Le mura di cinta

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Le mura di cinta
LE MURA DI CINTA
La pianta della città romana disegnata nel 1880 dall'ing. A. Bon su indicazioni del Bertolini,
pubblicata in "Notizie degli Scavi di Antichità" di quell'anno, e la precedente, rozza ma efficace
pianta disegnata dallo Stringhetta, mostrano una superficie pressoché esagonale delimitata da
una cinta muraria in cui si aprono sette porte in corrispondenza di alcune strade, dieci in quella
dello Stringhetta, architettonicamente differenziate a seconda dell'importanza di queste: pertanto
con torrette e due fornici a nord, tre a sud, le porte di uscita del kardo maximus, quattro quelle del
decumanus maximus che, come visto in precedenza,coincideva con l'importante via Annia. Le
porte alI'uscita di un cardine e di un decumano minori erano dotate di un fornice soltanto, anche
se ugualmente provviste di torrette; alcuni contrafforti quadrangolari erano ubicati ad intervalli
regolari lungo tutta la cinta; due semicircolari erano agli angoli meridionali delle mura. Una
descrizione della struttura muraria viene data dalla relazione del figlio del Bertolini che nel 1894 ne
scavò il tratto nord orientale.
Tale descrizione coincide con quanto portato in luce in tempi recenti, e cioè ancora lo stesso
tratto, l'unico che probabilmente sia almeno parzialmente sopravvissuto ad un'opera di spoliazione
attiva fin dalle epoche più antiche; altrove restano solo le fondazioni in pietra o la sottofondazione
in poderoso costipamento di pali. La struttura di questo tratto situato in via delle Terme è costituita
da un nucleo interno in pezzi di mattoni cementati, una fodera in mattoni sesquipedali per una
larghezza di 2 m, poggiante su una risega in pezzi di pietra e infine sul vespaio di pali; l'altezza è
calcolata in 8 m circa. Questa tecnica e il materiale rinvenuto in altri saggi (via Claudia), fa datare
la costruzione all'epoca protoaugustea e quindi contemporanea alla fondazione della colonia. Del
resto gli anni cui si fa risalire la fondazione di Iulia Concordia, il 42 o 41 a.C., sono anni in cui
risultano ormai consolidati i confini orientali dell'Impero fino al Danubio verso cui viene spostato il
fronte militare. Le mura di cinta e le porte di cui furono dotati molti centri del Veneto, Verona,
Vicenza,
Oderzo, Altino, e la stessa Concordia ebbero soltanto il significato simbolico di segnalare la città,
di darle la connotazione tipica della città romana, in cui le mura erano un elemento determinante.
Per questo assumeva particolare valore il rituale della fondazione, che consisteva nel tracciare
con l'aratro trainato dai buoi il solco delle mura, in ossequio alla tradizione romana; un bassorilievo
aquileiese testimonia lo svolgimento di questa importante cerimonia, così come gli scrittori latini la
descrivono. Vale la pena sottolineare che un valore simbolico era dato anche alle entrate
monumentali, tanto maggiori quanto spesso non inserite in una cinta muraria. A Concordia il fatto
che le mura già nella seconda metà del II sec. d.C. risultino distrutte (proprio quando iniziano le
prime invasioni barbariche!) e non vengano più ricostruite è la prova che non avevano mai avuto
una funzione difensiva e non si sentirà neanche in seguito la necessità di costruirne altre.
Un'osservazione merita la tecnica di sottofondazione in pali di legno (quercia e ontano nero), resa
necessaria dal fatto che le mura vennero costruite al margine del terreno paludoso che circondava
Concordia, il cui impianto urbano si sviluppò nella parte più alta del sito. Tale tecnica tuttavia,
anche nell'ambito urbano fu adottata per monumenti consistenti, come il teatro.
Interessante il rinvenimento presso il tratto nord est delle mura di cinta, in Via delle Terme, di una
grande meridiana in pietra emisferica, in cui sono segnate le linee verticali (le ore) e le tre curve
dei solstizi e degli equinozi. La base presenta un ampio piano inclinato delimitato da due larghe
fasce. Tale meridiana, databile al I sec. d.C., in origine sorretta da una colonna, poteva essere
pertinente ad un edificio privato, tuttavia non è esclusa la destinazione pubblica in un luogo di
passaggio come quello della postierla.
Le porte individuate negli scavi degli ultimi anni sono state quattro, in successione lungo il tratto
nord orientale delle mura e sono state oggetto di studio da parte di A. Trevisanato; della più
importante, all'uscita orientale del decumanus maximus, non è praticamente rimasto nulla, se non
un grande e profondo basamento in mattoni appartenente con ogni probabilità al torrione
meridionale della struttura che doveva essere a quattro fornici e affiancata da due torrioni
ottagonali, con un secondo piano, sul tipo della porta di Nimes già ricordata dal Bertolini. L'
estrema distruzione di questo considerevole monumento fu determinata dalla necessità di
costruire gli ambienti della vicina Basilica, in cui sono evidenti alcuni pezzi del rivestimento lapideo
riutilizzati; altri furono usati per arginare, forse alla fine del secolo scorso, il canale che chiudeva a
semicerchio il Piazzale di Concordia. I pezzi rinvenuti in via Carneo, frammenti di due timpani, di
colonne, di architravi modanate sono sufficienti a darci un'idea della fastosità del decoro, che
comprendeva anche alcuni elementi figurati. La porta corrispondente all'entrata occidentale nella
città, ha lasciato, secondo la descrizione del Bertolini, resti modanati e di cataracta, che ci
indicano un decoro forse altrettanto notevole. L'analisi dei pezzi rinvenuti indica un primo assetto
contemporaneo alla costruzione delle mura, e un assetto monumentale successivo, probabilmente
d'epoca giulio-claudia, eseguito per dare un aspetto più fastoso alla porta con l'uso del marmo.
In corrispondenza del tratto orientale del primo decumano a nord di quello maximus, una strada
basolata minore, larga 6 m, si apriva una porta piccola, una "postierla", che aveva un unico
fornice, largo 2 m, il cui cavaedio quadrangolare fu pavimentato in lastre di calcare.
Un frammento di base attica rinvenuto su uno strato di macerie interno al perimetro urbano, dà
l'idea di un certo decoro architettonico. In questo caso non si trattava di una porta fiancheggiata da
torri, ma di un varco nelle mura con passaggio coperto, che garantiva la possibilità di percorrere la
cinta muraria nel suo intero giro; particolare cura sembra abbia avuto la facciata verso l'esterno,
che si suppone fosse stata decorata da due grandi colonne con capitelli corinzi e da un timpano in
pietra. Da rilevare che in epoca tarda si verifica una ristrutturazione della porta con la creazione di
un setto murarlo al centro del cavaedio, che viene nuovamente pavimentato in laterizi frammentati
e interi, e la creazione di due ristretti (80 cm l'uno) spazi pedonali.
