POSTFAZIONE di Massimo Ciaravolo

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POSTFAZIONE di Massimo Ciaravolo
POSTFAZIONE
di
Massimo Ciaravolo
Il calcio rubato appare contemporaneamente in Italia,
nella presente edizione, e in Svezia, con il titolo originale
Den stulna fotbollen. Il nucleo centrale del nuovo libro
ripropone pressoché intatti i dieci racconti che Ulf Peter
Hallberg pubblicò nel 1990 all’interno di Fotbollskarnevalen. Italiensk resa (Il carnevale del calcio. Viaggio italiano), scritto con Fredrik Ekelund per raccontare i giorni
euforici e surriscaldati di «Italia Novanta». Questa parte
originaria ricompare però all’interno di una nuova cornice narrativa, con cui forma un nuovo insieme; le vecchie
storie sul calcio e il mondo che rappresentano restano la
parte quantitativamente centrale del testo, ma sono collocate in un altro orizzonte storico, sociale e culturale, in un
altro universo di esperienze personali e, anche, in un
diverso stato d’animo, e dunque portate a noi con un
segno parzialmente mutato. Il racconto sui due svedesi
Anders Ranke e Mikael de Neergaard, che diventano
rispettivamente l’autore e l’editore delle storie sul calcio –
attori protagonisti di un’ennesima variante del «manoscritto ritrovato» – ci porta a riflettere sul senso di tale
recupero di una memoria passata, tanto nella forma del
racconto quanto nei suoi contenuti. Quale tipo di amalgama ottiene il nuovo testo? E perché ritornare con la
memoria a «Italia Novanta»?
Parlando di calcio si deve fare un passo indietro a Fotbollskarnevalen. In quel libro, vissuto e scritto a quattro
mani e corredato da numerose fotografie, le posizioni dei
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due autori di Malmö si invertono poco a poco, in modo
singolare. Ekelund – appassionato da sempre e, come spesso capita, ex giocatore con le scarpe appese al chiodo –
corona con quel viaggio verso il Mondiale un sogno della
sua vita. Lo fa portandosi dietro uno scettico outsider del
pallone, il quale intende descrivere il fenomeno dalla sua
più distaccata prospettiva. Verso la fine del soggiorno italiano Ekelund deve tuttavia confessare la sua delusione e
la fine di un sogno: il calcio odierno, diventato industria
dello spettacolo e grande evento televisivo, provoca una
crisi di rigetto e gli fa perdere la voglia; e addirittura Ekelund lascia l’Italia prima della finale, rifugiandosi con la
propria compagna nei paesi baschi. A Roma, per la finale
tra Germania e Argentina, rimane però Hallberg, ormai
coinvolto nel bene e nel male in questa nuova esperienza
che ha mutato il suo sguardo, portandolo definitivamente
tra la gente e comunicandogli emozioni nuove e forse
decisive. Se questa genesi e questo sviluppo del progetto
sono raccontati in termini espliciti nel diario di Ekelund,
Hallberg preferisce una modalità di rappresentazione più
allusiva, meno documentaristica e per questo, forse, anche
meno immediata e più difficile. Il racconto ambientato a
Bari «La tribuna d’onore del deserto», ad esempio, traveste da racconto poliziesco la genesi, lo sviluppo e le complicazioni del viaggio italiano.
Dal punto di vista tecnico, il calcio di «Italia Novanta» delude Ekelund. Il 5 luglio, qualche giorno prima
della finale da cui fuggirà, egli annota: “Il mio grande
entusiasmo è svanito alla vista delle massicce muraglie
difensive. Quello di Peter è nato sul serio questa estate, ed
è ormai soltanto un ricordo il suo sguardo scettico le volte
che si parlava di calcio. Roger Milla ha sedotto il suo
intelletto di scuola tedesca e ha trascinato anche lui nel
calcio come dramma e spettacolo. Questa estate il calcio
ha perduto molti amanti in tutto il mondo, ma ne ha conquistato almeno uno: Ulf Peter Hallberg.”
