patch adams - Centodieci

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patch adams - Centodieci
PATCH ADAMS
IL POTERE DEL SORRISO
CENTODIECI
Il Magazine di Mediolanum Corporate University
IL POTERE DEL SORRISO - PATCH ADAMS
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CENTODIECI
Introduzione
DI
OSCAR
DI
MONTIGNY
Direttore Marketing, Comunicazione e Innovazione di Banca Mediolanum
Fondatore di Mediolanum Corporate University e ideatore di Centodieci
Le idee vivono nei loro testimoni, in coloro che le
sviluppano con passione e che si identificano in esse.
È questo il motto con cui Mediolanum Corporate
University e Centodieci, la piattaforma di eventi e il
magazine online con cui diffondiamo idee e strumenti
per innovare con lode, scelgono i propri testimonial,
esempi a cui riferirsi: sono persone che con il loro
entusiasmo hanno reso possibili nuovi percorsi,
permettendo alla società di raggiungere inediti
traguardi.
L’idea che sta dietro alla creazione degli eventi
Centodieci è Ispirazione è quella di far incontrare
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persone speciali con la nostra comunità per
condividere le loro esperienze e i loro valori, certi di
poter dare a ognuno la possibilità di lasciarsi ispirare
da qualcosa di importante. È per questo che abbiamo
scelto di portare un’esperienza diretta alle persone,
un’esperienza che possa rimanere impressa e che possa
portare una visione positiva.
Uno degli ospiti di questo percorso verso l’eccellenza è
Hunter Doherty Adams detto Patch - cerotto in inglese
- medico, attivista e scrittore che ha dedicato la sua
vita allo studio dell’essere umano sotto ogni aspetto
e alla creazione di un sistema sanitario alla portata di
tutti.
La sua filosofia di guarigione riguarda soprattutto la
mente: ha inizio con la clownterapia per sfociare nella
costruzione di un pensiero positivo che può rendere
migliore la nostra vita.
Patch, in questo libro tratto dagli eventi che ogni anno
lo vedono protagonista insieme a Centodieci in giro
per l’Italia, ci permette di compiere un viaggio davvero
speciale e ci accompagna da un luogo di buio a un
luogo di luce, attraverso l’approfondimento di temi
quali la fiducia, la forza dell’amore e lo sguardo positivo
rivolto al futuro.
Buona lettura. E buon sorriso!
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CENTODIECI
PATCH ADAMS
Hunter Doherty Adams (Washington, 28
maggio 1945), detto “Patch”, cerotto in inglese, è medico, attivista e scrittore, famoso
in tutto il mondo per praticare e sostenere la
Clownterapia.
Fortemente convinto che gioia e creatività
siano parte integrante del processo di cura,
specie dei bambini, Patch e i suoi colleghi da
quarant’anni lottano contro dolore e malattia
indossando un naso rosso da clown, diventato elemento distintivo di un nuovo modo di
esercitare la professione medica.
Adams ha dedicato la sua vita allo studio
dell’essere umano sotto ogni aspetto e alla
creazione di un sistema sanitario alla portata di tutti. La sua filosofia di guarigione parte
dalla mente, dall’azione che stimola nei pazienti la costruzione di un pensiero positivo
che può rendere migliore la nostra vita.
CENTODIECI
Centodieci, un progetto di Mediolanum
Corporate University, lega insieme centinaia
di eventi che si tengono sul territorio e un
magazine online di cultura del pensiero e
del confronto, un laboratorio di riflessione
multidisciplinare aperto a tutti, perché siamo
convinti che oggi più che mai la cultura sia
condivisione.
Su Centodieci.it trovate ogni giorno, nelle
categorie Ispirazione, Innovazione, Formazione, Tecnologia e Creatività, idee e strumenti
per innovare con lode.
CENTODIECI
Il Magazine di Mediolanum Corporate University
E-book pubblicato nel dicembre 2015
Fotografie di Paolo Didonè, Dario Petucco, Alfredo Sabbatini, Sergio Tuccio
Copyright © 2015 Banca Mediolanum S.p.A
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Tutto
iniziòcosì
Le guerre, prima di prendersi il corpo di mio padre, si erano
prese la sua anima. In realtà non si è mai dedicato molto a
me, come padre intendo. Fortunatamente avevo una madre
fantastica e tutto quello che oggi apprezzate di me lo devo
a lei: mi ha donato l’etica, il senso della meraviglia, della
curiosità e soprattutto l’insistenza circa l’importanza di
amare indistintamente tutte le persone.
