Considerazioni dell`Associazione Ambiente e Lavoro Toscana in

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Considerazioni dell`Associazione Ambiente e Lavoro Toscana in
AGENDA XXI E SVILUPPO SOSTENIBILE LOCALE
Considerazioni in vista del
Forum Mondiale di Johannesburg
a cura dell’associazione
Ambiente Lavoro Toscana (ALT)
Onlus
Dieci anni dopo il vertice di Rio de Janeiro e in vista del vertice di Johannesburg, è utile fare il punto, anche da parte di
una associazione di carattere regionale come la nostra, sui successi e gli insuccessi delle strategie di sostenibilità
ambientale, sociale ed economica impostate a Rio, con la speranza che anche da simili valutazioni locali possano
nascere orientamenti più generali.
La Toscana è terra di grandi tradizioni sociali, di grande connessione tra natura e cultura, di grandi sperimentazioni
politiche avvenute nel corso di una storia ormai millenaria. Crediamo, quindi, che dalla Toscana possano venire idee,
maturate in contesti regionali e locali, utili anche a livello globale.
Dal 1992, in Toscana, si sono fatti molti passi sulla strada di uno sviluppo di qualità, capace di andare oltre la crescita
economica quantitativa: dalla L.R. 5/95 di governo del territorio, alla LR 66/95 di istituzione di ARPAT, all’adozione
del Piano Energetico Regionale e dei piani provinciali dei rifiuti, all’avvio nel 1997 delle prime sperimentazioni di
Agende XXI locali, all’assunzione delle strategie di sostenibilità come asse portante dei due ultimi PRS che coprono un
arco di tempo di almeno 5 anni, il DocUP 2000-2006, il Piano Regionale di Sviluppo Rurale, tanti alti provvedimenti
fino ad arrivare al Piano Sanitario Regionale nel quale si avvia una opportuna correlazione tra salute dell’ambiente e
salute della popolazione toscana.
Questo fattivo decennio non è riuscito, peraltro, a invertire la tendenza a produrre crescenti pressioni sull’ambiente, in
Toscana come nel resto del mondo (così smentendo, concretamente, gli obiettivi degli accordi di Kyoto).
Alcuni dati
Dal 1994 al 2000 i rifiuti urbani sono aumentati in Toscana del 35% passando da circa 1,5 milioni di t/a a circa 2,3
milioni t/a. La Raccolta Differenziata è arrivata a circa 0,5 milioni t/a non riuscendo a raggiungere anche solo
l’incremento del periodo, circa 0,8 milioni t/a in più. La crescita dei rifiuti non solo non si ferma ma non rallenta
nemmeno. Per non parlare di quelli (industriali) speciali (pericolosi e non pericolosi): stima 1996-1997: pericolosi
653.000 t/a; non pericolosi 5.600.000 t/a.
In Toscana, nel periodo 1994-2000, il PIL è cresciuto annualmente dell’1.5%-2,3. La produzione, il reddito disponibile
e i consumi privati seguono lo stesso andamento. Invece, in Toscana, i consumi energetici hanno continuato a crescere
di 1/3 tra la metà degli anni 90 e la fine degli stessi. Inoltre, se dall’analisi delle pressioni ambientali si passa alla
comparazione tra pressioni e PIL si scopre chiaramente l’inefficienza economico-ambientale del sistema: per ogni punto
di valore del PIL sono “necessari” mediamente 2,5 punti di valore delle pressioni ambientali.
L’aumento dei consumi è legato a vari fattori, il primo dei quali è la variazione nella produzione, che ha visto i prodotti
incorporare più tecnologia ed energia che in passato (più dal lato dei processi, in verità, che da quello della qualità e del
valore d’uso) mentre nessuna attenzione è stata dedicata alla riduzione di materia-energia incorporata nei prodotti stessi,
per la riduzione del loro impatto sull’ambiente e il miglioramento del loro ciclo di vita. Il contributo tecnologico,
inoltre, è risultato quasi completamente annullato dallo spostamento della struttura produttiva toscana verso produzioni
a maggiore intensità energetica (con una contemporanea riduzione della manodopera impiegata).