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Un altro scrittore che in anni recenti si è occupato di
calcio con un misto di passione e disincanto, entusiasmo e
sguardo critico, è l’uruguayano Eduardo Galeano. Il suo
Splendori e miserie del gioco del calcio, del 1995, è un
saggio piuttosto importante per chi vuole riflettere in
modo non banale su questo sport; il libro fornisce anche
alcuni elementi utili per comprendere la situazione in cui
i colleghi svedesi Ekelund e Hallberg si trovano nel 1990.
Galeano esordisce infatti con una constatazione avvilente
ma realistica: “La storia del calcio è un triste viaggio dal
piacere al dovere. A mano a mano che lo sport si è fatto
industria, è andato perdendo la bellezza che nasce dall’allegria di giocare per giocare. In questo mondo di fine secolo, il calcio professionistico condanna ciò che è inutile, ed
è inutile ciò che non rende. E a nessuno porta guadagno
quella follia che rende l’uomo bambino per un attimo
[...].” Passando in rassegna la storia calcistica scandita
ogni quattro anni dai campionati del mondo, Galeano
ricorda così «Italia Novanta»: “Questo campionato dal
calcio noioso, senza audacia e senza bellezza, registrò la
media gol più bassa della storia dei Mondiali.”
Sembrerebbe dunque che Hallberg abbia scelto il
momento peggiore per avvicinarsi al football e leggere le
sue tracce. Il suo smarrimento, espresso in diversi punti del
libro, si può spiegare anche con questa circostanza. Sempre Galeano offre tuttavia uno spiraglio, che ci permette
di riconoscere uno dei moventi profondi dei racconti di
Hallberg e di capire come l’entusiasmo della partita abbia
potuto contagiare chi, fino a quel momento, ne è rimasto
piuttosto lontano: “Una follia degna di miglior causa?
Un affare volgare e selvaggio? Una fabbrica di inganni
guidata dai suoi padroni? Io sono tra coloro che credono
che il calcio può essere tutto questo, ma è anche molto di
più di questo, come festa degli occhi che lo guardano e
come allegria del corpo che lo gioca. [...] Il calcio professionistico fa tutto il possibile per castrare questa energia di
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felicità, ma lei sopravvive malgrado tutto. E forse per questo capita che il calcio non riesca a smettere di essere
meraviglioso.”
Ekelund e Hallberg non sono stati i primi scrittori scandinavi a cercare di raccontare i Mondiali di calcio, e nemmeno i primi a farlo con un misto di passione ludica e prospettiva critica. Hanno anzi potuto ispirarsi ad altri affermati modelli contemporanei, a partire dal rodato duo norvegese Dag Solstad e Jon Michelet, i quali scrivono un libro
ogni Mondiale a partire ormai da quello del 1982 in Spagna. E anche lo svedese Per Olov Enquist ha dedicato al
Mondiale del Messico del 1986 una parte del suo Två reportage om idrott (Due reportage sullo sport). Dove però
Solstad, Michelet ed Enquist sviluppano la loro analisi
(vuoi più sportiva vuoi più sociale e culturale) piuttosto in
solitudine, distaccati e con un contatto solo sporadico con
l’evento collettivo e reale, la novità del tentativo di Hallberg ed Ekelund del 1990 sta nel vivere l’evento come viaggiatori e tifosi comuni, evitando per lo più la prospettiva
asettica e professionale del giornalista o scrittore in «tribuna
stampa». In particolare Hallberg, l’inesperto di calcio, si
rende conto che l’unico modo per rappresentare questo
sport e fenomeno sociale è mischiarsi agli altri, incontrare il
crogiuolo di genti che per un mese fanno del Mondiale il
centro del mondo, dare spazio alle emozioni e all’empatia
(e infine all’entusiasmo scatenato) senza per questo tradire
l’obiettivo iniziale di uno sguardo critico, laterale, intento a
soffermarsi sul dettaglio lontano dalle luci dei telereporter.
È uno sguardo che attraverso l’umorismo e l’autoironia
smonta la retorica enfatica da «grande evento mediatico», e
che semmai raffigura criticamente la tribuna stampa (le
volte che l’autore riesce a entrarvi di straforo). Ma è anche
una disposizione analitica seria, capace di vedere nel dramma dei novanta minuti (e dei supplementari, e magari dei
rigori) un concentrato della nostra vita con tutti i suoi
momenti decisivi, le vittorie, le sconfitte e le scelte senza
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appello.