Sono nato nel 1945 e sono un orfano di guerra, mio padre
era un ufficiale dell’esercito americano e per questo sono
cresciuto nelle basi americane di un po’ tutto il mondo.
Quando avevo 16 anni mio padre morì, tornammo negli Stati
Uniti e ci stabilimmo al sud. Era il 1961 e mi resi conto di
una triste verità, quello che definisco il terremoto della mia
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vita: le persone di colore erano completamente private di
qualsiasi tipo di diritto umano semplicemente perché la loro
pelle era di un colore diverso dalla nostra. La mia reazione
davanti alle discriminazioni che mi circondavano era quella
di mettermi sotto al letto e piangere. In realtà, nonostante
tutto, ero un bambino felice, ma tra i 16 e i 18 anni tentai di
togliermi la vita tre volte perché non volevo vivere in un
mondo che aveva deciso di portare avanti l’ingiustizia.
Era il 1963 ed ero tra il mio secondo e terzo ricovero
psichiatrico, quando decisi di partecipare al famoso
incontro promosso da Martin Luther King a Washington, I
have a dream, ho un sogno.
C’ero io e con me un milione di persone.
Persone che inneggiavano alla rivoluzione, alla rivoluzione
non violenta.
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Ricordo di aver pensato: «Questa è la mia tribù, questa è
la mia famiglia, io appartengo a loro». Sapevo però che mi
sarebbe servito ancora un altro ricovero, ed è proprio in
occasione di quell’ultimo ricovero che fui letteralmente
folgorato. Così folgorato dal darmi dello stupido per aver
desiderato di togliermi la vita e dal decidere di dover fare
una rivoluzione! Io, sì. Proprio io.
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Due
decisioni
che mi hanno cambiato la vita
Rivoluzione, che fantastica parola. Una parola che porta
con sé un concetto bellissimo, quello del cambiamento: è
possibile che le cose cambino e che siano diverse.
Sfortunatamente la storia ci ha insegnato che la violenza
ha, a volte, dato una connotazione negativa alla parola
rivoluzione, anche se è bene ricordare che la maggior parte
delle rivoluzioni dell’uomo sono state non violente.
Così, a 18 anni, quando ancora ero all’istituto psichiatrico,
decisi che la rivoluzione che avrei portato avanti sarebbe
stata quella dell’amore.
Ma non fu l’unica decisione importante che ho preso in quel
periodo.
Mi chiesi: «Adesso che lavoro faccio?».
E ricordo di aver pensato di desiderare un lavoro che mi
permettesse di donare il mio amore alle altre persone.
Pensando alle professioni che realizzassero questo mio
desiderio mi resi presto conto di quanto queste professioni
in realtà fossero appannaggio delle donne e non degli
uomini, ma proseguendo nei miei pensieri ecco che arrivò
l’illuminazione: «Posso fare il medico! Ecco quale sarà la mia
professione!».
Ancora però ignoravo una cosa che ho scoperto
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successivamente: la maggior parte dei medici sono persone
poco amorevoli.
L’altra decisione, invece, fu un po’ più personale: mi chiesi
come potessi diventare uno strumento al servizio di pace e
giustizia in ogni istante della mia vita.
Decisi così quali sarebbero state le sei qualità che mi
avrebbero accompagnato e caratterizzato per il resto
della mia vita. Volevo essere felice, divertente, amorevole,
collaborativo, creativo e riflessivo.
E volevo esserlo sempre, in ogni istante della mia vita.
E così è stato, lo sono dagli ultimi 52 anni della mia vita.
Come ho fatto?
Sono successe due cose in quegli anni: prima di tutto mi
sono reso conto che mia madre mi aveva fatto il dono
più grande che un genitore possa dare al proprio figlio,
l’autostima, quella grande capacità di amarsi e credere in se
stessi.
Io mi amo, mi voglio bene, non penso mai di non riuscire
a fare qualcosa, non metto in dubbio le mie capacità. E per
questo ringrazio mia madre.
