmente scartocciate sulle aie, e spesso si eseguiva questo lavoro nelle notti di luna che diventavano più romantiche, perché allietate dal canto corale di contadini e contadinelle. Il pane era impastato "ammassato" in casa in tutte le famiglie; passava poi, come lieta svegliarina la fornaia "a cummannà" cioè a dire che il forno era pronto e le nostre donne portavano ai forni pubblici, riscaldati a paglia, su grosse tavole le forme di pasta e ognuno che le incontrava non mancava di rivolgerle l'augurale saluto:"S.Martin" perché il pane lievitasse e venisse saporito. Ora tutto questo è finito e con esso un poco del'anima della nostra gente ed il ricordarlo è come fare un tuffo nel passato e rincontrare il volto delle persone care. L' innalzamento del livello culturale, i mass-media, l'emigrazione e quel poco di turismo che qua si effettua, hanno portato nel nostro popolo gli usi degli altri ed hanno trasformato o fatto scomparire i nostri usi caratteristici. Prima che scompaiano o si dimenticano completamente, pensiamo di ricordarne qualcuno. 92 MATRIMONI Stabilito il matrimonio, il fidanzato donava alla fidanzata un paio di scarpe con fibbie d'argento, un paio di calze di lana di colore scarlatto, una rete di seta con un nastro del medesimo colore (quella per la "carpia"), un filo di globetti d'oro ad uso di monile ed una spilla d'argento. Nel giorno del matrimonio, la sposa, uscendo dalla casa paterna, doveva portare le mani incrociate sul petto fino a che non fosse entrata nella casa del suo nuovo destino. Gli sposi dovevano ascoltare la Messa nuziale genuflessi ai piedi dell'altare e con in mano un cero acceso. Giunti poi nella nuova casa, i parenti e gli amici versavano addosso agli sposi grano, ceci e granone come augurio di abbondanza e per la stessa ragione si lanciava grano e confetti durante il corteo dalla chiesa alla casa. Un altro uso che ha resistito al tempo, ma che ora va scomparendo, era il corteo per "portare i panni". Alcuni giorni prima del matrimonio, nella casa della sposa si esponeva il corredo e si invitavano le amiche a "visitarlo"; il giorno prima poi le amiche della sposa trasferivano il corredo dalla casa della sposa alla nuova casa nella quale andavano ad abitare. Era un lungo corteo di donne in fila indiana che recavano sulla testa ceste contenenti i vari capi di biancheria. Nello stesso giorno, poi, si preparava il letto nuziale. Nel pomeriggio, in gruppi separati, la sposa con giovani amiche e parenti dello sposo, lo sposo con giovani amici e parenti della sposa, il padre della sposa e dello sposo, la madre della sposa e dello sposo si recavano da amici e parenti per invitarli alla festa nuziale. Al corteo nuziale era la sposa che apriva il corteo al braccio del padrino di battesimo dello sposo, seguiva lo sposo con al braccio la madrina di battesimo della sposa, i due padrini erano i testimoni di nozze. L'anello nuziale veniva donato dal compare (compare d'anello). Siccome molto spesso il matrimonio era l'unica occasione di poter mangiare e bere a sazietà, accadevano di frequente episodi spassosi che riempivano la cronaca e formavano "i fatti" da raccontare con gli amici. 93 FESTIVITÀ Nella notte di Natale, allorché il Bambino Gesù veniva portato al presepe, come pure il giorno dell'Epifania, quando si riportava dal presepe all'altare maggiore per il bacio dei fedeli, a portare l'ombrello e i ceri accesi erano i contadini che dovevano però indossare "'u pelliccione", consistente in un giaccone di pelle di pecora, bianco, senza maniche e lungo fino al poplite e che ordinariamente, i pastori confezionavano essi stessi. Neppure la prima dignità del paese o la nobiltà poteva essere ammessa al sacro rito del bacio se prima ciò non fosse stato eseguito dai pastori in "pelliccione". Si ripeteva la scena evangelica degli umili ammessi per primi ad adorare il Verbo incarnato. La festa veniva preceduta dalla rituale novena, durante la quale gli zampognari giravano per le case dei devoti a suonare dinanzi al presepe. La sera dell'antivigilia si friggevano le tradizionali "zeppole", la prima delle quali doveva essere a forma di croce. Più mistica la giornata della vigilia, durante la quale si osservava il più rigoroso digiuno e mentre le donne preparavano la cena, che non dovevano assolutamente essere preparata la cena, che non doveva assolutamente essere preparata con grassi o carne, gli uomini preparavano il "cioccaro" o ceppo di Natale, che doveva essere abbastanza grande da poter essere acceso la sera della vigilia e quella dell'ultimo dell'anno. Dopo la cena non si andava a letto prima della mezzanotte, anche se non si andava a Messa, e per onorare Gesù Bambino e perché si scongiuravano i pericoli del "lupo mannaro". In quelle ore serali della vigilia si cercava di conoscere se e in quale mese dell'anno il grano avesse subito aumento di prezzo. Su un mattone infuocato si ponevano dei chicchi di grano per ogni mese dell'anno, quel chicco che per il colore saltava più lontano indicava il mese, e secondo la distanza anche più o meno il rincaro. Nella notte della vigilia, inoltre, e solo in essa, era possibile insegnare ed imparare le formule e le cerimonie degli "inciarmi", degli incantesimi e di ogni altra stregoneria. 94 DANZE Un'altra usanza in voga a Montefalcone, e poi finita completamente, era quella del ballo popolare all'aperto, specie durante le festività della Madonna del Carmine. I popolani di ambo i sessi, sul piano erboso antistante la chiesa del Carmine, al suono di pifferi e tamburi intrecciavano danze che, in ebbrezza sempre crescente, diventavano sempre più smodate, e si ricorda a tal proposito che l'Ordinario diocesano avendo constatato il tralignare di questa usanza, nel 1712 la proibì e comminò la scomunica "latae sententiae" a coloro che vi partecipavano. Il popolo dinanzi a simile provvedimento, con un memoriale in difesa di tale popolare usanza, ricorse al Metropolita perché abolisse tale pena; il tempo poi fece il resto, perché tale usanza andò mano mano diminuendo, fino a scomparire completamente. Ora vi resta, perché fatta rivivere da un gruppo di giovani costituitisi prima nell'associazione "Comunità" e poi in "Pro loco" solo la sagra del 15 agosto in cui si conserva il tipico