La dottrina del paragrafo

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La dottrina del paragrafo
La dottrina del paragrafo
[Jean Guitton, Il lavoro intellettuale, Milano, Edizioni Paoline, 1987, pp.65-70]
Qualche volta capita al professore di chiedersi perché mai il compito, benché eccellente, di un
allievo porta l‟impronta della gioventù.
Nulla è stato omesso, certe frasi sono degne d‟uno scrittore. Cosa manca dunque a questo lavoro?
E qual è la differenza tra ciò che lo spirito umano può produrre a cinquanta e quello che può
produrre a sedici anni, sul medesimo soggetto?
Certamente, gli studenti non mancano di talento e di genio. Il guaio è che hanno troppe idee, e
non ne sanno scegliere una sola per svilupparla: è come se la natura volesse produrre un albero che
sia faggio e quercia e betulla al tempo stesso e che non si sapesse rassegnare a una specie
determinata.
L‟abbondanza è anche il difetto di molti libri: tutto vi è stato detto, nulla emerge. (..) Conosciamo
romanzi-fiume degni d‟ammirazione e, certamente, occorre maggior abilità per condurre a buon
termine un‟opera di tremila pagine che per cesellare trenta sonetti.. Si deve notare che ciò che fa
scegliere, a volte, malgrado il suo limaccio, il genere “fiume” è l‟incapacità che si prova di essere
fonte, di comporre cioè, di concentrare, di scegliere. Offriamo ai lettori tutto ciò che ci viene in
mente: il nettare e la feccia.
Perciò dobbiamo consigliare ai giovani non tanto di raccogliere idee, informazioni, di ammucchiare
frasi su frasi quanto di scegliere ‘una’ idea e di svilupparla in ogni senso. E‟ questo che, in altri
tempi, insegnava la retorica, mescolandovi, senza dubbio, molta pedanteria ed astrusi concetti.
Aveva torto, in fondo?
La nuova retorica dovrà sbarazzarsi di ciò che è inutile, come Descartes aveva già purificato la
logica e l‟algebra per ridurle a pochi principi. Egli, giustamente, affermava che la moltitudine delle
regole è una scusa per la pigrizia. Lo spirito, sempre scaltro e pronto a trovare scuse, adotta metodi
troppo rigorosi e risoluzioni troppo eroiche, per dispensarsi dall‟osservarle, dicendosi: “Queste regole
sono troppo dure per me e veramente impraticabili”. Il difficile nella vita, se si vuol progredire, è
stabilire una pratica semplice, che sia d‟applicazione quotidiana, ed attenervisi poi per mesi e mesi. E‟
per questo che avevo cercato un esercizio abbastanza facile e ricco in conseguenza, a cui si poteva,
forse, ridurre la retorica.
All‟età di sedici anni, ebbi la fortuna di apprezzare un libro intitolato il “Metodo letterario”, che
aveva per sottotitolo “Diario d‟un professore”. L‟autore era un professore del Liceo Hoche a
Versailles: M. Bézard. Non so se la libreria Vuibert, che lo stampò, lo vende ancora; ma pagherei
qualunque cosa per un esemplare che mi ricorderebbe tanti utili consigli. Si assisteva alla vita di una
classe come, sollevando il coperchio di un alveare, vediamo le api fare il miele. M. Bézard non
stabiliva mai una regola senza mostrarne subito l‟applicazione, ed anche l‟applicazione mediocre ed
imperfetta: ché il libro era composto, in parte, con le riflessioni e i lavori degli allievi. Quello che vizia,
secondo me, molti libri di precetti e che vi fanno vedere solo le cose perfette: un compito di concorso
generale non insegna nulla, trattandosi di un modello troppo inaccessibile. Vi erano, nel libro di
Bézard, esempi ammirevoli: compiti di alunni leggermente corretti da lui, ma vi si trovavano anche
frutti mediocri, atti a rassicurare e a mettere in confidenza.
(..)
Bézard esortava a prendere appunti ed a redigere schedine, utilizzabili per tutta la vita. Se avessi
seguito i suoi consigli, ora possederei un tesoro: nessuna delle mie antiche fatiche sarebbe andata
perduta. (.) Le poche volte in cui ho seguito i suoi consigli sull‟arte delle note, sono stato
ricompensato; e dopo trent‟anni, le schedine prese secondo le sue regole mi sono ancora d‟aiuto.
