numero 18 - Finzioni Magazine
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numero 18 - Finzioni Magazine
The Godfather Michele Marcon Il nostro padrino del mese, uno scrittore raccontato attraverso i suoi libri e non, Iddio ce ne scampi, la sua autobiografia. La questione è l’irriducibile sbilanciamento di ogni biografia, nel senso che dove c’è più bio c’è meno grafia e viceversa. Ma nonostante questa imperfezione cronica che contraddistingue la vita di ogni scrittore, poeta, drammaturgo, paroliere, non sembra anche a voi che le vite dei letterati di un tempo fossero molto più “ricche” e più “piene” delle vite degli scrittori attuali? Biografia, questa, quantomai ellittica (per ovvi motivi di editing), ma quantomeno ricca. Si trova qualcosa del genere di questi tempi? Difficilmente. Per fortuna che Ungaretti è tornato recentemente di moda grazie ad un Meridiano che raccoglie tutte le traduzioni (molte mai pubblicate) del poeta. Prendiamo per esempio la biografia di Giuseppe Ungaretti. Poeta italiano non per caso, ma per scelta. Nacque ad Alessandria D’Egitto e vide il suolo patrio per la prima volta nel 1912, a 24 anni suonati, e tra l’altro solo di passaggio, poiché stava andando a Parigi per compiere studi universitari. Poi scelse l’Italia quando nel 1914 piombò sull’Europa la Grande Guerra, e si arruolò volontario per combattere sul Carso. BOOM, nel 1916 stampa 80 copie della sua prima raccolta poetica, Il Porto Sepolto. Nel 1918, finita la guerra, torna in Francia dove comincia a maturare l’influsso dei numerosi intellettuali conosciuti durante il soggiorno parigino (gente come Apollinaire, Papini, Palazzeschi, Modigliani...) e così BOOM, nel 1919 pubblica Allegria di naufragi. Nel 1921 si trasferisce a Roma, lavora al Ministero degli Esteri, nel 1925 aderisce al fascismo (il fascismo!) e manco a dirlo BOOM, eccoti Il Porto Sepolto ripubblicato con una prefazione di nientepopodimeno che Benito Mussolini (Mussolini!). Nel 1928 si converte al cattolicesimo e ancora BOOM, esce Sentimento del Tempo. Nel 1936 accetta la cattedra di letteratura italiana presso l’Università di San Paolo in Brasile. Scelta fatale: nel 1939 muore il figlio Antonietto per un’appendice mal curata e il poeta rimane distrutto e lacerato. Uno stato d’animo che possiamo ritrovare in molte poesie de Il Dolore (BOOM, 1947) e Un grido e Paesaggi (BOOM, 1952). Tornato in patria viene nominato accademico d’Italia e, tra le varie cose, legge al grande pubblico televisivo i versi dell’Odissea. Muore nel 1970 per una broncopolmonite e BOOM. Chiusa la questione vorrei concludere ricordando L’Allegria, forse la raccolta che più di tutte segna un punto di svolta nella carriera di Ungaretti. Ora potrei scrivere paroloni come “ermetismo” o “simbolismo”, oppure potrei citare poesie famosissime come Mattina o Soldati (che sono così brevi da non creare problemi di editing), ma preferisco usare un apoesia un po’ più lunga, ma altrettanto famosa. E scelgo di usarla semplicemente perché è la mia preferita: «Di queste case / Non è rimasto / Che qualche / Brandello di muro / Di tanti / Che mi corrispondevano / Non è rimasto / Neppure tanto / Ma nel cuore / Nessuna croce manca / È il mio cuore / Il paese più straziato». 3 Sommario Editoriale Jacopo Cirillo 6 7 8 9 10 11 14 16 17 18 20 22 24 26 27 28 32 La citazione del mese Le vite ortogonali Mitomania Il finzionario Trilogie Interferenze Letto e mangiato Pillole di scienza Punizioni Donne&compressori Eccezioni La lettera che muore Devo ancora finirlo Scritto da un idiota Ghost world La posta dei lettori di Matteo Bettoli Iperboloser Finzioni sta cambiando, e sta cambiando un bel Ecco, mi sembra che sia tutto. Noi siamo capo’. Potete vederlo dalla copertina, che contie- richi, e molto, per questa nuova avventura, e ne tra l’altro un simpaticissimo anagramma da non ci fermiamo certo qui: Carlo Zuffa, che di risolvere. Lo potete intuiremost dall’impaginato, diavolerie tecnologiche ci capisce un sacco, sta Nam idelibu scitas enihil aut ea dolutedai plabor ant, volupture volo modit ulluptate num ius, paragrafi, dai caratteri Flavio Lucidi è il repreparando il nuovo sito che inaugureremo a coriost iumquae. Et landam aliquamusdae est, volupta spitate poreius. sponsabile del restyling e prima di tutto ringrainizio febbraio. Poi abbiamo uno scatolone di Ibus mos doluptate porenducia etus aut fugitatusda qui occus sequibus, to etur sit accuptur, undus ziamo lui. E se verrete incantati dalla selezione libri della casa rem editrice da dare et opturib eribusae. Nam qui odigendae liatemquis voluptatibus assi DeriveApprodi apienis aut volupta tiodelle immagini, ecco, dobbiamo dare il meriin premio non appena avremo deciso cosa dostia et ipsunto rionse pedi totas andebis sitisquam escimet molupta taectae denis comnieni culpa to ad Alberto Gottardo iderese e Alberto Cocchi, due vrete farevelleniet per averla in Otasper premio –sperspe non tutta la verese il inus doluptate rferio eaquodipis aut vitia labo. as aut provetti fotografi che si sono lavorare un libro alla volta. eostia dolorum reperoratur, et messi autem avitiis ra quist,scatola, essundelit aliciatibus. insieme solo per noi, cercando (e trovando, a Nosamet, cor am, tem dolorem aut dolore ipit iusda nima apietus assim fuga. Iquiduc iandiatus nostro parere) una linea Adesso è proprio tutto. Grazie a quelli ci audipsusae. Musant fuga.editoriale Ihilicae etinteressante milibusam dolorporem voloreped quianda nem fugitische amet efugiae innovativa per Finzioni. E poi sono belli belli vogliono bene e che ci hanno permesso di arsamenih icatio is est, quam, que esed maximol oressit deruptibusam la prehend emquiss in modo assurdo. rivareetur? fino aQui qui,con noireiunt continueremo a sbatterci umquost qui cus quam ut vidi aborerios exerci seque volorest eum nonet nei week-end, a perdere decimi su decimi ea eatemporit, aceprepudi doluptatecto offictur? Altre le novità: ogni rubrica viene introdotta ordinare occhiali dalle lenti sempre più spesse Bisitibus veria consequid mo te veliquatum in rest facerum fugitas arum inctotatur, con nihil ipda un paiomo di estium righe diquamus spiegazione, modo daconsolo il lenimento del vostro solleticosequae intelsaperchit aspis di voluptatia remper et velique quasitatem qui officiate sapere già da subito cosa vi aspetta nei paragralettuale. E non è mica poco. nam volorias non pratestrum corepro vitature nate nonseruptam fugitius sit min evel ipsam, sam fi successivi. simone rossi, poi, abbandona Oh, Mi, sin et faces venisque eum voloriametur aliqui quaeste ctaspel eceptas peleniet aliaeru metur? Scena! raccontarci i libri cheipsum sta leggendo volupieper ndaecus maximaio blab verum re as et et officidebis evelige nducit aut parum renma non ha ancora finito, ma ha talmente voglia ditatum soles ererchi tatur, odiande mposti ut aut porrunte magnam et facersp erumque aut ulla di scriverci su che si accontenta di essere arrivanos aut aceat as doluptatur, aut et, to a pagina 100 o giù di lì. 5 La Citazione Del Mese Jacopo Cirillo Frederick Henry vs Zeno Cosini Gli aforismi e le battute più dimenticate della storia della cultura mondiale illustrate in modo pretestuoso con libri che non c’entrano nulla. Sembra che molti tra gli intellettuali e le grandi menti del novecento abbiano in comune la passione per il calcio. Non stiamo qua a citare gente, basti ricordare Carmelo Bene – che insieme a Ghezzi ha scritto pagine indimenticabili su Romario – e il Mahatma della citazione. Il calcio, oltre ad essere il più grande collante sociale d’Europa, se non del mondo, pare avere anche qualcosa in più, uno spirito che lo trascende, colto spesso dalle personalità più attente brillanti. La compagnia dei Celestini di Benni, che parla di pallastrada, ma più o meno è la stessa cosa. E poi L’eroe dei due mari di Giuliano Pavone, appena uscito per Marsilio. L’eroe dei due mari unisce mirabilmente due grandi pretesti per scrivere un libro: il calcio, appunto, e quella cosa che chiameremo “estetica del vediamo che succede”. In pratica è quando ti viene un’idea iniziale molto particolare e poco veridica che istituisce una proliferazione di universi possibili verso i quali la Il calcio è uno sport che emana nobiltà, è una disciplina che esalta il senso del gruppo ed è un’attività che permette di raggiungere la pace spirituale. Giocare a calcio un’ora al giorno è meglio che affrontare un’ora di meditazione. Gandhi Insomma, piace a tutti perché tutti ci vedono dentro quello che sono: l’ultras ci vede l’agone, l’intellettuale la poesia, il tifoso la fede. E lo scrittore ci vede il pretesto. Molti libri hanno avuto successo immediato – spesso poi confermato dai fatti – solo perché parlavano di calcio. C’è L’inattesa piega degli eventi, romanzo ucronico di Brizzi sul campionato delle colonie italiane in Africa, storia avanza autonomamente. È come quando dici che questo è un libro che si scrive da solo. Idea iniziale: il più grande giocatore di calcio del mondo passa dall’Inter al Taranto (in serie C) a titolo gratuito per grazia di un santone televisivo. Ecco, e poi vediamo che succede. Vediamo se il Taranto migliora effettivamente, vediamo come la città accoglierà il campione. Giuliano Pavone l’ha pure detto: ho cominciato a scriverlo senza sapere dove sarebbe andato a parare. Adesso qui potremmo fare quelli che dicono: in realtà il calcio è un’astuta metafora per raccontare il degrado e la rinascita di Taranto, insieme una delle più belle e brutte città d’Italia. Oppure: la discesa del campione, in quanto paradosso, rappresenta la grave situazione dello sport moderno, incastrato tra gli ingranaggi degli sponsor e la rapacità degli agenti. E invece no. E invece libri così, per quanto siano piacevoli da leggere e interessanti da