folclore paesano in onore dei villeggianti e dei paesani emigrati, che rientrano per le ferie. La gioventù sfoggia il caratteristico costume e allieta le serate con canti e balli tradizionali. Il 17 gennaio - festa di S.Antonio Abate - dopo la benedizione, ricevuta al largo Arena, mentre tanti bambini stringevano tra le braccia le gallinelle infiocchettate, cavalli. muli ed asini, dopo i tre giri intorno al Santuario, partivano al galoppo fino alla "Croce". Erano specialmente i giovani contadini a dare dimostrazione della loro valentia e temerarietà, specie per le loro ragazze che ammiravano e applaudivano tra la folla degli spettatori. Per le via si accendevano grandi fuochi, che dovevano durare fino a notte alta, quando la gente del vicinato, che aveva contribuito a dare la legna, dopo la recita del rosario, consumava patate o cereali messi a cuocere accanto ad esse e portava in casa, in segno di propiziazione contro gli incendi, un poco di quella bracia. 95 FUNERALI Appena morto un individuo, accorrevano i parenti e gli amici e ne piangevano in coro la dipartita. Il pianto era una specie di cantilena, con la quale esprimendo il proprio dolore, facevano le lodi dell'estinto, pregandolo che recasse i loro saluti ai cari trapassati, facendo presente il loro dolore. Le vedove potevano piangere il loro marito solo se non si fossero rimaritate, altrimenti sarebbe stata un'onta al marito vivente; se fosse morto pure il secondo marito potevano dirigere i loro lamenti al primo marito. Durante il corteo funebre, le donne, come una volta le prefiche, continuavano questa cantilena. Nella casa dell'estinto, poi, per otto giorni, durante i quali i congiunti non potevano uscire, non si accendeva il fuoco ed il pranzo " 'u cuonzuol" veniva portato dai parenti o amici. Inutile dire che molte volte i "conzuoli" si trasformavano in veri e propri banchetti. Un riemergere spontaneo del mondo classico che celebrava con lauti banchetti i riti funebri: la vita riprendeva il suo corso e il suo sopravvento. 96 IL I° MAGGIO Un altro uso che ancora esiste, e che è addirittura di richiamo a diversi montefalconesi che vivono lontano, e che ci auguriamo resista, è la processione al Santuario del Carmine la mattina del I Maggio. Le manifestazioni del Calendimaggio ormai sono diffuse dappertutto, ma quassù assumono un carattere tutto spirituale e si rifanno ai tempi in cui la chiesetta rimaneva fuori le mura del paese e dopo la stagione invernale si riapriva al culto. Durante la notte dal 30 Aprile al I Maggio gruppi di persone girano per le strade del paese recando in mano candele accese e cantando: Venite cristiani e popolo 'r Dio venite a visità Maria ch'è la Madre di Gesù. Pe’ mare e pe’ terra pe numinata và Santa Maria ru Monte Carmelo nuje la jame a visità. …frattanto mentre passano, altri si uniscono al gruppo. È uno spettacolo sublime vedere tante fiammelle nella notte che da ogni strada affluiscono alle piazzette e ascoltare quel canto! Ci si riunisce poi tutti nella chiesa di S. Maria dove si canta il Rosario ed indi si va tutti al Carmine, ma prima di entrare in chiesa vi si gira tre volte intorno in atto penitenziale e poi tutti ad ascoltare la Messa. È una manifestazione di fede che solo quassù si sa vivere, dove il popolo semplice, nella tradizione dei padri, trova gli ideali di vita per unire presente e passato e trovare la forza per vivere di onestà e lavoro. 97 CIRCOLI PAES ANI Nei giorni feriali lavorano i nostri uomini e pensano al pane per i figli, al pane del giorno. Poi viene la festa e con essa la Messa: non solo un dovere di buon cristiano, ma un sano bisogno di cercarsi a vicenda. E dopo la Messa, se il tempo permette, in piccoli crocchi affollano le piazzette, la strada più larga del paese, lo spiazzo dinanzi al cimitero. Istinto o bisogno acquisito? È certo però socievolezza più pura, semplice e bella, priva di tante pastoie che fanno di essa la base per altro. Quì è solo gioia di stare un po’ insieme! Si parla del tempo, del vino, del grano; di parla di casi, si parla dei tempi: si fa la storia di nostra gente. E le tipiche, più belle figure rivivono quì, nei circoli nostri. Non pagine scritte, ma solo la memoria che sa di stima, che sa di affetto e si tramanda dai vecchi ai giovani, dai grandi ai piccoli, in questi circoli pieni di sole, in questi circoli pieni d'umore. E chi racconta la storia più bella e chi racconta il fatto più vero! Poi s'interrompe per mezzogiorno e si continua nell'ora di siesta ancora all'aperto e poi in cantina prima e ora al bar. Qui sembra finire coi tressetti ed il vino, ma ancora qualcuno torna a ridire un vecchio fatto: la nostra storia vive così! e non si perde, perché al mattino in ogni campo, nel duro lavoro, viene ridetta: se un po’ si perde, la fantasia poi la raddrizza: sarà meno vera, ma certo più viva secondo l'anima dei nostri vati! Ma anche politica si fa nei circoli, anche se il mondo diventa piccino ed ogni evento sa di un bel fatto bene acconciato con una logica che sa di casa. Il solo vero, il solo giusto è quello che tratta di casa propria, di tutti i fatti del proprio Comune; e quì l'analisi diventa ed il giudizio giusto ed arguto. E non si ferma perché la mente di questa gente ragiona con una logica senza pastoie, più di quei tali che, messi a capo, fanno e disfanno secondo gli ordini dei loro padroni. 