Una seconda postierla era in corrispondenza del decumano più settentrionale.
Questa porta ad un solo fornice aveva gli avancorpi decorati da colonnine in mattoni ed era
fiancheggiata da torrette quadrangolari aventi la funzione probabile di torri-magazzino.
Il cavaedio venne pavimentato in mattoni; l'esistenza di un successivo fognolo centrale fa pensare
ad una ristrutturazione con pavimentazione più modesta. Del decumano che portava a questa
porta non si è trovata traccia di pavimentazione, forse già asportata in antico. Dal lato
settentrionale della porta e dal vicino tratto murario partono tre lunghi muri dalla struttura povera,
in frammenti di laterizi, con lesene esterne ed interne, non allineati con gli altri resti; l'edificio cui
appartenevano è da identificare forse con magazzini costruiti in epoca tarda, il m sec. d.C..
A nord, in corrispondenza dell'uscita del kardo maximus, sono stati trovati i resti di una porta a due
fornici, fiancheggiata da due torrioni, costruiti in blocchi quadrangolari di pietra arenaria. Anche
questa costruzione ebbe una ristrutturazione in età tarda, con la quale alle torrette fu aggiunto un
corpo posteriore. L'ampiezza e il decoro dati a questa porta furono determinati dal collegamento
della strada urbana, attraverso un breve tratto di raccordo, alla strada che portava al Norico, la cui
importanza per la vita della colonia è già stata evidenziata.
Le porte rinvenute in Concordia dimostrano una naturale varietà architettonica dovuta alla loro
relazione con strade di maggiore o minore rilievo; pertanto le due porte che davano sul
decumanus maximus, la via di maggiore passaggio per cui transitarono numerosi imperatori a
partire da Augusto, ebbe considerevole ampiezza ed un decoro architettonico che doveva indicare
con immediatezza a quanti entravano l'importanza della colonia: in particolare l'ingresso dal lato
occidentale permetteva di cogliere con un colpo d'occhio scenografico i maggiori monumenti della
colonia, a nord della strada il teatro ed a sud il Foro con i suoi edifici.
Anche la porta all'uscita settentrionale del kardo maximus era imponente, e, come appare dalla
pianta del secolo scorso, lo era di più quella all'uscita meridionale (è disegnata a tre fornici),
differenza che può essere stata determinata da un maggiore rilievo dato a una strada di
collegamento con il mare, di cui si hanno per ora solo supposizioni.
Certamente meno importanti erano le postierle in corrispondenza dei decumani minori, in cui però
le ristrutturazioni d'epoca tarda indicano un lungo utilizzo, senz'altro quello di via Claudia dovuto
alla sua relazione con la fabbrica di frecce.
A questo diverso valore delle porte può essere ricondotta anche la diversità della decorazione
architettonica, consistente per il largo utilizzo di pietre e di marmi nelle partiture strutturali delle
porte maggiori in cui era proiettata all'esterno per quanto ora si conosce, ma che forse decorava
anche l'interno, mentre la struttura dei varchi minori era in materiale laterizio con alcuni elementi
decorativi esterni quando la porta costituiva il segnale di un importante monumento urbano. A
questa funzione di segnale urbano va attribuita la ristrutturazione eseguita nelle porte in epoca
tarda, quando le mura di cinta erano da tempo in degrado.
Le altre porte corrispondenti alle uscite di un cardine e decumano minori, possono suggerire solo
alcune ipotesi; ad esempio quella al termine orientale del canale che in sostituzione di un
decumano attraversava tutta la città affacciata sui corsi d'acqua che seguivano ad est ed ovest la
cinta urbana doveva essere una porta d'acqua con ponte levatoio che permettesse il passaggio
delle barche.
Le strade
Come tutte le città romane Concordia aveva strade che la attraversavano da nord a sud, cardini, e
da ovest ad est, decumani, formando isolati di grandezza decrescente dal centro verso la periferia;
maggiore ampiezza avevano il decumanus maximus, coincidente con l'attraversamento in ambito
urbano della via Annia, e il kardo maximus, entrambi verificati in più punti, che erano larghi m 9
mentre le strade minori erano larghe m 6. Il reticolo stradale pubblicato nelle due piante
ottocentesche, confermato a grandi linee, ha tuttavia, a seguito degli scavi degli ultimi venti anni,
dovuto essere in parte modificato poiché in realtà mostra una leggera deviazione verso oriente;
sono soprattutto il tracciato extramurario della via Annia, che devia nettamente verso nord-est,
l'orientamento della casa di Via delle Terme e un tratto stradale in pali di legno rinvenuto sotto la
porta urbica di Via VIII marzo, ad indicare un assetto originario diverso, forse d'epoca
repubblicana, che fu modificato dalla sistemazione urbanistica data alla colonia con la fondazione.
La situazione paleoambientale dell'abitato, che sorgeva su un terreno solido al centro, ed ai
margini si protendeva verso l'area paludosa, di cui le mura di cinta costituirono margine e difesa,
rese evidentemente necessari degli assestamenti nel tempo dei tracciati stradali, così come degli
edifici che vi sorsero. Le strade urbane, secondo l'uso, furono rivestite di blocchi trapezoidali in
trachite dei Colli Euganei poggianti su un sottofondo in ghiaino e, ancora sotto, in grossolani pezzi
di laterizi. Dove la natura del terreno, particolarmente cedevole, richiese, venne eseguita
un'accurata opera di bonifica: il tratto della via Annia oggi visibile nel Piazzale poggia su una
grande zattera di pali di legno in orizzontale. La presenza a margine della strada di un drenaggio
di anfore Lamboglia 2 e Dressel 6A dà un termine abbastanza preciso a questa sistemazione della
strada, che deve essere avvenuta intorno al 30 a.C.
Allontanandosi verso oriente la strada diventava glareata, composta di ciottoli fluviali; è questo
l'assetto stradale, più povero perché più lontano dalla città, che il Bertolini vide attraversare il
sepolcreto.
Le strade avevano cordoli in blocchi parallelepipedi di pietra e i marciapiedi erano in battuto, dato
che non se n'è trovata traccia, o anche in cubetti di cotto, e vi si affacciavano case, botteghe,
portici: purtroppo possiamo ricostruirci solo l'immagine ideale dell'assetto urbano complessivo di
Concordia, che ci ha lasciato frammenti slegati. Alcune strade furono restaurate o dotate di
pavimentazione, come ricorda un'iscrizione, nella prima metà del II sec. d.C.