Si trovano ne Il calcio rubato, sia nei racconti originari
del 1990 sia nel nuovo racconto cornice, alcuni riferimenti
all’opera e alla vita del filosofo ebreo tedesco Walter Benjamin. I racconti sul calcio di Hallberg ci mostrano una
volontà di esserci con lo sguardo; di cercare di conoscere gli
altri uomini e le nuove città durante il viaggio; di camminare e contaminarsi senza tuttavia perdere la necessaria
distanza critica dell’outsider. Queste sono anche le prerogative del flâneur, il passeggiatore urbano di origine ottocentesca e parigina, figura familiare a Ulf Peter Hallberg per essere stato, proprio tra gli anni Ottanta e Novanta, il maggiore
studioso e traduttore svedese dell’opera di Benjamin, che al
flâneur ha dedicato pagine memorabili. I racconti inclusi in
Fotbollskarnevalen e ripresi ne Il calcio rubato hanno
rappresentato così per il suo autore la prima importante
prova di uno stile saggistico, narrativo e autobiografico ispirato al maestro Benjamin ma anche molto personale. Questo tipo di scrittura ha avuto una conferma importante con
Flanörens blick (in due versioni, 1993 e 1996), uscito per
Iperborea come Lo sguardo del flâneur (2002) – un viaggio europeo e newyorkese che ha il suo fulcro nella Berlino
prima e dopo la caduta del muro, cioè nella città dove Hallberg vive dal 1983. Con un più spiccato carattere autobiografico, lo sguardo del flâneur prosegue nel recente Grand
Tour (2005), accolto con molto favore dalla critica svedese.
Se il viaggio rappresenta una costante nella scrittura di
Hallberg, l’archetipo del viaggio di un nordico in Italia,
assente ne Lo sguardo del flâneur, è importante sia ne Il
calcio rubato sia in Grand Tour. Viaggiare in Italia nel
carnevale del calcio vuol dire però anche incontrare il
mondo; l’evento mediatico del Mondiale del 1990 costituisce un punto focale del villaggio globale e un tale calderone di umanità varia da rendere possibile all’autore
l’incontro ottimale con il mondo di fine Novecento. Se
dunque il calcio tecnicamente espresso da «Italia Novan153
ta» può non giustificare l’interesse del neofita Hallberg, la
nuova manifestazione a livello planetario di questo sport,
tipica dell’era televisiva postmoderna, pone all’autore le
domande e le sfide cui desidera criticamente rispondere.
Il cosmopolita Hallberg comincia misurandosi con il
proprio amor patrio di svedese. I primi tre racconti «Il tempo breve del carnevale», «La notte trionfale dell’uomo di
Granito» e «La città della peste e del dolore» fanno rivivere la fallimentare spedizione della Svezia di Strömberg e
Brolin nel girone di qualificazione di Torino e Genova.
Umorismo, autoironia e sincera sofferenza caratterizzano
qui lo sguardo. I diversi codici culturali dei tifosi svedesi e
brasiliani a Torino; l’incontro dell’io narrante con un
gruppo di tifosi scozzesi; il sovvertimento dell’ordine mentre svedesi e scozzesi fraternizzano per le strade di Genova;
il dolore di un tifoso svedese, un arbitro, dopo il decisivo
2-0 della Scozia: sono solo alcuni esempi di episodi comunemente marginali, che nessuna telecamera o giornalista
sportivo ha potuto né voluto registrare, e che invece i racconti di Hallberg collocano al centro, portandoci alcuni
frammenti diversi e insoliti di una memoria collettiva che
chiamiamo «Italia Novanta». La consolazione a posteriori è che la Svezia sarebbe stata ottima terza al Mondiale
successivo, negli Stati Uniti.
