i love museums

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i love museums
I LOVE
MUSEUMS
I LOVE
MUSEUMS
ASSOCIAZIONE DEI MUSEI D’ARTE
CONTEMPORANEA ITALIANI
I LOVE MUSEUMS
12/15 Editoriale di Giacinto Di Pietrantonio
Editoriale di Gabriella Belli
12/15 Castello di Rivoli - Museo d’Arte Contemporanea
Giuseppe Culicchia “Museo del Castello di Rivoli”
16/19 Centro Arti Visive Pescheria, Pesaro
Gianni D’Elia “La Pescheria”
20/23 Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci, Prato
Marco Vichi “Prato 2010”
24/27 Civica Galleria d’Arte Moderna, Gallarate
Aldo Nove “L’esperienza di un viaggio assieme a Franco Buffoni per visitare la
Civica Galleria d’Arte Moderna di Gallarate”
28/31 Fondazione Galleria Civica - Centro di Ricerca sulla Contemporaneità di Trento
Anna Scalfi “Traccia 0_via Belenzani 46_Trento”
32/35 Fondazione Torino Musei - GAM, Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino
Enrico Remmert “Viaggio (interstellare) nella GAM”
36/39 Galleria Civica di Modena
Cristiana Minelli “Il Casino delle feste”
40/43 GC.AC - Galleria Comunale d’Arte Contemporanea di Monfalcone
Marco Missiroli “L’officina della ricerca”
44/47 GAMeC - Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, Bergamo
Tommaso Pincio “L’attaccatore”
48/51 Galleria d’Arte Moderna Palazzo Forti, Verona
Donatello Bellomo
52/55 MAMbo - Museo d’Arte Moderna di Bologna
Alessandro Bergonzoni “Libero ingresso nelle so-stanze (MAMbo o del subliminal museum)”
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I Love Museums
56/59 MAN _ Museo d’Arte della Provincia di Nuoro
Francesco Abate “Evasione”
60/63 Mart - Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto
Isabella Bossi Fedrigotti
64/67 MAXXI - Museo Nazionale delle Arti del XXI Secolo, Roma
Tiziano Scarpa “XXI frasi per il Museo Nazionale delle Arti del XXI Secolo”
68/71 Merano arte
Enzo Nicolodi “La finestra di fronte”
72/75 MUSEION - Museo d’Arte Moderna e Contemporanea, Bolzano
Sabine Gruber “A casa di Konrad”
76/79 PAC - Padiglione d’Arte Contemporanea, Milano
Gianni Biondillo “PAC domestico”
80/83 SMS Contemporanea, Siena
Paolo Nori “Una cosa del genere”
84/87 Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico
e per il Polo Museale della Città di Napoli - Castel Sant’Elmo
Silvio Perrella “Verso Sant’Elmo”
88/91 Villa Giulia - CRAA Centro Ricerca Arte Attuale, Verbania
Francesca Bona di San Giulio “1904”
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I Love Museums
I LOVE MUSEUMS
I Love Museums ogni volta vi racconta i musei AMACI in maniera diversa: lo abbiamo fatto attraverso progetti d’artista, per mezzo di fotografi, mostre, didattica,
collezionismo. Questa è la volta degli scrittori. Abbiamo trasformato la rivista in un
libro di racconti.
Ogni struttura museale, infatti, ha chiesto a uno scrittore di scrivere un breve racconto sul museo e ne è venuto fuori un tracciato dei musei AMACI e della scrittura
letteraria molto frammentario e interessante. Diversi sono gli stati d’animo, gli stili
e le maniere della scrittura con cui l’argomento è stato affrontato. C’è chi ha preferito l’approccio giornalistico, chi il racconto giallo, chi d’avventura, chi d’amore,
chi di… Così si parla del visivo tramite la scrittura, la narrazione, si evoca la visione
attraverso la parola, il visibile per mezzo dell’invisibile.
Giacinto Di Pietrantonio
Curatore I Love Museums
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I Love Museums
I LOVE MUSEUMS
Per chi ogni giorno opera all’interno del Museo, l’immagine della propria istituzione
può apparire del tutto nota, addirittura quasi banale. La proiezione della sua identità nei luoghi espositivi, nella scelta dell’attività scientifica e di ricerca, nei percorsi
formativi, sembra infatti corrispondere, senza soluzione di continuità, all’immagine
dell’architettura che contiene tutto ciò.
Ma è davvero così? Esiste veramente una coincidenza tra i contenuti e il nostro
immaginario di operatori museali? Questo è il tema dell’edizione speciale di I Love
Museums: farci raccontare da poeti e letterati.
Con diversa sensibilità rispetto alla nostra, essi possono cogliere nel lavoro quotidiano una più reale rappresentazione di quel museo ideale, che tutti noi cerchiamo
di realizzare nella concretezza di ogni giorno.
Racconti, riflessioni, poesie: parole mescolate a una buona dose di visionarietà, che
sanno trasferirci una nuova conoscenza del mondo e dei luoghi in cui lavoriamo,
riportandoci non a quel pragmatismo che governa i nostri obblighi giornalieri, ma
piuttosto a una leggerezza narrativa che ci conforta e ci apre a nuove percezioni
del Museo.
Gabriella Belli
Presidente AMACI
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MUSEI ASSOCIATI
Castello di Rivoli - Museo d’Arte Contemporanea
Piazza Mafalda di Savoia - 10098 Rivoli (Torino)
tel. +39 011 9565280 fax +39 011 9565230
www.castellodirivoli.org
Centro Arti Visive Pescheria, Pesaro
Corso XI Settembre, 184 - 61100 Pesaro
tel. +39 0721 387651 fax +39 0721 387652
www.centroartivisivepeschiera.it
Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci, Prato
Viale della Repubblica, 277 - 59100 Prato
tel. +39 0574 5317 fax +39 0574 531901
www.centropecci.it
CeSAC - Centro Sperimentale per le Arti Contemporanee, Caraglio
Via dei Cappuccini, 29 - 12023 Caraglio (Cuneo)
tel. +39 0171 618260 fax +39 0171 610735
www.cesac-caraglio.com
Civica Galleria d’Arte Moderna, Gallarate
Viale Milano, 21 - 21013 Gallarate (Varese)
tel. +39 0331 791266 fax +39 0331 791266
www.gam.gallarate.va.it
Fondazione Galleria Civica - Centro di Ricerca sulla Contemporaneità di Trento
Via Cavour, 19 - 38122 Trento
tel. +39 0461 985511 fax +39 0461 237033
www.fondazionegalleriacivica.tn.it
Fondazione Torino Musei - GAM, Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino
Via Magenta, 31 - 10128 Torino
tel. +39 011 4429518 fax +39 011 4429550
www.gamtorino.it
Galleria Civica d’Arte Contemporanea Montevergini, Siracusa
Via S. Lucia alla Badia, 1 - 96100 Siracusa
tel. +39 0931 24902 fax +39 0931 24902
www.montevergini.com
Galleria Civica di Modena
Palazzo Santa Margherita
Corso Canalgrande, 103 - 41121 Modena
tel. +39 059 2032911 fax +39 059 2032932
www.galleriacivicadimodena.it
GC.AC - Galleria Comunale d’Arte Contemporanea di Monfalcone
Piazza Cavour, 44 - 34074 Monfalcone (Gorizia)
tel. +39 0481 494360 fax +39 0481 494352
www.galleriamonfalcone.it
GAMeC - Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, Bergamo
Via San Tomaso, 53 - 24121 Bergamo
tel. +39 035 270272 fax +39 035 236962
www.gamec.it
Galleria d’Arte Moderna Palazzo Forti, Verona
Via Achille Forti, 1 - 37121 Verona
tel. +39 045 8001903 fax +39 045 8003524
www.palazzoforti.it
MAMbo - Museo d’Arte Moderna di Bologna
Via Don Minzoni, 14 - 40121 Bologna
tel. +39 051 6496611 fax +39 051 6496600
www.mambo-bologna.org
MAN _ Museo d’Arte Provincia di Nuoro
Via Sebastiano Satta, 27 - 08100 Nuoro
tel. +39 0784 252110 fax +39 0784 252110
www.museoman.it
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I Love Museums
Mart - Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto
Corso Bettini, 43 - 38068 Rovereto (Trento)
tel. +39 0464 438887 fax +39 0464 430827
www.mart.trento.it
MAXXI - Museo Nazionale delle Arti del XXI Secolo, Roma
Via Guido Reni, 4 - 00196 Roma
tel. +39 06 32101836 fax +39 06 3201829
www.maxxi.beniculturali.it
Merano arte
Edificio Cassa di Risparmio
Via Portici, 163 - 39012 Merano (Bolzano)
tel. +39 0473 212643 fax +39 0473 276147
www.kunstmeranoarte.org
MUSEION - Museo d’Arte Moderna e Contemporanea, Bolzano
Via Dante, 6 - 39100 Bolzano
tel. +39 0471 223411 fax +39 0471 223412
www.museion.it
Museo del Novecento, Milano Palazzo Reale, Piazza Duomo 12 - 20121 Milano
tel. +39 02 72095659 fax +39 02 72095660
www.museodelnovecento.org
PAC - Padiglione d’Arte Contemporanea, Milano Via Palestro, 14 - 20121 Milano
tel. +39 02 76009085 fax +39 02 783330
www.comune.milano.it/pac
PAN - Palazzo Arti Napoli
Palazzo Roccacella
Via dei Mille, 60 - 80121 Napoli
tel. +39 081 7958652 fax +39 7958608
www.palazzoartinapoli.net
SMS Contemporanea, Siena
Santa Maria della Scala
Piazza Duomo - 53100 Siena
tel. +39 0577 224811 fax +39 0577 42039
www.santamariadellascala.com
Soprintendenza alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, Roma
Viale Belle Arti, 131 - 00196 Roma
tel. +39 06 32298221 fax +39 06 3221579
www.gnam.arti.beniculturali.it
Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della Città di Napoli Castel Sant’Elmo
Via Tito Angelini, 22 - 80129 Napoli
tel. +39 081 2294401 fax +39 081 2294498
http://santelmo.napolibeniculturali.it
Villa Giulia - CRAA Centro Ricerca Arte Attuale, Verbania
Corso Zanitello, 8 - 28922 Verbania
tel. +39 0323 503249 fax 0323 507722
www.craavillagiulia.com
Presidente: Gabriella Belli
Vicepresidente: Riccardo Passoni
Consiglio Direttivo: Andrea Bruciati, Cristiana Collu, Anna Mattirolo, Ludovico Pratesi, Marina Pugliese
Segretario generale: Cristian Valsecchi
Segreteria generale: Beatrice Radaelli
Sede legale
AMACI – Associazione dei Musei d’Arte Contemporanea Italiani
Via San Tomaso, 53 - 24121 Bergamo
tel. +39 035 270272 fax +39 035 236962
www.amaci.org
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I LOVE MUSEUMS
Progetto editoriale: Carlo Cambi Editore
A cura di: Giacinto Di Pietrantonio
Coordinamento editoriale: Francesca Ganzenua, Beatrice Radaelli, Bruna Roccasalva, Valentina Sardelli, Marta Fiaschi
Progetto grafico: Mauro Pispoli, Firenze
Redazione AMACI:
Via S.Tomaso, 53 - 24121 Bergamo
Tel. +39 035 270272 - Fax +39 035 236962
[email protected]
Referenze fotografiche:
Alberto Barbadoro; Luciano Basagni; Bruna Biamino; Guido Cataldo; Claudio Cescutti; Carlo Fei; Roberto Galasso; Kristoph Kern; Claudio Libera;
Matteo Monti; Harmut Nägele; Filippo Nardo; Paolo Pellion; Max Solinas; Paolo Terzi
Si ringraziano:
Francesco Abate, Donatello Bellomo, Alessandro Bergonzoni, Gianni Biondillo, Francesca Bona di San Giulio, Isabella Bossi Fedrigotti,
Giuseppe Culicchia, Gianni D’Elia, Sabine Gruber, Cristiana Minelli, Marco Missiroli, Enzo Nicolodi, Paolo Nori, Aldo Nove, Silvio Perrella,
Tommaso Pincio, Enrico Remmert, Anna Scalfi, Tiziano Scarpa, Marco Vichi
Imprese con l’Arte Contemporanea:
Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta
dei proprietari dei diritti e dell’editore.
Rights of reproduction, electronic storage and total or partial adaptation by any means, including microfilm and photostat copies, are not allowed without a written
permission from rights owners or from the publisher.
© 2009 AMACI
© 2009 Carlo Cambi Editore
www.amaci.org
www.carlocambieditore.it
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I Love Museums
I MUSEI
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Giuseppe Culicchia
Nasce a Torino nel 1965. Ha esordito nel 1994 con Tutti giù per
terra (Garzanti, Premio Grinzane Cavour). Tra i suoi libri ricordiamo
Il paese delle meraviglie, Torino è casa mia e il recente Un’estate
al mare.
Per Einaudi ha tradotto American Psycho e Lunar Park di Bret Easton
Ellis.
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Castello di Rivoli - Museo d’Arte Contemporanea
Castello di Rivoli
Museo d’Arte Contemporanea
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Il Castello di Rivoli e la Manica Lunga
© Foto di Paolo Pellion, Torino
Courtesy Castello di Rivoli
Museo d’Arte Contemporanea,
Rivoli - Torino
Giuseppe Culicchia per il Castello di Rivoli - Museo d’Arte Contemporanea
Sulla strada che da Torino porta alla Francia, e perciò all’Europa, e di conseguenza al resto del mondo, che, percorsa nell’altro
senso, deve, per forza di cose, essere anche la strada che dal resto del mondo porta all’Europa, e quindi alla Francia e, in definitiva, a Torino, sta il Castello di Rivoli, Museo d’Arte Contemporanea conosciuto e apprezzato non solo a Torino o in Francia o in
Europa, ma ormai anche nel resto del mondo, Svizzera compresa. Scrivo “Svizzera compresa” e non Austria oppure Germania,
perché ricordo bene lo stupore di certi miei giovani amici svizzeri originari di Zurigo, ma residenti a Basilea, entrambi artisti come
quasi tutti i giovani svizzeri che oggi come oggi risiedono a Basilea, i quali, giustamente, mi avevano più volte raccontato dei
musei di Basilea, città nota ben oltre i confini cantonali proprio per le sue celebri gallerie e naturalmente per la sua famosissima
fiera d’arte contemporanea detta Art Basel, com’è noto replicata da qualche anno a questa parte anche a Miami, ma soprattutto
per i suoi musei, a loro dire addirittura straordinari. I miei giovani amici svizzeri erano passati a trovarmi a Torino diretti in Costa
Azzurra e, sapendoli artisti e dunque molto interessati all’arte contemporanea, li avevo subito portati a Rivoli, spiegando loro che a
Rivoli, per la precisione al Castello di Rivoli, c’era dal 1984 il Museo d’Arte Contemporanea, a mio parere anch’esso straordinario;
ma a questa mia parola avevo colto nei loro occhi come un’ombra di perplessità. Nessuno dei due aveva protestato, e però dai
loro occhi, o meglio da quell’ombra di perplessità che vi avevo colto, mi era sembrato di intuire piuttosto chiaramente che non
ritenevano possibile che a Torino, anzi a Rivoli, potesse esistere un Museo d’Arte Contemporanea degno di essere definito addirittura straordinario, proprio come i sopraccitati musei di Basilea. Sia come sia: lungo il breve tragitto da Torino fino a Rivoli avevo
parlato loro delle origini del Castello di Rivoli, edificato in un primo tempo nel medioevo non come maniero, ma come casa-forte,
e trasformato solo nel Cinquecento da Emanuele Filiberto di Savoia in vero e proprio castello munito di quattro torri angolari con
annessa Pinacoteca del Duca, l’odierna cosiddetta Manica Lunga. Nel corso delle guerre che alla fine del Seicento avevano opposto
i Savoia alla Francia il castello era stato distrutto e in seguito ri-progettato da Filippo Juvarra su incarico della famiglia reale, ma per
svariate ragioni la ristrutturazione non era stata portata a termine. Di modo che l’originale struttura sabauda, per secoli incompiuta,
si era rivelata come il luogo ideale su cui innestare elementi architettonici postmoderni, solo apparentemente inconciliabili con le
forme e i materiali pre-esistenti. A quel punto, dopo una serie di tornanti, eravamo arrivati in auto fin sotto il Castello di Rivoli e i
miei due giovani amici svizzeri originari di Zurigo, ma residenti a Basilea, come ho detto entrambi artisti come oggidì quasi tutti i
giovani svizzeri colà risiedenti, avevano guardato a bocca aperta il Castello di Rivoli che si stagliava turrito nel sole e tra gli alberi,
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Castello di Rivoli - Museo d’Arte Contemporanea
affascinante commistione tra passato e presente sulla strada per la Francia, l’Europa, il resto del Mondo. Una volta fatti i biglietti,
avevamo varcato l’ingresso postmoderno dell’antica fortezza. Giusto il tempo di prendere l’ascensore, anch’esso postmoderno, e
di raggiungere tra le mura, anch’esse antiche, le 38 sale del corpo principale più la Manica Lunga, ed eravamo stati travolti dalla
collezione permanente, e dunque tra gli altri da Boetti, Buren, Chia, Cragg, Flavin, Fontana, Gilbert & George, Koons, Kounellis,
LeWitt, Long, Mainolfi, Merz, Morris, Nauman, Oldenburg e van Brugge, Oppenheim, Paladino, Paolini, Penone, Pistoletto, Ray,
Richter, Zorio, o per meglio dire da alcune delle loro opere, esposte a rotazione insieme con quelle di un’ottantina di altri artisti.
Uno dei due miei giovani amici svizzeri allora aveva accennato a dire qualcosa, ma proprio in quel momento avevamo messo piede
nella Sala degli Stucchi. E lì, alzato lo sguardo verso la volta affrescata a cassettoni, ci eravamo imbattuti, anziché in un lampadario
d’epoca, in un cavallo imbalsamato e imbragato appeso al soffitto della stanza. Entrambi i miei giovani amici svizzeri allora non
erano riusciti a trattenersi dal mormorare: “Ah, Cattelan”. Ma non avevano aggiunto altro. In teoria, avremmo potuto visitare anche
la mostra temporanea, non ricordo esattamente se fosse dedicata a Nan Goldin o Richard Avedon o Helmut Newton, oppure fare
un salto al famoso ristorante del museo, tuttavia, quando glielo avevo proposto, loro mi avevano fatto cenno di no scuotendo la testa,
come a dire che per quel giorno ne avevano abbastanza. Durante tutto il viaggio di ritorno da Rivoli fino a Torino, non avevamo
scambiato una singola parola. Soltanto alla stazione, quando ci eravamo stretti la mano prima che loro proseguissero per la Costa
Azzurra, uno dei due aveva rotto quel lungo, estenuante silenzio, e aveva infine sussurrato: “Straordinario”.