Un incrocio di strade, un decumano e un cardine, è stato rinvenuto al di sotto di via Claudia: alla
convergenza delle strade un grosso blocco in pietra verticale formava una barriera per disciplinare
il traffico che qui doveva essere intenso, dato che il decumano portava dalla postierla direttamente
al teatro.
La rete stradale urbana si conservò fino al IV-prima metà del V sec. d.C., come mostrano la via
Annia alI'uscita della città e il decumano minore in corrispondenza della porta urbica rinvenuta in
via Claudia, i basoli del quale vennero in parte utilizzati per costruire una gradinata sopra il piano
stradale, all'epoca costituito da un riporto limo so con tracce di frequentazione che ricoprivano il
basolato.
Ponti
Poco sappiamo del canale che sostituiva, nelle piante di fine Ottocento, un decumano meridionale,
se non che il suo tracciato perfettamente rettilineo lo fa ritenere artificiale: doveva mettere in
comunicazione il fiume ad occidente della città con l'altro canale artificiale che seguiva all'esterno
il tratto sud-est delle mura di cinta; questo sistema di collegamento creava una razionaIe rete di
trasporto acqueo oltre a quello stradale, e il canale urbano doveva essere importante se ad esso
andarono le cure di due liberti che costruirono parti delle gradinata che portava all'acqua e lungo il
suo tracciato nei pressi della porta urbica, come mostra la pianta del Bertolini, fu collocata
l'importante base onoraria di Caius Arrius Antoninus.
È noto che il trasporto acqueo in epoca romana era meno costoso di quello via terra e, dove si
poteva, veniva privilegiato. Il collegamento di Concordia con il suo porto sul Mare Adriatico,
Caorle, il Portus Reatinum, doveva avvenire attraverso un corso d' acqua, lo stesso Lemene o un
altro canale artificiale, e una strada che affiancandolo permettesse un trasporto misto, di cavalli
che trascinavano i barconi, necessario per risalire la corrente.
Tanti corsi d'acqua che circondavano Concordia, e in essa entravano, rendevano necessaria la
presenza di ponti; di quelli urbani in corrispondenza dei cardini che valicavano il canale interno, sei
in tutto, non si è trovata traccia. Una grossa palizzata di fondazione, vista a più riprese entro la
curva del Lemene a nord della città, è labile indizio di un pilone, così alcuni massi squadrati
depositati sulla riva potrebbero aver fatto parte di un ponte (ma anche di un altro monumento).
L'unica struttura certa è ancora soltanto quella lungo l'odierna via S. Pietro, presso l'ingresso
occidentale della città: il ponte, a tre arcate, di cui la maggiore ampia m 7,43, e minori m 1,80, era
costruito in blocchi di trachite che rivestivano un nucleo in frammenti di pietra e mattoni cementati
con calce, senza legante, tenuti insieme da robuste grappe in piombo, e i piloni poggiavano su fitte
palificate. L'alzato doveva essere in blocchi di pietra squadrati: rimangono le spallette in pietra
d'Aurisina, ora ricostruite a parte, che recano su entrambi i lati l'iscrizione M(ANIS) ACILIUS
M(A)N(I) L(IBERTUS) EUDAMUS IIIIII VIR TESTAMENTO FIERl IUSSIT. I caratteri dell'iscrizione
e la diversità del materiale usato attribuiscono il rifacimento del ponte o solo la costruzione delle
spallette (non necessariamente i ponti romani le avevano) all'epoca giulio-claudia, mentre la
costruzione originaria dovrà essere avvenuta all'epoca augustea.
Poiché tuttavia la via Annia, e ancor prima la Postumia, dovevano valicare il fiume anche
precedentemente all'assetto monumentale dato al ponte, si deve pensare ad una prima struttura
modesta in legno o con alzato in mattoni che naturalmente, assunta Concordia alla dignità di città
romana, non era più accettabile. All'opera di abbellimento dell'età giulio-claudia va anche attribuita
la statua di divinità femminile che il Bertolini dice fosse collocata su un grande basamento
quadrangolare a nord del ponte e di cui è rimasta la testa diademata in marmo greco, conservata
al Museo di Portogruaro.
L'acquedotto
Il termine aqua presente nell'epigrafe di Cicrius testimonia l'esistenza di un acquedotto, che
doveva avere castella, serbatoi, e cocleas (anche questo termine compare nell'iscrizione), facenti
parte della macchina idraulica descritta da Vitruvio che serviva al sollevamento delle acque. A
queste cisterne, poste nei punti di distribuzione più opportuni, ad esempio nei luoghi con
pendenze, si dovevano allacciare le condutture principali in piombo e le fistulae, le tubature minori
che portavano l'acqua alle case. Una tubatura del diametro di 30 cm è stata trovata in Via dei
Pozzi Romani, lungo il kardo maximus, mentre in luoghi diversi della città sono state trovate
alcune fistulae, di cui una reca il nome Eutiches, il servo pubblico (appartenente alla città), che la
fabbricò, in un'altra vi è la sigla p(ublicum) c(oloniae) C(oncordiae), che indica la proprietà
cittadina dell'acquedotto, anche se i privati cittadini potevano sponsorizzarne, come fece Cicrius, il
restauro. Non dovevano mancare le fontane pubbliche poste agli angoli delle strade e, comodità
riservata agli abbienti, l'acqua corrente in casa fornita dalle fistulae e da rubinetti in bronzo.
Le fognature
A Concordia, come in tutte le città romane, le strade servivano a incanalare le acque reflue e gli
scarichi delle latrine ed a scaricarle in alcune aperture poste a intervalli sotto ai marciapiedi.
Nelle case private vi erano fognature (ne sono state rinvenute numerose) a pareti di tegole,
ricoperte di mattoni o tegole in piano, che portavano gli scarichi nelle cloache che correvano sotto
le strade.
Il più grande collettore correva al di sotto del decumanus maximus e fu verificato in vari punti
dell'odierna via S. Pietro; prima della grande porta urbica orientale deviava decisamente a sud est,
passava in un varco sotto le mura e finiva in un canale presso i magazzini. Costruito in mattoni
con copertura a volta, aveva un 'altezza, m 1,60, tale da permettere il passaggio di un uomo
piegato per la periodica pulizia, che era affidata in appalto o costituiva uno dei lavori forzati dei
condannati. Tale struttura funzionò anche in epoca tardo antica, senza volta e con l'aggiunta di
una parte terminale di pareti in legno tenute da pali verticali, resasi necessaria forse per
l'interramento di parte del canale.