L’incontro tra nazioni e nazionalità può manifestarsi
come commistione semiseria, come sfottò, come rivalità e
tesa contrapposizione nel momento decisivo della partita;
può anche tradursi in scontro fisico tra tifosi, specialmente
nel calcio. I racconti di Hallberg, in modo particolare il
racconto ambientato a Bologna «Avec les diables», ci
riportano alla memoria quei giorni italiani, quando i
mezzi di informazione alimentarono in noi – con qualche
fondamento di realtà e molta costruzione artificiosa – la
fobia dell’hooligan inglese. Tutto doveva funzionare; non
potevamo permetterci di fare brutta figura davanti al
mondo; i teppisti andavano isolati e trattati con il pugno
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di ferro. E così facemmo, esagerando un poco. Ad alimentare la nostra paura c’era anche stata la tragedia dello stadio di Bruxelles di qualche anno prima, è vero; così però
sperimentammo, assieme all’esaltazione per il bel gioco
degli azzurri, anche lo stato di polizia – un’occasionale
ma periodica ricorrenza della società italiana contemporanea, prima e dopo quei Mondiali. Per la verità Hallberg
cerca anche di penetrare attraverso la scrittura in quella
che definisce “l’estetica dell’orrido della cultura hooligan”. Il racconto «Troppo casino» si caratterizza appunto
per l’assunzione del punto di vista del teppista inglese,
dove una sorta di monologo interiore rispecchia quell’offuscamento mentale, quel malessere e quel nichilismo
della cultura giovanile, che pure sono diventati parte integrante dell’odierno mondo del calcio.
Esserci con lo sguardo e con le suole delle scarpe – da
flâneur – vuol dire osservare le città. Le descrizioni di
Torino, Genova, Bologna, Firenze, Napoli e Bari, più o
meno articolate, colpiscono per un’attitudine che fonde
empatia e osservazione critica, e per la capacità – non così
ovvia in un osservatore nordico – di andare oltre il cliché
italiano da cartolina. Le osservazioni di Hallberg, magari
per semplice intuito, leggono abbastanza in profondità
nella nostra «italianità», e a volte ci fanno sentire un po’
nudi – come quando a Bari il perfetto ordine dei Mondiali impone, improvvisamente, di buttare nel cestino
ogni pezzo di carta, anche quello che lo straniero sta ancora utilizzando per i fatti suoi (ne «La tribuna d’onore nel
deserto»). Un simile smascheramento comico delle nostre
nevrosi può solo venire da uno straniero capace di uno
sguardo profondo, affettuoso e al tempo stesso critico.
Tra gli scenari italiani, tre risultano particolarmente
importanti: Torino, Bari e Napoli. A Torino e a Bari furono costruiti per «Italia Novanta» due nuovi stadi pretenziosi – appunto perché si dovevano fare le cose in grande.
Agli occhi di molti italiani si trattava e si tratta invece di
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cattedrali nel deserto e di spreco di denaro pubblico. In
particolare Bari, come ci ricorda Hallberg, diventò un
centro organizzativo dei Mondiali, probabilmente perché
il presidente della Federazione Italiana Gioco Calcio di
allora era barese.
Questi racconti sul calcio riproposti quindici anni
dopo attivano così la nostra memoria storica. Ricordiamo
ad esempio che anche la rivelazione di alcuni abusi affaristici di «Italia Novanta» contribuì, poco dopo il 1990,
allo sgretolamento del corrotto sistema politico e partitico
vigente nel nostro paese, provocando la fine della cosiddetta Prima Repubblica e la nascita della cosiddetta
Seconda Repubblica. L’immagine sarcastica che Hallberg
dà dei “rappresentanti scelti della borghesia italiana” stipati nella tribuna d’onore del nuovo tempio barese, di
coloro che fiutavano i nuovi affari, suggerisce tuttavia al
nostro sguardo retrospettivo non tanto la fine di una
prima repubblica, quanto l’embrione di qualcosa che in
quel periodo prendeva forma nella società italiana dopo i
fasti degli anni Ottanta, un mutamento di costume sociale
che avrebbe fornito il trampolino di lancio a un audace
progetto italiano di ascesa politica. Proprio dalla passione
popolare italiana per il calcio quel progetto traeva la sua
forza, la sua capacità di creare egemonia culturale e politica e di governare il consenso.