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Gianni D’Elia
Nasce a Pesaro nel 1953, dove vive e lavora. Libero docente e
traduttore, tiene corsi e seminari di letteratura italiana e francese. Ha fondato e diretto la rivista «Lengua» (1982 - 1994),
collaborando come critico a numerosi quotidiani e riviste. Ha
pubblicato il romanzo Gli anni giovani (Transeuropa, 1995) e
le raccolte di poesia: Non per chi va (Savelli, 1980; Marcos y
Marcos, 2000), Interludio (Taccuini di Barbablù, 1984), Febbraio (Il lavoro editoriale, 1985), Città d’inverno e di mare
(Campanotto, 1986), Segreta (Einaudi, 1989), Notte privata
(Einaudi, 1989), Congedo della vecchia Olivetti (Einaudi,
1996), Guerra di maggio (San Marco dei Giustiniani, 2000),
Sulla riva dell’epoca (Einaudi, 2000), Bassa stagione (Einaudi, 2003), Trovatori (Einaudi, 2007). Ha tradotto poeti simbolisti e surrealisti:Taccuino francese (Edizioni di Barbablù,
1990), I nutrimenti terrestri di André Gide (Einaudi, 1994) e
Lo Spleen di Parigi di Charles Baudelaire (Einaudi, 1997). Nel
1993 ha vinto il premio Carducci, nel 2007 i Premi GrinzanePavese, Pascoli e Brancati.
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Centro Arti Visive Pescheria, Pesaro
Centro Arti Visive Pescheria,
Pesaro
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Gianni D’Elia per il Centro Arti Visive Pescheria, Pesaro
La Pescheria
“Tempietto malatestiano del mare,
io adesso espongo l’opera del fare,
come voi galleggiate negli acquari
dei musei e degli stati speciali.
Non sentite il vocìo delle pescivendole,
il lagnìo delle genti dialettali,
quell’afrore del pesce più lucente,
mentre strusciate i passi tra i miei lari?
Quadri e sculture, come pesci e pani,
io moltiplico nello spazio presente,
se ancora tra le colonne del passato
rifaccio umida la teca trasparente.
E potete bere alle mie fontanelle,
che come due fonti battesimali
in bianche vasche d’acqua iridescente
zampillano all’ingresso, fini e chiari.
Nel rifare la vita contro il niente,
sono il cuore della Pesaro degli avi,
da Pescheria a Nuova Pescheria
dell’arte unita nello spasmo ardente,
se di tutte le arti io faccio poesia.
E voi non chiamatemi NEW, ma NUOVA,
perché sono italiana, non americana,
con la nostra bellissima parola.”
Centro Arti Visive Pescheria, Pesaro
© Foto di Barbadoro
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Centro Arti Visive Pescheria, Pesaro
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Marco Vichi
Nasce a Firenze nel 1957. Nel marzo 1999 ha pubblicato
presso Guanda Editore il suo romanzo L’inquilino. Successivamente Donne donne (2000), Il commissario Bordelli (2002),
Una brutta faccenda (2003), Il nuovo venuto (2004), Perché
dollari? (2005), Il Brigante (2006), sempre per Guanda Editore. Dal 2003 tiene laboratori di scrittura in varie città italiane
e presso il corso di laurea in Media e Giornalismo dell’Università di Firenze.
Dal 2004 collabora con l’Associazione Nausika, con cui ha
fondato nel 2005 la Scuola di Narrazioni Arturo Bandini (www.
narrazioni.it). Collabora alla stesura di sceneggiature, cura
antologie di letteratura tra cui Città in nero (Guanda, 2006)
e Delitti in provincia (Guanda 2007), scrive su quotidiani e
riviste nazionali. I suoi libri sono stati tradotti in Grecia, Spagna, Germania e Portogallo. A settembre 2007 uscirà il nuovo
romanzo, Nero di luna (Guanda Editore).
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Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci, Prato
Centro per l’Arte Contemporanea
Luigi Pecci, Prato
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Marco Vichi per il Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci, Prato
Prato, 2010
L’autobus avanzava lentamente nel traffico di Prato, carico di ragazzini delle medie immobili e vagamente storditi. Visti da fuori
sembravano dei prigionieri destinati ai campi di lavoro. Non avevano nulla dei feroci barbari in preda agli ormoni che erano a
scuola, quando nelle ore di lezione si lanciavano con violenza alla inconsapevole scoperta del sesso. Erano silenziosi, rassegnati.
Era la mattina della visita al museo Pecci, annunciata da tempo. La profe di italiano stava cercando di preparare i ragazzini a quella
importante esperienza.
“Il museo è un luogo dove vengono esposte le opere d’arte dell’uomo o le sue scoperte scientifiche, i resti di antiche civiltà o gli
scheletri di animali preistorici. Oggi andremo a visitare un museo d’arte. Ci sono musei di opere antiche, di opere moderne e anche
di opere contemporanee. Nel mondo ci sono migliaia di musei e alcuni sono molto molto famosi, come il Louvre di Parigi e gli Uffizi
di Firenze. In tutte le principali città ci sono musei d’arte moderna o contemporanea, dove si possono vedere addirittura opere
realizzate pochi mesi prima. Secondo voi il museo Pecci è un museo di opere antiche, moderne o contemporanee?”
“Moderne!”
“Antiche!”
“Contemporanee!”
“Non lo so…” disse una ragazzina, avvilita. La profe individuò il barbaro che aveva indovinato.
“Bravo! Il museo Pecci è un museo di arte contemporanea. A Firenze esiste un museo di arte moderna, ma quello di Prato è più
bello e più moderno… più contemporaneo. A Firenze è stato allestito all’interno di un antico edificio, Palazzo Pitti, e in fin dei conti
poteva essere moderno fino a settant’anni fa, mentre il Pecci è stato costruito appositamente per contenere le opere più recenti. Nel
suo giardino ci sono grandi sculture che certamente avete visto mille volte... come quella immensa colonna franata sul terreno.”
“Sì! Sì!”
“L’ho vista anch’io!”
“Anch’io!”
“Sìììì!”
“C’è anche una grande banana di cemento!” urlò un ragazzino, rosso in faccia dall’emozione.
“Macché banana, è una fetta di melone!” disse una ragazzina seminuda.
“E’ una banana!” fece una biondina, masticando una gomma.
“Una fetta di melone!” urlarono in due o tre.
“Banana! Banana!” Era il partito della maggioranza. Si stavano svegliando, quei maledetti diavoli. La profe scosse il capo facendo
oscillare un indice in aria.
“No no no, state dicendo un mucchio di scemenze…”
“Allora cos’è? Cos’è?” urlarono tutti.
“Non so cosa sia… ma non è una banana e nemmeno una fetta di melone.”
“Per me è una banana” sussurrò una ragazzina grassa, con aria convinta.
“E’ una banana, è una banana!” ricominciarono a gridare i più irrequieti, sommergendo il partito del melone. La profe agitò le mani
in aria per zittire l’assemblea, ma ottenne il silenzio solo dopo un urlaccio. Fece una lunga pausa, seminando sguardi minacciosi.
La cultura era una missione difficile.
“Stavo dicendo che il museo Pecci è il frutto di una raffinata architettura… Cos’hai da ridere, Beconi?”
“Il babbo dice che sembra una fabbrica di motorini.” Risero tutti, soprattutto le femmine. La profe incrociò le braccia sul petto.
“Molto divertente.”
“Una fabbrica, una fabbrica” urlavano tutti.
“Mi dispiace dirlo, Beconi, ma tuo babbo non deve avere molta sensibilità per certe cose. E comunque non m’interrompere…
Dov’ero rimasta? Ah, sì… Stavo dicendo che il Pecci è uno dei musei più importanti del mondo, se non il più importante di
tutti…”
“Beconi, adesso che hai da ridere?”
“Nulla…”
“Ti avevo detto di non interrompermi! Andiamo avanti… Fino all’anno scorso il museo Pecci esponeva opere contemporanee
realizzate da artisti di tutto il mondo. Ha ospitato perfino una grande macchina che riproduceva la digestione umana in ogni sua
fase… Beconi non c’è nulla da ridere! E voi due là in fondo! State zitti!” La profe aspettò che fosse tornato il silenzio. Erano già in
viale Chang Zhou, aveva poco tempo per finire il suo lungo discorso. Decise di ignorare Beconi qualunque cosa facesse.
“Adesso ascoltatemi bene. Ogni opera d’arte, per quanto recente, è destinata a invecchiare. Tra due secoli un dipinto del 2010
sarà antico, è inevitabile. Ma il museo Pecci voleva reagire a questa legge del tempo. E così, dopo lunghe discussioni e consultazioni con i massimi esperti internazionali, poco più di un anno fa è stata presa una decisione rivoluzionaria… che anche Firenze è
stata costretta a lodare.” La profe fece una pausa, per lasciare a quei mostri il tempo di assaporare l’ultima frase. I ragazzini non
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Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci, Prato
Centro per l’arte Contemporanea Luigi Pecci, Prato
Veduta della mostra “dotsandloops” di Loris Cecchini
Around and Around (your free absorbing periphery), 2000-09
Collezione del Centro per l’arte Contemporanea Luigi Pecci
© Foto di Carlo Fei, 2009
A destra Steelorbitalcocoons
(Eden’s model, free cells on unit time), 2009
Collezione del Centro per l’arte Contemporanea Luigi Pecci
Al centro Monologue Patterns (project and model), 2002 - 2003
fiatavano.
“Il museo si è liberato di tutto ciò che era destinato a invecchiare, per accogliere nelle sue sale l’opera d’arte più importante di ogni
tempo.” Lesse sui volti dei ragazzini un certo sgomento, e a fatica represse un sorriso di soddisfazione. Avrebbe voluto lasciarli
friggere per un po’, ma non c’era tempo… l’autobus stava già passando davanti ai ruderi di Pratilia. Mosse in aria le mani come
se stesse accarezzando una grande sfera, e ripeté a memoria l’ultima pagina dell’opuscoletto che il Comune aveva distribuito agli
insegnanti.
“Si tratta di un’opera che riesce ad attraversare il tempo mutando di continuo, pur rimanendo se stessa. Non più un viaggio nel
regno dell’astrazione, ma un concreto sguardo sulla vita. Non più una rappresentazione, ma una rappresentanza. Non più un
oggetto da ammirare, ma un ambiente con il quale interagire. E più di ogni altra cosa…” Non capiva del tutto quello che stava
dicendo, ma intuiva ugualmente l’arcana verità di quelle parole. Del resto la cultura si fondava sul mistero, era bene che quegli
ormoni travestiti da ragazzini lo capissero in fretta. Non capire era fondamentale, per mantenere l’arte sulle vette inaccessibili della
bellezza. Non valeva la pena di tradurre quei concetti in parole più accessibili per i barbari, e comunque lei non avrebbe saputo
come fare.
L’autobus si fermò nel parcheggio del museo, e la porta idraulica si aprì con un soffio cattivo. La profe saltò giù e radunò i ragazzini
in un gregge scomposto. Li guidò lungo il vialetto, senza mai perderli di vista. Finalmente entrarono nel museo, e si trovarono
all’interno dell’opera senza tempo. I ragazzini ammutolirono…
In una stanza immensa decine di cinesi dei due sessi stavano seduti su degli sgabelli e cucivano borse a una velocità impressionante. Solo raramente lanciavano una breve occhiata ai visitatori. Bambini tranquilli si trastullavano con fibbie dorate gattonando
in grosse scatole di cartone. In un angolo una donna stava cucinando, e nell’aria si sentiva un forte odore di fritto. Qua e là sul
pavimento si vedevano cumuli di borse di ogni forma e colore, e da una lunga cordicella tirata a filo di una parete pendevano
strane figure giallastre.
“Sono pesci” sussurrò la profe.
“Pesci?” bisbigliarono tutti.
“Sì, li mettono a seccare.”
“Non me lo immaginavo mica così, un museo...” fece una ragazzina truccata come una prostituta.
“Ve l’ho detto, questo è un museo rivoluzionario.” Arrossì, e per non farsi vedere voltò il viso. Parlare sull’autobus era stato facile,
ma adesso… Per quanto tempo poteva andare avanti quella commedia? Non era meglio se il Comune di Prato diceva chiaramente
come stavano le cose? Affittare un capannone ai cinesi non era poi la fine del mondo.
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Aldo Nove
Aldo Nove è nato nel 1967 a Viggiù, piccolo paese al confine
con la Svizzera. Il suo primo libro Woobinda è stato pubblicato nel 1996 da Castelvecchi. Un suo racconto è apparso
nell’antologia Gioventù cannibale. Nella collana «Stile libero»
sono apparsi Puerto Plata Market (1997), Superwoobinda
(1998), Amore mio infinito (2000) e La più grande balena
morta della Lombardia (2004). Nella «Collana di Poesia» sono
apparsi la raccolta, composta insieme a Raul Montanari e Tiziano Scarpa, Nella galassia oggi come oggi. Covers (2001)
e Maria (2007). Nel 2006 ha pubblicato per «Stile libero/Inside» Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro
al mese...
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Civica Galleria d’Arte Moderna, Gallarate
Civica Galleria d’Arte Moderna,
Gallarate
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Aldo Nove per la Civica Galleria d’Arte Moderna, Gallarate
L’esperienza di un viaggio assieme a Franco Buffoni per visitare la Civica Galleria d’Arte Moderna, Gallarate
L’altra mattina mi sono alzato e, dopo aver fatto colazione (caffè decaffeinato, due bicchieri di acqua Fiuggi e due biscotti di Gran
Cereale del Mulino Bianco), con una certa sicumera mi sono diretto alla stazione dei treni di Porta Garibaldi. Per quella giornata
avevo un programma bellissimo: visitare la Civica Galleria d’Arte Moderna di Gallarate con il mio amico Franco Buffoni, che è poeta,
saggista, narratore ed è nato a Gallarate nel 1948. Io invece sono nato a Viggiù nel 1967. Quando eravamo entrambi più giovani
andavo spesso a Gallarate a giocare a tennis con lui in un campo in terra battuta vicino a una villa in cui vivevano gli Hare Krisna.
Noi palleggiavamo e gli Hare Krishna recitavano un loro mantra sempre più forte fino a che non tiravamo qualche pallina sgonfia
nella villa per farli smettere. Adesso gli Hare Krishna non ci sono più, io e Franco Buffoni non giochiamo più a tennis, ma abbiamo
ancora l’opportunità di incontrarci per fare qualcos’altro di bello, ad esempio appunto visitare la Civica Galleria d’Arte Moderna di
Gallarate. Devo dire che la mia esperienza di quel viaggio ebbe inizio già alla stazione di Porta Garibaldi, che non visitavo da anni
ed è completamente cambiata. Io ci andavo da Varese durante il liceo, a trovare il poeta Milo De Angelis, che aveva una casa lì
vicino, in via Rosales. Poi la casa gli è esplosa. Anche a me è esplosa la casa nel 1987. Comunque dicevo che la stazione dei treni
di Porta Garibaldi è completamente cambiata, e in meglio. È diventata grandissima e ci sono parecchi negozi, tra cui anche un
supermercato. Comunque, una volta partito da Milano, ho sfogliato sul treno il catalogo ragionato di Silvio Zanella “Civica Galleria
d’Arte Moderna di Gallarate, terza edizione” (la prima era del 1966, la seconda del 1972), edito da Ask Edizioni nel 1983. Dalle
prime pagine del libro scoprii che il primo Nucleo della Galleria nacque nel 1950 con il bando del concorso del Primo Premio
Nazionale di Pittura “Città di Gallarate”. Leggendo il libro, sono venuto a sapere che, con gli anni e poi con i decenni, a ogni premio
la Galleria si ingrandiva, fino ad arrivare al punto in cui è oggi. L’ingrandimento ha fatto sì che fosse necessaria una nuova sede,
che è stata costruita. Una volta arrivato a Gallarate, il mio amico Franco Buffoni è venuto a prendermi in macchina e abbiamo
ricordato che quando andavo a trovarlo 20 anni fa, appena arrivato in stazione lo chiamavo da una cabina del telefono e lui veniva a
prendermi. Per chiamarlo usavo il gettone del telefono. Il gettone del telefono era una moneta color rame con una fenditura centrale
e si usava solo per telefonare dai telefoni pubblici. Cose di una volta, oggi c’è il cellulare. Comunque, con la macchina di Franco
Buffoni ci siamo subito diretti alla Civica Galleria di Arte Moderna di Gallarate e abbiamo parcheggiato in un ampio parcheggio.
L’edificio, nuovissimo, è stupendo. Dopo aver girato per una mezz’oretta alla ricerca di un ingresso, e avendo così scoperto diverse
attività commerciali di cui anche Franco Buffoni (che è di Gallarate ma vive a Roma, a Gallarate adesso c’è sua mamma, che ha
ottantasette anni) ignorava l’esistenza, ho telefonato alla Civica Galleria di Arte Moderna di Gallarate dicendo che ero lì ma non
potevo visitarla, perché non trovavo l’ingresso. Fu allora che io e il mio amico Franco Buffoni sapemmo che la sede della Galleria
è ancora quella storica, che è lì nelle vicinanze, mentre quella nuova sarà aperta tra poco. Ci siamo così diretti all’attuale Civica
Galleria di Arte Moderna di Gallarate che per adesso è ancora aperta e ospita le opere che presto saranno trasferite nella nuova
sede. Intanto, grazie all’equivoco, io e il mio amico Franco Buffoni abbiamo potuto ammirare esternamente la nuova sede, che ci è
piaciuta molto. Giunti all’attuale sede, abbiamo visto che la Galleria funziona così: sotto ci sono le mostre temporanee, sopra delle
stanze che riassumono l’arte italiana dagli anni Cinquanta ad oggi. La mostra temporanea che c’è adesso mi è piaciuta molto. Si
chiama “Terzo paesaggio. Fotografia italiana oggi” e in particolare mi sono piaciute le opere di Moira Ricci. Moira Ricci prende
delle foto d’epoca e ci mette dentro se stessa oggi. Fanno venire il mozzafiato, perché le foto vecchie hanno sempre il sapore del
tempo che è trascorso e quindi hanno sempre una profonda malinconia. Mettercisi dentro oggi aumenta ancora di più quel senso
di malinconia e la percezione della caducità delle cose umane nostre. Io dicevo queste cose a Franco Buffoni e lui era d’accordo.