Un'altra conduttura strutturalmente uguale, ma di minori dimensioni, è stata trovata sotto il
decumano a nord di quello maximus, poiché non vi sono segni di manomissione nella superficie
stradale, e in particolare la cloaca più grande passa attraverso le mura di cinta senza traccia di
demolizioni, il sistema di "sottoservizi" dovette essere realizzato nel corso della sistemazione
urbanistica iniziale.
Il foro
L'incertezza tuttora esistente su alcuni aspetti della griglia stradale dell'impianto urbano di Iulia
Concordia non sembra tanto incidere sulla localizzazione del Foro, quanto sulla sua precisa
relazione con essa, giacche i dubbi sulle dimensioni di esso sono ancora notevoli. Lo stato
dell'area, tra l'altro ora quasi completamente occupato da moderne costruzioni, doveva essere già
assai compromesso al tempo dello Stringhetta e del Bertolini, che pure ce ne hanno lasciato una
sorta di pianta. Della descrizione dei resti individuati da quest'ultimo, di recente si è anche cercato
di darne una traduzione grafica, più che altro tesa a definirne le proporzioni e a collocarlo più
esattamente nel tessuto urbano sia attuale sia antico. Come è ben noto lo spazio urbano di età
romana, a stare almeno alle piante del Bertolini e dello Stringhetta, era suddiviso in due parti, l'una
posta a sud, l'altra a nord del decumano massimo, ognuna costituita per il verso nord-sud da
quattro grandi isolati serviti da sei percorsi stradali, e in senso est-ovest da sette isolati serviti da
tre percorsi stradali, che sul Iato nord si riducono di numero per la particolare disposizione della
cinta muraria. Le due parti, pur simmetriche dimensionalmente, hanno un'impaginazione
urbanistica così diversa, da suggerire anche un' altra lettura della pianta concordiese, come se ad
una parte di forma rettangolare fosse stata aggiunta una parte settentrionale di forma
subtrapezoidale. Ed ancora mentre la parte a nord del decumano nella sua stesura appare
assolutamente compatta, un largo canale, che sta al posto del secondo decumano da sud, e che
si può in un certo senso intendere come l'elemento generatore dell'intera pianta, divideva a metà
in senso est-ovest la parte meridionale della città. Esattamente a metà della fascia di terreno tra
questo e il decumano massimo stava il Foro, occupando la banda intermedia degli isolati,
lasciando liberi cioè ad est e ad ovest tre isolati per parte. Lo spazio che accolse il foro di
Concordia si apriva dunque in uno dei punti più elevati dell'intero abitato, sul lato sud del
decumano massimo, oggi via S. Pietro, là dove questo incontrava il cardo massimo, cioè sui due
assi viari su cui si aprivano ad est e ad ovest, a nord ed a sud le due principali porte della città.
Quest'area, che possiamo supporre quasi al centro anche dell'antico abitato protostorico,
crediamo sia stata una delle aree da cui prese le mosse l'organizzazione del nuovo spazio
insediativo, diventando il cuore di tutte quelle attività, politiche, amministrative, religiose, di
spettacolo e commerciali, che dobbiamo supporre in un centro romanizzato e proprio per questo
dovette subire nel tempo e nello spazio tutte quelle trasformazioni, che i cambiamenti politici e
culturali volta a volta richiesero. Trasformazioni che non è facile cogliere in un sito così martoriato
dalle continue spoliazioni, come fu Concordia. Di una prima fase gli scavi hanno tuttavia mostrato
alcuni interessanti particolari da riportare a due diversi momenti di sistemazione. Il primo fu forse
quello con delimitazione alberata, cui seguì il secondo, quando l'area poté essere caratterizzata
da un porticato ligneo sostenuto da semplici pilastrini, come la Da Villa ha già più volte
prospettato. Con tale fase sembrano accordarsi aree circolari e pilastrini di mattoni ivi rinvenuti,
supponendo uno spazio in origine «delimitato da alberi, poi da pali che sostenevano i tramezzi fatti
di legno, lino o pelle, a chiusura dello spazio consacrato». Ma forse oggi se ne possono capire
meglio caratteri e funzioni. Difficile sfuggire al suggestivo richiamo di situazioni quali quella di
Bantia, a cui possiamo oggi aggiungere Lavello, alle indicazioni di Varrone sugli alberi posti a
delimitazione del templum augurale, di Festo e Servio sulla sostituzione dei pali agli alberi,
soprattutto per quella presenza di coppie di pilastrini e di fosse rinvenute sul lato breve indagato,
apparentemente scollegate l'una dall'altra. Di quattro di esse la Da Villa precisa che erano
allineate ed equidistanti m. 2,80 l'una dall'altra.
Svuotate, si è visto che contenevano solo argilla con un po' di ghiaino e sul fondo ancora dei
ciottoli. Buche per alberi o pozzetti per altro? Due serie di tre coppie di pozzetti con pozzi di
maggiori dimensioni sui lati lunghi caratterizzavano i fori di Cosa e Fregelle, dove sui lati corti sono
state messe in luce coppie simili di pozzetti quadrati costruiti con lastre di calcare, disposti a
distanza regolare, simmetrici ad una uguale serie di pozzetti sull'altro lato corto del foro. Tale
situazione potrebbe essere una spia dell'esistenza nell'insediamento preromano di uno spazio,
sede di celebrazioni sacre e politiche, ritualmente consacrato o essere anche, secondo
l'interpretazione suggerita per Cosa e Fregelle, «buchi per i pali utilizzati durante le votazioni per
distinguere le varie tribù in cui si divideva il corpo cittadino della colonia». A quei pali erano
probabilmente legate le corde, che, tirate su tutta la lunghezza della piazza, servivano a creare
quei recinti, per tal ragione detti saepta, dove gli abitanti, solitamente divisi in centurie, si recavano
per esercitare il loro potere di voto. Recinti e spazi ricavati secondo le norme dell'antico diritto
augurale. Contribuiscono ad aumentare la suggestione quelle file di pietre scure, che, in
allineamento con i pilastrini, scandiscono l'acciottolato, disegnano spazi a corridoio in cui, quasi al
termine e quasi al centro di ognuno di essi, compare una lacuna circolare. L'idea che questa
particolare sistemazione dello spazio forense concordiese sia modellato sul diribitorium vale a dire
il luogo dello spoglio dei voti delle tribù o delle curie, e sui saepta dei più antichi fori di alcune
colonie romane acquista un maggior sapore di verità se ci si sofferma sulla misura della parte
centrale di quello che sarà il foro monumentale concordiese. Se i calcoli finora fatti sono giusti
esso misurava m. 90 x 40 pari a 300 x 133 piedi, vicinissimo cioè alla misura del foro di Cosa e dei
fori più antichi: il foro di Fregelle va forse datato al periodo della rifondazione del 31312, quello di
Cosa al momento della fondazione della colonia nel 273, date molto alte per Iulia Concordia
colonia, ma non forse per il polismation che l'ha preceduta e che certo doveva aver risentito di ciò
che accadeva in quel tempo nella Venetia orientale. Un modello di spazio comune similmente
organizzato, con una connotazione sacrale così forte da conservarlo, come la Da Villa ha
supposto, anche nella successiva monumentalizzazione del Foro, che fino a qualche tempo fa si
poteva proporre solo come suggestiva ipotesi, è oggi divenuta una più sensata possibilità ad
esempio alla luce dell'auguraculum atestino, ma anche alla luce di quanto si è visto per il foro di
Oderzo, che sembra sia databile ad un periodo anteriore alla lex Pompeia dell'89 e per quello di
Altino, di cui le prime sistemazioni forensi si datano agli inizi del I secolo a.C se non addirittura alla
fine del II. Una possibilità, che però non ha mai indotto gli storici a far entrare Iulia Concordia nel
quadro delle colonie latine fittizie, identificate pur senza alcun dato maggiormente probante con i
centri di Tarvisium, Altinum e Opitergium.