98 CARLO CATONE AL VALLO DI BOVINO L'attesa del corriere che doveva poetare informazioni da Foggia aveva impossibilitato Carlo Catone a capeggiare la sua banda partita al mattino per le solite scorrerie. Egli era rimasto in attesa perché il colpo annunziato era grosso e bisognava preparare un piano particolareggiato. Erano i tempi torbidi del '60: il regno Napoletano era stato annesso a quello di Vittorio, ma l'ignoranza dei più e l'interesse dei pochi avevano prodotto tale stato di caos da confondere l'idea bella e grande dell'unità e dell'indipendenza d'Italia. I senza scrupoli profittavano della confusione e dei posti che occupavano per fini personalistici e con l'aiuto del fuorilegge. L'attesa e l'aria afosa snervavano Catone; il corriere non arrivava ancora e lo costringeva all'inoperosità. Quando alfine giunse ansante e trafelato mise fretta e orgasmo nell'animo del bandito: la diligenza sarebbe passata nel pomeriggio per il Vallo, portava valori all'Intendeza di Foggia; era scortata da 4 gendarmi a cavallo, vi erano alcuni passeggieri e il postiglione armato. Uomini ci volevano e bene armati per riuscire e la sua banda non sarebbe tornata che al mattino dopo. Lasciar passare senza tentare il colpo significava perdere la stima e l'appoggio della persona che teneva occhi e mani negli uffici della capitale di Capitanata. Imprecò contro la sorte che faceva arrivare con qualche giorno di anticipo il carruggio e non gli dava tempo di predisporre. Ora senza mezzi non poteva attuare alcun piano. Sulla strada polverosa avanzava lento un asinello che un uomo si spingeva innanzi. Quando gli arrivò davanti vide che era un fochista che andava a sparare mortaretti in un paese di quei paraggi. In un lampo di genio predispose tutto il suo piano: far presto e non discutere e quando ebbe finito gli dette il compenso e l'ordine di allontanarsi in fretta. Non restava che trovare il luogo più adatto e agire con audacia. Ove la strada s'incassa e si nasconde fra gli alberi, proprio dietro la curva a ridosso della scarpata, fra cespugli e arbusti allungò la batteria. Dietro la macchia col fucile al fianco e la miccia in mano Catone attese. La sonagliera si distingue fra il frinire delle cicale e il canto degli usignuoli; lo scalpiccio dei cavalli si fa più forte e la carrozza appare. I primi colpi scuotono dal torpore i viaggiatori e fanno sbizzarrire i cavalli; i cavalieri costretti a frenarli sono impossibilitati alla difesa; il postiglione non la pensa neppure, bada alle redini; i passeggeri si stringono paurosi. Un fracasso tremendo, aumentato dall'eco della valle dà l'idea che un intero reggimento di uomini sia appostato agli ordini di quello che si avvicina con passo sicuro e col fucile in pugno intimando il ritua-le "faccia a terra". Nessuno pensò di contraddirlo e alla richiesta dei valori fu servito con sollecitudine. I cavalli scalpicciavano, il fumo non s'era ancora diradato e l'operazione era finita: fra i presenti non v'era alcuno che non ringraziasse il cielo perché fosse andata a quel modo. Quando ebbero il permesso di continuare i gendarmi salutarono, il postiglione schioccò la frusta e la sonagliera riprese la nenia. I passeggeri rianimati lodavano l'onestà del bandito perché non li aveva derubati. 99 Carlo Catone col bottino ai piedi, appoggiato al fucile, guardava la carrozza allontanarsi fra un nugolo di polvere sulla strada bianca. La sera stessa per una strada più nascosta, caricato il bottino sul cavallo, raggiungeva egli pure la destinazione della carrozza. Quello che era stato prelevato alla luce del sole e in mezzo alla strada, veniva calcolato alla luce dei lumi in un dorato salotto. Agli uomini, quanto dai? Niente, perché non vi hanno preso parte. E chi c'era con te, come hai fatto? Il verbale dei gendarmi di quanti uomini parla? Parla di un grande ammassamento; il postiglione e i passeggeri hanno firmato. Eppure ero io solo! Quando Carlo Catone, carico d'anni, domo dai tempi, forte ancora nel fisico, raccontava ai giovani le sue imprese audaci, ripeteva questa con particolare orgoglio e a testimonianza del suo dire citava un foglio di Capitanata che l'aveva riportata. 100 DON ERNESTO CAPOZZI Un'ora durò la visita di don Ernesto; poi concluse l'esame clinico nella diagnosi di cirrosi epatica da abuso di alcool; ma conoscitore di tutta la vita dei suoi ammalati, sintetizzò diagnosi, prognosi e cura in queste poche parole: "Cumpà, non devi più bere vino!" al che l'ammalato: "E tu non lo bevi?" E don Ernesto concluse: "Bevilo pure tu e fatti f..." 101 LEONARDO DA LONGA Andò in America con due soli scopi: far danaro e non passar da sciocco. Vi riuscì e dopo dieci anni tornò in Italia contento, anche se i calli oltre che alle mani fossero pure sui piedi. A Napoli, dopo, lo sbarco, con le scarpe nuove, questi calli si facevano sentire; sicchè trovò opportuno comprare un rimedio che uno scugnizzo vendeva in bustina a pochi soldi. Aprì la bustina e vi trovò un biglietto: "Usate scarpe larghe". Povero zì Lunardo! avrebbe voluto perdere tutto il danaro e non passar per f... proprio all'ultimo momento!. 102 CARMINE MARCHETTA Quando vigeva il codice borbonico e quello di Savoia, Carmine Marchetta fu denunziato per pascolo abusivo. In pretura, a domanda del giudice, disse che non aveva difensori, perché nessuno meglio di lui sapeva difendere i propri interessi e a sua discolpa, cavando di tasca un pezzo di carta, lui, analfabeta, finse di leggere: "L'art. 83 del codice Albertino: il pascolo in campo altrui nel mese di giugno non costituisce reato". Non avendo a portata di mano il Codice Albertino, il Giudice assolse nonostante le invettive della parte lesa. E con l'assoluzione Carmine Marchetta ci guadagnò anche un bicchiere di vino che il Pretore volle offrirgli alcuni giorni dopo, quando aveva visto che l'art. 83 del Codice Albertino trattava della corruzione dei minorenni. 103 L'ACCIDENTE AL PREDICATORE V'è ancora chi ne racconta, ma non v'è più chi ricorda alcuno dei membri della famiglia Ricciardelli, che ebbe lustro nel nostro paese. Fra le persone anziane alcune ricordano ancora questo casato quando si parla della Scuola di Santa Maria (l'attuale poliambulatorio comunale), perché era quella la casa di abitazione di questa famiglia. Qualche articolo dei ruoli d'imposta fondiaria la ricorda pure, poi più nessuno. Noi ricorderemo un fatto di cui fu autore il prete Ricciardelli che aveva fama di magia e che dette molte volte prove di chiara intelligenza e di memoria portentosa. Nei tempi di cui si racconta, Montefalcone contava diversi sacerdoti, nei soliti circoli si parla di 22, che formavano la Collegiata di Santa Maria con a capo l'Abate. Tra questi spiccava per intuito pronto e per più profonda cultura il Ricciardelli. Sempre affollate erano le funzioni religiose ed ogni ricorrenza festiva era celebrata con selennità. Durante la Quaresima di quell'anno la predicazione era stata affidata al nostro Ricciardelli e siccome egli aveva con la sua parola infervorato il popolo, fu deciso che a chiusura del quresimale sarebbe stato chiamato un oratore forestiero di notorio valore. Ciò dispiacque al Ricciardelli