raccontare agli aperitivi, bisogna trattarli come quella puntata dei Simpson in cui Homer consiglia a Bart, per farsi eleggere capoclasse, di scrivere a caratteri cubitali sui suoi manifesti SEX!! Now that I have your attention, vote for me. CALCIO!! BELLE IDEE IN NUCE!! Ora che ho la vostra attenzione, leggete il mio libro. Le vite ortogonali Parallelismi e differenze, in odor di Plutarco, tra le vite e le storie dei personaggi di carta più (o meno) amati da tutti noi. Jacopo Donati Plutarco scrisse una serie di 24 biografie che prese il nome di Vite parallele. Per ognuna prese una figura greca ed una romana, le mise una affianco all’altra e ne cercò le similitudini. Ma qui si parla di finzione, mica di realtà!, e così i miei grandi saranno i personaggi d’inchiostro dei libri. Lavoro ben più umile il mio che, oltre a esaminare solo una parte della vita di questi personaggi, ne sottolineerà le differenze. Frederick Henry Frederick Henry è un tenente americano arrivato in Italia durante la prima guerra mondiale e combatte con gli italiani sul fronte austriaco. È l’alter ego di Hemingway in Addio alle armi e ha girato tanto per lo Stivale che tanti non credono neppure che sia americano. È un uomo solo, soprattutto quando circondato da altre persone; incontra tanta gente, ma ne conosce per davvero soltanto una manciata. Uno dei suoi più grandi amici è un chirurgo chiamato Rinaldi che fa turni massacranti ed è convinto di avere la sifilide e sarà proprio Rinaldi a presentargli Catherine Barkley, un’infermiera scozzese. Henry viene ferito gravemente e durante a lunga degenza viene assistito da Catherine in un ospedale a Milano. Lei rimane incinta e cominciano a fare progetti per quando sarà finita la guerra, ma tutti i sogni vengono spazzati via con il richiamo al fronte di Henry. Bloccati su una strada aperta al fuoco nemico, Henry si staccherà dal gruppo con altri soldati e da quel momento verrà considerato un disertore. Henry rischia l’arresto e la fucilazione, ma ciò non gli impedisce di raggiungere prima Milano e poi Stresa, dove è andata Catherine. Scoprono che la polizia militare è sulle sue tracce e attraversano il confine via lago raggiungendo la Svizzera. 7 Zeno Cosini Zeno Cosini, il meraviglioso protagonista della Coscienza di Zeno di Italo Svevo, è un uomo d’inerzia, una di quelle persone che cercano di andare avanti col minimo sforzo possibile. Fin da giovane si lascia trasportare dal vizio del fumo e dal vizio dei propositi di smettere di fumare; dalla deriva tra un paio di facoltà universitarie diverse e dall’incertezza negli affari. Zeno ha le capacità ma non si applica. La sua incredibile inerzia diventa ancor più evidente in amore. Decide che gli serve una moglie, e perciò entra in casa Malfenti dove ha saputo che vi abitano quattro sorelle. La rosa si restringe quando vede che una è adolescente e l’altra bambina, e tenta di conquistare la più bella delle due rimaste, Ada. Non la conquista. Si sposa con Augusta e la scelta si rivela fortunata: Augusta è una buona moglie e, dopo la malattia che sfigura Ada, diventa la più bella tra le due sorelle. Ma la vita di Zeno non cambia poi molto e continua essere guidata più dal caso che da Zeno in persona. C’è chi dice che se si desidera davvero qualcosa bisogna andare a prendersela. Impegnarsi. Zeno è fortunato e molte delle decisioni prese per inerzia si rivelano col tempo le migliori mentre Henry vive tra la paura di essere fucilato e i pericoli che incontra perché ciò non succeda. E tra i due, però, l’unico che ha davvero vissuto qualcosa è Henry. Mitomania Viviana Lisanti Le sirene hanno perso la voce Dove si parla delle matte storie inventate dagli antichi greci e mutuate dai moderni. Quando si prende a prestito un mito si operano spesso dei tagli decisivi al testo originale. Nel caso delle sirene il primo doloroso taglio è stato quello delle ali: Apollonio Rodio ci dice infatti che le tre creature nate dall’unione di una musa e di un dio del mare, per scelta o castigo, furono tramutate in esseri per metà donne e per metà uccelli. Appostate su una rupe cantavano e suonavano persuadendo i marinai ad ascoltare e di conseguenza morire nell’incanto della loro voce soave. Quando Ulisse facendosi legare resistette al loro fascino mortifero le sorelle si suicidarono schiantandosi in mare. Ed è a questo punto che la tradizione letteraria tarpa le ali e fa spuntare una coda di pesce o forse è solo colpa di un amanuense che nel medioevo trascrisse la storia scambiando L’evoluzione marina della figura mitologica si cristallizza poi con la fiaba di Andersen del 1836 ( La sirenetta e altre fiabe, H. C. Andersen, Rizzoli, euro 6,40). La sua sirenetta è una triste principessa degli abissi che spinta dall’amore per un umano a desiderare un’anima immortale abbandona famiglia, casa, sembianze e rinuncia alla preziosa voce. È l’ulteriore mutilazione del racconto antico: prima le ali adesso la lingua, recisa dalla strega del mare che in cambio dona alla fanciulla due gambe attraenti. Le sirene moderne sono quindi ammutolite ma non solo a causa di un muscolo mozzato: anche quando accoccolate su uno scoglio intonano la loro melodia ciò che risuona è un vuoto gorgheggio, seducente ma spoglio dalle terribili promesse che minacciava nell’Odissea «Nessuno è mai passato di qui con la nera nave/ senza ascoltare con la nostra bocca il suono di miele/ ma egli va dopo averne goduto e sapendo più cose» (Odissea, Omero, Bur, euro 10,80). Le dee oracolari, volto e corpo dell’umana utopia di onniscienza, hanno rinunciato alla loro prerogativa e si chiudono nel silenzio. Forse tacciono perché non abbiamo più desiderio di sentirle? Come l’Ulisse del racconto di Kafka (Il silenzio delle sirene, Racconti, meridiani Mondadori, euro 10,96) che si tappa le orecchie con la cera e superbo passa davanti alle sirene pensando che si stiano sgolando invano. Che cos’é uno sportivo. O di come sia possibile pulirsi Ciclisticamente il culo. Il finzionario Non sempre a pagina giunge lo scritto. Ci son letterature che non sanno d’esserlo e fuor del libro fan nido. Staniamole! Ma è tutto un equivoco le sirene tacciono! e forse Ulisse finge di credere che cantino, ha bisogno di illudersi. Nel mondo di Underwater creato da Laura Pugno nel suo esordio letterario Sirene (Einaudi, euro 11,00) non servono tappi di cera né corde per legarsi. Non sono le sirene ad essersi zittite, quanto gli uomini ad aver perso la capacità di udirle. Le sirene rimangono quegli esseri ammalianti e pericolosi capaci di portare alla morte, anzi si arricchiscono di particolari come i denti aguzzi o la coda assassina. Ma sono ormai del tutto desacralizzate ed eroticizzate: la loro carne di mare è buona da mangiare e da violare e con questa prospettiva sono sedate, allevate e nutrite. Galleggiano in enormi vasche sorvegliate e cantano per i cani, gli unici rimasti in grado di sentirle. Nel Piccolo trattato di ciclosofia, Didier Tronchet racconta di come si possa raggiungere ciclisticamente il mondo. Non già nel senso di una banale locomozione che pervenga a lande più o meno discoste ma di una gnosis e, al tempo stesso, di una áisthesis propriamente ciclistiche sotto le quali il mondo ci possa diventare accessibile. Il suo problema non è dunque quello di raggiungere in bicicletta la fabbrica della birra bensì quello di pensare, aprire e bere la birra sub specie ciclistica o, secondo una lezione più greve, alla ciclista. Lungo questo crinale, a ben vedere, guadagna anzitutto un proprio nitore la possibilità di definire lo sportivo. Esso – in breve – sarà tale non tanto in ragione di sue particolari performance con le quali si dimostri più o meno capace di cimentarsi nella propria disciplina, quanto piuttosto nella misura in cui riesca a desumere dalla propria praxis atletica un mood attorno al quale riconfigurare coerentemente l’integrale delle proprie inserzioni mondane. Lo sportivo, cioè, sarà veramente tale quando – colto nel parcheggiare la propria automobile – se ne potrà dire: “Toh’, un pallavolista”. Sarà così possibile piantarla di offendere generazioni di sportivi che, dismessi i panni dell’atleta, finiscono per essere definiti ex calciatori, ex rugbisti, ex motociclisti e quant’altro. Se in vita tua sei riuscito a operare tanta desunzione, sportivo lo sarai per sempre. Come per sempre è un diamante, come per sempre sono le emorroidi. La scopata del pugile, in breve, continuerà ad attestarlo in quanto pugile non fin quando salirà sul ring ma semmai fin quando onorerà la propria branda. E quando più non potesse farlo, ad attestarlo in quanto pugile saranno ancora lo sguardo, il modo di asciugarsi la fronte, di pagare le bollette, di aspettare l’autobus, di pulirsi il culo e infine di spirare. Di contro, atleti che, nel pieno delle loro forze e delle loro 9 Edoardo Lucatti vittorie non si siano tuttavia convenientemente dedicati a suggere la cifra invisibile dei loro sforzi, perderanno qualunque diritto a pregiarsi dello statuto di sportivi. Un discorso che, temo, calzi drammaticamente bene a pletore di bombatissimi energumeni che sempre più premono la curva poetica dello sport sino a farne la retta incolore di un mestiere. Lo stesso scarto, ad esempio, che corre fra l’elegia di Mario Corso, storico calciatore interista inventore del tiro a “foglia morta”, e l’insolente prestanza fisica – altrettanto interista - di un odierno “Speedy” Biabiany, che farà pure i 100 metri in 10”03 ma che del calcio non ha desunto proprio nulla. Per altro, al di sotto della questione sportiva, mi sembra agitarsi e – quasi - fremere un problema più generale, che investe moralmente la concezione stessa dell’Autentico. Si sarebbe dunque autentici quando ai propri comportamenti manifesti, alle proprie azioni dirette a quello