Gli stereotipi di genere: quelle idee dure a morire - Arcos
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Gli stereotipi di genere: quelle idee dure a morire - Arcos
Da www.kila.it 01 settembre 2008 Gli stereotipi di genere: quelle idee dure a morire Chi si aspetta una donna chirurgo? Viaggio alla scoperta degli stereotipi, mappe mentali sconnesse dalla realtà, che però la influenzano e la modificano, riproducendo modelli culturali e ruoli sociali. E propongono un’immagine della donna limitativa e segregante, oggi come trent’anni fa. Un uomo e suo figlio stanno rampicando su una parete rocciosa. A un certo punto i due non trovano l’appiglio e cadono: il figlio, più grave, viene trasportato in elicottero all’ospedale, dove lo attende il migliore chirurgo della struttura per operarlo. Appena il medico lo vede, però, esclama: “Non posso operarlo, lui è mio figlio”. Com’è possibile? Molto semplice: il chirurgo è la madre del ragazzo. Questa storiella veniva raccontata negli anni ’70 come esempio di discriminazione verso le donne. Il termine “chirurgo” evoca infatti una figura maschile e il senso comune non contempla automaticamente la possibilità che si tratti di una donna. Si tratta quindi di un classico stereotipo di genere, che condiziona la percezione della donna, e quindi il suo ruolo nel lavoro, nella famiglia e nella società. Indice dell’articolo • • • • • • • Gli stereotipi Gli stereotipi di genere Il ruolo degli stereotipi di genere nella vita sociale e politica Stereotipi femminili e media Linguaggio e stereotipi L’educazione: prima arma contro gli stereotipi Approfondimenti Gli stereotipi Lo stereotipo è un insieme di credenze, rappresentazioni ipersemplificate della realtà e opinioni rigidamente connesse tra di loro, che un gruppo sociale associa a un altro gruppo. L’uso della parola risale al 1700, quando veniva utilizzata dai tipografi per indicare la riproduzione, tramite lastre fisse, delle stampe. Il termine (dal greco stereòs=rigido e tòpos=impronta), viene introdotto per la prima volta nelle scienze sociali da Walter Lippmann nell’ambito di uno studio sui processi di formazione dell’opinione pubblica (1922). Secondo Lippmann il rapporto conoscitivo con la realtà esterna non è diretto, ma mediato dalle immagini mentali che di quella realtà ciascuno si forma. Tali immagini (gli stereotipi appunto) altro non sono se non delle semplificazioni grossolane e piuttosto rigide che il nostro intelletto costruisce quali “scorciatoie” per comprendere l’infinita complessità del mondo esterno. Proprio per questo loro carattere di costruzione mediata socialmente, gli stereotipi, che possono essere più o meno rigidi, rivestono una funzione in qualche modo difensiva dell’identità del gruppo che li ha prodotti poiché concorrono al mantenimento del sistema (sociale) che li ha generati. Proprio la rigidità intellettuale, la scarsa elasticità ci fa applicare le nostre mappe mentali alla realtà, ci fa ricorrere a luoghi comuni e opinioni non verificate. Quelle idee dure a morire: caratteristica degli stereotipi è infatti la loro persistenza anche attraverso le generazioni, quasi indifferente alla realtà che nel frattempo si evolve e modifica le condizioni in cui avevano avuto origine e senso. Perché è vero che gli stereotipi derivano da un modo normale di funzionare della mente umana, per noi è naturale classificare il contesto prima di agire: il problema nasce quando si solidifica in mappe congelate e porta a un’ingessatura del modo di classificare la realtà. Gli stereotipi di genere –www.kila.it 1 Gli stereotipi di genere Gli stereotipi di genere sono una sottoclasse degli stereotipi. Quando si associa, senza riflettere, una categoria o un comportamento a un genere, si ragiona utilizzando questo tipo di stereotipi. Gli esempi sembrerebbero banali, ma non è così, perché gli stereotipi non solo condizionano le idee di gruppi di individui, ma hanno anche conseguenze sul modo di agire e sulla società. Non è un caso se la maggior parte di noi associa un ingegnere o uno chef a un uomo, mentre secondo le nostre mappe mentali l’insegnante di scuola materna è una donna. Associazioni che nella nostra mente scattano automatiche e che quindi sono molto difficili da estirpare o cambiare. L’uso degli stereotipi di genere conduce infatti a una percezione rigida e distorta della realtà, che si basa su ciò che noi intendiamo per “femminile” e “maschile” e su ciò che ci aspettiamo dalle donne e dagli uomini. Si