numero 18 - Finzioni Magazine

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numero 18 - Finzioni Magazine
The Godfather
Michele
Marcon
Il nostro padrino del mese, uno scrittore raccontato attraverso i
suoi libri e non, Iddio ce ne scampi, la sua autobiografia.
La questione è l’irriducibile sbilanciamento di ogni biografia,
nel senso che dove c’è più bio c’è meno grafia e viceversa. Ma
nonostante questa imperfezione cronica che contraddistingue
la vita di ogni scrittore, poeta, drammaturgo, paroliere, non
sembra anche a voi che le vite dei letterati di un tempo fossero
molto più “ricche” e più “piene” delle vite degli scrittori attuali?
Biografia, questa, quantomai
ellittica (per ovvi motivi di
editing), ma quantomeno
ricca. Si trova qualcosa del
genere di questi tempi? Difficilmente. Per fortuna che
Ungaretti è tornato recentemente di moda grazie ad
un Meridiano che raccoglie
tutte le traduzioni (molte mai
pubblicate) del poeta.
Prendiamo per esempio la biografia di Giuseppe Ungaretti. Poeta italiano non per caso, ma per scelta. Nacque ad Alessandria
D’Egitto e vide il suolo patrio per la prima volta nel 1912, a 24
anni suonati, e tra l’altro solo di passaggio, poiché stava andando a Parigi per compiere studi universitari. Poi scelse l’Italia
quando nel 1914 piombò sull’Europa la Grande Guerra, e si
arruolò volontario per combattere sul Carso. BOOM, nel 1916
stampa 80 copie della sua prima raccolta poetica, Il Porto Sepolto. Nel 1918, finita la guerra, torna in Francia dove comincia a maturare l’influsso dei numerosi intellettuali conosciuti
durante il soggiorno parigino (gente come Apollinaire, Papini,
Palazzeschi, Modigliani...) e così BOOM, nel 1919 pubblica
Allegria di naufragi. Nel 1921 si trasferisce a Roma, lavora al
Ministero degli Esteri, nel 1925 aderisce al fascismo (il fascismo!) e manco a dirlo BOOM, eccoti Il Porto Sepolto ripubblicato con una prefazione di nientepopodimeno che Benito
Mussolini (Mussolini!). Nel 1928 si converte al cattolicesimo e
ancora BOOM, esce Sentimento del Tempo. Nel 1936 accetta la
cattedra di letteratura italiana presso l’Università di San Paolo
in Brasile. Scelta fatale: nel 1939 muore il figlio Antonietto per
un’appendice mal curata e il poeta rimane distrutto e lacerato.
Uno stato d’animo che possiamo ritrovare in molte poesie de Il
Dolore (BOOM, 1947) e Un grido e Paesaggi (BOOM, 1952).
Tornato in patria viene nominato accademico d’Italia e, tra le
varie cose, legge al grande pubblico televisivo i versi dell’Odissea. Muore nel 1970 per una broncopolmonite e BOOM.
Chiusa la questione vorrei
concludere ricordando L’Allegria, forse la raccolta che
più di tutte segna un punto
di svolta nella carriera di
Ungaretti. Ora potrei scrivere
paroloni come “ermetismo” o
“simbolismo”, oppure potrei
citare poesie famosissime
come Mattina o Soldati (che
sono così brevi da non creare
problemi di editing), ma preferisco usare un apoesia un
po’ più lunga, ma altrettanto
famosa. E scelgo di usarla
semplicemente perché è la
mia preferita: «Di queste case
/ Non è rimasto / Che qualche
/ Brandello di muro / Di tanti
/ Che mi corrispondevano /
Non è rimasto / Neppure tanto / Ma nel cuore / Nessuna
croce manca / È il mio cuore /
Il paese più straziato».
3
Sommario
Editoriale
Jacopo
Cirillo
6
7
8
9
10
11
14
16
17
18
20
22
24
26
27
28
32
La citazione del mese
Le vite ortogonali
Mitomania
Il finzionario
Trilogie
Interferenze
Letto e mangiato
Pillole di scienza
Punizioni
Donne&compressori
Eccezioni
La lettera che muore
Devo ancora finirlo
Scritto da un idiota
Ghost world
La posta dei lettori di Matteo Bettoli
Iperboloser
Finzioni sta cambiando, e sta cambiando un bel Ecco, mi sembra che sia tutto. Noi siamo capo’. Potete vederlo dalla copertina, che contie- richi, e molto, per questa nuova avventura, e
ne tra l’altro un simpaticissimo anagramma da non ci fermiamo certo qui: Carlo Zuffa, che di
risolvere.
Lo potete
intuiremost
dall’impaginato,
diavolerie
tecnologiche
ci capisce
un sacco,
sta
Nam idelibu
scitas enihil
aut ea dolutedai
plabor
ant, volupture
volo modit
ulluptate
num ius,
paragrafi,
dai
caratteri
Flavio
Lucidi
è
il
repreparando
il
nuovo
sito
che
inaugureremo
a
coriost iumquae. Et landam aliquamusdae est, volupta spitate poreius.
sponsabile
del
restyling
e
prima
di
tutto
ringrainizio
febbraio.
Poi
abbiamo
uno
scatolone
di
Ibus mos doluptate porenducia etus aut fugitatusda qui occus sequibus, to etur sit accuptur, undus
ziamo
lui. E
se verrete
incantati
dalla selezione
libri
della casa rem
editrice
da dare
et opturib
eribusae.
Nam
qui odigendae
liatemquis
voluptatibus
assi DeriveApprodi
apienis aut volupta
tiodelle
immagini,
ecco,
dobbiamo
dare
il
meriin
premio
non
appena
avremo
deciso
cosa
dostia et ipsunto rionse pedi totas andebis sitisquam escimet molupta taectae denis comnieni culpa
to
ad Alberto
Gottardo iderese
e Alberto
Cocchi,
due vrete
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per averla
in Otasper
premio –sperspe
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il inus doluptate
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eaquodipis
aut vitia
labo.
as aut
provetti
fotografi
che si sono
lavorare
un libro
alla volta.
eostia dolorum
reperoratur,
et messi
autem avitiis
ra quist,scatola,
essundelit
aliciatibus.
insieme
solo
per
noi,
cercando
(e
trovando,
a
Nosamet, cor am, tem dolorem aut dolore ipit iusda nima apietus assim fuga. Iquiduc iandiatus
nostro
parere)
una linea
Adesso è proprio
tutto.
Grazie
a quelli
ci
audipsusae.
Musant
fuga.editoriale
Ihilicae etinteressante
milibusam dolorporem
voloreped
quianda
nem
fugitische
amet
efugiae
innovativa
per
Finzioni.
E
poi
sono
belli
belli
vogliono
bene
e
che
ci
hanno
permesso
di
arsamenih icatio is est, quam, que esed maximol oressit deruptibusam la prehend emquiss
in
modo assurdo.
rivareetur?
fino aQui
qui,con
noireiunt
continueremo
a sbatterci
umquost
qui cus quam ut vidi aborerios exerci seque
volorest eum
nonet
nei
week-end,
a
perdere
decimi
su
decimi
ea
eatemporit, aceprepudi doluptatecto offictur?
Altre
le
novità:
ogni
rubrica
viene
introdotta
ordinare
occhiali
dalle
lenti
sempre
più
spesse
Bisitibus veria consequid mo te veliquatum in rest facerum fugitas arum inctotatur, con nihil ipda
un paiomo
di estium
righe diquamus
spiegazione,
modo daconsolo
il lenimento
del vostro
solleticosequae
intelsaperchit
aspis di
voluptatia
remper
et velique
quasitatem
qui officiate
sapere
già
da
subito
cosa
vi
aspetta
nei
paragralettuale.
E
non
è
mica
poco.
nam volorias non pratestrum corepro vitature nate nonseruptam fugitius sit min evel ipsam, sam
fi
successivi.
simone
rossi,
poi, abbandona
Oh, Mi, sin et faces venisque eum voloriametur aliqui
quaeste
ctaspel
eceptas
peleniet
aliaeru metur?
Scena!
raccontarci
i libri
cheipsum
sta leggendo
volupieper
ndaecus
maximaio
blab
verum re as et et officidebis evelige nducit aut parum renma
non
ha
ancora
finito,
ma
ha
talmente
voglia
ditatum soles ererchi tatur, odiande mposti
ut aut porrunte magnam et facersp erumque aut ulla
di
scriverci
su
che
si
accontenta
di
essere
arrivanos aut aceat as doluptatur, aut et,
to a pagina 100 o giù di lì.
5
La Citazione Del Mese
Jacopo
Cirillo
Frederick Henry vs Zeno Cosini
Gli aforismi e le battute più dimenticate della storia della cultura mondiale
illustrate in modo pretestuoso con libri che non c’entrano nulla.
Sembra che molti tra gli intellettuali e le grandi menti del
novecento abbiano in comune
la passione per il calcio. Non
stiamo qua a citare gente, basti ricordare Carmelo Bene
– che insieme a Ghezzi ha
scritto pagine indimenticabili
su Romario – e il Mahatma
della citazione. Il calcio, oltre
ad essere il più grande collante sociale d’Europa, se non
del mondo, pare avere anche
qualcosa in più, uno spirito
che lo trascende, colto spesso
dalle personalità più attente
brillanti.
La compagnia dei Celestini di
Benni, che parla di pallastrada, ma più o meno è la stessa
cosa. E poi L’eroe dei due mari
di Giuliano Pavone, appena
uscito per Marsilio.
L’eroe dei due mari unisce
mirabilmente due grandi pretesti per scrivere un libro: il
calcio, appunto, e quella cosa
che chiameremo “estetica del
vediamo che succede”. In pratica è quando ti viene un’idea
iniziale molto particolare e
poco veridica che istituisce
una proliferazione di universi
possibili verso i quali la
Il calcio è uno sport che emana nobiltà, è una disciplina
che esalta il senso del gruppo ed è un’attività che permette
di raggiungere la pace spirituale. Giocare a calcio un’ora al
giorno è meglio che affrontare un’ora di meditazione.
Gandhi
Insomma, piace a tutti perché
tutti ci vedono dentro quello
che sono: l’ultras ci vede l’agone, l’intellettuale la poesia,
il tifoso la fede. E lo scrittore
ci vede il pretesto. Molti libri
hanno avuto successo immediato – spesso poi confermato
dai fatti – solo perché parlavano di calcio. C’è L’inattesa
piega degli eventi, romanzo
ucronico di Brizzi sul campionato delle colonie italiane in
Africa,
storia avanza autonomamente. È come quando dici che
questo è un libro che si scrive
da solo.
