montefalcone di valfortore

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montefalcone di valfortore
L E O N A R D O (P. S E R A F I N O ) Z E P PA
MONTEFALCONE DI VALFORTORE
Appunti di storia tradizioni cronaca folklore
" Poi che la carità’ del natio loco
mi strinse, raunai le fronde sparte"
Inf.XIV, 1.2.
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L E O N A R D O (P. S E R A F I N O o.f.m.) Z E P PA
MONTEFALCONE DI VALFORTORE
APPUNTI DI STORIA TRADIZIONI FOLKLORE
" Poi che la carità' del natio loco
mi strinse, raunai le fronde sparte"
Inf.XIV, 1.2.
Questo lavoro è rimasto per oltre una dozzina di anni abbandonato tra le altre
mie carte, poi amici mi hanno convinto che non poteva essere di una qualche
utilità' per la conoscenza delle nostre radici locali.
Quando è stato compilato, attraverso pazienti ricerche, ancora nessuno aveva
scritto
sull'argomento, ma nel frattempo sono venuti alla luce altri lavori sul nostro paese.
Non e' il caso, naturalmente, di vantare diritti di primogenitura quando si lavora per
la propria terra, il vanto può consistere proprio nell'averlo fatto.
Presento ai lettori e agli amici il frutto di queste mie ricerche, senza aggiunte
e senza pentimenti, nella convinzione che esse possano essere un umile omaggio
alla terra che mi ha dato i natali, e a quanti ad essa sono affettivamente legati.
Benevento, 8 dicembre 1985
Padre Serafino Zeppa
o.f.m.
2
INTRODUZIONE
La storia dei nostri paesi la potremmo identificare, quasi sempre, con la vita
abituale dei suoi abitanti, fatta di lavoro e di umanità'.
Questa cronaca, che è storia di vita, è un po’ l'anima dei nostri padri che vive
in noi, che continuare in quelli che dopo di noi verranno.
È patrimonio da salvaguardare per l'uomo di domani,
prima che tutto si
dimentichi.
Era stato un mio desiderio
di sempre,
poi spinto da amici e con la
collaborazione dei miei fratelli, ho messo insieme queste note.
Non è tutto, non è molto, ma scrivere la storia di un paese è sempre
un'impresa ardua ed io spero che altri dopo di me facciano meglio.
Queste note vogliono essere l'attestato di un atto di amore a
quelle case arroccate sul monte, ai suoi abitanti legati alla nostra terra dallo
stesso affetto.
Lassù' c'è tanto di noi, i nostri morti, il ricordo della nostra fanciullezza, la
speranza di un sereno domani.
Lassù' c’è tutto di noi: il primo plasmarsi del nostro carattere che ci fa tutti un
poco simili: spalle forti alle avversità della
vita,
cuore aperto alle sofferenze,
animo proteso alla fraternità'; per questo, noi Montefalconesi, costretti ad emigrare
"con la speranza di far altrove fortuna", anche se siamo dappertutto, ci sentiamo
come membri di un'unica famiglia e le cose di casa vanno ricordate.
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CONFIGURAZIONE
Sugli Appennini che poi degradano e fanno corona al Tavoliere, sull'estrema
parte della Campania che s'accosta al Molise e alle Puglie, a cavaliere sullo
spartiacque tra l'Adriatico ed il Tirreno, è situato Montefalcone di Valfortore.
Sorge questo paese su solida roccia puddinga (1) sul declivio di un ampio colle
che si eleva maggiormente dalla parte occidentale, all altezza di 850 metri s.l.m. in
modo che fino a poco tempo fa assumeva la forma di un falco in volo.
È l'ultimo comune della provincia di Benevento.
Dall'alveo del Fortore, presso la confluenza con il Vallone San Pietro, inciso
nelle arenare mioceniche, inizia il confine del suo tenimento, che raggiunge M.
Fagotto (m.897), da qui, seguendo la Valle dei Cesari o Varo di Cesare, sino a
m.870, tra le cime della Difesa Vecchia.
Passa quindi presso il bosco di Castelfranco in Miscano ed il Poggio Monticelli
(m.834), raggiunge m. 742.
Infine, girando a N.O., raggiunge il greto del Vallone Giuliante, ritornando
sull'alveo del Fortore.
Resta, perciò, delimitato a N.E. dal territorio di Foiano Valfortore verso S.O. con
gli agri di San Giorgio la Molara, mentre a S.E. con gli agri di Castelfranco e di
Ginestra, infine, ad Est con quello di Roseto Valfortore. È posto a 41, 15 gradi di
latitudine Nord, a 2, 30 gradi longitudine Ovest.
Dal colle, nella parte superiore, sono visibili i monti della Terra di Lavoro, del
Molise e della Capitanata.
Fa parte della XII zona montana del Fortore con una superficie di kmq. 41, 72.
Però la sua particolare posizione geografica aperta ed esposta ai venti, per la
sua altimetria e per la sua lontananza dal mare, Montefalcone ha il clima con le
caratteristiche quasi di quelle "Boreali": l’inverno è particolarmente freddo, umido
con abbondanti nevicate ed è abbastanza lungo; la prima nevicata si ha
abitualmente ai principi di novembre e l'ultima verso la fine di aprile. Le stagioni
di transizione (primavera ed autunno) sono brevi, umide e fredde; l'estate mite.
Durante il periodo invernale la neve cade abbondantemente e spesso si resta
completamente isolati.
Ghiaccioli traslucidi, poliformi, a guisa di svelte stalattiti, pendono dai tetti,
mentre un gelido vento trasporta innumerevoli granellini di neve, oscurando il cielo
('a pulivina!).
Era abitudine, fino a poco tempo fa, di suonare le campane a intervalli nei
giorni di tempesta: il loro suono serviva a fare orientare facilitare, quindi, la strada
del ritorno ai contadini che si trovavano sparsi per i campi.
Dominano sovrani per quasi tutto l'anno la borea, lo scirocco e la tramontana.
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IDROGRAFIA
Da questi monti, come le passerelle di un grande anfiteatro, tanti torrentelli
confluiscono, al disciogliersi delle nevi, nel Fortore (antico Frento), che in questo
territorio ha la sorgente (a Grotte m. 835) e sbocca nell'Adriatico segnando il confine
della zona frentana, secondo alcuni geografi, segna anche il confine tra l'Italia
Centrale e quella Meridionale. Il suo corso è di 76 Km fuori della nostra provincia.
La larghezza dell'alveo varia dai 10 ai 200 metri. È a carattere torrentizio, magro
d'estate e procede lento e pacifico; si ingrossa paurosamente d'inverno, rodendo
centinaia di metri cubi di terra fertile e provocando paurose frane.
Anticamente fu chiamato anche Theano, dalla omonima città (di cui non vi
sono più tracce) che sorgeva alla sua destra. È ricordato da Plinio nella Historia
Naturale: "Flumen pontuosum Frento, Theanum Apulorum, itaque Larinum Cliterea,
Tifernus hominis". (2)
Plinio lo assegnò alla Daunia, secondo la ripartizione orografica di Augusto.
Secondo l'Alberti fino al secolo XVI era navigabile alla foce.
I danni che il Fortore reca alla valle che attraversa sono parecchi, pochi invece
i vantaggi, ad eccezione del lavoro procurato ai nostri operai per i tanti cantieri che
dall'epoca fascista si sono susseguiti per opera della Forestale, per cercare di
arginarlo e limitare i danni alle colture.
A SW di Montefalcone, verso la montagna di S. Giorgio la Molara, è ubicato
un laghetto detto "lago Mignatta", perché ivi si trovavano moltissime sanguisughe,
distrutte poi perché, per pescare le anguille ed altri pesci che vi si trovavano, vi
buttavano dentro la calce.
Ora il lago, anche a causa dei detriti terrosi depositati per lo spostamento di
terra per la strada Montefalcone-Bivio di S. Giorgio-90bis, è diventato un acquitrino
paludoso ed alle sue sponde vegetano erbe selvatiche, nonostante le promesse
che sarebbe stato curato per allevamento delle trote ed altri pesci pregiati.
Parlando dell'idrografia di Montefalcone è necessario dare un accenno alle
numerose fontane di cui è ricca, e direi che allietano, il suo territorio.
In contrada "Prato" sorge una bella fontana dalle acque limpide e cristalline.
Ha sul davanti un vasto prato in dolce declivio, dove tanti cittadini vanno a
consumare la loro merenda nei meriggi estivi.
In contrada "Turzo Vecchio", non lontano dal centro, nella sua parte più
bassa, sotto un balzo di roccia calcarea sorge un'altra fontana di acqua purissima
con dinanzi la visione del bosco detto "dell'Abate"; mentre sulla provinciale che
mena a Castelfranco in Miscano, vi è l'acqua detta del "Pilone", luogo della
quotidiana passeggiata dei giovani e dove, durante il periodo di magra, vanno ad
attingere acqua numerosi forestieri dei paesi limitrofi.
Numerose poi le fontanelle lungo gli agresti sentieri che nel loro limpido
gorgoglio o nel murmure sommesso fanno da bordone allo spirar dei venti, danno
un senso di refrigerio e tanta nostalgia producono quando si è costretti a vivere
lontano.
Nel libro di Filippo Cirelli: "Il Regno delle Due Sicile descritto ed illustrato" si
legge: "Vi sono nel tenimento di questo Comune, e quasi tutte vicino all'abitato,
meglio che ottanta fontane, tutte di acque perenni, potabili e di ottima qualità.
Vi è poi a Sud il torrente Mazzocca che serpeggia alle falde di Ginestra degli
Schiavoni ed il S. Angelo che confluiscono nel Miscano". (3)
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FLORA
La flora, essendo il clima variabile, ne risente sensibilmente.
V'è la vegetazione spontanea della ginestra che, come la nostra gente, ne
sembra infatti il ritratto, si abbarbica a poca terra, dà al brullo paesaggio estivo
una nota di colore e contiene il terreno franoso lungo i dirupi.
Nel periodo della guerra di Abissinia, durante le sanzioni economiche, fu pure
fittato il terreno alla "Crocella", attuale rione S. Marco per farvi sorgere una industria
tessile per sfruttare le fibre delle ginestre; poi sopraggiunse la seconda guerra
mondiale e non se ne fece più niente.
Una volta grandi ed estesi querceti dominavano buona parte del territorio,
dando facile rifugio ai "briganti" che infestavano la zona; l'aumento della popolazione
relegò queste maestose piante in macchie più o meno estese, lasciando ai luoghi
solo il ricordo del nome: bosco Gallizia, bosco dei Coralli, ecc...
Venuti meno i boschi si cominciarono a coltivare i cereali su più vasta scala,
tanto da poter soddisfare l'esigenza del Comune e poterne anche esportare; ora si
coltiva frumento, granoturco, avena, ecc.
Oltre ai piccoli boschetti accennati, vi è un bosco di proprietà del comune,
folto ed incantevole, con un'estensione di 500 tomoli. (4)
Fra gli alberi più diffusi, oltre al quercia, vi è il pioppo, olmo, l'acacia e l'acero
ed ora cominciano a svilupparsi le piante resinose (pino, abeti, ecc.) messi a
dimora dal Corpo Forestale dello Stato per l'opera di rimboschimento.
Nella parte bassa dell'agro montefalconese, specie in contrada "Isca", vi
sono dei vigneti, oliveti e limitati frutteti che, per la configurazione ed esposizione
della zona, producono, anche se poco, vino ed olio di ottima qualità.
Da menzionarsi sono gli asparagi ed i funghi, e fra questi il più squisito il
"Cardarello", che crescono spontanei e sono ricercati per il loro sapore.
La popolazione, anche quella agricola, vive nel centro abitato, tanto più che
d'inverno, date le abbondanti nevicate, è impossibile vivere in campagna ed i
contadini ogni giorno percorrono fino a tredici quattordici chilometri, tra andata e
ritorno, per recarsi nei campi.
Il territorio è occupato anche da prati e pascoli, e, benché vi sia un'ottima
pietra cementizia, questa è solo in parte sfruttata dalle cementerie di Ariano Irpino,
ma senza alcun vantaggio economico per il nostro paese, con danno solo delle
nostre strade per il passaggio continuo di mezzi pesanti.
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FAUNA
Si allevano in questo centro tutti gli animali domestici e da cortile, come in ogni
parte d'Italia.
Fra gli animali selvatici sono da notarsi; qualche lupo di passaggio, durante
il periodo invernale, proveniente dall'Abruzzo, la volpe, il tasso, la faina, la
donnola, la lepre, la talpa, il cinghiale.
Fra i rettili se ne trova anche qualcuno di grosse dimensioni, comunemente
chiamato " 'mbastora vacche" (5), perché si attorciglia intorno alle gambe dei
bovini.
Abbondanti e numerosi sono i volatili di ogni specie fra cui l'anitra selvatica, la
ghiandaia, al gazza, il passero, il cardellino, il pettirosso, il piccione casalingo e
selvatico, la tortora, il merlo, il rigogolo, l’usignolo, la quaglia, la starna, le
beccacce durante il loro passaggio, insieme alle pernici e qualche gallo selvatico o
di bosco.
Durante la stagione estiva, il paese è messo a festa dal trillo gioioso di mille
rondini che volteggiano intorno alle abitazioni elevate ed ai campanili.
È da notare che tutto l'agro di Montefalcone è ricco di cacciagione e la zona,
durante il periodo di apertura di tale attività sportiva, è percorsa in tutta la sua
estensione dai devoti di S. Uberto.
Come abbiamo accennato prima, vi si incontrano volatili di ogni sorta, ma vi
abbondano, data la caratteristica configurazione del terreno anche le lepri, specie
in contrada "Pagliano", "Serra", "Trivolicchio", "Acqua Santa" e "Fontana Iatella",
mentre le beccacce si incontrano lungo gli affluenti torrentizi del Fortore nel periodo
invernale.
Il bosco di Montefalcone, come quello di Castelfranco, durante la stagione
venatoria è il posto ideale per i cacciatori ed infatti vi giungono da tutte le parti ed il
loro arrivo - all'apertura della caccia - è come una festa ed i montefalconesi hanno
modo di manifestare il loro cuore con la più cordiale ospitalità che è nota distintiva
della nostra gente.
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ARTIGIANATO
Sulla massa dei contadini spiccava, in altri tempi, l'esiguo numero degli
artigiani.
Ancora oggi gli artigiani sono i migliori della zona e sono apprezzati in
qualunque luogo si portano a prestare la loro opera; ma molti ricordano ancora le
figure di quelli che non sono più e che col loro prestigio riempirono la vita del paese.
Chi non ricorda ancora mast'Abele Lucarelli, Florestano, Guglielmo, Luigi,
Battista Belpedio, ecc.?
Era un bel titolo, più che ambito, quel "masto" che adornava più di un bel
"Don".
In paese vivevano pochi "don": il parroco, il farmacista e qualche altro; questi
però esulavano dal vero ambiente della nostra gente, perché non vivevano la vita
di tutti gli altri dediti ai campi.
Gli artigiani erano i più stimati del paese e la stima proveniva dal continuo
riconoscimento della loro superiorità.
Lavoravano in bottega o "andavano a giornata" a offrire le loro prestazioni
presso gli altri e, pur distinguendosi come classe operaia privilegiata, impediva ai
contadini quell'invidia che, quasi sempre, ha fatto chiamare sfruttatori quelli che
non fanno un lavoro materiale.
Essi poi sapevano leggere e scrivere ed erano i soli, insieme ai "don", a
sapere tanto.
Il motivo vero, però, di tanta stima e che li ha fermati nel ricordo delle
generazioni succedutesi, è che questi erano degli "artisti" e nel senso più alto della
parola.
Ognuno di questi non solo costruiva un muro, ma di questo muro aveva
preparato col suo scalpello ogni pietra adornandola di fregi che riteneva
necessari e quel muro faceva parte di un progetto che egli stesso aveva ideato,
disegnato, preparato minutamente in tutte le sue parti: era nello stesso tempo
operaio specializzato, ingegnere scrupoloso, architetto completo.
Il loro sapere non si arrestava solo a leggere o a fare di conti, sapevano dei
calcoli per la costruzione di una casa o di un ponte, valutavano le scelte di un
colore o indicavano la preferenza di un materiale.
Avevano soprattutto una innata genialità che faceva risolvere di volta in volta
ogni problema del tempo e del luogo, comunque o dovunque si affacciasse.
Basta soffermarsi dinanzi a qualche vecchio portone che non è stato distrutto
dalla mania del moderno dei nostri muratori per rimanere incantati e riandare al
ricordo di quelle vecchie figure.
Oggi l'artigianato in paese è quasi finito: mancano i "mast” e mancano i
ragazzi ed i giovani che trascorrono la loro vita in bottega per imparare
faticosamente il mestiere.
Anche a Montefalcone si studia e si va fuori: si ha bisogno di lavoro per il
guadagno.
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ORIGINE DEL POPOLO
Dovendosi parlare delle memorie storiche della nostra terra riteniamo
opportuno soffermarci brevemente a considerare l'origine del nostro popolo.
È certamente di origine antichissima.
Il Cirelli parlando dell’Origine e Storia" di Montefalcone così scrive: "Quando
di una terra abitata non si trova accenno in un libro di geografia antica, o d'istoria, o
di corografia; ovvero passeggere menzioni soltanto se ne leggono, dalle quali niuno
argomento può trarsi della sua origine, allora per lo più sorgono curiose patrie
tradizioni che attribuiscono a quella terra origine favolosa, e talvolta eroica.
Non disconveniamo che talvolta la tradizione è la migliore ausiliaria della storia;
ma perché se ne possa far conto, conviene con rigorosa critica decifrare il vero dal
falso, il probabile dall'improbabile, depurando le popolari tradizioni da quel
municipalismo che le altera: diversamente si scriveranno storie ideali e fantastiche,
come le tante volte è avvenuto.
Or di Montefalcone non si trova menzione alcuna negli antichi scrittori.
Da ciò due conseguenze: una più consentanea al vero, ed è che nei tempi in
cui quegli autori scrissero, questa terra non avesse un'esistenza civile, l'altra
sostenuta della supposizione tradizionale
di quei naturali che l'origine di
Montefalcone risalga a tempi remotissimi, e si disperda nella notte dei secoli". (1)
Non sono concordi gli storici nello stabilire se siano stati i Frentani a dare nome
al fiume (Fortore), o il fiume a dare il nome al popolo; Cluverio, infatti, (2) dopo
aver fatto tutta una chiarificazione affinché non si confondano i Frentani con i
Ferentani, scrive: "Caetero, utrum Frentani, quum digressi a Samnitibus in haec
loca pervenerunt, novum sibi nomen ab Amne imposuerint; an vero de suo nomine
Amnem appellaverint, incertum est".
L'Anonimo di Milano nella sua Tavola Corografica sostiene che i popoli hanno
preso il nome dal fiume Frento e lo suppone come di cosa certa: "Certum est
vetere Frentonem, a quo sunt cognominati, fuisse protensos". (3)
Così vuole la Martiniere nel suo Dizionario Geografico: cioè che il fiume
Frontone, oggi Fortore, abbia dato il nome ai Frentani. (4)
Leandro Alberti in Italia Antiqua - sopra citata - è di parere diverso e vuole
che i Frentani abbiano preso il nome dal Castello Frontone, che mette vicino a
Teano di Puglia, oggi detto Civitate, ma ciò è negato da tutti gli storici, in quanto
presso Civitate non v'è mai stata traccia o tradizione di un tal castello; riteniamo
piuttosto che si tratti proprio del castello di Montefalcone, infatti Jamalio dice: "Una
torre antichissima, forse sannita, sorge nel mezzo del paese".
Così anche Domenico Maggiore in Napoli e la Campania, - Guida
Storica, Pratica ed Artistica. (5)
Il P. Lodovico Ventura dice: "Dalla sconfitta di Caudio in poi le azioni
guerresche dei Romani contro i Sanniti si svolgono in massima parte nel Sannio
Meridionale; era di qui che i nemici minacciavano continuamente la Campania; qui
anche le legioni Romane per le condizioni topografiche della regione potevano
meglio spiegarsi e combattere.
La sede dei Caudini dai quali avevano subito l'onta del giogo; di qui la via più
breve, diretta e facile per giungere ad Arpi, città appula alleata sin dal 326 e da Arpi
a Luceria che con la rotta di Caudio era rimasta in mano ai Sanniti.
Infatti, dopo le Forche Caudine la prima brillante azione militare dei Romani fu
quella del 320, quando entrambi i consoli combinarono i loro movimenti contro i
Sanniti. Papirio Cursore, girando dall'alto e scendendo lungo l'Adriatico, si diresse
ad Arpi, di qui iniziò l'assedio di Luceria per liberare i cavalieri romani dati in
ostaggio nella pace di Caudio.
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Publilio avanzò nel Sannio Meridionale contro le legioni Caudine, le sbaragliò
con tanto impeto che non riuscirono a riordinarsi nemmeno nei propri
accampamenti, ma fuggirono sbandate e dissipate, fin verso Luceria dove
finalmente potettero raccogliersi insieme (XII- XIV).
Chi conosce anche superficialmente la regione beneventana, identifica senza
difficoltà il cammino seguito dai Sanniti fuggiaschi verso Luceria e l'inseguimento di
Publilio. Sia che la rotta dei Sanniti avvenne nella valle Caudina, sia in quella
Telesina o anche Alifana, la via per fuggire verso Luceria era in tutti i casi verso
il territorio settentrionale di Buonalbergo.
Essi scavalcarono la linea dei colli tra Montefalcone e Castelfranco, si
gettarono nella vallata del Fortore, e furono alla presenza di Luceria". (6)
Anche il compianto Arciprete Sisto Di Giuseppe, in alcuni suoi appunti,
asseriva che le origini di Montefalcone vanno ricercate in un antico Vallum Sannita,
di cui ancora oggi restano tracce nella contrada chiamata Vallo di Cesare.
Quanto all'origine dei Frentani, nemmeno concordano gli storici; alcuni
ritengono che i Frentani provenissero dai Sanniti; altri che provengono dai Luburni;
altri dai Sabini, ed altri dagli Etruschi.
Quelli che vogliono che i Frentani provengano dai Sanniti si rifanno alla autorità
di Strabone lib.5 Supra Picenum, dove dice:
"........... atque Frentani Samnitica Gens".
Lucio Camarra volendo dire che i Marrucini non provenissero dai Sanniti,
ma dai Sabini, vuole che sia cosa diversa dire Samnitica Gens come Strabone
chiama i popoli Frentani, che dire Samnites Populi, utmox Hirpinos, e che
chiamando i nostri popoli Gens Samnitica, ciò debba riferirsi vel ad genus, cioè
rispetto alla loro origine Sabinese, comune anche ai Sanniti, vel ad armaturam,
che usavano tanto gli uni che li altri popoli; "Quippe Scriptor ille, parla di Strabone,
non Samnites nostrates appelavit, ut mox Hirpinos, sed Gentem Samniticam, vel
ad armaturam.
Ad genus quidem, quia ut alibi diximus, nostrates Populus a Sabinis ortos
consuere nonnulli, a quibus etiam Samnites, unde et ii pariter Sabelli dicti. Ad
armaturam vero, propter hastae genus, unde et Samnitibus nemen Festus ait =
quae, ut nostratum, sic etiam ad Silii mentem Sabinorum erat, e quibus Samnites,
nostratesque prognati". (7)
Quelli che vogliono, poi, far discendere il nostro popolo dai Liburni, Dalmati e
poi Toscani o Etruschi basano le loro argomentazioni su frammenti che si
attribuiscono a Catone: "Frentani primum a Liburmis et Dalmatis, inde his pulsis, a
Tuscis orti" (Orig.lib.2).
Noi siamo propensi, piuttosto, a congetturare che in diversi tempi ed
occasioni diverse i luoghi dei Frentani sono stati abitati da gente diversa; in più
trovandosi la nostra zona ai confini e dividendo gli "Apuli dai Frentani", come dice
Leandro Alberti nella descrizione dell'Italia, ove parla della Japigia (p.228), è logico
che ci sia anche miscuglio o comunanza di popolazioni.
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ORIGINE DEL NOME
Diverse e curiose sono pure le investigazioni sulla origine del nome.
Alcuni dicono fosse stato imposto dal suo fondatore di nome "Falcone" o da un
grande possessore terriero del periodo normanno, da cui prese il nome di Monte
di Falcone; altri perché qui si annidano a stormi gli uccelli di questo genere; altri per
la disposizione delle case che offrivano fino a poco tempo fa la figura di un volatile
con le ali spiegate, come se il falcone fosse l'uccello per antonomasia; altri
congetturarono essersi così chiamato dal vicino monte Gallizi tramutato poi, e non
comprendiamo per quale analogia, in quello di Falcone, e finalmente per qualche
uccello di questo nome apparso, e ritenuto come favorevole auspicio allorché di
questo paese si gettavano le prime fondamenta.
Così il Cirelli: "Egidio Finamore nel suo libro "Origine e Storia dei nomi locali
Campani" (riteniamo che i nomi composti, nella seconda parte possono
essere ispirati al culto delle piante o degli animali e tra gli altri cita Montefalcone di
Valfortore).
In quest'ultimo caso troviamo il toponimo completo da quello della Valle che il
paese domina dall'alto dei suoi 800 metri".
Non è da escludersi però, che tale nome sia stato assegnato per la sua
posizione elevata; ritroviamo infatti diversi luoghi elevati che aggiungono alla prima
parte del nome quello di falcone e basterebbe citare il celebre "Pizzo Falcone di
Napoli".
Pur non potendo stabilire qualcosa di preciso circa l'origine del nome, noi
riteniamo più probabili le ipotesi del fondatore o proprietario terriero e della sua
posizione elevata e non quella della disposizione delle case, in quanto la forma l'ha
assunta con il tempo; prima era tutt'intorno al castello, e il nome avrebbe già dovuto
averlo.
Non accettiamo l'ipotesi del falco apparso e ritenuto come buono auspicio nel
gettare le fondamenta, perché sappiamo che i paesi sorgono un poco alla volta e
senza intenzione. Se poi riteniamo che il falco fosse l'uccello per antonomasia della
nostra terra, entriamo nella ipotesi del luogo elevato, perché
il falco è proprio l'uccello delle alture, che resta, insieme all'ipotesi di Falcone
proprietario, la più plausibile.
Nel 1863 Vittorio Emanuele II fece assumere la specificazione di Vallo Fortore
per evitare confusione di omonimie.
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STORIA
Intorno a Montefalcone vi erano diversi casali: S. Luca,
dove esisteva un
monastero dell'Ordine Eremitico di S. Agostino; il Cirelli dice, infatti: "Nell'elenco dei
Monasteri dell'Ordine Eremitico di S. Agostino,
che leggesi come appendice a
quelle costituzioni stampate, fra i conventi della Congregazione Dulcetana di Puglia
si trova registrato un Convento con le parole: Montisfalconem".
Cirelli asserisce
ancora che
tra i ruderi di
detto Monastero
sono stati
rinvenuti diversi arredi sacri.
Vi erano ancora i Casali di S. Marco, S. Lorenzo, S. Cristoforo, S. Angelo e
Castello, dove oggi si estende Montefalcone. Secondo il linguaggio medioevale, il
Casale era posto di presidio militare ed era chiamato anche Castello nel senso di
"Casale Alto".
Questi Casali, sempre secondo la tradizione, si vennero a formare a seguito
della distruzione di Equus Tuticus (oggi S.Eleuterio, nei pressi di Castelfranco in
Miscano), città osca ed importante nodo stradale.
Vuole la tradizione, ancora, che gli abitanti di S. Luca dovettero abbandonare
quel contado per invasioni di formiche e per motivi tellurici e si stabilirono dove è
l'attuale rione S. Luca o Ripitella.
La toponomastica di Montefalcone ricorda ancora questi borghi.
Montefalcone ebbe una cinta di mura con tre porte che servivano di accesso
anche al Castello.
Una detta "Orientale" era costruita vicino al campanile di Santa Maria, l'altra
alla contrada "Ponte" ed era detta "Latrona", la terza a S. Giovanni ed era chiamata
"Porta del Castello" che era un sicuro propugnacolo alle aggressioni nemiche.
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IL CASTELLO
Su una roccia di natura puddinga sorgeva il castello di Montefalcone, il quale
dominava tutta la Valle del Fortore e la parte montuosa della provincia di Foggia.
Dell'antico castello si conservano oggi solo i ruderi di un massiccio torrione.
Esso si ergeva superbo fra le umili casupole allora esistenti, come gigante fra una
turba di servi.
Sulla torre, esposta ai quattro venti, vigilava la sentinella, che, col suono del
corno, annunziava ai villani l'avvicinarsi dei nemici, perché i fanti si apprestassero
alla difesa del castello.
La sua pianta aveva forma di rombo, nella parte centrale vi sorgeva il cortile,
in mezzo al cortile v'era una cisterna profonda una decina di metri, la quale forniva
l'acqua agli abitanti del castello.
Era recinto di mura massicce. Nell'interno tutto era costruito a fine di difesa e
non per comodità.
Il castello era composto da due piani; al disotto del primo piano vi erano i
depositi di armi e comunicavano con i rifugi segreti che uscivano fuori dell'abitato.
Due erano questi rifugi: uno attraversava la parte sinistra del paese, l'altro
quella destra; quest'ultimo con una galleria lunga 1500 metri sboccava in contrada
Grotta, sotto un balzo tufaceo, l'altro sboccava in contrada Concilio; lungo 2000
metri.
L'origine del castello risale all'epoca di Federico II, nipote del Barbarossa, che
sposò Costanza d'Altavilla, figlia di Ruggiero III.
Federico II, divenuto Re di Sicilia, volle risolvere la questione dei Musulmani
delle Isole, tradizionalmente fedeli e devoti alla monarchia, ma irrequieti e turbolenti,
anche per la generale avversione che verso di loro sentivano i cristiani, in mezzo ai
quali essi vivevano.
Federico II li trasferì in parte a Lucera, in Capitanata, ed in parte a Nocera,
in Campania.
La colonia di Lucera fu particolarmente numerosa ed ivi nel 1237 Federico II
fece costruire un castello per la tutela degli stessi Musulmani.
In questo secolo sorsero pure i castelli di Tertiveri, di Motta Montecorvino, di
Pietra, di Alberona e di Montefalcone Valfortore.(1)
La tradizione patria attribuisce la costruzione
del castello a Federico
Barbarossa, che lo teneva come luogo di sfuggita nelle vicende guerresche.
È questa una attribuzione del tutto errata, in quanto il Barbarossa tentò di
scendere nell'Italia Meridionale, ma dovette retrocedere, poiché il suo esercito era
stato colpito da una forte epidemia.
In questo castello venivano a trascorrere i periodi di riposo gli Angioini di
Napoli.
Nel giugno del 1440 il castello era abitato da un certo Giannotto, signore di
Montefalcone (2) e nello stesso anno vi fu Alfonso d'Aragona I, re di Napoli. Questo
ultimo avendo saputo che il re Renato si era recato a Carpignano, per abboccarsi
col Duca di Bari, andò nelle terre del Conte di Avellino, Troiano Caracciolo, e tutte
le mise a sacco e fuoco; di qui si diresse a Montefalcone, sebbene
Giannotto fosse fedelissimo al re Renato, dopo uno strenuo combattimento,
per la poca costanza dei suoi vassalli, fu costretto ad arrendersi al re Alfonso.
Nel 1343 il castello fu colpito da una scossa di terremoto ne devastò la parte
settentrionale.
Nel 1806 fu nuovamente colpito da una scossa tellurica, riportando lievi danni.
13
Nel 1809, essendo divenuto ricettacolo di manipoli di briganti, fu distrutto dalla
Guardia Civica.
Tommaso Vitale, nella storia di Ariano e sua diocesi, parla di questo castello
ed il Cirelli lo riporta quasi integralmente.
Il Vitale (3) parlando del castello così si esprime: "Nel palazzo (i montefalconesi
ancora oggi lo chiamano così), un tempo Baronale, chiamato ben anche Castello,
oggi col Demanio pervenuto alla Università, in una lapide fregiata di molti lavori di
intaglio, che doveva servire da architrave di porta, leggesi inciso:
HOC OPUS CONDITUM FELICI FERDINANDI TEMPORE REGIS
MCCCCLXXXVII FELICETER ERAT AMENA
e sulla porta della stessa scala dello stesso Castello
A.D. MCCCCLXXXVII
Da un lato di essa porta vi è inciso in pietra un'impresa con un pesce in
mezzo, e nel lato opposto ve n'è un'altra; nella metà del di cui scudo vi si osserva
un leone in piedi".
Il cronista Falcone Beneventano, descrivendo l'accampamento di Rainulfo
vicino al castello di Tufo, per assediarlo, parla dei soldati a piedi ed a cavallo riuniti
da Giordano, famoso conte di Ariano, che si recavano sopra il castello di
Montefalcone, poco lontano dal padiglione ed accampamento di Rainulfo =
Giordano, famoso conte di Ariano, audienes Rainulphum Comitem super Tufum
illud Castelli munitiones costruxisse et oris omnibus peditumque manu copiosa ad
Castellum, qod Montefalconis dicitur, non longe a Rainulphi comitis tentoriis
tetendit".
Il Vitale ed il Cirelli ben si oppongono a questa ipotesi, ritenendola un errore
dei copisti, dovendosi leggere Montefalcione, che è vicino alla terra di Tufo, vicino
anche a "Montefuscoli", mentre Montefalcone ne dista più di venti miglia.
"Dalla iscrizione su riferita, inoltre, scrive il Cirelli, (4) non possiamo con
certezza dedurre che il castello sia stato edificato in tempo di re Ferdinando
d'Aragona; tanto più che la lapide in cui leggesi la epigrafe suddetta, si suppone
che dovesse servire di architrave di porta nel castello, ma in effetti non fu mai vista
situata in nessuna parte di questo edificio.
Noi, nulla volendo togliere alla probabilità, che il castello una opera fosse di
Re Ferdinando d'Aragona, ai tempi del quale sappiamo che molte di tali opere
furono costruite in vari punti di questo Reame; crediamo di doversi pure tenere in
qualche conto la tradizione patria, la quale attribuisce la fondazione del castello
medesimo a Federico Barbarossa, ad oggetto di averlo siccome luogo di sfuggita
nelle vicende guerresche".
Noi, come prima abbiamo accennato, riteniamo, invece, il castello opera di
Federico II e che con l'andar del tempo il popolo che diceva: "il nipote di Federico
Barbarossa" ha ridotto la frase solo a "Federico Barbarossa".
Nei registri delle Cancelleria Angioina troviamo (5): "Per la difesa contro i
Saraceni il Re ordina munirsi il Castello di Crepacode, inviandovi da ciascuna delle
città convicine duecento serventi".
"KAROLUS magistri iuratis Baiulis et universis hominibus Ariani Montis
fusculi Padulis Apicii-Montis calvi. Junculi Casalbuli Flumarii.
Vici et Casalium ipsorum Cripte et Ripelonge. Cum ad custodiam et
defensionem vestram mandavimus refici. Castrum Crepacordis (6) et muniri
militibus nostris et peditibus ut Saraceni non possint vos et res vestras recipere vel
aliter ledere vos mandamus etc. quatenus ducentos servientes bene munitos
armis ferreis vel acutis et capellis, juppis et lanceis vel balistis et aliis necessariis
ad bellandum ibidem et quingentos alios cum securibus sive cunnatis et palis et
zappis magnariis et omnibus aliis necessariis ad faciendum fossata et clausuram
14
dicti castri sive palicia seu palaciatas et ad reficiendum dictum locum visis litteris
seguenti die post receptionem presentis apud montem calvum trasmittere debeatis
ita quod ibi congregatos omnes ad plus die dominico quartodecimo mensis Julii
deinde venient ad dictum locum crepacordis ubi invenient miliciam nostram
existentem ibi et expectantem servientes et alios sopradictos, et detis pro
unoquoque servienti tres augustales per mensem facientes eis pagam pro uno
mense et sciatis quod si aliquis vestrorum locorum non miserit bonos servientes et
bene armatos predictos homines cum palis et aliis supradictis ad predictum locum
et terminum pro quolibet serviente vel alio qui deficiet vel erit minus, sufficiens,
quattuor
augustales a loco negligentiam commictente
inremissibiliter exigi
faciemus, et volumus etiam quod in numero destro sint castrum sancti severi et
montis mali licet superius propter oblivionem non fuerint denotata et ut celerius
fiet inter vos servientes et predictos alios dimidium et adequare fecimus prout
inferius continetur, scilicet arpinum servientes XXVIII et alios cum palis cunnatis
seu securibus zappis mannaicis et aliis necessariis homines XXXXV junculum
servientes XII et alios cum zappis et aliis supradictis XXX.
Arianum servientes XXX et alios cum zappis et aliis LXXV.
Monsfalconis servientes VII et alios homines cum zappis et aliisXVIII…
Trattando il documento citato di avvenimenti del 1252 e parlando già di
Montefalcone che manda i suoi uomini, e rilevando dai registri della Cancelleria
Angioina, (7) come vedremo, che nell'anno 1266 a Matteo di Letto fu da Carlo I
restituita Montefalcone, e metà di Montecalvo, che aveva per concessione
dell'Imperatore Federico II, è da supporsi che il castello fosse opera di questi.
"Carlo ai mastri giurati, ai balivi, e a tutti gli abitanti di Ariano, Montefusco,
Paduli, Apice, Montecalvo, Zungoli, Casalbore, Flumeri con i rioni e casali di
Cripta e di Ripalonga.