Poi mi è piaciuto molto anche un altro fotografo, che si chiama Maurizio Montagna e fa foto in bianco e nero di cartelloni pubblicitari
vuoti. Questa è un’idea molto aristotelica della sostanza priva di attributi applicata al mondo merceologico e in più per strada, dove
le auto passano distratte. Anche questo pensiero mi è sembrato profondo e Franco Buffoni lo ha condiviso. La cosa più bella delle
mostre e delle gallerie è che visitandole si possono pensare e dire cose intelligenti aumentando così la propria autostima. Anche
questo pensiero l’ho manifestato al mio amico Franco Buffoni, che però si stava incominciando a rompere di condividere ogni cosa
che gli dicessi. Nel complesso, la mostra temporanea era molto bella. Al secondo piano abbiamo visitato sei stanze (tutte quelle
che ci sono). Un ragazzo molto simpatico ci ha detto che sono esposte a rotazione solo una piccola parte delle opere della Galleria
in un percorso cronologico e tematico dagli anni Cinquanta a oggi. La prima sala è sullo slancio innovativo tra le due guerre dello
scorso secolo, la seconda sull’affermazione in Italia dell’astrattismo, la terza sullo spazialismo di Fontana e dei suoi seguaci, la
quarta sull’arte concettuale e i libri d’artista, la quinta sulle riflessioni sull’alienazione dell’individuo tra gli anni Sessanta e Settanta e
l’ultima sull’arte di oggi. In particolare rilievo era posta la fotografia per creare un nesso con la mostra temporanea al piano terreno.
A me è piaciuta moltissimo l’idea di una sintesi, un percorso storico al secondo piano che poi sbocciava in un aspetto particolare
dell’arte di oggi espressa al primo piano. Come una specie di hamburger con sopra la storia e sotto il presente.
Ed è bello anche pensare a una Galleria come a un organismo vivo che ogni volta esprime una parte di sé in relazione a quanto
nel momento mette in luce del presente.
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Civica Galleria d’Arte Moderna, Gallarate
Civica Galleria d’Arte Moderna, Gallarate
Nuova sede espositiva, interno
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Anna Scalfi
Anna Scalfi (1965) vive l’arte come frame sovversivo dei confini dell’agire concesso. L’intero processo organizzativo dei suoi
progetti rientra in una prospettiva analitica dei meccanismi di
negoziazione tra arte e società civile. Artista indipendente, interviene con progetti site-specific in grado di innescare dinamiche partecipative oltre l’ambito strettamente artistico. La sua
ricerca riflette una formazione interdisciplinare all’Accademia
di Belle Arti di Brera, l’Accademia d’Arte Drammatica S.
D’Amico, la Facoltà di Sociologia a Trento. Per la Fondazione
Galleria Civica - Centro di Ricerca sulla Contemporaneità di
Trento Scalfi ha realizzato una serie di interviste nell’ambito
del progetto Tracce fuori mappa, 2009 (formulazione di una
mappa della città che rintraccia informazioni relative a luoghi
fuori dal sistema istituzionale e concernenti, invece, esperienze
personali delle persone intervistate).
Gli estratti delle interviste di seguito pubblicati concernono tutti
il luogo che ospita, da circa dieci anni, la sede della Galleria
Civica d’Arte Contemporanea di Trento e che, fra varie altre attività, ospitò, prima della sua destinazione attuale, anche una
famosa discoteca, per anni l’unica di Trento.
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Fondazione Galleria Civica Centro di Ricerca sulla Contemporaneità di Trento
Fondazione Galleria Civica
Centro di Ricerca sulla
Contemporaneità di Trento
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Anna Scalfi per la Fondazione Galleria Civica - Centro di Ricerca sulla Contemporaneità di Trento
Traccia 0_via Belenzani 46_Trento
L’Ufo è stato aperto il 23 settembre del ’73, l’abbiamo chiuso il 30 giugno dell’‘80. Io l’ho aperto e l’ho chiuso, è stata un’esperienza
bellissima 04] È stato il mio battesimo all’apertura della socialità, sostanzialmente 01] Io tutte le sere ci andavo, perché era un
posto meraviglioso dove qualsiasi persona che gravitava in città passava - potevano essere rappresentanti di metalli o di abbigliamento 09] Stiamo parlando di due livelli, il primo livello, sopra, è la pizzeria, il “3D”, mentre tre anni dopo, sotto, ha aperto l’“Ufo”,
tutti quanti si andava lì anche la domenica pomeriggio, perché noi ragazzini, di 16 -17 anni, andavamo il pomeriggio a ballare, a
sentir la musica 18] Io ci sono andato una volta sola, un po’ con l’agitazione addosso, quasi scura ritrosia, perché sicuramente
per lungo tempo è stata l’unica discoteca a Trento, la cosa era dirompente, perché la città era ancora totalmente cattolica, tutta
scura, nera, veniva dall’inquinamento delle fabbriche, tutte poste a nord, quindi era una città che assomigliava a quei borghi un po’
sovietici 03] Dell’Ufo mi ricordo l’adesivo, tondo, me lo ricordo sulla copertina dei diari di scuola 02] In più c’era un altro aspetto
tetro, lo scontro ideologico, politico, sociale che aveva portato la facoltà di sociologia e le lotte operaie, c’era una cappa ideologica
fortissima 03] Avevo 14 anni quando ha aperto la pizzeria, ricordo questo bell’ambiente, luminoso, con questi tavoli rotondi grandi
dove si poteva andare in compagnia 18] Era dura dire sono andato in discoteca, a quegli anni 03] La pista era incassata in acciaio,
i divani color viola e fucsia 17] Ero assieme a un mio amico che non partecipava ai movimenti politici e viveva una vita colorata, e
allora andavi lì anche perché c’era il colore 03] Organizzavamo delle gran feste della moda dentro l’Ufo. “Cosa fate sabato prossimo, fate in oro”? Allora, tutti vestiti in oro, e arrivavano personaggi anche da fuori città 20] Per le famiglie trentine sicuramente
era una cosa a metà tra il nuovo e l’incerto da frequentare, soprattutto perché sotto c’era la discoteca, e quindi dipendeva dall’età
dei figli, se erano troppo giovani non era un luogo da frequentare, se altrimenti in età liceale… ogni tanto era simpatico andarci
06] E fuori, lungo via Belenzani, la sera del sabato, c’erano parcheggiati i GT Alfa 1750 Coupé, era bellissimo vedere questa fila
di Alfoni, e lì c’era questo luogo descritto dai trentini benpensanti come un luogo di perdizione, peccaminoso, in realtà non è che
succedesse un gran che: ballavano… 03] Lui amava Drupi, voleva sempre sentire Due di Drupi 17] Ma nella Trento bacchettona
della DC piccoliana, da una parte, e del bacchettonismo dell’estrema sinistra dall’altra, era un luogo che anticipava gli allegri anni
’80, e veniva visto come uno spazio “libero”, dove c’era vita, allegria, musica, c’era una trasgressività che non era politica ma di
stili di vita, quindi affascinante e dirompente 03] Noi non andavamo di sotto, nella discoteca, quelli del nostro giro, i sessantottini
delusi dalla rivoluzione mancata, noi anni prima in pizzeria andavamo ogni tanto a mangiare, ma di sotto mai! 19] Io credo che la
parte apprezzabile dell’esperienza Ufo, nella fase in cui è stata discoteca, certamente è stata non fermarsi alle etichette dominanti,
e uscire dalla contrapposizione nuovo che avanza e vecchio che resiste, creando un ponte, un’esperienza di sintesi che qualcuno
di noi ha vissuto veramente in modo significativo e gradevole 15] … Per far qualche nome: Gino Paoli, Franco Califano, Fred
Buongusto, Enzo Jannacci, Romano Mussolini, Lino Patruno e Lucia Mazzola, i Matia Bazar, Renato Zero, Lucio Dalla, Bobby
Solo, Luciano Rossi, Roberta Kelly, Franca Valeri, Gianfranco Funari, Enrico Beruschi, Gianni Magni, Teo Teocoli, i Gatti di Vicolo
Miracoli, che potevano vantare come autista elettricista factotum un magrissimo e defilato Diego Abatantuono 07] Il più bello per
me è il periodo dei tre giorni di Gino Paoli, che coincidevano con il mio 33° anno d’età, non che sia superstizioso, ma una zingara
mi aveva detto che non li avrei superati, ho ritenuto più che logico festeggiare e riempirlo con tutti i miei amici 08] Lello ha preso
questi cantanti rischiando anche tanto a livello di cachet perchè le 100, 150 persone al massimo che ci stavano dentro non erano
poi tante 16] “Volevo fare qualcosa di piccolo, non per tutti, non mi interessavano i soldi, non ci pensavo, mi divertiva, diciamo così,
certo però c’erano dei giorni che con qualcuno ci perdevo” 13] Sai cosa era bello lì anche? Che si uniformava il tutto attorno alla
persona, perché c’erano dei gran delinquenti che venivano, però lì vicino c’era il sindaco, tavoli di ingegneri, professionisti magari
con pataccari, prostitute, cioè era una cosa un po’ strana, però era sempre pieno il locale 04] E conosco il famoso Lello Carella,
a Trento, un personaggio siciliano, bel ragazzo, questi occhi neri su una capigliatura nera folta, una persona di un’educazione
stupenda, veramente una persona meravigliosa 10] I tuoi amici li salutavi, ma le ragazze dei tuoi amici non le salutavi neanche
12] L’ultima Coca-Cola nel deserto 14] “Bisognava essere seri, sono sempre stato così, una persona seria” 13] Nell’‘80 la serata
del matrimonio del cugino più anziano si concludeva a questo famoso… Ufo 05] Quando partiva la sigla di chiusura allora lì si
accendevano le luci ed era finita la storia, allora il tentativo era quello di andare di sopra nella pizzeria che era buia e spenta e
temporeggiare nella speranza che Lello salisse e dicesse, “dai beviamoci una bottiglia”, e qualche volta riusciva. Era in fondo molto
pulito e molto ingenuo, tranquillo tutto, ma sembrava di vivere chissà che, era la mancanza di luce, il pavimento lucido, i divanetti
bassi, tutto sembrava chissà che, pericoloso, trasgressivo 17] Lello è stato un innovatore 12] Dopo del Lello, abbiamo fatto una
sala giochi con biliardi che è durata 6 mesi 11] “Va bene così” 13] Ogni tanto vado a Trento, dentro nella galleria, e guardo. Vedo
la scala che va giù, una nostalgia incredibile per le cose belle che si sono vissute 04]
TRACCIA 01>Andrea 02>Anna 03>Bruno 04>Catullo 05>Cecilia 06>Chiara 07>Claudio 08>Enrico 09>Giancarlo 10>Giovanna
11>Italo 12>Laura 13>Lello 14>Mara 15>Mauro 16>Mauro 17>Sandra 18>Stefano 19>Stefano 20>Vilma
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Fondazione Galleria Civica - Centro di Ricerca sulla Contemporaneità di Trento
Fondazione Galleria Civica
Centro di Ricerca sulla Contemporaneità di Trento
Interno del locale UFO
© Foto di Claudio Libera, Trento
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Enrico Remmert
Nasce nel 1966 a Torino, dove vive e lavora. Il suo romanzo
d’esordio, Rossenotti, scoperto da Grazia Cherchi, è stato pubblicato da Marsilio nel 1997 e ha vinto nello stesso anno il
Premio Chianciano e il Premio Tuscania. Nel 2002 è uscito il
suo secondo romanzo La ballata delle canaglie che, come il
precedente, è stato tradotto con successo in diversi paesi. Insieme al poeta Luca Ragagnin ha curato Elogio della sbronza
consapevole (2004) e Elogio dell’amore vizioso (2006), i primi
due volumi di una trilogia sul rapporto fra la letteratura e i
vizi (Bacco, Tabacco e Venere). Remmert si occupa anche di
sceneggiature per il mondo del cinema e quello del fumetto, ed
è autore dei testi dei Motel Connection (band musicale costola
dei Subsonica).
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Fondazione Torino Musei - GAM, Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino
Fondazione Torino Musei
GAM, Galleria d’Arte Moderna
e Contemporanea di Torino
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Enrico Remmert per la Fondazione Torino Musei
GAM, Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino
Viaggio (interstellare) nella GAM
- Allora, che ne dici di questa visita alla GAM?
- Eccellente. Non so quanti musei in Italia possono vantare tante energie profuse nella creazione di una collezione: mi ha ricordato
Guerre Stellari.
- Ma cosa stai dicendo? Guerre Stellari? Il film?
- Più che il film, una cosa che ho visto nel ‘making of’.
- Non ti seguo.
- Hai ragione, ora provo a spiegarti. Vai un attimo a cercare tra i neuroni… in quella serie di milioni di immagini che costituisce la
tua personale biblioteca visiva… e tira fuori Guerre Stellari… oppure un qualsiasi film o telefilm di fantascienza… c’è sempre un
momento in cui l’astronave viaggia in mezzo allo spazio, giusto?
- Sì, è un’immagine che ho perfettamente presente: tutto nero, puntinato di stelle e l’astronave che scorre lentamente sullo
schermo. Cosa c’entra con la GAM?
- Adesso ci arrivo. Questo dell’astronave che viaggia nello spazio è uno degli effetti speciali più semplici da realizzare, sai?
- Suppongo che si tratti di un modellino.
- E’ ovvio, l’astronave è un modellino. Viene manovrato lentamente, con fili trasparenti, su uno sfondo che simula una stellata.
- Continuo a non capire cosa c’entri tutto questo con la GAM.
- Adesso arrivo al punto. Sai come si ottiene lo sfondo?
- Computergrafica?
- Macché. La stellata si ottiene con enormi fogli di cartoncino nero. Si prendono questi fogli e si comincia a bucherellarli con spilli
e chiodi fino a ottenere centinaia e centinaia di minuscoli fori di dimensioni diverse. Poi, dietro al cartone, si accende una potentissima lampada: ed ecco che la luce attraversa tutti questi minuscoli fori e, a seconda del diametro, simula stelle più vicine e più
luminose e altre più lontane. E voilà: ecco il cielo stellato.
- E la GAM?
- E la GAM per me è uguale al cartoncino nero.
- Nel senso?
- Allora: dietro il cartoncino nero c’è un’unica luce potentissima, una luce che non si può spegnere e che dura da quando esiste
l’uomo. Si chiama ARTE. Mi segui?
- Sì.
- Ecco, le opere d’arte sono come le stelle nelle scene dei film di fantascienza: luminosità diverse che irradiano da un’unica fonte.
Ogni opera non è altro che una dei miliardi di derivazioni di quell’unica luce potentissima che si chiama ARTE.
- Uhm, comincio a capire.
- Bene. E la GAM è come il cartoncino bucherellato, il filtro tra la luce potentissima e le sue singole emanazioni. Tu puoi
vedere esposte circa settecento opere, ma sai che fanno parte di qualcosa di più grande. Nello specifico una collezione di oltre
quarantacinquemila opere, tra dipinti, sculture, installazioni e fotografie. E senza contare i disegni, le incisioni, i video, eccetera.
- La GAM come un cartoncino nero, dunque. E’ un immagine originale, non c’è dubbio.
- Ma no! Che hai capito? La GAM come un cielo stellato, questa è l’immagine.
- Un cielo stellato?
- Ma certo! Un cielo stellato! Con tutto il suo fascino e la sua atmosfera. Con le sue galassie, l’Ottocento e il Novecento, e le sue
costellazioni: dal Romanticismo al Neoclassicismo, dal Verismo al Divisionismo, dal Futurismo all’Astrattismo, dalla Pop Art all’Arte
Povera…
- Adesso ho capito! Un cielo stellato con i suoi sistemi solari. Ad esempio nella costellazione dei paesaggisti brillano le meraviglie
di Fontanesi e di D’Azeglio, le istantanee sognanti di Giuseppe Camino e Carlo Bossoli…
- Bravo! E, in tutt’altra parte del cielo, nella costellazione delle Avanguardie Storiche, brillano Balla, Severini, Picabia, Dix,
Ernst…
- E nella costellazione degli astrattisti, Fontana, Klee, Arp…
- E poi ci sono le Supernova! Come la “Saffo” di Antonio Canova.
- Come la “Bimba dormiente” di Carlo Marochetti…
- Come la magia di Casorati!
- Come lo straordinario gesso di Bistolfi, “La croce”.
- O come l‘altrettanto straordinario bronzo del “Beethoven giovinetto” di Giuseppe Grandi!
- Sì, la cui mano protesa sembra fare un ponte ideale con le mani della “Grande Cina” lignea di Mario Ceroli.
- Già, perché le costellazioni si incrociano nel cielo.
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Fondazione Torino Musei - GAM, Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino
Fondazione Torino Musei - GAM, Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino
© Foto di Bruna Biamino, 2005
- O vivono vicine. Morandi, Campigli e De Pisis… O i fratelli De Chirico e Savinio.
- O si confrontano: Picasso e Manzù, Chillida e Burri, Warhol e Vedova, Menzio e Calder!
- Basta, fermati, mi gira la testa.
- Non è colpa mia. E’ proprio questo l’effetto che ti fa la GAM.
- Già, appena smetti di pensare che sia semplicemente un luogo dove si conservano opere e oggetti…
- E soprattutto quando smetti di provare a “leggerla” come storia o come geografia e cominci invece a capire che è una cosmogonia.
- Una cosmogonia?
- Sì, una cosmogonia. Allora ti senti come da ragazzino, quando osservavi il cielo nelle sere d’estate, e quella stellata trasmetteva
un’emozione… indefinibile...
- Già: un’emozione indifinibile… E tu sapresti definirla?
- Certo: ha a che fare con la sensazione che tutto sia collegato, che tutto appartenga al medesimo sistema…
- Prova a spiegarti meglio.
- Se metti un camaleonte davanti allo specchio di che colore diventa?
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Cristiana Minelli
Nasce a Modena nel 1965. Giornalista pubblicista, ha collaborato con quotidiani e riviste tra cui «COMIX», il giornale dei
fumetti edito da Franco Cosimo Panini. Scrive racconti e favole
per bambini. Collabora alla comunicazione e all’organizzazione
di eventi per la Galleria Civica di Modena.
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Galleria Civica di Modena
Galleria Civica di Modena
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Cristiana Minelli per la Galleria Civica di Modena
Il Casino delle feste
Il Duca non fu affatto contento di sapere ciò che era accaduto.
Nello specchio d’acqua popolato da germani spennati e anatre comuni, rimirava con insistenza il suo profilo scheletrico, aggiustandosi con
pazienza la corona in capo. Scansava come poteva il volo degli uccelli, che scaricavano schizzi di guano come proiettili, in corrispondenza
di ogni nido.
Nella quiete del giardino si beava del silenzio della sera, sentendosi, al pari dei palmipedi, come un cigno fra brutti anatroccoli.
Faceva la ruota come un pavone in amore, anche se bello non era mai stato nemmeno in vita. Vuoi per la gotta che gli aveva conciato
male la gamba destra - una cancrena così cattiva che il puzzo di marcio delle piaghe ammorbava in modo insopportabile chiunque lo
avvicinasse - vuoi per il profilo pingue e goffo cui avevano contribuito i cuochi di corte.
Conclusi i banchetti, bandita la caccia, tacevano, nel brusio del tramonto, i musici e i loro strumenti. Un silenzio assordante risuonava
sinistro per tutta la macchia verde, soprattutto di notte.