perché vedeva menomato il suo prestigio con l'anteporre un altro oratore, quasi a fargli intendere dai suoi stessi confratelli, un poco invidiosi, che per un panegirico ben fatto egli non era all'altezza. E l'oratore arrivò accolto con grande riguardo a dispetto del Ricciardelli, che, anche se in cuor suo bolliva di rabbia per le ostentate riverenze dei suoi colleghi verso il nuovo oratore, si mostrava premuroso e riverente. Ma Ricciardelli non si perdeva per questo, anzi cercava il modo come trarre, da questa occasione, motivo per affermare di più la sua superiorità, sottovalutata dallo stesso nuovo oratore che posava da gran prelato, siccome portava aria di città e vedeva davanti a sé le teste chine dei preti di montagna. La sera della vigilia, dopo la cenetta, il nostro Padre si ritirò nella sua cameretta e, per facilitare la digestione, prima di mettersi a letto, andava su e giù per la stanza e intanto ripeteva, ad alta voce, rileggendo qua e là ove forse la memoria gli falliva, la predica che aveva tirata fuori dalla sua borsa. Era questo, e un po’ lo è ancora, un metodo usato dagli oratori, perché Ricciardelli aveva atteso quest'ora. Accostato l'orecchio all'uscio non perdeva sillaba. Quando il padre ebbe finito, il nostro Prete senza far motto si allontanò dalla porta e salutato e raccomandato, con la mimica da noi tanto espressiva, il silenzio al padrone di casa, si ritirò. Il giorno dopo, alla solenne funzione di chiusura, il prete Ricciardelli doveva tenere ancora una breva omelia; alla Messa solenne ci sarebbe stata poi la predica di chiusura del valentissimno oratore. Al vangelo il Ricciardelli si rivolse al popolo e cominciò l'esordio con le stesse parole dell'oratore forestiero, che, in sacrestia, seguiva la predica per avere un concetto della sua cultura. E la predica veniva fuori come dal suo manoscritto. Il povero oratore cominciò a sentirsi perduto. Il suo esordio era stato detto, come avrebbe fatto lui? Imbastirne un altro? E come si fa senza una preparazione? Sarebbero venute fuori idee e concetti non conseguenti alla predica che avrebbe dovuto fare dopo. 104 Intanto, dopo i pochi minuti si sosta, Ricciardelli ripiglia a parlare e svolge la predica, non con i concetti soltanto, ma con le medeme parole del provero oratore che, in sarestia, avvilito, ormai non sapeva più come rimediare. La chiusura della predica arrivò e al povero predicatore, accasciato, pareva che il Ricciardelli leggesse sul suo manoscritto. Alfine tornò in sacrestia, e come di consueto, ricevette il "prosit" di quanti vi erano. I due oratori poi rimasero indietro nell'angolo opposto alla porta e bisbigliavano: "Come hai fatto? quella era la mia predica....non i concetti, ma le parole e dal principio alla fine. Ora io non posso più predicare, come devo fare? Tu hai saputo far tanto, consigliami il modo per uscirne senza vergogna. E Ricciardelli che di trovate ne aveva sempre, consigliò al mortificato oratore, di accusare un malore improvviso. Il povero Padre, contorcendosi per acutissima colica, si rese impossibilitato a salire il pergamo. Ricciardelli si fece un poco pregare e poi assicurò che avrebbe preso lui il posto dell'ammalato e avrebbe imbastita un'altra predica per non deludere l'aspettativa dei fedeli. E la predica a conclusione del quaresimale la fece egli stesso, scusando il Padre colpito da improvviso malore. Ognuno, e i preti particolarmente, si aspettavano qualcosa di raffazzonato perché improvvisato, invece fu un panegirico che li stupì. Quando il Padre si acoomiatò per la partenza, chiese ancora al Ricciardelli come aveva fatto a ripetere alla lettera la sua predica, e questi, anzichè rispondere alla sua domanda, gli consigliò, nel caso avesse avuto altro invito, di non accettare il panegirico quando a lui, Ricciardelli, fosse stata assegnata l'omelia. 105 ZI’ MONACO SI SPOSA Forse era appena garzoncello quando vide i Frati nella Valle di Bovino ove era andato per visitare la Madonna e ne fu colpito.Si accese di santo entusiasmo e volle vestire pure lui il saio. Restò nello stesso convento fino a quando fu chiamato al servizio militare. La vita di caserma o forse la libera uscita gli fecero dimenticare i salmi e imparare nuovi versetti che poi cantò anche nella sua più avanzata età: "Quann' ero monaco tenevo 'u curdone, mo sò suldato r battaglione. Prim' ero monaco e purtavo o cappuccio, mo sò suldato e sparo 'a cartuccia". Finito il lungo servizio militare preferì il cappello al cappuccio e al convento la casa; sicome questa era vuota e fredda e della vita monacale ne aveva già troppo, pensò di passare a quella coniugale. Ad un bel giovane, alto, robusto, lavoratore e che, si capisce, contava anche questo, sapesse leggere e scrivere, non mancavano buoni partiti. La scelta ad alcuni non sembrò felice, ma egli ne fu contento: che la giovane avesse solo quindici anni, che fosse piccola e delicata, questo non contava. Aveva un viso da Madonnina e la delicatezza di un fiore; per lavorare ci avrebbe pensato lui: lei avrebbe accudito alla casa e avrebbe cresciuto i figliuoli (i munacielli) diceva, perché ora tutti lo chiamavano zì monaco. Al giorno fissato per le nozze prese parte anche il cielo: nebbia, piovaschi e vento, di quello che si conosce solo se si vive a Montefalcone. Lo ripetevano quelli che l'avevano detto anche prima, che la coppia era male assortita e specie ora: zì Monaco in abito di festa sembrava più grande, mentre lei, avvolta nel panno si perdeva tra la folla. Notavano gli invitati e la folla dei curiosi che l'abituale vena faceta non faceva risalto in zì Monaco nel giorno delle nozze e in chiesa guardò più la Madonna che la sposa, più i ceri che gli invitati, anche se questi gli erano addosso perché la chiesa era stretta e fuori era impossibile restarvi. Finita la cerimonia si pigiano all'uscita e appena fuori c'è da mantenersi il cappello, il mantello, lo scialle e ripararsi il viso dall'acqua che sbattuta dal vento pizzica il viso come ghiacciuoli. Be, si va? che facciamo qua fermi? Si aspetta la sposa. È ancora dentro? La sposa non c'è e lo sposo neppure. Chi li ha visti? Si, li ho visti, zì Monaco ha preso la sposa sotto un braccio, così in mezzo alla vita e mi pare sia andato da questa parte. Era vero. Zì Monaco profittando della confusione causata dalla folla, dall'acqua e dal vento, aveva alzato di peso la sua piccola sposa e se l'era svignata per la "strettola di penna rora". Agli invitati non rimase che andare a casa dello sposo a passo più svelto. Ma la porta era chiusa. Mentre commentavano la stravaganza, la finestra si apre, zì Monaco si affaccia, ringrazia e canta: " Per far festa di tempo ce n'è tanto, per quest'ora ho aspettato chi sa quanto". Salutò e richiuse la finestra. Con un tipo come zì Monaco, dicevano gli invitati sciamando, sarebbe stato strano se tutto si fosse svolto secondo le regole, ma questa uscita non si aspettava proprio. 