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Esperimenti
di felicità
Io sono grato alla vita: sono grato che mi abbia dato le
braccia, le gambe e dico grazie per almeno 10 miliardi di
altre cose (che non vi elenco altrimenti ci servirebbero due
settimane almeno).
Vivo le mie giornate all’insegna della gratitudine: mi sveglio
e ringrazio la vita, vado a dormire e faccio lo stesso.
E poi utilizzo sempre tre parole: intenzione,
rappresentazione e conseguenze.
Iniziamo con l’intenzione.
La mia intenzione è costituita dalla determinazione nel
voler essere una delle sei qualità di cui ho scritto poche
righe più in su, felice, divertente, amorevole, collaborativo,
creativo e riflessivo.
Io sono determinato a essere felice, non sto dicendo
«Cercherò di essere felice» oppure «Potrei essere felice», sto
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dicendo «Io sono felice, io sono determinato a essere felice».
Esattamente come quando dico «Adesso ispiro ed espiro».
Chi ha il comando?
Io.
Si tratta di una scelta. Sta a voi decidere chi comanda.
E vi raccomando di essere la persona che volete essere!
Poi, quando ognuno di voi avrà stabilito la propria
intenzione, si chiederà cosa fare.
La risposta è semplice: dal momento in cui ci svegliamo al
momento in cui andiamo a dormire la sera, a fronte delle
nostre intenzioni dobbiamo scegliere di fare quello che
rende concretizzabile la nostra intenzione.
A quel punto vi dovrete chiedere: «Come sono andato?». Se
sarete soddisfatti allora continuerete seguendo la strada
intrapresa, se non lo sarete dovrete ovviamente cambiare le
vostre azioni.
Tutti possono farlo. Sta a ognuno di voi decidere di iniziare
a cambiare.
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Dall’età di diciotto anni a quando ho
iniziato a frequentare la facoltà di
Medicina ero una persona un po’ strana:
piuttosto bravo a scuola, senza fare
grossi sforzi, ma senza una ragazza… ero
veramente negato nel riuscire ad avere
un appuntamento e così mi trovavo
con molto tempo libero. Siccome ero
piuttosto estroverso, decisi di uscire,
amare il mondo e fare dei veri e propri
esperimenti sociali.
Ve ne racconto due.
Per due anni, ogni giorno, mi sono
divertito a chiamare degli sconosciuti
e vedere quanto tempo riuscivo a
tenere una conversazione telefonica
con loro. Ogni giorno mi chiedevo
che tono, timbro, tonalità della voce e
quale argomento avrei proposto loro. E
credetemi se vi dico che ero diventato
veramente molto bravo, tanto che
anche oggi mi piace ancora farlo.
Il secondo esperimento che mi fa
piacere raccontare è quello di aver
trascorso ben 10 ore alla settimana a
Washington DC andando su e giù… con
gli ascensori.
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Il senso di questa mia azione è dovuto al fatto che a mio
parere quando si chiudono le porte dell’ascensore è come
essere in trappola, da lì non si scappa. Soprattutto gli
ascensori sono dei non luoghi, nei quali non ci sono regole,
a eccezione della portata massima di chili consentita, alla
quale tra l’altro nessuno di noi fa mai caso.
Il tipico comportamento da ascensore è il seguente: le porte
si aprono, si dà una rapida occhiata in viso alle persone,
giusto per capire di essere al sicuro, e si entra. Dopo aver
schiacciato il pulsante del piano desiderato cosa si fa? Ci si
gira e si mostrano le spalle ai propri compagni di viaggio.
Il mio comportamento è invece questo: niente spalle, mi
metto faccia a faccia con chi viaggia con chi è in ascensore
e nel momento in cui i nostri occhi si incrociano… ecco
un luccichio. E allora scatta un sorriso che porta con sé la
voglia di fare la conoscenza dell’altra persona.
Posso dirvi che questo esperimento funziona quasi sempre
in tutto il mondo, perché siamo tutti naturalmente portati a
stabilire un contatto con le altre persone.
Certo, mi rendo conto che se indossassi degli abiti
convenzionali forse non potrei fare tutto quello che voglio,
ed è quindi proprio in questo esperimento che ho capito
che la mia vita da clown ha delle implicazioni… diciamo
politiche.
Se io non indossassi gli abiti da clown, e lo faccio in 79
Paesi del mondo, il 99% delle persone che mi dà una tacita
approvazione non lo farebbe.