La morte aveva asciugato il profilo del Duca, spolpandolo fino alle ossa. Lo aveva lasciato solo, a contare girini e pesci rossi, a rincorrere
pappagalli esotici talmente malconci che, pur essendo vivi, parevano già imbalsamati, e a giocare a volta la carta con qualche mammalucco
disperso per il parco.
I mammalucchi non sanno se sei vivo o se sei morto. Ci vedono doppio, per lo più: vino, droga e brutti ricordi dilagano a macchia d’olio
nel globo oculare e un’andatura sbilenca completa l’aria stordita e assente comune anche a molti fantasmi che ancora non hanno capito
d’essere morti.
La terra dei più è ricca di figure bislacche esattamente come quella dei meno. Ed è molto facile che questi due mondi abbiano qualcosa
in comune.
Comunque i mammalucchi erano un ottimo diversivo, di quando in quando, una valida e collaudata alternativa alla routine, di solito spartita
con quattro sagge tartarughe africane e almeno un milione di vispi lombrichi di campo.
Un parterre piuttosto deprimente per uno che ai suoi tempi aveva guidato un ducato.
Da un po’ di tempo quattro ratti neri eran stati collocati nell’aiola di fronte alla serra. Alti quanto un uomo a cavallo, eran talmente brutti da
risultare irresistibili. Seducevano i vivi, che frequentavano il giardino di giorno, e il Morto, che lo governava a pieno titolo la notte.
Di pietra lavica, gesso e salnitro, perfidi come pantegane di fogna, troneggiavano come Statue della Libertà versione animalier al centro
della meridiana principale.
Mastro di Chiavi e Guardia di Porta del moderno giardino, tenevano sempre le orecchie bene aperte, nel caso a qualcuno potesse sfuggire
qualcosa di interessante. Tendevano i baffi come creature in carne ed ossa, usando le vibrisse come antenne potenti.
Così, quando era stato il momento, non s’erano persi neanche una parola. Precisi nel riportare al Duca tutti i dettagli, furono finalmente
liberati dall’enorme gomitolo in pietra lavica, gesso e salnitro in cui erano state fuse insieme le lunghe code.
Il Duca aveva pagato in anticipo il prezzo della soffiata, sciogliendoli dal nodo confezionato dall’artista che li aveva creati. I ratti, riconoscenti,
avevano spifferato tutto ciò che sapevano.
“Porteranno animali striscianti e bestie squartate - avevan sibilato come serpenti - sarà tutto livido come un cadavere. Tutto color palude. Non
un broccato, non un tessuto. Né a terra, né alle pareti. Non una tenda, nemmeno un dipinto. Luci al neon e culi in bellavista”.
“Culi di chi?” - chiese allibito il Duca.
“Culi degli operai - signore. Il Progresso ha svestito uomini e donne, che oggi indossano soltanto dei cenci, talmente ridotti che lasciano
scoperto il sedere”.
“E dunque? Non m’accaloro certo per il culo d’un operaio, io. Che altro c’è? Che accade ancora?”
“Il Prefetto alle Arti ha già approvato il progetto, la Reggenza lo caldeggia e il Capo Mastro ha già fatto scaldare i muscoli alla manodopera.
Il Casino delle feste cadrà in mano ai Nuovi Artisti, Signore. Niente più divertimenti. Solo Melanconia”.
D’un botto gli fu tutto chiaro. Il Progresso era arrivato fino alla Palazzina dei Giardini e se l’era presa. Dopo averle tolto aura e blasone, le
strappava ora l’unico retaggio del passato che valesse ancora la pena di conservare: il Sollucchero. Gagliardo e primitivo spirito di Pan,
refolo di mille primavere: il Sollucchero, la vita vera.
Dalla sua dipartita il Duca non era mai uscito dalla macchia verde. E perché avrebbe dovuto? I cimiteri son fitti di anime dannatamente
depresse. Un Duca è sempre un Duca e il Giardino lo aveva accolto senza indugio, concedendo asilo di buon grado al più bizzarro fra i
fantasmi.
Di notte, qualche volta, andava ancora alla serra, cercando di ritrovare il locus amoenus di un tempo.
La Palazzina dei Giardini era sempre in piedi, là dove era stata eretta. Spiegava le ali, come un gabbiano al tramonto, nel cuore non più così
verde di un giardino sempre più piccolo e spoglio. Con l’andar del tempo s’era inaridito e assottigliato come un’aringa messa a marinare.
I confini avevano smarginato sempre più indietro, come una lingua di sabbia erosa dalla marea e dalla risacca. Secolo dopo secolo aveva
ceduto fronde e fusti, foglie e aiole. Il gorgo ingordo del Progresso s’era preso flora e fauna selvatica, trasformando l’area verde nella copia
sbiadita di ciò che era stata.
Nata come il Casino delle feste e dei divertimenti di corte, la Palazzina dei Giardini somigliava ora a una reggia dimessa e abbandonata.
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Galleria Civica di Modena
Galleria Civica di Modena
Katharina Grosse, Un altro uomo che ha fatto sgocciolare il suo pennello, particolare dell’installazione alla Palazzina dei Giardini,
Modena, 2008
© Foto di Paolo Terzi, 2008
Finestre oscurate e spoglie, pavimenti strappati e, tutto intorno, rifiuti e cicche per terra.
Il tacco a rocchetto della scarpa del Duca, un modello devoré-liseré che giustamente s’era portato nella tomba insieme alla corona, ne
spense una ancora accesa sulla porta di ingresso.
Quasi sentendosi di nuovo scorrere il sangue nelle vene agitò il ramo nodoso di un platano annunciando alle creature del giardino che
avrebbe trafitto lui stesso chi aveva osato profanare il Casino delle feste. La spada improvvisata gli sfuggì di mano e colpì un gruppo di
passeri di passaggio.
Le rane dello stagno si fecero avanti sputando sentenze come un coro da tragedia greca.
Gli aristocratici non sentono ragioni: non praticano la democrazia nemmeno da morti. Furioso, il Duca gettò con gesto di stizza un pugno
di ghiaia nel lago putrescente, agitando come coda invisibile, un mantello immaginario dietro le spalle.
Nel cuore del giardino, dietro la collinetta della Palazzina, una donna in età stava seduta sulla panchina più nascosta. Persa nei sentieri della
macchia verde e nei sintomi, parecchio evidenti, di una vecchiaia ormai al tramonto, prendeva, come suo solito, il fresco della sera.
Come già altre volte era accaduto, la badante l’aveva abbandonata, intenta a dispensare, dietro una siepe, ben altri servigi.
L’anziana signora, che pure non distingueva più tanto bene la strada di casa o il succedersi delle stagioni, sentiva, con la stessa intensità
di un tempo, i morsi della solitudine e della tristezza, riconoscendoli come tali.
Non era un mammalucco come gli altri. Non era un vagabondo. Non offriva la bizzarra compagnia di un sempliciotto, né il colorito discorrere
di un ubriaco. Non sarebbe stata nemmeno in grado di giocare a volta la carta, probabilmente. Ma il Duca, ugualmente, le parlò.
“Sento le voci” - disse lei con quell’agitazione che prende i vecchi - “Chi è? Chi sei?”
Il Progresso, i Nuovi Artisti, l’aria livida e anonima che avrebbe avuto d’ora in poi il Casino delle Feste, la fine del Sollucchero e altri fantasmi
presero vita come figuranti e danzarono insieme al Duca e alla vecchia signora l’ultimo valzer di mezzanotte.
Le torce della polizia fecero luce sulla poveretta poco dopo l’una di notte, alla chiusura dei cancelli. L’allarme era stato dato da ore, ma
le ricerche avevano puntato sulla via di casa, impiegando diverse decine di persone nel garbuglio di strade alle spalle della Stazione dei
treni. La badante s’era preoccupata di chiamare ospedali e conoscenti, ma la signora sembrava essersi volatilizzata. Soltanto il guardiano
del giardino l’aveva poi trovata, mentre chiudeva, come ogni notte, il cancello di viale Caduti. Una piccola luce fioca ondeggiava ancora
dentro la serra, come una lucciola che nel buio della notte avesse perso la via d’uscita. A terra una donna in età con le braccia composte
e l’aria serena. Gli occhi spenti, ancora aperti, sembravano guardare lontano.
“Chiamo il medico legale?” - chiese il primo poliziotto - “No - rispose il secondo - Avrà avuto novant’anni, sarà stato un infarto”.
La foto gliela fece lo stesso, secondo la prassi.
Solo al microscopio avrebbe potuto vedere le due figure in movimento riflesse nella pupilla.
Due vecchi fantasmi che avevan voglia di danzare ancora.
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Marco Missiroli
“Nasco a Rimini 28 anni fa, il 2 febbraio 1981. Dopo un asilo
materno turbolento e dopo scuole elementari abbastanza tranquille entro nel regno dell’adolescenza frequentando scuole
medie soddisfacenti e un liceo scientifico dove tutto è filato
liscio scolasticamente, un po’ meno emozionalmente: è lì che
i primi amori sono fuggiti via con le ali ai piedi e il problema
dell’omologazione è diventato vero. Cosa c’è di più difficile
che essere se stessi se non nell’adolescenza? Ci vuole il phisique du role, i vestiti du role, il carattere du role. Ovvero
l’uguaglianza apparente evita i confronti spiacevoli: essendo
un po’ diverso (ma non troppo) ho trovato le mie difficoltà che
si sono dissolte con il periodo universitario (laurea in Scienze
della comunicazione e primo romanzo Senza coda) dove o si
“sboccia” o si continua a soffrire adolescenzialmente”.
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GC.AC - Galleria Comunale d’Arte Contemporanea di Monfalcone
GC.AC - Galleria Comunale
d’Arte Contemporanea
di Monfalcone
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GC.AC - Galleria Comunale d’Arte
Contemporanea di Monfalcone
GC.AC interno - Aula principale con la
personale di Michele Bazzana
© Foto di Claudio Cescutti
Marco Missiroli per la Galleria Comunale d’Arte Contemporanea di Monfalcone
L’Officina della ricerca
La verità è che esiste davvero. Rimane in un angolo d’Italia, dove un crocevia instancabile di passaggi si ferma ad incontrare e a
chiedersi di forme, immagini, tensioni creative. Non solo Italia, ma Europa, spirito straniero, energia forestiera. E’ qui, che esiste
davvero, con i suoi nervi che affondano nella città di Monfalcone e lavorano giorno e notte, giorno e notte. Nervi lucidi e mai stanchi,
che dal 2002 non riposano e fanno realmente quel che si dice in giro: rivestono di materia i concetti più nuovi. Chi la vede strilla
“L’officina della ricerca!” e dice che da fuori è un grande edificio che si fonde nella città, senza spiccare, senza stonare. E basta
entrare per capire. Capire quei concetti che spesso rimangono sospesi in forme incomprensibili e in dinamiche non raccontate.
Chi è entrato ha detto di immagini sui muri che danno l’idea di come vecchi maestri vedevano il mondo e lo intendevano. Di agglomerati di ferro, plastica, tessuti con impresso ben chiaro quel che vogliono dire. Di tele, fogli e legno alle pareti che incarnano
le idee più giovani d’Europa e che finalmente hanno vita e possono trasmettersi, dicendo: “Siamo qui, viveteci”. Così la gente le
osserva ben bene e fa un passo avanti e ancora un altro, perché non ha più paura di non capire quel che dappertutto chiamano
ARTE CONTEMPORANEA. Qui si impara a leggerla, a vedere com’è fatta e come nasce. Non basta osservarla, qui la si spia mentre
prende forma e diventa matura: perché in questa officina della ricerca si è raccontato dei tre padri che creano l’opera d’arte. Ratio
è il primo, dappertutto fan finta che non esista e invece in questo posto lo si fa vedere al completo: è fatto di energia. É immaginazione di ciò che sta per prendere vita e guai a chi non lo ascolta, perché esso suggerisce il divenire, badate ben, il crearsi di forma
e bellezza. E poi ecco il secondo padre che nell’officina della ricerca ha il nome di Tensio, ed è il seme dell’idea che spacca la
terra e viene fuori con sudore. E’ raro, rarissimo, che l’ARTE CONTEMPORANEA mostri questa fatica, questo sforzo del concetto
di farsi consistenza. La denuncia dell’elaborazione estetica viene qui denudata come mai da altre officine, dove mostrare la meta
finale è molto più facile che far vedere l’intero viaggio intrapreso per raggiungerla: qui invece il “viaggio” prende consistenza e chi
entra nell’opera assiste finalmente al concepimento (Ratio), osserva il parto che diviene per tutti (Tensio), fino ad incontrare anche
il terzo padre, l’Imago. La meta è questa, l’Imago, che l’officina della ricerca fa essere luogo dove lo spettatore non è solo occhi
ma corpo, immaginazione, mente di un percorso sensoriale che abbraccia e non lascia. In questo modo a Monfalcone il viaggio
dell’arte è partenza, sentiero, meta per chi entra a guardare, esattamente come per chi la realizza.
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GC.AC - Galleria Comunale d’Arte Contemporanea di Monfalcone
Così l’officina della materia è ponte di contaminazioni, di forze che colpiscono chi è pronto a scommettere su linguaggi che rinascono ogni giorno, e che non hanno timore di giovani età, di nuovi nomi e di azzardi fortunati. Chi è rimasto ad osservarla può
giurare di aver visto una luce instancabile: filtra dalle grandi vetrate durante il giorno e continua di notte, imprigionata dalla silenziosità delle sue installazioni. Si racconta di baleni e lampi notturni che nascono da quei muri, dalla materia che sembra riposare
e che invece rimane desta a vegliare sulla sua energia. Di Monfalcone quest’officina non è solo uno dei lampioni più potenti, è
una fontana che in sette anni non ha smesso di zampillare talenti e di abbeverare creatività sempre assetate o che non avevano
mai bevuto prima. Una fontana che ha un rubinetto attento e generoso, pronto a dissetare le tante bocche secche e arse: Andrea
Bruciati, dispensatore di quell’acqua fresca che è appena iniziata a sgorgare.
Officina della ricerca, dicevamo. Dove aspetti della materia e sensi si incontrano, dove la creatività ha trovato una tappa in più nel
suo lungo viaggio. È a Monfalcone, il suo nome è Galleria Comunale d’Arte Contemporanea. Ed esiste davvero.
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Tommaso Pincio
Narratore italiano contemporaneo, è autore di vari romanzi tra
cui Un amore dell’altro mondo (2002) dove si ricostruisce,
tra finzione e biografia, la tragica parabola esistenziale di Kurt
Cobain, e il recente La ragazza che non era lei, una riflessione
amara e fantastica sull’eredità delle utopie degli anni Sessanta
e in particolare della cultura hippy. Entrambi pubblicati da Einaudi. Collabora regolarmente con «Il Manifesto» e all’edizione
italiana di «Rolling Stone».
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GAMeC - Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, Bergamo
GAMeC - Galleria d’Arte
Moderna e Contemporanea,
Bergamo
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GAMeC - Galleria d’Arte Moderna e
Contemporanea, Bergamo
Veduta esterna
Tommaso Pincio per la GAMeC - Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, Bergamo
L’Attaccatore
Visitando la Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo mi sono imbattuto nel passato. Passeggiavo per le sale dell’antico
monastero delle Dimesse e delle Servite ora adibito all’esposizione di oggetti da contemplazione - il mio personale sinonimo di
opere d’arte - quando l’occhio mi è caduto su una targhetta: «maurizio cattelan 157.000.000 (1992), cassaforte svaligiata». Era
una targhetta fantasma, l’oggetto da contemplare si trovava altrove, in prestito a un altro museo. Quell’angolo vuoto mi ha riportato ai tempi in cui anch’io bazzicavo dal didentro il cosiddetto sistema dell’arte. Facevo il direttore di una nota galleria, anche se
«direttore» è una parola un po’ grossa, un eufemismo, giacché in effetti facevo il tuttofare. Attaccavo i quadri alle pareti, attaccavo
i francobolli sugli inviti delle inaugurazioni, attaccavo discorso coi visitatori per cercare di capire se erano intenzionati a comprare
qualcosa. Ripensandoci, mi sa che facevo l’attaccatore. Comunque. Una volta, mentre ero nell’esercizio di queste mie funzioni,
mi si parò davanti un individuo che ascrissi all’istante alla categoria «sfigato rompiscatole» ovvero artista sconosciuto. L’individuo
era Maurizio Cattelan ma, siccome eravamo nei primissimi anni Novanta, il suo nome non significa ancora nulla per le mie orecchie. Anche lui era nell’esercizio delle sue funzioni, vale a dire cercava di attaccare un discorso finalizzato alla promozione del suo
lavoro. Ero sul punto di liquidarlo con noncurante insofferenza, come si fa con le mosche, quando lui se ne uscì con una cosa che
mi impietrì. Mi chiese dei soldi. Invece di sfoderare il solito book con le diapositive o illustrarmi chissà quali progetti di mostra, mi
chiese dei soldi per andare a stare New York qualche mese. Un soggiorno di studio o una vacanza. Magari un po’ uno e un po’
l’altro. Ancora non sapeva, mi disse. Dipendeva dalla somma che avrebbe messo insieme. Io non ci potevo credere. Lo guardai
per capire se parlasse sul serio, ma alla fine gli diedi ciò che mi chiedeva. Lui si prese dalle mie mani duecentomila delle lire del
conio di allora assicurandomi che il contributo sarebbe stato ricordato in una sua opera. Sì vabbè, pensai. Non fu un nobile atto di
mecenatismo, il mio. Lo feci soltanto per consolare me stesso, per sentirmi meno fallito di quel che allora mi sentivo, un aspirante
artista che aveva soffocato sul nascere le proprie ambizioni in cambio del risibile conforto di un posto come «attaccatore» in una
galleria d’arte. Gli diedi quei soldi per convincermi che in fondo avevo fatto bene a rinunciare ai miei sogni: almeno non ero finito
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GAMeC - Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, Bergamo
a fare la questua con la scusa dell’opera concettuale. Era un brutto momento per me, volevo sentirmi superiore a qualcuno, e
l’artista accattone mi stava offrendo quella opportunità a un prezzo tutto sommato modesto. Diversi anni dopo, io facevo ancora
l’attaccatore di galleria, mentre l’accattone era diventato l’artista del momento. Non collegavo minimamente il celebrato autore del
papa colpito dal meteorite col giovane che mi aveva chiesto dei soldi per andare a New York, perché di quel giovane sfigato mi
ero completamente dimenticato. Finché un giorno una persona mi disse: “Ma lo sai che sei in un’opera di Cattelan?” Lo guardai
per capire se dicesse sul serio. E sì, Cattelan ha davvero realizzato un’opera, credo si intitoli Fondazione Oblomov o qualcosa del
genere. Si tratta di una specie di targa commemorativa con i nomi dei benefattori che hanno finanziato il suo soggiorno a New York.