Quando stabilimmo per vostra protezione e difesa che fosse riparato e
rinforzato con nostri soldati e fanti il castello di Crepacorde, perché i Saraceni non
potessero impossessarsi dei vostri beni o altrimenti ledervi, mandammo per la
necessità 200 ausiliari ben muniti di armi ferrate e scudi ed elmi con dardi e lance e
frecce e l'altro necessario alla guerra; altri 50 con scure fatte a punte e pale e zappe
larghe e ogni altro utensile necessario a scavare fossato a difesa del detto
castello; e ugualmente pali di palizzate per la riparazione del luogo: viste le lettere
nel giorno successivo alla ricezione della presente dovrete trasmettere notizie a
Monte Calvo così che tutti quelli ivi radunati, al massimo la domenica 14 luglio
possano venire alla suddetta località di Crepacorde dove troveranno la nostra
milizia ivi stazionante in attesa di aiuti e di tutto l'altro suindicato: darete a ciascuno
ausiliare tre agostali (moneta di Federico II) a mese per la paga di 1 mese: sappiate
che se qualcuno di codesta località non avrà mandato validi ausiliari bene armati
con pale ed il resto già specificato al predetto luogo e nel termine suindicato, per
ciascuna unità mancante e per altro che sia di meno per numero, per qualità
insufficiente, obbligheremo che siano pagate irremissibilmente per colpa della
negligenza 4 Agostali: vogliamo anche che nel numero destro siano annoverati il
castello di S. Severo e Monte Malo benché prima per dimenticanza non siano stati
indicati.
Affinché ciò avvenga al più presto abbiamo fatto distribuire a metà tra voi i
serventi e gli altri indicati così come si chiarisce sotto, cioè: Arpino con 18 ausiliari
e altri con pali appuntati; 35 uomini con l'altro necessario; 12 serventi e altri 30 con
zappe e l'altro materiale suindicato; Ariano 30 serventi e altri 75 con zappe e altro.
VII serventi di Montefalcone e 18 altri uomini con zappe ed altro.
15
FEUDATARI
Nell'epoca normanna, come si rileva nel catalogo dei Baroni al N^ 323,
rubrica Contea di Civitate = Domina Montis fiasconis sicut dixit Guardemus, tenet
Montefalconem quod est feudum duorum militum (La padrona di Montefalcone,
come disse Guaremondo, possiede Montefalcone, il quale è un feudo di due
soldati) sembra quasi certo che questa feudataria dovesse essere la moglie di
Guglielmo Petrofranco, il quale possedeva Roseto.
Ancora nello stesso Catalogo, sotto la medesima rubrica Contea di Civitate al
N^ 341, vengono nominati i seguenti signori di Montefalcone: Robertus de la
Rocca, Robertus Manerius, Raynaldus Montis Dragonis, Hugo Elia, Hericus de
Laysa, et Robertus de Laysa tenet Montefalconem quod, sicut dixit Hugo filius
Acti, est feudum duorum militum et cum augumento abtulerunt milites quatuor et
servientes X.
(Roberto della Rocca, Roberto Manerio, Rinaldo di Monte Dragone, Ugo di
Elia, Enrico e Roberto di Laysa possiede Montefalcone, il quale, come disse Ugo
figlio di Atto è feudo di due soldati e con l'aumento quattro soldati e dieci servi).
Nell'anno 1266 a Matteo di Letto fu da Carlo I restituita Montefalcone e metà di
Montecalvo, che aveva per concessione dello imperatore Federico II. Essendo stato
ribelle a Manfredi da questi fu privato dei feudi, che vennero dati al genero Jacopo
Da Matteo, infatti erano nate due figlie: Sica, la maggiore, aveva sposata Jacopo
Danzella, Pergus, la minore, era andata sposa a Bartolomeo di Tocco, figlio di
Matteo.
Jacopo Danzella combatté contro re Carlo I a Benevento per Manfredi, perciò
la linea primogenita fu esclusa dalla successione che il re aggiudicò alla
secondogenita sua figlia Margherita.
Poiché il De Tocco aveva ereditato dal padre Matteo l'altra metà di Montecalvo,
con Buonalbergo, l'intero feudo si ricostituiva così nelle mani della figlia.
Nel 1320 il feudo di Montefalcone fu messo nel giurisdizionato del Principato
Ultra e tassato per once 10, tarì 15 e grana 17.
Successivamente, essendo stato colpito dal terremoto, ebbe un esonero di
tasse, come rilevasi da un documento riferibile agli anni 1343-1344 esistente nei
registri angioini del grande archivio di Napoli (fet.FN.341, fol.235, intitolato
"Universitatis Castris Montis Falconis, provisio minoratione collectarum quia
terremoti concessa et pars dicti Castri et abissa").
Nel 1439 era signore di Montefalcone Giannotta, il quale seguiva la parte
Angioina.
Dopo di questo il feudo di Montefalcone passò a Filippo Caracciolo, che nei
documenti viene nominato Pippo, che fin dall'anno 1415 possedeva i feudi di
Montefalcone, Pugliara, Bagnara, Montedurso, S. Giorgio, Pescolamazza,
Pietrelcina, Monterone, Orta, Toccanisi ed una parte del casale di Torrioni. (1)
1.Riportiamo un documento che si legge nel fol. 414 del vol. 299 degli atti pe’
rilevi, intitolato Notamento fatto dal Procuratore Fiscale Giovan Vincenzo
de Mari appresso l'Attuario Squillante contro il Marchese di Casalbore et altri
sopra le robbe che furono di Pippo Caracciolo.
2.ECCONE LE PAROLE: Pippo Caracciolo seniore fu patrone delli subscripti
beni feudali verso l'anno 1415 Videlicet.
3.Lo Castello de Pagliara con casale de Bagnara et Monte d'urso
4.Lo Casale di Toccanise con certa parte del casale de Torrioni
5.Lo Casale de Sangiorgio
6.Lo Castiello de Montefalcone
16
Filippo Caracciolo ebbe come figlio primogenito Berardo, che nel 1446
conseguì dal Re Alfonso I d'Aragona l'investitura dei beni feudali del padre con la
condizione di non potersi quest'ultimi ereditare se non dai maschi soltanto.
Dopo la morte di Berardo (essendo da lui nata una sola figlia di nome
Antonella che sposò Antonio della Ratta e poi in seconde nozze Ludovico Minutolo,
che nel documento riportato viene denominato Giacomo (2) divennero Barone di
Pagliara, Montefalcone, Toccanisi e di una parte del casale di Torrioni i suoi fratelli
Giovan Nicola e Carlo, che pagarono alla Regia Corte il relievo nell'anno 1458 (3)
1.Lo Piesco
2.La terra de Petrapolcina
3.Lo feudo de Montero
4.Lo bosco de lo Pino et lo feudo d'Orta con altri beni burgensatici
Detti beni feudali foro concessi per li Ripassati ad esso et suoi antecessori et
per se et suoi heredi mascoli et femine.
Pippo ebbe cinque figli mascoli de li quali il primogenito si nominò Berardo
Caracciolo, il quale hebbe una figlia femina nomine Antonella che detto la istituì
sua herede universale in li beni burgensatici et feudali mediante testamento
cominciato e non finito convalidato poi per privilegio da Re Alfonso prima detta
Antonella Caracciolo si maritò con Jacovo Minutolo, et si ben da detto matrimonio
ne nacquero più figli mascoli, al tempo che detta Antonella morse rimase
solamente sua herede universale Marella Minutula sua figlia che si casò con Marino
Thomacello, li quali fecero più figli, et tra li altri Jacovo Thomacello in lo anno
1528 fu ribelle e il fisco confiscò tutti li beni che trovò e che possedeva.
In lo anno 1574 il Fisco per revelatione fattali hebbe notitia del tutto il
predetto et che il Marchese de Casalarbore et altri possedevano indebitamente le
dette Castella e feudi che spettavano a detto Thomacello descendente da detto
Pippo Caracciolo mediante la linea di detto Berardo figlio primogenito et si
indiriezò per comparsa che presentò a 2 de decembre 1574 et domandò la
reintegratione de detti castelli et feudi una con li frutti perceputi, li poxessori
compresero adverso la detta pretendentia del Fisco et portaro diverse scritture
per exudere il Fisco et particularmente il detto Marchese di Casalbore presentò
uno privilegio de Re Alfonso primo de lo anno 1446, per lo quale essendo morto
detto Pippo Caracciolo investio Berardo de li detti beni pro se et heredibus
masculini sexus tantum cum conditione che morendo detto Berardo senza figli
mascoli succedano li fratelli excluse le figlie femine di Berardo che si haveano da
dotare di paragio et così per virtù de detto privilegio pretende’ che detta Antonella
Caracciolo sia stata exclusa da la detta successione de li beni feudali, atteso di
detto Berardo patre ci restaro più fratelli carnali figli de Pippo, et particolarmente
Cola Caracciolo dal quale deriva detto Marchese de Casalarbore, et perché
quando tale pretensione andasse bene il Fisco poteva pretendere la doteche
spettava a detta Antonella che nunquam fuit dotata de paragio, detto Marchese de
Casalarbore ha prodocto Albarano de Re Ferrante primo che donò detta dote a
detto Cola Caracciolo.Cfr. Giacomo
Guglielmo
Imhof: "Corpus historiae
genealogicae Italiae et Hispaniae, famiglia Caracciolo, tavola XVII, pag. 280.Vol.
287 Atti dei Relevi, che prima veniva chiamato "Liber primus originalium
releviorum Principatus Ultra et Capitanatae anni 1448 ad 1539, f. 13.
Giovan Nicola Caracciolo sposò Eleonora Carafa, e con lei generò Filippo,
secondo di tal nome e detto "Pippo", il quale il 19 maggio 1475, essendo già
signore di Montefalcone, stabilì col Cardinale de Ursinis i limiti tra il suo feudo e
quello di Santa Maria in Galdo.
17
L'instrumento di tale convenzione fu stipolato nello stesso giorno dal notaio
Bartolomeo de Petrillis, e venne convalidato dal re Ferrante I d'Aragona il 30
giugno 1477 (4).
Filippo Caracciolo II ebbe un figlio: Giovanni, che morì celibe, e quattro figlie
femine: Camilla, Floripessa, Beatrice ed Ippolita che andò in isposa ad Antonio
Guindazzo (5).
Camilla ebbe dal genitore la donazione della terra di Montefalcone in
occasione delle tavole nuziali stipolate il 10 gennaio 1501 tra lei e Giovan
Tommaso Mansella di Napoli, figlio di Angelo, con la condizione di dover pagare
mille ducati alla sorella secondogenita Floripessa. (6).
È da ritenersi che Camilla e Floripessa non abbiano lasciato figli, in quanto la
sorella Beatrice divenne Baronessa di Montefalcone.
Quest'ultima sposò Francesco de Loffredo, Reggente la Regia Cancelleria e
con lui ebbe il figlio Ferdinando I, che nel 1547, essendo morta sua madre,
dovette soddisfare al Fisco il relevio sulla terra di Montefalcone (7).
Ferdinando de Loffredo I nel 1558 vendette la terra di Montefalcone ad
Alessandro de Antinoro col patto di ricompra, e con la medesima condizione
Francesco de Loffredo II assegnò nel 1574 il predetto feudo a Giulia, sua sorella e
consorte di Giovan Francesco d'Afflitto, per ducati 13150 di dote (8).
Ferdinando II, Marchese di Trevico, nell'anno 1602 sostenne una lite col
Regio Fisco intorno alla giuresdizione delle terra di Montefalcone e ad istanza dei
creditori (9). Il tribunale del Sacro Regio Consiglio vendette il feudo di Montefalcone
ad Andrea de Martino per 31, 500 ducati.
L'istrumento di tale vendita fu stipolato il 24 settembre 1622 dal notaio Carlo
Lombardo di Napoli, e venne approvato dal Duca d'Alva, Vicere di questo regno il
21 giugno 1523 (10).
Il 24 ottobre 1626 il re Filippo IV di Spagna, in considerazione della nobiltà
della famiglia de Martino, concesse ad Andrea il titolo di Marchese di
Montefalcone, (11) ma questi morì il 5 settembre 1627 ed il figlio primogenito
Scipione ereditò il marchesato soddisfacendo alla Regia Corte il relevio nell'anno
1628 (12).
Scipione de Martino rinunziò al feudo di Montefalcone ed al titolo di Marchese
in favore del fratello secondogenito Giovan Domenico in virtù del regio assenso
dato a Madrid il 12 luglio 1628, cui dette "l'exequatur" il Duca d'Alva, Vicerè di
Napoli, il 30 novembre dello stesso anno (13).
Scipione e Giovan Domenico de Martino morirono senza lasciare legittimi
successori ed i feudi nel 1640 ritornarono alla Regia Corte che per 20.200 ducati
vendette la terra di Montefalcone a Francesco Montefuscoli, dottore in legge, (14)
con l'istrumento del 13 novembre 1645 del notaio Pietro Oliva di Napoli.(15).
Francesco Montefuscoli morì il 4 aprile 1650 e divenne Barone di
Montefalcone il fratello secondogenito Agnello che pagò il relevio alla Regia Corte.
Di Agnello Montefuscoli fu figlia primogenita Lucrezia, la
quale dal Re
Carlo II di Spagna conseguì il titolo di Marchesa di Montefalcone "per sé, per i
suoi eredi e successori" per la nobiltà ed i servizi resi al Trono dai suoi avi.
Il diploma di tale concessione fu sottoscritto a Madrid il 3 settembre 1696 ed
ebbe il "regio exequatur" in Napoli il 13 ottobre dello stesso anno (16).
La marchesa Lucrezia Montefuscoli sposò Giovanni de Sanctis e morì a
Montefalcone il 5 ottobre 1725 come risulta dalla seguente lapide funeraria che
ancora si conserva nella sala S. Michele.
18
D. LUCRETIA MONTEFUSCOLO, ET COPPOLA
MONTIS FALCONIS EX PATRE MARCHIONISSA
FAEMINA SUPER SEXUM AD VIRILIUM IMAGINEM
COMPOSITA:
RELIGIONIS VINDEX JUSTITIAE SOSPITA
SIBI MAGISQUA ALIJS INPERAS,
ADVERSAE FORTUNAE IMPAVIDA PROSPERA MAJOR
DIU VIXIT,
SED SUBDITORUM SPEI TAM MODICUM
UT LICET LONGA SENECTUTE, EAM FATA SUBRIPUERIT
TANQUAM IMMATURO FUNERE EREPTAM
OMNES AMARIS LACRYMIS DEPLORANT
FILIJ INCOSOLABILES
MATRI OPTIMAE NON MEMORIAE
QUA PRUDENTIA, PIETATE, CONSTANTIA IMMORTALAE SIBI
COMPARAVIT,
SED IMMENSI DOLORIS TESTEM
LAPIDEM POSUERUNT
DIE V. MENSIS OCTOBRIS ANNO M.DCC.XXV
D. Lucrezia Montefuscoli della discendenza dei Coppola Marchese di Montefalcone,
donna al di sopra del sesso conforme più ad indole virile; vindice della religione,
protettrice della giustizia dominatrice più di se stessa che degli altri, impavida contro
l'avversa fortuna e più grande ancora nella prospera, visse a lungo, ma tanto poco per la
speranza posta in lei dai suoi sudditi che sebbene il fato l'abbia rapita nella tarda
vecchiezza, tutti la piangono con amare lacrime come se strappata da immatura morte, i
figli inconsolabili posero questa lapide per ricordo dell'ottima madre che procurò a sé un
ricordo incancellabile per la sua prudenza, pietà e costanza, ma come testimonianza del
loro immenso dolore. 5 ottobre 1726.
Dalla Gran Corte della Vicaria con decreto del 17 settembre 1726 fu
dichiarato erede dei suoi beni feudali il figlio primogenito Francesco de Sanctis, il
quale, in virtù di un decreto della Regia Camera della Sommaria del 7 luglio 1727,
ebbe nel cedolario l'intestazione del feudo di Montefalcone e del titolo di
Marchese il 25 settembre dello stesso anno(17). Francesco De Sanctis morì il 6
settembre1761 (18) senza lasciare eredi;
perciò
divenne
Marchese
di Montefalcone Gaspare, suo fratello secondogenito con decreto emanato
dalla Gran Corte della Vicaria il 9 luglio 1762 e l'11 agosto dello stesso anno ne
conseguì l'intestazione del castello di Montefalcone col titolo di Marchese (19).
Neppure Gaspare De Sanctis ebbe eredi ed essendo morto il 13 dicembre
1773 (20) il marchesato di Montefalcone fu ereditato da Vincenzo Capece, figlio
primogenito di una sua sorella germana della quale signora il nome, il quale
vendette la terra di Montefalcone a Pietro Stravino per 70395 ducati, con
istrumento stipulato il 27 gennaio 1778 dal notaio Luigi Montemurro di Napoli ed
approvato dalla Real Camera di Santa Chiara il 4 febbraio dello stesso anno (21).
Pietro Stravino morì il 23 aprile 1780 e dalla Gran Corte della Vicaria fu
dichiarato erede dei beni feudali del padre il primogenito Giacomo, intanto
l'Università di Montefalcone fin dal 28 giugno 1779 aveva chiesto alla Regia Camera
della Sommaria di diventare demaniale.
Nel 1760 l'Università di Montefalcone prese il possesso formale per mezzo di
un barone scelto dal popolo.
19
Fu eletto un tale Filippo Sacchetti, cittadino del luogo e padre di dodici figli,
condizione indispensabile per la scelta.
In tale occasione fu vestito delle insegne baronali, con parrucca, spada e
bastone e per la circostanza fu celebrata una gran festa popolare con fuochi di
artificio.
20
FEUDATARI DI MONTEFALCONE
Anno 1415. FILIPPO CARACCIOLO I^
_______________________!_______________________
!
!
!
!
!
!
BERARDO CARACCIOLO
GIOVAN NICOLA CARACCIOLO CARLO
CARACCIOLO
!
con
!
Eleonora Carafa
!
!
!
!
ANTONELLA CARACCIOLO FILIPPO CARACCIOLO II^
______________________________!______________________________
!
!
!
!
!
!
!
!
!
!
Giovanni Camilla Flopessa BEATRICE
Ippolita
morì con
CARACCIOLO
con
celibe Giovan
con
Antonio
Tommaso
Francesco
Guindazzo
Mansella
de Loffredo I^
!
!
1548. FERDINANDO DE LOFFREDO I^
con
Diana de spinello
!
1573. FRANCESCO DE LOFFREDO II^
con
Lucrezia de Capua
!
1586. FERDINANDO DEL LOFFREDO II^
!
!
Anno 1622. ANDREA DE MARTINO
Marchese di Nontefalcone nel 1626
_______________________!______________________
!
!
!
1627. SCIPIONE DE MARTINO
1628. GIOVAN DOMENICO DE MARTINO
___________________________
Giuseppe Montefuscoli
_______________________!
!
!
1643. FRANCESCO
AGNELLO MONTEFUSCOLI
MONTEFUSCOLI
!
!
1695. LUCREZIA MONTEFUSCOLI
Marchesa di Montefalcone nel 1696
con
Giovanni de Sanctis
21
______________________!__
!
!
!
!
1725. FRANCESCO GASPARE N.N. DE SANCTIS DOMENICO
DE SANCTIS DE SANCTIS Marchese De Sanctis di Montefalcone
!________________________
!
!
1773. VINCENZO CAPECE
Francesco Saverio
Marchese di Polignano
Capece
___________________________
1775.
1780.
PIETRO STRAVINO
!
!
GIACOMO STRAVINO
22
FINE DEL FEUDALESIMO A MONTEFALCONE
Con l'apertura del testamento del Marchese Don Gaspare De Sanctis,
avvenuta il 13 settembre 1773, il feudo di Montefalcone doveva essere diviso tra il
di lui nipote ex sorore Marchese don Vincenzo Capece ed il Barone Pietro Stravino,
erede universale fiduciario, con l'obbligo a quest'ultimo di ottemperare a quanto il
testatore gli aveva comunicato ad aures e cioè: "costituire quattro maritaggi all'anno
da distribuire a quattro donzelle vergini e povere di Montefalcone" secondo che
"sarebbero sortite dal bussolo da farsene dai Parroci di quella terra".
Il testamento fu impugnato dagli eredi diseredati e così tutta l'eredità fu portata
davanti al S.R.C.
Fu fatta causa prima in tribunale e nella Gran Corte della Vicaria e poi nella
Real Camera di Santa Chiara, finché si venne ad una transazione. Fu compilato
un Alberano col quale si stabilì doversi procedere all'apprezzo e vendita, servatis
servandis, del feudo stesso e che dall'eredità burgensatica e feudale si dovevano
trarre legati, debiti e pesi perpetui ed il restante dividersi tra gli eredi costituiti.
Il relativo Decreto interposto di exeqatur conventio venne approvato.
Il Regio Ingegnere Cannitelli, preposto a tanto, apprezzò tutto i feudo per
ducati 72.856.
Avverso tale prezzo che si suppose "dettato con termini equivoci e maliziosi",
insorse l'Università di Montefalcone protestandosi formalmente nel S.R.C. con
lunga e ragionata istanza affinché "in qualunque tempo pregiudizio alcuno non
potesse provvenirle da siffatto consegnato apprezzo". Purtroppo, non si tenne, in
un primo momento, nessuna considerazione di questo ricorso ed il 24 luglio 1777 il
feudo venne venduto all'asta e dopo l'estinzione della terza candeletta ne rimase
aggiudicatario un tal Don Francesco Antonio Faraone con un aumento di dieci
ducati.
In seguito a maneggi architettati dal Marchese Don Pietro Stravino, il Regio
Commissario Guidotti, assegnò il feudo allo stesso Stravino col consenso del primo
aggiudicatario Don Francesco Antonio Faraone.
Allo stesso Don Pietro, oltre al feudo, furono vendute anche le rendite
feudali e cioè il Corpo della Mastrodattia "che consiste nello esercizio delle prime e
seconde cause civili, criminali e miste, il mero e misto imperio, con la podestà di
commutare le pene e giurisdizione della Bagliva".
Il 19 luglio 1778 prese possesso del feudo e da quel giorno i Montefalconesi
incominciarono a subire violenze, angherie ed oppressioni.
A frenare tali eccessi non valsero le premure del Sindaco Gabriele Paoletta
che si recò personalmente per ben due volte in casa del Barone "a pregarlo" ma
non ebbe soddisfazione, anzi le sue preghiere inasprirono l'animo dell'avido
feudatario peggiorando la situazione.
Dietro un tal modo di procedere il Sindaco convocò, il 24 giugno 1779, tutti i
cittadini in pubblico parlamento facendo accorata e dettagliata esposizione delle
circostanze proponendo ricorso per il S.R.C.. I Montefalconesi, resi consapevoli
delle prepotenze e sovercherie del nuovo padrone e conoscendo l'indole del
Marchese per "l'ansia di eccessivo interesse ed oppressione molto afflittive verso
quella popolazione", in considerazione che a tenore delle R. Prammatiche
competeva all'Università la prelazione jure Demanio nella compra del feudo e
poiché non era trascorso l'anno dal giorno del contratto di compra e dal possesso
che si era preso, stabilì proclamare il Regio Demanio. Ma anche qui le inique ed
infernali macchinazione dello Stravino stavano per capovolgere la situazione
facendo "comparire alcuni pochi della stessa terra li quali mossi da privati interessi
e specialmente dalle seduzioni dello Stravino e decoratosi dello specioso titolo di
23
ZELANTI CITTADINI umiliarono supplica al R. Trono ed industriandosi di dipingere il
Demanio dimandato per la VERA E IRREPARABILE RUINA della loro patria
supplicarono S. Maestà (D. G.) ordinare alla detta Camera a non dar luogo alla
istanza con cui detto Demanio erasi dimandato".
Questa volta le insidie dei traditori non riuscirono ed il Sindaco Paoletta ebbe
l'onore di annunziare ai suoi carissimi cittadini: "...... dopo tre anni di litigio strepitoso,
dopo tante cavillazioni e dilazioni, che abbiamo dovuto soffrire, dopo tante angosce
e dispendi, il Signore ha benedetto la causa del nostro Demanio, imperocché la
Regia Corte con Decreto in grado di tutti i rimedi ci ha accordato il Regio Demanio e
la clemenza di Sua Maestà (D.G.) si è degnata di deferire alle nostre suppliche con
accordarci quel Regio Assenso (Regalis Assensus et Consensus sit-Ferdinandus)
che hanno domandato coloro che ci danno a mutuo il denaro pel prezzo del Feudo,
essendo da valere anche in caso di devoluzione se si estinguesse la linea del
nostro concittadino FILIPPO DI FRANCESCO SACCHETTA, a cui voi miei diletti
Cittadini avete risoluto d'intestarlo".
Era necessario cautelare gli interessi dei mutuanti ed all'uopo gli
Amministratori dell'Università, i Deputati del Demanio e quaranta particolari
Cittadini benestanti fra i quali Carmine Romano, Giuseppe Si Stasio, Notar
Giovanni del fu Antonio Zeppa, Antonio di Ciriaco Zeppa, i dottori Ricciardelli, Di
Stefano, Regina, etc.. nomi narono Procuratore dell'Università il "coscienzioso e
dotto" DON GAETANO LOTTI, al quale concessero tutta la facoltà bastante
"anche coll'alter ego, vices et veces etc." per stipolare i contratti di mutuo. Una
parte del mutuo fu concesso da S.E. il duca DON NICOLA DI SANGRO e
la rimanenza da Don Vincenzo Maria Carafa Cantelmo Stuard Principe di
Roccella "Difensore e Protettore della libertà di quella Popolazione" da estinguersi
entro lo spazio di 30 anni con l'interes se "a titolo di mora, lucro cessante e danno
emergente alla ragione del 4% e con la accensione delle ipoteche sulla proprietà
di tutti i Cittadini" come correi, tanto per li beni presenti che futuri, che li medesimi
possedono sì nel tenimento di detta Università come in altri lochi".
Si constituì all'uopo il CONSIGLIO DEI SOCI presieduto dall'Arciprete Caruso,
da tutti i Preti, dai Dottori del tempo, dal signor Antonio Lupo, Carmine
Vecchilla,
Mattia Miniello , Michele Coduti, Carmine Antonio Sacchetta,
Nicolangelo Paoletta, Angelo Ciarmoli, Janzito e Gabriele Paoletti, i quali si
recarono dal Notaio Don Ignazio Coduti di Montefalcone per obbligarsi verso i
Creditori ed infatti "tacto pectore et tactis scriptis, ..... giurarono sotto la pena del
doppio patto e sotto la clausola del Costituto(Sacchetta)".
Col 27 maggio 1782 ebbe fine il Feudo e cessò il ciclo delle violenze,
oppressioni e soprusi della tracotanza baronale in Montefalcone, grazie al
"Regalis Assensus et Consensus di Ferdinandus", che se non fosse stato
disturbato dalle idee rivoluzionarie importate d'oltre Alpi avrebbe finito col dare tutte
le riforme che si richiedevano, per il bene del popolo".
L'Università di Montefalcone, che non aveva mai subito supinamente il potere
che da secoli aveva sulle spalle, colse l'occasione propizia per correre alla riscossa,
prima ancora che il regime feudale entresse in agonia, per annullare del tutto le
prerogative ormai anacronistiche e divenute insopportabili, compiendo così un
passo coraggioso verso l'abrogazione dei privilegi di classi e d'individui, che già
d'allora non potevano più resistere all'ondata di riforme sociali,
economiche e
politiche.
Il grande avvenimento costituì la vittoria finale di una lotta secolare e
sostenuta sempre con onore ed ardore, pur nei momenti di depressione. Fu,
infatti, una bella vittoria ed una magnifica affermazione dell'autonomia municipale,
dell'imprescrittibilità
e della inviolabilità dei diritti dei cittadini e della
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naturale eguaglianza delle leggi. Ma il Comune, toltosi l'incubo dello Stravino, non
curò di pagare le somme prese in prestito ed i creditori provocarono l'esproprio dei
beni feudali per la somma di 27.936 ducati.
Così il Duca di Sangro si rese padrone dei seguenti beni comunali: "Palazzo
diruto (il vecchio castello feudale), casa alla Ripilla, territori Stringarelli, Montagna
di S. Luca, masseria Vallebona, territori Ferregna, podere Mulino Vecchio e casella
dei Porci, Difesa, Porpono, Prato, Ischia, Giardino, masseria Stellara, territori
Costa dell'Orso. Apertosi il giudizio di graduazione, per il prezzo di aggiudicazione
fu attribuito al Duca di Sangro; ma la Gran Corte Civile di Lucera, ordinando che
fossero ridotte le spese di esproprio e di graduazione e che il resto si fosse diviso fra
Duca di Sangro e quello di Bruzzano (quest'ultimo, rappresentante il Principe di
Roccelle) in proporzione dei rispettivi crediti.
L'istrumento fu rogato il 15 marzo 1827 dal Notaio Emmanuele Caputo di
Napoli, ed avvenne fra i due suddetti Duchi la divisione degli immobili espropriati. Al
Duca di Bruzzano furono assegnati i seguenti beni: Palazzo diruito, casa alla
Ripitella, il territorio alla Scomunicata, il territorio ed il mulino adiacente alle Cesine,
la montagna di San Luca ed il territorio Stringarelli, tutti gli altri beni furono attribuiti
al Duca di Sangro.
Quest'ultimo restò ancora creditore di una ingente somma, per cui nel 1828
iniziò una seconda azione legale contro il Comune ed i cittadini obbligati. Non
mancarono opposizioni da parte dei debitori e la Gran Corte di Napoli, con
decisione del 18 agosto dello stesso anno, condannò il Comune a pagare il Duca
Riccardo di Sangro, succeduto al padre, la somma di ducati 30.754, 06, oltre alle
spese di giudizio.
Questa sentenza fece mettere senno ai maggiorenni del Comune, i quali
pensarono di soddisfare il Duca con i beni comunali e, ottenuta l'autorizzazione, fu
fatto l'istrumento dal Notaio Benedetto Conte di Napoli il 23 febbraio 1839.
Il signor Albenzio Paoletti, nella qualità di procuratore del Comune di
Montefalcone, cedette al Duca Riccardo, in soddisfazione del suo credito di ducati
37.079, 29 le tenute Gallizzi, Pagliano, e demani e una prestazione della semenza.
Finirono così le contese del comune ed ebbe inizio la proprietà del Duca di
Sangro. In seguito il Duca di Sangro vendette i predetti beni ai cittadini di
Montefalcone e dei paesi limitrofi; la vendita fu fatta dal Notaio Leonardo Capozzi,
quale amministratore del Duca.
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SOLLEVAZIONE POPOLARE
Con la invasione francese del 1806, il Re Ferdinando si rifugiò in Sicilia
(30/3/1806), e salì sul trono di Napoli Giuseppe Bonaparte, sostituito dopo una paio
di anni da Gioacchino Murat che dichiarò abolita la feudalità, le sue prerogative ed i
suoi attributi.
"Era un processo di fatale decadimento, fatale e perciò generale", dice lo
storico Gioacchino Volpe, e così la scena finale del dramma accelerava il suo ritmo
per le straordinarie vicende dei tempi e le cose, nei riguardi del regime feudale,
precipitarono ed ebbero l'ultimo colpo ed il definitivo tracollo.
I discendenti del Consiglio dei Savi di Montefalcone sfruttarono tale processo
di decadimento, che fu lento nei tempi normali, ma terribilmente accelerato negli
anni torbidi, e profittando della pubblicazione della legge del 2 agosto 1808,
vennero meno agli impegni assunti dagli avi nel 1782.
Interessi e capitale non furono pagati né al Duca di Sangro, né all'unico figlio
del Principe Roccella: Don Gennaro Maria Carafa duca di Bruzzano.
Dati i tempi non favorevoli, tanto il Principe che il Duca non si sentivano la
forza di resistere alla pressione cui erano sottoposti, anche perché nuovi
avvenimenti si prospettavano all'orizzonte e la Monarchia non aveva volontà di
proteggerli.
Con la caduta dell'Impero Napoleonico, che travolse nelle sue rovine anche
Gioacchino Murat, e col ritorno di Ferdinando IV dalla Sicilia, il Principe ed il Duca
per sostenere i loro diritti e per non perdere del tutto i loro titoli di creditori,
colsero l'occasione propizia per iniziare gli atti coattivi contro il Comune ed i
cittadini firmatari, dando così principio ad un giudizio civile, ricco di masse di
documenti e memorie.
La causa fu agitata davanti il Tribunale di Capitanata e si risolvette con la
vendita all'asta dei beni di parecchi cittadini e con la corresponsione della mezza
semenza a beneficio dei creditori instanti fino alla totale estinzione del debito.(1)
I Montefalconesi accusarono il colpo ed attesero tempi migliori. Dopo aver
pazientato per oltre 40 anni, la mattina del 7 maggio 1848 scoppiò la sollevazione
popolare, causata da cattiva interpretazione della circolare ministeriale del 22
aprile,
con la quale si "richiamava i Comuni a rivendicarsi i fondi già stati
Demaniali o Feudali ceduti ai creditori, Baroni, Principi, per debolezza, per
miseria, ignoranza o raggiri degli amministratori".
Animati da questa notizia tutti i popolani corsero alla casa del Sindaco
Michele Marcantonio, minacciando la vita, se non avesse fatto proclamare il
bando di proibire la misurazione
dell'agro semenzato e l'espulsione
dell'agrimensore, per non pagare la mezza semenza ai Duchi di Sangro e di
Bruzzano.
Il Sindaco "atteso i clamori del popolo e premendo vieppiù le minacce", visto
che non poteva dissuadere la plebe dal criminoso proposito e ridotto a mal partito,
gli fu forza concedere quello che non poteva "est quidam humanarum virium
modus, qui nulla virtute reparari potest" e di concerto con il Capitano della
Guardia Nazionale, ordinò al servente comunale Michele Abatessa di pubblicare
il bando richiesto.Dopo una tale legalità la ciurma credette lecito invadere i terreni e
per conseguire i suoi presunti diritti si affidò all'arbitrio e alla violenza "id quod
deberi sibi putat non per judicem reposcit”.
-------------------e corse, con tamburo e fanfara in testa, che colà trovandosi in occasione
della festa di S. Michele, a porre i termini lapidei nei possedimenti dei Duchi "che
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da più tempo, dice il Sindaco, si erano ceduti ai creditori, stimando in simil
maniera riconquistare il loro perduto diritto di padronanza ed antico lor patrimonio".
Sul fare della sera tutto il popolo si radunò nel largo S. Vincenzo fuori l'abitato, per
attendere l'arrivo del corriere postale e sequestrare la corrispondenza, nella
speranza di impadronirsi di quella famosa circolare ministeriale.
Appena arrivato prelevarono il procaccia e lo condussero in paese, ma giunti
al largo della Croce si fece innanzi nuovamente il Capitano apostrofando
aspramente quei tumultuanti e così il procaccia rimase libero e fu accompagnato al
Comune, ove alla presenza del Sindaco, di tutte le Autorità Civili ed Ecclesiastiche
e di tutto il popolo fu aperta la valigia e letta la corrispondenza ad alta voce.
Non rinvenutasi la circolare "la ciurma vieppiù inferiva verso gli amministratori e
gli impiegati archivari, supponendo che questi tendevano defraudare i loro diritti con
l'involamento di essa".
Il Capitano "dopo lunghi e pericolosi contatti avuti col popolo", si obbligò a
rintracciarla o richiederla dalle rispettive autorità poi presentarla il dì seguente".
In quel tafferuglio due dei dimostranti furono feriti ed uno perdette la vita per
mano di Don Pantaleone
Corso. Alla vista del sangue tutti i galantuomini scapparono via cercando
riparo e salvezza, ma una parte del popolo inseguì l'Arciprete, lo maltrattò e
malmenò, ed il di lui fratello Don Giuseppantonio Palazzi, con viva forza fu
portato a casa dell'esattore della fondiaria don Claudio Sacchetti per rintracciare
la diabolica disposizione. L'altra parte della moltitudine si recò in folla, per
rappresaglia, a scassinare la farmacia di don Pasquale Corso, padre dell'uccisore,
devastandola in pieno ad onta della resistenza opposta dall'Ufficiale di settimana
signor Ricciardelli, ivi destinato con una pattuglia a serbare l'ordine pubblico.
Non seguirono altri eccessi per la "prudenza, zelo, compromissione e attività
del Capitano che non desistette tuttavia sorvegliare contro i perturbatori e garentire
sempre più i diritti del pubblico e del privato".
All'alba del giorno 9, punto dimenticandosi le pretenzioni della antecedente
sera, l'intero popolo, sempre armato come nei giorni precedenti, prelevò il
Sindaco e lo condusse davanti la casa del Capitano per ricevere la famosa
circolare, che non essendosi rinvenuta fu supplita da una copia del Giornale
Costituzionale della stessa data e con la lettura del medesimo si pacificò l'animo
irato di quella gente rimanendo finalmente soddisfatta.
Non contenti i tumultuanti di quanto avevano per l'innanzi abusivamente
praticato, vollero essi stessi, non per loro particolare profitto bensì per garantire
sempre più gli interessi del Duca di Sangro, fare apporre i sigilli di ceralacca per
mano del Sindaco sui magazzini in modo da estromettere i famelici amministratori.
Poi il ciclo delle tre giornate, recandosi, sempre armati con i più svariati
arnesi agricoli, alla contrada Stellara e Vallebona per prendere anche il possesso
di queste zone, come pure s'impadronirono delle chiavi dei mulini che
consegnarono al Sindaco insieme all'estaglio della Montagna in ducati 480 dovuti
dal fittavolo don Vincenzo Riccio al Duca di Bruzzano.
Dopo questa breve pausa di completa anarchia torna la calma e la
tranquillità.
Dal verbale redatto dalle Autorità Comunali ed Ecclesiastiche si rileva che la
causa principale di questa sollevazione popolare va ricercata nella fraudolenta
amministrazione degli agenti ducali.
"La pace, dice il Sindaco, che serbavasi in questo Comune, quantunque
oppresso dalla miseria, era invidiabile, proveniente dalla docilità, buona indole
ed affabilità che sempre ha distinto questi cittadini. Ella però era cosa di pubblica
conoscenza, nonché causa originaria di tanti subbugli popolari, che l'agente del
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Duca di Sangro don Giuseppe Maria Cirelli di Castelfranco, nel giro di 18 anni ha
depauperato questo Comune, usando sempre atti abusivi ed arbitrari, ecc... ecc." e
continua che è un voto pubblico allontanare subito il Cirelli dal Comune e "i molti
soprusi commessi a danno di questo popolo, che l'hanno soverchiamente vilipeso,
ha cercato finalmente rimuoversi da quel gioco, che da più tempo l'aggravava,
avendo perduto in simil modo tranquillità, roba ed onore".