Idea iniziale: il più grande
giocatore di calcio del mondo
passa dall’Inter al Taranto (in
serie C) a titolo gratuito per
grazia di un santone televisivo. Ecco, e poi vediamo che
succede. Vediamo se il Taranto migliora effettivamente, vediamo come la città accoglierà
il campione. Giuliano Pavone
l’ha pure detto: ho cominciato
a scriverlo senza sapere dove
sarebbe andato a parare.
Adesso qui potremmo fare
quelli che dicono: in realtà
il calcio è un’astuta metafora
per raccontare il degrado e la
rinascita di Taranto, insieme
una delle più belle e brutte città d’Italia. Oppure: la discesa
del campione, in quanto paradosso, rappresenta la grave situazione dello sport moderno,
incastrato tra gli ingranaggi
degli sponsor e la rapacità degli agenti. E invece no. E invece libri così, per quanto siano
piacevoli da leggere e interessanti da raccontare agli aperitivi, bisogna trattarli come
quella puntata dei Simpson
in cui Homer consiglia a Bart,
per farsi eleggere capoclasse,
di scrivere a caratteri cubitali
sui suoi manifesti SEX!! Now
that I have your attention,
vote for me.
CALCIO!! BELLE IDEE IN
NUCE!! Ora che ho la vostra
attenzione, leggete il mio libro.
Le vite ortogonali
Parallelismi e differenze, in odor di Plutarco, tra le vite e le storie dei
personaggi di carta più (o meno) amati da tutti noi.
Jacopo
Donati
Plutarco scrisse una serie di 24 biografie che prese il nome di Vite
parallele. Per ognuna prese una figura greca ed una romana, le
mise una affianco all’altra e ne cercò le similitudini. Ma qui si
parla di finzione, mica di realtà!, e così i miei grandi saranno i
personaggi d’inchiostro dei libri. Lavoro ben più umile il mio che,
oltre a esaminare solo una parte della vita di questi personaggi, ne
sottolineerà le differenze.
Frederick Henry
Frederick Henry è un tenente americano arrivato in Italia durante la prima guerra mondiale
e combatte con gli italiani sul fronte austriaco.
È l’alter ego di Hemingway in Addio alle armi e
ha girato tanto per lo Stivale che tanti non credono neppure che sia americano. È un uomo
solo, soprattutto quando circondato da altre
persone; incontra tanta gente, ma ne conosce
per davvero soltanto una manciata.
Uno dei suoi più grandi amici è un chirurgo
chiamato Rinaldi che fa turni massacranti ed è
convinto di avere la sifilide e sarà proprio Rinaldi a presentargli Catherine Barkley, un’infermiera scozzese. Henry viene ferito gravemente e durante a lunga degenza viene assistito da
Catherine in un ospedale a Milano. Lei rimane
incinta e cominciano a fare progetti per quando
sarà finita la guerra, ma tutti i sogni vengono
spazzati via con il richiamo al fronte di Henry.
Bloccati su una strada aperta al fuoco nemico,
Henry si staccherà dal gruppo con altri soldati
e da quel momento verrà considerato un disertore.
Henry rischia l’arresto e la fucilazione, ma ciò
non gli impedisce di raggiungere prima Milano e poi Stresa, dove è andata Catherine. Scoprono che la polizia militare è sulle sue tracce
e attraversano il confine via lago raggiungendo
la Svizzera.
7
Zeno Cosini
Zeno Cosini, il meraviglioso protagonista della
Coscienza di Zeno di Italo Svevo, è un uomo
d’inerzia, una di quelle persone che cercano di
andare avanti col minimo sforzo possibile. Fin
da giovane si lascia trasportare dal vizio del
fumo e dal vizio dei propositi di smettere di
fumare; dalla deriva tra un paio di facoltà universitarie diverse e dall’incertezza negli affari.
Zeno ha le capacità ma non si applica.
La sua incredibile inerzia diventa ancor più
evidente in amore. Decide che gli serve una
moglie, e perciò entra in casa Malfenti dove ha
saputo che vi abitano quattro sorelle. La rosa si
restringe quando vede che una è adolescente
e l’altra bambina, e tenta di conquistare la più
bella delle due rimaste, Ada. Non la conquista.
Si sposa con Augusta e la scelta si rivela fortunata: Augusta è una buona moglie e, dopo la
malattia che sfigura Ada, diventa la più bella tra
le due sorelle. Ma la vita di Zeno non cambia
poi molto e continua essere guidata più dal caso
che da Zeno in persona.
C’è chi dice che se si desidera davvero qualcosa bisogna andare a prendersela. Impegnarsi.
Zeno è fortunato e molte delle decisioni prese
per inerzia si rivelano col tempo le migliori
mentre Henry vive tra la paura di essere fucilato e i pericoli che incontra perché ciò non succeda. E tra i due, però, l’unico che ha davvero
vissuto qualcosa è Henry.
Mitomania
Viviana
Lisanti
Le sirene hanno perso la voce
Dove si parla delle matte storie inventate dagli
antichi greci e mutuate dai moderni.
Quando si prende a prestito
un mito si operano spesso dei
tagli decisivi al testo originale.
Nel caso delle sirene il primo
doloroso taglio è stato quello
delle ali: Apollonio Rodio ci
dice infatti che le tre creature
nate dall’unione di una musa
e di un dio del mare, per scelta o castigo, furono tramutate in esseri per metà donne e
per metà uccelli. Appostate su
una rupe cantavano e suonavano persuadendo i marinai
ad ascoltare e di conseguenza
morire nell’incanto della loro
voce soave.
Quando Ulisse facendosi legare resistette al loro fascino
mortifero le sorelle si suicidarono schiantandosi in mare.
Ed è a questo punto che la tradizione letteraria tarpa le ali e
fa spuntare una coda di pesce
o forse è solo colpa di un amanuense che nel medioevo trascrisse la storia scambiando
L’evoluzione marina della figura mitologica si cristallizza
poi con la fiaba di Andersen
del 1836 ( La sirenetta e altre
fiabe, H. C. Andersen, Rizzoli, euro 6,40). La sua sirenetta
è una triste principessa degli
abissi che spinta dall’amore
per un umano a desiderare
un’anima immortale abbandona famiglia, casa, sembianze e
rinuncia alla preziosa voce.
È l’ulteriore mutilazione del
racconto antico: prima le ali
adesso la lingua, recisa dalla
strega del mare che in cambio
dona alla fanciulla due gambe
attraenti.
Le sirene moderne sono quindi ammutolite ma non solo a
causa di un muscolo mozzato:
anche quando accoccolate su
uno scoglio intonano la loro
melodia ciò che risuona è un
vuoto gorgheggio, seducente
ma spoglio dalle terribili promesse che minacciava nell’Odissea «Nessuno è mai passato
di qui con la nera nave/ senza
ascoltare con la nostra bocca
il suono di miele/ ma egli va
dopo averne goduto e sapendo più cose» (Odissea, Omero, Bur, euro 10,80). Le dee
oracolari, volto e corpo dell’umana utopia di onniscienza,
hanno rinunciato alla loro
prerogativa e si chiudono nel
silenzio.
Forse tacciono perché non abbiamo più desiderio di sentirle? Come l’Ulisse del racconto di Kafka (Il silenzio delle
sirene, Racconti, meridiani
Mondadori, euro 10,96) che si
tappa le orecchie con la cera
e superbo passa davanti alle
sirene pensando che si stiano
sgolando invano.
Che cos’é uno sportivo.
O di come sia possibile pulirsi
Ciclisticamente il culo.
Il finzionario
Non sempre a pagina giunge lo scritto. Ci son letterature che non sanno
d’esserlo e fuor del libro fan nido. Staniamole!
Ma è tutto un equivoco le sirene tacciono! e forse Ulisse
finge di credere che cantino,
ha bisogno di illudersi.
Nel mondo di Underwater
creato da Laura Pugno nel suo
esordio letterario Sirene (Einaudi, euro 11,00) non servono tappi di cera né corde per
legarsi. Non sono le sirene ad
essersi zittite, quanto gli uomini ad aver perso la capacità
di udirle.
Le sirene rimangono quegli
esseri ammalianti e pericolosi
capaci di portare alla morte,
anzi si arricchiscono di particolari come i denti aguzzi
o la coda assassina. Ma sono
ormai del tutto desacralizzate
ed eroticizzate: la loro carne
di mare è buona da mangiare
e da violare e con questa prospettiva sono sedate, allevate e
nutrite. Galleggiano in enormi vasche sorvegliate e cantano per i cani, gli unici rimasti
in grado di sentirle.
Nel Piccolo trattato di ciclosofia, Didier Tronchet racconta di come si possa raggiungere ciclisticamente il mondo. Non già nel senso di
una banale locomozione che pervenga a lande
più o meno discoste ma di una gnosis e, al tempo stesso, di una áisthesis propriamente ciclistiche sotto le quali il mondo ci possa diventare
accessibile. Il suo problema non è dunque quello di raggiungere in bicicletta la fabbrica della
birra bensì quello di pensare, aprire e bere la
birra sub specie ciclistica o, secondo una lezione più greve, alla ciclista. Lungo questo crinale,
a ben vedere, guadagna anzitutto un proprio
nitore la possibilità di definire lo sportivo.
Esso – in breve – sarà tale non tanto in ragione di sue particolari performance con le quali
si dimostri più o meno capace di cimentarsi
nella propria disciplina, quanto piuttosto nella
misura in cui riesca a desumere dalla propria
praxis atletica un mood attorno al quale riconfigurare coerentemente l’integrale delle proprie
inserzioni mondane. Lo sportivo, cioè, sarà veramente tale quando – colto nel parcheggiare
la propria automobile – se ne potrà dire: “Toh’,
un pallavolista”. Sarà così possibile piantarla di
offendere generazioni di sportivi che, dismessi i
panni dell’atleta, finiscono per essere definiti ex
calciatori, ex rugbisti, ex motociclisti e quant’altro. Se in vita tua sei riuscito a operare tanta desunzione, sportivo lo sarai per sempre. Come
per sempre è un diamante, come per sempre
sono le emorroidi.
La scopata del pugile, in breve, continuerà ad
attestarlo in quanto pugile non fin quando salirà sul ring ma semmai fin quando onorerà la
propria branda. E quando più non potesse farlo, ad attestarlo in quanto pugile saranno ancora lo sguardo, il modo di asciugarsi la fronte,
di pagare le bollette, di aspettare l’autobus, di
pulirsi il culo e infine di spirare. Di contro, atleti che, nel pieno delle loro forze e delle loro
9
Edoardo
Lucatti
vittorie non si siano tuttavia convenientemente dedicati a suggere la cifra invisibile dei loro
sforzi, perderanno qualunque diritto a pregiarsi
dello statuto di sportivi. Un discorso che, temo,
calzi drammaticamente bene a pletore di bombatissimi energumeni che sempre più premono
la curva poetica dello sport sino a farne la retta incolore di un mestiere. Lo stesso scarto, ad
esempio, che corre fra l’elegia di Mario Corso,
storico calciatore interista inventore del tiro a
“foglia morta”, e l’insolente prestanza fisica – altrettanto interista - di un odierno “Speedy” Biabiany, che farà pure i 100 metri in 10”03 ma che
del calcio non ha desunto proprio nulla. Per altro, al di sotto della questione sportiva, mi sembra agitarsi e – quasi - fremere un problema più
generale, che investe moralmente la concezione
stessa dell’Autentico.