C’è anche il mio, di nome. Immeritatamente, ma c’è. Nel frattempo e nel mio piccolo, anch’io sono diventato quasi qualcuno. Il
problema è che lo sono diventato scrivendo sotto pseudonimo. Per cui è come se su quella targa il mio nome non ci sia. La prendo
come una giusta punizione del modo meschino con cui diedi una mano a un giovane artista. Perché non è sempre vero che non
bisogna far processi alle intenzioni. A questo mondo diamo molto peso alle azioni, ai fatti, e a tutto quel che resta, come le opere
d’arte. Poca ne diamo alle intenzioni. Eppure tutto nasce da lì, e sarebbe il caso che i curatori di mostre e i direttori di museo escogitassero un modo di esporre non soltanto oggetti da contemplare, tutto sommato innocui, ma anche le intenzioni, non sempre
cristalline, che li hanno prodotti. Sarebbe una visione istruttiva assai.
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Donatello Bellomo
Donatello Bellomo, caposervizio alla Cultura e agli Spettacoli
del quotidiano «L’Arena».
Scrive romanzi di mare e, quando può, suona il sax tenore e
va a vela.
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Galleria d’Arte Moderna Palazzo Forti, Verona
Galleria d’Arte Moderna
Palazzo Forti, Verona
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Galleria d’Arte Moderna Palazzo
Forti, Verona
Corte interna
© Foto di Filippo Nardo
Donatello Bellomo per la Galleria d’Arte Moderna Palazzo Forti, Verona
Dietro quelle mura austere, nell’alveo del fiume che scrive la sua “esse” curvando a destra davanti al Vescovado, accelerando
sino a Ponte Pietra per accarezzare la basilica della pallida Principessa del Pisanello, bella da togliere il fiato nel suo essere chiesa
e femmina, passeggiava Achille Forti. Da lui, ebreo, andava a bussare don Bassi, arciprete di Santa Anastasia, con il cappello in
mano a chiedere quattrini per il tetto che faceva acqua e dilavava affreschi irripetibili, sciogliendo l’oro del sole e il lapislazzulo del
mare. Dal rosone entrava la Luna che inargentava la scena di cavalli e navi e sopra l’arcone della cappella sbocciava un’ombra
di luce azzurrina.
Il prete sapeva del cuore di quel signore sovrappeso, barbuto e taciturno, che amava le farfalle e le foglie e i semi rari e i dipinti e
in generale il bello, ai tempi in cui in questa città si lasciava sempre una frangia d’anima o almeno il rimpianto. Da buon vicino, il
signor Achille, forse guardando il sorriso di Guglielmo da Castelbarco, simile e diverso da quello di Cangrande, sdraiato sul sacello
a contemplare l’opera che in parte aveva pagato con moneta sonante, metteva mano al portafogli per rattoppare gli sfregi del tetto
della casa del Signore e tirare avanti.
Nel silenzio delle stanze dove non aveva preso sonno l’imperatore corso, Bonaparte, Forti affastellava come fiori le opere d’arte,
solo di quella solitudine che fa grandi gli uomini che pensano al futuro, se non all’eternità, e mai per se stessi. Dire “mecenate”
suona un po’ male e anche ingiusto, se il riferimento è a lui, ma tant’è, a inseguire la chimera del bello e fors’anche del duraturo,
se non dell’eterno, c’è da prendersi tutti i rischi, anche di un domani che non capirà che se qualcosa abbiamo salvato è perché il
tempo passato non è stata eredità ai figli, ma preso in prestito da loro.
Se ancora si usasse scostare il cappello dal capo incrociando una signora o un galantuomo, ci sarebbe da toglierselo tutte le volte
passando lì davanti, apposta, solo a immaginare che quel nome e cognome, Achille Forti, passeggiasse tenendosi compagnia
con le memorie antiche della città turrita che aveva dato albergo a Dante, ripensando all’Emilei che aveva dovuto affittare il piano
nobile al generale dell’Imperial Regio Esercito Radetzky, maledicendo il destino della storia monca di una magione in cui aleggiava,
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Galleria d’Arte Moderna Palazzo Forti, Verona
ancora, l’eco sfrangiata di una storia d’amore sangue e poesia della nobildonna Silvia Curtoni Verza per il provveditore della città
Francesco Emilei.
Capita di bruciare un po’ di fuoco parlando di passioni vere, non come il falò catodico che tempo fa ardeva su fascine spente con
un crepitio da monoscopio e di ringraziare, anche, quella “vostra eccellenza che mi sta in cagnesco”, gli austriaci, che andavano
costellando Verona di caserme e platani, piatti intriganti di goulash di cavallo e tanto verde ancora buono per non soffocare di traffico, allungando le mura sino a via Massalongo. Altro erede, Pietro, vendette finalmente stanze e storia a Israele Forti, che vi mise
mano e svanziche, inseguendo fasti impolverati. Girati e voltati, è già ieri, il ’37 è ancora dietro l’angolo e il Forti di cui parliamo,
il suo tallone d’Achille lo aveva proprio lì, inguaribile e ostinato nel far del bene. Perché non solo di museo si tratta, ma di terre e
case, che hanno pagato chissà quante rette a orfani e tenuto a galla i conti del Comune quando la cassa era vuota, non di idee
ma di conquibus.
Dicevamo di togliersi il cappello, ammirati davvero da tanta lungimiranza, ché dopo essere stato Accademia di Belle Arti e Liceo
Artistico, quel luogo di segreti sogni è diventato ciò che lui voleva, Galleria d’Arte.
All’alba va guardato, quando solo i gatti tornano a casa dopo scorribande e graffi, magari posando il palmo su quel muro che non
è calce né pietra né mattoni, ma cosa viva. Non fosse per l’ansito dell’Adige e lo stormire dei cedri poco distanti, lo si sentirebbe
respirare. Cosa dire, ancora, che non sia ovvio? Resti così, rimanga quel che è, non cambi, non lo si stravolga adducendo questo
o quello, che vibri ancora di tutta quell’arte che vi è scorsa dentro, nobile o un po’ meno. Perché il coraggio, quello sì, è la virtù
dei Forti.
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Alessandro Bergonzoni
Alessandro Bergonzoni è nato a Bologna nel 1958.
Come attore-autore teatrale si è imposto con Non è morto
né flic né Floc (1987), e ha debuttato come scrittore con Le
Balene restino sedute, vincitore nel 1990 della Palma D’Oro
di Bordighera. Artista poliedrico, ha collaborato a lungo con
Radio 2 e 3 Rai e ha interpretato la parte del direttore del circo
nel Pinocchio di Benigni.
Tra gli altri libri pubblicati, ricordiamo E’ già mercoledì e io no, Il
grande fermo e i suoi piccoli andirivieni, Opplero – Storia di un
salto e Silences - Il teatro di Alessandro Bergonzoni. Nel 2005
debutta con Predisporsi al micidiale, col quale vince il Premio
dell’Associazione Nazionale dei Critici di teatro ed espone per
la prima volta una sua opera al Museo Archeologico di Aosta.
Nel 2005 esce per Bompiani il nuovo libro Non ardo dal desiderio di diventare uomo finché posso essere anche donna
bambino animale o cosa e a dicembre dello stesso anno è il
Mago Festone nel film di Mimmo Paladino “Quijote”.
Nel 2006 espone un’altra opera alla Certosa di Padula.
Nell’ottobre 2007 debutta col suo nuovo spettacolo NEL.
Nel febbraio 2008 inaugura la sua prima mostra personale alla
Galleria Mimmo Scognamiglio di Napoli.
Nel gennaio 2009 vince il Premio UBU 2009 come miglior
attore del teatro italiano per lo spettacolo NEL e in settembre
esce per Libri Scheiwiller Bastasse Grondare, il suo primo libro
di disegni e scrittura.
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MAMbo - Museo d’Arte Moderna di Bologna
MAMbo
Museo d’Arte Moderna
di Bologna
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Alessandro Bergonzoni per il MAMbo - Museo d’Arte Moderna di Bologna
LIBERO INGRESSO NELLE SO-STANZE
(MAMbo o del subliminal museum)
La faccia animale delle mostre: museo.
E d’entro? Entra entra, è il non riuscire a star fuori che si espone.
MAMbo: il lato del tempo più mentale che monu-mentale.
Spazi per l’umore della gente prima di esser gente e dopo esser diventati umore.
BDR: è la Bolgia Dei Respiri, dove si respingono quelle arie che ci si dà per non far p’arte.
Luogo delle impossibili raffigurazioni 1.
A disposizione di tutti, il taglio del cordone ombelicale, nastro di tutte le partenze e inizio della vita, non intesa solo come fianchi,
ma muri di sostegno, muri(im)portanti a prescindere dai loro attaccamenti (chiodi fissi).
Il rumore dei calcoli fatti e del risultato, non s’ode; non c’è aritmetico sommo, tutto sommato…
Non ci sono opere smesse, continuamente.
I doni dell’Appena, stanno in fila covona, e come ego in un pagliaio verranno cercati da sé.
L’arte s’ammala? Qui la si visita!
Base d’asta: la sua ombra. Il prezzo finale: stimato, e la sua essenza scontata (costi quel che costi).
Tante scale sdraiate, che non possono nemmeno scendere a più miti consigli con l’orizzonte.
Un ringraziamento, esempio di opera metaforica dal titolo “Sinchina e Linchina”: genuflesso in gamba.
Pensieri di gruppo, acrilici (vedi differenza tra acritico e acrilico).
Dalle sale interne escono le esterne e dalle esterne rientrano le altre, non solo quelle interne.
Sculture che raffigurano il Centinaio che vien spostato più di un Migliaio di architettoniche volte (in religioso silenzio: segue riposo
dei punti cardinale usati per posizionarle).
Frammento di un discorso sentito tra due visitatori agnostici… “E il santo che si riposa, presta l’aureola a chi ne ha bisogno?” Gli
altri visitatori non hanno più tempo, ma solo il Tempo.
(Da siffatti soffitti delle sale superiori, dovrebbero riuscire a calare alcuni anni di vita…)
Performances della delucidazione delle scarpe, che serve per far fare un passo avanti al capire l’arte terrena.
Ingresso al salone dei Perché lontano dall’uscita dei corridoi del Così.
Una mina scoppia di disegni sotto la matita, mentre una gomma frena le cancellazioni, rotolando…
Per terra, i resti di un’opera sostituita e la sua meretricea sostituta: ma niente è perso, perchè si tratta di un altro tipo di perdizione.
Terzo bassorilievo raffigurante consanguinee provette sotto esame, che centellinano l’aspetto meno genetico e più divino
dell’infezione dovuta alla ruggine dell’ispirazione.
(C’è un pavimento dove ci si può mettere tutti in cerchio ad aspettare Giotto.)
“Ciglia di pittore non fan pennello, zampa di lupi può finir favole” ”L’arte di morire si può ritrarre, se il suo pittore non indietreggerà”
”Se son ali, nel marmo si muoveran lo stesso (differenza tra scultura e scultura senza esse)”: sono solo alcune delle frasi che si
possono pensare scritte sul bianco delle pareti unitorie all’interno della galleria.
Ecco l’ingresso libero nelle so-stanze (adiacente alla sala del ”tumulto degli Ancora”).
Sonnambulismo delle civiltà zombeidi e filmato sulla genesi finale al cospetto del termine Inizio.
E dopo tutto ciò, al termine di una normale giornata MAMbo, dovrebbe e dico dovrebbe succedere che, con un plebiscito di scrittura, pensieri acclamati e detti declamati, venga accolta l’enclave del segno e la fine dei significati (reconditi a parte).
Sullo sfondo, mentre giardino mangia ristorante che legge libreria, verrà quotidianamente festeggiato lo spegnersi dei soli, ma
soprattutto la stasi del Sole, per avvenuta altra illuminazione: quella delle cose che son (lì) dentro.
Invece fuori, in strada porticante, si faranno il Prestito dei voli e l’Elargizione di alcune potenze di passaggio, con conclusivo agghindamento del polso della situazione, di chi ha dato una mano.
(Nota per il mercato dell’arte: come per incanto, Tutto, si vende?)
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MAMbo - Museo d’Arte Moderna di Bologna
MAMbo - Museo d’Arte Moderna di Bologna
Interno
© Foto di Matteo Monti
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Francesco Abate
Nasce a Cagliari nel 1964. Giornalista e scrittore. Ha pubblicato
i romanzi Mister Dabolina (Castelvecchi), Il cattivo cronista (Il
Maestrale), Ultima di campionato (Il Maestrale - Frassinelli),
Getsemani, (Il Maestrale - Frassinelli). Con Massimo Carlotto
ha scritto Catifish (Aliberti) e Mi fido di te (Einaudi). Per anni
con il nome Frisko ha fatto il dj.
Il suo sito internet è www.frisko.it
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MAN_Museo d’Arte della Provincia di Nuoro
MAN_Museo d’Arte
della Provincia di Nuoro
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Francesco Abate per il MAN_Museo d’Arte della Provincia di Nuoro
Evasione
Se continua così, giura, le verrà il mal di testa. E siccome già il viaggio questa volta è stato quello che è stato, le servirà un’aspirina
effervescente, o forse il laudano che dirige i sogni verso cromatismi oltre natura, per ritrovare un equilibrio.
Quindi si è lasciata andare - quasi sgonfiata come un sacco svuotato di contenuti e forme - sui cuscini sparsi per il pavimento,
stesso lastricato calpestato la mattina da ragazzini vocianti. Gitarella scolastica: canti, pernacchie, merendine e visita culturale.
Obbligatoria.
Zitte bestie! Che in un museo si entra come in una chiesa, E tu! Perniciano! Butta quei pop-corn…
Nei padiglioni auricolari le è tornato l’eco dello squittire di una maestrina, la gonna viola macchiata di pois rosa. Aveva il catalogo
in una mano e nell’altra un marito al guinzaglio.
Le parole devono essere soffi, gli sguardi discreti, i passi impercettibili, le passioni e i sentimenti imperscrutabili. Perché il
messaggio deve essere universale e…
Stupida, arrogante e pedante, come certe donnette e omuncoli di mezza tacca.
Questo ha pensato mentre Tina, lasciato il suo studio in via Cavour, la poltrona e il libro che leggeva, le è stata affianco reggendola
per un braccio affinché il suo adagiarsi sui cuscini a terra non si trasformasse in una rovinosa caduta. Tina l’ha aiutata, cosicché
i merletti del suo abito non si impigliassero e la gonna le coprisse bene le gambe, più perché i tessuti non si stropicciassero che
per decenza.
E Irina, occhi ghiaccio dell’est, ha tirato un sospiro di sollievo.
La notte, come tutti i dipinti che ne hanno voglia, lascia la cornice e si fa un giretto. Sembrerà pure un’idea banale, ma è la verità.
Quella di lasciare le cornici non è una fantasia da racconta balle in cerca d’ispirazione, no. Ma cronaca. Accertata, vidimata, protocollata. E’ proprio così e (anche se sembra una formula logora) è la routine, che piaccia o no. Il ragioniere scrutacifre la mattina
va in banca, timbra il cartellino e fa di conto. Il protagonista del quadro la sera si scolla dalla tela e si regala un giretto curioso, si
presenta agli altri ospiti del museo, eccetera eccetera. Il resto è facile da immaginare.
Ma la regola, pare, non vale per tutti. No, non per tutti i figli dell’arte. E non è che si applica con rigore neppure tutti i giorni. Dipende
dalla personalità, dal carattere e dall’umore del giorno. Ci sono i curiosi e quelli no.
La differenza a Irina, che ha trovato un po’ di difficoltà a trovare una posizione comoda fra i cuscini, gliel’ha spiegata una rockstar
martire a Seattle.
Dunque Irina, le ha detto quello tirandosi via il ciuffo biondo dall’occhio sinistro, chiaro come legno di betulla, è come nelle nostre
cazzo di band. Ci sono quelli che arrivano, suonano, si sigillano in un cazzo di albergo, sfondano tre o quattro cazzo di televisori. Dormono, male, mangiano, peggio, e scopano, con difficoltà, la prima roba che gli passa sottogamba. Ripartono ancora
più rincoglioniti che non riescono a tenere gli occhi aperti per acchiappare almeno un frammento dal finestrino del bus. Così
Amsterdam è uguale a Roma, Tokio a Berlino, Parigi a Rio.
Irina prima ha provato, con le dita fasciate dal suo guantino ricamato, a tenere il conto dei vocaboli al bando. Stizzita e certa che
se la conta fosse arrivata al mignolo avrebbe girato i tacchi e lo avrebbe lasciato lì, davanti al suo quadro senza cornice.
Poi ci sono quelli come me e te, Irina… i desiderosi. E qui lei aveva quasi chiuso il pugno e la conta delle sconcezze, pronta a
perdonare davanti a un complimento, come sempre è stato nella sua vita.
Assoluzione che gli ha concesso quando Lui le aveva cinto il fianco con il suo braccio tatuato e l’aveva portata con sé fra le sale e
i corridoi della grande galleria. Via a conoscere gli altri e i loro mondi.
Poco prima dell’alba le guance avevano iniziato a scoppiettarle, le gambe a farle trema trema. Ma l’adrenalina era più forte dell’affaticamento. Ora era lei a trascinare lui per mano. Nonostante la differenza d’età. Notevole. E lui a bloccarla davanti al grande
portone a vetri, l’ultimo ostacolo verso la città. E qui si erano fermati.
Oltre qui, no, oltre qui, le aveva detto, non si può. Non sei pronta tu, non sono pronto io.
Quindi Irina, in viaggio per il mondo con il Gruppo Vacanze Impressionisti, si è allenata per anni. Da quella notte col cafone-angelo
a Seattle si era addestrata per essere pronta e trovare la giusta compagnia per andare oltre i portoni blindati e rinforzati, le cellule
fotoelettriche, i muri di cemento armato, i ganci, gli spuntoni, i ferri, gli acciai e i cristalli che foderano ogni museo. Ha fatto prove
con i personaggi più probabili e improbabili ma nessuno ha mai osato farla andare al di là dei confini. Nella testa, da quella notte,
le si è piazzato quasi un’eco senza fine, un mantra che non l’ha mai fatta desistere, solo una frase… i desiderosi.
A dirla tutta, pensava che la volta buona fosse l’anno prima quando aveva avuto notizia, soffiata di tela in tela, che si sarebbe
incrociata qui nel cuore di questa Isola con il gruppo di Olaf. Anche Vera, più giovane (che gliela piazzano sempre affianco, brutta
gallina petulante), si era illuminata ma solo perché pensava che Olaf fosse un muscoloso vichingo dalla pennellata forte e generosa
come le sue creature.
Imbecille, le aveva sussurrato Irina senza farsene accorgere. Lei che aveva sbirciato i cataloghi ben sapeva a chi si sarebbero
congiunte e quasi aveva imparato a memoria la lezione per far colpo e ripeterla quando il gruppo vacanze Royal Blood, quello
Fashion Victims ma soprattutto, per affinità d’età, Mature, le si sarebbero parati davanti.