scopo che - raggiunto - le consuma, sopravviva un puro gesto, plesso di tensioni motorie e/o di eidetiche cognitive, capace di rimanere a disposizione sulla soglia di ulteriori scaturigini, quasi come la riserva ancora inedita che insiste in tutto l’édito editàto. Le vulgate, vale a dire i pensieri deteriori e manichei con i quali la miseria dell’uomo tenta di barbarizzare intelligenze precedenti, possono essere definite come azioni alle quali nessun gesto sia più in grado di sopravvivere, alle quali – forse – nessun gesto sia più nemmeno sotteso, nelle quali – insomma – nessuna riserva di inedito si degni d’insistere. E noi di Finzioni, che viviamo esattamente saccheggiando la lettera d’altri, abbiamo cura estrema di serbare al nostro furto un afflato creativo che lasci intuire – in filigrana – quel gesto che volge ogni recensione in accensione. Noi, come Mario Corso, siamo sportivi un bel po’. Trilogie Stefano Fanti Fred Uhlman – Trilogia del Ritorno In realtà ‘tre’ è il numero perfetto grazie a Paul Auster. Qui di seguito le più belle trilogie di sempre. E’ fin troppo banale trovare nel crollo di Pompei (o meglio, nei crolli), una metafora perfetta della situazione culturale italiana. O, rimanendo in tema di tragiche cadute - questa però volontaria e lucidissima - quella che ha portato alla morte del maestro Monicelli, un simbolo (restando ancorati all’uso della figura retorica) dell’inglorioso destino riservato a quanto di meglio il nostro paese ha offerto alla storia, tanto da offuscare – almeno in parte - una mentalità comune da uomo-pecora tipicamente nostrana. E’ ovvio, un rinnovamento - che poi è intrinsecamente ritorno - potrebbe ridonare credibilità a tutti noi, socialmente certo, ma soprattutto inconsciamente, quando la comprensione di deriva ormai tocca anche l’animo più misero (non di tutti ancora, purtroppo). Di conseguenza non è un caso se la trilogia di questo mese è quella scritta da Fred Uhlman e composta da “L’Amico Ritrovato”, “Un’anima non Vile” e “Niente Resurrezioni, per favore”: La Trilogia del Ritorno. Nell’opera dello scrittore tedesco, a cui molti si sono accostati durante le scuole, essendo, soprattutto “L’Amico Ritrovaro”, lettura didattica per eccellenza delle estati giovanili, è importante ritrovare la spontaneità e la leggerezza con cui viene affrontato un tema complesso e stratificato come il nazismo. L’uso dei bambini come protagonisti – non in “Niente risurrezioni…” che è però un memorandum guardato con occhi di innocenza rara, non filtrata dal prece- dente bellico, ma pura nella sua forte contrapposizione, che definirei viscerale, tra l’ebreo il popolo tedesco post dittatura, che questo, come soggetto singolo, sia direttamente coinvolto o no – ha la dote di donare freschezza ad anni dilanianti, non scadendo nel banale, ma restando in superficie solo apparentemente. L’avvicinamente/allontanamento di “Un’anima…” è potentissimo per densità ed allo stesso tempo leggerezza, con il personaggio della madre che ti si pianta in testa (per non dire sui coglioni, l’ho detto) tanto quanto Jordan Chase (chi guarda Dexter sa di cosa parlo, per tutti gli altri basti la definizione di fetido), e con la deriva di un’amicizia che diventa lo scollamento di un popolo dalla sua nazione. Rileggere i tre romanzetti in questione con lo sguardo di oggi è sorprendentemente illuminante. “Signori, avreste dovuto lasciarmi in pace. Non avreste dovuto costringermi a rivolgervi un discorso contro la mia volontà e le mie disposizioni d’animo. […] Com’è possibile che io discuta di interessi comuni, di ricordi comuni, di amicizia, quando tra noi insorgono gli spettri di sei milioni di ebrei? Com’è possibile, che io, ebreo, sieda a tavola con voi e dimentichi i milioni che sono morti di stenti, senza essere sicuro che la mano che mi offre da bere e da mangiare non è macchiata del sangue della mia famiglia? E come potete parlare della “mia” patria, quando trent’anni su cinquanta mi sono stati rubati, quando desidero ricordarne solo venti?” Buongiorno tristezza Interferenze L’importante è raccontare di storie, di letture e riletture, con l’unico vincolo della ricerca del filo di Arianna che conduca all’uscita dal labirinto letterario. Oggi qualcosa si ripiega su me come una seta, snervante e dolce. Bonjour, tristesse. Oggi che il freddo gela i pensieri mi capita tra le mani il libro di una stagione fuori luogo: un’estate adolescente anni ’50; la Costa Azzurra; la vita effimera di una generazione bohémienne, così ingenuamente, oggi, bohémienne. È capitato anche a te, certo, di sorprenderti con il libro di qualcun altro, più che tuo: ecco che si staglia dietro la copertina la sagoma familiare di una persona ormai perduta. Eccola, lei che ti parla del suo travaglio dietro quelle pagine che lei leggeva con tanta segretezza gelosa. Le parole assumono la sua voce nota e dimenticata. Interferenze del cuore. Bonjour, tristesse: fece epoca, al suo apparire, questo romanzo di una giovanissima debuttante, Françoise Sagan; sembrò il ritratto feroce di un’epoca ricca e vuota nella sua rincorsa della felicità, nel suo fuggire la coscienza delle responsabilità, attenta a non farsi turbare neanche dal lutto: mai disperazione, solo tristezza, «snervante e dolce». La curatrice della riedizione della Longanesi ne scrive come di un romanzo che non ha superato la prova del tempo. Io, però, che sono una lettrice d’istinti, non lo credo. Io sento ancora, al di là della polvere su uno scenario usurato, palpitare un sentimento che non ha epoca: le vele che si abbassano giorno dopo giorno. La noia, che non è l’ozio. La tristezza, dietro l’edonismo più decadente. Il vuoto dolce. La paura che l’anima si faccia pesante e cada nella palude della vita. Leggerezza? Sì, ma leggerezza di dolore, consapevolezza più forte che in altri che la vita è un appassire «e il frutto di giovinezza è un attimo/quanto dilaga sulla terra il sole». Mimnermo. Paura di fermarsi. Leggerezza anche della scrittura: è un romanzo “sentimentale”, che fa sorridere per l’ingenuità della sua trasgressione? Ma chi sa , oggi, parlare così bene del vivere fatuo, della paura di invecchiare (a quaranta, ma anche e soprattutto a sedici anni, anche e soprattutto quando si è giovani)? Tempi pieni fino a vomitare, i nostri. Lasciano forse, i nostri tempi, che la noia, il più sublime dei sentimenti umani (ode a Leopardi), risalga dalla profondità dell’esistenza a risvegliare il senso del tutto e del niente, rimescolando in noi l’euforia e la disperazione? Il romanzo è del ’54 e tra gli 11 Cristina Farneti trasgressione? Ma chi sa , oggi, parlare così bene del vivere fatuo, della paura di invecchiare (a quaranta, ma anche e soprattutto a sedici anni, anche e soprattutto quando si è giovani)? Tempi pieni fino a vomitare, i nostri. Lasciano forse, i nostri tempi, che la noia, il più sublime dei sentimenti umani (ode a Leopardi), risalga dalla profondità dell’esistenza a risvegliare il senso del tutto e del niente, rimescolando in noi l’euforia e la disperazione? Il romanzo è del ’54 e tra gli anni ’50 e ’60 si è celebrata, anche nel cinema, una stagione effimera e spettacolare di joie de vivre fou, di quella gioia che leggi negli occhi che ridono ma se sei attento vedi, dietro le pupille fisse, la luce del pianto. Nel romanzo della Sagan c’è un padre adorabile, un quarantenne fascinoso per la sua piccola Elettra, Cécile, cauto, anche nella prova della morte, a non rompere l’incanto della leggerezza, attento a non usare quelle parole che mondi possano aprirti. Un padre abituato a farsi amare, a giocare, sempre. La memoria retrocede, in bianco e nero: trovo un altro padre in fuga dal carico della vita, Bruno Cortona, (chi non ricorda il memorabile Gassman de Il Sorpasso?), truffaldino (modello, sostengono i critici, di una società aggressiva e amorale che partorirà i suoi frutti migliori negli anni Ottanta, o forse solo ipostasi dell’eterno dionisiaco), inebriante sulla sua Lancia Aurelia Sport, padre bambino, assassino senza colpa, stordito, mai disperato, quando la velocità gli prende la mano e uccide nella sua fuga via dal tempo lo studente sfigato, il fratello minore di tutti gli studenti sfigati, lo spirito contemplativo travolto nel fascinoso turbine della vita attiva. E poi un altro padre. Chi tra voi ha avuto l’onore di accedere a capolavori che i nostri tempi televisivi non fanno più parlare? Chi tra voi ha visto La voglia matta, il film di Luciano Salce del ’62, dove Antonio Berlinghieri alias Tognazzi, quarantenne, ingegnere, padre senza vocazione, con addosso la malinconia del tempo, l’eros della vita che si spegne, fa il matto in mezzo a degli adolescenti fuggendo al mare (il mare, ancora una volta, il luogo di quello straordinario momento di «leggerezza ipersensibile e irresponsabile» che è l’adolescenza)? E come non pensare, guardando Antonio con un senso di pena anche un po’ per noi, alla vecchietta di Pirandello, che s’imbelletta e fa del suo viso la triste maschera di un tempo contraffatto? Ma forse questo senso dell’umorismo tragico non ci appartiene più: guarda fuori dalle scuole, quelle madri e quei padri vitaminizzati, un po’ abbrustoliti, col petto guizzante e lo scollo sufficientemente abbassato, gli epigoni volgari di un tempo che non percepisce più se stesso. Adieu, tristesse. 