Si sarebbe dunque autentici quando ai propri
comportamenti manifesti, alle proprie azioni
dirette a quello scopo che - raggiunto - le consuma, sopravviva un puro gesto, plesso di tensioni motorie e/o di eidetiche cognitive, capace
di rimanere a disposizione sulla soglia di ulteriori scaturigini, quasi come la riserva ancora
inedita che insiste in tutto l’édito editàto.
Le vulgate, vale a dire i pensieri deteriori e manichei con i quali la miseria dell’uomo tenta di
barbarizzare intelligenze precedenti, possono
essere definite come azioni alle quali nessun gesto sia più in grado di sopravvivere, alle quali
– forse – nessun gesto sia più nemmeno sotteso, nelle quali – insomma – nessuna riserva di
inedito si degni d’insistere. E noi di Finzioni,
che viviamo esattamente saccheggiando la lettera d’altri, abbiamo cura estrema di serbare al
nostro furto un afflato creativo che lasci intuire
– in filigrana – quel gesto che volge ogni recensione in accensione. Noi, come Mario Corso,
siamo sportivi un bel po’.
Trilogie
Stefano
Fanti
Fred Uhlman – Trilogia del Ritorno
In realtà ‘tre’ è il numero perfetto grazie a Paul Auster. Qui di
seguito le più belle trilogie di sempre.
E’ fin troppo banale trovare nel crollo di Pompei
(o meglio, nei crolli), una metafora perfetta della situazione culturale italiana. O, rimanendo in
tema di tragiche cadute - questa però volontaria
e lucidissima - quella che ha portato alla morte del maestro Monicelli, un simbolo (restando
ancorati all’uso della figura retorica) dell’inglorioso destino riservato a quanto di meglio il nostro paese ha offerto alla storia, tanto da offuscare – almeno in parte - una mentalità comune
da uomo-pecora tipicamente nostrana.
E’ ovvio, un rinnovamento - che poi è intrinsecamente ritorno - potrebbe ridonare credibilità
a tutti noi, socialmente certo, ma soprattutto
inconsciamente, quando la comprensione di
deriva ormai tocca anche l’animo più misero
(non di tutti ancora, purtroppo). Di conseguenza non è un caso se la trilogia di questo
mese è quella scritta da Fred Uhlman e composta da “L’Amico Ritrovato”, “Un’anima non Vile”
e “Niente Resurrezioni, per favore”: La Trilogia
del Ritorno.
Nell’opera dello scrittore tedesco, a cui molti
si sono accostati durante le scuole, essendo, soprattutto “L’Amico Ritrovaro”, lettura didattica
per eccellenza delle estati giovanili, è importante ritrovare la spontaneità e la leggerezza con
cui viene affrontato un tema complesso e stratificato come il nazismo. L’uso dei bambini come
protagonisti – non in “Niente risurrezioni…”
che è però un memorandum guardato con occhi di innocenza rara, non filtrata dal prece-
dente bellico, ma pura nella sua forte contrapposizione, che definirei viscerale, tra l’ebreo il
popolo tedesco post dittatura, che questo, come
soggetto singolo, sia direttamente coinvolto o
no – ha la dote di donare freschezza ad anni dilanianti, non scadendo nel banale, ma restando
in superficie solo apparentemente. L’avvicinamente/allontanamento di “Un’anima…” è potentissimo per densità ed allo stesso tempo leggerezza, con il personaggio della madre che ti
si pianta in testa (per non dire sui coglioni, l’ho
detto) tanto quanto Jordan Chase (chi guarda
Dexter sa di cosa parlo, per tutti gli altri basti la
definizione di fetido), e con la deriva di un’amicizia che diventa lo scollamento di un popolo
dalla sua nazione.
Rileggere i tre romanzetti in questione con lo
sguardo di oggi è sorprendentemente illuminante.
“Signori, avreste dovuto lasciarmi in pace. Non
avreste dovuto costringermi a rivolgervi un discorso contro la mia volontà e le mie disposizioni d’animo. […] Com’è possibile che io discuta
di interessi comuni, di ricordi comuni, di amicizia, quando tra noi insorgono gli spettri di sei
milioni di ebrei? Com’è possibile, che io, ebreo,
sieda a tavola con voi e dimentichi i milioni che
sono morti di stenti, senza essere sicuro che la
mano che mi offre da bere e da mangiare non
è macchiata del sangue della mia famiglia? E
come potete parlare della “mia” patria, quando trent’anni su cinquanta mi sono stati rubati,
quando desidero ricordarne solo venti?”
Buongiorno tristezza
Interferenze
L’importante è raccontare di storie, di letture e riletture, con l’unico vincolo
della ricerca del filo di Arianna che conduca all’uscita dal labirinto letterario.
Oggi qualcosa si ripiega su
me come una seta, snervante
e dolce.
Bonjour, tristesse. Oggi che il
freddo gela i pensieri mi capita tra le mani il libro di una
stagione fuori luogo: un’estate
adolescente anni ’50; la Costa
Azzurra; la vita effimera di
una generazione bohémienne, così ingenuamente, oggi,
bohémienne. È capitato anche a te, certo, di sorprenderti
con il libro di qualcun altro,
più che tuo: ecco che si staglia
dietro la copertina la sagoma
familiare di una persona ormai perduta. Eccola, lei che ti
parla del suo travaglio dietro
quelle pagine che lei leggeva
con tanta segretezza gelosa. Le
parole assumono la sua voce
nota e dimenticata. Interferenze del cuore.
Bonjour, tristesse: fece epoca,
al suo apparire, questo romanzo di una giovanissima
debuttante, Françoise Sagan;
sembrò il ritratto feroce di
un’epoca ricca e vuota nella
sua rincorsa della felicità, nel
suo fuggire la coscienza delle
responsabilità, attenta a non
farsi turbare neanche dal lutto: mai disperazione, solo tristezza, «snervante e dolce». La
curatrice della riedizione della
Longanesi ne scrive come di
un romanzo che non ha superato la prova del tempo.
Io, però, che sono una lettrice
d’istinti, non lo credo. Io sento ancora, al di là della polvere su uno scenario usurato,
palpitare un sentimento che
non ha epoca: le vele che si
abbassano giorno dopo giorno. La noia, che non è l’ozio.
La tristezza, dietro l’edonismo
più decadente. Il vuoto dolce.
La paura che l’anima si faccia
pesante e cada nella palude
della vita. Leggerezza? Sì, ma
leggerezza di dolore, consapevolezza più forte che in altri
che la vita è un appassire «e il
frutto di giovinezza è un attimo/quanto dilaga sulla terra
il sole». Mimnermo. Paura di
fermarsi. Leggerezza anche
della scrittura: è un romanzo
“sentimentale”, che fa sorridere per l’ingenuità della sua
trasgressione?
Ma chi sa , oggi, parlare così
bene del vivere fatuo, della
paura di invecchiare (a quaranta, ma anche e soprattutto
a sedici anni, anche e soprattutto quando si è giovani)?
Tempi pieni fino a vomitare,
i nostri. Lasciano forse, i nostri tempi, che la noia, il più
sublime dei sentimenti umani (ode a Leopardi), risalga
dalla profondità dell’esistenza
a risvegliare il senso del tutto
e del niente, rimescolando in
noi l’euforia e la disperazione?
Il romanzo è del ’54 e tra gli
11
Cristina
Farneti
trasgressione?
Ma chi sa , oggi, parlare così
bene del vivere fatuo, della
paura di invecchiare (a quaranta, ma anche e soprattutto
a sedici anni, anche e soprattutto quando si è giovani)?
Tempi pieni fino a vomitare,
i nostri. Lasciano forse, i nostri tempi, che la noia, il più
sublime dei sentimenti umani (ode a Leopardi), risalga
dalla profondità dell’esistenza
a risvegliare il senso del tutto
e del niente, rimescolando in
noi l’euforia e la disperazione?
Il romanzo è del ’54 e tra gli
anni ’50 e ’60 si è celebrata,
anche nel cinema, una stagione effimera e spettacolare
di joie de vivre fou, di quella
gioia che leggi negli occhi che
ridono ma se sei attento vedi,
dietro le pupille fisse, la luce
del pianto. Nel romanzo della
Sagan c’è un padre adorabile,
un quarantenne fascinoso per
la sua piccola Elettra, Cécile,
cauto, anche nella prova della morte, a non rompere l’incanto della leggerezza, attento
a non usare quelle parole che
mondi possano aprirti. Un
padre abituato a farsi amare, a
giocare, sempre.
La memoria retrocede, in
bianco e nero: trovo un altro
padre in fuga dal carico della
vita, Bruno Cortona, (chi non
ricorda il memorabile Gassman de Il Sorpasso?), truffaldino (modello, sostengono
i critici, di una società aggressiva e amorale che partorirà i
suoi frutti migliori negli anni
Ottanta, o forse solo ipostasi
dell’eterno dionisiaco), inebriante sulla sua Lancia Aurelia Sport, padre bambino,
assassino senza colpa, stordito,
mai disperato, quando la velocità gli prende la mano e uccide nella sua fuga via dal tempo
lo studente sfigato, il fratello
minore di tutti gli studenti sfigati, lo spirito contemplativo
travolto nel fascinoso turbine
della vita attiva.
E poi un altro padre. Chi tra
voi ha avuto l’onore di accedere a capolavori che i nostri
tempi televisivi non fanno più
parlare? Chi tra voi ha visto La
voglia matta, il film di Luciano Salce del ’62, dove Antonio
Berlinghieri alias Tognazzi,
quarantenne, ingegnere, padre
senza vocazione, con addosso la malinconia del tempo,
l’eros della vita che si spegne,
fa il matto in mezzo a degli
adolescenti fuggendo al mare
(il mare, ancora una volta, il
luogo di quello straordinario
momento di «leggerezza ipersensibile e irresponsabile» che
è l’adolescenza)? E come non
pensare, guardando Antonio
con un senso di pena anche un
po’ per noi, alla vecchietta di
Pirandello, che s’imbelletta e fa
del suo viso la triste maschera
di un tempo contraffatto? Ma
forse questo senso dell’umorismo tragico non ci appartiene
più: guarda fuori dalle scuole,
quelle madri e quei padri vitaminizzati, un po’ abbrustoliti,
col petto guizzante e lo scollo
sufficientemente abbassato, gli
epigoni volgari di un tempo
che non percepisce più se stesso. Adieu, tristesse.