Se l'ipotesi fatta per il foro concordiese fosse giusta, ne deriverebbe come conseguenza
immediata la possibilità di un assetto politico, che prevedeva la convocazione di comizi elettorali,
ciò che starebbe a indicare una comunità già inquadrata tra quelle di diritto romano. Tra quelle
cioè di cui sappiamo che furono sollecitate ad eleggere quattuorviri e programmare elezioni. Ma
potrebbe anche trattarsi di uno di quei casi di autoromanizzazione, a cui oggi gli studiosi pensano
sempre più spesso, e che si giustifica tenendo conto del fatto che vi è ancora discussione tra gli
studiosi sulle procedure di concessione dello ius Latii, se sia stato concesso cioè solo ad abitanti
di insediamenti che mostravano di aver raggiunto un certo grado di civiltà o se sia stato concesso
agli abitanti di qualsiasi insediamento.
Sicuramente dopo questa fase l'area fu rimaneggiata, forse anche più volte e certo la fase dei
pozzetti e dei pilastrini difficilmente può conciliarsi con le strutture murarie suggerite dai due plinti
di base ornati con le maschere di Medusa e Giove Ammone, che la letteratura archeologica ha
sempre supposto come proveniente dall'area del Foro. Questi dovettero appartenere alla fase
della piena monumentalizzazione, che i dati in nostro possesso fanno datare all'età
tardoaugustea-tiberiana. È ipotizzabile che allora il foro di Concordia abbia seguìto il modello che
si era andato affermando a Roma in quello stesso periodo con edifici collocati secondo regole di
simmetria ed assialità, con portici che dovevano delimitare l'area centrale, divenendo un
organismo chiuso in se stesso, volto ad ospitare gli edifici fondamentali della città romana, il
tempio, la curia e la basilica. Il basamento di colonna con maschera di Medusa, conservato in
museo, e il rilievo con maschera di Giove Ammone murato in un angolo del palazzo Dal Moro, che
decorarono con molta probabilità un edificio colonnato, suggeriscono strutture murarie di grande
imponenza. Essi sono infatti elementi propri della decorazione dei fori, inizialmente dettati dal
nuovo indirizzo della propaganda augustea e riproposti poi in tempi a questa successivi come
simboli di particolari aspetti dell'ideologia principesca, come vediamo nei fori di età imperiale di
Zara, Aquileia, ma anche di Celje e di Colonia Ulpia Oecensium.
Ognuno di questi elementi, qualunque fosse il valore simbolico oggi suggerito per loro dagli
studiosi, esaltava infatti la politica imperiale, che abbracciava ormai Oriente ed Occidente ed
ammoniva della forza e della terribilità di essa.
Si sarebbe ripresentata dunque anche a Concordia quell'alternanza tra teste di Giove Ammone e
teste della Gorgone Medusa caratteristica dei Fori romani, e che, a stare ai caratteri stilistici
dell'uno come dell'altro plinto, testimonia probabilmente che la ristrutturazione in senso
monumentale del Foro di Concordia avvenne nell'epoca giulio-claudia, se non specificamente
augustea, legata dunque a momenti particolari della storia politica di questo periodo. Un riflesso di
essa ci è conservato dalle iscrizioni in onore dell'insigne concordiese T. Trebellenus Rufus, forse
membro di seconda generazione di una delle più importanti famiglie di coloni concordiesi. Egli fu
senatore illustre e sotto Augusto e Tiberio ricoprì importanti incarichi dalla questura urbana, cioè il
primo grado del cursus honorum, fino al delicatissimo impegno in Tracia, dove in un primo
momento gli fu affidata la tutela dei figli di Cotys, succeduto al padre Rhoemetalces, re di Tracia e
poi il governo di parte della Tracia stessa, che viveva un momento di particolari turbolenze. Era il
19 d.C. quando tali delicati compiti gli furono assegnati da quello stesso Tiberio, che,
sospettandolo di partecipazione alla congiura di Seiano, nel 35 d.C. lo costringerà al suicidio. Due
delle tre iscrizioni in suo onore, quella ritrovata nella risega di fondazione del Campanile di
Portogruar0 e quella nota fin dal 1574, sarebbero secondo gli studiosi anteriori al 19 d.C. e
potrebbero quindi datarsi ancora all'ultimo periodo augusteo. L' Alföldi ha ipotizzato l che il grande
piedistallo sul quale era stata apposta la seconda epigrafe dedicata dalla plebs e dunque
monumento ufficiale, possa aver portato una sua statua equestre probabilmente eretta nel i Foro
concordiese. L'ipotesi, già altamente suggestiva per il lustro che il personaggio aveva dato alla
città e la contemporaneità e la contiguità del personaggio con gli imperatori Augusto e Tiberio,
diventa tanto più credibile se pensiamo che egli non sia stato del tutto estraneo alla nuova
sistemazione augustea dell'area forense. Dico nuova perché ci sembra ormai certo che non sia
stata questa né la prima né l'ultima fase del foro concordiese. Nessuno degli edifici propri del foro
è stato finora individuato, ma della loro esistenza restano testimonianze epigrafiche, se poteva
essere nel foro il tempio di Minerva, di cui Publio Minnio Salvio, figlio di Publio della tribù Claudia,
nel II secolo d.C. volle assicurare con lascito testamentario la cura delle strade di accesso, se era
nel foro il tempio di Giove in cui, come sappiamo dal Codice latino del XV secolo di Cividale del
Friuli, nel 303, quando furono martirizzati i 72 cristiani concordiesi, Eufemio, prefetto inviato da
Massimiliano e Diocleziano, fece i necessari sacrifici di rito e dove, secondo gli ordini impartiti, gli
abitanti di Concordia dovettero recarsi a immolare le proprie vittime.