13 Letto e mangiato Andrea Sesta La gallina era ormai carbonizzata Benedetta Parodi, con il suo best seller, ha retroattivamente copiato questa rubrica in cui si spiega come (e dove) si mangia nei libri. Quando mi capita di cucinare, alle amiche che affollano la cucina nella quale sto sfornellando, ricordo sempre che i più grandi chef del mondo sono maschi. Scherzo, ovviamente, ma sì sa: in ogni risata c’è una piccola verità. Cerco sempre di stabilire la mia posizione di “capocuoco”. Questo perché in cucina è necessaria una forma di controllo. I libri gialli, dal canto loro, ci parlano di un mondo fumoso, nel quale il controllo degli avvenimenti non è che una chimera. Un mondo misterioso, guidato dalle pulsioni. Infatti, tanto nella cucina, quanto nei gialli, non basta la razionalità per sbrogliare la matassa ma serve, piuttosto, un tocco femminile. Una visione del mondo più laterale: seguire strade che altri non vedono. Nel 1950 George Simenon dà alle stampe L’amica della signora Maigret (L’amie de Madame Maigret, nell’originale) che si preoccupa di ricordarcelo . Il pollo disossato ripieno è una ricetta (per la quale ringrazio mia nonna) adatta a introdurre questo libro. Serve un pollo disossato, potete pure farvelo disossare dalle macellerie interne ai supermercati, con un 1,5 kg di pollo, servirete fino a 8 persone. Prendete il pollo disossato e aprite il petto, in modo tale da poter inseri- re la farcitura. Servono del pane grattato (un panino), 5 cucchiai di formaggio e due uova. Dovete ottenere un impasto giallo. Passate del sale all’interno del pollo, poi riponete del prosciutto cotto, (150 g in tutto), poi l’impasto e poi delle fettine di Emmental (100 g). E poi un altro strato di prosciutto cotto. In modo da ottenere 4 strati: prosciutto, impasto, formaggio e prosciutto ancora. Una volta finito di infarcire l’interno del pollo, richiudetelo con del filo da cucina. Riponetelo in una casseruola e mettete delle patate tagliate a spicchi tutte introno. Lasciatelo in un forno preriscaldato a 180° per un’ora e mezza almeno. Comunque aspettate che la pelle assuma quel delizioso colore ambrato. “La gallina era sul fuoco, con una bella carota rossa una grossa cipolla e un mazzetto di prezzemolo, i cui gambi spuntavano dal bordo della pentola. La signora Maigret si chinò per controllare che il gas non si spegnesse, visto che era al minimo […] soddisfatta, usci, chiuse la porta e mise la chiave nella borsetta” (p. 11, Adelphi Edizioni, 2002). Con queste parole inizia uno dei tanti romanzi della saga di gialli polizieschi dedicati al personaggio del Commissario Maigret. Fuori dallo studio del dentista, la moglie del commissario ha incontrato una signora vestita di blu e con un cappellino bianco che, dal nulla, è scappata via affidandole un pargoletto per qualche ora. Continua la narrazione: “«Mezzogiorno e mezzo». La gallina era ormai carbonizzata! Maigret stava per rientrare e, per la prima volta in tanti anni di matrimonio, non l’avrebbe trovata in casa.” (p. 16, ibidem). La spiacevole disavventura della signora Maigret e un caso che appassiona l’opinione pubblica sono legati. La polizia sta impazzendo per un delitto: nella stufa di un rilegatore sono stati ritrovati dei denti e una telefonata anonima lo accusa dell’omicidio. Ma lui si dichiara innocente. Colpi di scena, giochi di palazzo fomentati da vecchi da rancori tra ex poliziotti e avvocati arrivisti. Il commissario non sa più dove sbattere la testa, ma nel mentre la consorte ha iniziato le sue indagini. Vuole scoprire chi era la signora con il cappello bianco che le ha fatto bruciare la gallina. Dopo un giorno passato a ricercare il negozio dove quel cappello è stato venduto, la signora Maigret sa a chi apparteneva il cappellino. Spiega: «I cappellini bianchi sono di moda solo da qualche settimana. Quello lo avevo guardato proprio bene. E non ce n’è uno uguale all’altro, capisci? Non ti dispiace mangiare qualcosa di freddo? Ho comprato del prosciutto di Parma dal salumiere italiano…» (pag. 88, ibidem). Con ironia mista a gratitudine, il commissario segue questa pista, che si rivelerà decisiva. 15 Pillole di scienza Fabio Paris Spettri e antidemoni Fisica, chimica e biologia non sono mai state così divertenti se, chi le spiega, ce le racconta come le racconterebbe agli aperitivi dopo dei gran Negroni. La notizia è rimbalzata su tutti i migliori giornali del mondo. Poteva Finzioni non occuparsene? Quel maledetto di Dan Brown l’aveva vista abbastanza lunga pensando a dei tizi che volevano distruggere il vaticano con un quarto di grammo di antimateria. Beh, sì, un quarto di grammo di antimateria che si annichilisce con un altro quarto di grammo di materia fa un mezzo grammo di massa trasformato in energia, grossomodo sarebbe l’energia della bomba di Hiroshima. Un po’ sovradimensionato come esplosivo per distruggere un grande edificio. Ma andiamo con ordine. Gli atomi che compongono la materia ordinaria sono formati da protoni (carica positiva) neutroni (neutri, ma al loro interno come subodole matriosche hanno altre particelle più piccole e di “carica” non nulla) ed elettroni (carica negativa). Esistono però anche le particelle a carica invertita, antiprotoni, antielettroni (positroni) ed antineutroni. Antiparticelle, che però in natura non si trovano, dato che sono attratte dalla materia e quando si toccano si annullano (annichiliscono) trasformando la loro massa in energia, secondo la famosa formula di Einstein E = mc2. La notizia è che al CERN di Ginevra per la prima volta dei fisici hanno isolato e stabilizzato con campi magnetici trentotto (38!) atomi di antidrogeno, per un tempo sufficiente a studiarli (un decimo di secondo). Ovviamente fare l’antimateria e stabilizzarla è cosa dura a farsi, alla facciaccia di Dan Brown che la fa sempre facile. Ma avere isolato questi antiatomi consente di studiarne lo spettro, ovvero il “colore” dato dall’interazione di questi con la luce. E qui la cosa si fa davvero interessante: alcuni anni fa si dava per scontata la simmetria (ovvero stessi comportamenti) tra materia ed antimateria, ma quasi tutte queste presupposte simmetrie sono state dimostrate essere errate. E ora siamo al dunque: se lo spettro dell’antiidrogeno si dimostrerà diverso da quello dell’idrogeno allora cadrà uno dei pilastri fondamentali della teoria della relatività (l’invarianza delle trasformazioni di Lorentz, per i secchioni), che dopo essere stata confermata decine di migliaia di volte potrebbe cadere improvvisamente come un castello di carte. Chiaramente tutti sperano di trovare la teoria fallace, ci saranno Nobel come coriandoli a carnevale e tanto lavoro da fare. L’attesa è grande e grande è la confusione sotto al cielo, dunque tutto è stupendo! Corrado Augias con Mauro Pesce, Inchiesta su Gesù Punizioni! Leggere certi libri è peggio del cilicio sulla schiena. Qui ci facciamo del male e raccontiamo la nostra esperienza provando a tirare fuori qualcosa di buono. Parliamo di saggistica, che è letteratura. Anzi è la cartina tornasole della letteratura: se un autore scrive un saggio bello da leggere, probabilmente scriverà anche ottima fiction (vedi Baudelaire), viceversa un saggio palloso nasconde un autore mediocre. Non ho mai letto niente della narrativa di Augias, ma se è vero quello che ho appena affermato, allora dubito che lo farò mai. Umanamente Corrado Augias è un grande uomo, impegnato, per di più in cause giuste e non di comodo. È un talento multitasking, la cui firma ha siglato dalla giallistica ai programmi tv, ma questo ahimé non gli impedisce di essere drammaticamente pesante. Il vertice di pesantezza esistenziale Augias lo ha toccato con Inchiesta su Gesù, una punizione da infliggersi a piccole dosi per uscirne vivi o un ottimo rimedio drastico contro l’insonnia, dipende dai punti di vista. Dico solo che mio padre, una personcina leggera che da quando è in pensione assilla il municipio con lamentele su tombini, strade e cantieri, ha mollato il libro in questione – un mio regalo, per altro – a pagina 107 sulle 245 totali. Classe 1943, mio padre non ha graziato Augias nemmeno con la solidarietà che si deve ai quasi coscritti, niente – ha lasciato lì l’Inchiesta nel 2006 e quattro anni dopo la situazione non è ancora cambiata. È sintormatico di una autoflagellazione esageratamente vigorosa per essere sopportata anche dalle pellacce più dure. Mi fa un po’ di tenerezza Augias, perché non ci prova nemmeno a rendere accattivante un libro che tratta di uno degli argomenti di per sé più impegnativi del mondo: la figura di Gesù Cristo. O meglio, Augias ci prova pure a renderlo interessante con un sottotitolo teneramente banale: “Chi era l’uomo che ha cambiato il mondo” e con una struttura a conversazione (tra Augias 17 Michela Capra stesso e il co-autore Mario Pesce, universitario professore biblista bolognese, insomma un altro comunicatore “due-punto-zero” fatto e finito) di una semplicità imbarazzante. La carne, il contenuto del libro, sicuramente è di pregio… per la ventina di professori e canonici che l’hanno letto per intiero in Italia. La meta delle quasi 300 pagine è davvero ambiziosa e in un certo senso troppo destrutturante per il nostro timorato paese: togliere tutta la teologia dalla figura del Nazareno per farne affiorare i contorni storici. Nell’élite di cui sopra l’Inchiesta ha fatto scalpore, suscitando risposte scritte e controtrattati. Proprio come funzionava nel Rinascimento, epoca illustre nella quale il mirabile eruditismo di Augias sarebbe stato premiato come merita. Donne&Compressori Alex Grotto Storia di Natale Per chi i libri preferisce farseli consigliare da uno che non ne ha mai letti e non dagli intellettuali veri di Finzioni. «Lo so che è quasi Natale, che è tempo di candele profumate, caminetti accesi, pasti interminabili o indigeribili, alberi di plastica che sembrano veri, sorrisi veri che sembrano di plastica e cose così. Ma non bisogna abbassare la guardia. Perchè loro, quelli che stanno nella stanza dei bottoni dell’equilibrio globale al di fuori di questo velo di maya fatto di consumismo e panettoni del discount, non vanno mai in vacanza e cospirano contro di noi». Questo che ho appena citato è il testo di una catena di