Contestualmente stava mutando il gioco del calcio in
sé e per sé: verso l’industria dello spettacolo, il professionismo spinto allo spasimo, la sottomissione di questo sport ai
linguaggi e ai tempi della televisione. Di questa rapida trasformazione avvenuta proprio tra gli anni Ottanta e
Novanta – che il sociologo Pippo Russo ha recentemente
analizzato nel saggio L’invasione dell’Ultracalcio – si
sono accorti gli scrittori menzionati: Enquist, Solstad,
Michelet, Hallberg, Ekelund e Galeano. Solo Galeano
(1995) e Hallberg ne Il calcio rubato (2006) hanno però
potuto avere la più distinta percezione che, se l’ultracalcio
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cominciava a essere in tutto il mondo, in Italia e non
altrove si realizzava uno spregiudicato uso culturale, sociale e politico del calcio, evidentemente reso possibile dal
nostro modo di vivere questo sport.
In tal senso Napoli appare il luogo italiano più importante de Il calcio rubato, il nodo dove si intrecciano
diversi fili del racconto calcistico e, anche, il punto di congiunzione con il racconto cornice che crea la nuova struttura narrativa. È infatti allo stadio San Paolo di Napoli,
durante Inghilterra-Camerun, una delle partite più belle
di quel Mondiale, che il personaggio e narratore del racconto «Il caos» vive un’esperienza rivelatrice per la sua
ricerca del calcio. Assistendo al gioco dei danzanti «leoni» del Camerun, alla possibile e inaudita vittoria africana contro gli inglesi (i quali poi vinceranno grazie alla
loro tenacia ed esperienza), il distaccato outsider è coinvolto nel tifo senza riserve, nell’ebbrezza degli spalti, annullando per un’unica volta lo sguardo al margine e le
riserve della sua ragione. Questa specie di mal d’Africa ha
a che fare con l’incontro-scontro con Napoli, una città al
di fuori delle normali coordinate che turba ed emoziona il
protagonista. Napoli rappresenta infatti anch’essa un’epifania nel racconto, qualcosa di affascinante e crudo che
scatena un affetto istintivo verso le persone e la vita del
nostro paese, ma che allerta anche il senso critico verso il
caos individualistico, l’esibizionismo fragile, la paura di
perdere e l’aggressivo vittimismo che proprio non quadrano con il cliché (se mai sopravvive, anche tra gli stranieri)
dell’italiano solare e felice.
Perché ancora a Napoli – e sempre nel bel racconto
«Il caos» – si svolge lo psicodramma collettivo dell’eliminazione in semifinale dell’Italia da parte dell’Argentina di
Maradona, stella del Napoli nel nostro campionato
nazionale, rivale odiato come non mai da noi italiani proprio in quel Mondiale. E del nostro modo di vivere il calcio e il rito sociale e nazionale dei Mondiali, osservato
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nella fatale semifinale del San Paolo, Hallberg dà una lettura che colpisce al cuore e mette a nudo. Non c’era nulla
da fare: gli azzurri, così esaltanti fino a quel momento, trascinati dal goleador siciliano Schillaci dallo sguardo spiritato, dovevano vincere il Mondiale. Come si ricorderà,
l’Italia del pallone (e nel pallone) pensò bene di attribuire
assurdamente a Napoli la colpa della sconfitta, rea di essere stata troppo affezionata a Maradona, di avere sventolato troppo poco il tricolore! Siamo piuttosto bravi ad accampare scuse. La lezione morale ed esistenziale che invece Hallberg trae da quella partita è che i nostri hanno
avuto paura di vincere e di giocarsela fino in fondo: un
imperdonabile peccato di viltà, di istinto sparagnino, di
terrore del confronto a viso aperto: volere portare a casa la
vittoria con il minimo sforzo ha voluto dire essere battuti.
Può darsi che questa lettura simbolica ed esistenziale sia
carente dal punto di vista tecnico e tattico di chi conosce
meglio il calcio, e magari la fatica concreta della partita.
Tuttavia l’analisi di Hallberg coglie una potente corrente
emotiva che effettivamente attraversò buona parte del
paese durante quella sera.