13
Letto e mangiato
Andrea
Sesta
La gallina era ormai carbonizzata
Benedetta Parodi, con il suo best seller, ha retroattivamente copiato
questa rubrica in cui si spiega come (e dove) si mangia nei libri.
Quando mi capita di cucinare, alle amiche che
affollano la cucina nella quale sto sfornellando,
ricordo sempre che i più grandi chef del mondo sono maschi. Scherzo, ovviamente, ma sì
sa: in ogni risata c’è una piccola verità. Cerco
sempre di stabilire la mia posizione di “capocuoco”. Questo perché in cucina è necessaria
una forma di controllo. I libri gialli, dal canto
loro, ci parlano di un mondo fumoso, nel quale il controllo degli avvenimenti non è che una
chimera. Un mondo misterioso, guidato dalle
pulsioni. Infatti, tanto nella cucina, quanto nei
gialli, non basta la razionalità per sbrogliare la
matassa ma serve, piuttosto, un tocco femminile. Una visione del mondo più laterale: seguire
strade che altri non vedono. Nel 1950 George
Simenon dà alle stampe L’amica della signora
Maigret (L’amie de Madame Maigret, nell’originale) che si preoccupa di ricordarcelo .
Il pollo disossato ripieno è una ricetta (per la
quale ringrazio mia nonna) adatta a introdurre questo libro. Serve un pollo disossato, potete
pure farvelo disossare dalle macellerie interne
ai supermercati, con un 1,5 kg di pollo, servirete fino a 8 persone. Prendete il pollo disossato
e aprite il petto, in modo tale da poter inseri-
re la farcitura. Servono del pane grattato (un
panino), 5 cucchiai di formaggio e due uova.
Dovete ottenere un impasto giallo. Passate del
sale all’interno del pollo, poi riponete del prosciutto cotto, (150 g in tutto), poi l’impasto e
poi delle fettine di Emmental (100 g). E poi un
altro strato di prosciutto cotto. In modo da ottenere 4 strati: prosciutto, impasto, formaggio e
prosciutto ancora. Una volta finito di infarcire
l’interno del pollo, richiudetelo con del filo da
cucina. Riponetelo in una casseruola e mettete delle patate tagliate a spicchi tutte introno.
Lasciatelo in un forno preriscaldato a 180° per
un’ora e mezza almeno. Comunque aspettate
che la pelle assuma quel delizioso colore ambrato.
“La gallina era sul fuoco, con una bella carota
rossa una grossa cipolla e un mazzetto di prezzemolo, i cui gambi spuntavano dal bordo della
pentola. La signora Maigret si chinò per controllare che il gas non si spegnesse, visto che era
al minimo […] soddisfatta, usci, chiuse la porta
e mise la chiave nella borsetta” (p. 11, Adelphi
Edizioni, 2002). Con queste parole inizia uno
dei tanti romanzi della saga di gialli polizieschi
dedicati al personaggio del Commissario Maigret.
Fuori dallo studio del dentista,
la moglie del commissario ha
incontrato una signora vestita di
blu e con un cappellino bianco
che, dal nulla, è scappata via affidandole un pargoletto per qualche ora. Continua la narrazione:
“«Mezzogiorno e mezzo». La
gallina era ormai carbonizzata!
Maigret stava per rientrare e, per
la prima volta in tanti anni di matrimonio, non l’avrebbe trovata in
casa.” (p. 16, ibidem).
La spiacevole disavventura della
signora Maigret e un caso che appassiona l’opinione pubblica sono
legati. La polizia sta impazzendo
per un delitto: nella stufa di un
rilegatore sono stati ritrovati dei
denti e una telefonata anonima
lo accusa dell’omicidio. Ma lui si
dichiara innocente. Colpi di scena, giochi di palazzo fomentati da
vecchi da rancori tra ex poliziotti
e avvocati arrivisti.
Il commissario non sa più dove
sbattere la testa, ma nel mentre
la consorte ha iniziato le sue indagini. Vuole scoprire chi era la
signora con il cappello bianco
che le ha fatto bruciare la gallina.
Dopo un giorno passato a ricercare il negozio dove quel cappello è stato venduto, la signora
Maigret sa a chi apparteneva il
cappellino. Spiega: «I cappellini bianchi sono di moda solo da
qualche settimana. Quello lo avevo guardato proprio bene. E non
ce n’è uno uguale all’altro, capisci?
Non ti dispiace mangiare qualcosa di freddo? Ho comprato del
prosciutto di Parma dal salumiere italiano…» (pag. 88, ibidem).
Con ironia mista a gratitudine, il
commissario segue questa pista,
che si rivelerà decisiva.
15
Pillole di scienza
Fabio
Paris
Spettri e antidemoni
Fisica, chimica e biologia non sono mai state così divertenti se, chi le spiega,
ce le racconta come le racconterebbe agli aperitivi dopo dei gran Negroni.
La notizia è rimbalzata su tutti i migliori giornali del mondo. Poteva Finzioni non occuparsene?
Quel maledetto di Dan Brown l’aveva vista abbastanza lunga pensando a dei tizi che volevano
distruggere il vaticano con un quarto di grammo di antimateria. Beh, sì, un quarto di grammo di
antimateria che si annichilisce con un altro quarto di grammo di materia fa un mezzo grammo
di massa trasformato in energia, grossomodo sarebbe l’energia della bomba di Hiroshima. Un po’
sovradimensionato come esplosivo per distruggere un grande edificio.
Ma andiamo con ordine. Gli atomi che
compongono la materia ordinaria sono formati
da protoni (carica positiva) neutroni (neutri,
ma al loro interno come subodole matriosche
hanno altre particelle più piccole e di “carica”
non nulla) ed elettroni (carica negativa).
Esistono però anche le particelle a carica
invertita, antiprotoni, antielettroni (positroni)
ed antineutroni. Antiparticelle, che però in
natura non si trovano, dato che sono attratte
dalla materia e quando si toccano si annullano
(annichiliscono) trasformando la loro massa in
energia, secondo la famosa formula di Einstein
E = mc2.
La notizia è che al CERN di Ginevra per la
prima volta dei fisici hanno isolato e stabilizzato
con campi magnetici trentotto (38!) atomi
di antidrogeno, per un tempo sufficiente a
studiarli (un decimo di secondo). Ovviamente
fare l’antimateria e stabilizzarla è cosa dura
a farsi, alla facciaccia di Dan Brown che la fa
sempre facile.
Ma avere isolato questi antiatomi consente
di studiarne lo spettro, ovvero il “colore” dato
dall’interazione di questi con la luce. E qui la
cosa si fa davvero interessante: alcuni anni fa
si dava per scontata la simmetria (ovvero stessi
comportamenti) tra materia ed antimateria,
ma quasi tutte queste presupposte simmetrie
sono state dimostrate essere errate. E ora siamo
al dunque: se lo spettro dell’antiidrogeno si
dimostrerà diverso da quello dell’idrogeno
allora cadrà uno dei pilastri fondamentali
della teoria della relatività (l’invarianza delle
trasformazioni di Lorentz, per i secchioni), che
dopo essere stata confermata decine di migliaia
di volte potrebbe cadere improvvisamente
come un castello di carte.
Chiaramente tutti sperano di trovare la teoria
fallace, ci saranno Nobel come coriandoli
a carnevale e tanto lavoro da fare. L’attesa è
grande e grande è la confusione sotto al cielo,
dunque tutto è stupendo!
Corrado Augias con Mauro Pesce,
Inchiesta su Gesù
Punizioni!
Leggere certi libri è peggio del cilicio sulla schiena. Qui ci facciamo del male e
raccontiamo la nostra esperienza provando a tirare fuori qualcosa di buono.
Parliamo di saggistica, che è letteratura. Anzi è
la cartina tornasole della letteratura: se un autore scrive un saggio bello da leggere, probabilmente scriverà anche ottima fiction (vedi Baudelaire), viceversa un saggio palloso nasconde
un autore mediocre. Non ho mai letto niente
della narrativa di Augias, ma se è vero quello
che ho appena affermato, allora dubito che lo
farò mai.
Umanamente Corrado Augias è un grande
uomo, impegnato, per di più in cause giuste e
non di comodo. È un talento multitasking, la
cui firma ha siglato dalla giallistica ai programmi tv, ma questo ahimé non gli impedisce di
essere drammaticamente pesante.
Il vertice di pesantezza esistenziale Augias lo ha
toccato con Inchiesta su Gesù, una punizione
da infliggersi a piccole dosi per uscirne vivi o
un ottimo rimedio drastico contro l’insonnia,
dipende dai punti di vista. Dico solo che mio
padre, una personcina leggera che da quando
è in pensione assilla il municipio con lamentele
su tombini, strade e cantieri, ha mollato il libro in questione – un mio regalo, per altro – a
pagina 107 sulle 245 totali. Classe 1943, mio
padre non ha graziato Augias nemmeno con la
solidarietà che si deve ai quasi coscritti, niente – ha lasciato lì l’Inchiesta nel 2006 e quattro
anni dopo la situazione non è ancora cambiata.
È sintormatico di una autoflagellazione esageratamente vigorosa per essere sopportata anche
dalle pellacce più dure.
Mi fa un po’ di tenerezza Augias, perché non ci
prova nemmeno a rendere accattivante un libro
che tratta di uno degli argomenti di per sé più
impegnativi del mondo: la figura di Gesù Cristo.
O meglio, Augias ci prova pure a renderlo interessante con un sottotitolo teneramente banale:
“Chi era l’uomo che ha cambiato il mondo” e
con una struttura a conversazione (tra Augias
17
Michela
Capra
stesso e il co-autore Mario Pesce, universitario
professore biblista bolognese, insomma un altro comunicatore “due-punto-zero” fatto e finito) di una semplicità imbarazzante.
La carne, il contenuto del libro, sicuramente è di pregio… per la ventina di professori e
canonici che l’hanno letto per intiero in Italia.
La meta delle quasi 300 pagine è davvero ambiziosa e in un certo senso troppo destrutturante per il nostro timorato paese: togliere tutta
la teologia dalla figura del Nazareno per farne
affiorare i contorni storici. Nell’élite di cui sopra
l’Inchiesta ha fatto scalpore, suscitando risposte
scritte e controtrattati. Proprio come funzionava nel Rinascimento, epoca illustre nella quale
il mirabile eruditismo di Augias sarebbe stato
premiato come merita.
Donne&Compressori
Alex
Grotto
Storia di Natale
Per chi i libri preferisce farseli consigliare da uno che non
ne ha mai letti e non dagli intellettuali veri di Finzioni.