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a zero
Quando l’autostima andava
Mi sono iscritto alla facoltà di Medicina nel 1965, con in
tasca una visione piuttosto idealista circa la professione
medica e gli ospedali. Era appunto ideale perché dopo i
primi mesi dall’inizio dei corsi mi resi conto di quanto i
miei docenti fossero arroganti, scortesi, con una pessima
personalità. Insomma, mi resi conto che gli ospedali
erano tutto fuorché luoghi felici, erano in realtà ambienti
stressanti.
«Perché una persona vuole fare il medico in un contesto di
questo tipo?» mi domandavo.
Quindi trascorsi una parte degli anni a studiare i sistemi
ospedalieri un po’ in tutto il mondo con l’intento di ideare
un ospedale in grado di rispondere a tutte le criticità, a tutti
i problemi concernenti l’assistenza sanitaria.
La medicina deve essere un dono, un dono fatto alla società,
un dono dato agli indigenti come ai più abbienti, ed è
sbagliato che sia un business.
Così dopo la laurea, nel 1971, progettai un modello
ospedaliero in cui l’ospedale assiste a titolo gratuito tutti,
indistintamente. L’intento era di eliminare l’idea che il
paziente fosse debitore nei nostri confronti e accogliere
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l’idea che fosse la comunità a prendersi cura di noi.
Questa era l’unica strada che io e il mio gruppo di colleghi
avevamo intenzione di percorrere. La medicina allopatica
all’epoca era molto arrogante, con arrogante intendo che si
erigeva a unica medicina percorribile denigrando la bontà
di tutte quelle che erano considerate medicine alterative: la
fisioterapia, l’omeopatia, la naturopatia, l’ayurvedica e via
dicendo.
Praticare queste altre forme di medicina era all’epoca
addirittura illegale, ma nonostante ciò decidemmo di
violare la legge e di portare avanti le nostre attività
seguendo come unica legge quella di aiutare il paziente.
In università mi è stato insegnato a fare il medico in 7
minuti e 8 secondi, a far sì che le mie visite non durassero
più di questo tempo. Ma com’è possibile, mi chiedevo: un
individuo è un’entità complessa, così come lo è la sua vita,
come è possibile dedicargli solo poco più di 7 minuti per
una diagnosi?
Così il mio primo colloquio con un paziente adulto aveva
una durata media di circa 4 ore, ponevo qualsiasi tipo di
domanda che potesse avere attinenza con la sua vita e
volevo peraltro sapere tutto ciò che il paziente definiva
come privato.
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Alla luce dei 48 anni nei quali ho avuto colloqui con migliaia di
persone, sono a oggi ancora scioccato da un dato: non più del 3%
dei pazienti dichiara di avere autostima, non più del 5% dichiara
di avere entusiasmo nella vita di tutti i giorni. Il cittadino medio
si detesta, detesta il proprio lavoro, il proprio matrimonio, ma
nessuna di queste tra cose è quello che lo porta a colloquio da
me.
Il fatto che la maggior parte dei pazienti dicesse di essere infelice,
di essere scontento della vita che conduceva, di essere ansioso e
di ritenere che la soluzione ai propri problemi fosse una pasticca
in realtà non mi stupiva poi così tanto. Non mi stupiva perché
analizzando per esempio tutto il mio percorso accademico mai
alcun professore aveva menzionato l’amore nelle proprie lezioni
e mai era stata fatta una lezione sull’importanza di condurre una
vita in salute o sull’importanza di fare esercizio fisico. Nessuno
dei miei pazienti conduceva una vita sana, così dicevo sempre
loro di fare esercizio fisico e tenere un regime alimentare
equilibrato per vivere una vita più sana.
Ma la maggior parte di loro mi diceva: «Mi dia una pasticca
dottore».
So che per fare esercizio fisico ci vuole del tempo, io faccio
esercizio aerobico, yoga e sollevamento pesi da 45 anni, ho quasi
70 anni e l’unica cosa alla quale penso quando realizzo che sto
invecchiando è che sì, sono più capace, più saggio, ma non sono
più debole.
Il mio problema era dunque il non riuscire a convincere i miei
pazienti a fare esercizio fisico, non riuscivo a capire come poterli
stregare tanto da convincerli relativamente all’importanza di fare
sport.