Sant’Antonio che mi sono ritrovato nella cassetta delle lettere l’altro giorno e che ho subito associato al viral-marketing, anche se questa ipotesi è rimasta in ballottaggio fino all’ultimo con quella di una minaccia scritta da Giovanni Lindo Ferretti, ma non è questo il punto: la cosa importante è che chiunque l’abbia scritta dice il vero e i recenti fatti di cronaca geopolitica internazionale lo confermano. Mi sto riferendo alle ennesime schermaglie tra le due Coree e all’ondata di panico tra i colletti bianchi generata da Wikileaks. Tutto ciò mi ha riportato di fronte alla realtà cinica del mondo e a quell’altra realtà ancora più cinica: soffro di analfabetismo di ritorno per quanto riguarda la Storia Contemporanea. Mi serviva un luminare di chiare vedute e non indottrinato, così mi sono rivolto a Gianni Mosca, mio compare ed esperto cospirazionista, andandolo trovare nel supermercato in cui lavora. Stava nel magazzino ad impilare zamponi mentre un altro suo collega spalava le lenticchie. Gli ho spiegato la storia della catena di Sant’Antonio, della mia ignoranza diffusa e l’ho implorato di aiutarmi con un libro che avrei poi citato su Donne&Compressori per rendere finalmente utile questa rubrica: salta fuori il nome di Eric J. Hobsbawm e del suo lavoro più famoso “Il secolo breve” edito da Rizzoli, collana Bur-exploit, 700 pagine, 12 euro. Non lasciatevi impaurire dallo spessore gargantuesco del volume, si tratta per lo più di una trattazione schematica ed organica di tutto quello che c’è da sapere sul mondo nel periodo che va dal 1914 al 1991: le Grandi Guerre, il Socialismo reale e la sua fine, la Guerra Fredda (che alle superiori ci spiegavano gli ultimi due giorni di scuola), le Avanguardie, il Terzo Mondo (che alle superiori ci illustravano il giorno della festa di fine anno, le prime due ore della giornata): un ripasso dovuto e rivisto attraverso gli occhi di uno storico, filosofo e sociologo di quelli come Hobsbawm di cui io mi comprerei la maglietta. Lo comprate, lo leggete nei capitoli e negli episodi storici di cui avete un vuoto pneumatico al posto del ricordo, lo applicate a quel che sapete della situazione attuale, lo miscelate con un po’ di paranoia, qualche lettura di una presunta testata che fa controinformazione combattente, un altro paio di estrapolazioni dal sito di Assange e bam! Avrete il vostro Natale trascorso a sbirciare dalla finestra aspettando di vedere in lontananza un fungo atomico e stringendo forte un santino con l’effige di Nixon. Dedico questo mio ulteriore guizzo di interesse verso il mondo della letteratura al mio maestro delle elementari, che di fronte a bambini di otto anni sprecava fiato raccontando barzellette su Gorbaciov e poi mostrava loro foto satellitari dell’offensiva del Tet, il tutto da dietro un chiaro alito da Amaro Del Lupo. Grazie, Maestro. 19 Eccezioni Filippo Pennacchio Libri deformi, rifiutati, maledetti e (ovviamente) trascurabili, da dimenticare non appena letti. Once upon a time there / was a story that began Assieme a Robert Coover, Donald Barthelme e pochi altri scrittori parimenti eccezionali, John Barth viene solitamente annoverato tra gli esponenti del postmodernismo nordamericano più intransigente e radicale: quel trend letterario di cui possiamo assumere quale esemplare antecedente l’impareggiabile El jardín de senderos que se bifurcan di Jorge Luis Borges e il barthiano The Literature of Exhaustion, in Italia noto come La letteratura dell’esaurimento, quale imprescindibile manifesto teorico. Racconti autoriflessivi che si avvolgono su se stessi, frammenti monosintagmatici, taglia-incollabili lungo i bordi per costruire imperscrutabili nastri di Möbius, simboli indecifrabili che compaiono ingiustificatamente sulla pagina, derekbaileyismi sintattici, frasi che si interrompono mentre le stiamo leg For whom is the funhouse fun? La letteratura ormai essendo una faccenda definitivamente chiusa, esaurita, un esercizio tristemente ludico, insomma un affaire per soli possiamo estrarre quale sample emblematico il addetti ai lavori, nel 1968 Barth dà alle stampe la raccolta di short stories Lost in the Funhouse. Fiction for Print, Tape, Live Voice, del quale possiamo estrarre quale sample emblematico il celeberrimo, eponimo racconto cui trent’anni più tardi David Foster Wallace si ispirerà per comporre il suo Westward the Course of the Empire Takes Its Way. Se si eccettuano le programmatiche intromissioni di un narratore insopportabilmente saccente, Lost in the Funhouse racconta di Ambrose, un ragazzino who was «at that awkward age» protagonista, si fa per dire, di un improbabile triangolo amoroso con il fratello Peter e l’ammaliante Magda G—. Del tutto inconsapevole di giocare, in questo triangolo, il ruolo dello spettatore impotente – lui, in fondo, con Magda ci voleva solo «conversare» –, per impressionare lei – versione po-mo delle faustiane femmine di Hawtorne – e mostrarsi per l’uomo che non è non sarà mai, decide di entrare nella più temibile tra le attrazioni del Luna Park di Ocean City, «la casa dell’allegria» [the funhouse]. Vomitare & ricordare Ricordo ancora distintamente il giorno in cui compresi che la vita intera non sarebbe stata altro che una vicenda tragica, triste e grottesca, una sequela poco entusiasmante di episodi irrelati e di “cose divertenti” da evitare fino alla morte. Entrato, l’ultimo giorno di scuola media, nella casa degli specchi del Luna Park di C—, letteralmente mi ci smarrii dentro: vagai a vuoto per minuti interminabili, l’uscita irrintracciabile, sbattendo dolorosamente contro la mia immagine riflessa; e mentre i volti oscenamente ilari dei miei imbarazzanti compagni di classe venivano esponenzialmente raddoppiati dagli specchi, mi accasciai a terra travolto dalle vertigini, a stento trattennendo tremendi conati di vomito. (S)fortunatamente, a differenza di Ambrose, da quella funhouse antidiluviana, trash e iperrale come la vita di provincia, io riuscii, non so come, a uscirne vivo. Solo anni dopo, entrando in benaltri labirinti, mi resi conto che ciò che avevo vissuto era qualcosa di più che un’esperienza terrificante: se è vero, come Lost in the Funhouse insegna, che un’intera esistenza può essere descritta alla maniera di un canonico racconto finzionale, cioè prendendo a modello il cosiddetto triangolo di Freitag (fig.1), o meglio una variante dello stesso (fig.2) allora il punto B, cioè l’introduzione del conflitto, rappresentò per me come per Ambrose nientemeno che l’ingresso in quella «camera degli orrori cammuffata da baraccone del Luna Park – cioè la vita adulta, cfr. Leslie Fiedler – in cui una serie di specchi interferenti ci offrono mille diverse immagini del nostro viso». You think you’re yourself, but there are other persons in you Anyway, già alle soglie degli anni Ottanta la letteratura riprenderà a produrre utili formidabili, i romanzi torneranno a rendersi intelligibili da un pubblico vasto e globale e de-composizioni terminali simili a quelle qui brutalmente disciolte verranno programmaticamente rimosse. Al punto che chiunque è oggi disposto a giurare che in fondo, quei luoghi spaventosi non sono altro che banalissime funhouse: «that is, a place of amusement». fig.2 fig.1 21 La lettera che muore Michele Marcon Limbo. Riflessioni sugli stati liminari e liminali della letteratura. E questa non è l’unica cosa che non capirete. In occasione della nuova veste grafica di Finzioni comincia il conto alla rovescia per un decesso annunciato: limbo, inferno, purgatorio, paradiso e – perché no – reincarnazione, in queste 5 ultime uscite La lettera che muore tirerà le somme (e le cuoia) dopo un anno di riflessioni sugli stati liminari e liminali della letteratura. Da Shakespeare a Sylvia Plath, da Tasso a Rimbaud, da Dante a Ezra Pound, scrittori di ogni epoca hanno architettato pagine che noi lettori, per vari motivi, non possiamo e non potremo mai possedere. L’intera storia della letteratura è anche la storia (o l’anti-storia) della letteratura perduta. Questo è il limbo, la pagina bianca: grandi libri (im)memorabili che non sono stati mai letti perché irrimediabilmente scomparsi, trafugati, distrutti, oppure – più semplicemente – perché non sono stati mai scritti. Così va la vita per moltissime opere dell’antichità: Euripide, Eschilo, Aristofane, tutti quanti giù nel limbo. Il secondo libro della Poetica di Aristotele non fu mai trovato, e perfino Socrate, quello che non scrisse mai niente, in realtà aveva trascritto le favole di Esopo in versi mentre era in prigione in attesa dell’esecuzione. Anche in questo caso non se ne sa nulla, perché non ne rimane niente. nel fuoco Stephen Hero – il primo draft di A portrait of the artist as a young man – ma non poté impedire a sua moglie di salvarlo dall’irreparabile. Le fiamme hanno accolto anche i lavori di Gogol’ e Byron, mentre furono solo la lungimiranza e la disobbedienza di Max Brod a garantire un futuro alle opere di Kafka. Ma il più figo di tutti è Bakhtin che, esiliato in Kazakistan, usò alcune pagine del suo lavoro su Dostoevskij come carta per rollarsi le sigarette. Il tutto dopo essersi appena fumato una copia della Bibbia! L’intero corpus letterario esiste grazie ad un medium che lo contiene e lo determina, e ogni medium ha una data di scadenza. Che sia roccia, papiro, carta o quant’altro non importa: proprio perché questi materiali hanno una dimensione fisica, la letteratura è così vulnerabile. E non crediate che la rivoluzione digitale porti con sé l’immunità. Prima o poi qualche altro libro finirà nel limbo della lettera e della letteratura; questo vacuum, questo maelstrom, questo buco nero, dove le lettere scompaiono per sempre. Il paradosso è che proprio un libro viene in soccorso di tutti questi testi oramai illeggibili. Si tratta de Il libro dei libri perduti, di Stuart Kelly, pronto a salvare – per quanto possibile – la lettera dal suo eterno obliato limbo. Nel limbo finiscono anche Agatha, il romanzo che Melville non ha mai portato a termine, e Ultramarine di Malcolm Lowry, il cui unico manoscritto fu perso dall’editore. Stesso destino toccò ad Hemingway quando nel 1922 la moglie fu derubata di una valigia contenente tutto quello che il marito aveva scritto sino ad allora. E poi c’è il cliché delle fiamme, così caro agli scrittori in crisi. Joyce, scagliò rabbiosamente 23 Devo ancora finirlo Simone Rossi Summer of ‘51 Devo Ancora Finirlo, come suggerisce il nome, è una rubrica che parla simone Rossi rossi sta leggendo, ma deve ancora finirlo. di un libro che Simone “Bella forza, ora che sono vecchio, farmi gioco di me ragazzo; da furbo mago di pioggia farmi pagare le previsioni del tempo ascoltate un minuto prima alla radio. Bella forza... Ora so tutto di me, dove tendevano le linee oblique della mia sorte, gli impulsi innamorati del sangue. Ma perché fare carico delle mie presunzioni odierne all’apprendista di allora?”