Il verbale a firma del Sindaco, del Capitano Tutolo, del 1^ Tenente Grassi,
del 2^ Tenente Mansueto, degli alfieri Ricciardelli e Pasquale Tutolo, del
Conciliatore Sacerdote don Nicola Tulino, dello Arciprete Palazzi, di Antonio Doto,
Alessandro Paoletti, Giuseppe Miresse, Giovanni Dimperio, Agostino D'Alessio,
Giuseppe Zeppa, del Segretario Giuseppe De Luca e di molti altri, così conclude:
"possiamo intanto assicurare ogni Autorità che questo popolo fin dalla sera del
giorno 9, ha ripreso la sua primiera quieta e speriamo perduri nella risoluzione
intrapresa".
Dopo qualche giorno l'agente Cirelli denunzia il fatto a S.E. Federico
Campobrin, Sottointendente del Distretto di Bovino, incriminando il popolo, il
Sindaco, Decurioni, Parroci, Autorità Civili, Comunali e Pubblica Sicurezza.
Si inizia cosi una lunga e voluminosa procedura che durò parecchi anni per
atto arbitrario contro i diritti civili dei Duchi di Sangro e Bruzzano di Napoli ed alla
fine, come in quasi tutti i processi di tal genere, dopo una dotta requisitoria del
procuratore Uva che si riporta alla notissima legge Julia "De vi pubblica et vi privata"
la Gran Corte applica l'Art. 38 delle leggi p.p. e "dichiara non esservi luogo a
procedimento penale contro tutti gli imputati".
È uno dei tanti processi che traggono origine da moti proletari: dalla sempre
viva aspirazione degli agricoltori nullatenenti di possedere un pezzo di terreno
senza tener presente il "facimus sed in iure facimus" (2).
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GOVERNO PROVVISORIO
Mentre il Governo Dittatoriale di Garibaldi emanava proclami e decreti,
raccomandando a tutti "che questo stato transitorio passi con calma,
con
prudenza, con moderazione", in attesa dell'arrivo di Vittorio Emanuele che da
Ancona aveva già annunziato che la sua politica in Europa "non sarà forse inutile a
riconciliare il progresso dei popoli con la stabilità delle monarchie, formando nella
libertà la forte monarchia italiana", in quasi tutti i paesi del Molise e SubAppennino avvenivano accessi, tumulti e reazioni.
In Montefalcone, approfittando che la truppa di stanza in provincia fu fatta
ripiegare su Napoli per accorrere a Gaeta, i rivoltosi ne colsero l'occasione per
creare quello stato di anarchia, eccitando i proletari a prendersi la rivincita sui fatti
del 1848.
Il 12 agosto 1860 ci fu un nuovo tentativo di sollevazione popolare
capeggiato dai germani Pietropaolo e Antonio Altobelli fu Giambattista e Pietro
Tudisco fu Bartolomeo "i quali si resero promotori del tentato disordine a
comunismo che fino a tre ore di notte non cessarono di esternare disegni di
reazione, promettendo che tutto avrebbe eseguito col grido di Viva Francesco II!
Si fotte la Guardia Nazionale!
Il 15 agosto, mentre le autorità erano intente a presenziare alle sacre
funzioni, "quei perturbatori si conferirono arbitrariamente nella tenuta erbifora di
S. Luca dei Sig/ri Filiasi e Frascolla e con modi violenti cacciarono dal pascolo gli
animali e gli stessi proprietari. Ritornati in paese si recarono nell'abitazione
dell'Agente del Duca scassinando tutto, rubando e bruciando quanto vi era,
dopo si condussero nel magazzino dei cereali ove praticarono lo stesso".
Il giorno dopo si recarono ad occupare anche i terreni del Demanio tenuti in
fitto da Saverio Sgalia.
Al povero Cirelli, Agente del Duca di Sangro e proprietario della Difesa di S.
Luca, già duramente provato durante i moti del 1848, dopo essersi messo al
sicuro in Castelfranco insieme all'altro Agente Bozzuto Salvatore, non rimase che
ricorrere al Ministro Segretario di Stato per l'Interno al quale indirizzò un dettagliato
rapporto sottolineando che "in quel Comune si era risvegliata l'infame idea del
Comunismo" ed implorava misure di rigore contro i colpevoli.Il Ministro dette subito
disposizioni all'Intendente "perché la Autorità Civile tenesse in una mano la forza
per farsi rispettare".
L'Intendente, però, privo di una forza repressiva, emanava circolari ai
Comuni per assicurare e tutelare la pubblica tranquillità dalle mene dei reazionari,
imponendo a tutti i Sindaci di mobilitare una parte della Guardia Nazionale e
spedirla nei centri di raccolta per tenersi pronta ad accorrere dove il bisogno lo
richiedeva e dove le libere istituzioni erano attentate da incauti anarchici e
reazionari.
La Guardia Nazionale non bastava perché era stata divisa un po’ da per tutto
in quanto quasi contemporaneamente ogni comune era insorto e l'Intendente
stesso fa rilevare questa lacuna dicendo di non aver "alcuna forza disponibile
meno quella dei Dragoni, decimata dalla malattia, e che debbono accorrere al
bisogno di due altri Distretti importantissimi ed alla conservazione dell'ordine
pubblico in questo Capoluogo" e così ogni paese creava la sua avventura.
Fu sollecitato il Giudice Simonelli da Castelfranco a prendere provvedimenti
contro i sobillatori e rei di Montefalcone; ma questi in data 8 settembre 1860
rispondeva all'Intendente di aver fatto il suo dovere informando tutte le Autorità
Governative ma certo non poteva però esporre la sua persona ad un sicuro pericolo
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"per procedere all'istruzione dei reati ivi commessi". E dichiarava pure che non
"credeva opportuno il concorso della Guardia Nazionale di Roseto Valfortore per
non assumersi responsabilità di qualche fatto di armi che potrebbe avvenire fra i
due Comuni" però assicurava che non appena "si sarebbero pacificati gli animi"
avrebbe proceduto "rigorosamente contro i colpevoli di Montefalcone".
In risposta l'Intendente fece sapere che "dopo la distruzione è inutile il
rimedio.
La giustizia punirà i colpevoli ma non riparerà i danni essendo i rei tutti
proletari" e raccomandava caldamente al Giudice ad "agire con la possibile
sollecitudine, eccitando almeno lo zelo della Guardia Nazionale".
Tutte le persone probe e di provata fede liberale si erano rifugiate in luoghi più
o meno sicuri, dai quali facevano pervenire ricorsi infuocati all'Intendente
domandando giustizia.
Così l'Arciprete don Carlo Palazzi, che era stato designato come vittima da
sacrificare insieme al Sindaco ed al Capo Plotone della Guardia Nazionale don
Carminio Goduti, da accorto buon prete conservatore si rifugiò in Roseto Valfortore
da dove rapportò che l'ex Capo Compagnia della Guardia Nazionale sig. Sacchetti
si era eretto a "protettore della plebe disseminando nel volgo mille falsità,
arrivando fino a dire che Montefalcone sarà tra un giorno all'altro elevato a
GOVERNO PROVVISORIO".
Il 7 settembre mentre si festeggiava Garibaldi a Napoli, si sparse la notizia
che una banda di insorti dei paesi limitrofi bene armata si sarebbe recata a
Montefalcone per assecondare i turpi desideri dei rivoltosi e così tutta la plebaglia
si rimise in movimento con a capo Pietro Maffia al grido: "all'armi! all'armi! che
giunge la truppa amica" minacciando la vita a chi avesse pronunziato o festeggiato
il nome del Dittatore.
La Guardia Nazionale e quella parte sana della popolazione, a suon di
campana, fu mobilitata per difendersi dall'assalto che sarebbe venuto di fuori.
Ad un'ora di notte, infatti, si presentò alla porte del paese una ciurma urlante,
ma venuta a conoscenza che quasi tutto il popolo era contro, stimò allontanarsi
immediatamente.
In questo frattempo il rivoltoso Maffia "si avventò contro il Primo Tenente don
Carminio Goduti tirandogli un colpo di scure dal quale si difese ed indi con lo
stivale che fu anche sbalzato senza essere punto offeso".
L'attentato impaurì don Carminio a tal punto che immediatamente ricorse
all'Intendente affinché
facesse arrivare "un'importante armata,
onde
far
riconoscere il nuovo Governo e ripristinare l’ordine, non tralasciando disporre il
disarmo di coloro, che non essendo facoltati a detenerle, se ne sono provvisti dai
soldati borbonici sbandati, che per qui transitavano".
Non mancò pure far rilevare, forse per ragioni personali, che tutta la
Guardia Nazionale si cooperò per il bene della Patria ad eccezione del solo
Secondo Tenente don Pantaleone Corso che "tradendo il suo sacro mandato si
teneva tranquillo e chiuso in casa di suo suocero don Claudio Sacchetti", per cui fu
destituito per espresso.
Fu ordinato al Capitano DE PEPPO di Lucera di abbandonare la sua città
"poiché per la sua avanzata civiltà è immune da perniciosi pericoli di comunismo" e
di recarsi a Montefalcone per reprimere con energia quei disordini ed arrestarne i
responsabili, "il maggior utile che Ella trarrà dal disagio che le cagione questa
spedizione sarà il bene del Paese".
Contemporaneamente all'ordine del Governatore della Provincia arrivò pure
un telegramma del Dittatore che invitava il DE PEPPO a partire subito per Napoli e
così della cosa si interessò il Capitano don Gaetano De Troia il quale affermò
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che "i Lucerini abbenché pronti ad affrontare ogni pericolo per il pubblico e privato
interesse, sono però affatto estranei e conoscitori di Montefalcone e quindi non
potrebbero dirigere l'azione e prendere di mira quei luoghi richiesti da una sana
strategia fissando il punto da cui muovere alla sorpresa dei facinorosi comunisti".
Intanto a Montefalcone si viveva nella più completa anarchia, tanto che il
Sindaco Palazzi all'oscuro di qualsiasi disposizione governativa, scriveva a tutte
la Autorità ma non aveva mai nessuna risposta fino a che si decise denunziare al
Capo della Provincia per fare arrestare una quarantina dei suoi più accesi
amministrati quali fautori e responsabili degli eccessi rivoluzionari.
Nel contempo pregava il Governatore affinché si compenetrasse una buona
volta "del deplorevole stato di quel disgraziato paese che invece di smorzarsi il
fuoco dell'anarchia si sta riaccendendo con minacce di vita nella mia persona e di
pochi galantuomini che vi sono rimasti.
Se si indugia altro tempo si avranno a deplorare fatti irresponsabili che certo
la di Lei coscienza non potrà mai tollerare".
E così finalmente fu spedito da Bovino una forza non indifferente la quale dopo
aver "approfondito con ogni zelo le indagini sugli autori del disordine e raccolti gli
elementi procedette all'immediato arresto dei medesimi" che furono tradotti alla
Sotto Intendenza di Bovino per indi istruirsi a loro carico la corrispondente
processura a termini di legge.
Dopo una tale operazione punitiva tornò la calma e la tranquillità in
Montefalcone.
Questo movimento popolare chiamato RIVOLUZIONE - SOLLEVAZIONE
BANDITISMO ANARCHICO sarebbe un po’ come ieri, come oggi, come sempre
l'eterna guerra della parte proletaria contro il ricco, che a differenza del
BRIGANTAGGIO, il cui scopo pratico era senza dubbio la rapina, l'appropriazione
delle ricchezze altrui e la mania di distruggere per sfogo di vile e feroce vendetta
personale, aveva di mira conseguire le proprie secolari esigenze, sia pure sotto il
velo della difesa del trono.
La secolare aspirazione di questa gente, la loro vera libertà sarebbe stata la
spartizione delle terre ed il possesso della cosa pubblica nelle mani dei contadini e
perciò nulla di più naturale che per realizzare i propri disegni tutti i popolani
approfittassero
dello sconvolgimento
nazionale
per inscenare la propria
rivoluzione.
Ma, purtroppo, doveva passare ancora molto tempo prima che queste
moltitudini campestri potessero cercare la via del loro riscatto non in endemici
sussulti, ma entrando attraverso i partiti dei lavoratori nel libero gioco delle forze
pubbliche, facendo valere i propri interessi col metodo democratico, sul piede di
una effettiva eguaglianza, in uno Stato espressione di tutte le classi.
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IL BRIGANTAGGIO
Il brigantaggio fu un fenomeno generale di tutta l'Italia del Sud e quindi anche
della nostra terra. Pasquale Villari dice: "Il brigantaggio non nasce da una brutale
tendenza al delitto, ma da una vera e propria disperazione.
Diventa la protesta selvaggia e brutale della miseria contro antiche e secolari
ingiustizie". (1)
Anche se tanto è stato scritto sull'argomento, è opportuno, sia pure
brevemente, puntualizzare la situazione per poter meglio capire il movimento.
La situazione economico-sociale della nostra penisola era costituita quasi in
un doppio profilo: un'Italia cittadina e un'Italia rurale o agricola, con due diverse
ideologie e con due diverse strutture economiche.
L'Italia settentrionale era caratterizzata prevalentemente da una civiltà urbana,
cittadina, industriale, ad economia aperta (economia di mercato o finanziaria); da
un'ideologia liberale che si traduceva sul piano politico nelle forme della monarchia
costituzionale.
Nel sud, invece, la situazione era ad un livello precapitalistico, preliberale,
premoderno (economia agraria, chiusa, di consumo) ed era strettamente
connessa con forme politiche ancora feudali o semifeudali.
Questa diversità sostanziale era la ragione prima di tutte le difficoltà in cui
venne a trovarsi la nuova classe dirigente.
L’incontro e lo scontro delle due strutture politiche ed economiche si risolse
evidentemente a danno di quella più debole e più arretrata.
Prima dell'unità nel meridione la situazione aveva un suo equilibrio interno
quantunque ad un basso livello di civiltà: la deficienza dei beni economici era
compensata
dalla presenza
di istituzioni civili e
religiose (confraternite
assistenziali ed opere caritative) legate al demanio comunale o alla mano morta
ecclesiastica; inoltre, i ceti specialmente più umili erano esenti da imposizioni
fiscali e da obblighi civili, come la leva militare.
Il vecchio stato se nulla dava, nulla pretendeva.
Dalla letteratura verista, che è regionalistica e meridionalistica, possiamo
capire meglio la situazione: nei Malavoglia di Verga la intromissione dello stato
italiano nella povera famiglia, mediante la leva militare e le imposizioni fiscali,
determina il tracollo della già stremata economia: "'Ntoni dopo il servizio militare
diventa contrabbandiere e ribelle, la casa del Nespolo è sequestrata, il vecchio
patriarca va a morire in uno squallido ospizio.
Nei Viceré di De Roberto comprendiamo un altro aspetto della questione
meridionale: il trapasso delle vecchie famiglie baronali alla nuova realtà politica, il
che ci dice che le classi dominanti rimasero le stesse sotto nuova forma e le classi
subalterne subirono un aggravamento di oppressione e di sfruttamento.
La rapida trasformazione politica e l'atteggiamento assunto dal governo
piemontese, che si avvalse di uomini che non conoscevano le reali condizioni
delle province meridionali, suscitarono ovunque risentimenti e malcontenti non solo
negli esponenti della vecchia classe dirigente borbonica, ma perfino negli stessi
liberali, molti dei quali ritenendo che la libertà e la nazionalità siano sinonimi di
ricchezze ed impieghi, lamentano di non essere chiamati a ricoprire incarichi
remunerativi.
Mutato il governo, le condizioni delle nostre zone rimangono le stesse, anzi
si aggravano: oppressi dalla miseria, tormentati dalla fame e dalla disperazione,
non si vede alcuna via di uscita ed i vinti e gli oppressi guardano con odio coloro che
si sono avvantaggiati degli avvenimenti politici riuscendo ad ottenere cariche e
nuovi guadagni.
32
"Questo stato di cose, come dice Anianello (2) li sconvolge, li esaspera, li
rende facili vittime di chi mal sopporta di essere stato sostituito dai fautori del
nuovo ordine politico.
Nella miseria che avvilisce le plebi, nel risentimento di coloro che sono tenuti
in disparte dalla vita del proprio paese, nell’incomprensione del potere costituito e
dei suoi
rappresentanti in provincia,
si sprigionano le prime scintille del
brigantaggio".
A favorire questo movimento si aggiungono anche la pusillanimità e l'avidità
di guadagno del ricco proprietario di terra, il quale, non sentendosi protetto dai
rappresentanti del potere centrale, cede al brigante, lo accoglie nelle proprie terre,
lo protegge, lo favorisce, lo sfrutta.
Ad accrescere il malcontento che serpeggia tra le masse contadine per la
mancata risoluzione della questione demaniale, nel 1860 furono chiamati in
servizio tutti i soldati dell'esercito borbonico e questo mentre il prezzo del pane e
dell'olio erano in aumento, così come la miseria.
A queste cause si aggiungano poi gli oidi ed i rancori personali, la prepotenza
della nuova classe dirigente e si comprenderà come era facile divenire ribelle, e
per sfuggire ai tutori dell'ordine si cercava riparo nelle boscaglie, ci si riuniva in
comitive ed il brigantaggio era in atto!
Nel meridione abbiamo avuto due periodi in cui il brigantaggio ha fatto sentire
maggiormente il suo peso ed entrambi legati alla caduta borbonica: il primo al
principio dell'800 con la conquista napoleonica e quindi col governo di Murat ed il
secondo a metà del secolo lo con la conquista dei Savoia e quindi di Garibaldi.
Entrambe le conquiste -come sempre avviene- portarono malcontento,
rapine, soprusi e questo fomentò il banditismo, che veniva pure stimolato e
protetto dalla stessa corte borbonica.
Lo scopo che si prefiggevano i Borboni era quello di sabotare il rafforzamento
del nuovo governo e di mostrare all'Europa, ancora perplessa ed in parte ostile,
che lo stesso, non aveva l'autorità e la forza di imporre il rispetto della legge e di
garantire la tutela della vita e degli averi di pacifici cittadini.
Naturalmente
il brigantaggio ebbe
a diffondersi più rapidamente,
rinnovandosi di continuo in quelle province dove lo stato economico e la condizione
sociale dei contadini era più infelice.
Montefalcone per la sua posizione geografica a cavaliere tra la Capitanata
ed il Principato Ultra, con un imponente castello che lo dominava, ed essendo la
sua Signoria, come del resto la maggior parte del popolo, fedele al Reame
Borbonico, non poteva rimanere estraneo a questo fenomeno che, ripetiamo, è da
considerarsi non solo come semplice manifestazione di criminalità, ma anche e
specialmente come manifestazione politico-sociale.
Le prime manifestazioni di brigantaggio le troviamo a Montefalcone già nel
1809; infatti leggiamo nel Cirelli: "Nel 1809 detto castello fu demolito da un'orda di
assassini, della quale era antesignano un tale Tommaso Quartucci, naturale di
Montefalcone.
A ciò fu indotto dal timore di poter essere da quel sito offeso o turbato nei suoi
criminosi disegni.
Egli nutriva un sentimento di vendetta contro la famiglia de Matteis ed altri
suoi compaesani. Simulò amicizia ed affetto alla patria, ai parenti, agli amici.
Ebbe quindi libero accesso nel paese,
e dopo un banchetto che
rassomigliava ad un'orgia, togliendo dal viso la maschera della simulazione, si
recò di filato, in unione dei suoi depravati compagni nella casa de Matteis, dove
al saccheggio unirono ogni altra maniera di misfatti.
33
Uccisero barbaramente il capo di famiglia a nome D. Vincenzo, e lo
gettarono nelle fiamme delle quali era già preda l'intera casa.
Portarono seco loro due altri fratelli dello ucciso, uno Minore Conventuale,
l'altro Sacerdote secolare, che in compagnia di altri compaesani furono
moschettati infamemente in luogo fuori l'abitato, dopo aver posto a sacco le case
delle famiglie più agiate del paese.
Coloro che furono trucidati, invano chiesero i conforti della religione: efferata
barbarie della quale ben doveva essere imminente il castigo del cielo; e infatti
dopo pochissimi giorni il Quartucci e suo cognato Salvatore Pauletti, che erano i
più formidabili assassini e motori delle operazioni dell'Orda, furono catturati e
trascinati appesi alla coda de’ cavalli per le strade del vicino Comune di Baselice,
dove trovavasi il Colonnello Galloni, lasciando la vita infame tra le ripercosse dei
ciottoli di quelle angustissime vie".
Si ignorano le cause di tanto odio da parte dei Quartucci verso la famiglia de
Matteis; ed è tradizione che gli eredi di questa, spaventati per tanta tragedia, si
siano trasferiti in altro centro della Valfortore.
In questo stesso periodo operava nelle nostre zone la terribile banda dei
Vardarelli, "la più famosa e la più temuta a quel tempo in tutto il regno -come
attesta Mario Monti-.
Ne facevano parte tre fratelli: Geremia, Gaetano e Giovanni Vardarelli che
avevano passato ai seguaci, temibili scorridori del brigantaggio pugliese e
molisano, come Bartolomeo Minotti, Giuseppe Primerano, il loro soprannome,
tolto dalla professione della famiglia, da anni dedita a fabbricare selle, cioè Varde
in vernacolo.
Avevano stabilito il loro quartiere generale nella vallata del Fortore, densa di
boscaglie e scavata di dirupi ma, montati sui migliori cavalli, scelti nei pascoli del
Tavoliere, si spostavano come lampi nelle province vicine di Campobasso,
Benevento, Potenza, Bari e Lecce.
Dappertutto erano ospitati dai padroni delle masserie, timorosi delle loro
terribili rappresaglie, imponevano taglie, balzelli e fermavano i procaccia che
portavano alla capitale i profitti delle tasse, distribuendo spesso migliaia di ducati
tra i contadini più miseri che, in cambio, li tenevano informati dei movimenti della
truppa e aprivano ai briganti i più sicuri rifugi dei loro villaggi, circondando don
Gaetano dell'aureola del vendicatore e del giustiziere". (3)
A conferma di quanto asserito dal Monti, circa la zona di operazione della
banda Valdarelli, riportiamo integralmente una lettera circolare del Segretario
Generale, N. Ucci e pubblicata sul Giornale dell'Intendenza di Capitanata "n^ 29
luglio 1816 p.268-270.
34
2^ DIVISIONE
Foggia, lì 11 luglio 1816
Oggetto: Sulla luminosa bravura degli abitanti di Montefalcone
L'INTENDENTE DI CAPITANATA
Ai
Signori
SottoIntendenti, Sindaci, Eletti,
Decurioni,
Parochi,
Giudici
di
pace,
Comandanti
Legionari
della
Guardiad'interna
sicurezza,
ed
Amministrati tutti della
Provincia.
Signori,
La comitiva degli assassini Vardarelli che da più mesi infesta di bel nuovo la
vostra Provincia, e le confinanti, la sera del 28 del prossimo scorso giugno osò
avvicinarsi al Comune di Montefalcone nel distretto di Bovino dando a divedere di
voler penetrare nello abitato.
Accortosi di ciò quel Sindaco, il Comandante Civico, e l'altro della Guardia
d'interna sicurezza, animati da vero zelo, e risoluti di voler liberare la loro patria
dagli orrori ed eccessi che quei masnadieri vi avrebbero portato, riunirono sul
momento Legionari, Guardie di sicurezza e tutti i Cittadini bene intenzionati.
Armati in buon'ordine colla più singolare intrepidezza, e sangue freddo
uscirono coraggiosamente dalle loro mura ad affrontare gli assassini.
Questi però benché soliti a mostrarsi altre volte forti, ed audaci ad incontrare,
e battersi con chiunque ha cercato atttaccarli, spaventati dal voto unanime di quei
bravi Cittadini stimarono abbandonare l'impresa, e dirigersi altrove.
Siffatta mossa de’ buoni abitanti di Montefalcone sono stati da me ricevuti
dall'arrivo in questa Provincia, ed indi dal zelantissimo Maresciallo di Campo
Cancellier Commissario del Re colla podestà dell'alter Ego per impegnarsi ad
uscire da ogni minima indifferenza nel muoversi contro i nemici dell'ordine. Sono
stati i primi a dare il segnale del modo, come la masnada, ed orde di fuorbanditi
debbano affrontarsi, se vilmente non salvansi colla fuga.
È inutile il dirsi, che percorrendo quella de’ Vardarelli francamente le vaste
pianure, e campagne della Puglia, dove passando da un luogo all'altro commette
degli orrendi atti di ferocia, ed enormi delitti, senza esser stati finora distrutti, od
assicurati alla giustizia, sia difficile cosa il vincerli.
Sono voci di simil fatta sparse da vili, da vagabondi dagli oziosi, e dà pastori,
che profittando del prodotto de’ di loro ricatti, e si affaticano a scoraggiare i buoni.
Essi però quali corrispondenti, e fautori saranno una volta scoverti dalla
Polizia, e puniti col massimo rigore delle leggi.
Già da ogni dove numerose forze militari di cavalleria, fanteria, legionarj, ed
armigeri a cavallo posti a disposizione del prelodato Signor Maresciallo di Campo
Camcellier vanno in cerca degli scellerati per incalzargli, ed estinguerli.
In momenti così fortunati proprj delle cure paterne del nostro adorato
Sovrano, con esempj tanto luminosi dati dai Montefalconesi, ne starete voi
nighettosi, permetterete voi, che i Vardarelli continuino a macchiare del sangue
de’ vostri concittadini, de’ pacifici abitanti delle campagne il vostro territorio,
35
facciano ulteriori ricatti, ed assassinj e distruggano le vostre proprietà certamente
no?
Alla semplice loro apparizione continuate a passarne subito l'avviso, ajuti, e
soccorso à Capi, à Comandanti della forza pubblica, e delle colonne mobili.
Unitevi allora colla rapidità del fulmine ricordatevi, che la forza consiste
nell'unione, cercate di affrontare come quei di Montefalcone gli assassini, fategli
conoscere di essere voi degni nipoti degli antichi Dauni, e Sipontini.
Date prove che non avete che cedere alle popolazioni delle Provincie di
Campobasso, e Basilicata, dove i Vardarelli non trovando alcun favore sono stati
costantemente battuti, e messi in fuga.
Essi non essendo invulnerabili, resteranno atterrati, e distrutti.
Supererete così di valore le gesta degli abitanti di Montefalcone, che rapportati
da me a S. E. il Segretario di Stato Ministro della Polizia Generale, in riscontro nel
ricolmare di lode, che giustamente si hanno meritato que’ zelanti, e coraggiosi
Cittadini, mi ha incaricato di manifestarli la sua piena soddisfazione per l'interesse
preso contro i nemici della quiete pubblica, e delle vostre sostanze. Intanto,
affinché un esempio di sì singolare bravura possa essere di stimolo agli altri
Funzionarj locali, e tutt'i miei buoni
amministrati, se pur ne hanno bisogno, invito i Signori Sindaci, e Parrochi di
dare allo stesso la più estesa pubblicità, acciò ognuno penetrato dalla circostanza,
possa nelle occorrenze, gareggiando di zelo, spiegare la maggiore energia contro
un pugno di miserabili, che attesi i continui movimenti della forza pubblica non può
sfuggire la pena, che gli è dovuta.
Felice però, e degno dell'indelebile elogio sarà quel prode mio amministrato,
che ben guidando i suoi buoni concittadini riuscisse di attaccare il primo, battere,
o sbaragliare i masnadieri suddetti.
Egli avrebbe la gloria di aver contribuito a far riacquistare alla Provincia di
Capitanata quella calma, che per i medesimi è stata da più tempo, ed è tuttavia
agitata.
Ho l'onore di salutarvi con distinta stima.
Il Principe di Monteruduni Il Segretario Generale
N. Lucci
Su lo stesso "Giornale dell'Intendenza di Capitanata" n.77 del 3 maggio 1817
p.228 con data: Foggia lì 25 aprile 1817, troviamo un'altra circolare dell'Intendente
di Capitanata a firma dello stesso Lucci in cui parla di un altro brigante:
Signori,
Il Signor Direttore del Ministero della Polizia Generale del Regno con suo foglio
del dì 12 del corrente mese mi perviene: che S. M. si è degnata con Real decreto
del dì 7 di accordare il premio di ducati duecento alla forza pubblica, che
esterminò il Fuorbandito Filippo Tutisco, o Tudesco del Comune di Montefalcone.
Nel passare tutto ciò alla di loro intelligenza, si compiacciano di dare a questa
Circolare la più estesa pubblicità, onde far conoscere ai loro Amministrati, che la
prelodata M.S. non lascia senza ricompensa i servizj che si prestano pel bene
dell'ordine pubblico, dietro i rapporti che le vengono assegnati dal prelodato Sig.
Direttore.
Al secondo periodo appartiene la figura del brignate Michele Caruso.
Questo personaggio che ancora oggi vive tra la fantasia e la realtà, nacque il
30 luglio 1837 a Torre Maggiore; ma di questo brigante non si riscontra nessun
atto di vero eroismo o di pietà, non rari nel brigantaggio, ma solo atti di brutalità.
Quando nel 1860 in Torre Maggior fu inalberato il vessillo Tricolore, Michele
Caruso, che contava ventitré anni, godeva già fama di ladro emerito.
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Nessuno aveva avuto il coraggio di denunziarlo alla giustizia, essendo a tutti
noto che era capace di qualsiasi vendetta contro i delatori.
In seguito, però, quando si mise a capo di un gruppo di masnadieri e pensò di
intervenire per scuotere il prestigio delle istituzioni, provocare disordini ed
infrangere il principio di autorità fu arrestato con la seguente motivazione: " Per
associazione in banda armata avente per mira di cangiare e di distruggere la forma
del governo, accompagnato da altri reati".
Venne rinchiuso nelle carceri di S. Severo da dove evase, e per non ricadere
nelle mani della giustizia si dette alla macchia.
Dopo l'evasione, Caruso lasciò parlare poco di sé, perché ebbe bisogno di
farsi delle amicizie nelle province in cui operava: Foggia,
Benevento e
Campobasso, per garantire la sua incolumità.
Durnate questo periodo, che potremmo dirlo di preparazione, ebbe ripetuti
abboccamenti con alcuni emissari della casa Borbone, i quali gli proposero, per
farsi dei proseliti, il seguente programma che il Caruso accettò senza alcuna
modifica:
1) Tutti gli iscritti e quelli che vorranno iscriversi alla compagnia comandata dal
Colonnello Caruso, hanno l'obbligo di restaurare sul trono Francesco II e di
combattere con tutti i mezzi i liberali, che sono nemici provati della Santa Chiesa e
del Santo Papa Pio IX;
2) di amarsi fra loro e di garantire la vita del loro colonnello che Iddio guardi
per mille anni;
3) chiunque diserta dalle fila , dopo aver giurato sul Crocifisso, sarà fucilato;
4) chiunque muore in battaglia, la famiglia del defunto avrà un forte vitalizio da
Sua Maestà Francesco II;
5) chiunque vorrà in seguito arruolarsi nell'esercito di S. M. occuperà il grado
di ufficiale;
6) chiunque, per sue speciali ragioni non vorrà far parte dell'esercito di S. M.
avrà un impiego ben remunerato.
firmato: il Colonnello Michele Caruso.
Dopo l'accettazione del programma il Caruso lo fece affiggere come proclama
in tutte le province, riuscendo in tal modo a racimolare 82 seguaci suddivisi in otto
compagnie. I componenti delle comitive, secondo quanto narra il professore Abele
De Blasio nelle vita di Michele Caruso, da cui abbiamo attinto diverse notizie al
riguardo, erano per lo più contadini ignoranti, facili ad essere suggestionati e pronti
a commettere qualsiasi delitto.
Il Caruso non mostrava per le vittime alcuna pietà.
La banda Caruso non agiva da sola, ma altre minori e parimenti terribili,
erano alla stessa collegate ed operavano ai suoi ordini.
La mattina del 12 ottobre, mentre la giovane Filomena Ciccaglione era
intenta insieme ad altri contadini a seminare nella campagna in contrada Decorata
nel comune di Colle Sannita, dove i briganti il 1 settembre 1863 le avevano ucciso
il padre, volle la ventura che si trovasse a passare Caruso, che alla vista della
procace e formosa contadinotta, volle con la prepotenza, farla sua e dovette per
forza diventare la sua amante.
Dopo numerosi conflitti avuti con le forze dell'ordine la banda si era quasi
sfasciata, tanto che il 7 dicembre, dopo un ennesimo conflitto a fuoco, essendo
rimasto solo, il Caruso riuscì a scappare insieme ad un certo Testa.
Aveva deciso di recarsi in Basilicata per ricostituire la banda, ma, prima di
accingersi alla nuova impresa volle recarsi in S.Giorgio la Molara, dove si trovava la
sua amante. Filomena Ciccaglione, che già conosceva i rovesci subiti dal suo
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rapinatore, credette giunto il momento della sua liberazione, di vencare la morte del
padre ed il sacrificio della sua innocenza.
Attraverso un confidente, tal Luca Pacelli, fece sapere alle autorità in qual
pagliaio Caruso le aveva dato appuntamento.
A seguito di tale dilazione 14 militi con a capo il sindaco di San Giorgio
riuscirono a catturare il bandito, che poi per ordine del Prefetto fu condotto a
Benevento insieme al suo compagno Testa, giudicato dal Tribunale militare e
condannato a morte.
La Ciccaglione fu assolta al processo; molte famiglie le offrirono ospitalità, ma
lei preferì tornare a Riccia presso una zia, le fu assegnata una pensione di 40 ducati
annui, ma dopo tre anni, il 31 maggio 1866, moralmente e fisicamente distrutta,
morì. (4)
In questo stesso periodo operava nella nostra zona il nostro concittadino Carlo
D'Addezio soprannominato e conosciuto da tutti come Carlo Catone.
Era a capo di una banda di uomini fidati e coraggiosi ed agiva in antagonismo
con la banda di Caruso; però mentre questi era un puro sanguinario, come
abbiamo accennato, Catone agiva più per un certo ideale e se toglieva ai potenti
molte volte beneficiava i poveri, tanto che ancora oggi le sue gesta si tramandano e
vivono nel ricordo della nostra gente.
Tra i tanti episodi ricordiamo quello del 1870 quando Catone insieme alla sua
banda, a Montefalcone prese d'assalto la farmacia del Dr. Carmine Goduti,
incendiandola.
Il Dr. Goduti, però, riuscì a salvarsi e a catturare sette briganti che furono
fucilati al "Largo Arena"; Catone riuscì a non essere coinvolto nella cattura.
Molti episodi si raccontano ancora dal popolo sul suo conto, uno infatti lo
citiamo anche al capitolo de’ "circoli paesani" e ci piace citarne un altro, che
copiamo integralmente dal "Valfortore" del 15 novembre 1949 a firma di Totonn
(Antonio Zeppa) col titolo "Fatti di altri tempi - Un brigante di cuore", in cui, anche
se in forma novellistica, risulta chiaro il coraggio ed il cuore del brigante. "Il giorno
delle nozze, atteso con riserbato contento, alfine era giunto.
La sposa era circondata dalle amiche che le facevano festa e che si davano
un gran da fare in un armonioso ciarlare a renderla più bella.
La madre, Grazia Occhiciello, riceveva i primi invitati e disponeva che nulla
mancasse.
Tutti insieme erano in attesa dei parenti dello sposo che, con questi, doveva
arrivare da S. Giorgio, quattro ore di strada a piedi per la montagna.
Il tempo in quell'inoltrato autunno era freddo e uggioso; dalla mattina una
densa nebbia ovattava le case e rendeva breve la visuale, una rada neve acquosa
scendeva lentamente. Gli invitati in piccoli crocchi chiacchieravano e sul tempo e
sulle ultime novità.
Carlo Catone era tornato con la sua banda da alcuni giorni.
Era risaputo però che quando arrivava lui, Caruso e i suoi sgombravano, e
quando non c'erano questi una certa distensione avveniva nell'animo di ognuno: la
banda di Catone era più umana; anzi alcuni dicevano addirittura che era bene ci
fosse lui perché proteggeva il contado dall'invasione degli altri banditi.
L'atmosfera però era sempre gravida di panico. Zia Grazia, nell'accorrere qua
e là affinché tutto fosse a posto, chiudeva nel cuore una pena grave che non
osava comunicare agli altri.
Era sì la pena che sente ogni mamma quando una figlia si marita; la figliuola
lasciava la casa, andava in un'altra estranea ove avrebbe trovato nuovi usi e nuove
abitudini; la sua poi andava in un paese diverso....
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C'era in lei pure l'agoscia di quella uggiosa giornata e dell'accidentato viaggio
da affrontare a dorso di animali; ma più d'ogni altro era accorata per il contenuto dei
discorsi che quei crocchi facevano.
Le funzioni furono accelerate; il tempo stringeva e bisognava partire.
Baci, auguri, abbracci, sventolio di fazzoletti, saluti e la carovana si snodò
avviandosi per la montagna, stringendosi nei mantelli e facendosi riparo dalla
fredda brezza.
Si aveva premura di mantenersi in gruppo e per la visibilità scarsa e perché
ognuno sentiva nell'animo un certo timore; pure bisognava allungare la fila per
l'anfrattuoso sentiero.
Era finito un tratto in discesa e cominciava un altro in salita: una sferzata alle
bestie accompagnata dalla voce e il passo si fa più spedito, quando di dietro ad
una meta di paglia alcuni figuri intabarrati, col fucile alla mano escono di botto:
intimano l'alt e ammoniscono di obbedire: pena la morte!
I pochi fucili della comitiva vengono ritirati.
Grida, pianti, preghiere non valgono a commoverli e sotto vigile scorta li
avviano per un sentiero traverso.
Era inutile insistere con le preghiere e coi compromessi; uno di essi aveva
parlato chiaro: era quello l'ordine, poi se la sarebbero sbrigata col capo.
In quelle condizioni era forza ubbidire. I parenti ma le dicevano forse quando
s'erano partiti, zia Grazia pensava alle conseguenze che ne potevano derivare; la
sposa forse sentiva già il viso ispido di un ceffo contro il suo e sbiancava di terrore;
lo sposo in cuor suo, imprecava contro la mala sorte che lo faceva vittima del ius
primae noctis.