tratta di aspettative consolidate, e non messe in discussione, riguardo i ruoli che uomini e donne dovrebbero assumere, in qualità del loro essere biologicamente uomini o donne. Ad esempio la donna è considerata più tranquilla, meno aggressiva, sa ascoltare e ama occuparsi degli altri, mentre l’uomo ha forte personalità, grandi capacità logiche, spirito d’avventura e capacità di comando. Si tratta di “formule” che ci permettono di categorizzare, semplificare la realtà e orientarci in essa, rapidamente e senza dover riflettere. Ci serviamo di immagini generalizzate che riducono la complessità dell’ambiente, ma annullano al contempo la differenza individuale all’interno dei singoli gruppi. Gli stereotipi di genere sono tra i più frequenti e anche maggiormente condivisi dalla società: la donna, giudicata sulla base di stereotipi, si ritrova come ingabbiata in uno stile di vita e in situazioni che ne limitano l’azione e il pensiero: ad esempio, fatica non poco a far comprendere che le proprie aspirazioni e attitudini non si limitano al ruolo materno e alla cura dei propri familiari. Il ruolo degli stereotipi di genere nella vita sociale e politica Stereotipi. Mappe mentali, strumenti di classificazione della realtà che quando diventano troppo rigidi ingabbiano, portano a osservare il tutto con la lente del cliché deformando la realtà. Donna, in fondo mamma e moglie. Considerata come tale, emotiva, troppo sensibile e quindi non in grado di fare carriera, o comunque, in perenne dramma di scelta tra famiglia e professione. Come se una mamma, in presenza di un humus culturale paritario e di idonee politiche di conciliazione, non potesse/volesse gestire lavoro e famiglia esattamente come fa un papà. Limiti ineluttabili e insuperabili, frutto del suo naturale essere donna. Potremmo facilmente dire che si tratta solo di una lettura stereotipata, che la realtà è un’altra cosa. Ma proprio gli stereotipi possono diventare chiave di lettura per capire come mai le donne italiane sono ancora fortemente sottorappresentate nel lavoro, nella politica, in tutte le sfere della vita pubblica. La realtà che viviamo è infatti anche figlia degli stereotipi con cui la cataloghiamo. Infatti, i numeri desolanti sul tasso di occupazione femminile, sulla presenza delle donne nelle posizioni di vertice delle aziende, sulle differenze di reddito e altri indicatori fin troppo noti, che collocano l’Italia nelle ultime posizioni in Europa, sono anche frutto di una maggiore e più radicata diffusione degli stereotipi nel nostro paese. In particolare, di quelli che costringono l’immagine della donna in modelli segreganti, e che non sembrano scalfiti né dall’esistenza di altri modelli femminili né dall’evidenza dei cambiamenti avvenuti: quanti sanno ad esempio che in Italia il numero di donne laureate è maggiore di quello degli uomini? Gli stereotipi agiscono fortemente anche nel mondo della politica, quello in cui la disparità è forse più clamorosa e resistente. E’ noto che le donne sono appena un quinto dei nostri rappresentanti, tanto nel parlamento quanto nel governo in carica da pochi mesi. Per confronti, senza scomodare i soliti paesi scandinavi, basta guardare a uno stato mediterraneo, che non ha certo un’antica tradizione di “apertura” nei confronti delle donne: il governo spagnolo di Zapatero ha una maggioranza numerica femminile. Ma proprio la politica italiana, al di là dei numeri, ci offre molti esempi di come le mappe mentali possono condizionare il nostro pensiero e modo di agire anche ai livelli che dovrebbero essere più alti se non migliori. Il Ministero delle Pari Opportunità è stato affidato a Mara Carfagna: dal 2006 responsabile delle donne di Forza Italia, è soprattutto nota per il suo passato da showgirl televisiva, è giovane e bella. Le Gli stereotipi di genere –www.kila.it 2 polemiche sono state feroci. Senza entrare ovviamente nel merito delle scelte politiche, notiamo due aspetti significativi. Da una parte, è evidente che la nuova ministra alle Pari Opportunità proviene proprio da un mondo che permette a certi stereotipi di autoalimentarsi. Passa il messaggio che la donna può arrivare in alto solo se fa la velina, sculetta un po’ in tv, risponde insomma pienamente ai modelli veicolati dal mezzo di comunicazione. Ma succede anche che chi intende stigmatizzare questa situazione, magari si ritrova a utilizzare gli stessi stereotipi. Ecco quindi che, se la bella si ritrova in Parlamento, di sicuro non l’ha ottenuto