«Lo so che è quasi Natale, che è tempo di candele profumate,
caminetti accesi, pasti interminabili o indigeribili, alberi di plastica che sembrano veri, sorrisi veri che sembrano di plastica
e cose così. Ma non bisogna abbassare la guardia. Perchè loro,
quelli che stanno nella stanza dei bottoni dell’equilibrio globale
al di fuori di questo velo di maya fatto di consumismo e panettoni del discount, non vanno mai in vacanza e cospirano contro
di noi». Questo che ho appena citato è il testo di una catena di
Sant’Antonio che mi sono ritrovato nella cassetta delle lettere
l’altro giorno e che ho subito associato al viral-marketing, anche se questa ipotesi è rimasta in ballottaggio fino all’ultimo con
quella di una minaccia scritta da Giovanni Lindo Ferretti, ma
non è questo il punto: la cosa importante è che chiunque l’abbia
scritta dice il vero e i recenti fatti di cronaca geopolitica internazionale lo confermano. Mi sto riferendo alle ennesime schermaglie tra le due Coree e all’ondata di panico tra i colletti bianchi
generata da Wikileaks. Tutto ciò mi ha riportato di fronte alla
realtà cinica del mondo e a quell’altra realtà ancora più cinica:
soffro di analfabetismo di ritorno per quanto riguarda la Storia
Contemporanea.
Mi serviva un luminare di chiare vedute e non indottrinato,
così mi sono rivolto a Gianni Mosca, mio compare ed esperto cospirazionista, andandolo trovare nel supermercato in cui
lavora. Stava nel magazzino ad impilare zamponi mentre un
altro suo collega spalava le lenticchie. Gli ho spiegato la storia della catena di Sant’Antonio, della mia ignoranza diffusa e
l’ho implorato di aiutarmi con un libro che avrei poi citato su
Donne&Compressori per rendere finalmente utile questa rubrica: salta fuori il nome di Eric J. Hobsbawm e del suo lavoro più
famoso “Il secolo breve” edito da Rizzoli, collana Bur-exploit,
700 pagine, 12 euro. Non lasciatevi impaurire dallo spessore
gargantuesco del volume, si tratta per lo più di una trattazione schematica ed organica di tutto quello che c’è da sapere sul
mondo nel periodo che va dal 1914 al 1991: le Grandi Guerre, il
Socialismo reale e la sua fine, la Guerra Fredda (che alle superiori ci spiegavano gli ultimi due giorni di scuola), le Avanguardie,
il Terzo Mondo (che alle superiori ci illustravano il giorno della
festa di fine anno, le prime due ore della giornata): un ripasso dovuto e rivisto attraverso gli occhi di uno storico, filosofo e
sociologo di quelli come Hobsbawm di cui io mi comprerei la
maglietta.
Lo comprate, lo leggete
nei capitoli e negli episodi
storici di cui avete un vuoto
pneumatico al posto del
ricordo, lo applicate a quel
che sapete della situazione
attuale, lo miscelate con un
po’ di paranoia, qualche
lettura di una presunta testata
che fa controinformazione
combattente, un altro paio
di estrapolazioni dal sito di
Assange e bam! Avrete il vostro
Natale trascorso a sbirciare
dalla finestra aspettando di
vedere in lontananza un fungo
atomico e stringendo forte un
santino con l’effige di Nixon.
Dedico questo mio ulteriore
guizzo di interesse verso il
mondo della letteratura al mio
maestro delle elementari, che
di fronte a bambini di otto anni
sprecava fiato raccontando
barzellette su Gorbaciov e poi
mostrava loro foto satellitari
dell’offensiva del Tet, il tutto
da dietro un chiaro alito da
Amaro Del Lupo.
Grazie, Maestro.
19
Eccezioni
Filippo
Pennacchio
Libri deformi, rifiutati, maledetti e (ovviamente) trascurabili,
da dimenticare non appena letti.
Once upon a time there / was a story that began
Assieme a Robert Coover, Donald Barthelme e pochi altri scrittori parimenti eccezionali,
John Barth viene solitamente annoverato tra gli
esponenti del postmodernismo nordamericano
più intransigente e radicale: quel trend letterario di cui possiamo assumere quale esemplare
antecedente l’impareggiabile El jardín de senderos que se bifurcan di Jorge Luis Borges e il
barthiano The Literature of Exhaustion, in Italia
noto come La letteratura dell’esaurimento, quale
imprescindibile manifesto teorico. Racconti autoriflessivi che si avvolgono su se stessi, frammenti monosintagmatici, taglia-incollabili lungo i bordi per costruire imperscrutabili nastri
di Möbius, simboli indecifrabili che compaiono
ingiustificatamente sulla pagina, derekbaileyismi sintattici, frasi che si interrompono mentre
le stiamo leg
For whom is the funhouse fun?
La letteratura ormai essendo una faccenda definitivamente chiusa, esaurita, un esercizio
tristemente ludico, insomma un affaire per soli
possiamo estrarre quale sample emblematico il
addetti ai lavori, nel 1968 Barth dà alle stampe
la raccolta di short stories Lost in the Funhouse. Fiction for Print, Tape, Live Voice, del quale
possiamo estrarre quale sample emblematico il
celeberrimo, eponimo racconto cui trent’anni
più tardi David Foster Wallace si ispirerà per
comporre il suo Westward the Course of the
Empire Takes Its Way. Se si eccettuano le programmatiche intromissioni di un narratore insopportabilmente saccente, Lost in the Funhouse racconta di Ambrose, un ragazzino who was
«at that awkward age» protagonista, si fa per
dire, di un improbabile triangolo amoroso con
il fratello Peter e l’ammaliante Magda G—. Del
tutto inconsapevole di giocare, in questo triangolo, il ruolo dello spettatore impotente – lui, in
fondo, con Magda ci voleva solo «conversare»
–, per impressionare lei – versione po-mo delle
faustiane femmine di Hawtorne – e mostrarsi
per l’uomo che non è non sarà mai, decide di
entrare nella più temibile tra le attrazioni del
Luna Park di Ocean City, «la casa dell’allegria»
[the funhouse].
Vomitare & ricordare
Ricordo ancora distintamente il giorno in cui
compresi che la vita intera non sarebbe stata
altro che una vicenda tragica, triste e grottesca,
una sequela poco entusiasmante di episodi
irrelati e di “cose divertenti” da evitare fino
alla morte. Entrato, l’ultimo giorno di scuola
media, nella casa degli specchi del Luna Park
di C—, letteralmente mi ci smarrii dentro:
vagai a vuoto per minuti interminabili, l’uscita
irrintracciabile, sbattendo dolorosamente
contro la mia immagine riflessa; e mentre i
volti oscenamente ilari dei miei imbarazzanti
compagni di classe venivano esponenzialmente
raddoppiati dagli specchi, mi accasciai a terra
travolto dalle vertigini, a stento trattennendo
tremendi conati di vomito. (S)fortunatamente,
a differenza di Ambrose, da quella funhouse
antidiluviana, trash e iperrale come la vita di
provincia, io riuscii, non so come, a uscirne vivo.
Solo anni dopo, entrando in benaltri labirinti,
mi resi conto che ciò che avevo vissuto era
qualcosa di più che un’esperienza terrificante:
se è vero, come Lost in the Funhouse insegna,
che un’intera esistenza può essere descritta alla
maniera di un canonico racconto finzionale, cioè
prendendo a modello il cosiddetto triangolo
di Freitag (fig.1), o meglio una variante dello
stesso (fig.2)
allora il punto B, cioè l’introduzione del
conflitto, rappresentò per me come per
Ambrose nientemeno che l’ingresso in quella
«camera degli orrori cammuffata da baraccone
del Luna Park – cioè la vita adulta, cfr. Leslie
Fiedler – in cui una serie di specchi interferenti
ci offrono mille diverse immagini del nostro
viso».
You think you’re yourself, but there are other
persons in you
Anyway, già alle soglie degli anni Ottanta
la letteratura riprenderà a produrre utili
formidabili, i romanzi torneranno a rendersi
intelligibili da un pubblico vasto e globale
e de-composizioni terminali simili a
quelle qui brutalmente disciolte verranno
programmaticamente rimosse. Al punto che
chiunque è oggi disposto a giurare che in
fondo, quei luoghi spaventosi non sono altro
che banalissime funhouse: «that is, a place of
amusement».
fig.2
fig.1
21
La lettera che muore
Michele
Marcon
Limbo.
Riflessioni sugli stati liminari e liminali della letteratura.
E questa non è l’unica cosa che non capirete.
In occasione della nuova veste grafica di Finzioni comincia il conto alla rovescia per un decesso annunciato: limbo, inferno, purgatorio, paradiso e – perché no – reincarnazione, in queste
5 ultime uscite La lettera che muore tirerà le
somme (e le cuoia) dopo un anno di riflessioni
sugli stati liminari e liminali della letteratura.
Da Shakespeare a Sylvia Plath, da Tasso a Rimbaud, da Dante a Ezra Pound, scrittori di ogni
epoca hanno architettato pagine che noi lettori,
per vari motivi, non possiamo e non potremo
mai possedere. L’intera storia della letteratura è
anche la storia (o l’anti-storia) della letteratura perduta. Questo è il limbo, la pagina bianca:
grandi libri (im)memorabili che non sono stati
mai letti perché irrimediabilmente scomparsi,
trafugati, distrutti, oppure – più semplicemente
– perché non sono stati mai scritti.
Così va la vita per moltissime opere dell’antichità: Euripide, Eschilo, Aristofane, tutti quanti
giù nel limbo. Il secondo libro della Poetica di
Aristotele non fu mai trovato, e perfino Socrate,
quello che non scrisse mai niente, in realtà aveva trascritto le favole di Esopo in versi mentre
era in prigione in attesa dell’esecuzione. Anche
in questo caso non se ne sa nulla, perché non ne
rimane niente.
nel fuoco Stephen Hero – il primo draft di A
portrait of the artist as a young man – ma non
poté impedire a sua moglie di salvarlo dall’irreparabile. Le fiamme hanno accolto anche i
lavori di Gogol’ e Byron, mentre furono solo la
lungimiranza e la disobbedienza di Max Brod
a garantire un futuro alle opere di Kafka. Ma
il più figo di tutti è Bakhtin che, esiliato in Kazakistan, usò alcune pagine del suo lavoro su
Dostoevskij come carta per rollarsi le sigarette.
Il tutto dopo essersi appena fumato una copia
della Bibbia!
L’intero corpus letterario esiste grazie ad un
medium che lo contiene e lo determina, e ogni
medium ha una data di scadenza. Che sia roccia, papiro, carta o quant’altro non importa:
proprio perché questi materiali hanno una dimensione fisica, la letteratura è così vulnerabile. E non crediate che la rivoluzione digitale
porti con sé l’immunità. Prima o poi qualche
altro libro finirà nel limbo della lettera e della
letteratura; questo vacuum, questo maelstrom,
questo buco nero, dove le lettere scompaiono
per sempre. Il paradosso è che proprio un libro
viene in soccorso di tutti questi testi oramai illeggibili. Si tratta de Il libro dei libri perduti, di
Stuart Kelly, pronto a salvare – per quanto possibile – la lettera dal suo eterno obliato limbo.