Il massiccio caseggiato della Difesa si distingue tra la nebbia, sulle porte
altre figure si affacciano sogghignando ed esprimono con parole poco convenevoli
il contenuto della buona caccia;
sullo spiazzale vengono fatti scendere e fatti
entrare nell'ampio androne.
Presso il camino, ove scoppietta un'allegra fiamma, è seduto un uomo che
volge le spalle quadrate alla porta.
È il capo, tutti lo hanno capito perché il capo drappello fa le consegne.
Gli altri indirizziti e atterriti son rimasti impalati.
Zia Grazia si butta prone sui piedi di quell'uomo e scongiura di lasciarli
andare: implora sui suoi morti, sui suoi vivi, sulla sua mamma, sulle sue sorelle. Ma
il capo bandito è immobile e tace. Non si è mosso da quando sono entrati: col viso
nascosto tra le mani appoggiate sulle ginocchia, sembra non udire, e la mamma di
quella povera fanciulla, che ormai più non regge, piange e si dispera.
Alfine si muove, alza il viso massiccio e barbuto, col naso grasso e poroso e
chiama a nome Grazia Occhiciello.
La fa alzare e la invita a sedere; la rimprovera con voce nasale e grave
perché egli, Carlo d'Addezio, suo parente, non è stato invitato alla festa.
Anch'egli, diceva, avrebbe voluto parteciparvi, e lei la mamma, forse
volutamente lo aveva escluso.
Trovò la povera donna parole di scusa, ma in cuor suo e in quello dei parenti
era chiaro che Catone aveva voluto imbastire quella scusa per giustificare il suo
atto.
La sposa gli va vicino per scongiurare anch'ella, ma Carlo si alza le piglia le
mani e la conforta.
Se la madre ha trascurato lui, egli non lo farà verso gli sposi, che ora gli sono
vicini trepidi e ansiosi. "Voglio, dice, mostrarvi quanto io ci tenga al vostro bene e
come mi piace dimostrarvi in modo palese la mia benevolenza". Regala ad essi un
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anello, fa accostare sedie e sgabelli e fa sedere tutti intorno al fuoco. Fa allargare
mantelli e scialli che alcuni guardano forse pensando di non riaverli più.
Ed ora, dice, farete festa con me, mangeremo insieme e brinderemo alla
salute di questi giovani.
Nella stanza accanto è imbandita la tavola. I commensali siedono più per
ubbidienza che per trasporto e fanno del loro meglio per mostrarsi convinti della
benevolenza di quel capo a cui numerosi e forti uomini obbediscono ad un cenno.
Dopo pranzo le bestie vengono imbardate e tirate dalla stalla.
Tutti ricevono il saluto di Carlo Catone e l'aiuto a salire in sella.
Ora andate, dice, e non abbiate timore, la mia scorta vi accompagnerà fino a
S. Giorgio.
Era questo il salvacondotto che a quei tempi aveva più valore di quello firmato
dal Re.
La carovana lentamente si snoda e riprende il cammino. Gli uomini sulle porte
e per la via accennano un saluto. Non v'è meraviglia in essi perché sanno che il loro
capo, audace e fiero nelle più rischiose imprese, ha atti di bontà di cui non bisogna
domandare ragione.
Carlo Catone guarda il corteo allontanarsi, lo segue con l'occhio finché la
nebbia non lo nasconde. Resta ancora fuori taciturno e pensoso, le mani ai fianchi,
la testa china. Forse pensa che la compagnia dei cari rasserena l'animo più della
sua numerosa e audace scorta, che un'opera di bene rende più di quanto non
renda l'impresa meglio riuscita.
Poi si scuote: è tardi, la sua vita è quella. Chiama, raduna, insellano, e gli
uomini partono per le scorribande usate.
Un giorno però l'ordine sarà un altro, ognuno avrà il suo e anche egli Carlo
D'Addezio, il terrore e l'idolo si presenterà alla legge, sconterà la pena. Dopo si
formerà una famiglia per vivere con essa, a Montefalcone nel luogo dove è nato,
gli anni della sua serena vecchiaia".
Prima di concludere queste note sul brigantaggio mi piace riportare un altro
articolo apparso sul primo numero di "Valfortore" con la stessa firma di Totonn (Prof.
Antonio Zeppa) in "Fatti d'altri tempi", col titolo: "La festa dell'ottava di Pasqua a
Montefalcone" dal quale si vede come la nostra terra fosse teatro di gesta
brigantesche, ma anche la fede che ha sempre animato e sostenuto il nostro
popolo e nello stesso tempo troviamo l'origine di questa festa: "Giorni terribili quelli
della primavera del 60.
Le piogge finivano, i torrenti cadevano in magra, i boschi rinverdivano.
Tutto assecondava i disegni dei fuori legge che infestavano la zona che
avevano sgombrata per i rigori dell'inverno.
Ora tornavano baldanzosi, con maggiore ira.
Le voci correvano su quanto accadeva nelle zone circostanti. I segnalatori
avevano fatto i nominativi di quelli che avevano aderito al governo di Vittorio, e poi,
essi, i fuori legge avevano da vendicare, e a modo loro, i soprusi che i capi del
partito avverso avevano perpetrato durante la loro assenza.
Il bottino: compenso agognato alle loro gesta, sarebbe stato pingue: nelle
case v'era tutta la provvista; le ragazze: il sogno dei giovani banditi, erano sode e
attraenti.
Alcuni contadini a guardia del bestiame a pascolo sulla montagna arrivano
trafelati in paese. Li hanno visti, sono in molti, tutti armati, hanno pure i cavalli.
La notizia si spande rapida nelle case portata dai tanti che sfaccendavano
sulla piazza, nel giorno di festa, in attesa del pranzo.
Idee, proposte, grida, urla, svenimenti, confusione e in mezzo lo onore
delle donne. L'altro? Eh, non conta in simili frangenti! Che fanno gli altri? Meglio
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unirsi? Sparpagliarsi? Chi può dare un consiglio, in tanto clamore, in tanto
sconvolgimento?
Ecco il Parroco! Egli ha sempre saputo consigliare per il meglio, egli che pure
ha ragione di scappare perché la sua condotta non va a genio ai briganti, dirà
quello che si dovrà fare.
Appoggiato al platano davanti alla chiesa del Carmine, taciturno e pensoso
don Federico Corso attende; sa che i suoi filiani fidano in lui.
In silenzio lo hanno eletto capo ed eseguiranno i suoi consigli, ubbidiranno alle
sue parole come sempre e più di ogni altra volta.
Ma che può fare lui? Inerme, senza via di scampo - Se la sua vita fosse
sufficiente la darebbe per tutti i suoi figli. Ma questo dono pur tanto grande non può
bastare a saziare l'ira folle, il desiderio di vendetta e di saccheggio dei banditi.
E allora che può salvare questo popolo tanto buono, ripieno di ogni migliore
sentimento, attaccato alla fede per antica tradizione, per immutato ed educato
sentimento?
Chi può aiutarci quando tutti i mezzi terreni vengono a mancare?
Che, forse la Mamma comune, quella che conosce gli affanni e le aspirazioni
di questo popolo tema quei pochi ribaldi che hanno dimenticato l'amore fraterno, che
hanno volto il viso dallo splendore e dalla luce?
Figliuoli! Io inerme come voi, non posso allontanare il pericolo che ci sovrasta.
Nessuna via di scampo abbiamo; tutto ciò che è forza terrena è inferiore a quella dei
nostri nemici. Ma la speranza c'è, chi ha
fede non disperi.
La nostra Madre è qui, ed Ella sola può aiutarci, deve venire in nostro aiuto, ci
salverà!
Ricorriamo a Lei con fede viva come sempre, ardente come non mai ed Ella
non permetterà che sia fatto del male ai suoi figli.La speranza riaccende i cuori, un grido di amore e di conforto invade tutti e la
chiesa poc'anzi deserta echeggia di grida, di pianti, di invocazioni.
Anche Tu, o Madonna, corri pericolo, Essi, i ribaldi, non Ti risparmieranno.
Vieni con noi, ci proteggerai, ci animerai, o con noi la Tua effigie sarà abbattuta.
La statua della Madonna del Carmine, dal volto ilare e materno, che ricorda il
suo affetto per i figli nel gesto umanamente divino nell'amplesso del Figlio, è
portata a spalla.
Dove si va?
Ecco là, sulla collina illuminata dal sole, al lato del boschetto che sa di mistico
e di conforto, dormono i nostri morti.
Forse vegliano e trepidano per la mala sorte che avversa i loro cari.
Vecchie croci che ricordano i nomi di quelli che hanno sopportato il duro gioco
della cristiana pazienza nell'attesa di giorni migliori, ma che hanno visto il tramonto
sanguigno senza l'alba radiosa.
Croci fissate sulla terra di fresco smossa che ricordano quelli che
nell'entusiasmo di santi ideali hanno immolato le giovani vite per un ideale di
benessere, equità, pace e lavoro.
Anche essi fremono, i morti: bastino i loro sacrifici, i cari si salvino e godano
nel lavoro la serena pace della famiglia.
E foste voi, o morti, che la Madonna del Carmine avete per patrona?
Furono le grida dei bimbi o il pianto dei vecchi che compì il miracolo?
Il viso sereno della Vergine che sovrasta quelli lacrimosi, atterriti e pieni di
fede della turba, incuorava i trepidi, dava speranza a ognuno. Bastava guardare il
suo viso per sentire nell'animo quell'alito di fiduciosa speranza.
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I briganti che fan man bassa nei pochi casolari ormai deserti, che incustodito,
che trasformano in falò i secchi fieni accumulati con fatica davanti ai rustici casolari
arrivano sugli ultimi contrafforti; sono in vista del paese. I cavalli scalpitano,
sentono anch'essi l'ansia dei cavalieri.
Dalle froge dilatate esce l'ansimare dei larghi polmoni, quasi ira repressa.
I cavalieri aguzzano lo sguardo, cercano i sentieri, preparano l'attacco.
Ma cos'è quel nereggiare vicino al lungo recinto? Forse truppa in attesa dell'attacco?
Forse popolo fiero, sicuro di aver ragione dei ribaldi, perché armato e
preparato?
Si calcolano le forze, si scrutano gli uomini che lentamente si raggruppano e
paventano il pericolo.
Prudenza consiglia di rimandare l'attacco, si avrebbe la peggio.
È il consiglio di ognuno, è la decisione dei capi.
Inutile attendere, potrebbe sorprenderci un'imboscata.
Si girano i cavalli, si tirano le briglie, una folla di spauriti arranca, lascia il
bottino per essere più libero, si chiamano per farsi coraggio, si dileguano
ringraziando il cielo per averla scampata.
Sono cambiati i tempi, son finiti i briganti, ma non le pene, gli affanni, i
bisogni.
Ogni anno, la domenica dopo Pasqua, la Vergine torna allo stesso colle, il
popolo Le è intorno e nel ricordo del pericolo passato, implora per i presenti, per i
futuri".
Concludiamo queste note sul brigantaggio nella nostra terra riportando ancora
l'elenco nominativo di alcuni montefalconesi,
e non sono tutti,
datesi al
brigantaggio, come risulta da note somministrate dal Sindaco in esecuzione al
disposto della Circolare Prefettizia del 4 ottobre 1862 e riportati dalla Sangiuolo (5):
D'Addozio Carlo, di Giuseppe
Marco-Antonio Giovansaverio, fu Antonio
Mansueto Nicola, di Leonardo
Pallotti Giuseppe Antonio, di Raffaele
Sacchetti Biase, fu Gaetano
Tudisco Michelangelo, fu Antonio
Vecchiarella Giuseppe, di Antonio
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SOCIETÀ OPERAIA DI MUTUO SOCCORSO
Dopo l'annientamento del brigantaggio, il nostro paese riprese la sua vita
tranquilla e laboriosa, anche se molti cittadini rimasero fedeli alla causa borbonica.
Fu in questo tempo che si ebbe un intensificarsi di opere di risanamento edile
ed igienico e di viabilità. Si terminò la strada Bivio Foiano - Montefalcone Castelfranco - Savignano Scalo (1872),
creando un maggior commercio e
sviluppando l'economia ed un certo movimento operaio che sfociò nella fondazione
di una "Società Operaia di Mutuo Soccorso di Montefalcone Valfortore" con
bandiera solennemente benedetta, sede propria e statuto approvato dal Tribunale
di Benevento con deliberazione in Camera di Consiglio del 9 luglio 1907.
Lo scopo della Società era, come si legge all'art. 2 dello statuto: "Di infondere
nelle classi operaie ed agricole il rispetto alle leggi, l'amore alla patria, i principi
liberali e di progresso, e mantenere vivo in esse il sentimento dei loro doveri verso
la società e verso la famiglia, e dei loro diritti come cittadini, specialmente in ciò
che riguardano la vita pubblica, sia politica che amministrativa".
All'art. 8: "In nessun caso potranno essere ammessi come soci coloro che sono
stati condannati a pene disonoranti, come reati di furto, frode, ecc. ed in massima
a pena che fanno perdere, a chi le ha subite, i diritti civili".
All'art. 10 lo statuto mira allo sviluppo ed al perfezionamento della persona
umana e all'attuazione delle norme dei valori a cui ciascuno uomo deve mirare.
"Tutti i soci s'intendono impegnati sul loro onore di condurre vita onesta e
laboriosa, da buoni cittadini.
Ma lo scopo della Società oltre alla formazione del cittadino, è particolarmente
il "Mutuo Soccorso" e lo troviamo al Titolo V - Diritti dei soci, agli art. 14-15-16 e 17.
Art. 14: " Il socio effettivo dopo un anno dalla sua ammissione, se incorrerà in
malattia che porti assoluto impedimento al lavoro, dopo il terzo giorno di malattia
avrà diritto ad un sussidio giornaliero o in contanti, o in genere alimentari,
medicinali a prezzo ridotto, (e questi sino dal primo giorno di malattia) tutto ciò nelle
proporzioni che stabilirà il Consiglio Direttivo per l'anno in corso, in rapporto alle
condizioni finanziarie della società".
Lo statuto, mentre parla delle forme di aiuto ed assistenze sorrette da vincolo
di amore vicendevole fra i soci, all'art. 15 e 16, con una integralità di visione della
vita, mette una limitazione, che ripeterà poi anche successivamente: " il socio
effettivo non avrà diritto ad alcuno dei soccorsi e sussidi sopra detti quando la
malattia provenga da rissa, ubriachezza e stravizi".
Stimmatizzando così i vizi del tempo la "Società" impegna i soci sul proprio
onore a concorrere a far sì che i Montefalconesi siano ammirati per la loro tranquillità
e laboriosità.
Presidente fu eletto Michele Pappone, segretario Giuseppe Zeppa, cassiere
Donato Belpedio.
Con l'avvento del Fascismo la Società Operaia fu chiusa e, da principio,
nessuno dei soci volle aderire al Fascismo.
È da notare che la Società fu veramente efficiente e portò un valido
contributo oltre che nel campo dell'assistenza, anche nella vita democratica del
paese.
Caduto il Fascismo nel 1943, secondo l'art.46 dello statuto, la Società fu
ricostituita e fu chiamato come presidente Michele Minelli, già in carica quando si
sciolse, e come segretario e riorganizzatore il prof. Antonio Zeppa.
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Lo stesso impegno animò i soci alla ricostituzione, ma in seguito, poiché
alcuni volevano strumentalizzarla politicamente, il Presidente ed il Segretario si
dimisero e la Società fu nuovamente sciolta.
Questo, è logico,
fu la causa ultima, ma onestamente bisogna pur
riconoscere che ogni istituzione nasce ed è valida per il suo tempo che le esprime e
con l'avvento delle Previdenze di Stato queste associazioni non avevano più
ragione d'essere.
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MULINO SOCIALE
Nei tempi andati, anche quando le lotte per il Risorgimento erano finite da un
pezzo e le gesta del brigantaggio assumevano carattere di leggenda, non vi fu in
questa zona quel risveglio di civiltà che altrove fu incentivo di progresso e di
benessere.
Fino ai primi anni di questo secolo per avere la farina si portava a macinare il
grano ai due o tre mulini ad acqua che sorgevano in località distanti e poco comode
ad accedervi.
Quando l'acqua mancava o la strada era impraticabile, o quando, come
spesso accadeva, i pochi pugnelli di frumento rischiavano di perdersi negli anfratti
della macina, allora si ricorreva al "centimolo" (una specie di grossolano mulino in
miniatura, la cui mola veniva azionata a mano).
Ma fosse grano o granone, si andasse al mulino ad acqua o al " centimolo" il
risultato era unico: la resa era irrimediabilmente decurtata. Sorse poi in paese
qualche mulino con accorgimenti tecnici più moderni, ma l'uso sulla farina, circa la
trattenuta, rimase quello antico. S'impose così la necessità di ottenere un più
onesto mezzo per il servizio dello sfarinato che era necessità di tutti.
Sorse così l'idea del Mulino Sociale.
Furono vendute delle azioni sociali da L.10 e si acquistò il suolo, si edificò lo
stabile (1910), si impiantò il macchinario: un motore a gas povero che azionava due
palmenti.
Il contratto d'acquisto fu firmato a Bari da Giuseppe Zeppa.
Il sollievo fu unanime: era stato risolto un problema vitale che beneficava
molti e danneggiava quei pochi che dovettero chiudere battenti per mancanza di
clienti.
Il suono della sirena che annunziava l'avvio del motore sembrava il grido di
vittoria e di conquista delle realizzazioni nella concordia popolare.
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MONTE FRUMENTARIO
I Monti frumentari (detti anche granatici o di soccorso) furono una importante
istituzione benefica sorta negli ultimi tempi del Medioevo a favore degli agricoltori
più poveri.
Il contadino prelevava dal cumulo di grano comune la quantità necessaria per
la semina, o anche durante l'anno per il fabbisogno della famiglia, che poi restituiva,
aumentata di un tanto per l'interesse, al momento del raccolto.
Se si considera che l'usura era una piaga assai diffusa in quella epoca, con
grave danno specie dei poveri, si comprenderà come l'istituzione dei "Monti" fosse
cosa veramente benefica.
Un pregiudizio economico assai diffuso era che il danaro dovesse essere
prestato gratuitamente e che il possessore del medesimo avesse quasi l'obbligo
morale di metterlo a disposizione del richiedente, purché ne assicurasse la
restituzione pura e semplice.
Tutti i motivi che giustificano oggi davanti alla coscienza anche dei più onesti
l'interesse del capitale, allora non erano presi in alcuna considerazione e l'opinione
pubblica condannava ogni mutuo fruttifero.
Gli stessi teologi, anche se con qualche contrasto, inculcavano tale principio.
Quale la conseguenza?
Che i capitalisti più coscienziosi e più timidi ritiravano per quanto era loro
possibile il danaro dalla circolazione, mettendo così i bisognosi alla mercé degli
sfruttatori più abili e audaci che elevavano l'aggio normale dell'interesse a prezzi
favolosi.
Per cercare di mettere riparo alla piaga dell'usura sorsero i Monti di Pietà
prima, per opera dei francescani, P. Bernardino da Montefeltre e P. Barnaba da
Terni, e poi i Monti Frumentari. L'istituzione dei Monti Frumentari ebbe origine e
prosperò nelle regioni agricole e di condizioni più misere.
Celebre nella storia dei "Monti" è quello di Benevento creato dall' Arcivescovo
Vincenzo Maria Orsini con 500 ducati e 146 tomoli di grano; divenuto Papa nel
1724 col nome di Benedetto XIII favorì grandemente il diffondersi di quest'opera
benefica che seguì alterne vicende.
Altro propugnatore di quest'opera fu Ferdinando II che fece risorgere o dette
vita ex novo a centinaia di Monti, specie nell'Abruzzo e nella Capitanata.
Nel 1784 anche a Montefalcone, proprio per far fronte alla povertà ed evitare
la speculazione, Grato Iansito istituiva per testamento un Monte Frumentario e
Pecuniario, con dotazione di Tomoli 1500 di grano e 32, 62 ducati di rendita, che
poi per "non buona, o trascurata amministrazione "come già diceva il Cirelli, è
andato mano mano diminuendo fino a che fu incamerato dal Banco di Napoli e da
qualche anno il Banco di Napoli ha venduto anche lo stabile dove era stato
costituito.
Fino ad alcuni anni fa si conservava la lapide che ricordava la benefica
istituzione, poi l'incuria degli uomini ha distrutto la lapide, che riportiamo, ed ora il
Monte è ricordato solo dal nome che è rimasto al luogo che sintetizza gli eventi di
Montefalcone: prima fu ospedale dei pellegrini, poi monte frumentario, poi scuola
ed ora è chiuso (proprietà privata) sottostante alla chiesa di S. Filippo, con ingresso
accanto al campanile.
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O VERE PIETATIS OPUS
GRATUS IANSITO
NOMINE GRATUS, COMITATE GRATIOR
MISERICORDIA IN PAUPERES GRATISSIMUS
A QUIBUS NE MORTUUS QUIDEM AUXILIO ABESSET,
TESTAMENTO INSTITUIT AN. MORTIS SUAE 1784.
MONTEM HUNC FRUMENTARIUM
QUEM VICISSITUDINUM IMPROBITATE TANDEM REMOTA
HAC IN ARCA DIRUTI IAM XENODOCHII
A POPULO COMITIIS HABITIS IMPETRATA
R.dus BALTASAR PUCCI TESTAMENTI AUCTOR ET CURATOR
INSTITUTORIS AERE CONSTRUXIT An. 1792
IBIN FACTUM
UT UBI NUNC PAUPERES PASCANTUR, UBI OLIM
OSPITABANTUR.
GRATO ERGO BENEMERITI CIVES, ESTOTE GRATI.
O veramente amato per opera di pietà
Grato (della stirpe dei Iansito,
maggiormente caro per la sua umanità, carissimo
per la sua benevolenza verso i poveri,
dai quali affinché neppure dopo la morte fosse
lontano con il suo aiuto,
istituì nel 1784, anno della sua morte,
questo Monte frumentario
che in quest'area del diruto ospizio
per richiesta pubblica del popolo
il Rev. Baldassarre Pucci, estensore e curatore
del testamento, col danaro dell'Istitutore
fece costruire nell'anno 1792
Fu fatto
affinché i poveri potessero nutrirsi
dove prima venivano ospitati,
o cittadini siate riconoscenti verso Grato benemerito.
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Il tesoro nascosto
Se l'incendio del 2 novembre 1943 non avesse distrutto tutto il carteggio
dell'archivio comunale si potrebbero dare dati precisi intorno al fatto che si
racconta.
Ma questo anche se non fissa date e riporta solo poche generalità, anche se
ha più sembianze di fantastico che di reale, è stato recepito nel racconto dei più
anziani che assicurano che il racconto non ha nulla d'inventato.
Grato Ianzito, detto zì Gratone, non si sa se per il fisico grosso o per l'età, da
alcuni anni aveva lasciato le pecore e la masseria ove da giovanissimo era stato
garzone e viveva con la moglie la tranquilla vita dei semplici che hanno tutto, perché
si contentano di poco.
Verso l'ora tarda di un mattino, mentre il vecchio seduto al sole intrecciava
vimini per un canestro, arrivano da lui due dei "Signorini" figli del suo vecchio
padrone.
Accoglienza festosa e impacciata: chiama la moglie, spolvera le sedie e
manifesta la sorpresa di vederli in casa sua e domanda come mai da quelle parti. I
due giovani misero a conoscenza il buon Gratone della morte del loro papà, e qui
l'affezionato garzone voleva esternare il sincero rammarico e manifestare il suo
dolore, ma i giovani avevano fretta di arrivare al sodo e allo scopo della loro
venuta. Quindi proseguirono dicendo che della risaputa ricchezza paterna essi
avevano trovato molto poco…
Ogni ricerca era stata vana e le indagini, fino a quel momento inutili.
Essi sapevano, ed altri avevano confermato, che l'uomo fidato del loro papà
ed anche il confidente era Gratone e che lui soltanto poteva saperne qualche cosa.
Qui il buon vecchio ammutolì e ci volle tutta l'abilità dei giovani per fargli dire
che sapeva qualcosa.
Aggiunse però che era legato da impegno al quale non poteva venir meno:
delle confidenze del suo padrone non aveva mai fatto palese nessuno e l'impegno
diventava maggiore dopo la morte.
Ma più che la parola sciolta ed implorante dei giovani, la considerazione di
Gratone che questi erano suoi nuovi padroni, ebbe ragione; accostata la sedia,
stretto il circolo, con voce pacata raccontò che degli anni erano passati da quando
il suo padrone una sera lo chiamò e fatto bardare tre muli, dopo di essersi
assicurato di essere soli, glieli fece caricare di barilotti, certamente pieni di
monete, dal rumore che essi facevano. Insieme si avviarono senza parlare: Grato
tirava il primo mulo, il padrone seguiva cupo e per la strada non parlò mai.
Si allontanarono fra i campi fino ad un luogo che il padrone indicò. Qui fece
scavare una fossa e quando la ritenne conveniente vi fece calare i barili che erano
12.
Voleva a questo punto che l'anima di Grato guardasse quel denaro (era
credenza a quel tempi che i tesori venissero custoditi dall'anima di una persona
uccisa e seppellita col tesoro).
Grato implorò, pianse e trovò misericordia nel suo padrone che gli fece giurare
che non avrebbe detto mai ad alcuno dell'operazione di quella notte.
Spiegò che voleva diseredare i suoi figli, i quali contrariamente all'esempio e al
consiglio paterno, menavano vita scioperata.
Fu rimessa a posto la terra e tutto tornò come prima.
Mai più quella terra fu rimossa e i barili erano ancora là.
Il luogo lo ricordava bene Gratone perché tante volte vi era passato.
Ora l'erba e i cespugli vi crescevano folti.
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Fu convenuto che sarebbe andato a indicare il luogo e avrebbe avuto due dei
barili seppelliti come ricompensa.
Quando Grato scelse fra i 12 barili disseppelliti non sapeva quello che
contenessero, come non lo sapeva prima.
Caricò i suoi barili sul mulo e tornò alla sua casa ignaro ancora della ricchezza
che portava seco.
A casa, a porte chiuse, mentre la moglie reggeva il lume, prese l'ascia e
sfondò i barili. Un rivolo di monete d'argento si sparse sul rustico pavimento e fece
trasecolare i due vecchi.
La vita serena era finita! Non furono più i cesti a tenerlo occupato, né il sole a
veder spaccar canne e a intrecciare vimini per i cesti e a tagliare il pezzo di pane
seduto accanto alla moglie che sferruzzava, mentre i monelli seduti per terra
aspettavano il pezzetto di cacio e la continuazione del racconto che non finva mai.
Gravi pensieri ora occupavano la sua mente.
Dovrà fare buon uso di quel denaro che la Provvidenza gli ha dato, che il
padrone forse, dall'altro mondo, ha voluto affidare a lui perché ne facesse opere
di bene.
Non aveva Gratone eredi diretti, né parenti stretti e di quel denaro fece bene
al popolo.
Il cesto rimasto a metà all'arrivo dei Signorini, forse, non fu più completato
ed il racconto ai bimbi non ebbe più il suo seguito.
Gravi pensieri gravavano la mente del buon Grato Iansito, che la sorte aveva
voluto far ricco in vecchiaia.
Vissuto senza ambizioni ed essendo stata la modestia e la parsimonia sempre
il suo abito, non cambiò tenore di vita.
Conoscendo però in quanta miseria versavano i suoi simili, pensò di far
partecipi un poco tutti della sua ricchezza e s'ingegnò con la sua mente di adusato
pensatore per distribuirla e impegnarla nel miglior modo possibile.
Tanti furono i poveri beneficati ed in più quelli che la miseria nascondono per
intimo senso di dignità.
Di questi Grato non disse mai, si sapeva però che non v'era chi ricorresse a
lui senza trovarne beneficio.
Diverse furono le ragazze da marito, che al matrimonio avrebbero dovuto
rinunziare per l'assoluta impossibilità di un minimo di corredo e la dote.
Ma Grato volle fare di più, non voleva che il beneficio si estinguesse con la
sua morte, che i beneficati fossero solo i presenti e non voleva soprattutto che
l'assistenza avesse carattere caritativo e quindi dar modo ai pezzenti di
professione di approfittarne, mentre chi per abito morale e per dignità, ma che pur
ne sentiva la necessità, rimanesse escluso.
I più vecchi raccontano ancora che la miseria del tempo, quando essi erano
bambini, era spaventosa.
Ancora molti ricordano quando si doveva ricorrere al prestito e quanto
costasse pagare quel debito contratto.
Un quarto di tomolo era la ragione d'uso di quel tempo, equivalente al 25% e
questo tasso rimaneva fisso anche se, come quasi sempre avveniva, il debito si
pagava molto prima che maturasse l'anno.
Gratone venne incontro a questa necessità tanto sentita e istituì il "Monte
Pecuniario Agricolo".
Quello che fino alla costruzione dell'edificio scolastico era l'aula della scuola
al Monte, e che ancora oggi in paese chiamano così, era il deposito del grano a
disposizione di tutti a tasso bassissimo.
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Il credito era limitato e ciò costituiva una saggia regola: in tal modo il beneficio
si poteva estendere a molti e i contraenti non si aggravavano di un debito oneroso
che poi non avrebbero potuto pagare.
Il Monte servì a far chiudere commercio ai diversi usurai che imperavano in
paese e ad apportare un sentito beneficio sì che poi tanta miseria fu alleviata.
Il testamento olografo, nella sua semplicità, rispecchiava tanto acume e
buon senso e indicava tutti i servizi per il buon funzionamento del Monte: tutto era
previsto, perfino la spesa delle scope e il grano che avrebbero mangiato i topi.
Dopo questa lunga descrizione segnò i diversi lasciti.
Simpatica la stesura del testamento per il maritaggio ai suoi più lontani parenti:
gli eredi di sesso femminile, fino alla settima generazione, avrebbero avuto diritto
al godimento stabilito in una somma sufficiente per il corredo e un po’ di dote.
Non mancò poi di pensare all'anima sua e molti furono i legati per Messe,
lampade, ecc.
Il racconto di chi ha letto quei fogli scritti con grossolana grafia e con sintassi
tutta personale, dice che non v'era in essi cosa che non fosse stata prevista e tutto
era spiegato nei più minuti dettagli.
Le mutate condizioni economiche, dovute anche al beneficio di tanta
ricchezza distribuita al popolo fece perder ogni importanza al Monte perché il prestito
del grano non fu più richiesto.
I successivi amministratori convertirono il grano in danaro e, ferme restanti le
disposizioni testamentario, il Monte continuò a beneficiare molti.
Ma le sagge leggi di previsione dell'accorto Gratone si riferivano al tempo; né
si potrebbe pretendere che quel vecchio garzone di masseria facesse di più.
Pure il lascito di Grato ebbe il suo valore anche quando i ducati dovevano
computarsi in lire, poi le lire divennero poche perché avevano perduto il valore di
acquisto e allora il Monte non ebbe più la sua importanza.
Continuò, però, ad avere vita ed a rendere i suoi servizi agli umili che vi
ricorrevano.
Fra gli ultimi amministratori, ed anche i giovani lo ricordano, fu Davide Grassi.
Al mutato potere d’acquisto si aggiunsero poi le mutate condizioni politiche e
lo stato accentratore evocò a sé il diritto di beneficenza.
L'amministrazione passò al Banco di Napoli e la semplice nascosta richiesta
divenne una pratica burocratica.
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CLERO E CHIESA – CLERO
Il Cirelli parlando delle qualità religiose dei Montefalconesi dice che: "Sono
entusiasti per solennizzare le festività religiose; e grandissima è la devozione che
hanno per la Madonna del Carmine"…
Il popolo accorre costantemente alle funzioni chiesastiche, e contribuisce
facilmente per ogni opera di culto".
La laboriosità della nostra gente, educata all'onestà ed al sacrificio ha
mantenuto sempre vivo il senso della trascendenza nel rapporto con Dio e ciò ha
favorito il sorgere delle vocazioni sacerdotali e religiose, tanto che Montefalcone è
fra i comuni che, nel rapporto della popolazione, vantano il maggior numero di
sacerdoti e suore, i quali, in Italia ed all'estero si distinguono per preparazione
culturale, spirito di carità e dedizione alla propria missione.
L'Arciprete e l'Abate con diploma del 15 settembre 1806 furono insigniti di
cappa e rocchetto.
"Il Clero di Montefalcone,
dice ancora il Cirelli,
rammenta persone
ragguardevoli, fra i quali D. Gennaro Caruso, che fu canonico della Cattedrale di
Ariano e Rettore del Seminario; D. Tommaso Caruso, emerito Arciprete della Chiesa
di Montefalcone; D. Pietro Paolo Goduti, Arcidiacono nel Capitolo di Ariano; D.
Tommaso Lupo, Tesoriere nella Cattedrale, insigne oratore; D. Saverio Miresse,
molto versato nella letteratura classica e zelante ministro apostolico; D. Paolo Pucci
che veniva tolto ai viventi nominato appena Arcivescovo di Salerno; D. Giuseppe e
D. Teodoro Sacchetti, uno Arciprete in Ginestra degli Schiavoni; e l'altro Abate
nella Chiesa della propria patria, ambedue distinti per abilità e zelo apostolico; D.
Gennaro e D. Michelantonio Pauletti; D. Giuseppe Ricciardelli; D. Francesco
Saverio Dote; D. Anastasio Antonucci.
Tutti costoro han lasciato di sé ottima fama tanto in fatto di cultura che di
morale e di zelo nell'esercizio del loro ministero".
A questi è da aggiungersi ancora l'Abate Antonio Maria Altobelli, uomo di
profonda cultura, apostolo zelante e predicatore insigne; l'Arciprete D. Sisto Di
Giuseppe, impiegato da giovane prete nella biblioteca vaticana, aveva conservato
l'amore allo studio; l'Abate D. Antonio Petrilli, che tanto ha lasciato di sé nel nostro
paese per lo zelo dimostrato e le opere compiute.
Ricordiamo ancora tra i trapassati più recenti: P. Antonio Curcio, che nel
necrologio della Provincia Francescana Sannito-Irpina Santa Maria delle Grazie,
così viene ricordato nel giorno 7 agosto per l'anno 1941: "Giovane di belle
speranze, di ottimo ingegno e di spiccata capacità nella direzione musicale.
Essendo Cappellano Militare in Croazia, da partigiani comunisti fu trucidato,
avendo 30 anni di età.
Nello stesso Necrologio si legge: "13 luglio 1963 - M.R.P. Innocenzo Zeppa
nato a Montefalcone Valfortore il 19 febbraio 1907. Ebbe da natura ingegno
perspicace e generosità di cuore. Con tutti, indistintamente, fu largo di generosa
carità.
Si prodigò nella scuola soprattutto come Lettore di Teologia Dommatica e in
molteplici forme di apostolato. Per la Provincia che governò come Superiore
Provinciale e sempre servì fedelmente, sognò le mete più luminose. La sua morte,
avvenuta in Benevento, mentre era Guardiano della Madonna delle Grazie, fu molto
rimpianta".
Per quanto riguarda la serie degli Arcipreti ed Abati succedutisi a Montefalcone
riportiamo integralmente un manoscritto dell'Arciprete D. Pasquale Curcio, datato 1
Agosto 1811: "Memoria per ciò che potrà occorrere in avvenire, delle serie degli
arcipreti pro tempore, estratta dagli antichi registri del Battesimo, stato delle anime
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e da inveterati documenti, che conservansi da me Arciprete D. Pasquale Curcio.
Nell'anno 1378, come rilevasi dalla copia del dietro scritto certificato, si vede
segnato per Arciprete della prima parrocchia di S. Giovanni Battista - D. Domenico
Melillo.
Nell'anno 1577, fu Arciprete D. Giovanni Panella, come rilevasi dal Privilegio
della Fondazione della confraternità del SS.mo Rosario.
Nell'anno 1586, fu Arciprete D. Antonio Menabole, come da un antico registro.
Nell'anno 1592, D.Ludovigo Rosato, come dal detto libro.
Nell'anno 1608, D.Francesco Lupone,
" " "
Nell'anno 1609, D.Donato Ricciardo,
" " "
Nell'anno 1646, fu Econmo Curato D.Andrea Coduto, come dal detto libro.
Nell'anno 1656, fu Arciprete D.Onofrio Montefuscoli, come dal detto libro.
Nell'anno 1683, D.Giuseppe Giovanni Marino,
" " "
Nell'anno 1693, D.Giovanni Montefuscoli,
" " "
Nell'anno 1732, D.Francesco Paoletta,
" " "
Nell'anno 1734, D.Andrea Paradiso,
" " "
Nell'anno 1744, in sino al 1782 fu arcip.te D.Tommaso Ceneppe
Nell'anno 1782 all'86 fu Economo Curato D.Donato Salvia
Nell'anno 1786 in sino al 1804 fu Arcip.te D.Gennaro Paoletta
Nell'anno 1805, D.Pasquale Curcio fino al 7 gennaio 1827
Nell'anno 1827, D.Simone Palazzi fino al 1837.
Fin qui il manoscritto, gli altri li abbiamo ricavati noi dai registri parrocchiali:
Novembre 1837, D. Pietro Tulino - Economo Curato - fino al 1839, al 1843 fu
Anastasio Antonucci - Arciprete Curato.
Dal novembre 1843 all'ottobre '44 fu Economo Curato D. Francesco De
Matteis.
Da ottobre 1844 fino al settembre 1862 D. Carlo Antonio Palazzi fu nominato
Arciprete Curato e dal settembre 1862 fino al settembre 1898 fu Arciprete.
Morto D. Carlo Antonio Palazzi nel settembre 1898 fu nominato Economo D.
Antonio Minelli, fino al maggio 1899, quando fu nominato D. Michele Vitale.
A febbraio del 1925 viene nominato economo D. Sisto Di Giuseppe. Che muore
il 4 febbraio 1958.
Febbraio 1958 viene nominato Parroco D. Vincenzo Perrella fino al luglio
1977.