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MAN_Museo d’Arte della Provincia di Nuoro
MAN_Museo d’Arte della Provincia di Nuoro
© Foto di Max Solinas
Saltano le categorie di corpo/umano corpo/artificiale, gli avrebbe detto tutto d’un fiato come in una filastrocca, corpo sano/
corpo malato, oggetto/soggetto verso la nascita di un nuovo spazio, di un nuovo corpo, di una nuova immagine. Loro avrebbero
capito e sarebbe stato il suo lasciapassare, la dimostrazione che anche lei era della compagnia. E che compagnia: certe vecchie
nude prosperose di rughe e curve, alcune glamour regine decollate, bambine d’abiti bianco cocaina e uomini grossi come tori dal
cacchio di grillo fasciato dai collant. Il circo dei nuovi mostri, quelli, si è detta Irina, sì che non hanno paura del buio. Figurarsi di
lasciare per una notte casa e cornice.
Ma l’incrocio non ci fu. Questioni burocratiche e di impegni. Coincidenze mancate. Sentì dire. Il gruppo vacanze Erwin Olaf partì
per la destinazione convenuta ma loro, gli Impressionisti, no. Dovettero restare altri otto mesi lì dove erano, viaggio rinviato per colpa
di una fila di visitatori che non si diluiva mai. Mai. Hanno sempre avuto un gran successo Irina e compagnia.
Nera, furiosa, Irina giurò che quando sarebbero arrivati in questo museo fra i monti, luogo di misfatto (perché di appuntamento
saltato, di speranza avvilita e delusa), non si sarebbe mossa dalla tela. No, neanche di un centimetro, per dispetto agli stanziali, ai
residenti, che non si meritavano nessuna confidenza, quasi colpevoli del suo incontro svanito.
Giurò che se ne sarebbe stata con l’Ucraina alle spalle, ben piazzata al centro della tela con la sua posa imperturbabile a darle il
tono che le spetta per rango, lei figlia di Il’ia Efimovich Repin, classe 1875. Del resto cosa avrebbe trovato in un buco di provincia?
cosa si sarebbe persa? Nulla, tanto più che non avrebbe incontrato una delle ragazze di Olaf con lo sguardo arcigno, il corpo
scolpito, la spavalderia per dirle: Dài Irina, saltiamo la porta blindata e divoriamoci questa piccola città.
Tina le massaggia le tempie, ora.
Tina figlia di Francesca Devoto, anno ’36, 1900 e 36 ovviamente. E Irina non ci crede ancora, non ci crede che questa ragazza
esile, gonna bianca camicetta nera, ha lasciato per lei la poltrona e lo studio di via Cavour, il libro e la vista panoramica, le si è
parata davanti e le ha detto: Ti va di fare un giro in città?
E Irina più che sfilare oltre il quadro e quasi squartarata al di là della cornice, oltre il cono di luce del faretto che la illuminava
per darle tono e giusti riflessi. E solo per un soffio non le sono mancate le forze. Tina l’ha portata verso i cuscini, e il resto già si
è detto.
Irina potrebbe crepare dal mal di testa ora, o perdersi fra le vertigini. Perché non le sembra vero che lei, pezzo d’arte, lasci le sale
per correre fra le strade. Impossibile che anziché altrove sia accaduto proprio qui, dove non avrebbe scommesso un rublo bucato.
E ripensa agli anni in tondo al pianeta, alle richieste inutili di fuga dove era certa che, invece, avrebbe trovato spalla e compagnia
fra i noti e gli sfrontati, gli schiena dritta con pedigrèe, gli sguardi puntati al futuro, zang tumb tumb, gli affermati e i rampanti.
Stupida Irina, stupida Irina. Dice di sé mentre guarda questa giovane donna che le sorride e le sussurra: Allora, Irina, quando sei
pronta tu andiamo. E lei le ha teso la mano per fare perno, darsi forza, e rialzarsi. Andiamo Tina, fuori da questo museo il mondo
ci attende. Che sembrerebbe una frase romantica, ma è quello che le è uscito di bocca senza pensarci troppo su.
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Isabella Bossi Fedrigotti
Nasce in Trentino, a Rovereto, e vive a Milano. Giornalista al
«Corriere della sera», scrive su argomenti culturali e di costume e tiene da anni rubriche di corrispondenza con i lettori:
attualmente per il «Corriere on line» (www.corriere.it) e per il
Magazine settimanale. Nel 1980 ha esordito nella narrativa
con Amore mio, uccidi Garibaldi. In seguito ha pubblicato
Casa di guerra (1983), Di buona famiglia (1991), che ha vinto
il Premio Campiello, e Magazzino vita (1996), tutti usciti da
Longanesi; quindi, presso Rizzoli, ha pubblicato Il catalogo
delle amiche (1998), Cari saluti (2001) e La valigia del signor
Budischowsky (2003). Nel luglio del 2004, per le edizioni del
Corriere della Sera, è uscito Amore mio ti odio, bilancio di
dieci anni di colloquio con i lettori.
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Mart - Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto
Mart - Museo di Arte Moderna
e Contemporanea
di Trento e Rovereto
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Isabella Bossi Fedrigotti per il Mart - Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto
Un grande, importante museo in una provincia distante da tutto come lo è Rovereto? Dove, per chi ci vuole venire da Roma, esiste
un solo Eurostar al giorno e nemmeno tanto veloce e nessun aeroporto relativamente vicino? Follia. E chiamare a progettarlo un
architetto di fama internazionale come Mario Botta? Manie di grandezza, tipiche di provinciali che vivono fuori dal mondo. Arte
contemporanea, poi? Dove mai lo possono trovare, in Trentino e dintorni, il pubblico necessario per riempire un tale museo? Era
questo il coro, tra il beffardo e l’incredulo, che ha accompagnato la lunga gestazione del Mart. Lunga, ma non lunghissima: risulta,
infatti, o, meglio, si tramanda, che dalla primissima idea fino all’ultima pietra sono passati poco più di vent’anni. Quindici dal primo
schizzo nato nello studio di Botta, buttato giù su fogli ormai famosi in formato A4.
“Atene del Trentino” veniva un tempo definita Rovereto, ma da anni la definizione suonava tristemente pomposa per quel germe
antico da un pezzo morto o, almeno, abbondantemente addormentato. E invece - a prova che dopo tutto ancora sopravvive - ecco
il Museo di Arte Moderna e Contemporanea, contenitore e fabbrica di idee, vera e propria centrale atomica - non inquinante - della
cultura che la città ha avuto il coraggio (e la forza) di regalarsi: netta smentita di decadenza e, insieme, sfida totale a lentezze,
piccolezze o grettezze di provincia.
Eccola la grande cupola di vetro che copre questa specie di grotta delle meraviglie, nascondendola e insieme mostrandola. Non la
si vede, infatti, fin quando non ci si è davanti, perché non spicca, non sovrasta, non deturpa la parata dei palazzi settecenteschi
che sfilano lungo la via. Non ci fossero i cartelli, non ci fossero persone, tante o poche, che sempre vi si avviano, tutti i giorni e
tutto l’anno, magari neppure lo si troverebbe il Mart. E’ solo quando si giunge al varco tra palazzo Alberti e palazzo dell’Annona
che il museo appare, aperto, luminoso, inaspettatamente vasto, con la cupola che attira a raddoppia la luce sul vetro, sul granito,
sul marmo del cortile, sull’acqua della fontana e sulle grandi statue bianche che la circondano.
Nei paesaggi, nelle città, si sa, basta poco tempo per abituarsi alle costruzioni nuove: in capo a un anno o due, già si fa fatica a
ricordare come il luogo si presentava prima, già il panorama pare quello di sempre, consolidato, fisso, immutabile. Con il Mart
sembra diverso: ogni volta che ci si affaccia tra i due palazzi che lo delimitano, la visione colpisce inaspettata, sorprendente, e
riempie gli occhi.
Dentro, sui due piani c’è lo sfondo neutro del legno, del vetro, dell’intonaco bianco per permettere che facciano festa i colori dei
quadri. Spiritus loci, padrone di casa, cuore dell’intera storia e, in un certo senso, inconsapevole promotore del Mart, è Fortunato
Depero. Non fosse stato per questo geniale e fantasioso roveretano e per i suoi amici e compaesani futuristi - Baldessari, Melotti,
Pollini, Garbari - se non fosse stato per il desiderio di dare loro una dimora nella quale potessero stare insieme, bene, chissà se
tutto questo ci sarebbe stato.
Tante volte mi sono chiesta: gli piacerebbe, il Mart, a Fortunato? Probabilmente sì, perché me lo immagino, qui dentro, come un
bambino cresciuto in una casa modesta che, invitato a stare in un gran palazzo elegante e raffinato, si guarda intorno ammirato,
ride contento e commenta i dettagli con gli amici che sono venuti, numerosi, da ogni parte d’Italia, a fargli compagnia: oltre al
gruppetto dei futuristi, il museo ospita, infatti, tutti i maggiori artisti del nostro Novecento.
E per tenere la grande grotta sempre al caldo, ecco il fuocherello - perenne - della biblioteca civica trasferita qui, ricca di quasi
400.000 volumi, aperta e straordinariamente frequentata tutti i giorni fino alla dieci di sera, il cui corpus iniziale e fondamentale è
costituito dai 2.400 libri di Gerolamo Tartarotti, storico roveretano e raffinato intellettuale settecentesco, noto, tra l’altro, anche ai
non roveretani, per avere condannato con durezza i roghi delle streghe che, nella terra governata dal Principe Vescovo non erano
stati rari.
E, a proposito di Principe Vescovo, collegato al Mart di Rovereto c’è il Mart di Trento, più piccolo, più raccolto, che ha sede nel
Palazzo delle Albere, la settecentesca, serenissima residenza di campagna dove i non sempre santissimi, però sempre potenti
governanti della Chiesa trascorrevano le loro villeggiature. Ora non la si può più considerare di campagna, perché la città l’ha
raggiunta e superata, però è ancora immersa nel verde: perfettamente restaurata, tanto che non è difficile immaginarvi l’antica
vita di quegli illustri villeggianti, rappresenta la sponda storica dell’istituzione roveretana, ospitando le collezioni e le esposizioni
dell’Ottocento.
Mart - Museo di Arte Moderna e
Contemporanea di Trento e Rovereto
Veduta esterna
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Mart - Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto
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Tiziano Scarpa
Tiziano Scarpa nasce a Venezia nel 1963, è romanziere,
drammaturgo e poeta. Fra i suoi libri ricordiamo i romanzi Occhi sulla graticola (Einaudi, 1996), Kamikaze
d’Occidente (Rizzoli, 2003) e Stabat Mater (Einaudi,
2008); il poema Groppi d’amore nella scuraglia (Einaudi,
2005), la guida Venezia è un pesce (Feltrinelli, 2000).
I suoi libri sono pubblicati in numerose lingue, fra cui il
cinese.
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MAXXI - Museo Nazionale delle Arti del XXI Secolo, Roma
MAXXI - Museo Nazionale
delle Arti del XXI Secolo,
Roma
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MAXXI - Museo Nazionale delle Arti
del XXI Secolo, Roma
Courtesy MAXXI, Roma
© Foto di Roberto Galasso
Tiziano Scarpa per il MAXXI - Museo Nazionale delle Arti del XXI Secolo, Roma
XXI frasi per il Museo Nazionale delle Arti del XXI Secolo
I. La più bella opera d’arte del MAXXI è il museo com’è ora, mentre scrivo queste frasi (2007): ancora in costruzione, edificio inedificato, vuoto anche di sé stesso.
II. Attualmente il MAXXI contiene il secolo che al 90% deve ancora venire, è un museo pieno di futuro, colmo di tempo ipotetico.
III. Un museo di arte confuturanea.
IV. Tubi colorati, foresta sciantosa, bozzolo beaubourghiano, impalcature cool: bisogna abituare l’edificio, finché è in gestazione, ad
avere a che fare con la creatività che lo attende, come se sopra la culla di un neonato si appendesse un Mobile di Calder.
V. Ho visitato musei-catapecchia che contengono tesori in oro massiccio; all’inverso, nelle collezioni del MAXXI ci saranno anche lavori
fatti con i ferri da calza, opere di carta di giornale arrotolata, fasci di cavi elettrici: l’architettura sfarzosa del museo renderà onore alla
materia umile, monumentalizzando la gracilità.
VI. Il museo del passato è una teca; il museo del futuro è un cantiere: tutti e due producono polvere.
VII. Un museo pronto ad accogliere quello che succederà: come una bocca spalancata che fronteggia una mareggiata di anni, una
valanga di tempo, un tempimoto.
VIII. Contenitore dell’incontenibile, recipiente dell’irrecepito, il MAXXI scommette sul fatto che per l’arte del secolo in arrivo il museo
saprà essere capiente, la capirà.
IX. C’è una differenza sostanziale fra un museo “di arte contemporanea” e uno che si propone come museo del secolo appena iniziato:
il primo è un feticista del presente, il secondo è un monumento all’ottimismo, esprime fiducia nelle nostre conseguenze.
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MAXXI - Museo Nazionale delle Arti del XXI Secolo, Roma
X. O forse, al contrario, un museo del secolo venturo serve a trasformarci da cause a effetti: i nostri discendenti, i nostri figli e nipoti
sono le nostre cause; sono loro che avranno provocato le nostre azioni, che ci avranno fatto costruire il museo che li conterrà.
XI. Museo del futuro anteriore.
XII. Signore e signori, è cominciata la storicizzazione del futuro.
XIII. Un museo di arte contemporanea è un museo in tempo reale, un museo del tempo reale; il MAXXI è un museo del tempo reale
e irreale, del tempo possibile e impossibile.
XIV. Al MAXXI verrà messa in mostra anche la parte che manca del ventunesimo secolo, l’arte ancora irrealizzata, impensata, inimmaginata.
XV. Una quota di sale, spazi, locali resterà perennemente vuota, e a ogni anno che passa si assottiglierà.
XVI. Una proposta per l’inaugurazione: mettere in mostra l’intera collezione accatastata all’ingresso, e poi saloni deserti con piccole
diciture, etichette minuscole: “Anni Dieci”, “Anni Venti”, ecc.; eventualmente qualche sgabello, sedia, panca, per sedersi e immaginare.
XVII.
XVIII. La frase precedente descrive una parte delle sale del MAXXI.
XIX. Verremo ricordati come gente che si prendeva troppo sul serio storicizzando se stessa e anche il proprio futuro?
XX. Verremo ricordati come gente umile, che prendeva molto più sul serio le generazioni successive, al punto di dedicare loro un
museo?
XXI. Sarai più clemente con noi, dio del futuro, ora che ti abbiamo offerto in sacrificio un museo?
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Enzo Nicolodi
Enzo Nicolodi, nato nel South Tyrol (Italy) nell’aprile del 1950.
Insegnante per 35 anni. Formatore di insegnanti e curatore di
progetti inerenti la “Educazione alla Immagine”.
Si occupa di narrativa come Presidente della Biblioteca Civica
di Merano (settore italiano) ed è animatore di diverse iniziative culturali della città di Merano tra cui, da 24 anni, On The
Road again (rassegna di racconti di viaggi con immagini e narrazioni) e il sito sugli anni 70 meranesi, www.merano70.it. Il
resto è vita!
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Merano Arte
Merano Arte
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Enzo Nicolodi per Merano Arte
La finestra di fronte
La pioggia accarezzava le tegole rosse e, con un suono assordante, scorreva nella grondaia.
Non aveva mai pensato che la pioggia potesse essere così fastidiosa, eppure da giorni pioveva e da giorni, la notte, si trascinava
fin sotto la grondaia dove un angolo di tetto gli offriva riparo.
Anche quella notte era in attesa, appiattito contro il muro, in quell’angolo che ancora oggi spezza in due l’edificio fine ‘800 e lo
avvicina nello spazio e anche nel tempo ad un altro di marmo e vetrate, dove, da poco tempo, al quarto piano, viveva.
Sessant’anni tondi, tondi. La vetrina illuminata gli ritornava l’immagine del suo viso. Una rete di piccoli segni ingarbugliati raccontavano molto di lui. Era nato con una ragnatela in fronte e così voleva morire. Senza santi da pregare e neppure miti da adorare. Aveva
solo i segni sul suo volto che raccontavano la geografia della sua vita. Ogni solco una parola sprecata. Aveva parlato molto.
Così, dopo notti passate ad attendere, si era deciso. Bussò a quel maledetto portone medioevale conficcato in un muro di pietra
come fosse il bastione di un castello. Da dentro nessun rumore. Aspettò un minuto, poi un altro, affinché sotto il portico transitasse
un carro con due cavalli biondi. Quindi usò il batacchio con durezza. Era già notte, ma il taglio di luce di una luna tonda che colpiva
il selciato esiliava il portico ancor di più nel buio. Ed in quel buio faticava a vedere. Vide il portone socchiudersi. Sentì nell’aria uno
stridore sinistro. Un alito di vento caldo lo colpì e scomparve con lui nel ventre del palazzo.
24 ore prima.
Di tutte le notti trascorse nel palazzo di marmo e vetrate, quest’ultima era stata la peggiore. Trascorsa ad aspettare l’alba tra
sibili e tonfi come se la terra digrignasse i denti per l’ultima volta. Si era svegliato di colpo e subito si accorse che non si era mai
addormentato.
Restava in attesa che i sogni lo tirassero per i capelli in meandri sconosciuti visionari e fantastici sospinti da un richiamo lontano
che non capiva da dove provenisse.
Seduto sul water, testa tra le mani, si sforzò di alzarsi. Dal lucernaio vide la luce del lampione disegnare il solito ragno tremolante
sul muro della casa di fronte. Immaginò che il vento spingesse le foglie verso il viottolo per poi raccoglierle in un leggero vortice.
Lanciò un breve sguardo al profilo tagliente della montagna muta. Incolpò il vento di tutti i mali della sua esistenza e chiuse definitivamente la finestra.
Nello studio un raggio di luce filtrava dalla tenda sulla scrivania. Una vecchia penna stilografica dal pennino d’oro e cassa di madreperla, nera e verde, proiettava il filo di luce su una parete vuota.
Guardò le sue dita e pensò a quando scivolavano leggere sui tasti del pianoforte.
A quel pensiero una musica dolce e vorticosa lo circuì sfacciatamente. Si lasciò andare ai ricordi come fossero allucinazioni. Pensò
alla libertà delle sue dita sul nero e sul bianco della tastiera, alle parole trasformate in suoni, ai silenzi insopportabili delle pause,
alle rincorse ansimanti per non perdere il tempo, agli assolo interminabili e al crollo improvviso delle sue aspirazioni.