A Napoli, infine, giocava e viveva Maradona, vedere
il quale ha dato all’autore del libro l’emozione più forte
del Mondiale, nonostante tutto. Il ritratto di Maradona e
del suo ammaliante genio calcistico, tanto più folgorante
perché si espresse solo in alcuni, rari sprazzi, è pieno di
devozione e ammirazione da parte dell’outsider del calcio,
ma risulta originale e lontano dal cliché e ci dice ancora
qualcosa sul calcio come possibile mito popolare moderno. Nell’ultimo racconto «Il calcio della morte» lo sguardo si sofferma in due occasioni su Maradona: prima,
durante un momento di magia collettiva tra chi assiste al
suo allenamento in vista della finale; poi, davanti alle sue
lacrime incontenibili dopo la sconfitta contro la Germania e dopo i calci, gli insulti e fischi che quel Mondiale gli
aveva abbondantemente riservato. Vedendo Maradona
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piangere come un bambino, il narratore osserva in conclusione: “Piccolo amico, tutto sarà triturato in polvere da
questa infernale macchina di informazioni, pseudo-eventi
e indifferenza. Forse il mondo del calcio è solo uno specchio dell’ingiusto, imprevedibile e fiabesco labirinto della
vita. Tu però volevi vincere. Asciugati le lacrime, piccolo
principe! E grazie.” Quando scriveva queste parole nel
1990, Hallberg non poteva sapere del destino seguente di
Maradona, della sua cacciata durante il Mondiale del
1994 per uso di cocaina; del suo precipitare nel baratro
fino quasi alla morte; e, ora, della sua risalita faticosa verso una vita migliore.
Arriviamo così all’oggi, a ciò che noi e il nostro paese
siamo diventati, e anche a ciò che l’autore del libro è diventato quindici anni dopo la calda estate italiana scandita dall’inno della Nannini e di Bennato. Quanto e come
siamo cambiati tutti nel frattempo, Hallberg, l’Italia e il
mondo intero? Possiamo considerare la cosa, per come
viene trattata nel testo, dal punto di vista autobiografico,
intellettuale e politico-sociale.
Dal punto di vista autobiografico traspare, attraverso
il racconto su Anders Ranke e Mikael de Neergaard,
un’esperienza della vita che contempla la malattia, la precarietà e il lutto. Si tratta di una consapevolezza seria che
dà al racconto un tono più cupo e riflessivo rispetto al
gioco scanzonato del carnevale del calcio. In fondo però il
nostro terrore della morte è direttamente proporzionale
alla gioia che la vita può dare. Quando amiamo qualcuno diventiamo in un certo senso più fragili e più dipendenti; stabilire legami forti ci espone al dolore lacerante, o
al timore paralizzante, della perdita. Ma che cosa rimane
a chi non ha corso affatto il rischio del legame? I diversi
destini di Ranke e de Neergaard si possono forse riassumere così. Questo orizzonte esistenziale e personale avvicina
il racconto cornice a temi ed episodi contenuti in Grand
Tour, il libro immediatamente precedente di Hallberg.
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Il problema emotivo e affettivo del racconto si intreccia a quello intellettuale, riflettendosi in due scrittori svedesi che vivono in Italia da diversi anni, e che hanno
optato per strategie diverse di fronte a una realtà contemporanea difficile da afferrare e rappresentare: da una parte
«sporcarsi le mani», rischiando anche lo smarrimento e il
fallimento definitivi; dall’altra rivivere il mito nordico
dell’Italia giardino, isolandosi a Capri e non rischiando
nulla. L’ambientazione tra Capri e Napoli rimette così
mano al problematico e irrisolto nodo napoletano emerso
nei racconti sul calcio. È in qualche modo incomprensibile come il braccio di mare del Golfo di Napoli possa separare due universi così antitetici; e il racconto sfrutta questa
circostanza.