106 Per tutta la giornata la porta e la finestra restarono chiuse e al mattino seguente la suocera di zì Monaco, quando si affacciava, trovava sempre tutto sbarrato. S'era fatto mezzogiorno e poi era suonato ventun'ora, la suocera preoccupata, bussò alla porta. La finestra si aprì e si affaccio ' zì Monaco: assicurò la suocera della salute della sposa e disse che a quell'ora non valeva la pena di alzarsi; non avevano bisogno di nulla, si sarebbero rivisti il giorno dopo e ....richiuse la finestra. Quando a zia Monaca (forse pochi nella vecchiaia ne ricordavano il nome di battesimo) si domandava che cosa pensava lei quando il marito la tenne per due giorni e due notti a letto, ella felice rispondeva: "Aveva chiuso la finestra e mi diceva sempre che era notte ancora, al secondo giorno mi disse che era il primo. Io non dubitavo della sua parola, come non ne ho dubitato mai". Piccolina, secca, carica d'anni zia Monaca raccontava sempre del suo giorno di nozze ai numerosi nipoti, che ora, vecchi anch'essi tramandano la storia e il nome della numerosa famiglia di cui nessuno ha dirazzato. Ricordo Giuseppe, l'ultimo nipote, che incarnava la figura fisica del nonno, a settanta anni, vegeto e sano faceva giocare sulle ginocchia il suo sedicesimo figlio. 107 LE SCAMORZE DELL'ARCIPRETE La casa di quel vecchio scapolo: il medico don Ciccio Mansueto era il ritrovo degli amici; studiati tressette e cavillose discussioni si alternavano intorno al tavolo rotondo posto in mezzo al quadrato salotto che accoglieva i signori del tempo. Giochi e burle, a danno or di questo e or di quell'amico, erano all'ordine del giorno. Una mattina il crocchio dei soliti amici vede una donna che portava delle scamorze all'Arciprete Palazzi, il quale da più giorni disertava le riunioni a causa della gotta che lo tormentava e lo costringeva a letto. L'idea di fare una burla all'Arciprete era venuta a tutti, ma come fare per privarlo delle scamorze? Capita a buon punto Gian Fedele Lucarelli, spirito caustico e burlesco che s'impegna di portare le scamorze che poi sarebbero venute a tavola durante l'abituale cenetta fra gli amici. Dopo qualche oretta ecco Gian Fedele di ritorno e col trofeo alzato: otto scamorze legate a paia con un giunco. Fanno festa all'arrivato come ad un campione vincitore e tutti lo assillano con la stessa domanda: "Come hai fatt?" Quando sono entrato, ho trovato la sorella, che mi ha fatto subito passare nella stanza. Il povero Arciprete supino sul letto, impossibilitato a muoversi, si lamentava per la gotta. Ho detto che, oltre al dovere di una visita, avevo desiderio di confessarmi. Sono contento, mi ha detto. Sapete, Arciprete, che sono un buon cristiano e sono venuto qua perché non mi piace mostrarmi in chiesa; ogni tanto una crisi di coscienza ci spinge a metterci in grazia di Dio. Mi ha fatto chiudere la porta e mi sono inginocchiato. La cassa con le provviste, voi sapete, l'ha sotto il letto e mi sono impegnato ad aprirla senza far rumore, mentre ad alta voce recitavo il Confiteor. Il letto però, per quanto alto, non consentiva una larga apertura e il braccio arrivato a un certo punto non passava più. Tirare la cassa avanti non era possibile. Ho cominciato col dire qualche peccato e intanto armeggiavo con le dita per trovare le scamorze. È venuta alle prese un filo e ne ho tirato due. Allora subito ho confessato: Padre, ho preso due scamorze. È peccato prendere la roba d'altri, il settimo comandamento lo sai e mi ha fatto una predica sulla gravità di questo peccato. Ho continuato con l'accusarmi bestemmiatore e qui non ha fatto grandi meraviglie, ma ha cercato di farmi comprendere l'offesa a Dio e la inutilità della bestemmia. Io seguivo il suo dire per acconsentire ov'era il caso, in modo da non mostrarmi distratto e spingevo il più possibile la mano per trovare altre scamorze. Ho preso intanto un altro filo, ho passato le scamorze in tasca ed ho confessato il secondo paia. Altri ammonimenti ed io, profittando del suo parlare, facevo del mio meglio per trovare le altre. 108 Ho aggiunto che manco ogni tanto alla Messa, ho cercato di giustificarmi e prima che si passasse ad altro argomento ho potuto confessare anche il terzo paia di scamorze. È grave, ha detto lui, e sempre alla stessa persona? Si, Padre. Devi riparare, bisogna restituire, non puoi tenerti la roba d'altri se vuoi essere in grazia di Dio. E come faccio Padre? Restituendola al padrone. Padre, le volete voi? Io no, non posso pigliarle. Ma neppure il padrone le vuole. Ma tu glie lo hai domandato? Si, Padre. Il peccato è sempre grave, figliuolo, e tu per metterti a posto con la coscienza devi restituire la roba presa. Sono pronto, Padre, le porto a voi se le accettate. Ma io non posso pigliarle; te l'ho detto... E il padrone si rifiuta di pigliarle, glie l'ho detto più d'una volta, che debbo fare? Se è così, se il padrone alla tua offerta le rifiuta, puoi tenerle, però non devi farlo più, perché... e quì ha continuato la predica, mentre io mi sforzavo vanamente di trovare il resto. Finalmente il quarto filo è venuto alle dita e l'ho confessato. Ancora un altro paia? e sempre alla stessa persona? Sì, Padre. E il padrone non si è accorto di nulla. Potevi dirle tutte in una volta. L'ho fatto così com'è venuto il filo. Egli ha capito che io dicessi il filo cronologico dei peccati, io invece intendevo dire il filo delle scamorze. M'ha fatto tanti ammonimenti, m'ha parlato della bontà di Dio verso i peccatori pentiti, mentre io spingevo il più possibile la mano nella cassa. Poi mi ha domandato: "c'è altro?" Io non avendo trovato niente ho risposto:"Mi pare che non ci sia niente altro". Mi ha assolto. Gli ho fatto gli auguri, l'ho salutato ed ora sono qua. Che i furti operati da Gian Fedele si riferissero alle sue scamorze l'Arciprete se ne accorse quando disse alla sorella di prepararne alcune con le uova per il pranzo. Non trovò nulla da obbiettare perché a scherzi del genere c'era stato anche lui altre volte. Solo si dispiacque, e moltissimo, che Gian Fedele aveva abusato di un sacramento per fare uno scherzo. Pregò la sorella di andare per aver qualcuna di quelle scamorze, sperando che si commuovessero per il suo stato di salute. E la fece andare da don Ciccio, perché sapeva ove potevano essere andate le scamorze. Ma non l'ebbe perché, così gli fecero sapere, non le aveva volute neppure prima, quando Gian Fedele glie le aveva offerte. 