. L’apprendista di allora aveva 31 anni, si chiamava Gesualdo Bufalino e quarant’anni dopo è lì che dice: “Fui giovane e felice un’estate, nel cinquantuno. Né prima, né dopo: quell’estate”. Sto leggendo Argo il Cieco Gesualdo Bufalino e devo ancora finirlo, come dice il nome di questa rubrica. Gesualdo Bufalino invece con quel nome lì doveva per forza fare lo scrittore anziano, infatti il suo primo romanzo è uscito quando aveva 61 anni perché Sciascia gli diceva Dai che sei bravo, Gesualdo, minchia, facci leggere ‘sto libro (era La diceria dell’untore, che ve lo dico a fare). Quindici anni dopo Bufalino muore, ma non nel suo letto: incidente autostradale. L’avrà già detta qualcuno la storia di Bufalino 75enne che vede il pilone di cemento venirgli incontro ai 130 all’ora e non c’è tempo perché ti passi davanti tutta la vita in quel momento lì, in quel momento c’è tempo per una sola stagione, l’ha già detto Pasolini che la morte compie il montaggio della vita, montaggio vuol dire tenere solo le cose che servono, e a cosa serve un’estate felice? Serve a scriverla. A inventarsela, anche. “Poiché non è solo bello viverla, la vita. È bello quasi altrettanto fingere e mentirsi di viverla”. Quasi altrettanto non vuol dire un cazzo, Gesualdo, lo sai anche tu, gliel’hai messo per cerchiobottisimo, lo sai anche tu che Finzione batte Vita uno a zero, una moltitudine a zero, una legione di ragazze che “si spenzolavano dai davanzali, tutte brune. Quella che amavo io era la più bruna”. Maria Venera. Sarà un nome, Maria Venera? “Gli amori non corrisposti, credetemi, sono i più comodi. Senza nessuno dei sapori di cenere e aceto che accompagnano gli effimeri unisoni. Io, un po’ l’avevo imparato dai libri, un po’ mi faceva gioco persuadermene, per ritegno, musoneria, superbetta sufficienza di me. Sicché, con la ragazza, mai che cercassi un buon incontro, un’intimità. L’amo, ma lei che c’entra, la cosa riguarda me avevo pensato a voce alta una domenica, mentre mi radevo nel bagno, e la frase m’era piaciuta, l’avevo scritta col dito sul cristallo appannato dal fiato, ripetendomela volentieri da allora, come un contravveleno che m’aiutasse a salvarmi dalle vipere della gelosia. Maria Venera non provava niente per me? Tanto meglio: me ne veniva una libertà senza limiti, i miei moti per lei non appartenevano a nessun altro che a me, potevo nella fantasia giocarmela e vincerla a gusto mio. Barando, magari: si sa, non c’è piacere più raro di barare in un solitario”. William Burroughs, un altro che non è mai stato giovane, teneva dei corsi di scrittura creativa e a lezione parlava serio serafico con piglio scientifico del potere magico della scrittura, nel senso proprio del pensiero magico degli sciamani, la scrittura come atto che fa succedere qualcosa, una causa da cui scaturisce un effetto, a volte imprevisto, puff!, un effetto magico: se ballo, magari non succede niente; se faccio la danza della pioggia, magari piove. L’innesto del caos nei rapporti causa-effetto è un gesto di libertà assoluta, e la libertà assoluta è pericolosa: Burroughs diceva che un racconto che parla di un’epidemia di colera deve avere i bacilli del colera inoculati tra le fibre della carta, così uno lo legge e si ammala, anche se quell’epidemia di colera non c’è mai stata. Anche se l’estate dell’amore di Gesualdo Bufalino non c’è mai stata, anche se Maria Venera è un mischione di quarantasette femmine brune tutte inventate, anche se le brillanti intuizioni scritte sul vetro appannato del bagno diventano subito parole scritte da cui ti stacchi e poi le guardi e poi scrivi che le stai guardando e ti “vengono fuori storte, bistrate, beffarde; agrodolciumi volti a corrompere (…) un’impostura, insomma, che (…) mi svogli l’animo dall’arcinero, dall’arcizero, dall’arciniente; e mi dissuada la fatica di tagliarmi i polsi, debolmente, ogni quattro mesi”. Si diverte così, insomma. 25 Scritto da un idiota Michela Capra Immaginate di spiegare un mattone illeggibile alla persona più idiota che conoscete. Ecco, fate prima a leggere qui. Maddai, Bukowski era solo e unicamente un grosso ubriacone. Che cos’è la mania di esaltare questa gente poi? Io non lo so, si trasformano pezzenti in grossi personaggi, icone, modelli da imitare, sarà mai educativo?! Poi ci si lamenta se i ragazzini bevono come delle spugne a quattordici anni, te credo, ma non vedete che tutta la gentaglia di cui parlano nelle scuole era per metà alcolizzata e per metà drogata? Bell’insegnamento, gran bella roba leggere Bukowski, mancavano solo i suoi libri alla società del giorno d’oggi piena di perversità come già è senza che quello lì sia rinvangato un’altra volta. Diventa di moda ad anni alterni e senza un motivo decente, perché diciamocelo una volta per tutte, non si salva niente dei suoi scritti. A volte penso che lo abbiano pubblicato perché era un bel pezzo più strambo della media. Un tipo di stramberia che alla sua epoca sembrava nuova, forse è questo che ha inganato gli editori che contavano. No perché di talento poetico non ce n’era, dai. Saprei scrivere anche io le sue poesie e meglio pure. A parte gli argomenti, che solo a ripensarci mi viene nausea, ma che cosa ci vuole ad andare a capo quando ti gira o quando vedi che lo spazio sulla riga sta finendo? Non ci vuole niente, anzi bisogna ricordarsi di sbagliare a mettere punti e virgole e di non usare la maiuscola. Le regole al contrario praticamente, bella roba, proprio sana, quello che ci vuole oggi giorno. Poi dicono che c’è troppa promiscuità in giro, ci credo! Vanno ad insegnare le robbe di sto squinternato maniaco sessuale in giro, ma hai letto che scene? Prostitute e tutto il contorno, squallore, squallore e squallore. No, meglio che non ci penso che mi intristisco, tutto quel senso del lordume e del sudicio della vita, non posso davvero pensarci. Che scocciatura anche il nome mezzo russo, non si capisce neanche che è americano, vai poi a controllare e ti scopri che ha vissuto a Los Angeles. Beh, lì non faceva di sicuro fatica a fare rifornimento dei suoi carburanti. Che tossico schifoso. E comunque le persone ne sono ossessionate, è una cosa di cui non riesco a capicitarmi. Non hanno fatto anche il film, Il grande Bukowski? The Walking Dead Robert Kirkman e Tony Moore Ghost world Ghost World è una rubrica che parla di fumetti. Il tipo che inizia e finisce in un albo solo e dunque si chiama “graphic novel”, o così pare. Marina Pierri “Graphic novel”, l’abbiamo detto spesso su questa paginetta, è un modo come un altro per definire una storia a fumetti, ammesso che abbia un inizio e una fine ben precisa. Ai più schizzinosi tra voi, dunque, preciso subito che “The Walking Dead” calza e non calza la definizione, essendo oggi arrivata all’albo 79 e non essendo ancora terminata. Nonostante questa mancanza strutturale, la serie presenta i tratti tipici del racconto a fumetti; perciò abbiamo comunque voluto discuterne qui. Inoltre, a meno che non viviate sotto un sasso, saprete che, non prima di un mese fa, “The Walking Dead” è diventato una serie televisiva non di grande, ma di enorme successo. Una serie d’autore, in quanto diretta dal regista Frank Darabont, ma anche un “semplice” telefilm sugli zombi (detta in soldoni). Che ne abbiate beccato qualche episodio o meno, è bellissima… e piuttosto differente dal fumetto. Nel suo primo editoriale, Robert Kirkman spiega che “The Walking Dead” non vuole essere una saga horror. E, di pagina in pagina, basta poco per rendersi conto fino a che punto non lo sia. La cultura pop ha sempre (o quasi) usato gli zombi - non morti diversi e simili ai vampiri nella misura in cui la loro condizione umana cessa (non “muoiono”) – per trattare, in qualche maniera, il tema della sopravvivenza, e come corollario, l’estinzione. Sull’argomento sono stati versati fiumi d’inchiostro fin dall’alba dei tempi e JJ Abrams, con “Lost”, ha fatto il resto. Tutto questo è l’oggetto di “The Walking Dead”. Che non è una saga action: i pochissimi e fugaci incontri con gli zombie sono l’agente di cambiamento per un gruppo di persone di diverse etnie. Ogni occhio che schizza in aria e ogni palata nei denti è una scusa buona per parlare di cose come: che lavoro facevi? dove vivevi? tiravi a campare? mentre ogni discorso sul passato e le preoccupazioni di ieri perde senso. Come forse avrete già sentito, l’esile spunto della trama tutta (invasione degli zombi) non viene mai motivato nella serie, ma preso come un dato di fatto senza origine, che lo rende doppiamente destabilizzante per chi legge. Pensateci: i racconti mitologici, o quelli di fantascienza (cose assai simili) hanno sempre una genesi piuttosto chiara, così come i loro protagonisti. Per esempio, nei fumetti i supereroi “nascono”: c’è un’ esplosione chimica per Dr. Manhattan o Daredevil, un alieno per 27 Green Lantern, un ragno per Spiderman e via dicendo. Ora, se questa “nascita” è spesso vicina al concetto di contaminazione, lo stesso si può dire di “Walking Dead” e molte altre versioni delle storie di zombi. Con la differenza che qui non esiste. Non solo non si vede, ma non viene neanche sfiorata per sbaglio. Torniamo a Kirkman: la sopravvivenza. “Walking Dead” è una specie di strip tease spirituale. I protagonisti pian piano si spogliano – attraverso la bella e verbosissima sceneggiatura – di tutto quello che li definiva in quanto persone: la ricchezza o la povertà, il senso dell’umorismo o il machismo, una roulotte o una macchina da corsa. E noi siamo lì a guardare chiedendoci “e se capitasse anche a me?”