Ad occhi socchiusi si accorse che il filo di luce sulla parete libera si era mosso e aveva allacciato in una danza voluttuosa figure
di diversi colori che si inseguivano sul bianco nevoso della parete. Duettavano con i libri per poi fuggire, intimidite, negli angoli
polverosi dello studio per riapparire sulla parete opposta e riprendere in una frenesia rituale le danze, i gesti, i movimenti.
Si precipitò alla grande finestra, aprì la tenda e fu accecato dalle luci variopinte che dalla finestra del palazzo di fronte inondavano
la sua casa nel silenzio della notte.
Si decise. Tirò violentemente la tenda e le luci improvvisamente si dileguarono. L’atmosfera, un attimo prima assordante nel silenzio, ora gli apparve muta ed incolore.
Con lento incedere si addentrò nel cuore del palazzo che di notte si animava di figure rutilanti.
Disegnò un tragitto incerto sulle pietre del pavimento. All’improvviso un lampadario a stilo prese fuoco incendiando la scalinata di
luce. Dalle pareti trasudarono sguardi attoniti e cupi e dal ballatoio apparvero ombre furtive, spettatrici del suo incedere. Poi il buio
riprese il sopravvento. Poi fu di nuovo luce e poi buio e così con frenesia, luce e buio si rincorrevano dinnanzi ai suoi occhi. Melodie
dodecafoniche mossero l’aria in un turbinio di note disarmoniche come onde di mare che friggono in preda ad un ciclone.
D’un tratto come era iniziato così d’improvviso tutto tacque. In fondo ad un lungo corridoio contro un sipario nero iniziarono una
danza ancestrale tre enormi matite colorate rosse e una blu.
Lampi di colore schizzavano dalle loro punte come fossero saette. I segni spigolosi e acuti ingabbiavano minacciosi la matita blu
che tracciava sullo sfondo un percorso giallo, sinuoso e sfuggente. S’accorsero d’un tratto dell’intruso. E vennero con movimenti
impacciati verso di lui, puntando i loro rossi becchi verso i suoi occhi.
Prese a due mani la ringhiera e salì di corsa la scala mentre il buio dietro di lui riprese possesso dello spazio. Sentiva solo il battito
del suo cuore quando uno spiffero gli accarezzò il collo. Si girò e di fronte a lui una grande finestra con intelaiatura di legno con
il vetro rotto. Taglienti schegge di vetro disegnavano una corona. Dentro la corona una collina verde con tre alberi dalle chiome
sferiche e dietro un cielo azzurro, immenso. Sollevò una lama di vetro e si accorse che portava impressa una fetta dell’immagine
agreste che vedeva. Lasciò cadere il pezzo di vetro. Non fece rumore e neppure si frantumò.
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Merano Arte
Merano arte
Veduta di Merano arte
© Foto di Christoph Kern
Un brusio lo colse impreparato. Pareva fosse in una sala d’attesa affollata di ombre bardate con mantelli e cappelli di varie fogge.
Nubi tetre e minacciose coprirono il suo orizzonte. Il brusio si fece più forte. Decine di individui osservavano il suo stesso orizzonte.
Tra le nuvole spuntarono dei cipressi piegati dal vento e dalle rocce cespugli inquieti. Il vocio crebbe e una donna si staccò dal
gruppo. Portava un cappello e un abito grigio fumo con due fiocchi rossi. Uno sul cappello e l’altro sulla giacca. Si insinuò tra i
rovi e levitò nella sua direzione.
Lui precipitò in un baratro interminabile, riemerse in un mondo privo di luce, annaspò come fosse in fondo ad un oceano. Graffiò
la parete per raggiungere uno spiraglio nel muro. Attraverso questo si tuffò in un mare di colori ondeggianti, come onde pettinate
dai venti tropicali, poi si trovò prostrato in geometrie ammucchiate una sull’altra per scomparire un’altra volta in un cosmo abitato
da pianeti multiformi. Raggiunse la terrazza e respirò profondamente il vento che dalla Venosta si infilava nei portici.
Portava profumo di neve.
Nel palazzo di fronte vide una grande finestra socchiusa. Di fianco dove il tetto declinava, un lucernaio. Vide un letto e ai suoi piedi
riconobbe un catalogo con le pagine divaricate: “Da Kandinsky ai Surrealisti: Kandinsky (In Blau, 1925), Fortunato Depero (Matite
Presbitero,1925), Renè Magritte (La clef de champs, 1936), Richard Oelze (Die Erwartung, 1935/36)“.
Era la sua stanza.
Un’intensa vibrazione. Poi sibili e tonfi. Sempre più forti. Ancora di più finché allungata la mano tutto tacque. “Ma che cavolo
di suoneria ho scaricato” pensò nel dormiveglia. Afferrò il suo Nokia, lo ficcò sotto il piumino. Riacciuffò il sonno… appena in
tempo.
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Sabine Gruber
Nasce a Merano nel 1963. Vive e lavora a Vienna. Scrittrice,
è autrice di poesie, racconti, opere teatrali, saggi e drammi
radiofonici. Ha pubblicato per Wieser Verlag il romanzo Aushäusige (1996) e la raccolta di poesie Fang oder Schweigen
(2002), per C. H. Beck i romanzi Die Zumutung (2003) e Über
Nacht (2007).
Numerosi i premi e i riconoscimenti: 1996 premio per la letteratura città di Vienna, 1997 borsa di studio presso Schloß
Solitude - Stoccarda, 1998 Reinhard Priessnitz-Preis, 2002
borsa di studio Heinrich-Heine di Lüneburg. Premio Elias Canetti città di Vienna nel 2004/2005.
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MUSEION - Museo d’Arte Moderna e Contemporanea, Bolzano
MUSEION
Museo d’Arte Moderna e
Contemporanea, Bolzano
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Sabine Gruber per MUSEION - Museo d’Arte Moderna e Contemporanea, Bolzano
A casa di Konrad
Quando lo andai a trovare per la prima volta a Bolzano, Flora era morta da due anni. Avevano vissuto in appartamenti separati,
perché lei desiderava così. Non ne conosco le ragioni. Dopo che Konrad ed io ci fummo salutati cordialmente, il mio primo pensiero
era stato: ha arredato il suo appartamento in modo che già ora si abbia l’impressione di trovarsi in un museo che dopo la sua morte
lo ricordi. Ogni cosa aveva un suo posto, pareva disposta ad arte. L’illuminazione faceva sembrare le superfici dei mobili forme
astratte, perfino le mele nella scodella non parevano messe lì per essere mangiate. Forse Flora aveva avuto la stessa sensazione
e per questo non si era mai trasferita da lui.
Avevo conosciuto Konrad a Venezia, è il cugino di una mia collega di lavoro che quel giorno mi aveva mostrato il Gabrielli
Sandwirth, perché conosceva la passione che nutrivo per il grande scrittore di Praga che nel settembre 1913 aveva trascorso
infinitamente infelice la notte nell’albergo. La mia collega non sapeva che anche suo cugino sarebbe stato lì. Konrad era venuto
a Venezia per incontrare il suo committente, un ricco milanese che possedeva numerose case, tra cui una a Gallarate, una sul
lago di Garda e una in Val Gardena; nel frattempo aveva acquistato anche una residenza nei dintorni di Bolzano. Konrad doveva
decorare la tenuta con pitture murali. L’uomo d’affari desiderava per la propria casa un salone veneziano e Konrad doveva occuparsi
non soltanto dei mobili in stile e del vetro di Murano, ma anche dei motivi che poteva integrare nei dipinti sulle pareti e il soffitto. In
quell’occasione avevamo girato per Venezia, visitato i teleri di Carpaccio nella Scuola di San Giorgio degli Schiavoni e cenato insieme.
Konrad mi piaceva e lui, che aveva appena perso la sua compagna di vita ammalata di cancro, era riservato e distratto, ma quando,
al momento di salutarci, gli chiesi l’indirizzo, mi guardò sorpreso e me lo diede.
Ora ero nel suo soggiorno arredato con pochi mobili; mi ero aspettata di trovarci quadri e fotografie, una biblioteca, ma non c’era
niente del genere, solo un paio di tele con soggetto vegetale, che mi ricordava l’erba gamberaia. Sul tavolino scorsi un libro. Ero
curiosa. Ma dato che era foderato non riuscivo a vedere chi ne era l’autore. Non osavo prenderlo in mano.
Konrad disse che era appena entrato dalla porta anche lui e di non essersi ancora cambiato. Stavamo in piedi uno di fronte all’altra
con le mani impacciate. Dal nostro primo incontro a Venezia ci eravamo scritti varie e-mail, per lo più cose senza importanza. Mi
aveva raccontato che gli incarichi del milanese gli consentivano di vivere bene. L’edificio di Bolzano era grande e l’uomo aveva
sempre nuovi desideri. Alla fine gli aveva chiesto di creare nella casa sul Garda una stanza dedicata alle rose. Che esistevano anche
altri metodi, tecniche di riproduzione speciali, tele che possono essere ricoperte di impasti di polvere di pietra e poi stampate, ma
che l’uomo d’affari non voleva dei pseudoaffreschi in cornice, ma vere pitture murali. Nelle sue e-mail Konrad mi aveva raccontato
delle pitture a soffitto che aveva eseguito negli ultimi tempi. Non accennava mai a Flora. Una volta soltanto il tono si era fatto più
personale: scrisse di essere felice della mia visita imminente e che voleva mostrarmi le fotografie scattate per documentare le sue
pitture a parete, perché ovviamente non potevo entrare nelle ville del milanese.
Avevo le gambe doloranti per essere rimasta in piedi a lungo e mi accorsi di avere sete. Mi pregò di mettermi comoda, perché
voleva farsi una doccia. Per un po’ rimasi seduta per terra davanti al tavolo rotondo, non osavo sedermi sul divano. I cuscini erano
perfettamente allineati uno accanto all’altro, cosicché temevo di distruggere qualcosa inconsapevolmente. “Non hai il televisore”
gli dissi ad alta voce, ma non mi sentì, era già troppo lontano da me. La mia collega mi aveva avvertita che non sarebbe stato
facile avvicinarsi a Konrad; che era ancora molto legato a Flora. Se non mi rendevo conto di come stavano le cose. Solo ora notai
la pianta in un vaso marrone, una sagoma rinsecchita che ricordava una cariofillacea. Era molto che non tornava nel suo appartamento, non aveva nessuno che se ne occupasse mentre soggiornava nelle diverse ville del milanese stendendo i colori mescolati
all’acqua di calce sull’intonaco fresco. A dire il vero l’appartamento è un po’ trascurato, pensai, in alcuni punti le tele sembravano
avere macchie di umidità. Ma quando poi ritornò in soggiorno e si sedette accanto a me, avevo di nuovo scordato anche quegli
inspiegabili ritagli bianchi che avevo scorto sul pavimento. Mi sfiorò il braccio e io non capii se volutamente o per caso. Tacevamo
entrambi e fissavamo la luce rossa della lampada da tavolo. Ero infinitamente felice, finché non notai il cavalletto: dove in genere
c’era carta dipinta vi era soltanto una chiazza grigia, come se Konrad avesse cancellato con violenza l’immagine raffigurata. Temeva
che potessi essere gelosa di Flora? “Konrad” dissi piano. Non rispose.
Sul pavimento c’era un quadro appoggiato contro la parete, aveva una cornice dorata.
“È Flora quella?” chiesi e toccai qualcosa di freddo.
“Non può stare lì seduta” disse il sorvegliante del museo.
Mi alzai. Sopra la mia testa c’era solo il lampeggiare della telecamera di sorveglianza.
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MUSEION - Museo d’Arte Moderna e Contemporanea, Bolzano
Matthias Weischer
Ohne Titel, 2006
Affresco realizzato in occasione della mostra
Deutsche Wandstücke: Sette scene di nuova pittura germanica
27 maggio – 27 agosto 2006, MUSEION, ex-sede in via Sernesi
© Foto di Hartmut Nägele
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Gianni Biondillo
Gianni Biondillo è nato a Milano, dove vive, nel 1966. Architetto e saggista (Metropoli per principianti, 2008), scrive
per il cinema e per la televisione. Fa parte della redazione
di “Nazione Indiana”. Il suo primo romanzo, pubblicato nel
2004 per i tipi di Guanda, è Per cosa si uccide. Sempre per
Guanda sono usciti Con la morte nel cuore (2005), Per sempre giovane (2006), Il giovane sbirro (2007) e Nel nome del
padre (2009). È curatore della raccolta di racconti erotici Pene
d’amore ed è coautore di Manuale di sopravvivenza del padre
contemporaneo.
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PAC - Padiglione d’Arte Contemporanea, Milano
PAC - Padiglione d’Arte
Contemporanea, Milano
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Gianni Biondillo per il PAC - Padiglione d’Arte Contemporanea, Milano
PAC domestico
La sera del 27 luglio 1993 mio padre uscì per una cena con i suoi colleghi di lavoro. Avvenimento raro per un uomo che tanto
quanto fu scavezzacollo in gioventù, altrettanto, negli anni, s’era fatto pantofolaio e teledipendente. Trovai la cosa piacevole, ne ero
felice, quasi come se dovessi andarci io in compagnia, fra amici, a mangiarmi una pizza, come dei ragazzini alla loro prima libera
uscita, a pochi anni dalla pensione. Bello. Semplice e bello.
Intorno alle undici di sera - il televisore era ancora acceso, ma lo guardavo distratto preso dalla lettura di non ricordo quale libro
- giunse la notizia: un’esplosione, a Milano. Avevo gli occhi increduli incollati al televisore. Mi montò come un irrefrenabile desiderio di condividere con qualcuno la notizia. D’istinto mi diressi verso la camera da letto dove già da un paio d’ore dormiva mia
madre, dopo l’ennesima giornata di fatica, ma mi bloccai quasi subito. Che senso aveva svegliarla, povera donna, per metterla a
conoscenza di un avvenimento così disgraziato, così triste? Quanto c’era di crudelmente voyeristisco nella mia eccitazione di inerte
spettatore televisivo?
Ma non era solo per quello che mi fermai sulla soglia. Era che, senza ragione alcuna, avevo associato l’esplosione, avvenuta in
un punto qualunque della città, all’assenza domestica di mio padre. Come se, fuori dalla porta di casa, Milano fosse un semplice,
minuscolo, gruppo di case, due strade strette, un paesello, quasi che, se avessi teso l’orecchio, avrei persino sentito il riverbero
dell’esplosione. Io lì protetto dal soffitto, dalle tapparelle abbassate, dalla porta, dai muri, e mio padre fuori, nel minuscolo nulla,
ad un passo dalla bomba. Non aveva senso alcuno, lo so. E lo sapevo anche allora, mentre, ragionevole, cercavo di mantenere la
calma. Da un momento all’altro mio padre avrebbe infilato le chiavi di casa nella fessura, pochi minuti ancora e gli avrei fatto un
caffè, con piacere, come sempre facevo per il gusto di vederglielo bere prima di andare a dormire (e come dormiva mio padre,
indifferente alla caffeina! Lo faceva con un talento tutto suo. Metteva voglia di cadere in catalessi, insieme a lui).
Mi tenni la notizia tutta per me, abbassai il volume e mi avvicinai al televisore. Non servì a molto. Mia madre non dormiva. Non
dormiva mai mia madre se qualcuno mancava all’appello domestico. S’era allenata per anni, quando il suo unico figlio, adolescente
mediamente inquieto, usciva di casa per tornare sempre più tardi, di anno in anno, di sabato sera in sabato sera. Continuava,
imperterrita, anche quando ormai ero all’università, ad un passo dalla tesi di laurea: era come un suo dovere scritto nel codice
genetico. Ed io tutte le notti ad improvvisare un rientro silenzioso, scarpe alla mano, inutilmente, perché lei era lì, seduta al tavolo, in
attesa che tutti si fosse nel nido. Era inutile dirle di non preoccuparsi, di tornare a letto - come faceva mio padre, che invece dormiva
della grossa, indifferente - doveva farlo quella donna, come un ordine, come un precetto, e lo faceva con un rigore ascetico, da
missionaria. E così anche quella notte. Probabilmente non s’era ancora alzata dal letto, non era ancora venuta in soggiorno dove
fin da ragazzino mi coricavo sul mio divano-letto, per non disturbarmi, convinta che stessi dormendo. Probabilmente alzandosi per
andare in bagno, buttato un occhio sul letto vuoto, comprese che poteva rompere gli indugi e mi si fece affianco.
“Cosa succede?” mi chiese.
“Un’esplosione.”
“Una fuga di gas?”
“Sembra sia una bomba.”
Cercavo d’essere evasivo, ma il telegiornale non ammetteva tali sensibili accorgimenti nella diffusione delle notizie. Il giornalista
affondava il coltello nei fatti, eccitato.
“Ma è qui, a Milano” disse. E sembrava dicesse: “Qui, sotto casa, in cortile.”
“Sì” risposi, fingendo indifferenza.
“Chi è stato?”
Ancora non c’era certezza a chi fosse attribuibile l’attentato. Nessuno ancora se ne era fatto vanto, anche se appena due mesi
prima, a Firenze, all’Accademia dei Georgofili, la mafia di Totò Riina aveva iniziato la sua sfida frontale nei confronti dello Stato.
Rimbalzavano da giorni, un po’ dappertutto, le immagini della Torre de’ Pulci ridotta ad un ventre sbudellato. E i morti, i feriti, i
danni al patrimonio artistico, librario... non ci voleva molto a comprendere di chi fosse la firma di tale scempio.
“Ma dov’è successo, esattamente?”
E a questa domanda non sapevo dare una risposta chiara. Non a mia madre. Non la sapevo dare neppure a me stesso a dir la
verità. C’era come un’eleganza nella scelta del sito da parte degli attentatori che mi spiazzava.
Al PAC.
Il mio PAC, col suo acronimo così futurista (PAC-ZANG-BOOM!), il PAC delle mie visite giovanili con un amico studente di Brera
che mi indottrinava all’arte contemporanea, il PAC della mostra di Pascali nell’87, quando ero già all’università, mentre il PAC lo
studiavo in storia dell’architettura contemporanea, il PAC di Gardella, col suo linguaggio antiretorico, con la sua modestia, con
la sua humilitas lombarda, borromaica, con quell’assenza elegante e chiassosa di una facciata sulla via Palestro, come volesse
scomparire per lasciare la scena alla Villa Reale del Pollak, il PAC che si svela nel retro, con la sua vetrata sui giardini reali - il più bel
giardino di Milano forse - le sue piastrelline color caramello, le sue grate di chiusura, bianche, sollevate da un sistema di carrucole
esposte allo sguardo di tutti, orgogliose della propria operosità, il PAC dei sette savi di Melotti, il mio Melotti, il mio adorato Melotti.