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LA
La casa
dei Mille
Mi sono laureato nel 1971 e con 20 dei miei compagni di
corso e tre medici adulti con figli al seguito decidemmo di
andare ad abitare in una casa tutti insieme. Nasceva così
il nostro progetto pilota, che durò per circa 12 anni: ci
capitava a volte di avere dai 50 ai 100 ospiti a notte, fino a
mille persone l’anno.
Se facciamo un rapido conto significa che, in una casa
composta da sei camere da letto, 20 adulti con prole al
seguito e con una media di 50 ospiti a notte, si era almeno
una ottantina di persone e questo crea una bella interazione
umana. Se pensiamo peraltro che delle quindicimila
persone che abbiamo accolto nella nostra casa, all’incirca
tremila presentava delle turbe mentali piuttosto gravi alle
quali avevamo deciso tra l’altro di non formulare analisi
psichiatriche e nemmeno di somministrare psicofarmaci,
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capirete che l’atmosfera era interessante.
In questi 12 anni ho scritto personalmente a 1800 Fondazioni
per ricevere delle donazioni, ma neanche una di esse ci ha
mai aiutati, tanto che il personale che lavorava nella nostra
casa ospedale lo faceva gratuitamente e doveva trovarsi un
secondo lavoro per poter praticare la professione medica.
Alla difficoltà del mancato ritorno economico si aggiungeva
peraltro la difficoltà, ancora più dura per alcune persone, di
dover rinunciare alla propria privacy. Non esisteva privacy
nella nostra casa ospedale. Mai, nel corso di quei 12 anni.
La casa era sempre popolata da persone bisognose, persone
però a volte anche pericolose: il mio migliore amico alla
facoltà di medicina – che nel film è stato trasformato nella
mia fidanzata, la ricorderete – è stato ucciso da uno dei
nostri pazienti.
Dopo 12 anni e nessuna donazione decidemmo che era
venuto il momento di costruire un vero e proprio ospedale,
piuttosto che continuare a vedere i pazienti in questo modo.
Il primo ospedale felice nella storia dell’umanità.
Il primo ospedale divertente nella storia dell’umanità.
Sapevo che avrei dovuto dedicare la mia vita alla raccolta
fondi per costruirlo. E parlo di un ospedale moderno
totalmente accessoriato che funziona abbattendo il 90%
dei costi. L’intento era quello che il personale vivesse in
maniera stanziale in quello che si configurava come una
sorta di eco villaggio e che tutti recepissero lo stesso
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salario, 300 dollari al mese, dall’addetto alle pulizie al
chirurgo.
Fino ad allora avevamo rifiutato qualsiasi forma di
pubblicità, ma sappiamo che negli Stati Uniti ciò che vende
sicuramente non è l’intelligenza, ma la fama. E sapevo che a
un certo punto sarei potuto diventare famoso.
Quindi decidemmo di aprirci all’esterno e così iniziai a
viaggiare e a raccogliere fondi, anche se prendermi cura dei
miei pazienti mi mancava moltissimo.
Mi definisco un servo, mi piace pensarmi così: un servo al
servizio dell’umanità. Tanto che il mio sogno è quello di
vivere all’interno di un ospedale per poter lavorare sempre.
Ma, non avendo un ospedale mi sono chiesto come potessi
continuare a prendermi cura delle persone e decisi che
andare in giro era quello che dovevo fare, dovevo girare il
mondo e prendermi cura delle persone che incontravo.
Quando parliamo di salute dobbiamo pensare alla salute e
alle malattie dell’individuo, alla salute e alle malattie delle
famiglie – cosa che peraltro abbiamo fatto in maniera molto
intensiva nel corso di questi 12 anni del progetto pilota –
ma vuol dire anche trattare le malattie della comunità e le
malattie del mondo e dell’ambiente.
Per questo motivo, nel corso di questi ultimi 32 anni,
ci siamo dedicati a questa esplorazione stringendo
collaborazioni con progetti di ampio respiro che vanno
nella nostra stessa direzione di pace e giustizia.
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Due esercizi per
noi stessi
Diventare famoso per me era un incubo, ma volevo a tutti i
costi l’ospedale.
Quindi decidemmo di chiudere la casa ospedale e di
rivolgerci alla comunità, subito mi venne chiesto di fare
conferenze, di viaggiare per tenere delle presentazioni. Ed è
quello che faccio da più di 30 anni in 79 paesi diversi, sono
in viaggio una media di 300 giorni l’anno.
