La buona patrimoniale di Gaetano Lamanna e Antonio Ruda
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La buona patrimoniale di Gaetano Lamanna e Antonio Ruda
La buona patrimoniale di Gaetano Lamanna e Antonio Ruda Tratto dal n°23 di RS, Rassegna Sindacale, Settimanale di politica ed economia sociale In una realtà come quella italiana, caratterizzata dalla proprietà diffusa delle abitazioni, con appena il 20% delle famiglie che vive in affitto, il problema della casa emerge soltanto in casi clamorosi di sfratto, oppure quando si parla di determinate categorie “svantaggiate”: giovani, precari (o giovani e precari), immigrati, anziani. Insomma, il problema della casa appare, nel nostro Paese, come un “non problema”, che riguarda nicchie della società particolarmente sfortunate, e non un aspetto strutturale della cattiva distribuzione della ricchezza e di mal funzionamento del nostro sistema di protezione sociale. Nel bene casa si accumulano, inoltre, funzioni diverse e contrastanti. Non solo abitazione, ma bene rifugio, “asset” che procura sicurezza, investimento di lungo periodo, patrimonio con aspetti affettivi ed emozionali, bene utilizzato per ribadire il proprio status sociale. Lo ha ben compreso Berlusconi che sulla casa ha giocato le sue carte vincenti dal punto di vista elettorale: l’abolizione dell’ICI sulla prima casa, oppure il Piano Casa utilizzato in funzione anticiclica per contrastare la crisi economica. A “sinistra” si gioca di rimessa, come dimostra anche l’affannosa rincorsa delle Regioni di centrosinistra per approvare leggi sul rilancio dell’edilizia (ma la fretta, si sa, è cattiva consigliera specie se si accompagna alla quasi totale assenza di un confronto sulle reali esigenze del territorio), e c’è carenza di proposte, a parte la periodica (e saltuaria) denuncia degli affitti in “nero” o della mancanza di finanziamenti per l’edilizia residenziale pubblica. Eppure in Italia è disponibile un patrimonio residenziale privato inutilizzato, in stato di abbandono o di forte degrado, valutabile in circa due milioni di unità abitative soltanto nelle aree urbane. A fronte di questa disponibilità potenziale di abitazioni abbiamo quote importanti di domanda insoddisfatta. Secondo un’indagine CENSIS, oltre due milioni di giovani fra i 26 e i 35 anni convivono con i genitori pur avendo un lavoro in grado di assicurare loro l’indipendenza economica. La mancanza di abitazioni, pur in presenza di un patrimonio residenziale esteso, si unisce ad una diffusa evasione fiscale nel mercato delle locazioni. Tutto ciò può essere ricondotto a politiche che hanno privilegiato un solo aspetto del benecasa. Quello di bene meritorio e di investimento di lungo periodo, trascurando, allo stesso tempo, il fatto che nelle aree a forte densità di popolazione, gli alloggi diversi dalla prima abitazione, sono un potente strumento di rendita, possono interferire nella distribuzione del reddito a sfavore delle categorie più deboli, impedendo l’accumulo di risparmio nelle fasi iniziali della vita lavorativa, contribuendo a relegare strati di giovani nelle trappole della povertà. La rendita, derivante dall’occupazione del suolo da parte di immobili non destinati all’abitazione propria, è in grado di vanificare gli effetti redistributivi della stessa progressività dell’imposta sul reddito personale (il cui gettito proviene, peraltro, dai lavoratori dipendenti per circa l’80% del totale). La presenza di un patrimonio edilizio inutilizzato e la prassi dell’evasione fiscale legata agli affitti “in nero” incontra una politica fiscale “benevola” e “comprensiva” con la proprietà, specialmente se assenteista. L’obbligo formale di dichiarare le entrate da locazione ai fini della dichiarazione dei redditi personali è bilanciato dalla onerosità, e dalla quasi impossibilità, dei controlli in una situazione di proprietà diffusa. Le entrate del canone, sommandosi agli altri redditi delle persone fisiche, e determinando la possibilità di passaggio alle aliquote irpef più alte, possono tradursi in aumenti, anche consistenti, delle aliquote marginali effettive dei redditi da locazione. Tutto ciò porta o alla totale evasione fiscale, o alla pratica di una sorta di “arbitraggio” fiscale dichiarando importi inferiori a quelli effettivi sulla base della posizione del locatore nella scala delle aliquote IRPEF. Per questo insieme di motivi la tassazione dei redditi da locazione tramite l’IRPEF è assolutamente inefficiente. Costituisce, anzi, un implicito incentivo alla proprietà “assenteista” e/o all’affitto in “nero” perché può interferire sulla pressione fiscale complessiva del locatore. Non basta quindi una mera semplificazione della tassazione quale potrebbe essere l’imposta “secca” del 20% sui redditi da locazione per uso civile, già proposta ai tempi del Governo Prodi. Un’aliquota ridotta è sempre più alta di zero. In questa situazione, un aumento dell’efficienza della tassazione sulle entrate da locazione dovrebbe prevedere: • la neutralità dell’imposta. In pratica, si tratta di impedire che la natura dell’imposta influenzi l’offerta delle abitazioni da affittare; • la costituzione di una base fiscale sulla quale i comuni possano intervenire per incentivare l’offerta di abitazioni in affitto alle categorie meritevoli di sostegno nella ricerca di un’abitazione; • penalizzare i comportamenti puramente speculativi nel mercato immobiliare. Per rispondere a queste esigenze l’imposta più appropriata è un Ici potenziata. Cancellata sulle prime abitazioni, ma non per gli altri immobili (residenziali e non), l’Ici potrebbe svolgere pienamente la funzione di una patrimoniale sugli immobili residenziali diversi dalla prima abitazione. In pratica si tratterebbe di portare l’aliquota, oggi compresa fra lo 0,4 e lo 0,9 per mille, almeno all’1% (10 per mille), abolendo contemporaneamente la tassazione dei redditi da locazione tramite l’IRPEF. Gli effetti sarebbero molti: • una effettiva semplificazione della tassazione immobiliare e un rafforzamento dell’autonomia impositiva dei Comuni; • si fornirebbe una leva per la contrattazione di affitti a canone concordato o sociale riducendo, o azzerando, a discrezione del comune, l’imposta, anziché fornire sussidi ai soggetti deboli, semplificando così le procedure burocratiche per l’assistenza sociale; • sarebbe incentivata l’offerta di abitazioni in affitto e sarebbe eliminata del tutto l’evasione fiscale ( a meno che si eviti di pagare la patrimoniale); • si contribuirebbe a calmierare il prezzo degli immobili e a rendere più fluido il mercato; • si farebbe emergere il potenziale abitativo disponibile prima di procedere a ulteriori edificazioni; • si realizzerebbe il passaggio dal mero sussidio alle categorie bisognose, all’aumento dell’offerta di natura sociale; • si determinerebbe l’interesse dei proprietari al loro coinvolgimento nella politica sociale della casa intrapresa dai Comuni. In questo modo si rovescerebbe la logica che vede nell’offerta legale di abitazioni in affitto un elemento non influenzabile dagli amministratori, ma un evento che solo casualmente può fornire un gettito fiscale. Adeguando il ruolo dell’Ici, le entrate diventano, invece, certe e la politica della casa si concentrerebbe nella emersione e gestione sociale dell’offerta (a questo punto, a fortiori, di natura legale).