Bézard insegnava a tempo e contrattempo la teoria del ‘paragrafo’.
E‟ la legge di tutte le composizioni, e senza dubbio la si può abbandonare, anzi è necessario
abbandonarla a mano a mano che si progredisce e che la scuola pesa meno sulla vita. Bisogna
sempre rinunciare alle regole se si vuoi raggiungere il fondo della propria arte. Ma bisogna prima
possederle, le regole, per poterle scavalcare.(..)
La dottrina del paragrafo, una volta compresa, ci dà modo di scrivere bene e di esporre bene,
come di leggere bene e di trarre durevole profitto dalle proprie letture con note. E il più grande
servigio che si possa rendere a un giovane è di insegnargli questo metodo, come faceva Bézard negli
anni di prima e di seconda liceale.
Il paragrafo si basa su un principio chiaro e sicuro, ma che dimentichiamo non appena ci
mettiamo a scrivere. E‟ il carattere stretto e oscillante di tutta l‟attenzione. L‟imboccatura
dell‟attenzione è stretta: bisogna versare l‟elisir goccia a goccia. Lo spirito è incostante; l‟attenzione è
simile a un faro che si accende per un attimo e poi si spegne e si riaccende. (..) Per rendersi
comprensibili, bisogna dunque decomporsi per quanto è possibile,’non dire che una cosa alla
volta’. Anzi, bisogna ripetersi. (..) In tutti i casi per esprimere il proprio pensiero, bisogna decapitarlo
e vagliare attentamente sia gli aspetti che il suo oggetto comporta sia i principi espliciti che esso
presuppone. Scoperti questi aspetti e questi principi bisogna esporli gli uni accanto agli altri. E‟ bene
guardar cucire, mentre si lavora: ciò vi ricorda che tutto, nel lavoro e nella vita, „si fa punto su
punto‟, secondo il motto di Madame Valmore che riporta Sainte-Beuve.
La difficoltà nell‟insegnamento, nell‟esposizione o nella propaganda è di ripetersi senza averne
l‟aria: ché l‟orecchio e lo spirito godono di ritrovare, sotto un‟altra apparenza, ciò che è stato detto
(come nelle rime) ed al tempo stesso detestano il ripetersi della medesima cosa. (..) Goethe pensa
allo stesso modo, e Bergson, anche. Ripetere diversamente, ridire in una nuova maniera, queste
sono le regole di sempre per parlare agli uomini. L‟ordine della carità, diceva misteriosamente Pascal,
quest‟ordine senza apparenza d‟ordine ch‟egli ammirava nel Vangelo, consiste nella „digressione su
ogni punto che si ricollega al fine, per mostrarlo sempre‟.
Per questo io insegnavo agli allievi che il segreto di tutta l’arte di esprimersi consiste nel dire
la medesima cosa tre volte. La si annuncia, la si sviluppa ed infine la si riassume
brevemente. Poi si passa ad un’altra idea. E una volta i miei allievi avevano riunito questi
precetti in una canzoncina.
« Si dice che la si dirà
La si dice
Si dice che la si è detta. »
Canzone che io lasciavo cantare a ritmo cadenzato, e mi ricordo che un preside arrivando alla fine
della canzone e sentendo scandire con forza da trenta voci sonore:
Si dice che la si è detta,
non osò andar oltre e ritornò sui suoi passi stupefatto. Era tuttavia un precetto utile, così raramente
applicato e così efficace.
Ne ero talmente convinto che, pensando che la marcia-indietro è la vera andatura del pensiero e
che l‟arte consiste nel trasformare la propria intuizione in conclusione e che l‟ultima cosa da trovare è
il pensiero iniziale, insegnavo, per prima cosa, al popolo fanciullo a scrivere su una pagina bianca, in
basso, la frase conclusiva, che doveva cominciare con: « E‟ così che... »
Il procedimento che consiste nel rovesciare il lavoro naturale dello spirito, nel partire dalla
conclusione che si vuol raggiungere, per risalire poi all‟inizio, è lo stesso che Edgar Poe confessa e
raccomanda nelle sue pagine sulla filosofia della composizione. Poi racconta come Dikens aveva
scritto uno dei suoi romanzi: aveva gettato il suo eroe nelle difficoltà, componendo in tal modo il suo
secondo volume. Il primo volume lo aveva scritto dopo per preparare e spiegare il secondo. E Poe
osserva che uno scrittore deve conoscere la conclusione prima di prendere la penna in mano.