Nel sostanziale fallimento dei percorsi, anche di quelli promossi dalla sperimentazione regionale, di Agenda XXI
locale ha pesato e continua a pesare una grave difficoltà nel coordinare procedure volontarie di tipo concertativopartecipativo con la programmazione istituzionale. Nelle esperienze italiane, e non soltanto toscane, di Agenda XXI
locale le debolezze maggiormente registrate, infatti, sono:
v i diversi strumenti mantengono un carattere “settoriale” e parziale;
v le analisi ambientali preliminari sono scarsamente sviluppate e limitate dalla carenza dei dati
disponibili;
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v gli strumenti metodologici per l’analisi (gli indicatori, i metodi di elaborazione) e per la
valutazione (tecniche previsionali, obiettivi di riferimento) sono poco noti, poco applicati e,
soprattutto, non comparati con quelli socio-economici e con il PIL;
v il coinvolgimento dei soggetti pubblici incaricati della protezione ambientale è spesso
marginale o attuato soltanto nella fase finale di approvazione dei piani;
v il coinvolgimento dei soggetti sociali è limitato a quelli più tradizionalmente riconosciuti e non
si allarga al più vasto mondo delle associazioni no-profit e dei comitati locali;
v la partecipazione è praticata più come ricerca di consenso che non come metodo decisionale
allargato per garantire una più efficace e condivisa determinazione degli obiettivi, una più piena
assunzione di responsabilità da parte di tutta la comunità locale, un reale governo ecodemocratico del territorio;
v i piani hanno spesso carattere scarsamente operativo ed è poco sperimentata la pratica della
costruzione di partenariati e di affidamento di compiti operativi ai soggetti non istituzionali (noprofit);
v non è ancora consolidata la capacità di progettare soluzioni innovative e azioni positive,
restando l’ambiente, nella considerazione di troppi soggetti istituzionali e sociali, un vincolo da
rispettare ma non un’opportunità di sviluppo qualitativo;
v manca tuttora, infine, un approccio di lungo termine nella pianificazione territoriale e sociale.
L’attuazione di efficienti strategie di sostenibilità trova, altresì, il proprio cronico limite nella scarsa
coerenza delle politiche, per cui:
1) si dichiara la necessità della sostenibilità dello sviluppo ma tale concetto non trova poi alcun
riscontro pratico negli strumenti finanziari e di sostegno allo sviluppo locale, così
disconoscendo nei fatti la reale interdipendenza dei fenomeni economici, sociali, ambientali;
2) si approvano normative, politiche, piani e programmi che spesso vanno in direzioni diverse o
che si ostacolano a vicenda, non essendo in presenza di reali orientamenti di integrazione delle
politiche e degli strumenti per lo sviluppo locale;
3) non viene colta, ancorché la si enunci, l’opportunità di orientare lo sviluppo verso un modello
qualitativo piuttosto che quantitativo. Ciò, anche perché la competitività con le altre aree del
mondo non regge sulla riduzione del costo del lavoro. Serve invece innovazione e qualità di
prodotto;
4) tutto ciò deriva dalla mancanza di coerenza politica e dalla scarsa lungimiranza del modello
evolutivo in campo sociale, ambientale ed economico. Esso è, infatti, indotto a ricercare
“competitività” esclusivamente sul minor costo del lavoro e sui minori vincoli ambientali
(chiare politiche in tal senso sono già ampiamente messe in atto dal governo italiano).
Per superare questo stato di cose, la politica (intesa come scienza e arte del governare) deve
interagire con le comunità locali e integrare le azioni volontarie con gli strumenti di
programmazione e di pianificazione. Essa deve, dunque, costruire la cornice per il mercato locale in
modo consensuale. Ciò richiede il superamento dell’equivoco (generato dalla grave forzatura
ideologica del liberismo) che sottende le politiche dei governi a livello globale: l’illusione circa le
capacità del mercato di autoregolarsi razionalmente rispetto all’impatto ambientale, all’uso delle
risorse, all’equa distribuzione della ricchezza.