. Resta, e di questo, penso io, parla Kirkman, che la perdita della cultura non è mai una perdita di umanità: se siete pronti a un tuffo nella disperazione, lanciatevi in questi 79 albetti. La posta dei lettori Matteo Bettoli di Matteo Bettoli Risposte (inventate) a lettere (verissime) inviate a Matteo Bettoli da una schiera di lettori avidi di conoscenza Caro Bettoli, mi sono reinventato pubblicitario una volta scaricato dall’azienda di scaldabagni per la quale lavoravo da qualche mese. Se posso scaldare un bagno, solo con la forza della tecnica - pensai allora - posso anche scaldare un’emozione con la forza di un’idea ed utilizzarla per piazzare prodotti sul mercato. Ero ben determinato a far sì che le mie idee geniali non rimanessero in un cassetto imbarlato ed ho quindi assaltato i personaggi in charge che si frapponevano tra la mia persona ed il mio piccolo grande sogno. Ho creato agguati macchinosi che avevano come target le macchine dei Direttori creativi, ho irresponsabilmente comunicato minacce a Responsabili della comunicazione, ho legato Amministratori delegati. Tutti mi hanno ascoltato, guardandomi come un pazzo, ma io so che in realtà è l’ammirazione che fa spalancare quelle palpebre. Ah ah ah! Quante risate, anche! Ora, complice un rapimento lampo ai danni di un povero cristo che casualmente era pure il Manager di un’azienda importante nel campo delle costruzioni (che ho originalmente costretto, nel mentre del rapimento, a costruire una cuccia per il mio setter), sono diventato famoso. Tutti mi invitano, tutti mi vogliono, ma soprattutto, tutti vogliono le mie pubblicità geniali. Anargyros Golinos, la capitale morale dell’Italia, Milano Sei uno bravo, e sei anche un caso. Non voglio dire che sei bravo per caso, o forse sì. Fatto sta che il libro ispirato alla vita di Anargyros Golinos, signori, è in testa alle classifiche di vendita italiane da 2 mesi e non viene recensito su Finzioni solo per lo stolto impuntarsi del Direttore Cirillo. Un genio o un cretino: l’assalto alla pubblicità di Golinos, ed. Weri Fenomeni, contiene pure un’interessantissima appendice con le migliori campagne curate da Anargyros Golinos (ma sarebbe più corretto dire “imposte con la forza”: i vertici delle aziende si trovavano sotto ricatto o addirittura accanto ad un uomo armato con velleità di piromane al momento dell’accordo). Ecco, per dire, 5 incisi per sensibilizzare sulla donazione del sangue: non fatevi venire il sangue cattivo, donatelo finchè è buono / buon sangue non mente, ma anche se fosse un impenitente bugiardo a noi fa comodo uguale / più che un bagno di sangue, meglio un bagno dopo aver donato il sangue / calma e sangue freddo, il sangue ci serve a temperatura ambiente / nobili non fate i furbi, il sangue blu va bene uguale. Un genio o un cretino? Continuo a ritenere che le due cose possano coesistere nel fascino malaticcio del greco di Milano. Carissimo, non credo di essere un fritto se ammetto in una lettera che mi fanno impazzire i libri con molte foto, tanti colori e poche parole. Mi fanno impazzire quelli pretenziosi e pesanti, pieni di fotografie su carta ad effetto glossato, che mettono in fila foto fatte a feste americane negli anni ’70, camionisti tedeschi col mullet, tatuaggi sbagliati, paesaggi desola(n) ti, case diroccate, calciatori colombiani, foche, scarpe e geiser islandesi. Il bello di questi libri è che ci arredano il salotto ma non ci impegnano, danno sostanza alle nostre librerie senza assegnarci un compito infame, inutile e pesante: la lettura. So di essere almeno in parte fuori tema, essendo Finzioni un “progetto di lettura creativa”, ma vi rivolgo un accorato appello: non potreste mettere più figure anche nel vostro sito, così da non spaventare chi i libri non li legge, ma li guarda? N.B. non ho scritto “vede”, ma “guarda”. Su questa linea sembrano muoversi la rivista cultural-letteraria Sembianze, i volumi venduti al Moma e pure gli album di fotografie di mia madre, ormai scevri di didascalie. Gaetano, Calù 29 Caro Gaetano, la nostra rivista è piena di parole ma se ci guardi da vicino e per bene in realtà pure le lettere e le parole sono figure. Te lo dico: ti si aprirà un mondo quando noterai che la parola “letto” sembra proprio un letto con la testiera ed un gatto sotto la coperta, che la “y” è una fionda, che “agiatissimo” è un fucile a canne mozze e col mirino, che la “d” e la “b” sono dei trolley (apropò, interessantissimo un aneddoto circa l’invenzione del trolley: alla fiera annuale dei valigiai di Sao Paulo, nel 1988, un berbero prese la parola -erano gli anni delle prime rotelline nelle valigie- e chiese perchè già che si era fatto 30 non si faceva 31 posizionandole direttamente nel lato largo e ruotando di 90° la valigia così da aumentarne la stabilità. Il berbero aveva inventato, senza saperlo, il trolley. La fiera si chiuse con mestizia, tutte le valigie rimasero invendute perché improvvisamente obsolete ed il berbero venne tacciato di cattivo tempismo). Tornando alla richiesta, la giro a chi di dovere. Tornando ai libri, suggerisco di leggere guardare i volumi fotografici di Caspar Rooby, Evidenziatori di tutte le epoche, rosa gialli e blè che danno un’idea dell’evoluzione degli evidenziatori, andatisi sorprendentemente incicciandosi mentre il mondo era invaso da messaggi sulla magrezza, e Piastrelle della metro, che raccoglie -in effetti- le più belle piastrelle della metro. Caro Bettoli, a me fanno schiattare i neo-pagani, perché in questi tempi difficili è fondamentale che qualcuno si metta una tunica (se uomo) ed una ghirlanda in testa (se donna, ma anche se uomo) e si metta in un campo con dei bacchetti per terra, un falò & tanta armonia, in attesa che si palesi un fauno o una chimera. Se di “sbornia sincretica” possiamo parlare, magari aggiungendoci pure un po’ di “ricostruzionista”, di certo non possiamo ignorare il nuovo vigore garantito al neopaganesimo europeo dal presunto avvistamento nei boschi umbri di diversi esemplari di fagiani bifronti. Il fagiano bifronte si candida a succedere nella linea delle creature leggendarie allo gnu inverso, scalzando dalla propria posizione anche il bigfoot ed il lucertolone di Loch Ness, ormai bolso e senza appeal. Un libro verità sul fagiano bifronte è stato realizzato dal giornalista sensazionalista naturalista Giovanbattista Latosta, che ha pubblicato Bestie (Oaio editori riuniti, 13 euro) ed ha alzato un polverone. Rolenzo, Napoli Caro Rolenzo, credo poco alla buona fede di Latosta, così come non credo alla strana storia dei tacchini volanti descritta da Nikolaj Stepanovič Gumilëv ormai un secolo fa. Prendo Bestie per quello che è, un libro di fantasia, che appassionerà gli stessi che si gasano con le teorie su Atlantide, la terra cava e la ragion di stato. Il fagiano bifronte, secondo Latosta, non vola come il tacchino di Gumilëv ma neppure cammina, sconvolto dall’indecisione derivante da una vista a 360° (da noi sperimentata solo a Eurodisney). “L’abbondanza di stimoli getta il fagiano nell’imbarazzo più totale”, ci dice Latosta “e lo rende paranoico verso gli estranei. Forse per questo, nei secoli, ne sono stati avvistati solo 3 esemplari (per un totale di 6 musi)”. Rimane la suggestione, la appena nata “Fondazione amici del fagiano bifronte” e un manipolo di esaltati con le tuniche ed i bacchetti per i campi. 31 Iperboloser Jacopo Cirillo Racconti gonfiati di storie vere, o racconti veri di storie gonfiate. In entrambi i casi è subito simpatia verso chi perde per costituzione. Ci sono due modi per raccontare storie: la noiosa verità e la mirabolante esagerazione dei fatti. L’esagerazione dei fatti, o iperbole, è bella perché è una caricatura. Wittgenstein (yawn) diceva che fare una caricatura non è altro che privilegiare e mettere l’accento su una parte in rapporto con il tutto, creando dunque, dico io, una sproporzione. O meglio, un’asimmetria. L’asimmetria fa ridere e fa pensare, perché non è regolare, dunque buffa, e va messa a posto gestalticamente con la propria testa. L’iperbole, la storia esagerata, segue esattamente questa dinamica: è divertente e fa lavorare il cervello. Fa ridere e fa pensare. Ci sono poi due ruoli che si alternano nelle storie: la banalità dei vincitori e il sorprendente spessore dei perdenti. Le storie dei vincitori sono retroattivamente incastrate nel rasoio di Occam: la soluzione è spesso la più semplice e ovvia. Quando le leggi, sembra che tutto sia andato liscio, che sia successo quello che doveva succedere e niente altro. L’eroe ha vinto perché è buono, la soluzione più semplice è che vinca. Non si scappa. Le storie dei perdenti invece sono più belle perché i perdenti, per tirare acqua al loro mulino, si raccontano in modo più personale, più soggettivo, si guardano dentro non potendo ovviamente aggrapparsi alla rassicurazione dei fatti oggettivi. Trovano la verità dentro di sé, non