Nel limbo finiscono anche Agatha, il romanzo
che Melville non ha mai portato a termine, e
Ultramarine di Malcolm Lowry, il cui unico
manoscritto fu perso dall’editore. Stesso destino
toccò ad Hemingway quando nel 1922 la moglie fu derubata di una valigia contenente tutto
quello che il marito aveva scritto sino ad allora.
E poi c’è il cliché delle fiamme, così caro agli
scrittori in crisi. Joyce, scagliò rabbiosamente
23
Devo ancora finirlo
Simone
Rossi
Summer of ‘51
Devo Ancora Finirlo, come suggerisce il nome, è una rubrica che parla
simone Rossi
rossi sta leggendo, ma deve ancora finirlo.
di un libro che Simone
“Bella forza, ora che sono vecchio, farmi gioco di me ragazzo; da furbo mago di pioggia
farmi pagare le previsioni del
tempo ascoltate un minuto
prima alla radio. Bella forza...
Ora so tutto di me, dove tendevano le linee oblique della
mia sorte, gli impulsi innamorati del sangue. Ma perché fare
carico delle mie presunzioni
odierne all’apprendista di allora?”.
L’apprendista di allora aveva
31 anni, si chiamava Gesualdo
Bufalino e quarant’anni dopo è
lì che dice: “Fui giovane e felice un’estate, nel cinquantuno.
Né prima, né dopo: quell’estate”.
Sto leggendo Argo il Cieco
Gesualdo Bufalino e devo ancora finirlo, come dice il nome
di questa rubrica. Gesualdo Bufalino invece con quel
nome lì doveva per forza fare
lo scrittore anziano, infatti il
suo primo romanzo è uscito
quando aveva 61 anni perché
Sciascia gli diceva Dai che sei
bravo, Gesualdo, minchia, facci leggere ‘sto libro (era La diceria dell’untore, che ve lo dico
a fare). Quindici anni dopo
Bufalino muore, ma non nel
suo letto: incidente autostradale. L’avrà già detta qualcuno
la storia di Bufalino 75enne
che vede il pilone di cemento
venirgli incontro ai 130 all’ora
e non c’è tempo perché ti passi davanti tutta la vita in quel
momento lì, in quel momento
c’è tempo per una sola stagione, l’ha già detto Pasolini che
la morte compie il montaggio
della vita, montaggio vuol dire
tenere solo le cose che servono, e a cosa serve un’estate felice?
Serve a scriverla. A inventarsela, anche. “Poiché non
è solo bello viverla, la vita. È
bello quasi altrettanto fingere
e mentirsi di viverla”. Quasi
altrettanto non vuol dire un
cazzo, Gesualdo, lo sai anche
tu, gliel’hai messo per cerchiobottisimo, lo sai anche tu
che Finzione batte Vita uno a
zero, una moltitudine a zero,
una legione di ragazze che “si
spenzolavano dai davanzali,
tutte brune. Quella che amavo
io era la più bruna”.
Maria Venera. Sarà un nome,
Maria Venera?
“Gli amori non corrisposti,
credetemi, sono i più comodi.
Senza nessuno dei sapori di cenere e aceto che accompagnano gli effimeri unisoni. Io, un
po’ l’avevo imparato dai libri,
un po’ mi faceva gioco persuadermene, per ritegno, musoneria, superbetta sufficienza
di me. Sicché, con la ragazza,
mai che cercassi un buon incontro, un’intimità. L’amo, ma
lei che c’entra, la cosa riguarda
me avevo pensato a voce alta
una domenica, mentre mi radevo nel bagno, e la frase m’era
piaciuta, l’avevo scritta col dito
sul cristallo appannato dal fiato, ripetendomela volentieri
da allora, come un contravveleno che m’aiutasse a salvarmi
dalle vipere della gelosia. Maria Venera non provava niente
per me? Tanto meglio: me ne
veniva una libertà senza limiti,
i miei moti per lei non appartenevano a nessun altro che a
me, potevo nella fantasia giocarmela e vincerla a gusto mio.
Barando, magari: si sa, non c’è
piacere più raro di barare in
un solitario”.
William Burroughs, un altro
che non è mai stato giovane,
teneva dei corsi di scrittura
creativa e a lezione parlava
serio serafico con piglio scientifico del potere magico della
scrittura, nel senso proprio del
pensiero magico degli sciamani, la scrittura come atto che fa
succedere qualcosa, una causa
da cui scaturisce un effetto, a
volte imprevisto, puff!, un effetto magico: se ballo, magari
non succede niente; se faccio
la danza della pioggia, magari piove. L’innesto del caos
nei rapporti causa-effetto è un
gesto di libertà assoluta, e la
libertà assoluta è pericolosa:
Burroughs diceva che un racconto che parla di un’epidemia
di colera deve avere i bacilli del
colera inoculati tra le fibre della carta, così uno lo legge e si
ammala, anche se quell’epidemia di colera non c’è mai stata.
Anche se l’estate dell’amore di
Gesualdo Bufalino non c’è mai
stata, anche se Maria Venera
è un mischione di quarantasette femmine brune tutte inventate, anche se le brillanti
intuizioni scritte sul vetro appannato del bagno diventano
subito parole scritte da cui ti
stacchi e poi le guardi e poi
scrivi che le stai guardando e ti
“vengono fuori storte, bistrate,
beffarde; agrodolciumi volti
a corrompere (…) un’impostura, insomma, che (…) mi
svogli l’animo dall’arcinero,
dall’arcizero, dall’arciniente; e
mi dissuada la fatica di tagliarmi i polsi, debolmente, ogni
quattro mesi”. Si diverte così,
insomma.
25
Scritto da un idiota
Michela
Capra
Immaginate di spiegare un mattone illeggibile alla persona più idiota
che conoscete. Ecco, fate prima a leggere qui.
Maddai, Bukowski era solo e unicamente un grosso ubriacone.
Che cos’è la mania di esaltare questa gente poi? Io non lo so,
si trasformano pezzenti in grossi personaggi, icone, modelli da
imitare, sarà mai educativo?! Poi ci si lamenta se i ragazzini bevono come delle spugne a quattordici anni, te credo, ma non
vedete che tutta la gentaglia di cui parlano nelle scuole era per
metà alcolizzata e per metà drogata? Bell’insegnamento, gran
bella roba leggere Bukowski, mancavano solo i suoi libri alla società del giorno d’oggi piena di perversità come già è senza che
quello lì sia rinvangato un’altra volta. Diventa di moda ad anni
alterni e senza un motivo decente, perché diciamocelo una volta
per tutte, non si salva niente dei suoi scritti. A volte penso che
lo abbiano pubblicato perché era un bel pezzo più strambo della
media. Un tipo di stramberia che alla sua epoca sembrava nuova, forse è questo che ha inganato gli editori che contavano. No
perché di talento poetico non ce n’era, dai.
Saprei scrivere anche io le sue poesie e meglio pure. A parte gli
argomenti, che solo a ripensarci mi viene nausea, ma che cosa
ci vuole ad andare a capo quando ti gira o quando vedi che lo
spazio sulla riga sta finendo? Non ci vuole niente, anzi bisogna
ricordarsi di sbagliare a mettere punti e virgole e di non usare la maiuscola. Le regole al contrario praticamente, bella roba,
proprio sana, quello che ci vuole oggi giorno. Poi dicono che
c’è troppa promiscuità in giro, ci credo! Vanno ad insegnare le
robbe di sto squinternato maniaco sessuale in giro, ma hai letto
che scene? Prostitute e tutto il contorno, squallore, squallore e
squallore. No, meglio che non ci penso che mi intristisco, tutto
quel senso del lordume e del sudicio della vita, non posso davvero pensarci.
Che scocciatura anche il nome mezzo russo, non si capisce neanche che è americano, vai poi a controllare e ti scopri che ha
vissuto a Los Angeles. Beh, lì non faceva di sicuro fatica a fare
rifornimento dei suoi carburanti. Che tossico schifoso. E comunque le persone ne sono ossessionate, è una cosa di cui non
riesco a capicitarmi. Non hanno fatto anche il film, Il grande
Bukowski?
The Walking Dead
Robert Kirkman e Tony Moore
Ghost world
Ghost World è una rubrica che parla di fumetti. Il tipo che inizia e
finisce in un albo solo e dunque si chiama “graphic novel”, o così pare.
Marina
Pierri
“Graphic novel”, l’abbiamo detto spesso su questa paginetta, è un modo come un altro per definire
una storia a fumetti, ammesso che abbia un inizio e una fine ben precisa. Ai più schizzinosi tra voi,
dunque, preciso subito che “The Walking Dead” calza e non calza la definizione, essendo oggi arrivata all’albo 79 e non essendo ancora terminata. Nonostante questa mancanza strutturale, la serie
presenta i tratti tipici del racconto a fumetti; perciò abbiamo comunque voluto discuterne qui.
Inoltre, a meno che non viviate sotto un sasso, saprete che, non prima di un mese fa, “The Walking
Dead” è diventato una serie televisiva non di grande, ma di enorme successo. Una serie d’autore, in
quanto diretta dal regista Frank Darabont, ma anche un “semplice” telefilm sugli zombi (detta in
soldoni). Che ne abbiate beccato qualche episodio o meno, è bellissima… e piuttosto differente dal
fumetto.
Nel suo primo editoriale, Robert Kirkman spiega che “The
Walking Dead” non vuole
essere una saga horror. E, di
pagina in pagina, basta poco
per rendersi conto fino a che
punto non lo sia.
La cultura pop ha sempre (o
quasi) usato gli zombi - non
morti diversi e simili ai vampiri nella misura in cui la loro
condizione umana cessa (non
“muoiono”) – per trattare, in
qualche maniera, il tema della
sopravvivenza, e come corollario, l’estinzione. Sull’argomento sono stati versati fiumi
d’inchiostro fin dall’alba dei
tempi e JJ Abrams, con “Lost”,
ha fatto il resto.
Tutto questo è l’oggetto di
“The Walking Dead”. Che non
è una saga action: i pochissimi e fugaci incontri con gli
zombie sono l’agente di cambiamento per un gruppo di
persone di diverse etnie. Ogni
occhio che schizza in aria e
ogni palata nei denti è una
scusa buona per parlare di
cose come: che lavoro facevi?
dove vivevi? tiravi a campare?
mentre ogni discorso sul passato e le preoccupazioni di ieri
perde senso.