Un’ulteriore considerazione generale, che può essere tratta da questi dieci anni di esperienza, è di
natura teorica. Essa riguarda la “debolezza” del concetto di “sviluppo sostenibile”, di cui è
corollario il concetto di “comunità locale”. Tale debolezza nasce dai fondamenti stessi del
concetto, che non hanno consentito di reggere l’urto di quel processo di globalizzazione economica
e dei mercati che è stato particolarmente accelerato nell’ultimo decennio. A fondamento del
concetto di “sviluppo sostenibile” c’è, infatti, il principio dello “stato stazionario” ovvero della
costanza delle risorse naturali che vengono consumate nel processo economico ma sono
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(sostenibilmente, appunto) restituite all’ambiente attraverso l’impiego crescente di tecnologia
innovativa.
Questo principio trascura due fatti, purtroppo molto concreti:
v che la tecnologia (così come come la ricchezza, di cui è uno degli aspetti e dei fattori) non si
trasferisce spontaneamente secondo “giustizia ed equità”,
v che qualunque tecnologia, anche la più pulita e “dolce”, consuma risorse naturali che restituisce,
dalla originaria forma disponibile, in forma non disponibile.
La debolezza di queste strategie può essere superata attraverso una nuova concezione del ruolo del
lavoro (inteso come attività peculiarmente umana, anzi fondativa del nostro stesso essere umani, di
trasformazione dell’ecosfera tramite l’arricchimento della noosfera) e una nuova centralità del
lavoro come sapere e come saper fare, come conoscenza e come competenza, come specifico modo
di stare al mondo - intervenendo più o meno intelligentemente sul mondo stesso - di quella
singolare forma d’animale che è l’uomo. Tutta la vita umana è fatta di lavoro, perché soltanto nel
lavoro l’uomo tende a realizzare se stesso, le proprie aspirazioni, la propria libertà.
La questione riguarda la libertà del lavoro, non la libertà dal lavoro né la libertà confinata
unicamente nell’extra-lavoro (il quale produce attualmente un tempo cosiddetto libero, ma in realtà
del consumo, che libero non è affatto bensì alienato quanto e forse più del lavoro stesso).
Si può parlare di libertà del lavoro quando esiste per tutti la possibilità di scegliere o di introdurre
nel mercato un lavoro che rappresenti per ciascuno un effettivo incremento della libertà sostanziale
di scegliersi la vita che ragionevolmente preferisce.
La questione è centrale nel conflitto politico in atto, in Italia come Altrove. Esso riguarda la concezione stessa di quella
“libertà del mercato” che è connaturata con la democrazia: è essa fondata sulla libertà del lavoro o, invece,
sull’autonomia del consumo inteso come volano della cosiddetta “economia flessibile”?
A favore del primo tipo di concezione concorrono quelle posizioni politico-culturali che non riducono il lavoro a una
categoria dell’economia politica e ne ristabiliscono invece il valore generativo (l’unico davvero euristico) di una nuova
qualità della vita sul Pianeta. Tale qualità non è affatto tanto più alta quanto più si consuma (non soltanto nel cosiddetto
tempo libero, bensì il tempo della nostra vita tutto quanto). Non esiste un “tempo libero” (inteso come tempo extralavorativo di espressione della nostra identità personale più autonoma e indipendente) se non è libero il tempo del
lavoro. Esisterebbe in tal caso, esiste purtroppo attualmente, soltanto un tempo extra-lavorativo segnato da consumi
coatti, altrettanto poco libero di quanto non sia quel lavoro ancora alienato di cui l’extra-lavoro costituisce
semplicemente l’altra, altrettanto misera, faccia.
La libertà del lavoro si fonda sulla convinta valorizzazione di una qualità della vita che trova il suo più attendibile
indicatore nel tasso di libera scelta di quella stessa vita da parte di ciascuno che sia stato chiamato a trascorrerla su
questa Terra. Stiamo parlando di quella vita buona i cui elementi costitutivi, aldilà dei futili individualismi che
costituiscono la moda di questi tristi tempi, sono le relazioni umane, la conoscenza (di noi stessi, degli altri, del mondo),
un consapevole situarsi dell’uomo (godendo di entrambe ed entrambe non distruggendo) tra natura e cultura.
Dopo qualche secolo di stolto impossessamento del mondo e di arrogante fiducia nelle “magnifiche sorti e
progressive” dell’umanità, l’uomo può finalmente restaurare il suo (che non è soltanto suo) habitat.