Nel settembre 1977 fu nominato Parroco D. Alberto Lucarelli.
"Serie degli Abbati pro tempore di S. Maria che si leggono firmati negli antichi
libri del Battesimo, con licenza degli Arcipreti pro tempore":
Nel 1534 - fu Abbate di S.Maria D.Vitolo Volpe, come da un documenantico.
Nel 1591 - D. Filovio Bilotta - come dal registro dal Battesimo.
Nel 1600 - fu Abbate un certo di casa Golia - come dal registro del Battesimo.
Nel 1646 - D. Giovanni Pietro Pennella.
Nel 1664 - D. Federico Virgilio, come vedesi da un antico documento di
Concordia nell'Arcipretura di D.Onofrio Montefuscoli.
Nel 1673 - D. Andrea Coduti, come dal registro della Cappella della
Concezione.
Nel 1698 - D. Domenico Albanese, come dal registro della Cappella del
Gesù.
Nel 1701 al 1757 - D. Pietrantonio Torricelli.
Nel 1758 - D. Gennaro Palazzo fino al 1791.
Nel 1792 - D. Giacinto Palazzo fino al 1806.
Nel 1806 - prese possesso l'Abate D. Eliodoro Sacchetti per sino al 1834 a dì
27 agosto.
52
Fin qui il manoscritto - Gli altri, come per la Parrocchia di San Pietro e Paolo,
li abbiamo ricavati noi dai registri parrocchiali.
Dal 1831 al febbraio 1834 D. Pietro Tulino fu nominato Economo.
A febbraio 1834 fu nominato Economo D. Francesco De Matteis e a maggio
1835 fino all'aprile del 1850 fu Abate Curato.
Nell'aprile 1850 fu nominato Economo D. Nicola Tulino.
Con la Santa Visita Canonica del 13 giugno 1851 fu nominato Don Carlo
Palazzi - Arciprete Curato fino ad aprile 1853. Data in cui fu nominato Economo
Curato D. Daniele Tutolo e nel gennaio 1861 fu nominato Abate Curato fino alla
morte avvenuta nell'ottobre 1887.
Nel novembre dello stesso anno viene eletto Abate D. Antonio Altobelli che
muore il 21 settembre del 1917.
Dalla morte dell'Abbate fino al dicembre del 1920 regge la Parrocchia come
Vicario Economo D. Antonio Minelli.
Nel dicembre del 1920 è nominato Abbate D. Antonio Petrelli che vi resta fino
alla sua morte avvenuta nel novembre del 1954.
Nel novembre 1954 fu nominato Abbate D.Giuseppe Di Matteo e trasferitosi nel
novembre 1971 fu nominato Vicario Economo D. Vincenzo Perrella, fino al 10 luglio
1977, giorno in cui annunziò al popolo di volersi secolarizzare. Nel settembre del
1977 fu nominato Vicario Economo D. Alberto Lucarelli.
L’otto dicembre 1996 D. Alberto LUCARELLI è stato trasferito alla Parrocchia
“Madonna di Fatima” di Ariano Irpino ed è stato nominato Vicario Economo D.
Annibale DI STASIO.
53
CHIESE
Nonostante il fiorire di vocazioni,
attualmente vi sono 15 sacerdoti
montefalconesi, in paese ordinariamente vi è un solo parroco, sebbene vi siano due
parrocchie e quattro chiese.
Da un manoscritto dell'Archivio Parrocchiale di San Pietro e Paolo risulta che la
prima chiese risale al secolo XII e fu eretta a parrocchia nel 1500.
La chiesa matrice era quella arcipretale sotto il titolo dei SS. Apostoli Pietro e
Paolo. "Era di ammirevole architettura - come riferisce il Cirelli - contava vari altari di
marmo, per materia e per lavoro pregevolissimi. Decentemente ornata, a tre navi,
era sufficiente all'esercizio del culto dell'intera popolazione; ma sorse il
desiderio di renderla più maestosa sostituendo una volta massiccia al sofitto di
legno, l'anno 1805; e da ciò la cagione del suo decadimento poiché il terremoto
avvenuto nell'anno dopo, trovandola non ben consolidata ed asciutta, la ridusse a
male, sicché se ne stimò necessaria la demolizione".
Si iniziò poi una raccolta di offerte, lo stesso comune assegnò dei contributi
per poter riedificare la chiesa che non è mai risorta: anzi, quel cumulo di macerie
divenne poi ricettacolo di rifiuti fino a quando con l'Amministrazione presieduta dal
Dott. Rosario Zeppa (1960-1964) si fece una permuta del luogo e sullo spazio della
chiesa si fece la "Piazzetta degli Emigranti", mettendo al centro di essa una colonna
marmorea del vecchio Duomo di Benevento, donata dal Prof. Mario Rotili; su di
essa è stata applicata una targa con su scritto: "Ai Montefalconesi emigrati apostoli
di lavoro e di virtù civiche".
Nella chiesa Aricpretale (come risulta dal manoscritto citato) vi erano tre
Confraternite erette con Apostolico Privilegio:
La prima, quella del SS.mo Rosario con privilegio spedito a D. Gennaro
(Giovanni Pennella) in Roma nel 1577.
La seconda, del Corpo di Cristo con privilegio spedito sotto Paolo V a 18
marzo del 1578.
La terza finalmente è quella del SS.mo Gesù spedita ai 29 aprile 1666".
La chiesa di S. Filippo Neri che dal 1806 al 1962 ha sostituito come
parrocchia quella dei SS. Apostoli Pietro e Paolo e che ora è pericolante, perché è
l'unica che non sia stata riaccomodata dopo il terremoto del 21 agosto 1962.
Nella storia del Cirelli così è descritta: "La chiesa di S. Filippo Neri non è
molto grande, ma bella.
Vi si trova un capo-altare molto migliore di quello pregevole della chiesa
Badiale. È capace questa chiesa di circa 400 persone.
Vi sorge accanto un bel campanile di oltre 100 piedi di altezza.
Edificato nel 1644, fu demolito nel 1751, ed in quel medesimo anno riedificato
nel modo come ora si vede".
Nel citato manoscritto di D. Pasquale Curcio leggiamo pure: "Si nota che in un
antico registro dei conti della Chiesa Arcipretale, e propriamente sulla pagina 65
si osserva che l'antico Campanile a tre registri di palmi 26, tutto d'intaglio con
cornicione attaccato alla Cappella del Corpo di Cristo eretta nell'Arcipretale, fu
formato nell'anno 1644 e demolito poi detto Campanile nel 1751, con la spesa di
ducati 92 per cui esisté per 158 anni dal sopraddetto 1644-1751 tempo in cui si diè
principio dall'Arciprete Caruso col nuovo campanile".
E nello stesso manoscritto leggesi; "Sopra il frontespizio della Chiesa di S.
Giovanni (che è la stessa di S. Filippo) si osserva una lapide nella quale sono
scritte le seguenti parole:
"Haec est domus Domini firmiter aedificata Anno Dni 1538".
54
Sulla facciata c'è un’effigie, in maiolica, della Madonna del Carmine datata
1881.
In questa chiesa si conserva il corpo di S. Innocenzo Martire.
La chiesa del Purgatorio
Era fra le altre la meno importante. Era di diritto patronato comunale.
Ivi convenivasi nelle feste civili per le funzioni; ed i Parroci nelle sacre
cerimonie erano obbligati a deporre la stola, venendo la reggenza affidata per
turno ad uno dei preti, incominciando dal più anziano.
Dopo l'emanazione della legge del 7.7.1866 riguardante l'incameramento dei
beni ecclesiastici, che portò conseguenzialmente alla chiusura dei conventi si ritirò
a Montefalcone Francesco Saverio Doto
(P. Luca) dei Minori Cappuccini che morì nel 1914; facendo da rettore alla
chiesa del Purgatorio; vi fece fiorire il Terz'Ordine Francescano, fece fare una
statua di S. Francesco; prima all'altare c'era un bel
quadro raffigurante l'indulgenza dalla Porziungola. Fino al 1960, quando il
Parroco D. Giuseppe Di Matteo fece eseguire alcuni restauri nella chiesa, c'era
ancora l'altare sotto la statua di S. Francesco, recante la scritta: A devoz. di
Michele Zeppa - Priore Terz'Ordine Francescano 1899.
Ebbe così tutti i privilegi delle chiese francescane, come pure l'indulgenza
della Porziungola e il 30 marzo 1948 eccezionalmente vi sostò la statua della
Madonna delle Grazie di Benevento, in peregrinatio nei paesi sedi di conventi delle
provincia francescana Sannito-Irpina.
L'avvenimento fu ricordato con una lapide murata sulla facciata della chiesa e
distrutta poi con l'abbattimento della stessa.
Ora la chiesa è stata riedificata ed è parrocchia col titolo del Rosario, invece di
S. Filippo ancora chiusa ed in attesa di restauri.
La chiesa di Santa Maria Assunta era retta in un primo tempo dall'Abate con
il suo clero, dopo, però, per la carenza dei sacerdoti vi rimase solo l'Abate.
Dal Cirelli e da un manoscritto dell'Abate Dott. Antonio Petrilli (Questionario
per la prima visita Pastorale di S. E. Mons. Gioacchino Pedicini, 1940) ricaviamo
che "non si sa quando e da chi fu edificata la Chiesa.
Da alcune notizie storiche risulta che fu ampliata nel 1687 essendo abate D.
Andrea Coduto e Barone di Montefalcone Aniello Montefuscoli.
Fu ornata di Cappellone nel 1762, riampliata nel 1802 ed abbellita nel 1816
dall'abate Eliodoro Sacchetti.
Restaurata dall'abate Altobelli nel 1890. Restaurata nuovamente dall'Abate
Petrilli nel 1927 e quindi di nuovo nel 1930 a seguito del terremoto e poi ripulita altre
due volte in questi ultimi anni".
Il terremoto del 1962 la danneggiò seriamente, tanto che si è dovuta rifare
completamente,
ma la causa prima del dissesto statico della chiesa fu
l'abbattimento della grandiosa sacrestia, per allargare la strada e ciò incrinò l'arco
maggiore che nella costruzione della sacrestia trovava il contrafforte: ciò avvenne
nel periodo che era podestà il Dott. Alberto Antinozzi ed Abate Antonio Petrilli.
La chiesa è lunga mt.32 e larga mt.7, 60, vi erano otto altari tutti di marmo, ad
eccezione del primo a destra che era di granito.
Gli altari erano dedicati il I a S. Vincenzo Ferreri, il II a S.Rocco, il III a S.
Giuseppe, recante l'iscrizione: Divo Josepho dicatum devotione ac aere familiae
Joannes Chrisostomus Tutoli erexit et statuit - Anno MDCCCLXXVII Veniva poi l'altare maggiore, assai pregevole per lavoro e varietà di marmi;
notevole il bassorilievo sotto la mensa raffigurante l'Assunzione della Madonna.
55
La statua dell'Assunta è di legno - capolavoro dello scultore Vincenzo Reccio
di Napoli, scolpita nel 1890.
Il V altare era dedicato all'Immacolata Concezione, prima però si trovava nella
sottostante chiesa della Confraternita di San Michele Arcangelo ed a questo
dedicato, infatti nel paliotto vi era un bassorilievo raffigurante S. Michele
Arcangelo e la iscrizione:
Giuseppe Miresse Priore della Congrega di S. Michele Arcangelo nell'anno
1875.
Il VI altare di granito, nella cappella detta del Sacramento, dedicato
all'Addolorata. Il VII a S. Antonio di Padova con l'iscrizione:
Julia Grasso collexit quod ad costruendum Altare ad honorem Divi Antonii a
Padua et erigere curavit A.D. MDCCCLXXVII.
L'VIII altare era dedicato a S.Antonio Abate ed aveva l'iscrizione: A devozione
del popolo per cura di Leonardo Vitale 1911. Vi erano due nicchie senza altare, una
dedicata a S.Donato e una a S.Sebastiano.
Nel presbiterio vi era la seguente lapide:
D.O.M.
Aaram Hanc Maximam
Deiparae ad Coelum Assumptae
Templi huius sospitae praesentissime
Noncupatam
Albario opere picturaque ante hac exornatam
Anno Rep. Sal. MDCCCXVI
Quum expectata pax arrisit Europae
Heliodorus Sacchetti Abbas Curatus
Fornice superposito tectoque camerato
Erectius primum ac magnif. centius restitutis
Propria ac civium collata symbola
Ex pario marmore ab inchoato extructum
Structura ut nihil supra eleganti
In grati animi argumentum
Ponere curavit
D.O.M. (A Dio ottimo massimo)
Questo altare maggiore
dedicato alla Madre di Dio Assunta in Cielo
protettrice benevolissima di questo tempio
già in precedenza adorno di pietra bianca e di pittura
nell'anno della Redenzione 1816
quando la desiderata pace arrise all'Europa
Eliodoro Sacchetti Abate Curato
fatti riparare più alti e più splendenti
la volta e l'arco rivestendo questi
interamente di marmo pario
perché fosse di struttura quanto mai elegante
con danaro proprio e il contributo dei cittadini
come testimonianza di gratitudine
fece costruire
Il fonte battesimale tutto in pietra porta lo stemma di Montefalcone, cioè un
uccello (falco) sopra tre monti e la dicitura Monte-Falcone 1780.
56
Per il campanile non sappiamo l'epoca della costruzione; sul frontale orientale
vi è incisa la data 1879, ma si suppone che questa non sia la data della
costruzione, bensì di qualche notevole restauro, tanto più che la campana grande
porta la seguente iscrizione: Aeterea Regina potems incedis in aula et parent uni
terra polusque tibi.
Michael Tarantini fudit Abate Daniele Tutoli. Anno reparatae salutis 1878.
Sotto la chiesa vi è una grande sala lunga 20 metri e larga 6, 65 che una volta
era sede della Congrega dedicata a S. Michele, poi con l'Abate Petrilli divenne
sala per opere parrocchiali e cinema parrocchiale.
La chiesa del Carmine
Il Cirelli scrivendo della chiesa del Carmine così si esprime:
"Avvi una chiesa rurale, sotto il titolo del Carmine, che merita particolar
menzione per la sua architettura, per la sua origine, per la bella statua della
Vergine del Carmelo, e finalmente per la concorrenza devota dei fedeli non solo
del Comune, ma ancora dei paesi vicini, e dei lontani puramco".
La costruzione della Cappella primitiva risale 1604, ne fu fede il manoscritto
che si conserva nella Curia Vescovile di Ariano Irpino.(1)
"Il 27 novembre 1618 si presentarono al Vescovo di Ariano Mons. Ottavio
Ridolfi, e al Vicario Generale Paolo Squillante, il Sindaco e gli Eletti dell'Università
di Montefalcone, asserendo di essere stata costruita, fuori le mura di quel paese,
una Chiesa sotto il nome di "S. Maria del Carmelo", da un certo Giacomo Zillante.
Vi si celebra la Messa per la grande devozione del popolo; non è stata mai
eretta in beneficio, ma è semplice Chiesa. È desiderio di detta Università e del
popolo che vi sia eretta una Confraternita. Supplicano il Vescovo di prendere
informazioni circa l'erezione e la qualità della Chiesa, e di compiacersi di dare la
facoltà di erigere la Confraternita "S. Maria del Carmelo".
Il Vicario Generale dà ordine a Don Sebastiano Musio, da Ariano,
Protonostario Apostolico, di prendere le informazioni.
Il 28 novembre 1618, a Montefalcone, dinanzi al Rev.mo D. Sebastiano
Musio, testimoniano circa l'erezione e la qualità della Chiesa o Cappella.
Don Giovanni Pietro Parrella, Abbate, di anni 34; Vincenzo (non si legge il
cognome) di anni 60.
Il giorno seguente:
Notaio Fabrizio Paoletta,di anni 50; Don De Simone (non si legge il cognome)
di anni 60; Giulio De Marco, di anni 40; Don Leonardo Rinaldi, di anni 30; Antonio
Musculella, di anni 60; tutti cittadini di Montefalcone.
Il Rev.mo Don Musio rivolge le medesime domande ai singoli, che prima
giurano di asserire il vero, e sottoscrivono, poi, quanto hanno deposto.
Le deposizioni concordano anche nei particolari.
Tutti asseriscono di "sapere bene che nell'anno 1604, e propriamente il giorno
di S. Martino, s'incominciò ad edificare una Cappella o Chiesa, sotto il titolo di S.
Maria del Carmine, fuori del paese, da Giacomo Zillante, di S. Giorgio la Molara,
per sua devozione e per voto fatto da lui, con le offerte che egli andò elemosinando,
ogni giorno, in paese e nei paesi vicini".
Sono ormai tre secoli e mezzo da quando Giacomo Zillante, pellegrino in
cerca di pace, scelse quel poggio per erigervi la prima chiesetta a testimoniare la
sua fede ed il suo culto e nell'arco del tempo, quella testimonianza è stata la
"parva favilla che gran fiamma seconda".
La tradizione popolare rifacendosi alla statua di pietra a mezzo busto della
Madonna del Carmine, che si trovava dal 1616 sul frontespizio della chiesa in una
piccola nicchia sull'architrave dell'ingresso e rubata da ignoti ladri nel mese di
agosto del 1974, dice che quella statua fosse stata rinvenuta, ad un cento passi
57
dove ora sorge il Santuario, da Raffaele Paradiso; tradizione avvalorata dal fatto
che sulla stessa architrave vi era una iscrizione non tutta leggibile, perché incrostata
di colore e rosa del tempo, però si leggono chiaramente le parole "......a devozione di
Raffaele Paradiso.." con sotto la data 1616" e la famiglia Paradiso, allora una delle
più facoltose di Montefalcone, aveva larghi possedimenti là intorno.
A tale tradizione si riportava Filippo Cirelli allorché ne "Il regno delle due Sicilie
descritto e illustrato" scriveva "...Fu questa chiesa edificata da un devoto cittadino,
che per avventura rinvenne in quel sito una statua di pietra indicante la Vergine del
Carmelo, la quale venne poscia situata sul limitare della porta della Cappella che vi
fu edificata".
D. Donato Minelli a tale proposito giustamente scrive: "Ci sorprende,
d'altronde, come mai la scoperta di tale statua - che pure sarebbe un fatto
straordinario - non sia stata ricordata nelle relazioni del tempo".
Potremmo anche argomentare che se realmente fosse stata tale scoperta il
movente per la costruzione della cappella, certamente la statua sarebbe stata
oggetto di culto.
Invece, nella relazione della S. Visita del 26 giugno 1614 troviamo, dopo le
indicazioni dettagliate delle misure della Cappella, la descrizione di un quadro:
"Ha un piccolo quadro dipinto su tela con l'immagine della B. Vergine del Carmelo,
col Figlio sul braccio sinistro, alto palmi 4, largo palmi 3 e once 1. Lo stesso quadro
è fissato nel vuoto del muro, alto dalla mensa dell'altare once 8; con pittura intorno
allo stesso vuoto".
Il popolo vede sorgere con piacere questa Cappella, tanto che nel 1611 si
trovano già lasciti e legati di Messe, come è riferito nella relazione della S. Visita del
1614, e nel 1618 il Sindaco e gli Eletti dell'Università chiedono a nome del popolo,
che si eriga una confraternita.
In origine non si trattava di una vera e propria Chiesa, ma di una cappella di
modeste proporzioni.
La campanella che è sulla Chiesa, di un suono argentino e squillante porta
l'iscrizione: "Verbum Caro factum est A.D.1651. S.MC.-S. B.L." e da un manoscritto
dell'Abate Petrilli del 18 gennaio 1926 risulta che "si conserva ancora un embrice o
canalone d'argilla con data 1679".
Nel 1902, la piccola cappella che ormai è una chiesa, ad istanza dell'allora
Rettore della Chiesa Mons. Abate Antonio Altobelli e del Vescovo di Ariano Mons.
Andrea D'Agostino, il Capitolo Vaticano, il 16 settembre 1902, emise il decreto
d'incoronazione con corona d'oro che poi fu fatta con grande solennità,
con
straordinario concorso di forestieri e con indimenticabile festa il 15 luglio 1903.
Mi è gradito ricordare che a portare la corona fu prescelta una giovanetta,
già ammirata dal popolo per la sua bontà e che oggi, dopo diversi anni dalla sua
morte, il popolo ancora ricorda e piange: Maria Sanità Vitale, mia madre.
La Chiesa, inoltre, venne aggregata alla Basilica di S. Maria Maggiore di
Roma con partecipazione di tutte le indulgenze ad essa annesse, l'8 marzo 1903.
Due lapidi di marmo murate nella Chiesa ricordavano, fino all'ultimo restauro che
furono rimosse, il fausto avvenimento dell'incoronazione. (2)
Nel 1912 vi fu un movimento popolare manifestante l'attaccamento dei
cittadini alla loro chiesa: l'epidemia (spagnola o colera) che mieteva vittime tra la
popolazione aveva fatto decidere le Autorità a costituire un punto di raccolta e di
isolamento, o il lazzaretto, per gli ammalati e pensarono di scegliere all'uopo la
chiesa del Carmine con l'abitazione dell'eremita ad essa annessa, ma il popolo
non gradì tale decisione e ricorse alla Sottoprefettura di S. Bartolomeo.
Il suggerimento d'isolare i malati infettivi e di curare i malati senza assistenza
dato dalle autorità Provinciali con la istituzione di un "lazzaretto" veniva
58
completamente falsato; le Autorità locali compresero o non vollero comprendere
questo suggerimento?
Alloggiando i malati in una chiesa dove l'assistenza doveva essere svolta
dagli stessi familiari, con l'aggravio di portare cibarie e indumenti dalle case,
metteva in condizione i pochi non ammalati a dividersi tra le occupazioni di casa, di
lavoro e l'assistenza fuori sede dei familiari malati: ogni concetto di medicina
preventiva risultava, in tal caso, solo un'altra sventura oltre alla paura, all'epidemia
e alla miseria!
Il Sottoprefetto,
diplomaticamente,
promise interessamento, fece delle
promesse, ma lasciò che le decisioni delle autorità locali, dettate peraltro da
interessi politici, venissero attuate.
Si cominciarono a portare suppellettili e medicinali nei locali della Chiesa e fu
allora che il popolo, che del "Carmine " aveva fatto il centro della propria fede e
della propria storia, insorse e aprendo la Chiesa la sgombrò di quanto vi avevano
depositato.
Giuseppe Zeppa, mio padre, fu incriminato come principale istigatore perché
aveva aperto la Chiesa, ma al processo che si svolse al Tribunale di Benevento il
popolo di Montefalcone accorse addirittura in massa, oltre ai tanti che furono
chiamati a deporre da testimoni e tutti dettero la dimostrazione di quanta stima ed
amore avessero per mio padre, perché alla domanda del Giudice di che avesse
aperto la Chiesa ognuno rispose, quasi fosse stata una parola d'ordine: "Siamo
stati tutti noi, è stato tutto il popolo" e mio padre fu completamente assolto.
Il 9 magio 1915 il Consiglio Comunale, presenti i Consiglieri:
Cav. Corso Pasquale, Belpedio Ilarione, Virgilio Ignazio, Marcantonio Alberto,
Vitale Rodolfo, Lucarelli Alfonso, Corso Vincenzo, Zeppa Giuseppe, Belpedio
Costanzo, Micele Nicola, Cavoto Michele, Paoletti Biagio, D'Alessio Filippo,
segretario Michele Varricchio, con atto consiliare n. 8 deliberava l'allargamento
della piazza della Cappella del Carmine ad esclusiva opera e spese dei confratelli
della Congrega di Maria SS. del Carmine".
2) Le due lapidi, prima murate sulla parte frontale, ai limiti dell'altare
maggiore, furono, nel 1922, fissate di fronte, alle pareti laterali e ora, dopo l'ultimo
restauro e ampliamento della chiesa, 1972, alla parte interna dell'entrata.
Si faceva così ancora un passo innanzi nella sistemazione della Chiesa, che
rimaneva, però, ancora incassata in una collina ed era umida e oscura.
L'Abbate Petrilli,
appena tornato dall'America del Nord faceva un caldo
appello alla popolazione incitandola a sgombrare la terra che soffocava la Chiesa,
accomodare lo spiazzale intorno e prolungare il tempio. Il popolo rispose con vero
entusiasmo a tale invito e in meno di due anni tutto il movimento della terra era
compiuto e la Chiesa allungata di due archi, restaurata ed abbellita, veniva
solennemente benedetta dal Vescovo di Ariano Mons. Giuseppe Lojacono e
riaperta al culto il 29 giugno 1922.
Nel 1926 lo stesso Abate Petrilli trasformò ed ampliò i locali adiacenti alla
chiesa per istituirvi un asilo infantile ed una scuola di ricamo diretti dalle Suore dello
Spirito Santo con casa madre ad Ariano Irpino e nello stesso anno diede vita al
bollettino del Santuario che ancora si pubblica.
Nel 1934 fonda la Congregazione delle Suore Terziarie Carmelitane, perché
nelle loro preghiere raccogliessero la voce del popolo, fossero fiaccola accesa di
devozione alla Madonna e tanti bambini ed orfanelle trovassero accanto al
Santuario un nido di vita e di amore.
Nel 1968, con l'interessamento di Don Donato Minelli e Don Giuseppe Di
Matteo, il Santuario fu nuovamente restaurato ed ampliato (arco centrale, cupola
59
e sostituzione della nicchia e altare marmoreo) e fu inaugurato la nuova scuola
materna realizzata con i fondi della Cassa del Mezzogiorno.
Circa la bella statua della Madonna non si sa con certezza quando sia stata
fatta. Una tradizione popolare vuole che sia stata portata dai Francesi, ma tale
ipotesi è da scartare, perché da nessuna fonte risulta che i Francesi siano stati a
Montefalcone; è, piuttosto, da ritenersi che sia stata fatta verso il 1740 - 1750 da
uno degli scultori della famiglia D'Onofrio di Montefalcone. In quel tempo, infatti, vi
erano i Marcantonio, Giuseppe e Fedele D'Onofrio che erano degli ottimi scultori
e che hanno lasciato le loro
opere a Lucera, Roseto Valfortore, Castelfranco, S. Bartolomeo in Galdo,
Ariano ed altri paesi della zona (ed è molto probabile che l'attuale statua sia stata
scolpita da Marcantonio D'Onofrio, però non se ne hanno prove irrefutabili).
Nel 1852 la statua stava esposta su di un tavolo e la caduta della statua con la
faccia a terra, senza però che il volto di rompesse o si screpolasse minimamente, il
che dal popolo fu ritenuto addirittura come un fatto soprannaturale; dopo di ciò la
statua fu restaurata da Peppino Pastore di Benevento, dopo parecchi anni,
nuovamente, da Giacomo l'Abate da Ospedaletto; poi ancora dal di lui figlio
Salvatore e nel e nel 1903 da Catello di Napoli.
(La statua si è bruciata ancora, allo stesso modo di prima, in anni recenti ;
fatta restaurare dall'Abate Petrilli a Napoli).
Nella "Descrizione Istorica" del Vitale si accenna anche ad una chiesa di S.
Sebastiano, di essa non c'è alcun ricordo tra il popolo; pare, che si trovasse verso
S. Luca di cui innanzi abbiamo accennato; come pure nell'Elenco dei Monasteri
dell'Ordine Eremitano di S. Agostino, come si legge in Appendice alle Costituzioni,
tra i conventi della Congregazione Dulcetana di Puglia, si trova un Convento
Montisfalconem, ma, come scrive lo stesso Vitale: "gli abitanti di essa Terra non
hanno veruna notizia, che vi fosse stato, e molto meno del tempo in cui cessasse
di esservi".
Concludendo queste note sulle chiese dobbiamo notare che le due
Parrocchiali prima "si conferivano a nomina del Barone, passati poi i diritti baronali
all'Università per mezzo della ricompra, nel caso di
vacanza si conferiscono a nomina di essa, in pubblico Parlamento adunata, a
tenor delle leggi e de’ decreti de’ Tribunali Supremi".
Le notizie sul Carmine sono state attinte oltre che dall'articolo di D. Donato
Minelli, da un manoscritto dell'Abate Petrilli, in calce al quale si legge: "L'anno
1926 il giorno 19 gennaio, nella Sacrestia di S. Maria Assunta invitati dal Parroco
Abate Antonio Petrilli, si sono riuniti le seguenti persone: Michele Di Brita fu
Leonardo di anni 84; Paolo D'alessio fu Filippo di anni 81; Aniello Vitale fu Raffaele
di anni 80; Davide Grassi fu Alessandro di anni 78; Angelo Vitale fu Raffaele di
anni 72; Filippo Micele fu Ottaviano di anni 71; Salvatore Grassi fu Alessandro di
anni 64, i quali hanno deposto le surriferite notizie".
Per le notizie sul Santuario del Carmine Cfr. Ferdinando Di Stasio
Donato Minelli, il Santuario del Carmine di Montefalcone,
Ediz.Santuario del
Carmine - Montefalcone (BN), 1978
(pubblicato quando avevo già steso queste note).
60
IL DIA LETTO
La lingua latina del periodo aureo era ben diversa dalla lingua incolta che si
parlava quotidianamente nella stessa Capitale dell'Impero per esprimere con
immediatezza i rapporti familiari e pratici.
Lo stesso Cicerone, notiamo, quando scriveva agli amici lettere private usava
un latino più modesto di quello che ammiriamo nelle sue orazioni e nelle sue opere
filosofiche.
La decadenza culturale che si accompagnò, nel mondo latino, al declino
dell'Impero, e quindi le invasioni barbariche con il conseguente apporto di nuovi
elementi linguistici, favoriscono, in un lungo periodo di tempo, da un lato
l'indebolimento del latino letterario, dall'altro il consolidamento e la diffusione di quel
linguaggio che, parlato dal volgo, si disse poi "volgare".
Non solo., ma non tutti parlavano allo stesso modo: via via che ci si
allontanava da Roma, le differenze dialettali, nell'uso del vocabolario, nella
pronuncia, nell'accento, ecc. si facevano sentire più fortemente.
Occorre tuttavia aspettare gli inizi del secondo millennio perché quel volgare
cominciasse ad acquistare dignità di lingua letteraria.
Fermando l'attenzione sul limitato campo del dialetto della Campania, si
rileverà subito l'assenza di una storia letteraria e linguistica che dopo il secolo XIII
si confonde con la storia della Scuola Siciliana.
Solo più tardi, quando il toscano, sorretto dall'autorità di Dante, Petrarca e
Boccaccio, si impose come lingua nazionale, quel volgare che ora può dirsi dialetto
ebbe la sua evoluzione e si differenziò dagli altri dialetti anche per l'apporto di nuovi
elementi linguistici, specie in conseguenza della dominazione angioina e aragonese.
L'evoluzione del dialetto nostro è stata la stessa del dialetto napoletano, da
cui piglia origine, ma come quello ha subito l'influsso linguistico francese e
spagnolo, così il nostro ha subito anche l'influsso pugliese, per ragione di confine
e l'influsso dell'emigrazione, specie dall'America, dove ci fu un esodo massiccio
particolarmente dopo la prima guerra mondiale, per la nota questione economica
meridionale.
Riporto, solo come esempio, qualche nostro termine dialettale chiaramente
proveniente da altre lingue:
Latinismi:
crai da cras
domani
pescrai
" post cras
dopo domani
pescrillo
" post diem illum dopo l'altro giorno
sora
" soror
sorella
chianca
" planca
macelleria
laganielli
" lagani
maccheroni fatti in casa
(ricorda Orazio Satira I-6.115: "catinum ciceris laganisq
Francesismi:
travaglià
da travailler
galopp
" enveloppe
lavorare
busta e foglio
Americanismi
long
da lunch
spuntino
cott
" coat
cappotto
treng
" trench
Impermeabile
e ne potremmo aggiungere ancora tanti e di altre lingue.
61
La pronuncia di alcune consonanti, principalmente p e b è notevolmente
marcata. robba = roba, ppoi = poi; il raddoppiamento di g e z diventa addirittura
naturale in tutte le parole terminanti in gione e zione, perché anche nella lingua
letteraria la loro pronuncia è di per sé alquanto intensiva.
Ugualmente nelle consonanti c'è la tendenza alle trasformazionidi d
intervocalico in r (pere = piede, surà = sudare) e di t dinanzi a dentale in r (sardà =
saldare).
Infine rimangono nel nostro dialetto gli esiti dei gruppi latini di consonanti pi cui
corrisponde py italiano, diventa ky e talvolta addirittura c palatale: chiù = più;
chianta = pianta; bi e ci si riducono a y: yanco = bianco; fi si trasforma in sc: sciore
= fiore.
Se poi la i è parte integrante della preposizione in può cadere o per
assimilazione e allora la preposizione si appoggia alla parola seguente: mmieze = in
mezzo; mpietto = petto.
Le e e le o atone si trasformano talora in i ed u: mustrà = mostrare; i dittonghi,
generalmente,
tendono a ridursi,
particolarmente ia
e ie tendono a
monodittongarsi in e: pere = piede; uo si riducono in o ed u: core = cuore, fore =
fuori.
Il trattamento di e ed o del latino volgare in i ed u si riscontra anche nel nostro
dialetto: stisso = stesso, suli = soli; signuri = signori.
Il nostro dialetto, come del resto tutti i dialetti meridionali e specie quelli
campani, adopera indiscriminatamente il verbo essere come ausiliare dei verbi
transitivi, intransitivi e del verbo avere: e so scritt = io ho scritto; e so avuto = io ho
avuto; e a sua volta il verbo avere, anche se più raramente, serve come ausiliare
del verbo essere.
Il presente è quasi sempre usato al posto del futuro, aggiungendovi, al
massimo, poi: po’ veng = poi verrò.
L'infinito presente dei verbi diventa quasi sempre tronco e la vocale, se trattasi
di e o di o generalmente diventano acute in quasi tutte le altre parti del meridione,
mentre da noi diventano gravi: nun pozz durmì = non posso dormire; vurria verè =
vorrei vedere.
Caratteristica è poi la cadenza che risente di una certa durezza della gente di
montagna e di una tipica nenia.
62
IL CANTO DELLA MIA TERRA
Ogni terra, come ogni creatura, ha il suo romanzo.
Scienziati e poeti hanno saputo leggerne qualche pagina remota, coglierne la
fisionomia, cantare il suo tormento. Gli uni e gli altri, però, in genere, si son fermati
a far conoscere quelle parti della terra già agli altri note che, forse, hanno maggiore
attrattiva.
Questo non esclude che uomini di altre terre non abbiano cantata la propria,
perché il luogo di origine è parte di noi stessi ed esercita sopra di noi una dolce
attrattiva, fatta quasi d'incosciente abbandono.
Non poteva, perciò, il nostro paese non sentire questa passione e non
esprimerla col canto.
Anche se non abbiamo avuto quelle canzoni espresse in uno stile in cui si
trovano profuse tutte le migliori qualità del canzoniere di classe, composte da
maestri che conoscono a fondo ogni segreto della tecnica che porta al battesimo la
canzone, dando ad essa ogni più caloroso successo; anche i canti della nostra
terra non si elevano al di sopra del livello delle normali composizioni popolari, esse
hanno saputo sempre, in ogni occasione, esprimere la gioia ed il dolore, qualsiasi
cosa degna di ricordo, in una parola: l'anima del popolo.
Il motivo di nenia, così comune nel nostro canto popolare, porta malinconia
ed espressione lirica, e le dà ad un tempo, una ingenua semplicità ed una sofferta
e sentita passione.
Il canto del nostro popolo è come la preghiera dell'infelice, che ondeggia tra il
timore e la speranza; è come una luce che si avviva, di tratto in tratto,
per
illuminare antiche memorie e dare una nuova luce ai sentimenti attuali.
È parola soave che diventa ancora più armoniosa perché è quasi in sintonia
con la pace dei nostri campi non turbata dal rumore di ordigni, indicanti
un'operosità dinamica, ma distruttrice del sentimento.
È lo slancio innamorato di anime che si esprimono in forma gentile.
Chi tra i nati della mia terra, o che vi ha trascorso qualche periodo della sua
esistenza, non si ricorda di quelle melodie, serene e pur trascinanti, ascoltate dai
buoni contadini tornanti a casa dopo il duro lavoro? Chi non si è incantato nel sentire
una conzone, che faceva quasi da contrappunto al fruscio delle pannocchie,
durante il lavoro in una notte estiva, al lume di luna?
È tutta una produzione varia, bella, saporosa: dalle "Tarantelle" ai "I Turchi
sò arrivati a la marina", alle diverse canzoni ricordanti qualche episodio avvenuto fra
la nostra gente: "Zì munacella se voleva fà" a "I Pannarano" è solo palpito di
passione e d'ispirazione, che canta la gioia e la malinconia, l'abbattimento e
l'ardore di un popolo che ama e soffre e, perciò, non dispera.
Attraverso quelle semplici conzoni si sente il cuore, le sensibilità, li lirismo
interiore di un popolo che vive di lavoro e si inebria di canto.
Riportiamo alcune canzoni popolari, così come le abbiamo ascoltate dalla viva
voce della nostra gente.
Alcune non sono neppure complete.
Spusarizio du pover'omo
Quann se 'nzurav 'u pover'omo
Quando si sposava il pover'uomo
c'era abbondanza di donne e carestia di pane;
dopo gli otto giorni
andava in campagna come tutti gli altri contadini.
Ehi, sposo fresco, come andiamo?
Andiamo come tutti gli altri contadini:
63
con la bisacia addosso e senza pane.
era grascia r donne e carastia r pane;
'ncape r ott juorni
ieva fore com'a tutt l'auti campagnuoli.
Ahi zitillo frisco, come jame?
Jame come a tutt nauti campagnuoli
ca vusazzella 'ncuoll e senza pane.
Sposalizio del pover' uomo
Quando si sposava il pover'uomo
c'era abbondanza di donne e carestia di pane;
dopo gli otto giorni
andava in campagna come tutti gli altri contadini.
 Ehi, sposo fresco, come andiamo?
 Andiamo come tutti gli altri contadini:
con la bisacia addosso e senza pane.