In principio pensavo «Ma sì, mi ci vogliono 4 anni per
costruire quest’ospedale», di anni ne sono passati 44, sono
nel quarantacinquesimo, ma sono vicino, credetemi.
Forse sono l’unico a crederci, ma posso dirvi che ogni
singolo istante di questi 45 anni è stato un’esperienza
magica, un’esperienza coinvolgente, sublime.
Ho cercato di inventarmi dei trucchetti, degli espedienti per
fare in modo che i pazienti iniziassero a badare alla propria
salute.
Secondo le statistiche soltanto il 3% della popolazione
dichiara di avere autostima, dunque mi sono chiesto come
poter fare in modo che una persona ami se stessa?
Il bullismo è un problema negli stati uniti. Ci sono tantissimi
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ragazzi che vogliono togliersi la vita.
Ma una persona con autostima fugge
dall’idea di togliersi la vita.
Ho un esperimento da proporvi, da
farvi fare proprio ora. Immagino
che stiate leggendo seduti,
sdraiati... ecco, alzatevi in piedi e
abbracciatevi. Dolcemente. Potete
anche ondeggiare un po’ con il
corpo. Non parlate, state in silenzio,
ma con entusiasmo mentale e
coinvolgimento del vostro corpo e
ripetete tra voi più e più volte: «Io
mi amo, io mi voglio bene». E se fossi
vicino a voi vorrei vedere anche i
vostri volti pronti a dimostrare che vi
state realmente volendo bene.
Questo era un primo esercizio, ora vi
propongo il secondo.
Prima però vi do altri dati: sempre
secondo le ricerche, la maggior
parte delle persone dice di essere
sola. Ma come?!? Abitiamo un pianeta
da 7,3 miliardi di persone e siamo
soli?
Com’è possibile? Fa quasi ridere la
cosa.
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Miliardi di persone… E nessuno per noi?
Passiamo al secondo esercizio, spero che siate in un
luogo pubblico, altrimenti infilate il cappotto e uscite in
strada! Ora!
Trovate un partner con cui fare questo esercizio, mi
raccomando: uno sconosciuto. Bene, ora abbracciatelo:
questo è l’esercizio dell’abbraccio.
E se vi piace così tanto stare soli, vi ricordo che avete
tutta la vita davanti per stare soli. In questo momento
abbracciate qualcuno.
Non voglio vedervi fare l’abbraccio sportivo, l’abbraccio
da pacca sulla spalla. Voglio un abbraccio vero.
Sono due le cose meravigliose che accadono in un
abbraccio: donate e ricevete. E la cosa magica è che
succedono simultaneamente.
Ma come fate a sapere se l’abbraccio che state dando e
ricevendo è quello giusto?
Lo saprete solo quando terminerà, perché sarà allora
che direte «No, accidenti. Perché?».
Se al contrario non sarete tristi del fatto che dovrete
smettere di abbracciare ed essere abbracciati, allora
questo significherà che quello che vi siete scambiati
non era un abbraccio.
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Comela fermare
violenza
Trent’anni fa mi sono chiesto come potevo sedare la
violenza, fisica e verbale.
Generalmente un atto di violenza è la dimostrazione della
prevaricazione di una persona su un’altra e non risolve mai
alcun problema. Sapevo che non volevo imparare le arti
marziali perché non volevo far male a nessuno. Spesso negli
Stati Uniti accade che andate al negozio di frutta e verdura,
girate l’angolo e lì vedete un genitore che sta litigando con
il proprio figlio, oppure siete a vedere un film al cinema e
c’è il bellimbusto di turno che inveisce contro la propria
fidanzata. Cosa fa la gente? Guarda e passa.
«Dopotutto non sono problemi miei», questo pensa la
maggior parte della gente.
Mi sono chiesto così cosa potessi fare io.
E la risposta che mi sono dato è stata che mi sarei potuto
trasformare in un supereroe clown un po’ strano.
Così, per 25 anni, davanti a episodi di questo tipo mi sono
dovuto mettere le mani in tasca, tirare fuori il naso rosso
tipico da clown e indossarlo.