fuori, come Karate Kid. Solo che loro perdono per costituzione. E la verità soggettiva è infinitamente più interessante: come diceva qualcuno (quel qualcuno era Kierkegaard ma avevo paura di annoiarvi ancora di più), con soggettivo non si intende un attributo relativistico ma una appropriazione della verità in termini esistenziali. La verità per me. Negli Iperboloser accoppieremo felicemente questi due fenomeni, raccontando storie esagerate di grandi sfortunati. Quel ganzo di Walter Benjiamin ha detto che la storia è il bottino dei vincitori. L’iperbole, allora, è la risorsa, forse l’ultima, dei perdenti. Roald Amundsen sarà il vostro futuro idolo per sempre; era infatti uno spendaccione norvegese con manie religiose – è grazie a lui e alle sue stimmate autoinflitte che da allora gli scialacquatori vengono apostrofati mani bucate – famoso per essere il bersaglio preferito dei creditori del villaggio. Roald era affetto da una strana cleptomania al contrario: non riusciva a non comprare qualsiasi cosa vedesse. Sua moglie aveva provato di tutto: tenerlo in casa, portarlo in supermercati poco forniti, impedirgli di maneggiare denaro, convincerlo a rubare, ma niente. Il suo ingegno era talmente fine che fu lui a inventarsi i “pagherò”, solo che allora non venivano scritti su una cambiale ma detti a voce, e la riscossione era più difficoltosa. Un bel giorno il buon Amundsen, mentre la moglie dormiva, decise di fare una piacevole passeggiata. Non l’avesse mai fatto. Girellando vicino al porto, gli capitò sotto gli occhi un peschereccio per aringhe di 47 tonnellate. 33 Oh-oh. In pochi giorni raccattò un equipaggio, comprò la barca senza avere i soldi neanche per permettersi l’ancora e partì di tutta fretta per sfuggire ai creditori imbufaliti che si erano un po’ stufati dei suoi pagherò e pretendevano almeno che glieli mettesse per iscritto. In pochi mesi di viaggio, andando a casaccio, Roald riuscì incredibilmente a raggiungere l’ambito passaggio a Nord Ovest (una rotta che va dall’Oceano Atlantico all’Oceano Pacifico attraversando l’arcipelago artico del Canada) e superarlo, mandò un telegramma a casa per raccontare l’impresa e decise, saggiamente, di rimanere al di là dell’Oceano, così, per sicurezza. Questo Iperboloser in realtà è una piccola parte di una storia molto più ampia, quella della scoperta del passaggio a Nord-Ovest, che trovate tutta intera nell’annuario della casa lettrice Malicuvata in uscita a gennaio 2011 dal titolo Attraverso passaggi. Prenotatevi, su malicuvata.it. dosi della sua poesia. Laureata in Filologia Romanza, è appassionata lettrice di ogni forma di scrittura medievale. Compone racconti sin da piccina e vive immersa nel verde insieme al marito e ai suoi tre gatti. CONTRIBUTI DA: Jacopo Cirillo non è mai riuscito a spiegare a sua nonna cosa fa nella vita. Prima per colpa della semiotica, adesso per colpa di una casa editrice. Ha cofondato questa rivista solo per poterle dire: faccio il co-fondatore di una rivista. E anche, ma secondariamente, per poter dire quello che gli pare sui libri che legge. Carlo Zuffa nelle ultime due decadi non ha raggiunto traguardi degni di nota e ritiene che la sua infanzia sia stata traviata dal finale di “Marcellino Pane e Vino”. Ora, di notte nel buio della sua cameretta, studia piani segreti per i COBRA, i quali gentilmente gli hanno concesso un pò di tempo libero per co-fondare Finzioni. Licia Ambu pensa che avere una sola personalità sia uno spreco di spazio. In fase di definizione a ciclo continuo, ama in ordine sparso (e intercambiabile) un sacco di cose. Attualmente la posizione più quotata per guardare il mondo le sembra a testa in giù. Matteo Bettoli nasce in epoca reaganiana su un carro di bovini, dal quale eredita la passione per la dinamicità. A 21 anni controlla i principali media di casa: 3 televisioni, 2 computer, l’abbonamento all’Espresso e la radio ricevuta in regalo per la cresima. Decide allora di trasferirsi. Studia a Bologna. Passa diverse giornate in Sud Africa, Austria e Belgio. L’acronino di questi tre paesi è SAAB, che non a caso produce automobili brutte ed è sull’orlo del fallimento. Abita a Roma e si sveglia presto. Michel Capra, She lives on Love Street, lingers long on Love Street… Nata in provincia di Varese nell’aprile 1983, ha trascorso gran parte dell’infanzia sulle spiaggie liguri. Ha frequentato il liceo linguistico, dove ha iniziato a conoscere e amare la letteratura americana. Alla facoltà di Lettere Moderne ha incontrato la letteratura francese, innamoran- Jacopo Donati studia Filosofia estetica a Bologna. La sua carriera universitaria gli permetterà, al massimo, di suonare l’organetto per strada: conscio di ciò, per non pensarci, passa buona parte del suo tempo a scrivere, a leggere e a inseguire innumerevoli passioni che, per lo più, svaniscono nel giro di pochi giorni lasciando il posto a nuove manie. Stefano Fanti è fuggito da Milano e ora vive nella bucolica provincia alessandrina. Scribacchino per varie testate online e non, si occupa principalmente di musica, letteratura ed ambiente. Soffre di una grave dipendenza da serie tv che lo porta a confondere Randy Hickey con Randy Marsh. Ama, tra le altre cose, fantascienza, horror e grindcore. Alex Grotto è la conseguenza di un’adolescenza sbagliata fatta di TV spazzatura, fumetti spinti e musica sgangherata. Un eterno precario del buon gusto che ancora non sa come trasformare la sua colta apatia in denaro e affitti pagati, ma cerca di ovviare al problema abitando in una stanza rancida di provincia e scrivendo di musica su Vitaminic. E’ sovrappeso, si veste malissimo ed ha occhiali grandi per darsi un tono che non può permettersi. Viviana Lisanti è laureata in scienze storiche e studia cultura editoriale all’Università Statale di Milano. Momentaneamente si guadagna da vivere spacciandosi per grafica nonostante non possa vantare alcuna conoscenza in merito. Nessuno fin’ora se ne è ancora accorto, quando verrà smascherata sarà costretta a far fruttar una laurea a detta di molti “inutile”. Edoardo Lucatti. Edo. Ode. Deo. Un essere flesso nell’edibile, nella lirica e in un soprannaturale deodorante. Performer di incauta protervia, aruspice della significazione e calciapalle di poca morale. Semiònte per alcuni, semiòta per altri, è una piccola fucina di omaggi al vostro personale sconcerto teoretico. pri desideri nel sapere, manco fosse un personaggio delilliano, leggendo libri dalle cinquecento pagine e oltre. Di conseguenza, alle volte si annoia tantissimo. Alessandro Pollini sta sviluppando le proprie capacità medianiche con l’obiettivo di essere invitato a Misteri e conoscere Ruggeri e Bossari con la faccia cattiva. Un giorno diventerà anche un templare così sposerà la figlia di Giacobbo e passeranno la luna di miele in Egitto saltellando allegramente tra le piramidi. Michele Marcon ama così irrazionalmente le lettere da aver avuto la leggerezza di confessare in famiglia una certa velleità letteraria. Il giorno dopo il padre si presenta a casa con una maglietta del Milan autografa: “Allo scrittore Michele, Kakà”. Nonostante incertezze sull’autenticità, Michele si sente fregato: gli tocca diventare uno scrittore, non è più un affare privato. Per ora è un abile lettore, ma la cosa triste è che tifa Juve praticamente dalla nascita. Marina Pierri ha 28 anni e vive a Milano, dopo dieci gloriosi anni passati a studiare/ lavorare/fare radio/ fare la dj in quel di Bologna. Si occupa a tempo pieno del portale musicale Vitaminic.it ma scrive anche su Rolling Stone, PIG Magazine e Blow Up. Ascolta una media di tre nuovi dischi al giorno, legge, guarda un sacco di film e serie televisive americane. Andrea Meregalli è un pensatore di quasi venticinque anni. In questo istante medesimo si arrovella su quesiti del tipo: “Cosa farò da grande?”. Assiduo frequentatore di autostrade nonché massimo esperto in campo internazionale di prodotti quali friggitrici, scalda patate, piastre per panini e salamandre, ama molto abbinare correttamente i boxer con le calze. Passa buona parte della sua giornata a leggere le scritte oscene sulle porte dei cessi nei centri commerciali. Simone Rossi vive alla Casa del Cuculo, “un posto dove ci piove dentro” (cit.). Di giorno scrive, di sera suona, di notte dorme. Tutti e tre troppo poco. Il suo primo libro si chiama La luna è girata strana (Zandegù, 2008). Il suo secondo libro si chiama sbriciolu(na) glio per ragioni che potete pure chiedergliele, ma tanto vi risponde a caso. Il suo gatto invece si chiama Chomsky, ma non si vedono da un po’. Sta abbastanza su internet: tutte le sue cose, sbriciolu(na)glio compreso, sono su: http://simone-rossi.it Fabio Paris nasce impagliato, e così finirà, per evitare che gli amici ballino sulla sua tomba. Zingaro, in accezione monicelliana, ha studiato chimica, seguendo la sua passione per la geopolitica. Dopo un passato da sedicente esperto di nanotecnologie ora gira il mondo andando di miniera in miniera. Le sue miniere preferite sono quelle di litio. Andrea Sesta ha capito che gli piaceva scrivere quel giorno che alle elementari ha trovato un modulo per il presito dei libri della biblioteca della scuola, e l’ha riempito di tutte le parolacce che conosceva. La situazione è andata peggiorando quando gli hanno detto che su internet poteva avere un blog tutto suo. C’è chi dice che le suppliche di sua madre affinché mantenesse un qualche residuo di contegno abbiano funzionato. Continua a studiare, e si è anche un po’ laureato. Filippo Pennacchio, già in tenera età plagiato dalla figura di Lee Harvey Oswald, a tutt’oggi suo eroe personale, vive a Milano, dove studia, fa la spesa alla Pam, frequenta concerti di dubbio gusto e beve dei gran birroni. Quando non sa che fare, ammortizza i pro- 35