FA C C I A R G A R O FA N O
Faccia r nu garofano 'ncarnato
quann jatèa chiesa vuie sciurite,
quann 'a scalella vuie acchianate,
cu l'uocchi bell l'amore facite;
quann l'acqua santa vuie pigliate
surgite funtanella r'acqua e vita;
quann pa chiesa vuie camminate,
i mautunelle rore vuie ammucciate,
a quill posto addò v'addinucchiate
tutt r gigl e rosa è ben guarnito;
quann quessa bella crona vuie cacciate
che bell patre noste vuie recite
e a quale santo vuie li presentate?
uno p (e) me num u recite maie!
FA C C I A D I G A R O FA N O
Faccia di garofano incarnato
quando andate in chiesa voi fiorite,
quando la scaletta voi salite
con gli occhi belli l'amore voi fate;
quando l'acqua santa vi pigliate
sorgete fontanelle d'acqua di vita;
quando per la chiesa voi camminate
le mattonelle d'oro voi nascondete,
a quel posto dove v'inginocchiate
tutto di gigli e rose è ben guarnito;
quando quella bella corona voi cacciate
che belli pater noster voi dite
e a quale santo voi li presentate?
Uno per me voi non lo dite mai !
AUZETE
BELLA
MIA
auzete bella mia ch'è fatt juorn
quann' 'i vuoi 'ntreccià tanta capilli!
te mitt'affacciata a la finestra
64
finché passa 'u 'nnammurato;
'u 'nnammurato ricco, addio, addio!
Faccia r luna. come te si azzimata.
- Me so azzimata e preg'a Dio.
sulo cu l'acqua fresca me sò lavata!
- Quess'acqua ca te lava a la matina
te prego, bella mia nun a jettare,
addò 'a jetti ce nasce 'na spina
e ce nasce 'nu rusillo pe’ profumà;
picculo diamante, eppure addora,
piccula tu sì, bella figliola,
picculo sò io e jamme pare.
Alzati bella mia
Alzati, bella mia, s'è fatto giorno,
quando li vuoi intrecciar tanti capelli?
ti metti affacciata alla finestra
finché passa l'innamorato;
innamorato ricco, addio, addio!
Faccia di luna, come ti sei adornata,
- Mi sono adornata e prego Iddio,
solo con l'acqua fresca mi son lavata!
- Quell'acqua con cui ti lavi la mattina
ti prego, bella mia, non la gettare,
dove la getti ci nasce una spina
e ci nasce una rosellina per profumare,
piccolo diamante, eppure odora,
piccola tu sei, bella figliola,
piccolo son io e andiamo pari.
FA C C I A R C I C O R I A
Faccia r 'na cicoria amara, amara,
Cristo te l'ha luato lu colore,
te l'ha luato pe te fà rannà;
tutte se maritano e tu no.
Faccia r 'nu lemmeto abbattuto
è bbona terra, ma male cultivà
e si 'nterra te veress
me sputasse mmano
e me facesse 'nu tauto
e no a pigliarme a te pe’ 'nnammurata.
FA C C I A
DI CICORIA
Faccia di cicoria amara, amara,
Cristo te lo ha tolto il colore
te lo ha tolto per farti dannare;
tutte si maritano e tu no.
Faccia di un ciglio abbattuto
è terra buona, ma male a coltivare
e se a terra ti vedessi
mi sputerei in mano
65
e mi farei una bara
e non a pigliarmi a te per innammora
E doie sore
Aggiu saputo che doi sore site
e ttutt'e doie e una qualità.
a una taulella magnate e bevite
a uno letticciullo ve curecate.
Io sò e fuoco, se ne vulite
me metto miez'a vuie e ....... caure state.
LE DUE SORELLE
Ho saputo che due sorelle siete
e tutt'e due di una qualità
ad una piccola tavola mangiate e bevete
ad un solo letticciuolo vi coricate.
Io son di fuoco, se mi volete
mi metto in mezzo a voi e ...... calde state
AFRICANELLA
Africanella era tutta riso
teneva pur l'uommen in cammisa
zompa allariulera, zompa zompa allariulà
zompa allariulera, zompa zompa allariulà.
Africanella era tutta bella
teneva 'u mussill a cirasella.
Zompa allariulera, zompa zompa allariulà
zompa allariulera, zompa zompa allariulà.
E chi vo fa’ l'amor lo faccia in casa
ca sott a la finestra nun è cosa
Zompa allariulera, zompa zompa allariulà
zompa zompa allariulera, zompa zompa allariulà
E chi vo fà l'amor sott u spuort
s'addà caccian prim a passapuort
Zompa allariulera, zompa zompa allariulà
zompa allariulera, zompa zompa allariulà
Chi te (ne) i figliol bell ca se le 'nzerra
ca passa 'u segretari pe(r) la terra
Zompa allariulera, zompa zompa alleriulà
zompa allariulera, zompa zompa alleriulà
Africanelle quann jev(a) u vallon
u segretario ce purtav(a) u sapon
Zompa allariulera, zompa zompa allariulà
zompa allariulera, zompa zompa allariulà
Africanella quann jeva(a) u furn
u segretario girava tuorn tuorn
Zompa allariulera, zompa zompa allariulà
Africanella quann jev a Messa
se ne scurdava semp a pettinessa
Zompa allariulera, zompa zompa allariulà
NCOPP
M U N T E FA L C O N E
Ncopp a muntagna r Muntefalcone
e là c'è sciut 'na stella bgnata
A M U N TA G N A R
66
quell sò i lacrim(e) r li suldat
c'hann lassat i lor 'nammurat
Bo bo bo - boro boro boro - bo bo bo
Quann lu ninn part pu lu fronte
lu nome ra nenna
lu port scritt 'nfront
prima lu front e po’ 'a trincea
mannaggia a guerra e chi ha miss 'n pero
Bo bo bo - ....
'Nanz casa mia c'è nata 'na villa
e là ce steve 'na rosa chiantata
tu si la rosa e io sò lu giglio
se tu ma raja io me la piglio
Bo bo bo - ....
Tien(i) quiss uocchi r nevra serpa
e i capili r seta r(i) torta
pe scucchià a nuj ce vol la mort(e)
Bo bo bo - ....
T'aggio ritt 'na mala parola
t'aggio addummannat se vo fa l'amore
riccell a mammeta
riccell r core
se te vo fa fa ammore cu me
Bo bo bo - ....
mo s'avvicina u mese
r'aprile scopp(a) n i viol(e)
pe sop li balcun
tu nenna mia mienamenne una
mienamenne una e nun me fà murì.
Bo bo bo - ....
Ce ne jamm(e) sciumara sciumara
trova vunnell ca lava li panni
ella li torce e io li spann
quann sò assutti li jamm a piglià
Bo bo bo - ....
Ce ne jamm(e) chiazzetta chiazzetta
ce jamm a cocènu chil r spaghett(i)
nu chil r spaghett(i) e 'nu bell fetachiello
e accuntantam a sti bel guagliuncielli.
TERRA AMARA
NA, NA, NA, N'AVIMM COM FA
sti pover figliol non se ponne marità!
Chi che mallannata
secceta e ferracielle
muglierema malata
tene mbiett 'u guaglliunciell'
Na, na, na, n'avimm com fà
né sale, né lumine, né sapone pe’ lavà'
U Signor mann i figli,
u guvern mette i tass:
i sold addò i piglj...!
a fatica chi ta passa..!
67
Na, na, na, n'avimm com fà,
né refe, né lumin, né tabbaco pe’fumà!
Mo se ne vene viern
nun teng 'nu tizzone
i criature scauze
senza nu cauzone
Na, na, na, n'avimm com fà,
sti pevere figliole nun se ponn marità.
Chi tene a terra a l'Isch
o i ttè a Perrazzeta
eja secur ca semmena
ma nn'eia secure se mete.
Ncopp' a muntagna u vient
e p'a vascianza a nigliara
lievec affitt e sement
e vai par par.
I bunifiche sò state
'a ruina ru paese
i sold sò sc(e)mat
e sò aumentate 'e spese
Na, na, na, n'avimm com fà,
sti povere figliol(e) non se ponn marità
A Svizz(e)ra e 'a G(e)rmania
a Francia e l'Inghilterra
se pigli(a)n i meglj ann(i)
come durant 'a guerra
Na, na, na, n'avimm com fà
sti povere figliol(e) nun se ponn marità!
È quest'eja a sort amar
ra gente ru Furtor(e)
semp luntan ra cas(a)
e ca nustalgia ndu cor(e).
TERRA AMARA
Na, na na, non abbiamo come fare
queste povere figliuole non si posson maritare;
Ohi che mala annata
siccita e grandine
mia moglie ammalata
tiene al petto il bambinello
Na, na, na, non abbiamo come fare
né sale, né fiammeferi, né sapone per lavare.
Il Signore manda i figli
il governo mette le tasse
i soldi dove li piglio
il lavoro chi te lo passa....!
Na, na, na, non abbiamo come fare
né cotone, né fiammiferi, né tabacco per
fumare!
Ora arriva l'inverno
non tengo un poco di fuoco
i bimbi scalzi
e senza pantaloni
68
Na, na, na, non abbiamo come fare
queste pover figliole non si posson maritar
Chi tiene la terra a l'Isca
o la tiene alla Perrazzeta
èsicuro che simina
ma non è sicuro che miete.
Su la montagna il vento
la nebbia per la valle
togli fitto e semenza
ed escil pari pari.
Na, na, na, non abbiamo come fare
né sale, né fiammeferi, né sapone per lavare.
I lavori di bonifica sono stati
la rovina del paese,
i soldi son diminuiti
e son aumentate le spese
Na, na, na, non abbiamo come fare
queste povere figliole non si posson maritare
La Svizzera e la Germania
la Francia e l'Inghilterra
si prendono i migliori anni
come durante la guerra!
Na, na, na, non abbiamo cme fare
queste povere figliole non possono maritare
È questa la sorte amara
della gente del Fortore:
sempre lontana da casa
e con la nostalgia nel cuore!
GESU'MORIBONDO
Gesù miss (i)n croce
e moribondo
Maria c(e) stà sott
c(u) nu gran piant
Mentr suspir
il suo figliuol giocondo
Maria è meza mort(a)
e va parlenn:
Gioia r mamma
Figlio che male t'ho fatto
Tu sei sempre
tutto b(e)neritt.
Ed ho paura
nu schiaff in casa r'Ann
vattut e flagg(e)llat
a la culonn
E li fu miss
na grand(e) funa 'ngann
'n croc lu vidd miss
la Maronn.
O caro re
e Giura trar'tor voi siete
non tanta canità
69
per carità
Non tanto strazio
al mio figliuol farete
non tanta spada che stu cor
m'hai dato
Curr Giovann
fratello mio caro
consol(a)m a sta mamm(a)
che suspir.
Cussì dicenn
che non suspira mai
china la testa
e auz l'uocch(i) a u Patr.
Mor Gesù
e mpunt 'a ventun'or(a)
si scura l'aria
e s(i) 'ncupisc u mar(e)
Anche le pietre
piangev(a)n p'(e) dulor(e)
la morte di Gesù
che piant'amar(o).
Si scura l'aria
si serrano le porte,
il Figlio di Maria
stà 'n croce e morto.
Cal(a)n a Gesù
dal tronco della croce
com 'mbracc(io) a Maria
l'hann purtat.
La Maddalena
e cun 'na treccia dora
jeva piangenn tutta
afflitta e scura.
Chi l'avess vist
il caro mio tesoro
la morta la vurria
in sepoltura
E più ti prego
Vergin'Addolorata
o peccator dal petto
sei venuto
Vieni viv(o) e muort
voglio ess(ere) ij aiutat
ca mor Gesù Crist
e l'ha saput
E più ti prego
o Verginella pia
e nghian (i)'n ciel
e n'(on) m'(i) fà dannà.
70
A dò vaj Addul'rata Marij
mo s'avvicin'(a)n li pen a lu cor
Lu vostr Figliuol ch' mbraco(ia) s'(en)mor
e una madre lu ver murì;
e dul'(o)rat c' su maccatur
lu vostr figl lu jam truenn
lu vostr figl lu jam chiagnenn
p'(e) si strad lu jam truenn
e com maj lu putim ritruà?
E Addul(o)rat c(u) si lacrim a l'uocch(i)
lu vostr Figl' lu jam piangenn
p'(e) si strad lu jam truenn
e com maj lu putim r'(i)truà.
GESU’ MORIBONDO
Gesù messo in croce
e moribondo
Maria ci sta sotto
con un gran pianto
Mentre sospira
il suo Figliol giocondo
Maria è mezza morta
e va parlando:
Gioia di mamma
Figlio che male ti ho fatto
Tu sei sempre
tutto benedetto
Tu mi portasti
nel mare di dolore
e sopra una croce
ti vedo trafitto.
Ed ho paura
uno schiaffo in casa di Anna
battuto e flagellato
alla colonna.
E ti fu messa
una grande fune al collo
in croce lo vide messo
la Madonna.
O caro re
e Giuda traditor voi siete
non tanta canità(crudelatà)
per carità
Non tanto strazio
al mio Figliol farete
non tanta spada(strazio) che a questo cuor
hai dato.
71
Corri Giovanni, fratello mio caro
consola questa mamma
che sospira.
Così dicendo
che non sospira mai
china la testa
e alza gli occhi al Padre.
Muore Gesù
e giusto a ventun'ora
si oscura l'aria
e s'incupisce il mare.
Anche le pietre
piangevan per dolore
la morte di Gesù,
che pianto amaro!
Si oscura l'aria
si chiudono le porte,
il Figlio di Maria
sta in croce morto.
Scendono Gesù
dal tronco della croce
come in braccio a Maria
l'hanno portato.
La Maddalena
con una treccia d'oro
andava piangendo tutta
afflitta e scura;
Chi avesse visto
il caro mio tesoro
gli vorrei dare in morte
sepoltura.
E più ti prego
Vergine Addolorata
o peccator dal petto
sei venuto
Vieni, vivo e morto
voglio essere aiutato
che muore Gesù Cristo
e l'ha saputo
E più ti prego
o Verginella pia
che sali in cielo
e non farmi dannare.
Dove vai Addolorata Maria
adesso s'avvicinano le pene al cuore.
Il vostro Figliolo tra le braccia(vostre) muore
e una madre lo vede morire
72
e addolorata con quel fazzoletto
il vostro Figlio lo andiamo cercando
il vostro Figlio lo andiamo piangendo
per queste strade lo andiamo cercando
e come mai lo potremo trovare?
Addolorata con le lacrime agli occhi
il vostro Figlio lo andiamo piangendo
per queste strade lo andiamo cercando
e come mai lo potremo trovar?
GIOVEDÌ SANTO
Coro
Mo s(e) part' Maria lu giuv(e)rì sant
e part sol e senza cumpagnia,
truvav in giureo p(e) la via:
"Addò vaj e che vaj piangenn?"
Maria
"vav piangenn e ka ci hai ragion
k'agg(io) perz lu mij figliuol"
Giudei
Tu l'hai perz e nuj l'avim asciat
vicin a 'na culonn sfrac(e)llat
vicin àna culonn sta l(e)gat
'n Gerusalemm l'avim purtat.
Cronista
mo s'(e) part Maria e va 'n Gerusalemm
truvav tutt'i port varriat,
scot la recchia p' 'na singh(e)tell
se sentev(a)n ogni bott r scurriat.
Maria
----Vien figl bell, vien'm rap,
ij sò la mamma toia scuns(u)lat!
E figl(io), figl, rap(e)ma sti port
ca te voglio salvar ra la mort.
Cristo
Mamma, mamma, n'(on) te pozz rapì
ka li giurej m'hann tropp l(e)gat
ka li giurei m'hann tropp l(e)gat
ij stav addret a port r' P(i)lat.
E mamma, mamma, già ka si m'nut,
na v(e)pptella r'acqua m'viss purtat?
e mamma, mamma, s(e) l'aviss purtat,
la santa gola fuss add(e)fr(e)scat.
Maria
E figl, figli, s(e) l'avess saput...
n(o)n sò passat no vall e no funtan
n(o)n sò passat no vall e no funtan
p(e) quisti cuntuorn n(o)n c(i) so maj stat.
Coro
S(e)ntier(e)n li brutt can giurej,
facier(o)n cit e fel(e) e caucia stemperat
73
ngann a nostro Signore l'hann menata
tutta la santa gola l'hann bruciat.
Cristo
E mamma, mamma, già ka sì m(e)nut
'na cann r tel m'aviss purtat;
e mamma, mamma, s(e) l'avise purtat
e li ferit mie m'aviss accumigliat.
Maria
E figl, figl, s(e) l'avess saput
pur la meglia vest m'avria scusut,
E figl, figl, s(e) l'avess saput,
pur la meglia vest m'avria scusut.
Cristo
E mamma, mamma, già ka si m(e)nut
piglia la via r la ferrarij
piglia la via r la ferrarij
addò s(e) lavor(a)n li tre chiuov mij.
Riccell a quill maestr r 'na curt(e)sia
ka li facess stritt, curt e suttil
ka li facess stritt, curt e suttil
k'anna ra passà li carm mij gentil.
Maria
E vui mastr ka facit li chiuov
ij nu favor vogli(o) ra vuj:
vuj tre chiuov m'avit ra fà
l'avitra fà stritt, curt e ben suttil
kann ra passà li carn r' lu figliol mij gentil.
Quann vir, mastr mij, s(e) c'hai ragio:
nu figl tenev e c(i)'hanno dato dulor,
La curon ror c(e) l'hann luat
la curon r spin c(e) l'hann miss 'n cap.
Coro
r(e)sponn quill brutt giurei
r(e)sponn quill brutt giurei
Giudeo
Facit(e)cill tre palm luong e largh
Facit(e)cill tre palm luong e largh
Facit(e)cill tre palm luong e largh
p' dà cchiù passion a la sua mamma
Coro
Madre Maria s(e)nteva 'sti nuvell
stev'alert e car mort 'n terr.
Madre Maria s(e)ntev 'a sti parol,
e sbatt n' terr e l(e) trmaj lu cor.
Curr Giuvann, e k(a) 'na spalla fort,
a auzà Maria meza mort.
Mo s(e9 n(e) ven Maria Maddalen
k' nu mazz r' sciur e l nu mazz r' ment
Nu mazz r' sciur e nu mazz r' ment
p(e) resuscità Madre Maria; Amen!
GIOVEDÌ SANTO
74
Coro
Adesso si parte Maria, è giovedì santo
e parte sola e senza compagnia,
trova un giudeo per la via:
"Dove vai e perché vai piangendo?"
Maria
"Vado piangendo e ne tengo ragione
perché ho perduto il mio figliuolo".
Giudei
Tu l'hai perduto e noi l'abbiamo trovato
vicino ad una colonna, sfracellato
vicino ad una colonna stava legato
in Gerusalemme l'abbiamo portato.
Cronista
Adesso si parte Maria e va a Gerusalemme
trovava tutte le porte sbarrate,
tende l'orecchio e per una piccola fessura
si sentiva ogni colpo di scudiscio.
Maria
Vieni figlio bello, vienimi ad aprire
io sono la tua madre sconsolata
Figlio, figlio, aprimi questa porta
ché ti voglio salvare dalla morte.
Cristo
Mamma, mamma, non ti posso aprire,
perché i giudei mi han troppo legato
perché i giudei mi han troppo legato
io stavo dietro la porta di Pilato.
Mamma, mamma, giacché sei venuta
un sorso d'acqua m'avessi portato?
mamma, mamma, se l'avessi portato,
la santa gola avresti rinfrescato.
Maria
Figlio, figlio, se l'avessi saputo...
non son passata né per valloni né per fontane
non son passata né per valloni né per fontane
per questi dintorni non ci sono mai stata.
Coro
Sentiron i brutti cani(cattivi) giudei,
fecero aceto, fiele e calce stemperata
nella gola a nostro Signore l'hanno menata
tutta la santa gola gli han bruciato.
Cristo
Mamma, mamma, già che sei venuta
una canna di tela m'avesse portato? (1)
mamma, mamma, se l'avessi portata
le mie ferite avresti ricoperte.
Maria
Figlio, figlio se l'avessi saputo
pure la migliore veste mi sarei scucita,
figlio, figlio se l'avessi saputo
pure la migliore veste mi scucivo.
75
Cristo
Mamma, , mamma, già che sei venuta
piglia la strada dei ferrai
piglia la strada dei ferrai
dove si lavorano i tre chiodi miei.
Diccelo a quei maestri di una cortesia
che li facessero stretti, corti e sottili
che li facessero stretti, corti e sottili
ché han da passare le mie carni gentili.
Maria
Voi maestri che fate i chiodi
io un favore voglio da voi;
voi tre chiodi mi dovete fare
li dovete fare stretti, corti e ben sottili
ché hanno da passare le carni del figliuolo mio gentile.
Vedi, maestro mio se tengo ragione;
un figlio tenevo e gli hanno dato dolore,
la corona d'oro ce l'hanno tolta
la corona di spine ce l'hanno messa in testa.
Coro
risponde quel brutto cane giudeo
risponde quel brutto cane giudeo
Giudeo
Fateceli tre palmi lunghi e larghi (2)
Fateceli tre palmi lunghi e larghi
Fateceli tre palmi lunghi e larghi
per dare più passione alla sua mamma,
Coro
Madre Maria ascoltava queste novelle
stava all'impiedi e cadde morta a terra,
Maria Maria ascoltava queste parole
cadde a terra e le tremava il cuore.
Corri Giovanni, e con una spalla forte
per alzare Maria mezza morta.
Adesso sen vien Maria Maddalena
con un mazzo di fiori e con un mazzo di menta
un mazzo di fiori e un mazzo di menta
per risuscitare (fare rinvenire) Madre Maria. Amen!
ROSARIO A MARIA ADDOLORATA
O Maria Addulurat,
facci grazia a nostra pietà,
b(e)n(e)rici a 'stu rusarij
ch'im ritt in questa sera.
Che parola ch(e) ci mancass
la mia mente ca nun ce fuss...
E Maria r(e)sponn e dic(e)
"Lu rusario nun lu lassat,
quill tiemp ca ce m(e)ttit,
v(e) lu fazz guaragnà.
76
Ij trem e m' spavent
stav 'nnanz 'a lu mij Signor
e a Santiss(i)mo Sacrament
fazz n'att di dulor.
Quann Dij fuj pigliat
foz verz'a li doj'or;
'ncopp a Ann foz purtat
ch 'na faccia schiafitata.
E Maria addret 'a port
ca s(e)nteva li vattittur;
li giurej rallev(a)n fort
senz'avere no pietà.
"Fuss lu Dij scess la lun(a)
ce veress a lu camminà
s(e) pa via truass a Giura
c(e) vurria ragiunà
Giura, Giura trar(i)tor
trar(i)mient che m'hai fatt!
m'hai trarut lu mio Figliuol
p' li trentatrè d(e)nar:
P(e) li trentatrè d(e)nar
pur la mort ebbutra fà
S'in casa mij fuss v(e)nut
lu mij vel m'arria v(e)nnut,
lu mij vel e lu mij pett
ca tenev c(u) n(u) grand'affett.
Ess jut addò a Maddalen,
lu mantiell s'ess v(e)nnut
lu mantiell s(e) vennev
O Maria grazia Plena.
ROSARIO A MARIA ADDOLORATA
O Maria Addolorata,
facci grazia a nostra pietà,
benedici questo rosario
che abbiamo detto in questa sera.
Che qualche parola ci sia mancata
che la mia mente non ci fosse stata....
E Maria risponde e dice:
"Il Rosario non lo lasciate
quel tempo che ci mettete
ve lo farò guadagnare.
Io tremo e mi spavento
sto dinanzi al mio Signore
e al Santissimo Sacramento
faccio atto di dolore.
Quando Dio fu pigliato
fu verso le due ore.
sopra da Anna fu portato
con la faccia schiaffeggiata.
77
E Maria dietro la porta
e sentiva quelli che battevano
i giudei picchiavano forte
senza aver no pietà.
"Volesse Iddio spuntasse la luna
per vedere a camminare
se per via incontrassi Giuda
ci vorrei ragionare:
Giuda, Giuda traditore
che tradimento che m'hai fatto:
Mi hai tradito il mio Figliuolo
per trentatré danari.
Per trentatré danari
pur la morte ha dovuto fare(subire)
Se in casa mia fossi venuto
il mio vel mi sarei venduto,
il mio velo ed il mio petto
che tenevo con grande affetto.
Sarei andata dalla Maddalena,
il mantello si sarebbe venduto
il mantello si vendeva
O Maria grazia piena!
DONNE ED ABBIGLIAMENTO
Stirpe antica la nostra, piena di volontà e di tenacia, Stirpe di forti che curva
la schiena nelle lunghe ore di lavoro per strappare alla terra avara lo scarso
sostentamento quotidiano.
La donna, quando pur essa non si curva con l'uomo per il lavoro della terra,
attende in casa a sfaccendare nelle attività più diverse: dal mettersi in ginocchio
sulla sponda di un rivolo d'acqua, per rendere fresca e odorosa la biancheria, al
rammendo, al lavoro di maglieria per i familiari; oppure a rendere più dignitoso
quell'abituro, che tante volte pur rispecchiando la povertà del nostro popolo, esse
sanno rendere gentile ed accogliente con le loro mani.
Donne laboriose le nostre, più che essere pratiche a maneggiare cosmetici,
sanno passare dai lavori casalinghi al cucito, al telaio: sanno fare e fanno un po’ di
tutto; eppure nel volume della "Campania" edito dal Touring Club Italiano, di
Montefalcone è detto: "....paese rinomato per la bellezza delle donne, che
vantano antiche forme" ; ed il Cirelli nel " Il Regno delle due Sicilie descritto
e illustrato" parlando della fecondità delle donne di Montefalcone così scrive: "..Alle
favorevoli condizioni fisiologiche delle donne di questo Comune, le quali per
validezza venusta, e bella conformazione non sono seconde alle più belle, e ben
conformate appule donne...". Oggi le donne di Montefalcone seguono la moda
nell'abbigliamento, ma nei tempi andati vestivano in modo tutto speciale ed il
costume era veramente tra i più belli; oggi lo vediamo nelle manifestazioni
folcloristiche; ed in una di queste, dinanzi all'allora Principe di Piemonte Umberto II a
Telese, fu premiato con medaglia d'argento.
Ecco com'era fatto il costume: una camicia di filo di cotone abbastanza
scollata e guarnita di larghi merletti ed appuntata sul seno con bottoni di argento, o
filo lavorato e con un nastro di colore rosso.
La gonna era di panno di lana - per lo più tessuto in paese stesso - di colore
blu, con 24 pieghe diagonali, ciascuna larga due pollici; un' altra piega, poi,
recingeva il tutto all'intorno, detta "richippo", mezzo palmo all'ingiù della cintura: Il
78
seno veniva difeso da un corpetto attaccato alla gonna, delle medesima stoffa di
questa, che veniva appuntato in mezzo alle spalle con apposito laccio, e sospeso
alle scapole per mezzo di due strisce dello stesso panno.
Maniche non molto lunghe né molto larghe coprivano le braccia ed erano
queste, ordinariamente, di velluto o peloncino con guarnizioni di fettucce nel
davanti, attaccate al corpetto con due o tre nocche, a piacere, e vestite in modo da
non far rimanere celato quel tratto di camicia che copriva l'articolazione scapoloomerale.
Il lembo inferiore della gonna era guarnito di un nastro a cui seguiva in su
un'altra fettuccia larga, più o meno galante, secondo il gusto particolare.
Portavano nel davanti della persona, situato orizzontalmente, un pezzo di
panno di lana ricamato con figure e fiori di vario colore, largo più di mezzo palmo e
lungo circa tre, coi capi pendenti dall'uno e dell'altro fianco.
Era questo il "panno" che le donne ricamavano quasi sempre personalmente
e con maggior cura.
Dove questo panno finiva ai lati, cominciava un pezzo di mussolina di oltre
due palmi di larghezza, che da destra passando pel tergo quasi ad arco, veniva
affidato ad apposito nastro nel lato opposto.
Questo veniva chiamato "pannante".
Questi due ultimi ornamenti non venivano portati dalle non sposate, salvo che
non avessero già passato l'età e la speranza del marito e queste, come le sposate,
potevano anche vestire le calze tinte con la robbia (rosse), mentre le zitelle
dovevano portarle bianche.
Le scarpe di quest'ultime erano legate da legacci mentre quelle delle prime
erano adornate di fibbie di argento o di ottone.
Uno scialle di lana color verde cupo, largo tre palmi, lungo sei o sette,
copriva la testa di tutte indistintamente.
Altro distintivo delle maritate era la "carpia" di cui si adornavano il capo dal
giorno del matrimonio in poi.
La carpia consisteva in un pezzo di legno della grossezza di un dito e della
lunghezza di un palmo involto nelle trecce e situato proprio sulla testa, coperto da
una rete verde per tutti i giorni, e rossa per i giorni festivi, dentro la quale restava
nascosta tutta la chioma.
Su tale apparato si sovrapponeva una tela di cotone imitante il velo crespo,
larga due palmi, lunga tre, guarnita di galanti merletti e che serviva di panneggio
al capo. Una lunga spilla ornata di geroglifici e di fiori d'argento si conficcava alla
carpia da diritta a sinistra sopra l'occipite.
Infine cingevano un legaccio di lana lungo circa undici palmi e di vario colore a
cui davano il nome di "sarta".
Questo legaccio, oltre al vantaggio di difendere la gonna dal fango, potendola
con tal mezzo sollevare, serviva ancora contro la immodestia del vento! e dava
una certa rifinitura all'insieme degli ornamenti.
Gli orecchini erano ordinariamente come una mezza pera legata ad un'altra
parte a forma di bottone lavorato che veniva fissato all'orecchio attraverso un buco
praticato nel lobo; per evitare poi che il lobo auricolare si spaccasse per il peso, si
legava la parte fatta a pera con un nastrino che passava dietro il padiglione.
Il collo era ornato delle così dette "cannacche"o "filodoro", cioè collane di oro
con grani che iniziavano piccoli e aderenti al collo e poi andavano mano mano
allungandosi e ingrossando i grani, fino ad arrivare alla grandezza di una noce,
arricchiti con lavori di cesellatura.
Si usavano anche collane di filigrano e di corallo.
Diversi anelli di oro lavorato ornavano le dita.
79
ABITO MASCHILE
Non meno bello e caratteristico era l'abbigliamento maschile:
L'abito, in genere, era di panno come quello usato per le gonne delle donne.
Gli uomini portavano giacca con taglio alla cacciatora, cioè con tasche
comunicanti dietro la schiena; pantaloni al di sotto del ginocchio, ma finivano più
stretti, perché s'infilavano in gambali di stoffa detti "gammere", che venivano
mantenuti con un cordone rosso e s'abbottonavano ai lati esterni delle gambe con
una fila di bottoni d'argento o lucidi.
Sotto la giacca portavano il panciotto dello stesso panno; la camicia era senza
colletto risvoltato (con "a pestagna") e al collo legavano
un fazzoletto vistoso.
A completare l'abbigliamento c'era la fascia, che sostituiva la cinghia, per
reggere i pantaloni e che annodata sul lato sinistro pendeva fin quasi all'altezza del
ginocchio.
80
TRA LE DUE GUERRE MONDIALI
La nostra gente dette il suo contributo di sangue per la Patria durante la
prima guerra mondiale 1915-18.
Molti giovani ed uomini maturi indossarono il "grigio-verde" dirigendosi verso il
fronte, mentre le donne rimasero a pregare e a piangere, a mano a mano che
giungevano le comunicazioni di morte.
Numerosi furono i caduti, diversi i decorati e basta ricordare Vecchiolla
Leonardo, decorato con la medaglia d’argento al valor militare.
Con la fine della guerra i lutti non cessarono, anzi aumentarono per l'epidemia
della "spagnola". Anche alla campagna d'Etiopia e di Spagna non mancarono i nostri
concittadini che si distinsero in ogni parte; tra i tanti cito mio fratello Italo che in
Africa fu encomiato e nella Spagna fu decorato della "Crus roga" dal Generalissimo
Franco.
Molti furono i combattenti della seconda guerra mondiale, diversi i mutilati e
feriti e parecchi i caduti e fra questi ricordiamo il Tenente Ennio Goduti, morto a
Giarubub in Etiopia, decorato con medaglia d'oro ed il Tenente Cappellano P.
Antonio Curcio, che già abbiamo citato.
Durante il periodo fascista anche a Montefalcone si visse la vita del Regime
con le adunate, le istruzioni, premilitari, ecc., ma non ci furono abusi degni di
rilievo, perché al di sopra di ogni idea politica la nostra gente è stata animata
sempre da quella della fraternità, alimentata, forse, oltre da quel senso etico, insito
nel nostro popolo anche dalla configurazione topografica del luogo, distante dai
centri, privo di tante cose necessarie, si sente la necessità dell'aiuto vicendevole
per affrontare la vita, vissuta quasi sempre con stenti e sacrifici.
La seconda guerra durava già da tanto, ma nonostante il razionamento , le
tessere annonarie e quelle ristrettezze, conseguenze naturali di ogni guerra, nel
nostro paese si poteva vivere, ed anche gli sfollati e la gente che veniva per fare un
poco di provvista, trovava ospitalità e tranquillità.
Dei bombardamenti si sentiva solo il rombo degli aerei e gli echi smorzati che
giungevano attraverso notizie sporadiche o recepite con qualche radio rudimentale.
Ci fu un solo bombardamento, ma di qualche bomba, alla contrada S.
Pietro, per cercare d'interrompere l'unica via di comunicazione che era rimasta
ancora efficiente con le Puglie.
Il 9 settembre 1943 incominciò l'afflusso di numerosi soldati e profughi. È da
ricordare una iniziativa stupenda della nostra gente: fin dai primi giorni, le madri che
avevano i loro figli sparsi in tutte le parti del mondo, con amore veramente materno
assistevano quei poveri sventurati, dando loro ogni genere di conforto. Si arrivò
perfino, e per questo si deve un plauso alle giovani, ad organizzare dei posti di
ristoro, dove ogni soldato o profugo poteva trovare da rifocillarsi.
Il 15 settembre le truppe tedesche si accamparono nei boschi vicini al nostro
paese e nei locali del Carmine misero la sede del comando, istallando un
osservatorio sotto il tiglio, per controllare le strade di passaggio per le truppe
alleate.
Il 24 settembre alle truppe tedesche giunse l'ordine di iniziare la ritirata, mentre
aerei americani sorvolando il paese lanciavano manifestini invitando il nemico ad
arrendersi.
Verso l'imbrunire i Tedeschi cominciarono a lasciare il paese, mentre le SS.
bruciavano un locale di Francesco Nardi, dove si conservava il grano, e
distrussero il "Ponte a tre luci" e il "Ponte a sette luci" per ritardare l'avanzata dei
nemici.
81
Al mattino del 28 settembre giunsero le prime camionette degli alleati, mentre
la popolazione, pensando che la guerra fosse finita per noi, si recava ad accoglierli
con entusiasmo.
Il 30 dello stesso mese l'artiglieria Canadese si appostò in contrada "Pezzi
della terra", puntando sulla zona "S. Giovanni" del comune di Foiano Valfortore,
dove avvennero scontri fra Canadesi e nemici.
Nella stessa giornata nei locali del Carmine e sullo spiazzo antistante veniva
installato un ospedale da campo ed ancora una volta si ammirò la bontà della
nostra gente che si recò numerosa e costantemente a visitare i feriti e portare ad
essi aiuto e conforto.
Una ventina di giorni si fermarono le truppe alleate nel nostro paese e fu "il
periodo" dei più anziani, che spolverando nella memoria i ricordi linguistici del
periodo della loro emigrazione s'improvvisarono interpreti.
La vita cominciava così a ripigliarsi mano mano con una certa fiducia in un
avvenire migliore, anche perché non mancando quel poco di "mercato nero" di
generi di prima necessità, si cominciò a vedere la circolazione di una certa quantità
di AM lire che dettero una prima illusione di benessere.
Bisogna notare però che, a differenza delle altre parti, da noi il mercato
nero fu molto contenuto e si potevano indicare a dito quelli che lo facevano.
Fu questo anche il periodo che fa segnare un punto nero nella storia del
nostro paese e per l'azione in se stessa e per le conseguenze che ne derivarono
per l'incendio del Municipio.
82
L'INCENDIO DEL MUNICIPIO
La ragione di tale atto inconsulto e criminoso non è stata mai chiara, perché
dopo il fatto le voci più discorde circolavano tra il popolo, attribuendo perfino tale
atto ad istigatori nascosti che avevano interessi personali e che seppero ben
apparire come pacificatori e portatori d'ordine; ma anche se abbiamo accennato
questo, per non tacere quanto abbiamo raccolto dal popolo, riportiamo i fatti come
ci provengono dagli atti di giudizio depositati presso il Tribunale di Benevento:
"Leggi di ordine pubblico ed all'odio fra le classi sociali in Montefalcone
Valfortore il 2-11-'43.
Il 2 novembre 1943 la ventata di rivolta che si era scatenata nella Valle del
Fortore, raggiunse anche il piccolo paese di Montefalcone Valfortore.
Circolò dapprima la voce che il borgo sarebbe stato bombardato e distrutto
dagli Alleati perché la maggior parte degli abitanti serbavano ancora sentimenti
fascisti.
Poi suonarono le campane a stormo per opera del sacrestano Paoletti Filippo
fu Luigi e una folla di un migliaio di persone si raccolse in Piazza Umberto I.
Si levarono grida contro le tasse, gli impiegati comunali, gli ammassi, il
tesseramento annonario, l'ufficio accertamenti agricoli e le imposte di consumo,
perché erano provvidenze dell'ex regime fascista; alcuni scalmanati, con una scure,
abbatterono le porte della casa di Palazzi Ida e Esterina e attraverso tale
abitazione e il sottostante ufficio postale si portarono, seguiti dalla folla,
presso l'ingresso principale dell'edificio comunale.
Nonostante la resistenza dei pochi carabinieri e le esortazioni del sacerdote
Petrilli, il municipio fu invaso e dalle finestre furono lanciati in piazza documenti,
registri e mobili e a questi e all'edificio fu appiccato il fuoco.