Il Teatro
Chi entrava a Concordia dalla porta ovest della città, fatti pochi passi, si trovava sulla sinistra il
grande edificio del teatro. Vi si arrivava anche dalla porta Nord, oggi rimessa in luce, procedendo
lungo uno dei cardini della città. Del teatro si sono messi in luce la metà sinistra della cavea e la
gran parte dell' orchestra. Si sono potuti inoltre individuare anche i resti della parte sottostante la
scena con quello che doveva essere il piano del l'iposcenio, così come la chiusura dell'edificio
nella parte dietro la scena affacciata su una strada, che andava in direzione nord-sud, quindi un
cardine secondario. Al di là di questa strada, vaIe a dire sul lato orientale di essa si sono rinvenuti
numerosi resti murari, ancora in corso di scavo, che dovrebbero forse essere messi in relazione
con la grande fabbrica teatrale. In attesa di completarne lo scavo, i dati raccolti da questi scavi
insieme con le piante disegnate dallo Stringhetta e dal Bertolini, permettono di avere un'idea di
quello che era il teatro concordiese. Se ne è anzi elaborata una prima ipotesi grafica di
dimensionamento. Si è valutato infatti che il teatro, nel senso della larghezza misurasse circa 80
metri, mentre nel senso della profondità, tra fronte scena e muro esterno doveva essere di circa
m. 200. L'ima cavea era costruita su un largo riempimento in scapoli di pietra, da cui anche
partivano i muri radiali, che sostenevano la media e la summa cavea. Un ambulacro, in cui si sono
anche riconosciute le impronte del piano pavimentale, correva tra ima cavea ed orchestra,
aprendosi al centro per dar luogo ad un percorso, probabilmente a gradini nella parte superiore,
che divideva in due metà la cavea. Sul lato settentrionale si è quindi messo in luce ciò che doveva
essere il muro esterno del teatro con il cavo della grande cloaca descritta dal Bertolini.
Dell'orchestra si è rinvenuto invece il piano di sottofondazione, costituito da frammenti di mattoni
ben connessi, delimitati dai resti di una sottile muratura. A sud della fossa dell'iposcenio, i tagli
riconosciuti sul terreno fanno supporre che la scena fosse affiancata, almeno su questo lato, da
una basilica o "foyer". Come si è detto delimitava la zona postscenica verso la strada una fascia
lunga m. 000, coperta da una preparazione in scaglie che doveva originariamente chiudersi con
un muro fronte strada, e aprirsi su questa con dei larghi accessi mediani. Inizia da qui il lato
misterioso del teatro concordiese, poiché stando ai disegni dello Stringhetta e del Bertolini, al
teatro era associato un grande edificio, che nella descrizione che pure se ne è fatta, arrivava fino
al cardo massimo e racchiudeva una serie di vani accessibili dall'interno e dalla strada.
Gli scavi fino ad oggi condotti hanno confermato l'esistenza di strutture murarie, senza, aver
ancora permesso di delineare con precisione la forma dell'edificio stesso. I dati permettono però di
ipotizzare un edificio a più lati, con area centrale scoperta con pozzo o pozzi centrali, e quindi una
struttura probabilmente porticata del tipo noto da altri teatri e ben descritto da Vitruvio come un
quadriportico necessario al teatro per riparare gli spettatori in caso di intemperie ma anche utile
alla città per ricoverarvi generi di prima necessità e legname in caso di assedio. Se sulle linee
generali del teatro non si può per ora dire nulla più di questo, sono invece emersi alcuni particolari
strutturali interessanti, come il grande zatterone ligneo su cui fondava un tratto del muro della
scena, ma anche dati relativi all'apparato decorativo sia della scena sia delle restanti parti del
teatro. Della scena restano alcune lastre con decorazione a girali d'acanto, di cui una riutilizzata
allorché Lucius Minicius nel restaurarla curò che l'opera rimanesse legata al suo nome.
Frammenti di colonne, di capitelli testimoniano che la scena doveva avere un ricco apparato
decorativo. Ne mancavano presenze statuarie. Una base con l'attacco di una gamba di fanciullo o
di giovane è stata rinvenuta nell'area della cavea, mentre un frammento di una bella testa, forse di
Eros, è emersa tra i materiali messi in luce nello strato di distruzione nell'area dell'iposcenio, l'una
e l'altra sfuggite all'attenzione dei cavatori di pietre, che, probabilmente già fin dal IV secolo d.C.
presero a disfare quell'edificio, che doveva essere stato uno dei punti monumentali più rilevanti
della città, e che non si fermarono se non quando l'attento impegno del Bertolini riuscì a
convincere locali e enti statali che l'antica Iulia Concordia era una città da salvare. Né era sfuggito
al Bertolini che nella storia dell'edificio si inserivano momenti storici diversi da quelli dell'antico
teatro. Nella sua attenta descrizione dà infatti notizia di aree di colore rossastro, che egli suppose
fossero resti di fornaci per cottura di fittili.
Nella realtà la storia del teatro di Concordia si inscrive nella storia del precedente insediamento e
in quella delle epoche successive, intervallandosi le varie fasi di vita di questa zona l'una accanto
all'altra in un incredibile quanto suggestivo intreccio. Così sul terreno biancastri materiali lapidei o
scure lingue di terreno rimosso materializzano la forma teatrale accanto ad intarsi di colore
rossiccio che ora disegnano focolari, ora piani di capanne, ora buche di vari depositi a
documentare quanto sia stato profondo e difficile il succedersi dell'uno sull'altro. Là dove infatti i
romani non ebbero bisogno di incidere il terreno per tracciare le profonde fondazioni dell'edificio,
restavano gli strati dell'antico abitato veneto, in parte purtroppo decapato, ma non fino al punto di
annullare ogni traccia della vita passata.