Ranke e de Neergaard appaiono come possibili alter
ego dell’autore, vicini e simili tra loro, ma separati in un
punto decisivo: in ciò che il filosofo danese e grande scrittore Søren Kierkegaard (1813-55) distingue come «stadio
estetico» e «stadio etico» della vita. Anche nel suo gioco
metanarrativo tra manoscritto, autore ed editore del
manoscritto stesso, Il calcio rubato ricorda un poco
Enten-Eller (Aut-Aut) del 1843, il capolavoro kierkegaardiano che pone in un serrato confronto dialettico l’istanza estetica e l’istanza etica che l’autore sentiva di avere
dentro di sé. Che cosa giustifica infatti la scrittura, il gioco
estetico, il bisogno di concentrarsi sulla forma e la bellezza? Ha bisogno tale occupazione di un fondamento etico,
di una preoccupazione verso gli altri e il mondo? de Neergaard, colui che con indubbia devozione verso l’autore ci
consegna i frammenti di «Italia Novanta» scritti da
Ranke, ha in qualche modo tradito le premesse del loro
comune umanesimo. L’Italia di questo svedese colto e
amante delle farfalle è diventata la tentazione dell’esilio
caprese, il mito di Tiberio che si ritira dalle cure dell’impero, o dell’antecedente svedese, il medico Axel Munthe,
autore del bestseller mondiale, scritto in inglese, The
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Story of San Michele (1929). de Neergaard soffre di
una sordità più voluta che reale; è in fuga dal proprio passato e dalla relazione coinvolgente e rischiosa con il
mondo. Non vivendo, evita il rischio di fallire e perdere.
La stasi umana e intellettuale di de Neergaard procede infine parallela al tradimento dell’Italia verso se stessa
in questi quindici anni. La rievocazione del giudice Giovanni Falcone, del sacrificio suo e di sua moglie nel 1992,
cala la riflessione etica del racconto cornice nella dimensione sociale e politica del nostro paese. E non è un caso
che il ricordo del siciliano Falcone emerga a Napoli, il
nodo irrisolto del libro. Come scrive Giorgio Bocca nella
sua ultima inchiesta Napoli siamo noi, il degrado della
città campana è speculare a quello dell’Italia, solo più
drammatico; la napoletanità è solo una italianità potenziata. E perché ci dobbiamo ricordare di Giovanni Falcone? Ce lo dice uno svedese, che nel frattempo sta imparando a conoscerci bene. Perché per una profonda insicurezza in noi stessi ci siamo trasformati, ci siamo dati all’illusione della bella facciata, all’arroganza del successo a
tutti i costi, alla spettacolarizzazione dello sport e della
vita intera, dimentichi delle virtù civili del nostro paese.
Che spazio ha Falcone nella nostra memoria e nel nostro
immaginario collettivo? Il ricordo di Falcone equivale a
una messa a fuoco delle nostre occasioni perdute, del
nostro autolesionismo travestito da allegria posticcia, del
nostro preferire l’oblio e la rimozione vivendo di fantasie e
speranze di miracoli. La responsabilità è sempre di qualcun altro.
Così, in conclusione, Il calcio rubato di Ulf Peter
Hallberg riesce sia a salvare nostalgicamente i frammenti
di «Italia Novanta» tratti da Fotbollskarnevalen, sia a
creare una nuova unità narrativa, per rappresentare, come
dice il buon de Neergaard nella parte introduttiva, “un
processo di rivolgimento in cui i destini del calcio sono
solo una piccola parte di una più vasta successione di
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eventi.”
FONTI CITATE
Giorgio Bocca, Napoli siamo noi. Il dramma di una città nell’indifferenza dell’Italia, Milano, Feltrinelli, 2006
Fredrik Ekelund & Ulf Peter Hallberg, Fotbollskarnevalen. Italiensk
resa, Stockholm / Stehag, Symposion, 1990
Per Olov Enquist, “Mexico 86”, in Två reportage om idrott, Stockholm, Norstedts, 1986, pp. 175-308
Eduardo Galeano, Splendori e miserie del gioco del calcio, Milano,
Sperling & Kupfer, 1997 (titolo originale El fútbol a sol y ombra,
1995)
Ulf Peter Hallberg, Flanörens blick, Stockholm / Stehag, Symposion,
1993
Flanörens blick. En europeisk färglära, Stockholm, Norstedts,
1996
Lo sguardo del flâneur, Milano, Iperborea, 2002
Grand Tour, Stockholm / Stehag, Symposion, 2005
Søren Kierkegaard, Enten-Eller, I-II, in Søren Kierkegaards Skrifter,
2-3, København, Gads, 1997
Jon Michelet & Dag Solstad, VM i fotball 1990, Oslo, Oktober, 1990
Axel Munthe, The Story of San Michele, London, Grafton, 1975
(I ed. 1929)
Pippo Russo, L’invasione dell’Ultracalcio. Anatomia di uno sport
mutante, Verona, Ombre Corte, 2005
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