Lo stesso accadde all'esattoria delle imposte dirette e all'ufficio accertamenti
agricoli e all'ufficio imposte di consumo, dove registri, mobili e documenti contabili
furono sottratti e distrutti....".
Per tale atto diverse persone furono arrestate, ma protraendosi la causa
furono poi assolte con la seguente motivazione:
"Difficoltà di indole funzionale, dato il numero degli imputati, e anche di
ordine materiale impedirono la trattazione del processo fino al sopravvento del D.G.
22 giugno 1946 n. 4, col quale si largiva una amnistia per reati politici e comunali..".
"...Con la dichiarazione di amnistia deve disporsi la restituzione della somma
depositata per cauzione di libertà provvisoria".
Le conseguenze di tale atto furono disastrose per tutta la popolazione, perché
per poter poi avere un certificato di nascita bisognava portarsi a Benevento, fino a
quando il Tribunale autorizzò la compilazione dei registri, con quanta spesa, lavoro
e difficoltà si lascia immaginare, perché alcuni anni dell'anagrafe bisognò ricopiarli
dai registri parrocchiali, in quanto mancavano perfino al Tribunale, distrutto dai
bombardamenti.
83
PUBBLICAZIONI
Nel corso dei nostri appunti spesso citiamo il "Bollettino del Santuario del
Carmine", "Valfortore" ecc.
Dobbiamo precisare che più volte a Montefalcone s'è tentato di pubblicare
qualche giornale per tenere uniti i compaesani emigrati e per la rinascita della zona,
con grande coraggio dei fondatori, anche se poi - come per tutta la stampa non
sovvenzionata - han dovuto smettere.
Nel 1924 fu fondato dall'Abate Dott. Antonio Petrilli "L'Eco del Fortore",
giornale quindicinale; nell'ottobre del 1926 non pubblicando l'eco del Fortore, lo
stesso Abate Petrilli inizia la pubblicazione del "Bollettino del Santuario del
Carmine" che ancora si pubblica sotto la direzione del Rev.mo D. Donato Minelli.
Nel novembre del 1949 il Prof. Antonio Zeppa fonda "Valfortore" - Quindicinale
di vita paesana - che dura per circa tre anni.
84
LE OPERE
Trattandosi della vita del nostro popolo non possiamo tacere un bel gesto
compiuto dai nostri emigrati: la costruzione di un monumento per i paesani caduti in
guerra.
Il Bollettino del Santuario del Carmine iniziò le sue pubblicazioni nell'ottobre
1926 con l'annunzio: "Abbiamo appreso con piacere che a New York si è costituita
una Società di Mutuo Soccorso fra i montefalconesi colà residenti, avente per
Presidente il pubblicista Sig. Giuseppe Valenzio, vice Presidente Santuccio
Belpedio, Segretario Donato Vitale e Cassiere Gianfedele Di Brita.
La popolarità e l'attività dei dirigenti è garanzia sicura che la società diverrà
benpresto fiorente e si affermerà per opere di beneficenza sociale.
La prima di queste opere sarà un monumento ai Caduti per il loro paese
nativo.
Difatti hanno già raccolto una somma rilevante, altri aiuti aspettano dai
compaesani di Chicaco,
del Michigan,
del Minnesota ed altri luoghi dove
risiedono i nostri concittadini e così fra non molto potrà concretizzarsi ogni cosa ed
anche Montefalcone avrà il suo tanto sospirato monumento".
In tutti i numeri successivi il Bollettino del Santuario riportava tutta la
corrispondenza ed il lavorio che si svolgeva per l'attuazione dell'opera; nel numero
di marzo 1927 (A.2, n.3 p.4)si legge che l'Abate Petrilli avrebbe addirittura voluto
far costruire un campanile accanto al Santuario,
invece del monumento:
".....potremmo suggerire un'altra specie di monumento e cioè la costruzione di un
bel campanile. Alla base di esso si potrebbe collocare la lapide coi nomi dei Caduti
ed una iscrizione ricordante la generosità dei concittadini emigrati, mentre dall'alto
la voce delle campane richiamerebbe alla memoria i martiri della Patria invitando i
fedeli a pregare nel tempio della nostra Protettrice.
Si farebbe così un bel Monumento ed il Santuario acquisterebbe altro pregio e
magnificenza".
Il monumento fu invece fatto presso il Santuario, al "Largo di S. Antonio",
"punto più sollevato e maggiormente visibile da tutto il lato orientale del paese, dal
nuovo rione di S. Vincenzo, dalla rotabile che mena a Castelfranco e quella che
passando sotto quella collinetta mena a Foiano e S. Bartolomeo.
Finalmente nel mese di luglio (1927) sullo stesso bollettino si potette
leggere: "Con fede ardente, con vibrante palpito, con entusiasmo irrefrenabile, con
commozione indicibile Montefalcone ha celebrato un rito di fede e di amore quale è
stato quello dell’inaugurazione del Monumento ai caduti in guerra, che s'è unito a
quello della celebrazione dell'anniversario della Incoronazione della Vergine del
Carmelo.
Il monumento ha un basamento di mq.81 ed è artisticamente decorato, con 8
fasci littori ed un bassorilievo (in bronzo) raffigurante un soldato ferito e
l'apparizione di un Angelo e della Madonna del Carmine.
Sul basamento s'ergono 4 colonnine formanti un tempietto in cui vi è una
lampada di ferro battuto che verrà tenuta perennemente accesa, in memoria dei
gloriosi caduti.
Ha un'altezza complessiva di m. 11 ed è coronato da una magnifica statua
rappresentante l'Italia, che sparge l'alloro ai caduti.
Autore di questo stupendo monumento n'è il valoroso scultore Ugo Rosiello da
Benevento, uno dei giovani che più s'impongono per grandiosità di concezione e
perfezione di linee.
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Alle 17 precise del 15 luglio 1928 il corteo si muove da piazza Umberto I
(attuale piazza Medaglia d'oro Ten. Ennio Goduti - antistante al municipio) mentre le
musiche intonavano la canzone del Piave.
Esso è composto da tutte le Associazioni, da tutte le Autorità e da una folla
compatta e disciplinata. Giunto ove sorge il monumento prendono posto sui gradini
di esso S.E. il Vescovo Mons. Lojacono, il Sig. Podestà, il Generale Medico Comm.
Prof. Alberto Altobelli, i Protonotari Apostolici Mons. Pucci, Mons. Pisapia, Mons.
Marino, il Can. Dott. Mons. Capobianco, il Podestà di Foiano, S. Bartolomeo,
l'Abate Petrilli e molti altri prelati e insigni cittadini".
Per anni fu il nostro vanto, poi nel 1958, per incuria degli uomini (sotto
l'amministrazione comunista) cadde ed al suo posto un cumulo di pietre: neppure più
il nome dei nostri eroi! erano morti due volte per chi li ebbe cari!
Ma il 20 maggio 1962 Montefalcone ebbe la gioia di inaugurare il nuovo
monumento ai caduti.
Tutto il popolo di Montefalcone, con la partecipazione del Prefetto Dott.
Bruschelli, del Questore, del Colonello dei Carabinieri, degli Onorevoli Lepore,
Vetrone, Venditti, Papa, del Presidente della Provincia Comm. Saponaro, di
numerosi Consiglieri Provinciali, del Comandante del Presidio militare Colonnello
Limongelli, di numerosi dirigenti provinciali di Associazioni combattentistiche, di tutti
i Sindaci dei paesi vicini, di tutte le Autorità civili, religiose e militari si strinsero
intorno al Sindaco Dott. Rosario Zeppa, mentre il Vescovo di Ariano Mon.Pasquale
Venezia benediceva il monumento ed un elicottero, mandato appostitamente dal
Ministro della Difesa On. Andreotti, dietro richiesta del Sindaco, lanciava fiori e
bandierine sul monumento.
Si saliva poi verso il paese per l'inagurazione dell'Ambulatorio Comunale,
stabilito nei locoli dell'ex scuola S.Maria.
Più su: inaugurazione della Piazza degli Emigrati.
Il largo S.Pietro (dove prima sorgeva la chiesa) era stato trasformato in una
piazza giardino con in mezzo un'antica colonna marmorea del distrutto Duomo di
Benevento e portata fin lassù dai Vigili del Fuoco comandati dall'Ing. Barone - su
cui fu applicata la dedica: "Agli Emigrati di Montefalcone - apostoli di lavoro e di virtù
civiche".Montefalcone era così il primo paese ad intestare una piazza agli Emigrati.
L'Amministrazione volle così riunire in un solo palpito d'amore i figli caduti ed i
lontani, perché una sia la volontà, identico l'amore fra tutti per il bene del paese.
Parlando delle opere realizzate a Montefalcone non possiamo non
accennare alla Strada del Rosario, che fu il sogno di tante generazioni, costruita
nello stesso periodo dall'Amministrazione presieduta dal Dott.Zeppa e realizzata con
un notevole contributo del Corpo Forestale per opera del Dr. Paolo De Luca,
Comandante dell'Ispettorato di Benevento e Commissario per l'Azienda speciale per
l'Alto Fortore.
La realizzazione del grande serbatoio per l'acquedotto del Biferno nella zona
della Niveiera, per l'erogazione dell'acqua a 18 comuni e la cui spesa fu di oltre un
miliardo pagato dalla Cassa per il Mezzogiorno.
È questo il capitolo che potrebbe essere il più lungo, perché potrebbe elencare
tutte le opere che sono state compiute nel nostro paese che in questi ultimi tempi si
è arricchito di opere, ha rinnovato le sue abitazioni che sono diventate veramente
delle case accoglienti, dotate di tutti i conforts; ma per dovere di cronaca dobbiamo
dire che il periodo di maggiore laboriosità è stato il decennio 1960-'70, durante il
quale abbiamo potuto vedere - oltre quanto detto - l'ultimazione della strada di
Montefalcone - Bivio S.Giorgio - 90 bis, già appaltata nel 1952; il completamento
dell'edificio scolastico con la strada di acceso; il rifacimento della rete idrica,
fognante ed elettrica; l'ampliamento del campo sportivo e quelle tante opere, atte a
86
renderlo sempre più bello, perciò ci è doveroso ricordare, oltre l'Amministrazione
presieduta dal Dott. Zeppa, quelle presiedute dal Dott. Nicola Di Stasio, Pasquale
Palumbo, Leonardo Lucarelli ed Elia Lucarelli, che hanno dimostrato tanta
capacità, interesse ed amore per il nostro paese.
87
MEDICINA E CREDENZE POPOLARI
Molto vi è di comune nella medicina popolare della nostra gente con quella
delle altre zone meridionali, ma ricorderò qualche rimedio più caratteristico dele
nostre parti, anche perché sono convinto che questi usi sono la conseguenza della
miseria e dell'ignoranza; e perché l'una e l'altra tendono a scomparire sia per le
tante forme di assistenze sanitarie, sia per lo sviluppo della nostra zona, prima
che queste credenze ed usi che hanno sostenuto i nostri avi siano dimenticati del
tutto.
Qui, come dovunque, la medicina popolare esorbita molto spesso dalle
qualità fisiche e chimiche della materia e dalle comuni leggi della biologia e si
associa a virtù magiche di cose e persone, a oscuri poteri di parole.
A debellare le febbri periodiche, nei prodomi delle stesse si era soliti bere un
bicchiere di vino nel quale veniva mescolato del carbone pesto rinvenuto il dieci
agosto, dedicato a S.Lorenzo.
Nelle plueriti usavano la fregagione col pollice nel sito del dolore, sino a farlo
diventare livido.
Le ferite, le ulcerazioni e le scottature trovavano il loro rimedio nella ragnatela
o nella polvere di travi di legno o anche nella cipolla; appena prodotta la ferita,
però, bisognava versarvi sopra del vino o urinarvi sopra.
Su queste ferite si usava anche mettere "l'olio insolfato" che si otteneva facedo
bruciare dei solfanelli nell'olio da usarsi.
L'urina era ritenuta buon medicamento anche per i geloni e le cefalee, ma
doveva essere, in questo caso, urina di neonato.
Se le ferite erano state prodotte dal morso di un cane, bisognava applicarvi
sopra dei peli dello stesso cane.
Per l'elmintiasi o verminazione dei fanciulli sospendevano al collo dei
medesimi una corona di agli ben mondati e talvolta facevano loro bere il succo
dell'aglio pesto con la menta.
Ungevano inoltre l'ombelico con l'olio nel quale avevano fatto bollire la ruta
el'incenso.
Nei dolori enterici si prendeva l'ammalato per i piedi e rovesciandolo gli si
davano cinque o sette scosse sussultorie.
Nella diarree la testa del caciocavallo arrostita nelle foglie della vite moscatella
o anche, in mancanza di questa, il prosciutto arrostito allo stesso modo, erano
considerati ottimi antidoti.
Nella malattie delle mammelle, e specie nell'ingorgo, che ancora oggi
chiamano comunemente "pelo" si adoperava un pettine di avorio riscaldato.
Per gli accessi,
flemoni ed in genere tutti i processi infiammatori
estrinsecantesi all'esterno, giovano la cipolla cotta, le foglie di rovo, crusca
bruciata e -caratteristico- " 'a racca", cioè lo sporco grasso che si forma nei capelli
e " 'a quagliata" specie di grasso che si estrae dal latte.
Tutta l'ortopedia traumatica - e qua bisogna aggiungere che questo è ancora in
voga - trovava il suo rimedio nella "stoppata": stoppa intrisa nel bianco d'uovo
sbatuto e applicata sulla parte.
Indiscutibilmente un ottimo sistema per l'immobilizzazione; immobilizza la
"stoppata" dopo alcuni minuti, così come la fasciatura in gesso.
Se il processo durava a lungo, allora si ricorreva a qualche esperto, che a
qualche esperienza ortopedica aggiunggeva quel tanto di magico con preghiere
non rivelabili, da formarsi un'autorità indiscussa e una non comune clientela.
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Per le ipoacusie era buono il latte di donna e meglio ancora se madre di una
femminuccia; così al Come già s'è potuto notare, è la medicina popolare che
passa in medicina eroica senza una netta distinzione.
I dolori addominali venivano ordinariamente
"incantati" e si riteneva
scomparissero facendo poggiare sull'addome dolorante le mani di un gemello, ma
di sesso diverso di colui che soffriva.
La prevenzione dei dolori addominali, poi, si poteva ottenere portando
addosso la "veste" delle serpi.
Molti credevano che l'itterizia fosse determinata da un forte spavento, ma altri
asserivano che lo spavento non fosse sufficiente per la sua insorgenza; era
necessario, invece, urinare sulla cenere nella quale vi fosse un chiodo arruginito
e mentre in cielo era visibile l'arcobaleno:anche per l'itterizia la cura consisteva nel
farla incantare.
Se un bambino non muoveva i primi passi, perché affetto da poliomelite o per
ritardo dello sviluppo o per qualsiasi altra causa, rimedio effice era ritenuto il "vino
ferrato".
Persone esperte immergevano un ferro rovente nel vino recitando delle
preghiere; poi il vino veniva somministrato a cucchiai.
Nell'ernia dei ragazzi, nel giorno dell'Annunziata (25 marzo) bisognava
dividere una quercia a metà, con taglio perpendicolare, e mantenendo a viva forza
disgiunte le parti, far passare per ben tre volte l'ammalato per quella apertura.
Nel tempo che si eseguivano questi tre passaggi, i padrini che invitati erano
presenti a quell'atto (condizione indispensabile), recitavano alcune preghiere.
Ciò fatto congiungevano e legavano le parti scisse della pianta, se poi si aveva
l'adesione si aveva anche la guarigione, come se non si aveva l'adesione non si
aveva neppure la guarigione.
Per le verruche bastava fare un nodo ad un temericio senza estirparlo ed il
nodo doveva essere fatto ad insaputa della persona che aveva le verruche e dire
per tre volte: "Tammarice, tammarice.., (si diceva il nome dell'ammalato) tè' 'o
puorr e nun 'o dice".
Per i porri sulla mano si usava pigliare un cece col pollice ed indice della mano
sana e passandolo fra le stesse dita della mano affetta e gettandolo dietro le spalle.
Nel gozzo: si doveva conficcare nell'esofago di un cadavere un ago nella cui
cruna passava un filo che veniva legato al collo dell'infermo: si credeva che il gozzo
si dileguasse come si dileguavano le forme del corpo morto.
Le emorroidi si potevano guarire e prevenire portando perennemente in tasca "
'na pallottola", cioè una di quelle escresscenze che producono le querce e quasi
somiglianti nella forma alle noci.
L'enuresi notturna dei piccoli si curava seguendo ancora le prescrizioni di Plinio
il vecchio: facendo mangiare dei topi lessati (urina infantium cohibetur moribus elixis
in cibo datis" - Plinio Natur.Hist. XXX, 15-57, 138).
È credenza quasi comune che chi nasce a mezzanotte di Natale diventa "lupo
mannaro".
Il lupo mannaro all'avvicinarsi della mezzanotte natalizia, e solo in essa, vaga
in cerca d'acqua emettendo urli da lupo ed uccidedo quelli che incontra; capelli e
unghie crescono in modo spaventoso.
Questo tipo di licantropia dura otto ore ed il male può guarire se qualcuno
riesce a pungere l'ammalato durante l'eccesso con uno spillo, sì da fargli uscire tre
gocce di sangue; dovrà poi stringergli la mano e dire: "da oggi siamo compari".
Sembra quasi che nel popolo regni un acerta influenza manicheistica: l'uomo è
guidato da una doppia forza; del bene e del male, perciò è necessario che il male
venga continuamente ostacolato dal bene e da ciò l'obbligo di dire "abbenerico" (Dio
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ti benedica) ogni volta che si ammira o si ha rapporto con l'uomo o quanto a lui può
appartenere.
La mancanza, anche involontaria, di questa formula fa prevalere le forze del
male: l'uomo si ammala, la casa corre pericoli, il lievito non cresce, ogni cosa è
minacciata nel bene, viene, come dicono, "presa d'occhio", anche senza
l'intenzione di chi ammira.
Che fare quando il "malocchio" si è preso? Si ricorre a chi sa fare il
"contruocchio", che formulano preghiere con qualche goccia d'olio in un piatto
d'acqua.
È sempre per neutralizzare questa forza maligna che dietro le porte mettono un
ferro di cavallo o le corna, ecc.. e per la stessa ragione fanno portare ai bambini
particolarmente, più facili al "malocchio" la manina con le dita a forma di corna, il
cornetto di corallo o di oro, ecc.
Le persone che fanno il "contruocchio" sono le stesse che "incantano" gli altri
malanni:
dolori
addominali,
itterizia, manifestazioni convulsive, ecc. ed
ordinariamente si trattava di persone che sfruttando l'ignoranza e la dabbenaggine
della gente sapeva trovare una fonte di guadagno nei regali dei pazienti.
Ogni tanto, poi, veniva fuori qualcuno la cui fama in brevissimo tempo si
propagava nella zona ed a lui correvano tutti i malati e bastava di tanto in tanto
un'apparente guarigione strepitosa - e di forme isteriche e simulative non ne
mancavano - li faceva mantenere sulla cresta dell'onda.
A questi operatori del bene si opponevano gli operatori del male: le streghe e le
"jamare".
Le streghe erano d'importazione beneventana e nella nostra zona della
Valfortore erano le stesse: si riunivano al sabato sotto il noce di Benevento per le
loro danze e le loro magie,
indi a cavallo di una scopa volavano ovunque,
portando la loro opera malefica.
Anche qua ci si difendeva mettendo dietro la porta la scopa o un sacchetto di
miglio, perché le streghe prima di entrare avrebbero dovuto contare tutti i fili della
scopa o i chicchi di miglio e così sarebbepassata la notte, unico tempo in cui
potevano agire.
Le "janare", invece, erano tipicamente locali.
Molti le identificano con le streghe, ma la loro caratteristica specifica era
quella di fare le "fatture".
Ognuna poteva diventare "janara" purchè fosse andata tre volte a mezzanotte
al cimitero a prendere qualche osso di scheletro umano e in più qualche osso di
bimbo morto senza battesimo.
Bisognava poi polverizzare con riti segreti, rivelabili solo da altre janare,
questa polvere veniva poi gettata addosso alla persona a cui si voleva fare la
fattura e per poterne guarire era necessario l'intervento di altra janara.
Le donne, allorché per qualsiasi incidente si trovavano i capelli in disordine (e
molte volte questo si attribuiva alle janare), nel rifarsi le trecce non potevano toccare
cibo di sorta, perché se maritate, si credeva, avrebbero perduto il marito, se nubili
il fidanzato.
Le donne incinte non potevano toccare ortaggio, né cotto, né crudo dal primo
al secondo vespro dell'Annunziata (dal pomeriggio del 24 al pomeriggio del 25
marzo); se l'avessero fatto il figlio sarebbe nato ricoperto di piaghe.
Se camminando si fosse rinvenuto un tizzone estinto, non bisognava portarlo
al proprio focolare: avrebbe provocato la morte del capofamiglia.
All'avvicinarsi della morte il segno era dato dal canto della civetta, che
portava male dove guardava e bene dove si posava.
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Ma se il popolo aveva trovato la previsione della morte, non aveva però
trascurato ciò che prevedesse la vita ed era ricorso per questo a S. Giovanni.
Nel giorno della sua festa (24 giugno) le ragazze particolarmente versavano del
piombo fuso in un recipiente contenente acqua di fiume: dalla forma assunta dal
piombo consolidato vedevano uno strumento che avrebbe indicato il lavoro del
futuro marito; ma prima di questo, alla sera della vigilia, si metteva alla finestra
un bicchiere con la chiara d'uovo ed al mattino (naturalmente non mancava quel
pizzico di fantasia!) vi scorgevano un segno del futuro; se poi il futuro era già
speranza e si voleva solo la conferma alla relaizzazione, si piantava, sempre alla
sera della vigilia di S. Giovanni, un fiore di cardo con "la grossa chierica" (corolla e
corona) dopo averne bruciato i petali: se quelli crescevano durante la notte la
speranza si avverava, altrimenti la speranza non si realizzava.
Le spose andando in chiesa a celebrare il matrimonio si guardavano bene dal
toccare la soglia della porta della chiesa, perch sarebbero andate soggette alla
fattura o al malocchio, perciò la scavalcavano e per lo stesso motivo non pigliavano
l'acqua benedetta, né passavano sopra le sepolture.
Per la stessa ragione, ancora, quando si "faceva il letto della sposa"
mettevano sotto il materasso un paio di forbici aperte e legate con un nastro nero.
Bisognava anche essere accorti a prevenire la sfortuna, perciò la sapienza
popolare insegnava: "Di venere e di marte (venerdì e martedì) non si sposa né si
parte, né si dà principio all'arte (non si inizia).
Si prevedeva ancora l'abbondanza o meno del raccolto osservando chi fosse
per primo entrato in chiesa dopo il vangelo della Messa della festa della Candelora
(festa della Purificazione: 2 febbraio).
Se fosse stato un ricco il raccolto sarebbe stato abbondante (buon'annata),
viceversa se un povero.
Per "Medicina e credenze popolari" mi sono servito, oltre quello che ho
potuto apprendere dagli anziani di Montefalcone, di quanto ha riportato F. Cirelli ne
"Il Regno delle due Sicilie" e della "Demoiatrica nel Valfortore" del Dr. R. Zeppa.
91
USI
I tempi sono cambiati ed è cambiato anche il modo di vivere nella nostra terra:
il rumore delle automobili e motorette rompe il silenzio delle nostre strade e rende
pericoloso il cammino ai vecchietti che ancora in gruppi si recano a "pigliare il sole"
e vivere il senso di amicizia al "girone di Vincenzo" e ai nostri giovani che,
specialmente nei pomeriggi festivi, allietano le nostre strade col loro passeggio.
D'estate non manca il rumore delle trebbie o delle macchine che sgranano
pannocchie: è arrivato un alito di civiltà anche sui nostri monti ed è nato quasi un
paese nuovo, non solo nella configurazione topografica, ma anche nel modo di
vivere, ed è morto quello vecchio di secoli fatto di semplicità, di affettuosità, di
tradizione, di superstizione anche, ma tanto caro al nostro cuore.
È stato questo che ci ha indotti, prima che se ne perdesse la memoria, a farlo
rivivere nei nostri appunti, a ricordare quel genere di vita arcaica che aveva uno
stretto vincolo di continuità col passato e quella mancanza di evoluzione, se da una
parte manteneva un senso di povertànella nostra gente, dall'altra conservava pure
qualcosa addirittura di subblime: il senso della fraternità: il dolore di uno era il
dolore di tutti, al lutto di una famiglia partecipava l'intero popolo; ci si scambiava il
lievito, ci si prestava il pane: eravamo una sola famiglia ed il forestiero che arrivava
da noi era degno di ogni rispetto, perché l'ospite era sacro.
Nel paese l'uomo sente e vive il senso dell'umanità, non si sente solo, ed
anche se le città possono dare il benessere, il paese dà la vita.
Le azioni più comuni del lavoro abituale si ripetevano in un'atmosfera che
aveva qualcosa di arcano:il grano era trebbiato dai muli che trascinavano per l'aia
una grossa pietra che stritolava le spighe, che si battevano poi con dei bastoni
snodati "i ruvielli" ed indi tolta la paglia, con pale (ordinariamente di legno) e forconi
si lanciava in aria il grano, perché il vento portasse via le pagliuzze:si "ventilava" ed
infine il crivello eseguiva l'ultima operazione di pulitura.
Le pannocchie di granoturco venivano egualmente scartocciate sulle aie, e
spesso si eseguiva questo lavoro nelle notti di luna che diventavano più romantiche,
perché allietate dal canto corale di contadini e contadinelle.
Il pane era impastato "ammassato" in casa in tutte le famiglie; passava poi,
come lieta svegliarina la fornaia "a cummannà" cioè a dire che il forno era pronto e le
nostre donne portavano ai forni pubblici, riscaldati a paglia, su grosse tavole le forme
di pasta e ognuno che le incontrava non mancava di rivolgerle l'augurale
saluto:"S.Martin" perché il pane lievitasse e venisse saporito.
Ora tutto questo è finito e con esso un poco del'anima della nostra gente ed il
ricordarlo è come fare un tuffo nel passato e rincontrare il volto delle persone care.
L' innalzamento del livello culturale, i mass-media, l'emigrazione e quel poco
di turismo che qua si effettua, hanno portato nel nostro popolo gli usi degli altri ed
hanno trasformato o fatto scomparire i nostri usi caratteristici.
Prima che scompaiano o si dimenticano completamente, pensiamo di
ricordarne qualcuno.
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MATRIMONI
Stabilito il matrimonio, il fidanzato donava alla fidanzata un paio di scarpe con
fibbie d'argento, un paio di calze di lana di colore scarlatto, una rete di seta con
un nastro del medesimo colore (quella per la "carpia"), un filo di globetti d'oro ad
uso di monile ed una spilla d'argento.
Nel giorno del matrimonio, la sposa, uscendo dalla casa paterna, doveva
portare le mani incrociate sul petto fino a che non fosse entrata nella casa del suo
nuovo destino.
Gli sposi dovevano ascoltare la Messa nuziale genuflessi ai piedi dell'altare e
con in mano un cero acceso.
Giunti poi nella nuova casa, i parenti e gli amici versavano addosso agli sposi
grano, ceci e granone come augurio di abbondanza e per la stessa ragione si
lanciava grano e confetti durante il corteo dalla chiesa alla casa.
Un altro uso che ha resistito al tempo, ma che ora va scomparendo, era il
corteo per "portare i panni".
Alcuni giorni prima del matrimonio, nella casa della sposa si esponeva il
corredo e si invitavano le amiche a "visitarlo"; il giorno prima poi le amiche della
sposa trasferivano il corredo dalla casa della sposa alla nuova casa nella quale
andavano ad abitare.
Era un lungo corteo di donne in fila indiana che recavano sulla testa ceste
contenenti i vari capi di biancheria.
Nello stesso giorno, poi, si preparava il letto nuziale.
Nel pomeriggio, in gruppi separati, la sposa con giovani amiche e parenti dello
sposo, lo sposo con giovani amici e parenti della sposa, il padre della sposa e
dello sposo, la madre della sposa e dello sposo si recavano da amici e parenti per
invitarli alla festa nuziale.
Al corteo nuziale era la sposa che apriva il corteo al braccio del padrino di
battesimo dello sposo, seguiva lo sposo con al braccio la madrina di battesimo
della sposa, i due padrini erano i testimoni di nozze.
L'anello nuziale veniva donato dal compare (compare d'anello).
Siccome molto spesso il matrimonio era l'unica occasione di poter mangiare e
bere a sazietà, accadevano di frequente episodi spassosi che riempivano la
cronaca e formavano "i fatti" da raccontare con gli amici.
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FESTIVITÀ
Nella notte di Natale, allorché il Bambino Gesù veniva portato al presepe,
come pure il giorno dell'Epifania, quando si riportava dal presepe all'altare
maggiore per il bacio dei fedeli, a portare l'ombrello e i ceri accesi erano i contadini
che dovevano però indossare "'u pelliccione", consistente in un giaccone di pelle di
pecora, bianco, senza maniche e lungo fino al poplite e che ordinariamente, i
pastori confezionavano essi stessi.
Neppure la prima dignità del paese o la nobiltà poteva essere ammessa al
sacro rito del bacio se prima ciò non fosse stato eseguito dai pastori in "pelliccione".
Si ripeteva la scena evangelica degli umili ammessi per primi ad adorare il
Verbo incarnato.
La festa veniva preceduta dalla rituale novena, durante la quale gli zampognari
giravano per le case dei devoti a suonare dinanzi al presepe.
La sera dell'antivigilia si friggevano le tradizionali "zeppole", la prima delle quali
doveva essere a forma di croce.
Più mistica la giornata della vigilia, durante la quale si osservava il più rigoroso
digiuno e mentre le donne preparavano la cena, che non dovevano assolutamente
essere preparata la cena, che non doveva assolutamente essere preparata con
grassi o carne, gli uomini preparavano il "cioccaro" o ceppo di Natale, che doveva
essere abbastanza grande da poter essere acceso la sera della vigilia e quella
dell'ultimo dell'anno.
Dopo la cena non si andava a letto prima della mezzanotte, anche se non si
andava a Messa, e per onorare Gesù Bambino e perché si scongiuravano i pericoli
del "lupo mannaro".
In quelle ore serali della vigilia si cercava di conoscere se e in quale mese
dell'anno il grano avesse subito aumento di prezzo.
Su un mattone infuocato si ponevano dei chicchi di grano per ogni mese
dell'anno, quel chicco che per il colore saltava più lontano indicava il mese, e
secondo la distanza anche più o meno il rincaro.
Nella notte della vigilia, inoltre, e solo in essa, era possibile insegnare ed
imparare le formule e le cerimonie degli "inciarmi", degli incantesimi e di ogni altra
stregoneria.
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DANZE
Un'altra usanza in voga a Montefalcone, e poi finita completamente, era quella
del ballo popolare all'aperto, specie durante le festività della Madonna del Carmine.
I popolani di ambo i sessi, sul piano erboso antistante la chiesa del Carmine,
al suono di pifferi e tamburi intrecciavano danze che, in ebbrezza sempre crescente,
diventavano sempre più smodate, e si ricorda a tal proposito che l'Ordinario
diocesano avendo constatato il tralignare di questa usanza, nel 1712 la proibì e
comminò la scomunica "latae sententiae" a coloro che vi partecipavano.
Il popolo dinanzi a simile provvedimento, con un memoriale in difesa di tale
popolare usanza, ricorse al Metropolita perché abolisse tale pena; il tempo poi fece
il resto, perché tale usanza andò mano mano diminuendo, fino a scomparire
completamente.
Ora vi resta, perché fatta rivivere da un gruppo di giovani costituitisi prima
nell'associazione "Comunità" e poi in "Pro loco" solo la sagra del 15 agosto in cui si
conserva il tipico folclore paesano in onore dei villeggianti e dei paesani emigrati,
che rientrano per le ferie.
La gioventù sfoggia il caratteristico costume e allieta le serate con canti e balli
tradizionali.
Il 17 gennaio - festa di S.Antonio Abate - dopo la benedizione, ricevuta al largo
Arena, mentre tanti bambini stringevano tra le braccia le gallinelle infiocchettate,
cavalli. muli ed asini, dopo i tre giri intorno al Santuario, partivano al galoppo fino
alla "Croce".
Erano specialmente i giovani contadini a dare dimostrazione della loro
valentia e temerarietà, specie per le loro ragazze che ammiravano e applaudivano
tra la folla degli spettatori.
Per le via si accendevano grandi fuochi, che dovevano durare fino a notte alta,
quando la gente del vicinato, che aveva contribuito a dare la legna, dopo la recita
del rosario, consumava patate o cereali messi a cuocere accanto ad esse e portava
in casa, in segno di propiziazione contro gli incendi, un poco di quella bracia.
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FUNERALI
Appena morto un individuo, accorrevano i parenti e gli amici e ne piangevano
in coro la dipartita.
Il pianto era una specie di cantilena, con la quale esprimendo il proprio dolore,
facevano le lodi dell'estinto, pregandolo che recasse i loro saluti ai cari trapassati,
facendo presente il loro dolore.
Le vedove potevano piangere il loro marito solo se non si fossero rimaritate,
altrimenti sarebbe stata un'onta al marito vivente; se fosse morto pure il secondo
marito potevano dirigere i loro lamenti al primo marito.
Durante il corteo funebre, le donne, come una volta le prefiche,
continuavano questa cantilena.
Nella casa dell'estinto, poi, per otto giorni, durante i quali i congiunti non
potevano uscire, non si accendeva il fuoco ed il pranzo " 'u cuonzuol" veniva
portato dai parenti o amici. Inutile dire che molte volte i "conzuoli" si trasformavano
in veri e propri banchetti.
Un riemergere spontaneo del mondo classico che celebrava con lauti banchetti
i riti funebri: la vita riprendeva il suo corso e il suo sopravvento.
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IL I° MAGGIO
Un altro uso che ancora esiste, e che è addirittura di richiamo a diversi
montefalconesi che vivono lontano, e che ci auguriamo resista, è la processione al
Santuario del Carmine la mattina del I Maggio.
Le manifestazioni del Calendimaggio ormai sono diffuse dappertutto, ma
quassù assumono un carattere tutto spirituale e si rifanno ai tempi in cui la chiesetta
rimaneva fuori le mura del paese e dopo la stagione invernale si riapriva al culto.
Durante la notte dal 30 Aprile al I Maggio gruppi di persone girano per le strade
del paese recando in mano candele accese e cantando:
Venite cristiani e popolo 'r Dio
venite a visità Maria
ch'è la Madre di Gesù.
Pe’ mare e pe’ terra
pe numinata và
Santa Maria ru Monte Carmelo
nuje la jame a visità.
…frattanto mentre passano, altri si uniscono al gruppo.
È uno spettacolo sublime vedere tante fiammelle nella notte che da ogni strada
affluiscono alle piazzette e ascoltare quel canto!
Ci si riunisce poi tutti nella chiesa di S. Maria dove si canta il Rosario ed indi si
va tutti al Carmine, ma prima di entrare in chiesa vi si gira tre volte intorno in atto
penitenziale e poi tutti ad ascoltare la Messa.
È una manifestazione di fede che solo quassù si sa vivere, dove il popolo
semplice, nella tradizione dei padri, trova gli ideali di vita per unire presente e
passato e trovare la forza per vivere di onestà e lavoro.
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CIRCOLI PAES ANI
Nei giorni feriali lavorano i nostri uomini e pensano al pane per i figli, al pane
del giorno. Poi viene la festa e con essa la Messa: non solo un dovere di buon
cristiano, ma un sano bisogno di cercarsi a vicenda.
E dopo la Messa, se il tempo permette, in piccoli crocchi affollano le
piazzette, la strada più larga del paese, lo spiazzo dinanzi al cimitero.
Istinto o bisogno acquisito? È certo però socievolezza più pura, semplice e
bella, priva di tante pastoie che fanno di essa la base per altro.
Quì è solo gioia di stare un po’ insieme! Si parla del tempo, del vino, del grano;
di parla di casi, si parla dei tempi: si fa la storia di nostra gente.
E le tipiche, più belle figure rivivono quì, nei circoli nostri.
Non pagine scritte, ma solo la memoria che sa di stima, che sa di affetto e si
tramanda dai vecchi ai giovani, dai grandi ai piccoli, in questi circoli pieni di sole,
in questi circoli pieni d'umore.
E chi racconta la storia più bella e chi racconta il fatto più vero!
Poi s'interrompe per mezzogiorno e si continua nell'ora di siesta ancora
all'aperto e poi in cantina prima e ora al bar.
Qui sembra finire coi tressetti ed il vino, ma ancora qualcuno torna a ridire un
vecchio fatto: la nostra storia vive così! e non si perde, perché al mattino in ogni
campo, nel duro lavoro, viene ridetta: se un po’ si perde, la fantasia poi la
raddrizza: sarà meno vera, ma certo più viva secondo l'anima dei nostri vati!
Ma anche politica si fa nei circoli, anche se il mondo diventa piccino ed ogni
evento sa di un bel fatto bene acconciato con una logica che sa di casa.
Il solo vero, il solo giusto è quello che tratta di casa propria, di tutti i fatti del
proprio Comune; e quì l'analisi diventa ed il giudizio giusto ed arguto.
E non si ferma perché la mente di questa gente ragiona con una logica senza
pastoie, più di quei tali che, messi a capo, fanno e disfanno secondo gli ordini dei
loro padroni.
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CARLO CATONE AL VALLO DI BOVINO
L'attesa del corriere che doveva poetare informazioni da Foggia aveva
impossibilitato Carlo Catone a capeggiare la sua banda partita al mattino per le solite
scorrerie.
Egli era rimasto in attesa perché il colpo annunziato era grosso e bisognava
preparare un piano particolareggiato.
Erano i tempi torbidi del '60: il regno Napoletano era stato annesso a quello di
Vittorio, ma l'ignoranza dei più e l'interesse dei pochi avevano prodotto tale stato di
caos da confondere l'idea bella e grande dell'unità e dell'indipendenza d'Italia.