Per fare in modo che l’industrialismo e l’economia (il sapere-guida, purtroppo, dei nostri attuali, poco sapienti, sistemi
di gestione della società) non commettano alla fine un tragico atto matricida verso la Terra, occorre subordinare
entrambi alle esigenze della natura e dell’uomo.
I nostri sistemi sociali si basano su teorie economiche che pongono al proprio centro, ammantando di scientificità tale
scelta, l’interesse individuale. Ciò è del tutto innaturale, nel senso strettamente empirico (cioè, scientifico) del termine.
Il mondo è un eco-sistema non un’accozzaglia di individui scatenati nell’impresa di arricchirsi a spese degli altri.
La nostra critica si rivolge, chiaramente, non all’economia di mercato in quanto tale: essa, lo si è storicamente visto,
porta maggiori vantaggi alla società, sia in termini di benessere che di democrazia, che non i regimi della pianificazione
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autoritaria. Si rivolge, invece, alla riduzione-mortificazione della società stessa, quando viene soffocata nel suo insieme
dalle regole del mercato santificate a regole di vita sociale tout court.
Auspicare il superamento di una tale società, umanamente squallida ed ecologicamente disastrosa, non significa affatto
auspicare l’abolizione dei mercati. Essi possono continuare ad assicurare in vario modo la libertà del consumatore, a
indicare gli spostamenti della domanda, a influire sul reddito dei produttori e a servire come strumento di contabilità,
cessando peraltro di essere l’organo di autoregolazione economica della società tutta.
Soltanto affrontando e risolvendo, intelligentemente, questi nodi teorici-politici-sociali può avere ancora un senso, che
non sia soltanto retorico, parlare di Agenda XXI locale in Toscana così come di sviluppo sostenibile nel mondo intero
(Johannesburg compreso). Tutto questo, per essere realizzato, implica alcune coraggiose scelte di regolazione globale:
da quella di una legislazione internazionale antitrust al farsi coercitive (tramite forme di seria penalizzazione) delle
Convenzioni mondiali.
La democrazia, inoltre: quella locale e quella mondiale. Lo sviluppo sostenibile è, prima di ogni altra scelta tecnica e
politica, una questione di democrazia partecipativa che sappia saldare, a tutti i livelli, le forze del lavoro, quelle
dell’ambientalismo, quelle di tutti coloro che ritengono ancora che il ruolo dell’uomo nel mondo non sia riducibile a
quello di depredare il mondo stesso, resto dell’umanità compresa.
Infine una considerazione di politica generale. Le difficoltà che, come abbiamo visto incontrano i progetti di economia
sostenibile in Toscana ma anche nelle altre regioni del Nord del Mondo derivano da uno scarso livello di consenso per i
concetti che abbiamo cercato di esporre. La mancanza si consenso é particolarmente forte nel Nord del Mondo per la
semplice ragione che da noi le condizioni di vita individuali sono di gran lunga migliori e anche però dalla accettazione
incondizionata del modello della competizione individuale e dalla fiducia positivista nella inesauribilità delle risorse e
nella onnipotenza della scienza e delle tecnologie derivate, da sole , di risolvere i problemi. Questo fatto condiziona
fortemente la azione delle istituzioni e dà ragione delle difficoltà di comprensione, della mancanza di scelte, del
continuo tentativo di relegare i problemi della sostenibilità nel ghetto delle discussioni teoriche sul futuro dell’ambiente.
D’altra parte, perché in seno al WTO cambino veramente le cose, le Convenzioni siano strumenti concreti del
cambiamento, gli stessi G8 si muovano per attuarle é essenziale che nei Paesi del Nord del Mondo vi sia una spinta
concertata di consenso prima e delle istituzioni di conseguenza, per la unificazione dei concetti della economia
sostenibile, della buona vita, del lavoro in senso complessivo. Il nostro é da questo punto di vista un appello, prima di
tutto alle forze politiche, ai movimenti, alle associazioni , ai sindacati del Nord perché questa spinta diventi reale e si
unisca non per solidarietà soltanto ma con la coscienza che la Terra é una, a quanti nel Sud già da tempo lottano per
questi obiettivi.
Pisa 29 giugno 2002
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