per i suoi meriti ma per altri motivi: ed è ovvio che cosa si sottintende. Se poi è una donna ad attaccare un’altra donna con un insulto di stampo sessuale, arma tipicamente maschile, in un certo senso legittima dall’interno l’inferiorità femminile e quegli stereotipi non fanno altro che rafforzarsi. Stereotipi femminili e media Quali modelli veicolano i mass media? Di sicuro, modelli inadeguati rispetto alla realtà di molte donne, che non si sentono rappresentate. Il tema è stato al centro di numerosi eventi che si sono svolti negli ultimi mesi, come il convegno Donne, Innovazione e Crescita. Le italiane negli stereotipi: vita reale, comunicazione e fiction, organizzato il 3 marzo 2008 all’Università Bocconi di Milano dall'allora ministra Emma Bonino. Le analisi presentate in quell’occasione delineano un quadro poco incoraggiante. Nel 2006 il Censis, nell’ambito del progetto europeo Women and media in Europe, ha realizzato un’indagine sull’immagine della donna nella televisione italiana. Attraverso l’analisi dei contenuti di 578 programmi televisivi d’informazione, approfondimento, cultura, intrattenimento sulle 7 emittenti nazionali (Rai, Mediaset, La7), emerge che le donne, nella fascia preserale, ricoprono soprattutto ruoli di attrici (56,3%), cantanti (25%) e modelle (20%). L’immagine più frequente dunque è quella della “donna di spettacolo”. La donna in tv è rappresentata in maniera positiva, come protagonista della situazione, ma, generalmente, lo spazio offerto alla figura femminile è gestito da una figura maschile “ordinante”. La sua immagine risulta comunque polarizzata tra il mondo dello spettacolo e quello della violenza della cronaca nera. C’è una distorsione rispetto al mondo femminile reale: le donne anziane sono invisibili (4,8%), lo status socioeconomico percepibile è medioalto, e solo nel 9,6% dei casi è basso, mentre le donne disabili non compaiono mai. I temi a cui la donna viene più spesso associata sono quelli dello spettacolo e della moda (31,5%), della violenza fisica (14,2%) e della giustizia (12,4%); quasi mai invece politica (4,8%), realizzazione professionale (2%) e impegno nel mondo della cultura (6,6%). Per quanto riguarda i programmi di intrattenimento, il conduttore è uomo (58%), lo stile di conduzione è ironico (39,2%), malizioso (21,6%) e un po’ aggressivo (21,6%); i costumi di scena sono audaci (36,9%), le inquadrature voyeuristiche (30%) e solo nel 15,7% dei casi sottolineano le abilità artistiche della donna. L’estetica complessiva è quella dell’avanspettacolo mediocre (36,4%) e scadente (28,9%). Nei reality in particolare, della donna si sottolineano invece doti di adattamento, furbizia e spregiudicatezza. Nell’informazione la donna compare soprattutto in servizi di cronaca nera (67,8%), in una vicenda drammatica in cui è coinvolta come vittima. E il suo intervento, in un servizio televisivo, dura fino a venti secondi, nel 45,2% dei casi. Anche i programmi di approfondimento sono in mano agli uomini (63%). Ma se le donne intervengono in qualità di “esperte” lo sono soprattutto su argomenti come l'astrologia (20,7%), la natura (13,8%), l'artigianato (13,8%) e la letteratura (10,3%). Sembrerà poco consolante, ma è la fiction il genere che meglio descrive l’evoluzione della condizione delle donna, rappresentata come dirigente di distretti di polizia, come medico e avvocato in carriera. L’Osservatorio di Pavia Media Research si occupa tra gli altri temi anche di donne e media: il suo studio su Rappresentanze di genere nelle emittenti televisive regionali e stereotipi del 2007 rivela che le donne speaker che conducono i telegiornali sono il 36,4% contro il 63,3% degli uomini. Va meglio per le donne reporter: le giornaliste rappresentano il 45,7% dei corrispondenti. Tra i soggetti Gli stereotipi di genere –www.kila.it 3 dell’informazione emerge che il numero delle donne di cui si parla o a cui si dà la parola nelle notizie rappresenta solo il 14,8%. E gli uomini risultano anche più rappresentati dalla categoria degli esperti rispetto alle donne (15,8% contro il 6,7%). Mentre le notizie incentrate su protagoniste donne o su “questioni femminili” coprono poco più del 5% dell’informazione. L’Osservatorio si occupa da anni del rapporto tra donne e media e l’insieme dei dati conferma comunque l’uso segregante di immagini e linguaggi. Scelte fatte sempre in funzione della visibilità che i soggetti hanno nel mondo in cui si muovono: gli uomini vengono quindi associati più