Come forse avrete già sentito,
l’esile spunto della trama tutta
(invasione degli zombi) non
viene mai motivato nella serie,
ma preso come un dato di fatto senza origine, che lo rende
doppiamente destabilizzante
per chi legge. Pensateci: i racconti mitologici, o quelli di
fantascienza (cose assai simili) hanno sempre una genesi
piuttosto chiara, così come i
loro protagonisti. Per esempio, nei fumetti i supereroi
“nascono”: c’è un’ esplosione
chimica per Dr. Manhattan
o Daredevil, un alieno per
27
Green Lantern, un ragno per
Spiderman e via dicendo. Ora,
se questa “nascita” è spesso vicina al concetto di contaminazione, lo stesso si può dire di
“Walking Dead” e molte altre
versioni delle storie di zombi.
Con la differenza che qui non
esiste. Non solo non si vede,
ma non viene neanche sfiorata per sbaglio.
Torniamo a Kirkman: la sopravvivenza. “Walking Dead”
è una specie di strip tease
spirituale. I protagonisti pian
piano si spogliano – attraverso
la bella e verbosissima sceneggiatura – di tutto quello che li
definiva in quanto persone: la
ricchezza o la povertà, il senso
dell’umorismo o il machismo,
una roulotte o una macchina da corsa. E noi siamo lì a
guardare chiedendoci “e se
capitasse anche a me?”. Resta,
e di questo, penso io, parla
Kirkman, che la perdita della
cultura non è mai una perdita di umanità: se siete pronti
a un tuffo nella disperazione,
lanciatevi in questi 79 albetti.
La posta dei lettori
Matteo
Bettoli
di Matteo Bettoli
Risposte (inventate) a lettere (verissime) inviate a Matteo Bettoli da
una schiera di lettori avidi di conoscenza
Caro Bettoli,
mi sono reinventato pubblicitario una volta scaricato dall’azienda di scaldabagni per
la quale lavoravo da qualche mese. Se posso
scaldare un bagno, solo con la forza della
tecnica - pensai allora - posso anche scaldare
un’emozione con la forza di un’idea ed utilizzarla per piazzare prodotti sul mercato. Ero
ben determinato a far sì che le mie idee geniali non rimanessero in un cassetto imbarlato
ed ho quindi assaltato i personaggi in charge
che si frapponevano tra la mia persona ed il
mio piccolo grande sogno. Ho creato agguati
macchinosi che avevano come target le macchine dei Direttori creativi, ho irresponsabilmente comunicato minacce a Responsabili
della comunicazione, ho legato Amministratori delegati. Tutti mi hanno ascoltato, guardandomi come un pazzo, ma io so che in realtà è l’ammirazione che fa spalancare quelle
palpebre. Ah ah ah! Quante risate, anche!
Ora, complice un rapimento lampo ai danni di un povero cristo che casualmente era
pure il Manager di un’azienda importante
nel campo delle costruzioni (che ho originalmente costretto, nel mentre del rapimento, a
costruire una cuccia per il mio setter), sono
diventato famoso. Tutti mi invitano, tutti mi
vogliono, ma soprattutto, tutti vogliono le
mie pubblicità geniali.
Anargyros Golinos, la capitale morale dell’Italia, Milano
Sei uno bravo, e sei anche un caso. Non voglio
dire che sei bravo per caso, o forse sì. Fatto sta
che il libro ispirato alla vita di Anargyros Golinos, signori, è in testa alle classifiche di vendita
italiane da 2 mesi e non viene recensito su Finzioni solo per lo stolto impuntarsi del Direttore
Cirillo. Un genio o un cretino: l’assalto alla pubblicità di Golinos, ed. Weri Fenomeni, contiene
pure un’interessantissima appendice con le migliori campagne curate da Anargyros Golinos
(ma sarebbe più corretto dire “imposte con la
forza”: i vertici delle aziende si trovavano sotto
ricatto o addirittura accanto ad un uomo armato con velleità di piromane al momento dell’accordo). Ecco, per dire, 5 incisi per sensibilizzare
sulla donazione del sangue: non fatevi venire il
sangue cattivo, donatelo finchè è buono / buon
sangue non mente, ma anche se fosse un impenitente bugiardo a noi fa comodo uguale / più
che un bagno di sangue, meglio un bagno dopo
aver donato il sangue / calma e sangue freddo, il
sangue ci serve a temperatura ambiente / nobili
non fate i furbi, il sangue blu va bene uguale.
Un genio o un cretino? Continuo a ritenere che
le due cose possano coesistere nel fascino malaticcio del greco di Milano.
Carissimo,
non credo di essere un fritto se ammetto in
una lettera che mi fanno impazzire i libri con
molte foto, tanti colori e poche parole. Mi
fanno impazzire quelli pretenziosi e pesanti,
pieni di fotografie su carta ad effetto glossato, che mettono in fila foto fatte a feste americane negli anni ’70, camionisti tedeschi col
mullet, tatuaggi sbagliati, paesaggi desola(n)
ti, case diroccate, calciatori colombiani, foche, scarpe e geiser islandesi. Il bello di questi
libri è che ci arredano il salotto ma non ci impegnano, danno sostanza alle nostre librerie
senza assegnarci un compito infame, inutile e
pesante: la lettura. So di essere almeno in parte fuori tema, essendo Finzioni un “progetto
di lettura creativa”, ma vi rivolgo un accorato
appello: non potreste mettere più figure anche nel vostro sito, così da non spaventare chi
i libri non li legge, ma li guarda? N.B. non ho
scritto “vede”, ma “guarda”. Su questa linea
sembrano muoversi la rivista cultural-letteraria Sembianze, i volumi venduti al Moma
e pure gli album di fotografie di mia madre,
ormai scevri di didascalie.
Gaetano, Calù
29
Caro Gaetano,
la nostra rivista è piena di parole ma se ci guardi da vicino e per bene in realtà pure le lettere
e le parole sono figure. Te lo dico: ti si aprirà
un mondo quando noterai che la parola “letto”
sembra proprio un letto con la testiera ed un
gatto sotto la coperta, che la “y” è una fionda,
che “agiatissimo” è un fucile a canne mozze e
col mirino, che la “d” e la “b” sono dei trolley
(apropò, interessantissimo un aneddoto circa
l’invenzione del trolley: alla fiera annuale dei
valigiai di Sao Paulo, nel 1988, un berbero prese la parola -erano gli anni delle prime rotelline nelle valigie- e chiese perchè già che si era
fatto 30 non si faceva 31 posizionandole direttamente nel lato largo e ruotando di 90° la valigia così da aumentarne la stabilità. Il berbero
aveva inventato, senza saperlo, il trolley. La fiera
si chiuse con mestizia, tutte le valigie rimasero
invendute perché improvvisamente obsolete ed
il berbero venne tacciato di cattivo tempismo).
Tornando alla richiesta, la giro a chi di dovere.
Tornando ai libri, suggerisco di leggere guardare i volumi fotografici di Caspar Rooby, Evidenziatori di tutte le epoche, rosa gialli e blè che
danno un’idea dell’evoluzione degli evidenziatori, andatisi sorprendentemente incicciandosi
mentre il mondo era invaso da messaggi sulla
magrezza, e Piastrelle della metro, che raccoglie
-in effetti- le più belle piastrelle della metro.
Caro Bettoli,
a me fanno schiattare i neo-pagani, perché
in questi tempi difficili è fondamentale che
qualcuno si metta una tunica (se uomo) ed
una ghirlanda in testa (se donna, ma anche
se uomo) e si metta in un campo con dei bacchetti per terra, un falò & tanta armonia, in
attesa che si palesi un fauno o una chimera.
Se di “sbornia sincretica” possiamo parlare,
magari aggiungendoci pure un po’ di “ricostruzionista”, di certo non possiamo ignorare
il nuovo vigore garantito al neopaganesimo europeo dal presunto avvistamento nei
boschi umbri di diversi esemplari di fagiani
bifronti. Il fagiano bifronte si candida a
succedere nella linea delle creature leggendarie allo gnu inverso, scalzando dalla propria
posizione anche il bigfoot ed il lucertolone
di Loch Ness, ormai bolso e senza appeal.
Un libro verità sul fagiano bifronte è stato
realizzato dal giornalista sensazionalista
naturalista Giovanbattista Latosta, che ha
pubblicato Bestie (Oaio editori riuniti, 13
euro) ed ha alzato un polverone.
Rolenzo, Napoli
Caro Rolenzo,
credo poco alla buona fede di Latosta, così come
non credo alla strana storia dei tacchini volanti
descritta da Nikolaj Stepanovič Gumilëv ormai
un secolo fa. Prendo Bestie per quello che è, un
libro di fantasia, che appassionerà gli stessi che
si gasano con le teorie su Atlantide, la terra cava
e la ragion di stato. Il fagiano bifronte, secondo
Latosta, non vola come il tacchino di Gumilëv
ma neppure cammina, sconvolto dall’indecisione derivante da una vista a 360° (da noi sperimentata solo a Eurodisney). “L’abbondanza
di stimoli getta il fagiano nell’imbarazzo più
totale”, ci dice Latosta “e lo rende paranoico
verso gli estranei. Forse per questo, nei secoli, ne sono stati avvistati solo 3 esemplari (per
un totale di 6 musi)”. Rimane la suggestione, la
appena nata “Fondazione amici del fagiano bifronte” e un manipolo di esaltati con le tuniche
ed i bacchetti per i campi.
31
Iperboloser
Jacopo
Cirillo
Racconti gonfiati di storie vere, o racconti veri di storie gonfiate. In
entrambi i casi è subito simpatia verso chi perde per costituzione.
Ci sono due modi per raccontare storie: la noiosa verità e la mirabolante esagerazione dei fatti. L’esagerazione dei fatti, o iperbole, è bella perché è una caricatura.
Wittgenstein (yawn) diceva che fare una caricatura non è altro che privilegiare e
mettere l’accento su una parte in rapporto con il tutto, creando dunque, dico io,
una sproporzione. O meglio, un’asimmetria. L’asimmetria fa ridere e fa pensare,
perché non è regolare, dunque buffa, e va messa a posto gestalticamente con la
propria testa.
L’iperbole, la storia esagerata, segue esattamente questa dinamica: è divertente e fa lavorare il cervello. Fa ridere e fa pensare. Ci sono poi due ruoli che si
alternano nelle storie: la banalità dei vincitori e il sorprendente spessore dei
perdenti. Le storie dei vincitori sono retroattivamente incastrate nel rasoio di
Occam: la soluzione è spesso la più semplice e ovvia. Quando le leggi, sembra
che tutto sia andato liscio, che sia successo quello che doveva succedere e niente
altro. L’eroe ha vinto perché è buono, la soluzione più semplice è che vinca. Non
si scappa.