Tanto che, verso sud, là dove terminava l'iposcenio e dove si è supposto che fosse la basilica, là
dove cioè non era stato necessario scendere in profondità asportando gli strati più antichi, si è
potuto rimettere in luce parte di un piano di capanna, che ha dato modo di avere un'idea di quello
che poteva essere un angolo di una abitazione di chi aveva preceduto i Romani nell'insediamento
di queste terre. È ricca di tali momenti palinsestici non solo l'area della cavea e della scena, ma
anche quella dietro la scena del teatro, ove si è scoperta l'esistenza di un'ampia area artigianale e
una serie di grandi e piccole fosse, che hanno dato una grande quantità di materiali fittili e ossei,
utili a ricostruire molti aspetti della vita di questa comunità. Né sono meno importanti le tracce di
ciò che seguì la distruzione del teatro, con altrettanti suggestivi scorci, da una grande fossa per
cavare argilla, evidentemente legata agli ultimi abitanti del luogo, che continuavano a produrre per
se le proprie stoviglie e che abbandonandola la riempirono di quanto contemporaneamente
scartavano dei materiali lapidei, alla fornace ben costruita, attorno alla quale le scorie del
materiale in essa cotto, sono la i migliore testimonianza, che la fine dell'edificio teatrale non era
coinciso con l'abbandono dell'area. Né meno rilevante è quanto si è andato capendo della
posizione del teatro entro la sistemazione urbanistica della nuova colonia. La posizione scelta per
la costruzione del teatro, su una delle zone più alte dell'area, accanto al foro, ma nello stesso
tempo vicino alla cinta muraria e tra due porte urbane, risponde infatti perfettamente a quello che
era un modello urbano, attestato in numerose altre città dell'ltalia settentrionale.
Essa teneva indubbiamente presente le necessità legate alla funzione politica e sociale che il
teatro rivestì, a partire soprattutto dall'età augustea, nella città romana. Le vicine porte
permettevano infatti alla folla di spettatori che veniva dal territorio di defluire rapidamente. Allo
stesso tempo era importante la sua vicinanza a quello che doveva essere il centro politico ed
economico della città.
I Complessi Termali
In Concordia sono stati rinvenuti due complessi termali, l'uno pubblico e l'altro privato, costruiti
entrambi verso la fine del ll sec., quando la città risollevatasi da un periodo di difficoltà conobbe
nuovamente il benessere. Entrambi gli edifici sono situati presso il confine nord orientale delle
mura di cinta, hanno analoga tecnica costruttiva ed orientamento degli ambienti, e il confronto fatto
sul calidarium, l'unica sala rimasta delle terme private, mostra la stessa pianta degli ambienti, sia
pure con dimensioni diverse.
Purtroppo la lacunosità dei ritrovamenti non permette di ricostruire la planimetria completa degli
edifici e quindi il percorso alloro interno.
Terme pubbliche
Furono costruite presso l'angolo nord orientale della città demolendo in parte il tratto settentrionale
delle mura di cinta; del complesso, assai ampio rimangono alcuni ambienti tra i quali sono
distinguibili il tepidarium e il calidarium. Quest'ultimo era la sala più ampia e riccamente decorata,
come mostrano i numerosissimi resti di affresco dipinto anche con figure umane, differenziato a
seconda della zona: temi architettonici e paesaggistici alle pareti della sala, atleti a figure
abbastanza grandi nell'abside.
Fasce di stucco nella sala, in marmo nell'abside, con motivo ad ovuli, decoravano il cornicione del
soffitto che aveva la volta a botte; di essa sono rimasti alcuni frammenti di stucco con strigilature
che garantivano lo scorrimento dell'acqua provocata dai vapori. L'abside, anch'essa con volta
probabilmente dotata di un'apertura circolare che costituiva un occhio di luce per tutto l'ambiente,
chiudeva ad oriente la sala; doveva essere la zona più decorata, da essa infatti proviene anche un
frammento di mosaico parietale a piccolissime tessere con resto di un 'iscrizione ...OME./...MAL...;
al centro dell'abside dotata di ipocausto (sono rimaste la fondazione in cocciopesto e i pilastrini
fatti di mattonelle quadrangolari che garantivano, creando un 'intercapedine, il passaggio dell'aria
calda) rimane un grosso blocco in pietra trachitica che serviva a sostenere il labrum, il grande
bacile in marmo in cui gli utenti si tergevano le membra dal sudore prima di calarsi nella vasca
quadrangolare, l'alveus.
Questa era situata all'estremità opposta dell'abside, lungo l'altro lato corto della sala: l'originario
rivestimento in marmo è andato perduto, ma è rimasto il sottofondo in mattoni posti in piano a
circa 1,50 m di profondità dal pavimento del calidarium. Presso il margine settentrionale
dell'alveus fu ritrovato un grosso frammento in calcestruzzo della volta crollata e un resto di
affresco che propone su fondo bianco un motivo a tendaggio. La sala era pavimentata in lastre
rettangolari di marmo greco ve nato di verde, e così la zona absidale che ripropone lo stesso
marmo anche all'esterno con l'intonaco affrescato (il nostro marmorino). Parecchie tegulae
mammatae, tegole con una protuberanza centrale, rinvenute nell'area, indicano la creazione di
un'intercapedine anche nei muri così da permettere un migliore riscaldamento. Non si è trovata
traccia del forno che lo garantiva; invece una conduttura in piombo schiacciata, trovata presso
l'abside, è traccia del sistema di rifornimento dell'acqua del labrum. Un saggio di scavo, eseguito
alla profondità di 80 cm dal pavimento della sala, ha dato uno scarico di ceramica a pareti sottili
databili dal I alla prima metà del Il sec. d.C.; rappresentano il termine post quem della costruzione
dell'edificio che, situato in una zona di bassura e con poderose strutture a volta dovette dotarsi di
grosse fondazioni in pali di legno. Un gruzzolo di monete del III sec. d.C. rinvenuto nello strato di
abbandono di un'area adiacente, in particolare antoniniani di Gallieno databili tra 260 e 268, danno
il limite cronologico non ampio dell'uso di questo impianto termale.
La sala affiancata, di minori dimensioni, era ugualmente absidata ad oriente, dotata di ipocausto
costruito nella solita tecnica, su un pavimento però in mattoni; purtroppo il pavimento della sala ─
in mosaico o marmo ─ è andato del tutto perduto; in essa è identificabile il tepidarium, o anche
l'apodyterium, spogliatoio con volta a botte; in entrambi i casi dovevano esserci sedili in marmo
lungo le pareti e mensole per appoggiarvi i vestiti.
All'esterno del calidarium una lunga fondazione con lesene sembra indicare un portico che forse
fungeva da palestra; qui venne rinvenuto uno strigile in bronzo, strumento che serviva per togliere
il sudore e la sabbia dalle membra degli atleti. Altri ambienti pavimentati a mosaico facevano parte
del percorso termale, la loro frammentarietà però non permette ipotesi sulla loro destinazione; i
motivi geometrici di cui sono ornati confermano la datazione del complesso; interessante un
pavimento con semina di crocette nere su fondo bianco.