109 PROVERBI "L'uomo primitivo non sapeva pensare per concetti astratti ed universali dicono Altamura e Giuliani nel loro libro "Proverbi napoletani" - ma esprimeva i suoi pensieri e le sue osservazioni sul mondo esterno e sulle azioni proprie e dei propri simili ora mediante la narrazione di un aneddoto o di una favoletta o di una parabola, ora nella forma di un breve paragone mediante un proverbio. I Greci chiamarono "paroimia" quel che i Latini dissero poi "adagium". Anche Aristotile scrisse un libro sui proverbi, ritenendoli frammenti di una antica sapienza, in cui attraverso un particolare del mondo reale, si enunciava una legge del mondo ideale. Etimologicamente "proverbio" proviene dal latino "probatum verbum o pro verbo" e secondo una definizione medioevale, -riportata ancora da Altamura e Giuliani- è una "sententia brevis ad instructionem dicta, comodum vel incomodum grandis materie manifestam" elaborata nel lungo corso dei secoli dall'esperienza collettiva e adoperata per tramandare, in forma breve e concettuosa, i precetti e i sentimenti degli antichi ed in questo identificarsi con la voce dei vecchi, pigliano anche il nome di "detti o motti antichi". Ne abbiamo riportati solo pochi, sia perché molti sono comuni ad altri paesi, sia perché sarebbe stato impossibile raccoglierli tutti; quant'anche avessimo scritto un intero libro sui proverbi paesani, ce ne sarebbero sempre sfuggiti! Chi fa e sfà nun perd mai tiemp (Chi fa e disfà non perde mai tempo) Parola ritta e preta menata nun tornan addret (Parola pronunziata e pietra lanciata non ritornano indietro) Nu fascio r malerba avasta a cient cavall (Un fascio di erba cattiva basta per cento cavalli) Tiemp r viern e cul' r criatur nun stai mai sicuro (Del tempo d'inverno e del sedere dei bambini non puoi essere mai sicuro = facilmente ti trovi bagnato) Viest cippon ca pare barone (Vesti il ceppo e ti sembrerà barone) Se canti nun puort 'a croce (Se canti non porti la croce; non si possono fare due cose contemporaneamente) Ama a chi t'ama a rispunn a chi ti chiama Pe gabbà 'u vicino, cuolechete presto e auzete r matina. Chi si corica s'auza (Chi si corica presto ed in pace con i vicini è sicuro dalle offese dei malviventi nottivaghi) Chirica rasa e preta cautela nun fallisce mai 'a casa (Nella casa dove c'è un prete o un mulino non c'è mai miseria) Zappa 'a vigna e trumient 'u cannit (Zappa la vigna e guarda il canneto fare due cose contemporaneamente) Famm prima a famm ciuccio Chi nun sap scurticà guast carn e pelle (Chi non sa scorticare guasta carne e pelle) Chi nasce niglio nun po’ murì vussacchio (Chi nasce quadro non muore tondo) Quan vomm r tutt 'i misi, gran senz'assise (Quando tuona(piove) di tutti i mesi, grano in abbondanza). 110 Ahi camelo, quann' hai ammurtat 'a cannela, come eja Cuncetta eja pur Carmela (Hegel lo spiegherebbe: "Di notte tutte le vacche sono nere") Chi vol va e chi nun vol manna (Chi vuole va e chi non vuole manda = chi fa da se fa per tre) L'hann miss a pan r gran (Per dire che era ammalato gravemente. Ci ricorda questo proverbio la povertà della nostra gente, che abitualmente doveva accontentarsi di pane fatto con farina di granone " 'u paruozzo" e mangiava pane di grano solo se gravemente ammalato). Ha fatt' 'a fin e San Sebastian: nur e 'nat 'a porta (Proverbio venuto dalla posizione del Santo, che collocato in una nicchia posta vicino alla porta della chiesa di S.Maria, dove si sviluppava una corrente d'aria fredda) Chi se sposa int'u vicinato, veve nd'u bicchiere, chi se sposa int'u paese, veve nd'a giarra, chi se sposa fore paese, veve nd'u cicine (Chi si sposa nel vicinato, beve nel bicchiere chi si sposa nel proprio paese, beve nella giara, chi se sposa in paese forestiero, beve nell'orciuolo cioè: Quanto più la sposa è conosciuta tanto più il matrimonio può ben riuscire ed essere felice). Ch lu mò e ch lu tè l'amicizia se mantè(ne); ch lu mò e nun lu dà' l'amicizia se né va (Col prendere e dare l'amicizia si mantiene; ma col prendere e non ricambiare, l'amicizia se ne va). Marito e figli, come Dio ti dà ti pigli. Chi te sape, t'arape (ti apre) Chi mora mora e chi resta se cunzola. Sott 'a stà man 'nci chiove (A significare che tutto viene ripagato) L'arte e chi 'a sap fà, se nun s'arrecchisce ce camparrà. Figli r gatt angappa surge Vicinato mio, specchiale mio (Il mio vicinato è il mio specchio) Chi racioppula pure vennegna (Anche raccogliendo i grappoli lasciati si fa un po’ di vino) N'cppa a 'sa toppa ha fatt l'aria , e mo vientele! (Hai fato l'aia su quella collina? e non ventilerai = Hai stabilito le promesse per una cosa impossibile). Trippa chiena canta e no cammisa janca (Meglio essere sazi che eleganti) I cunzigli ch 'nzi pagano, 'nzò sentuti (I consigli che non si pagano non sono ascoltati). Mala nuttata e figlia femmeba (Quando tutto va al rovescio!) Stuorto e male cavat (Disgraziato e cattivo) Casa vicina a signore e fore (campo) vincin a vallone, arrivi a do nù vuoie. A gallina fà l'uovo e 'u gall scacheteglia. Chi a tiempe se prepara a ora magna (Chi ha tempo non aspetti tempo) Patre e patrune vuonne avè sempe ragione Chi cumanna fa legge 111 Fà' carn 'e puorco (Far grossi guadagni) È morta 'a criatura e nun sim cchù cumpari (Finito un interesse, finisce il bisogno reciproco) Addò femmene senza figli nun ce j né pe fuoco né pe cunsigli (Dalle donne senza figli non andarci né per aiuto, né per consigli) U zappà d'a femmena e o faticà d'a vacca, povera quella terra che nce ancappa (Nei lavori dei campi occorrono uomini e buoi e non donne e vacche!) Tre cose nun stancano mai: bona salute, bon tiemp e pane e grano! 