Le storie dei perdenti invece sono più belle perché i perdenti, per tirare acqua al
loro mulino, si raccontano in modo più personale, più soggettivo, si guardano
dentro non potendo ovviamente aggrapparsi alla rassicurazione dei fatti oggettivi. Trovano la verità dentro di sé, non fuori, come Karate Kid. Solo che loro
perdono per costituzione.
E la verità soggettiva è infinitamente più interessante: come diceva qualcuno
(quel qualcuno era Kierkegaard ma avevo paura di annoiarvi ancora di più),
con soggettivo non si intende un attributo relativistico ma una appropriazione
della verità in termini esistenziali. La verità per me. Negli Iperboloser accoppieremo felicemente questi due fenomeni, raccontando storie esagerate di grandi
sfortunati. Quel ganzo di Walter Benjiamin ha detto che la storia è il bottino dei
vincitori. L’iperbole, allora, è la risorsa, forse l’ultima, dei perdenti.
Roald Amundsen sarà il vostro futuro idolo
per sempre; era infatti uno spendaccione norvegese con manie religiose – è grazie a lui e
alle sue stimmate autoinflitte che da allora gli
scialacquatori vengono apostrofati mani bucate – famoso per essere il bersaglio preferito dei
creditori del villaggio. Roald era affetto da una
strana cleptomania al contrario: non riusciva a
non comprare qualsiasi cosa vedesse. Sua moglie aveva provato di tutto: tenerlo in casa, portarlo in supermercati poco forniti, impedirgli
di maneggiare denaro, convincerlo a rubare,
ma niente. Il suo ingegno era talmente fine che
fu lui a inventarsi i “pagherò”, solo che allora
non venivano scritti su una cambiale ma detti
a voce, e la riscossione era più difficoltosa.
Un bel giorno il buon Amundsen, mentre la
moglie dormiva, decise di fare una piacevole
passeggiata. Non l’avesse mai fatto. Girellando
vicino al porto, gli capitò sotto gli occhi un peschereccio per aringhe di 47 tonnellate.
33
Oh-oh. In pochi giorni raccattò un equipaggio,
comprò la barca senza avere i soldi neanche per
permettersi l’ancora e partì di tutta fretta per
sfuggire ai creditori imbufaliti che si erano un
po’ stufati dei suoi pagherò e pretendevano almeno che glieli mettesse per iscritto. In pochi
mesi di viaggio, andando a casaccio, Roald riuscì
incredibilmente a raggiungere l’ambito passaggio a Nord Ovest (una rotta che va dall’Oceano
Atlantico all’Oceano Pacifico attraversando l’arcipelago artico del Canada) e superarlo, mandò
un telegramma a casa per raccontare l’impresa e
decise, saggiamente, di rimanere al di là dell’Oceano, così, per sicurezza.
Questo Iperboloser in realtà è una piccola parte
di una storia molto più ampia, quella della scoperta del passaggio a Nord-Ovest, che trovate
tutta intera nell’annuario della casa lettrice Malicuvata in uscita a gennaio 2011 dal titolo Attraverso passaggi. Prenotatevi, su malicuvata.it.
dosi della sua poesia. Laureata in Filologia
Romanza, è appassionata lettrice di ogni
forma di scrittura medievale. Compone
racconti sin da piccina e vive immersa nel
verde insieme al marito e ai suoi tre gatti.
CONTRIBUTI DA:
Jacopo Cirillo non è mai riuscito a spiegare
a sua nonna cosa fa nella vita. Prima per
colpa della semiotica, adesso per colpa di
una casa editrice. Ha cofondato questa rivista solo per poterle dire: faccio il co-fondatore di una rivista.
E anche, ma secondariamente, per poter
dire quello che gli pare sui libri che legge.
Carlo Zuffa nelle ultime due decadi non ha
raggiunto traguardi degni di nota e ritiene
che la sua infanzia sia stata traviata dal finale di “Marcellino Pane e Vino”.
Ora, di notte nel buio della sua cameretta,
studia piani segreti per i COBRA, i quali
gentilmente gli hanno concesso un pò di
tempo libero per co-fondare Finzioni.
Licia Ambu pensa che avere una sola personalità sia uno spreco di spazio. In fase di
definizione a ciclo continuo, ama in ordine
sparso (e intercambiabile) un sacco di cose.
Attualmente la posizione più quotata per
guardare il mondo le sembra a testa in giù.
Matteo Bettoli nasce in epoca reaganiana
su un carro di bovini, dal quale eredita la
passione per la dinamicità. A 21 anni controlla i principali media di casa: 3 televisioni, 2 computer, l’abbonamento all’Espresso
e la radio ricevuta in regalo per la cresima.
Decide allora di trasferirsi. Studia a Bologna. Passa diverse giornate in Sud Africa,
Austria e Belgio.
L’acronino di questi tre paesi è SAAB, che
non a caso produce automobili brutte ed è
sull’orlo del fallimento. Abita a Roma e si
sveglia presto.
Michel Capra, She lives on Love Street, lingers long on Love Street… Nata in provincia di Varese nell’aprile 1983, ha trascorso
gran parte dell’infanzia sulle spiaggie liguri. Ha frequentato il liceo linguistico, dove
ha iniziato a conoscere e amare la letteratura americana.
Alla facoltà di Lettere Moderne ha incontrato la letteratura francese, innamoran-
Jacopo Donati studia Filosofia estetica a
Bologna. La sua carriera universitaria gli
permetterà, al massimo, di suonare l’organetto per strada: conscio di ciò, per non
pensarci, passa buona parte del suo tempo
a scrivere, a leggere e a inseguire innumerevoli passioni che, per lo più, svaniscono
nel giro di pochi giorni lasciando il posto a
nuove manie.
Stefano Fanti è fuggito da Milano e ora
vive nella bucolica provincia alessandrina. Scribacchino per varie testate online e
non, si occupa principalmente di musica,
letteratura ed ambiente. Soffre di una grave
dipendenza da serie tv che lo porta a confondere Randy Hickey con Randy Marsh.
Ama, tra le altre cose, fantascienza, horror
e grindcore.
Alex Grotto è la conseguenza di un’adolescenza sbagliata fatta di TV spazzatura, fumetti spinti e musica sgangherata. Un eterno precario del buon gusto che ancora non
sa come trasformare la sua colta apatia in
denaro e affitti pagati, ma cerca di ovviare
al problema abitando in una stanza rancida
di provincia e scrivendo di musica su Vitaminic. E’ sovrappeso, si veste malissimo
ed ha occhiali grandi per darsi un tono che
non può permettersi.
Viviana Lisanti è laureata in scienze storiche e studia cultura editoriale all’Università Statale di Milano.
Momentaneamente si guadagna da vivere
spacciandosi per grafica nonostante non
possa vantare alcuna conoscenza in merito. Nessuno fin’ora se ne è ancora accorto,
quando verrà smascherata sarà costretta a
far fruttar una laurea a detta di molti “inutile”.
Edoardo Lucatti. Edo. Ode. Deo. Un essere
flesso nell’edibile, nella lirica e in un soprannaturale deodorante. Performer di incauta
protervia, aruspice della significazione e
calciapalle di poca morale. Semiònte per alcuni, semiòta per altri, è una piccola fucina
di omaggi al vostro personale sconcerto teoretico.
pri desideri nel sapere, manco fosse un personaggio delilliano, leggendo libri dalle cinquecento pagine e oltre. Di conseguenza, alle
volte si annoia tantissimo.
Alessandro Pollini sta sviluppando le proprie
capacità medianiche con l’obiettivo di essere invitato a Misteri e conoscere Ruggeri e
Bossari con la faccia cattiva. Un giorno diventerà anche un templare così sposerà la
figlia di Giacobbo e passeranno la luna di
miele in Egitto saltellando allegramente tra
le piramidi.
Michele Marcon ama così irrazionalmente
le lettere da aver avuto la leggerezza di confessare in famiglia una certa velleità letteraria. Il giorno dopo il padre si presenta a
casa con una maglietta del Milan autografa:
“Allo scrittore Michele, Kakà”. Nonostante
incertezze sull’autenticità, Michele si sente fregato: gli tocca diventare uno scrittore,
non è più un affare privato. Per ora è un abile
lettore, ma la cosa triste è che tifa Juve praticamente dalla nascita.
Marina Pierri ha 28 anni e vive a Milano,
dopo dieci gloriosi anni passati a studiare/
lavorare/fare radio/ fare la dj in quel di Bologna. Si occupa a tempo pieno del portale
musicale Vitaminic.it ma scrive anche su
Rolling Stone, PIG Magazine e Blow Up.
Ascolta una media di tre nuovi dischi al
giorno, legge, guarda un sacco di film e serie
televisive americane.
Andrea Meregalli è un pensatore di quasi
venticinque anni. In questo istante medesimo si arrovella su quesiti del tipo: “Cosa farò
da grande?”. Assiduo frequentatore di autostrade nonché massimo esperto in campo
internazionale di prodotti quali friggitrici,
scalda patate, piastre per panini e salamandre, ama molto abbinare correttamente i
boxer con le calze. Passa buona parte della
sua giornata a leggere le scritte oscene sulle
porte dei cessi nei centri commerciali.
Simone Rossi vive alla Casa del Cuculo, “un
posto dove ci piove dentro” (cit.). Di giorno
scrive, di sera suona, di notte dorme. Tutti e
tre troppo poco. Il suo primo libro si chiama
La luna è girata strana (Zandegù, 2008). Il
suo secondo libro si chiama sbriciolu(na)
glio per ragioni che potete pure chiedergliele, ma tanto vi risponde a caso. Il suo gatto
invece si chiama Chomsky, ma non si vedono da un po’. Sta abbastanza su internet: tutte le sue cose, sbriciolu(na)glio compreso,
sono su: http://simone-rossi.it
Fabio Paris nasce impagliato, e così finirà,
per evitare che gli amici ballino sulla sua
tomba. Zingaro, in accezione monicelliana,
ha studiato chimica, seguendo la sua passione per la geopolitica. Dopo un passato da
sedicente esperto di nanotecnologie ora gira
il mondo andando di miniera in miniera. Le
sue miniere preferite sono quelle di litio.
Andrea Sesta ha capito che gli piaceva scrivere quel giorno che alle elementari ha trovato
un modulo per il presito dei libri della biblioteca della scuola, e l’ha riempito di tutte
le parolacce che conosceva. La situazione è
andata peggiorando quando gli hanno detto che su internet poteva avere un blog tutto
suo. C’è chi dice che le suppliche di sua madre affinché mantenesse un qualche residuo
di contegno abbiano funzionato. Continua a
studiare, e si è anche un po’ laureato.
Filippo Pennacchio, già in tenera età plagiato
dalla figura di Lee Harvey Oswald, a tutt’oggi
suo eroe personale, vive a Milano, dove studia, fa la spesa alla Pam, frequenta concerti
di dubbio gusto e beve dei gran birroni.
Quando non sa che fare, ammortizza i pro-
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