alla sfera pubblica, le donne al socialeprivato. E, nell’intrattenimento la situazione non cambia, anzi: vengono esasperati luoghi comuni quali leggerezza e bellezza contrapposte a autorità e autorevolezza. Le donne parlano di sé per raccontare la realtà mentre la parola dell’uomo offre uno schema interpretativo di questa. Linguaggio e stereotipi La comunicazione veicolata dai mass media si basa sul linguaggio. E proprio nel linguaggio risiedono spesso stereotipi. Già nelle parole che usiamo si annida non la differenza, bensì una forma di discriminazione. Ci sono le polarizzazioni e asimmetrie semantiche, per cui determinati termini al maschile hanno un significato dall’accezione positiva, mentre al femminile succede esattamente il contrario: “celibe” significa privo di legami, libero da vincoli, perché per la mentalità patriarcale l’uomo poteva decidere se sposarsi o no, mentre “nubile” significa “da sposare”, dando a intendere che per la donna era meglio che sposasse, o meglio che qualcuno la prendesse in moglie; “scapolo” è una parola che suscita quasi simpatia, mentre zitella è stato sempre usato in senso peggiorativo, finché non è stato sostituito dal più rispettoso “single”. Ci sono anche altri casi in italiano (emancipato/emancipata, mondano/mondana), ma tra tutti è degna di nota la coppia la governante/il governante: il femminile indica una donna stipendiata che si occupa dei bambini e dell’andamento della casa; il sostantivo maschile il capo del governo di un paese, che amministra il potere per conto di un grande numero di persone. Come a dire che, stando al linguaggio, il “regno” delle donne è la casa, mentre per gli uomini è un paese o una nazione. O ancora maestra/maestro: la prima insegna nella scuola materna o elementare, il secondo è esperto su qualcosa e va preso ad esempio e modello. Sembrano davvero banalità, minuzie grammaticali che diamo per scontate e usiamo come se niente fosse. E che dire allora dei femminili mancanti in italiano? Guarda caso, proprio per termini relativi e professioni e cariche in origine appannaggio solo degli uomini (allo stesso modo, parole come casalinga, massaia, segretaria sono per tradizione solo femminili e sempre per caso stanno ad indicare lavori ritenuti meno professionalizzanti rispetto a quelli maschili). Il risultato è che la lingua italiana non rispetta l’utilizzo del genere, ma se lo facesse potrebbe scalfire una cultura che mette il femminile in secondo piano. Ne è convinta Cecilia Robustelli, associata di linguistica italiana all’Università di Modena e Reggio e promotrice di una Proposta per un uso della lingua italiana rispettoso dell’identità di genere. La tesi è questa: nel corso degli anni, nonostante le ancora evidenti disparità rispetto agli uomini, le donne hanno vissuto un’ascesa in ruoli, carriere, professioni e visibilità, ma la lingua non si è adeguata al cambiamento, perché continua a privilegiare l’uso del maschile attribuendogli una falsa neutralità. Nella comunicazione quotidiana, ma anche sui mezzi di informazione, si parla ancora di sindaco, ministro e assessore, solo per citarne alcuni, anche quando il soggetto in questione è una donna, mentre bisognerebbe declinare al femminile. Altrimenti si attua un oscuramento linguistico della figura professionale e istituzionale femminile che ha come conseguenza la sua non-comunicazione e, in sostanza, la sua “negazione”, perché ciò che non si dice non esiste. I media dovrebbero prestare maggiore attenzione a questo aspetto. Il comunicatore e il giornalista, probabilmente, rispettano nel loro modo di lavorare le differenze non solo di genere, ma anche di religione e nazionalità, ma non lo fanno nell’uso del linguaggio. Ci sarebbe invece bisogno di declinare i termini e di creare una provocazione, altrimenti le donne continueranno a far fatica in un sistema che continua a favorire il mondo maschile: può essere un modo efficace per sradicare stereotipi ormai entrati nell’inconscio collettivo. In ogni caso, tentare non costa nulla. Così, CR@M, rivista mensile dell’economia responsabile presente anche on line come portale CR@M, si è dotata di un Codice etico della comunicazione (PDF, 160 KB), per diffondere un’informazione senza stereotipi, per evidenziare Gli stereotipi di genere –www.kila.it 4 le principali forme di discriminazione veicolate dal linguaggio e dalle rappresentazioni sociali, soprattutto attraverso la falsa neutralità, come l'utilizzo nella lingua italiana del genere maschile