I senza scrupoli profittavano della confusione e dei posti che occupavano per
fini personalistici e con l'aiuto del fuorilegge.
L'attesa e l'aria afosa snervavano Catone; il corriere non arrivava ancora e lo
costringeva all'inoperosità.
Quando alfine giunse ansante e trafelato mise fretta e orgasmo nell'animo del
bandito: la diligenza sarebbe passata nel pomeriggio per il Vallo, portava valori
all'Intendeza di Foggia; era scortata da 4 gendarmi a cavallo, vi erano alcuni
passeggieri e il postiglione armato.
Uomini ci volevano e bene armati per riuscire e la sua banda non sarebbe
tornata che al mattino dopo.
Lasciar passare senza tentare il colpo significava perdere la stima e l'appoggio
della persona che teneva occhi e mani negli uffici della capitale di Capitanata.
Imprecò contro la sorte che faceva arrivare con qualche giorno di anticipo il
carruggio e non gli dava tempo di predisporre.
Ora senza mezzi non poteva attuare alcun piano.
Sulla strada polverosa avanzava lento un asinello che un uomo si spingeva
innanzi.
Quando gli arrivò davanti vide che era un fochista che andava a sparare
mortaretti in un paese di quei paraggi.
In un lampo di genio predispose tutto il suo piano: far presto e non discutere e
quando ebbe finito gli dette il compenso e l'ordine di allontanarsi in fretta.
Non restava che trovare il luogo più adatto e agire con audacia.
Ove la strada s'incassa e si nasconde fra gli alberi, proprio dietro la curva a
ridosso della scarpata, fra cespugli e arbusti allungò la batteria.
Dietro la macchia col fucile al fianco e la miccia in mano Catone attese.
La sonagliera si distingue fra il frinire delle cicale e il canto degli usignuoli; lo
scalpiccio dei cavalli si fa più forte e la carrozza appare.
I primi colpi scuotono dal torpore i viaggiatori e fanno sbizzarrire i cavalli; i
cavalieri costretti a frenarli sono impossibilitati alla difesa; il postiglione non la
pensa neppure, bada alle redini; i passeggeri si stringono paurosi.
Un fracasso tremendo, aumentato dall'eco della valle dà l'idea che un intero
reggimento di uomini sia appostato agli ordini di quello che si avvicina con passo
sicuro e col fucile in pugno intimando il ritua-le "faccia a terra".
Nessuno pensò di contraddirlo e alla richiesta dei valori fu servito con
sollecitudine.
I cavalli scalpicciavano, il fumo non s'era ancora diradato e l'operazione era
finita: fra i presenti non v'era alcuno che non ringraziasse il cielo perché fosse
andata a quel modo.
Quando ebbero il permesso di continuare i gendarmi salutarono, il postiglione
schioccò la frusta e la sonagliera riprese la nenia.
I passeggeri rianimati lodavano l'onestà del bandito perché non li aveva
derubati.
99
Carlo Catone col bottino ai piedi, appoggiato al fucile, guardava la carrozza
allontanarsi fra un nugolo di polvere sulla strada bianca.
La sera stessa per una strada più nascosta, caricato il bottino sul cavallo,
raggiungeva egli pure la destinazione della carrozza.
Quello che era stato prelevato alla luce del sole e in mezzo alla strada,
veniva calcolato alla luce dei lumi in un dorato salotto.
Agli uomini, quanto dai?
Niente, perché non vi hanno preso parte.
E chi c'era con te, come hai fatto?
Il verbale dei gendarmi di quanti uomini parla?
Parla di un grande ammassamento; il postiglione e i passeggeri hanno firmato.
Eppure ero io solo!
Quando Carlo Catone, carico d'anni, domo dai tempi, forte ancora nel fisico,
raccontava ai giovani le sue imprese audaci, ripeteva questa con particolare
orgoglio e a testimonianza del suo dire citava un foglio di Capitanata che l'aveva
riportata.
100
DON ERNESTO CAPOZZI
Un'ora durò la visita di don Ernesto; poi concluse l'esame clinico nella diagnosi
di cirrosi epatica da abuso di alcool; ma conoscitore di tutta la vita dei suoi
ammalati, sintetizzò diagnosi, prognosi e cura in queste poche parole: "Cumpà,
non devi più bere vino!" al che l'ammalato: "E tu non lo bevi?" E don Ernesto
concluse: "Bevilo pure tu e fatti f..."
101
LEONARDO DA LONGA
Andò in America con due soli scopi: far danaro e non passar da sciocco.
Vi riuscì e dopo dieci anni tornò in Italia contento, anche se i calli oltre che alle
mani fossero pure sui piedi.
A Napoli, dopo, lo sbarco, con le scarpe nuove, questi calli si facevano
sentire; sicchè trovò opportuno comprare un rimedio che uno scugnizzo vendeva
in bustina a pochi soldi.
Aprì la bustina e vi trovò un biglietto: "Usate scarpe larghe".
Povero zì Lunardo! avrebbe voluto perdere tutto il danaro e non passar per f...
proprio all'ultimo momento!.
102
CARMINE MARCHETTA
Quando vigeva il codice borbonico e quello di Savoia, Carmine Marchetta fu
denunziato per pascolo abusivo.
In pretura, a domanda del giudice, disse che non aveva difensori, perché
nessuno meglio di lui sapeva difendere i propri interessi e a sua discolpa, cavando
di tasca un pezzo di carta, lui, analfabeta, finse di leggere: "L'art. 83 del codice
Albertino: il pascolo in campo altrui nel mese di giugno non costituisce reato".
Non avendo a portata di mano il Codice Albertino, il Giudice assolse
nonostante le invettive della parte lesa.
E con l'assoluzione Carmine Marchetta ci guadagnò anche un bicchiere di vino
che il Pretore volle offrirgli alcuni giorni dopo, quando aveva visto che l'art. 83 del
Codice Albertino trattava della corruzione dei minorenni.
103
L'ACCIDENTE AL PREDICATORE
V'è ancora chi ne racconta, ma non v'è più chi ricorda alcuno dei membri della
famiglia Ricciardelli, che ebbe lustro nel nostro paese.
Fra le persone anziane alcune ricordano ancora questo casato quando si parla
della Scuola di Santa Maria (l'attuale poliambulatorio comunale), perché era quella
la casa di abitazione di questa famiglia.
Qualche articolo dei ruoli d'imposta fondiaria la ricorda pure, poi più nessuno.
Noi ricorderemo un fatto di cui fu autore il prete Ricciardelli che aveva fama di
magia e che dette molte volte prove di chiara intelligenza e di memoria portentosa.
Nei tempi di cui si racconta, Montefalcone contava diversi sacerdoti, nei soliti
circoli si parla di 22, che formavano la Collegiata di Santa Maria con a capo l'Abate.
Tra questi spiccava per intuito pronto e per più profonda cultura il Ricciardelli.
Sempre affollate erano le funzioni religiose ed ogni ricorrenza festiva era
celebrata con selennità.
Durante la Quaresima di quell'anno la predicazione era stata affidata al nostro
Ricciardelli e siccome egli aveva con la sua parola infervorato il popolo, fu deciso
che a chiusura del quresimale sarebbe stato chiamato un oratore forestiero di
notorio valore.
Ciò dispiacque al Ricciardelli perché vedeva menomato il suo prestigio con
l'anteporre un altro oratore, quasi a fargli intendere dai suoi stessi confratelli, un
poco invidiosi, che per un panegirico ben fatto egli non era all'altezza.
E l'oratore arrivò accolto con grande riguardo a dispetto del Ricciardelli, che,
anche se in cuor suo bolliva di rabbia per le ostentate riverenze dei suoi colleghi
verso il nuovo oratore, si mostrava premuroso e riverente.
Ma Ricciardelli non si perdeva per questo, anzi cercava il modo come trarre,
da questa occasione, motivo per affermare di più la sua superiorità, sottovalutata
dallo stesso nuovo oratore che posava da gran prelato, siccome portava aria di
città e vedeva davanti a sé le teste chine dei preti di montagna.
La sera della vigilia, dopo la cenetta, il nostro Padre si ritirò nella sua
cameretta e, per facilitare la digestione, prima di mettersi a letto, andava su e giù
per la stanza e intanto ripeteva, ad alta voce, rileggendo qua e là ove forse la
memoria gli falliva, la predica che aveva tirata fuori dalla sua borsa.
Era questo, e un po’ lo è ancora, un metodo usato dagli oratori, perché
Ricciardelli aveva atteso quest'ora.
Accostato l'orecchio all'uscio non perdeva sillaba.
Quando il padre ebbe finito, il nostro Prete senza far motto si allontanò dalla
porta e salutato e raccomandato, con la mimica da noi tanto espressiva, il silenzio al
padrone di casa, si ritirò.
Il giorno dopo, alla solenne funzione di chiusura, il prete Ricciardelli doveva
tenere ancora una breva omelia; alla Messa solenne ci sarebbe stata poi la predica
di chiusura del valentissimno oratore.
Al vangelo il Ricciardelli si rivolse al popolo e cominciò l'esordio con le stesse
parole dell'oratore forestiero, che, in sacrestia, seguiva la predica per avere un
concetto della sua cultura.
E la predica veniva fuori come dal suo manoscritto.
Il povero oratore cominciò a sentirsi perduto.
Il suo esordio era stato detto, come avrebbe fatto lui?
Imbastirne un altro?
E come si fa senza una preparazione?
Sarebbero venute fuori idee e concetti non conseguenti alla predica che
avrebbe dovuto fare dopo.
104
Intanto, dopo i pochi minuti si sosta, Ricciardelli ripiglia a parlare e svolge la
predica, non con i concetti soltanto, ma con le medeme parole del provero oratore
che, in sarestia, avvilito, ormai non sapeva più come rimediare.
La chiusura della predica arrivò e al povero predicatore, accasciato, pareva
che il Ricciardelli leggesse sul suo manoscritto.
Alfine tornò in sacrestia, e come di consueto, ricevette il "prosit" di quanti vi
erano.
I due oratori poi rimasero indietro
nell'angolo opposto alla porta e
bisbigliavano: "Come hai fatto? quella era la mia predica....non i concetti, ma le
parole e dal principio alla fine.
Ora io non posso più predicare, come devo fare?
Tu hai saputo far tanto, consigliami il modo per uscirne senza vergogna.
E Ricciardelli che di trovate ne aveva sempre, consigliò al mortificato oratore, di
accusare un malore improvviso.
Il povero Padre, contorcendosi per acutissima colica, si rese impossibilitato a
salire il pergamo.
Ricciardelli si fece un poco pregare e poi assicurò che avrebbe preso lui il
posto dell'ammalato e avrebbe imbastita un'altra predica per non deludere
l'aspettativa dei fedeli.
E la predica a conclusione del quaresimale la fece egli stesso, scusando il
Padre colpito da improvviso malore.
Ognuno, e i preti particolarmente, si aspettavano qualcosa di raffazzonato
perché improvvisato, invece fu un panegirico che li stupì.
Quando il Padre si acoomiatò per la partenza, chiese ancora al Ricciardelli
come aveva fatto a ripetere alla lettera la sua predica, e questi, anzichè
rispondere alla sua domanda, gli consigliò, nel caso avesse avuto altro invito, di
non accettare il panegirico quando a lui, Ricciardelli, fosse stata assegnata l'omelia.
105
ZI’ MONACO SI SPOSA
Forse era appena garzoncello quando vide i Frati nella Valle di Bovino ove
era andato per visitare la Madonna e ne fu colpito.Si accese di santo entusiasmo e
volle vestire pure lui il saio.
Restò nello stesso convento fino a quando fu chiamato al servizio militare.
La vita di caserma o forse la libera uscita gli fecero dimenticare i salmi e
imparare nuovi versetti che poi cantò anche nella sua più avanzata età:
"Quann' ero monaco tenevo 'u curdone,
mo sò suldato r battaglione.
Prim' ero monaco e purtavo o cappuccio,
mo sò suldato e sparo 'a cartuccia".
Finito il lungo servizio militare preferì il cappello al cappuccio e al convento la
casa; sicome questa era vuota e fredda e della vita monacale ne aveva già troppo,
pensò di passare a quella coniugale.
Ad un bel giovane, alto, robusto, lavoratore e che, si capisce, contava anche
questo, sapesse leggere e scrivere, non mancavano buoni partiti.
La scelta ad alcuni non sembrò felice, ma egli ne fu contento: che la giovane
avesse solo quindici anni, che fosse piccola e delicata, questo non contava.
Aveva un viso da Madonnina e la delicatezza di un fiore; per lavorare ci
avrebbe pensato lui: lei avrebbe accudito alla casa e avrebbe cresciuto i figliuoli (i
munacielli) diceva, perché ora tutti lo chiamavano zì monaco.
Al giorno fissato per le nozze prese parte anche il cielo: nebbia, piovaschi e
vento, di quello che si conosce solo se si vive a Montefalcone.
Lo ripetevano quelli che l'avevano detto anche prima, che la coppia era male
assortita e specie ora: zì Monaco in abito di festa sembrava più grande, mentre lei,
avvolta nel panno si perdeva tra la folla.
Notavano gli invitati e la folla dei curiosi che l'abituale vena faceta non faceva
risalto in zì Monaco nel giorno delle nozze e in chiesa guardò più la Madonna che
la sposa, più i ceri che gli invitati, anche se questi gli erano addosso perché la
chiesa era stretta e fuori era impossibile restarvi.
Finita la cerimonia si pigiano all'uscita e appena fuori c'è da mantenersi il
cappello, il mantello, lo scialle e ripararsi il viso dall'acqua che sbattuta dal vento
pizzica il viso come ghiacciuoli.
Be, si va? che facciamo qua fermi?
Si aspetta la sposa.
È ancora dentro?
La sposa non c'è e lo sposo neppure.
Chi li ha visti?
Si, li ho visti, zì Monaco ha preso la sposa sotto un braccio, così in mezzo alla
vita e mi pare sia andato da questa parte.
Era vero. Zì Monaco profittando della confusione causata dalla folla, dall'acqua
e dal vento, aveva alzato di peso la sua piccola sposa e se l'era svignata per la
"strettola di penna rora".
Agli invitati non rimase che andare a casa dello sposo a passo più svelto.
Ma la porta era chiusa. Mentre commentavano la stravaganza, la finestra si
apre, zì Monaco si affaccia, ringrazia e canta: " Per far festa di tempo ce n'è tanto,
per quest'ora ho aspettato chi sa quanto".
Salutò e richiuse la finestra.
Con un tipo come zì Monaco, dicevano gli invitati sciamando, sarebbe stato
strano se tutto si fosse svolto secondo le regole, ma questa uscita non si aspettava
proprio.
106
Per tutta la giornata la porta e la finestra restarono chiuse e al mattino
seguente la suocera di zì Monaco, quando si affacciava, trovava sempre tutto
sbarrato.
S'era fatto mezzogiorno e poi era suonato ventun'ora, la suocera
preoccupata, bussò alla porta.
La finestra si aprì e si affaccio ' zì Monaco: assicurò la suocera della salute
della sposa e disse che a quell'ora non valeva la pena di alzarsi; non avevano
bisogno di nulla, si sarebbero rivisti il giorno dopo e ....richiuse la finestra.
Quando a zia Monaca (forse pochi nella vecchiaia ne ricordavano il nome di
battesimo) si domandava che cosa pensava lei quando il marito la tenne per due
giorni e due notti a letto, ella felice rispondeva:
"Aveva chiuso la finestra e mi diceva sempre che era notte ancora, al secondo
giorno mi disse che era il primo. Io non dubitavo della sua parola, come non ne ho
dubitato mai".
Piccolina, secca, carica d'anni zia Monaca raccontava sempre del suo
giorno di nozze ai numerosi nipoti, che ora, vecchi anch'essi tramandano la storia e
il nome della numerosa famiglia di cui nessuno ha dirazzato.
Ricordo Giuseppe, l'ultimo nipote, che incarnava la figura fisica del nonno, a
settanta anni, vegeto e sano faceva giocare sulle ginocchia il suo sedicesimo figlio.
107
LE SCAMORZE DELL'ARCIPRETE
La casa di quel vecchio scapolo: il medico don Ciccio Mansueto era il ritrovo
degli amici; studiati tressette e cavillose discussioni si alternavano intorno al tavolo
rotondo posto in mezzo al quadrato salotto che accoglieva i signori del tempo.
Giochi e burle, a danno or di questo e or di quell'amico, erano all'ordine del
giorno.
Una mattina il crocchio dei soliti amici vede una donna che portava delle
scamorze all'Arciprete Palazzi, il quale da più giorni disertava le riunioni a causa
della gotta che lo tormentava e lo costringeva a letto.
L'idea di fare una burla all'Arciprete era venuta a tutti, ma come fare per
privarlo delle scamorze?
Capita a buon punto Gian Fedele Lucarelli, spirito caustico e burlesco che
s'impegna di portare le scamorze che poi sarebbero venute a tavola durante
l'abituale cenetta fra gli amici.
Dopo qualche oretta ecco Gian Fedele di ritorno e col trofeo alzato: otto
scamorze legate a paia con un giunco.
Fanno festa all'arrivato come ad un campione vincitore e tutti lo assillano con
la stessa domanda: "Come hai fatt?"
Quando sono entrato, ho trovato la sorella, che mi ha fatto subito passare
nella stanza.
Il povero Arciprete supino sul letto, impossibilitato a muoversi, si lamentava
per la gotta.
Ho detto che, oltre al dovere di una visita, avevo desiderio di confessarmi.
Sono contento, mi ha detto.
Sapete, Arciprete, che sono un buon cristiano e sono venuto qua perché
non mi piace mostrarmi in chiesa; ogni tanto una crisi di coscienza ci spinge a
metterci in grazia di Dio.
Mi ha fatto chiudere la porta e mi sono inginocchiato.
La cassa con le provviste, voi sapete, l'ha sotto il letto e mi sono impegnato
ad aprirla senza far rumore, mentre ad alta voce recitavo il Confiteor.
Il letto però, per quanto alto, non consentiva una larga apertura e il braccio
arrivato a un certo punto non passava più.
Tirare la cassa avanti non era possibile.
Ho cominciato col dire qualche peccato e intanto armeggiavo con le dita per
trovare le scamorze.
È venuta alle prese un filo e ne ho tirato due. Allora subito ho confessato:
Padre, ho preso due scamorze.
È peccato prendere la roba d'altri, il settimo comandamento lo sai e mi ha fatto
una predica sulla gravità di questo peccato.
Ho continuato con l'accusarmi bestemmiatore e qui non ha fatto grandi
meraviglie, ma ha cercato di farmi comprendere l'offesa a Dio e la inutilità della
bestemmia.
Io seguivo il suo dire per acconsentire ov'era il caso, in modo da non
mostrarmi distratto e spingevo il più possibile la mano per trovare altre scamorze.
Ho preso intanto un altro filo, ho passato le scamorze in tasca ed ho confessato il
secondo paia.
Altri ammonimenti ed io, profittando del suo parlare, facevo del mio meglio
per trovare le altre.
108
Ho aggiunto che manco ogni tanto alla Messa, ho cercato di giustificarmi e
prima che si passasse ad altro argomento ho potuto confessare anche il terzo paia
di scamorze.
È grave, ha detto lui, e sempre alla stessa persona?
Si, Padre.
Devi riparare, bisogna restituire, non puoi tenerti la roba d'altri se vuoi essere
in grazia di Dio.
E come faccio Padre?
Restituendola al padrone.
Padre, le volete voi?
Io no, non posso pigliarle.
Ma neppure il padrone le vuole.
Ma tu glie lo hai domandato?
Si, Padre.
Il peccato è sempre grave, figliuolo, e tu per metterti a posto con la coscienza
devi restituire la roba presa.
Sono pronto, Padre, le porto a voi se le accettate.
Ma io non posso pigliarle; te l'ho detto...
E il padrone si rifiuta di pigliarle, glie l'ho detto più d'una volta, che debbo
fare?
Se è così, se il padrone alla tua offerta le rifiuta, puoi tenerle, però non devi
farlo più, perché... e quì ha continuato la predica, mentre io mi sforzavo vanamente
di trovare il resto.
Finalmente il quarto filo è venuto alle dita e l'ho confessato.
Ancora un altro paia? e sempre alla stessa persona?
Sì, Padre.
E il padrone non si è accorto di nulla.
Potevi dirle tutte in una volta.
L'ho fatto così com'è venuto il filo.
Egli ha capito che io dicessi il filo cronologico dei peccati, io invece intendevo
dire il filo delle scamorze.
M'ha fatto tanti ammonimenti, m'ha parlato della bontà di Dio verso i peccatori
pentiti, mentre io spingevo il più possibile la mano nella cassa.
Poi mi ha domandato: "c'è altro?"
Io non avendo trovato niente ho risposto:"Mi pare che non ci sia niente altro".
Mi ha assolto. Gli ho fatto gli auguri, l'ho salutato ed ora sono qua.
Che i furti operati da Gian Fedele si riferissero alle sue scamorze l'Arciprete se
ne accorse quando disse alla sorella di prepararne alcune con le uova per il pranzo.
Non trovò nulla da obbiettare perché a scherzi del genere c'era stato anche lui
altre volte.
Solo si dispiacque, e moltissimo, che Gian Fedele aveva abusato di un
sacramento per fare uno scherzo.
Pregò la sorella di andare per aver qualcuna di quelle scamorze, sperando
che si commuovessero per il suo stato di salute.
E la fece andare da don Ciccio, perché sapeva ove potevano essere andate
le scamorze.
Ma non l'ebbe perché, così gli fecero sapere, non le aveva volute neppure
prima, quando Gian Fedele glie le aveva offerte.
109
PROVERBI
"L'uomo primitivo non sapeva pensare per concetti astratti ed universali dicono Altamura e Giuliani nel loro libro "Proverbi napoletani" - ma esprimeva i suoi
pensieri e le sue osservazioni sul mondo esterno e sulle azioni proprie e dei propri
simili ora mediante la narrazione di un aneddoto o di una favoletta o di una
parabola, ora nella forma di un breve paragone mediante un proverbio.
I Greci chiamarono "paroimia" quel che i Latini dissero poi "adagium".
Anche Aristotile scrisse un libro sui proverbi, ritenendoli frammenti di una
antica sapienza, in cui attraverso un particolare del mondo reale, si enunciava
una legge del mondo ideale.
Etimologicamente "proverbio" proviene dal latino "probatum verbum o pro
verbo" e secondo una definizione medioevale, -riportata ancora da Altamura e
Giuliani- è una "sententia brevis ad instructionem dicta, comodum vel incomodum
grandis materie manifestam" elaborata nel lungo corso dei secoli dall'esperienza
collettiva e adoperata per tramandare, in forma breve e concettuosa, i precetti e i
sentimenti degli antichi ed in
questo identificarsi con la voce dei vecchi,
pigliano anche il nome di "detti o motti antichi".
Ne abbiamo riportati solo pochi, sia perché molti sono comuni ad altri paesi,
sia perché sarebbe stato impossibile raccoglierli tutti; quant'anche avessimo scritto
un intero libro sui proverbi paesani, ce ne sarebbero sempre sfuggiti!
Chi fa e sfà nun perd mai tiemp
(Chi fa e disfà non perde mai tempo)
Parola ritta e preta menata nun tornan addret
(Parola pronunziata e pietra lanciata non ritornano indietro)
Nu fascio r malerba avasta a cient cavall
(Un fascio di erba cattiva basta per cento cavalli)
Tiemp r viern e cul' r criatur nun stai mai sicuro
(Del tempo d'inverno e del sedere dei bambini non puoi essere mai sicuro =
facilmente ti trovi bagnato)
Viest cippon ca pare barone
(Vesti il ceppo e ti sembrerà barone)
Se canti nun puort 'a croce
(Se canti non porti la croce;
non si possono fare due cose
contemporaneamente)
Ama a chi t'ama a rispunn a chi ti chiama
Pe gabbà 'u vicino, cuolechete presto e auzete r matina.
Chi si corica s'auza
(Chi si corica presto ed in pace con i vicini è sicuro dalle offese dei malviventi
nottivaghi)
Chirica rasa e preta cautela nun fallisce mai 'a casa
(Nella casa dove c'è un prete o un mulino non c'è mai miseria)
Zappa 'a vigna e trumient 'u cannit
(Zappa la vigna e guarda il canneto fare due cose contemporaneamente)
Famm prima a famm ciuccio
Chi nun sap scurticà guast carn e pelle
(Chi non sa scorticare guasta carne e pelle)
Chi nasce niglio nun po’ murì vussacchio
(Chi nasce quadro non muore tondo)
Quan vomm r tutt 'i misi, gran senz'assise
(Quando tuona(piove) di tutti i mesi, grano in abbondanza).
110
Ahi camelo, quann' hai ammurtat 'a cannela, come eja Cuncetta eja pur
Carmela
(Hegel lo spiegherebbe: "Di notte tutte le vacche sono nere")
Chi vol va e chi nun vol manna
(Chi vuole va e chi non vuole manda = chi fa da se fa per tre)
L'hann miss a pan r gran
(Per dire che era ammalato gravemente.
Ci ricorda questo proverbio la povertà della nostra gente, che abitualmente
doveva accontentarsi di pane fatto con farina di granone " 'u paruozzo" e mangiava
pane di grano solo se gravemente ammalato).
Ha fatt' 'a fin e San Sebastian: nur e 'nat 'a porta
(Proverbio venuto dalla posizione del Santo, che collocato in una nicchia posta
vicino alla porta della chiesa di S.Maria, dove si sviluppava una corrente d'aria
fredda)
Chi se sposa int'u vicinato, veve nd'u bicchiere, chi se sposa int'u paese, veve
nd'a giarra, chi se sposa fore paese, veve nd'u cicine
(Chi si sposa nel vicinato, beve nel bicchiere chi si sposa nel proprio paese,
beve nella giara, chi se sposa in paese forestiero, beve nell'orciuolo cioè:
Quanto più la sposa è conosciuta tanto più il matrimonio può ben riuscire ed
essere felice).
Ch lu mò e ch lu tè l'amicizia se mantè(ne); ch lu mò e nun lu dà' l'amicizia se
né va
(Col prendere e dare l'amicizia si mantiene; ma col prendere e non ricambiare,
l'amicizia se ne va).
Marito e figli, come Dio ti dà ti pigli.
Chi te sape, t'arape (ti apre)
Chi mora mora e chi resta se cunzola.
Sott 'a stà man 'nci chiove
(A significare che tutto viene ripagato)
L'arte e chi 'a sap fà, se nun s'arrecchisce ce camparrà.
Figli r gatt angappa surge
Vicinato mio, specchiale mio
(Il mio vicinato è il mio specchio)
Chi racioppula pure vennegna
(Anche raccogliendo i grappoli lasciati si fa un po’ di vino)
N'cppa a 'sa toppa ha fatt l'aria , e mo vientele!
(Hai fato l'aia su quella collina? e non ventilerai = Hai stabilito le promesse per
una cosa impossibile).
Trippa chiena canta e no cammisa janca
(Meglio essere sazi che eleganti)
I cunzigli ch 'nzi pagano, 'nzò sentuti
(I consigli che non si pagano non sono ascoltati).
Mala nuttata e figlia femmeba
(Quando tutto va al rovescio!)
Stuorto e male cavat
(Disgraziato e cattivo)
Casa vicina a signore e fore (campo) vincin a vallone, arrivi a do nù vuoie.
A gallina fà l'uovo e 'u gall scacheteglia.
Chi a tiempe se prepara a ora magna
(Chi ha tempo non aspetti tempo)
Patre e patrune vuonne avè sempe ragione
Chi cumanna fa legge
111
Fà' carn 'e puorco
(Far grossi guadagni)
È morta 'a criatura e nun sim cchù cumpari
(Finito un interesse, finisce il bisogno reciproco)
Addò femmene senza figli nun ce j né pe fuoco né pe cunsigli
(Dalle donne senza figli non andarci né per aiuto, né per consigli)
U zappà d'a femmena e o faticà d'a vacca, povera quella terra che nce
ancappa
(Nei lavori dei campi occorrono uomini e buoi e non donne e vacche!)
Tre cose nun stancano mai: bona salute, bon tiemp e pane e grano!
112
CONCLUSIONE
Nel corso del nostro lavoro abbiamo cercato, per quanto ci è stato possibile,
di dare una visione, anche se non del tutto completa, almeno sintetica della storia
della nostra terra, della vita del nostro popolo.
Non è tutto - come dicevamo nella prefazione - perché alcune cose non
abbiamo potuto trattarle per mancanza di documentazione, ma ci siamo occupati di
ricostruirne la storia e raccogliere quello che ancora i vecchi ricordano, prima che
tutto vada perduto e dimenticato e invogliare gli altri a fare qualcosa di più e meglio.
Qualche volta abbiamo sacrificato la metodologia per non rendere troppo
pesante il testo.
"La storia si crea a poco a poco per l'attività dello spirito che costruisce nuove
forme di conoscenza, nuovi ideali di vita, nuovi sentimenti" - dice Aliotta, ma
questo non inteso nel senso che il presente è in virtù del passato che dura in esso e
si arricchisce di nuovi concetti; perciò, per meglio comprendere l'animo del nostro
popolo, ho voluto aggiungere i suoi usi, le sue credenze, i suoi canti, i suoi racconti,
per meglio unire nel presente la nostra fisionomia del passato per un continuo
perfezionamento, per l'acquisizione dei più alti ideali, per mantenere saldo quel
vincolo di affettività che distingue la nostra gente, quasi membri di un'unica famiglia,
che ancora gioisce e soffre delle gioie e dei dolori degli altri.
Vuole esere questo lavoro un attestato di amore per tutti i nostri compaesani,
ovunque essi si trovino, affinché sappiano che li vogliamo bene come alla nostra
terra, tanto che
"Poi che la carità del natio loco
mi strinse, raunai le fronde sparte".
113
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collaborazione degli Archivisti Napoletani.
Catalogo dei Baroni, in Barrelli vindex neapolitanae nobilitatis Napoli, 1653.
114
Registro delle Annue Rendite del Clero del Comune di Montefalcone 1734.Statuto della
Società Operaia di Mutuo Soccorso di Montefalconefalcone Valfortore Ariano, Stab. Tip.
Appulo Irpinio, 1908.
Archivi Parrocchiali di Montefalcone Valfortore.
Giornale dell'Indipendenza di Capitanata Foggia; (A. 1916 - 1917)
Samnium (Rivista Storico trimestrale) diretta da A.Zazo Benevento, Archivio Storico S. Sofia
(Ann. varie).
Bolletino del Santuario del Carmine dirett. Abate Petrilli Montefalcone Valf. (An. 1926-19271928).
Valfortore (Quindicinale di vita paesana)dirett. A.Zeppa Montefalcone Valf. (An. 1949-19501951).
115
INDICE
Faccia r garofano.....................................................................................................................................14
Faccia di garofano.....................................................................................................................................14
Auzete bella mia.......................................................................................................................................14
Faccia r cicoria.........................................................................................................................................15
Faccia di cicoria.........................................................................................................................................15
Le due sorelle.............................................................................................................................................16
Africanella..................................................................................................................................................16
Ncopp a muntagna r Muntefalcone...........................................................................................................16
TERRA AMARA..........................................................................................................................................17
Na, na, na, n'avimm com fa....................................................................................................................17
TERRA AMARA..........................................................................................................................................18
G E S U ' M O R I B O N D O.....................................................................................................................19
GESU’ MORIBONDO.................................................................................................................................21
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note
1.
2.
3.
4.
Conglomerato di grossi ciottoli di forma tondeggiante a cemento siliceo.
Plinio, Historia Naturale, libro 3, cap.XI.
Filippo Cirelli, Il Regno delle Due Sicilie descritto ed illustrato vol.2-VIII, Napoli
La misurazione locale del terreno viene fatta a tomoli che è uguale ad ettaro 0 -zero, trentatre are
e trentatre centiare. Ha 0, 33.33
5. Il termine è causticamente esteso a chi cerca di imbrogliare o di risolvere "problemi" a modo suo
e sbrigativo.
6. Filippo Cirelli, Il Regno delle due Sicilie descritto ed illustrato, v.2-VIII, Napoli 1853, p.
7. Cluverio, Italia Antiqua, Ediz. di Leida, 1624, tom.2, lib.4, cap.9.
8. Anonimo di Milano, Tavola Corografica Medii Aevi fert 22 num.128 presso Il Muratori, tom.10
delle cose d'Italia, col 275.
9. A.Jamalio. La Regina del Sannio, descrizione coretnografica e storica della Provincia di
Benevento-Edit.Federico & Ardia, Napoli 1918 p.252
10. P. Lodovico Vewntura riportato da P. Cherubino Martini in P. Lodovico Ventura-Profilo spirituale e
antologia dei suoi scritti, 2^ediz., La Madonna delle Grazie Edit. Benevento, 1965, p.279-Cluvia
in nota.
11. Lucio Camarra, De Theate antiqua, lib.2 cap.6
12. vedi Op. Tedesca Stamer: Die Verwaltung der Kastelli in Konigreich Sizilien unter Kaiser Fridrich
II und Karl I Anjen Capitanata, Leipezig 1914.
13. Come risulta dai Diurnali del Duca di Montefalcone, a cura di N. F. Feraglia, Napoli 1825, fol.17.
14. Tommaso Vitale, Storia della Regia città di Ariano Roma, Salomoni, 1794, p.327.
15. Filippo Cirelli, op.cit. p.
16. Registri della Cancelleria Angioina (V.II -1265-1281) nell'anno1269-luglio 9- Indizione XII. In
obsidione Lucerie.
17. Il milite Giovanni di Salerno fu preposto al Castello di Crepacorde per prendere i Saraceni che
per colà passavano. D. Reg. n^4, fol. 119. E vedi pure nel Reg. n^14 fol. 19 altri diplomi del 4
agosto 1269 relativi al pagamento dei serventi.
18. Cfr. I Registri della Cancelleria Angioina Vol.XI, p.276.
19. L'istrumento e l'assenso regio sono trascritti nel vol. 15 dei privilegi della Regia Camera della
Sommaria che prima veniva denominato Privilegiorum 42, anni 1473 ad 1477, dal fol. 226 a
tergo al fol. 233
20. Cfr. Giacomo Guglielmo Imhof: Corpus historiae genealogicae Italiae ed Hispaniae, famiglia
Caracciolo, tav. XVII p. 280
21. Le tavole nuziali che furono rogate dal Notaio Ambrogio Casanova di Napoli e l'assenso regio
impartito su le medesime, si leggono nel quinternione segnato al presente col n^ 23, e prima
col n^ XVIII, dal fol. 107 al 121.
22. I documenti esibiti per il pagamento di tale relevio si trovano dal fol. 173 al fol. 209, del vol.
288 degli atti pe’ relevi, che prima s'intitolava "Liber secundus originalium releviorum
Principatus Ultra et Capitanatae anni 1542 ad 1549.
23. Cfr. il repertorio de’ quinternioni della provincia di Principato Ultra, vol. 1, fol. 237, ove si citano
i quinternioni 47 e 90 che al presente mancano.
24. Cfr. Processi della Regia Camera della Sommaria vol. 150, pandetta antica n^ 4405.
25. Vedi Cedolario del Principato Ultra, A. 1639, Relazione fol. 94.
26. Vedi Vol. Titulorum 3^ della cancelleria del Collaterale Consiglio, anno 1621-1629 fol. 152.
27. Vedi registro significatoriarum releviorum, Anno 1627-1629, fol. 69-73. 13) Per l'assenso regio e
l'exequatur vedi vol Titulorum 3^ fol.152-156.
28. Questi fu figlio di Giuseppe, come si desume dal vol. 317 dei processi della Regia Camera
della Sommaria notati nella pandetta antica, n^ 3814.
29. Cedolario della Provincia di Principato Ultra, A.1696, nella relazione del Razionale, fol. 352.
L'assenso regio è trascritto nel quinternione n^ 308 (prima n^ 229) dal fol. 245 al 283.
30. Il diploma e l'exequatur sono trascritti nel vol. Titulorum 8 della cancelleria del collaterale
Consiglio n^ 1676-1696, dal fol. 600 al fol. 605.
31. Le notizie sul "Feudo di Montefalcone" sono tratte dal fondo "Tribunale Civile di CapitanataContributi" presso la Sezione Archivio di Stato di Lucera.
32. Il processo fu esposto nella Mostra Storica del 1848 in Capitanata, che si tenne per lo spazio di
alcuni mesi presso il Museo Civico di Foggia, Mostra il cui Catalogo fu pubblicato dall'Avvocato
Mario Simone, Presidente del Comitato per le Celebrazioni Daune del 1848. Il processo si
conserva nella Sottosezione dell'Archivio di Stato di Lucera.
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33. Pasquale Villari, Lettere meridionali ed altri scritti sulla questione sociale in Italia, riportato da
Luisa Sangiolo, Il brigantaggio nella provincia di Benevento 1860-1880, De Martini Ed.
Benevento, 1975, p. 61.
34. Carlo Anianello, La conquista del sud - Il Risorgimento nell'Italia Meridionale, Rusconi Edit.
Milano 1972, p. 247.
35. Mario Monti, I Briganti Italiani, vol. 1, Ediz. Longanesi e C. Milano 1967 -Ediz. Pocket, p. 1718.
36. Il brigantaggio nel Sannio: La figura e le gesta di Michele Caruso di Aldo Gambatesa in
"Almanacco del Sannio 1956" Ediz.Secolo Nuovo, p. 123-136.
37. Luisa Sangiuolo, Il Brigantaggio nella Provincia di Benevento- 1860-1880- De Martini Edit. 1975,
pp 124-130
38. Il manoscritto è riportato da D.Donato Minelli in "Origine del Santuario del Carmine in
Montefalcone Valfortore" in estratto di Samnium, (gennaio-giugno 1968).
39. Canna = misura di lunghezza che variava secondo le regioni e nel napoletano misurava m.2, 11.
40. Palmo = spanna, misura di lunghezza che nel napoletano era di m.0, 254.
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