Le Terme Private
Mentre è nota la presenza di domus anche di notevoli dimensioni all'interno delle mura della
colonia, non sono stati ancora indagati, a causa della parzialità dell'estensione dello scavo, gli
eventuali locali destinati a bagni privati ad esse relativi. Una buona distribuzione delle risorse
idriche era comunque assicurata, oltre che dalla vicinanza dei due corsi d'acqua che lambivano le
mura orientali e occidentali della colonia, anche da canalizzazioni artificiali, la più importante delle
quali è quella che attraversava la città nel settore meridionale, mettendo in comunicazione i due
corsi d'acqua. Il rifornimento privato era assicurato, oltre che da pozzi rinvenuti in diverse zone
della città, anche dalla rete di condutture in piombo, le fistulae aquariae, che avevano lo scopo di
distribuire l'acqua dalle tubazioni pubbliche agli impianti privati.
Un fortunato rinvenimento presso l'area dell'attuale piazzale della Cattedrale ha permesso
l'indagine, seppure parziale, di un ambiente relativo ad un impianto termale privato.
Il sito, che in antico si collocava appena all'interno delle mura, presenta una sequenza stratigrafica
che si estende dal periodo preromano fino a tutto il periodo coloniale, al quale appartiene una fitta
sovrapposizione di strutture. Sono infatti state individuate almeno tre fasi edilizie di epoca romana,
tutte riferibili ad abitazioni private. Lo scavo ha messo in evidenza il continuo riutilizzo del
materiale da costruzione di fase in fase, pratica che ha in gran parte compromesso lo stato delle
strutture.
Quelle conservate sono comunque sufficienti per attribuire alla fase più antica un piccolo atrium a
quattro colonne in laterizi, in parte intonacate di rosso, intorno al quale dovevano distribuirsi gli altri
ambienti: l'impianto appartiene ai primi tempi dell'esistenza della colonia, spingendosi non oltre la
fine del I sec. a.C. e i primi anni del I d.C., come dimostrano i materiali recuperati negli strati
coIitestuali e l' orientamento dei muri che segue l'andamento delle mura e del reticolo stradale.
Una prima ristrutturazione generale, con un rialzo dei livelli pavimentali, si verificò nel corso del I
sec. d.C., durante la quale fu obliterato l'atrium ma mantenuto il medesimo orientamento per i
nuovi ambienti; i muri sono in mattoni legati a solida malta e i pavimenti in cubetti di cotto e a
mosaico in tessere marmoree bianco nere.
La seconda ristrutturazione previde un ulteriore rialzo dei livelli pavimentali; i muri di questa fase
sono realizzati con una tecnica più povera, pezzame di tegole legate in argilla, riutilizzando
frammenti di mattone e degli elementi delle colonne di prima fase legate da malta più povera.
Per converso, l'alzato dei muri era decorato riccamente da affreschi, alcuni dei quali, come risulta
dai frammenti raccolti, decorati a motivi floreali. Le strutture presentano i segni di un 'intensa opera
di spoglio sia dei pavimenti che dei muri. Fa in parte eccezione un ambiente di circa 16 metri
quadrati munito, su uno dei lato corti, quello orientale, di abside a curva irregolare, dilatata in
lunghezza. La struttura si estende oltre i limiti di scavo, ma è comunque ben riconoscibile. Il
pavimento all'interno dell'abside era in mosaico composto da piccole tessere, di cui si conserva la
sola impronta. Nel resto della sala, cinquanta centimetri più in basso, si notano su un duro
cocciopesto le tracce di pilastrini distribuiti regolarmente che doveva sostenere un pavimento
superiore: se ne riconoscono, disposte su cinque file, ventotto. Il sistema corrisponde ad un
ambiente fornito di ipocausto con suspensura,accessorio relativo alla stanza per il bagno caldo
negli impianti termali romani: attraverso l'intercapedine veniva immessa dell'aria riscaldata da un
attiguo forno; in taluni casi a riscaldare ulteriormente la stanza contribuivano delle intercapedini
all'interno delle pareti attraverso le quali filtrava la stessa aria riscaldata. Purtroppo l'impianto di
riscaldamento, come pure gli altri ambienti che tradizionalmente completavano la serie di stanze
dei balnea romani, non sono riconoscibili, collocandosi probabilmente oltre i limiti dell'area di
indagine. Intorno alla struttura resta comunque un complesso sistema di canalette per la
distribuzione delle acque usate nell'impianto, il cui stato di conservazione non permette però di
definirne il sistema distributivo.
Mentre risulta difficile datare l'epoca di realizzazione dell'ambiente absidato, la fase a cui
appartiene sembra spingersi fino alla fine del III sec. d.C.: lo suggeriscono i materiali contestuali e
la tecnica edilizia.
L'ininterrotta presenza abitativa in quest'area si deve alla sua favorevole collocazione urbanistica.
Gli ambienti messi in luce si trovano infatti in prossimità del passaggio del decumano massimo
attraverso le mura orientali, alle quali la domus doveva addossarsi. Al di sotto della strada una
cloaca assicurava lo smaltimento delle acque oltre la città, nella quale confluivano anche quelle
provenienti dalle abitazioni private. Immediatamente all'esterno delle mura trovavano inoltre sede
importanti infrastrutture commerciali.
Le mura, com'è noto, si collocano ai limiti di un dosso naturale su cui venne organizzato il reticolo
dei quartieri urbani; il dislivello tra la parte alta della città e le zone immediatamente periferiche era
particolarmente accentuato proprio nel settore dove si collocano le strutture descritte, tanto che fu
necessario regolarizzare il terreno in prossimità delle mura con consistenti riporti di materiale: i
ripetuti rialzi dei livelli pavimentali si spiegano con la necessità di ovviare a sfavorevoli condizioni
di umidità e a compensare cedimenti del terreno verso la linea delle mura, di cui rimane traccia nel
collasso e nelle fessurazioni di alcune strutture murarie.
Nel corso del tempo la zona incrementò la sua desiderabilità, con l'aumentare dell'importanza dei
collegamenti orientali della città con Aquileia: la fioritura della città in epoca medio imperiale è
testimoniata dagli arredi particolarmente ricchi di alcune domus, non che nella realizzazione di
strutture pubbliche che aumentavano il prestigio della città, quali le terme che furono realizzate nel
settore nord orientale. È proprio in questo periodo che sono realizzati gli ambienti termali privati
nella domus qui descritta, che partecipa al momento di ricchezza della colonia dotandosi del lusso
di un esclusivo balneum privato.
La fortuna di questo settore della città continuò a crescere nel tempo, determinando a poco a poco
un nuovo polo urbanistico in epoca tardoantica: la centralità dell'area forense dell'antica colonia
diminuì d'importanza a vantaggio dei luoghi dei primi monumenti sepolcrali cristiani,
immediatamente fuori le mura orientali.