come universale, e l'occultamento delle differenze. I punti chiave del codice sono: utilizzare un linguaggio e dei contenuti rispettosi delle differenza e con cui provare a sradicare gli stereotipi; assicurare che all’interno della testata ci sia attenzione per le pari opportunità; scegliere attentamente le immagini. L’educazione: prima arma contro gli stereotipi Fino a questo punto si è parlato di stereotipi persistenti, rigidi e dei modi per poterli sradicare, agendo sui mezzi di comunicazione e sul linguaggio. E se invece si lavorasse per evitare la produzione di certe mappe mentali? L’educazione può avere un ruolo fondamentale in tal senso. Perché spesso gli stereotipi condizionano ancora i ragazzi nel proprio percorso di studi. Il che può pregiudicare loro il futuro: nel caso delle donne, significa chiudersi determinate possibilità professionali ancora prima di provare ad accedervi. Nel marzo 2007 l’associazione torinese Idea Lavoro, agenzia di formazione e orientamento professionale con approccio di genere, ha organizzato un seminario sul tema con scuole, ricercatori, enti di formazione. Da un campione scelto, studenti di istituti tecnici e professionali, molto ristretto, ma esemplificativo di come certi stereotipi facciano fatica a morire, è emerso che le ragazze vogliono magari diventare maestre e non contemplano alcuni lavori, come l’ingegnere o l’avvocato, un tempo considerate tipicamente maschili. La realtà quotidiana, ma anche i modelli offerti, ancora una volta, dai media: un mondo in bianco e nero, dove compare di rado una figura di donna professionista affermata, mentre abbondano donne belle e discinte che hanno successo nel mondo dello spettacolo. Sempre l’associazione Idea Lavoro, con il sostegno, tra gli altri, della Commissione Regionale Pari Opportunità del Piemonte, ha ideato e diffuso sui principali mezzi di trasporto pubblici torinesi una campagna dal titolo Abbassa lo stereo(tipo): un invito a rinunciare agli stereotipi e provare a guardare uomini e donne con occhi diversi, suggerendo che uomini e donne possono imparare a confrontarsi al di là di schemi prefissati e ad ascoltarsi meglio, se abbassano la manopola dello stereo(tipo). Non a caso, i messaggi sono stati diffusi proprio nel 2007, Anno europeo delle Pari Opportunità per tutti, e in concomitanza con Melting Box, la prima Fiera Internazionale dei diritti e delle Pari Opportunità per tutti, svoltasi a Torino dal 22 al 24 ottobre 2007. Nel contempo, però, anche un problema di educazione. Sono quindi la famiglia e la scuola che per prime dovrebbero educare i bambini per evitare che la disuguaglianza di genere si trasformi, negli anni, in disuguaglianza sociale, nel lavoro e nella vita. Il che vuol dire non solo aiutare nella scelta del proprio percorso non pregiudicando alle ragazze studi ritenuti ancora da tanti maschili, anche perché poi le ragazze che vi si cimentano, dimostrano spesso di essere più brave e di ottenere risultati migliori e in breve tempo. Vuol dire anche educare alla lotta contro stereotipi ormai entrati nel senso comune e quindi facilmente assimilabili nella crescita, stimolando l'esame critico. Anche in questo caso ci sono però iniziative positive, buone prassi. Come il kit didattico Parità: la scuola fa la differenza, realizzato dalla Regione Piemonte nell’ambito della campagna Parliamo con i giovani, con l’obiettivo di stimolare gli studenti a riconoscersi in valori positivi, incentivando la decostruzione di stereotipi e pregiudizi con suggerimenti di attività da realizzare in classe e con interscambi con il territorio. O ancora, il progetto Demetra-per una nuova cultura di pari opportunità e conciliazione, finanziato dall’iniziativa comunitaria Equal, conclusosi il 30 giugno 2008. L’obiettivo è stato promuovere il ruolo della donna nel mondo del lavoro e nello sviluppo del territorio, contrastando la discriminazione e la disuguaglianza di genere nel mercato del lavoro, promuovendo una politica di conciliazione, faciitando l’ingresso e la permanenza delle donne nel mondo del lavoro, in particolare in professioni tecnico-scientifiche, oltre al loro accesso alle tecnologie informatiche. Il progetto, nato dalla collaborazione tra 18 partner della Regione Lombardia, si rivolge anche alle scuole e tra le diverse proposte mette anche a disposizioni di insegnanti e alunni una lezione-laboratorio dal titolo A scuola per ... disimparare gli stereotipi di genere. Gli stereotipi di genere –www.kila.it 5