112 CONCLUSIONE Nel corso del nostro lavoro abbiamo cercato, per quanto ci è stato possibile, di dare una visione, anche se non del tutto completa, almeno sintetica della storia della nostra terra, della vita del nostro popolo. Non è tutto - come dicevamo nella prefazione - perché alcune cose non abbiamo potuto trattarle per mancanza di documentazione, ma ci siamo occupati di ricostruirne la storia e raccogliere quello che ancora i vecchi ricordano, prima che tutto vada perduto e dimenticato e invogliare gli altri a fare qualcosa di più e meglio. Qualche volta abbiamo sacrificato la metodologia per non rendere troppo pesante il testo. "La storia si crea a poco a poco per l'attività dello spirito che costruisce nuove forme di conoscenza, nuovi ideali di vita, nuovi sentimenti" - dice Aliotta, ma questo non inteso nel senso che il presente è in virtù del passato che dura in esso e si arricchisce di nuovi concetti; perciò, per meglio comprendere l'animo del nostro popolo, ho voluto aggiungere i suoi usi, le sue credenze, i suoi canti, i suoi racconti, per meglio unire nel presente la nostra fisionomia del passato per un continuo perfezionamento, per l'acquisizione dei più alti ideali, per mantenere saldo quel vincolo di affettività che distingue la nostra gente, quasi membri di un'unica famiglia, che ancora gioisce e soffre delle gioie e dei dolori degli altri. Vuole esere questo lavoro un attestato di amore per tutti i nostri compaesani, ovunque essi si trovino, affinché sappiano che li vogliamo bene come alla nostra terra, tanto che "Poi che la carità del natio loco mi strinse, raunai le fronde sparte". 113 BIBLIOGRAFIA ANIONELLO C. La conquista del Sud (Il Risorgimento nell'Italia Meridionale) Edit, Rusconi, 1972 ALTAMURA A. Proverbi napoletani GIULIANI V. Fausto Fiorentino Edit. Napoli, 1966. CIRELLI F. Il Regno delle due Sicilie (descritto ed illustrato) vol.2-VIII, Napoli 1853. CORTESE N. Feudi e Feudatari Napoletani della prima metà del cinquecento (Da documenti dell'Archivio general di Simancas)Società Napoletana di Storia Patria, Napoli MCMXXXI. MARRONE F. Milano, ROMANO F. Baselice (Statuti Comunali Catastato onciario - Folclore) Napoli, Edit. Mediterranea, 1972. Dizionario Geografico Regionato del Regno di Napoli (1797)- Tomo VI Napoli 1803. La Regina del Sannio (descrizione coretnografica e storica della Provincia di Benevento) Napoli, Edit. P.Federico e G.Ardia, 1918 Napoli la Campania (Storica, Pratica ed Artistica) Napoli, Libr.Edit. La Luce del pensiero, 1922. P.Lodovico Ventura (profilo spirituale e antologia dei suoi scritti) II ediz., Benevento. Edit. La Madonna delle Grazie, 1965. I Comuni della Provincia di Benevento (Storia - Cronaca - Illustrazione) Benevento, Stabilimento Lito - Tipografico Editoriale De Martini di C. Ricolo, 1970 Origini del Santuario del Carmine in Montefalcone Valfortore (Estratto di Samnium Gennaio-Giugno 1968. Le Sorgenti Italiane (Elenco e descrizione - Campania Sezione Idrografica di Napoli) Vol. VII Istituto Poligrafico dello Stato, 1942. I Briganti Italiani - vol. 1 - 2 Milano, Edit. Longanesi e C., 1967. La Nobiltà delle due Sicilie (Istoria dei Feudi delle due Sicilie di qua dal Faro intorno alle successioni legali nei medesimi dal XV al XIX secolo) parte I^, vol.III, Napoli, Stamperia De Pascale, 1865. Almanacco del Sannio 1956 Benevento, Ediz.Secolo Nuovo. ROTILI M. Benevento e la provincia sannitica Roma, A.BE.T.E., 1958. SACCO F. Dizionario Storico-Fisico Napoli, MDCCXCVI. SANGIUOLO L. Il brigantaggio nella Provincia di Benevento, 1860 - 1880 De Martini Edit. Benevento, 1975. SAPEGNO N. Storia Letteraria d'Italia (il Trecento) Milano, Ediz. Fr.Vallardi, 1960. TRIA G.A. Memorie storiche civili ed ecclesiastiche della Città e Diocesi di LarinoMetropoli degli Antichi Frentani - In Roma, per Gio.Zempel presso Monte Giordano, MDCCXLIV. VITALE T. Storia della Regia Città di Ariano Roma, Salomoni, 1794. ZEPPA R. La demoiatrica nel Valfortore Tip. del Carmelo, Montefalcone Valf., s. GIUSTINIANI L. IAMALIO A MAGGIORE D. MARTINI C. MEOMARTINI A. MINELLI D. MINISTERO DEI MONTI M. RICCA E. d.Registri della Cancelleria Angioina Ricostruiti da RICCARDO FILANGIERI con la collaborazione degli Archivisti Napoletani. Catalogo dei Baroni, in Barrelli vindex neapolitanae nobilitatis Napoli, 1653. 114 Registro delle Annue Rendite del Clero del Comune di Montefalcone 1734.Statuto della Società Operaia di Mutuo Soccorso di Montefalconefalcone Valfortore Ariano, Stab. Tip. Appulo Irpinio, 1908. Archivi Parrocchiali di Montefalcone Valfortore. Giornale dell'Indipendenza di Capitanata Foggia; (A. 1916 - 1917) Samnium (Rivista Storico trimestrale) diretta da A.Zazo Benevento, Archivio Storico S. Sofia (Ann. varie). Bolletino del Santuario del Carmine dirett. Abate Petrilli Montefalcone Valf. (An. 1926-19271928). Valfortore (Quindicinale di vita paesana)dirett. A.Zeppa Montefalcone Valf. (An. 1949-19501951). 115 INDICE Faccia r garofano.....................................................................................................................................14 Faccia di garofano.....................................................................................................................................14 Auzete bella mia.......................................................................................................................................14 Faccia r cicoria.........................................................................................................................................15 Faccia di cicoria.........................................................................................................................................15 Le due sorelle.............................................................................................................................................16 Africanella..................................................................................................................................................16 Ncopp a muntagna r Muntefalcone...........................................................................................................16 TERRA AMARA..........................................................................................................................................17 Na, na, na, n'avimm com fa....................................................................................................................17 TERRA AMARA..........................................................................................................................................18 G E S U ' M O R I B O N D O.....................................................................................................................19 GESU’ MORIBONDO.................................................................................................................................21 116 note 1. 