L’ho fatto all’incirca per 30 anni e posso garantirvi che
funziona il 100% delle volte, credo di averlo fatto all’incirca
2000 volte e ha sempre funzionato.
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Ma 5 anni fa ho deciso di entrare nel 21esimo e dotarmi
degli ultimissimi ritrovati tecnologici e attivare quella
che definisco la tripla minaccia: innanzitutto indosso uno
strumento che permette di allargare la bocca in maniera
esagerata e che impedisce che qualsiasi mia comunicazione
possa essere capita correttamente, in seconda battuta
indosso una pessima dentatura che mi fa sembrare ancora
più vecchio di quello che sono e infine faccio uscire dal
mio naso un serpentone giallo che simuli un fortissimo
raffreddore.
Capirete che quindi se svolto quel famoso angolo e vedo
i due litigare sicuramente smetteranno di farlo perché
devono far fronte a un nuovo problema: io.
Tutti possono farlo.
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Sammy
un caro amico
A volte incontri delle persone e sai che da quell’incontro
porterai il loro ricordo per il resto della tua vita. Ecco, è
capitato anche a me e ora ho un mio nuovo supereroe: il
suo nome è Sammy.
Insieme, Sammy e io siamo una sorta di paradosso: Sammy
invecchia a una velocità quasi inconcepibile per la scienza,
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nel descrivere la sua vita può dire «Sto diventando un
uomo più vecchio. Sto invecchiando». Io, che invece
sono già un uomo anziano, non lo sto diventando, ma mi
comporto come un bambino di età compresa tra i 9 e gli 11
anni. Quindi nella curva d’età Sammy va su e io vado giù:
immaturità cronica, la mia.
Perché vi parlo di lui? Perché non credo di aver conosciuto
una persona più felice di lui.
Spesso le persone malate pensano di non poter essere
malate e felici insieme, ritengono che non sia veramente
possibile, neppure lontanamente. Ecco perché, credetemi,
Sammy da questo punto di vista è un grande maestro di vita.
Quando l’ho conosciuto sono stato onorato, perché ho
capito immediatamente che la sua forza e il suo vigore mi
avrebbero guidato nel rendere il mondo un posto più felice.
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estrema
La felicità
Voglio lasciarvi con un’importantissima rivelazione: è
possibile essere felici quando si è davanti alla morte.
Possiamo infatti concepire l’idea della morte quasi come un
momento che aspettiamo con gioia.
Spesso mi viene chiesto come poter essere felice davanti
a un bambino che sta per morire. Quello che vi dico è
che dovete cambiare atteggiamento, sta tutto in come vi
approcciate alla vita. Il vostro «Voglio essere felice» deve
diventare «Devo essere felice!».
Non bisogna essere felici o tristi nel momento in cui
qualcuno sta morendo, quello che dobbiamo ricordarci è
che quelli sono ancora attimi di vita per loro, non di morte.
E quindi perché non viverli con loro e farlo con gioia?
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CENTODIECI
Riscrivetemi
di nuovo
Tengo a dire a voi lettori che rispondo a ogni lettera che
mi inviano, non lo faccio via mail: non ho un computer e
neppure uno smartphone. Ricevo da più o meno 40 anni
dalle 400 alle 600 lettere ogni mese, corrispondo con
persone che mi scrivono da 120 Paesi e non ho arretrati!
Non ho cioè lettere alle quali non ho risposto da evadere
che mi aspettano a casa. Così, se avete bisogno di un
amico, se volte discutere con me, se volete il mio parere su
qualcosa, o magari volete inveire contro di me… scrivetemi
una bella lettera in inglese, meglio se in americano.
Non mi è mai capitato di non rispondere a una lettera,
quindi se dovesse capitare, scrivetemi di nuovo.
www.patchadams.org
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CENTODIECI
Centodieci è
J spirazione
Nel 2014 e nel 2015 Patch Adams è stato protagonista di 21 serate in 21 città differenti targate
“Centodieci è ispirazione”. In queste città il Dottore del Sorriso ha anche fatto visita ai piccoli
pazienti ricoverati nei reparti pediatrici dei maggiori ospedali. Il tour proseguirà anche nel 2016,
per scoprire le nuove date e le nuove città rimani aggiornato tramite Centodieci.it
San Donà
di Piave
TREVISO
BRESCIA
MILANO
PADOVA
TORINO
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GENOVA
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