2. 3. 4. Conglomerato di grossi ciottoli di forma tondeggiante a cemento siliceo. Plinio, Historia Naturale, libro 3, cap.XI. Filippo Cirelli, Il Regno delle Due Sicilie descritto ed illustrato vol.2-VIII, Napoli La misurazione locale del terreno viene fatta a tomoli che è uguale ad ettaro 0 -zero, trentatre are e trentatre centiare. Ha 0, 33.33 5. Il termine è causticamente esteso a chi cerca di imbrogliare o di risolvere "problemi" a modo suo e sbrigativo. 6. Filippo Cirelli, Il Regno delle due Sicilie descritto ed illustrato, v.2-VIII, Napoli 1853, p. 7. Cluverio, Italia Antiqua, Ediz. di Leida, 1624, tom.2, lib.4, cap.9. 8. Anonimo di Milano, Tavola Corografica Medii Aevi fert 22 num.128 presso Il Muratori, tom.10 delle cose d'Italia, col 275. 9. A.Jamalio. La Regina del Sannio, descrizione coretnografica e storica della Provincia di Benevento-Edit.Federico & Ardia, Napoli 1918 p.252 10. P. Lodovico Vewntura riportato da P. Cherubino Martini in P. Lodovico Ventura-Profilo spirituale e antologia dei suoi scritti, 2^ediz., La Madonna delle Grazie Edit. Benevento, 1965, p.279-Cluvia in nota. 11. Lucio Camarra, De Theate antiqua, lib.2 cap.6 12. vedi Op. Tedesca Stamer: Die Verwaltung der Kastelli in Konigreich Sizilien unter Kaiser Fridrich II und Karl I Anjen Capitanata, Leipezig 1914. 13. Come risulta dai Diurnali del Duca di Montefalcone, a cura di N. F. Feraglia, Napoli 1825, fol.17. 14. Tommaso Vitale, Storia della Regia città di Ariano Roma, Salomoni, 1794, p.327. 15. Filippo Cirelli, op.cit. p. 16. Registri della Cancelleria Angioina (V.II -1265-1281) nell'anno1269-luglio 9- Indizione XII. In obsidione Lucerie. 17. Il milite Giovanni di Salerno fu preposto al Castello di Crepacorde per prendere i Saraceni che per colà passavano. D. Reg. n^4, fol. 119. E vedi pure nel Reg. n^14 fol. 19 altri diplomi del 4 agosto 1269 relativi al pagamento dei serventi. 18. Cfr. I Registri della Cancelleria Angioina Vol.XI, p.276. 19. L'istrumento e l'assenso regio sono trascritti nel vol. 15 dei privilegi della Regia Camera della Sommaria che prima veniva denominato Privilegiorum 42, anni 1473 ad 1477, dal fol. 226 a tergo al fol. 233 20. Cfr. Giacomo Guglielmo Imhof: Corpus historiae genealogicae Italiae ed Hispaniae, famiglia Caracciolo, tav. XVII p. 280 21. Le tavole nuziali che furono rogate dal Notaio Ambrogio Casanova di Napoli e l'assenso regio impartito su le medesime, si leggono nel quinternione segnato al presente col n^ 23, e prima col n^ XVIII, dal fol. 107 al 121. 22. I documenti esibiti per il pagamento di tale relevio si trovano dal fol. 173 al fol. 209, del vol. 288 degli atti pe’ relevi, che prima s'intitolava "Liber secundus originalium releviorum Principatus Ultra et Capitanatae anni 1542 ad 1549. 23. Cfr. il repertorio de’ quinternioni della provincia di Principato Ultra, vol. 1, fol. 237, ove si citano i quinternioni 47 e 90 che al presente mancano. 24. Cfr. Processi della Regia Camera della Sommaria vol. 150, pandetta antica n^ 4405. 25. Vedi Cedolario del Principato Ultra, A. 1639, Relazione fol. 94. 26. Vedi Vol. Titulorum 3^ della cancelleria del Collaterale Consiglio, anno 1621-1629 fol. 152. 27. Vedi registro significatoriarum releviorum, Anno 1627-1629, fol. 69-73. 13) Per l'assenso regio e l'exequatur vedi vol Titulorum 3^ fol.152-156. 28. Questi fu figlio di Giuseppe, come si desume dal vol. 317 dei processi della Regia Camera della Sommaria notati nella pandetta antica, n^ 3814. 29. Cedolario della Provincia di Principato Ultra, A.1696, nella relazione del Razionale, fol. 352. L'assenso regio è trascritto nel quinternione n^ 308 (prima n^ 229) dal fol. 245 al 283. 30. Il diploma e l'exequatur sono trascritti nel vol. Titulorum 8 della cancelleria del collaterale Consiglio n^ 1676-1696, dal fol. 600 al fol. 605. 31. Le notizie sul "Feudo di Montefalcone" sono tratte dal fondo "Tribunale Civile di CapitanataContributi" presso la Sezione Archivio di Stato di Lucera. 32. Il processo fu esposto nella Mostra Storica del 1848 in Capitanata, che si tenne per lo spazio di alcuni mesi presso il Museo Civico di Foggia, Mostra il cui Catalogo fu pubblicato dall'Avvocato Mario Simone, Presidente del Comitato per le Celebrazioni Daune del 1848. Il processo si conserva nella Sottosezione dell'Archivio di Stato di Lucera. 117 33. Pasquale Villari, Lettere meridionali ed altri scritti sulla questione sociale in Italia, riportato da Luisa Sangiolo, Il brigantaggio nella provincia di Benevento 1860-1880, De Martini Ed. Benevento, 1975, p. 61. 34. Carlo Anianello, La conquista del sud - Il Risorgimento nell'Italia Meridionale, Rusconi Edit. Milano 1972, p. 247. 35. Mario Monti, I Briganti Italiani, vol. 1, Ediz. Longanesi e C. Milano 1967 -Ediz. Pocket, p. 1718. 36. Il brigantaggio nel Sannio: La figura e le gesta di Michele Caruso di Aldo Gambatesa in "Almanacco del Sannio 1956" Ediz.Secolo Nuovo, p. 123-136. 37. Luisa Sangiuolo, Il Brigantaggio nella Provincia di Benevento- 1860-1880- De Martini Edit. 1975, pp 124-130 38. Il manoscritto è riportato da D.Donato Minelli in "Origine del Santuario del Carmine in Montefalcone Valfortore" in estratto di Samnium, (gennaio-giugno 1968). 39. Canna = misura di lunghezza che variava secondo le regioni e nel napoletano misurava m.2, 11. 40. Palmo = spanna, misura di lunghezza che nel napoletano era di m.0, 254. 118