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PAC - Padiglione d’Arte Contemporanea, Milano
PAC - Padiglione d’Arte Contemporanea, Milano
© Foto di Guido Cataldo, 2002
Come se la mafia, l’odioso cancro, il bubbone ramificato, la pustola infetta, sapesse distinguere, con raffinata sapienza, il carattere
di una città, come se avesse scientemente, esteticamente, rappresentato il suo attacco al corpo civile che voleva disperatamente
espellerlo: un palazzo un po’ polveroso, storico, accademico, degno del suo passato, per Firenze, mentre per Milano, di tutti i suoi
monumenti - bastavano una manciata di metri per essere nel cuore del ‘700 - proprio il Padiglione d’Arte Contemporanea, come
per colpirla nel suo essere in fieri, una città in atto, in movimento, progettante (eppure, moralmente, già da un anno in ginocchio,
nella bufera di tangentopoli, fuori dalle illusioni rampantistiche del decennio precedente).
Come potevo restituire questi pensieri confusi a mia madre, che già palpitava, chioccia, per l’assenza del marito? Quello che potevo
fare era prenderla in giro, operare una diminutio, dissacrare la sua paura, camuffando la mia, di paura. Farla sentire infantile,
dirle, mentre buttavo un occhio all’orologio appeso al muro, che non c’era da preoccuparsi, che chissà dov’è ora papà, a ridere
e a cantare.
Poi arrivò esagitata la notizia che c’erano sicuramente delle vittime. Mi franò addosso tutta un’inquietudine confusa, che spazzava
il dispiacere per la violenza inferta al mio amato PAC e ai sette savi di Melotti divelti nel giardino (forse ancora più increduli di
me), per dare spazio ad una paura panica nei confronti di quelle morti televisive, qualcosa che era ben oltre l’umana pietà, era al
limite dell’egoismo di specie, era una preghiera brutale, era la speranza angosciosa che mio padre fosse da tutt’altra parte, lontano
chilometri da quei morti.
Della struttura d’acciaio del PAC, dei suoi spazi espositivi, delle sue vetrate, non mi interessava più nulla, mentre tranquillizzavo
con una urbanità stucchevole mia madre, cercando inutilmente di farla tornare a letto. E, dissimulata, mi montava una rabbia
illogica per quel marito crudele che neppure si faceva sentire, per quel padre egoista che non dava segno di sé, come se fossi
quasi io il genitore in attesa, come se stessi facendo le prove generali della mia paternità a venire, insonne, in attesa del rientro
notturno della mia futura prole.
Poi sentimmo il rumore delle chiavi nella toppa.
Il volto innocente di mio padre, la sua allegria etilica, annullò la catastrofe, escludendola come per magia, semplicemente richiudendo la porta di casa, e il dolore del mondo, dietro di sé.
Anni dopo seppi che in realtà la bomba era prevista per il Palazzo della Stampa, in piazza Cavour e che esplose per errore al PAC.
La verità è che i mafiosi erano ben più grezzi, ben più banali, di quanto m’ero immaginato in quella notte ansiosa.
Non volli andare a vedere le ferite del PAC, benché molto se ne parlò fra architetti, non volli seguire le fasi del cantiere di ripristino.
Aspettai.
Lo rividi in una bella giornata di fine luglio, nel 1997, mentre il gruppo degli invitati si sfrangiava nel parco dopo le foto di rito,
allentandosi le cravatte, facendosi aria con le mani o con ventagli di fortuna. Mi presi pochi secondi di intimità dalla piccola folla
festante, mi regalai alcuni attimi di solitudine dalla donna che avevo da pochi minuti sposato nella sala delle cerimonie del Comune
di Milano, posta al piano terra della Villa Reale. Buttai un occhio al PAC, come per assicurarmi che gli incubi fossero passati. Mi
persi nel silenzio mistico dei savi di Melotti, il mio amato Melotti. Poi ripresi la strada degli amici festanti, dei parenti gioiosi, dei
genitori commossi.
Mio padre è morto nel 2006, per un tumore alla vescica. Credo non sia mai entrato al PAC in tutta la sua vita. Io, invece, ogni
tanto ci torno, come a trovare un amico. Passo di qui con le mie due bambine e giochiamo a nascondino, o ai quattro cantoni,
zampettando di savio in savio; loro, i savi, impettiti e ascetici, subiscono tetragoni e leggeri le risa infantili. Io butto ogni volta un
occhio dentro la vetrata. Il PAC è lì, col suo acronimo futurista e domestico, in allestimento, paziente.
Ho deciso: alla prossima mostra ci entro con le bambine. È tempo.
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Paolo Nori
Nasce a Parma nel 1963. Ha pubblicato Le cose non sono
le cose (Fernandel, 1999), Bassotuba non c’è (DeriveApprodi, 1999), Spinoza (Einaudi, 2000), Diavoli (Einaudi,
2001), Grandi ustionati (Einaudi, 2001), Si chiama Francesca, questo romanzo (Einaudi, 2002), Gli scarti (Feltrinelli,
2003), Pancetta (Feltrinelli, 2004), Ente nazionale della cinematografia popolare (Feltrinelli, 2005) I quattro cani di Pavlov
(Bompiani, 2006), Noi la farem vendetta (Feltrinelli, 2006), La
vergogna delle scarpe nuove (Bompiani, 2007), Tre discorsi
in anticipo e uno in ritardo (DeriveApprodi, 2007), Siam poi
gente delicata (Laterza, 2007). Ha tradotto e curato l’antologia
degli scritti di Daniil Charms Disastri (Einaudi) e l’edizione dei
classici di Feltrinelli di Un eroe dei nostri tempi di Lermontov
e delle Umili prose di Puškin ed è autore, insieme a Marco
Raffaini, di una Storia della Russia e dell’Italia (Fernandel,
2003).
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SMS Contemporanea, Siena
SMS Contemporanea,
Siena
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Paolo Nori per SMS Contemporanea, Siena
Il racconto di Paolo Nori è stato scritto quando il Centro Arte Contemporanea del Comune di Siena (oggi trasferito
al Santa Maria della Scala col nuovo nome di SMS Contemporanea) si trovava ancora a Palazzo delle Papesse.
Una cosa del genere
A Siena, a pensarci, non son mai andato in autobus. Ci sono, degli autobus, che passano, ogni tanto. Piccoli. Ci son le strade
piccole. Solo che io, quando arrivavo in stazione ho sempre preso un taxi che mi portava alle Papesse, o all’università. Poi dopo
ho imparato che era meglio andare in corriera. Che i taxi, alla stazione di Siena, non è che c’è sempre pieno, di taxi, le corriere,
invece, parti da Firenze, o meglio ancora da Bologna, arrivi direttamente in centro, quando sei in centro poi a piedi vai alle Papesse,
o all’università. Sbagli strada, due o tre volte, ma almeno cammini. Mica come star fermo giù in basso ad aspettare dei taxi che
non arrivano mai che ti vengon di quei nervosi.
Io, Siena, non la conosco bene. Una città uno può dire di conoscerla bene solo se è stato sugli autobus, di quella città, mi sembra.
Andare sull’autobus, per me, di una città, è come andare a trovare uno a casa.
Come Parma. Io Parma è una vita, che la giro in autobus. Ormai siamo in confidenza, con Parma.
Stamattina, ero su un autobus, avevo appena cominciato a leggere un libro che comincia così: Io sono Max Schulz, figlio illegittimo,
ma ariano purissimo, di Minna Schulz, che all’epoca della mia nascita faceva la cameriera in casa del pellicciaio ebreo Abramowitz.
La mia origine ariana è fuori discussione poiché l’albero genealogico di mia madre, Minna Schulz, magari non si spinge fino alla
battaglia del Teutobruger Wald, ma ha pur sempre radici che risalgono a Federico il Grande. Chi fosse mio padre non saprei dirlo
con esattezza, ma dev’essere sicuramente uno di questi cinque: il macellaio Hubert Nagler, il fabbro Franz Heinrich Wieland, il
muratore Hans Huber, il cocchiere Wilhelm Hopfenstange o il maggiordomo Adolf Hennemann.
Avevo appena cominciato a leggere quando ho sentito una ragazza che diceva, forte, dentro un telefono, Ti renderò felice un giorno.
E poi ripeteva, ancora più forte, Ti renderò felice un giorno. Quando morirai sarò al tuo fianco. E poi, ripeteva, ancora più forte,
Quando morirai sarò al tuo fianco. Poi diceva, un po’ più piano, Va bene, ciao.
Nell’autobus ci eravamo girati tutti a guardarla poi, due secondi, eravam ritornati tutti ai nostri mestieri, io mi ero rimesso a leggere,
avevo letto il seguito che faceva così: Ho esaminato scrupolosamente l’albero genealogico dei miei cinque padri e vi posso assicurare che l’origine ariana di tutti e cinque è più che garantita. Quanto al maggiordomo Adolf Hennemann… sono fiero di poter dire
che uno dei suoi antenati era soprannominato Hagen, il Gran Ciambellano della Chiave ed era il vassallo prediletto del valoroso
cavaliere Siegismund von der Weide, il quale gli affidava una certa chiave in segno dell’immensa fiducia che nutriva per lui. Più
precisamente la chiave della cintura di castità della sua sposa.
E in quel momento avevo sentito un bambino, seduto vicinissimo a me, mezzo metro più in basso, io ero sulla ruota, a me piace
la ruota, ho sentito un bambino compitare una targhetta attaccata vicino al suo posto Ri-ser-vato ai mu-ti-lati e agli in-validi. E poi
chiedere Mamma, chi sono i mu… mutilati? Sono quelli che gli manca un braccio o una gamba. E gli invalidi? Anche loro.
Il bambino l’aveva guardata, E io? le aveva chiesto. E io ho avuto l’impulso di alzarmi e di dirgli Anche tu, anche tu. Stai tranquillo.
Stai pur seduto. Anche noi, anche noi. Stai tranquillo. Stai pur seduto. Invece non gli avevo detto niente, sua mamma gli aveva
detto No tu no.
Ecco io una cosa del genere, Anche noi, anche noi, a Siena, non mi sarei mai azzardato ad avere l’impulso di dirla. Una città come
Siena. Con dei posti così belli come le Papesse. O l’università.
SMS Contemporanea, Siena
Nari Ward, Bottle whispers, 2006,
veduta dell’installazione a Palazzo delle Papesse
© Foto di Carlo Fei
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SMS Contemporanea, Siena
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Silvio Perrella
Nasce a Palermo nel 1959. Vive e lavora a Napoli. E’ autore
di Calvino (Laterza, 1999), di Fino a Salgareda. La scrittura
nomade di Goffredo Parise (Rizzoli, 2003) e di Giùnapoli (Neri
Pozza, 2006). Ha curato e introdotto il Meridiano Mondadori
dedicato a Raffaele La Capria. Ha, tra l’altro, curato e introdotto: Il critico come artista di Oscar Wilde (Feltrinelli, 1995),
L’aria della sera e altri racconti di Silvio D’Arzo (Bompiani,
1995), Nel ventre della balena e altri saggi (Bompiani, 1996),
Verba volant. Profezie civili di un anticonformista (Liberal,
1998), New York di Goffredo Parise (Rizzoli, 2001), Lontano
di Goffredo Parise (Avagliano editore, 2002), L’estate e altri
saggi solari di Albert Camus (Bompiani, 2003, con Caterina
Pastura), Cronache dell’al di qua di Ottiero Ottieri (Avagliano
editore, 2005, con Maria Pace Ottieri), Quando la fantasia
ballava il boogie di Goffredo Parise (Adelphi, 2005), Il ragazzo
morto e le comete di Goffredo Parise (Adelphi, 2006). E’ presidente della Fondazione Premio Napoli. Dirige la rivista mediterranea «Mesogea». Collabora prevalentemente a «L’Indice»
e a «Il Mattino». E’ professore a contratto dell’Università “Orientale” di Napoli.
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Castel Sant’Elmo, Napoli
Soprintendenza Speciale
per il Patrimonio Storico,
Artistico ed Etnoantropologico
e per il Polo Museale
della Città di Napoli Castel Sant’Elmo
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Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico
ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della Città di Napoli - Castel Sant’Elmo
Veduta di Castel Sant’Elmo
© Foto di Luciano Basagni
Silvio Perrella per la Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico ed
Etnoantropologico e per il Polo Museale della Città di Napoli - Castel Sant’Elmo
Verso Sant’Elmo
Dove sono? Già all’interno del castello o ne sono ancora fuori? Cammino nella vasta, ventosa e dechirichiana piazza d’armi o sono
giùnapoli, percorrendo uno dei decumani, e girandomi all’improvviso ne acciuffo la sagoma stellata con la coda dell’occhio?
Entrando nel primo cortile della Certosa di San Martino, e alzando gli occhi, Sant’Elmo mi era apparso come una gigantesca nave
tufacea. Sembrava la nave di Fitzcarraldo, impigliata per chissà quale sortilegio della storia nel cielo della città.
Eh, sì, perché Sant’Elmo è in alto, la città la domina, ed è un luogo in cui far girare gli occhi per raggiungere i vicini altrove di
Napoli.
Da qui si ha l’illusione di potersi impadronire con gli occhi di ciò che si vede. E cosa si vede?
Innanzitutto c’è la città, c’è Napoli. Da una parte il centro antico, Santa Chiara, il suo campanile, il sistema dei decumani; dall’altra
il Monte Echia, Pizzofalcone, Montedidio, Castel dell’Ovo a far da confine tra due mari immaginari: il mare del porto a sinistra e il
mare di Mergellina e Posillipo a destra. Ma basta alzare un po’ lo sguardo ed ecco la costiera sorrentina, che è come un braccio
che sembra fuggire dallo sterminator Vesevo, lasciandosi alle spalle il golfo di Castellamare di Stabia, e arrivando fino alla punta
della Campanella, dirimpettaia della vicina Capri; e dall’altro la discesa lieve e di nuovo tufacea di Capo Posillipo.
Ma non basta, perché, dietro Posillipo, non solo si apre un altro golfo, quello di Pozzuoli, chiuso da Capo Miseno, ma subito dietro,
se potessimo volare con gli occhi, vedremmo prima Procida, e poi Vivara e Ischia.
E’ inutile dirlo: si tratta di un visibilio. Gli occhi cominciano a ruotare, non sanno più dove trovare riposo. E dov’è, se c’è, il nesso
tra luoghi così diversi? Tra le Pompei del passato e quelle dell’oggi?
Visti, non da qui, ma da giù, dal mare, Sant’Elmo, Castel dell’Ovo e Maschio Angioino, i tre castelli, formano un triangolo. Ma
dall’alto il vertice si capovolge, e il triangolo è un altro triangolo. Immagino che i castelli siano connessi da funicolari invisibili, che
vanno su e giù e congiungono la città fratturata ed esplosa dandole una grandezza e una vastità segrete.
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Castel Sant’Elmo, Napoli
Sì, ma i castelli a Napoli non sono sorti per difenderla, la città, lo vedo bene; sono sorti piuttosto per offenderla, per tenerla in
scacco, per rinchiudere nelle loro cavità i cittadini che s’erano macchiati di orgoglio rivoluzionario. Guardo ancora una volta i
cannoni di Castel dell’Ovo, puntati non verso il mare, ma contro la città. E sarebbe proprio giunto il tempo, di girarli, quei cannoni,
o di toglierli del tutto. Via, sciò.
Proprio di fronte all’ingresso di Sant’Elmo dovrebbe aprirsi una fermata di una funicolare vera, quella di Montesanto, la più interclassista tra le funicolari. Fuori c’è un cartello arrugginito, con su scritto il progetto, e con il progetto la speranza che il vagoncino
che sale in verticale possa far sosta lì, e far scendere stranieri e autoctoni in cerca d’immagini: quelle di dentro e le altre di fuori.
Eh, sì, perché a Sant’Elmo ci si può anche andare a cercare opere d’arte. Quando c’è una mostra, ci si va a cercare immagini
dipinte o fotografate, le si paragona con le immagini del fuori, della città al contempo onirica e reale che si stende laggiù.
Le immagini si moltiplicano, la nave tufacea ci porta in giro per il mondo, standosene immobile. Il ponte levatoio si chiude, la
navigazione ha inizio. E se voglio scendere?
Ma come posso davvero arrivare all’alto castello? Prendo, come suggerisce Leopardi, le erte vie, uso le gambe, oriento i passi,
facendo attenzione a non sprecare fiato. Mi arrampico per le vie verticali e fitte di scalini del Petraio. Che regalo, fatto a se stessi,
immergersi nel tufo, voltarsi di tanto in tanto a scorgere l’ondosità lontana del mare, e finalmente sentire sotto il piede stanco l’inizio
della discesa.
Sono dentro Sant’Elmo? C’è una mostra? O è solo una mattina solitaria: silenzio, vento, e occhi che guardano?
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Francesca Bona di San Giulio
Francesca Bona di San Giulio è un’autrice autodidatta che
ha pubblicato finora, in lingua inglese per la Wales & Penguin Press, prevalentemente racconti legati ai temi acquatici
e marini. Scrive di arte contemporanea e moda su riviste di
settore.
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Villa Giulia - CRAA Centro Ricerca Arte Attuale, Verbania
Villa Giulia
CRAA Centro Ricerca
Arte Attuale, Verbania
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Francesca Bona di San Giulio per Villa Giulia - CRAA Centro Ricerca Arte Attuale, Verbania
1904
Giulia capì finalmente che tutto il tempo era stato sprecato invano e che, aldilà della sua buona volontà, i risultati non erano e non
sarebbero stati quelli desiderati. Quel vestito troppo attillato le metteva in risalto il seno, ma il ventre risultava sgraziato e troppo
gonfio per quel modello. Eppure il dottore le aveva assicurato che al terzo mese di gravidanza, nessuno si sarebbe accorto del suo
stato. La matita nera del rimmel che stava utilizzando per scurire il contorno degli occhi fece una leggera sbavatura e fu obbligata
a ricominciare con l’operazione del trucco agli occhi. La sua ex suocera, sopravvissuta al figlio morto accidentalmente, ma non si
seppe mai veramente la verità, spiava dall’altra sponda del lago, dalla terrazza prospicente, quella della sua villa, ogni sua mossa
con un potentissimo binocolo Zeiss, che si era fatta appositamente allestire per avere una visione ancor più dettagliata delle mosse
e degli spostamenti della nuora su cui avrebbe voluto ancora, e per sempre, esercitare un inesorabile potere. Giulia però non
si era lasciata intimorire e aveva cambiato e migliorato la sua vita, nulla lasciando dell’alto tenore acquisito con quell’altolocato
matrimonio. Tirò infine un lungo respiro, poi espulse quanta aria aveva nei polmoni e infine agganciò all’ultimo dei passanti la
cinghia di cuoio che le serrava la vita. Presentarsi a un appuntamento, molto particolare, senza essere all’altezza desiderata non
se lo sarebbe mai perdonato. Il suo volto radioso, ora ben truccato e più disteso, faceva trasparire quanto portava in grembo e,
seppur non sapesse di chi fosse il figlio, la fece esplodere in un appagato e illuminato sorriso. L’abito frusciava e si inframetteva
fra le sue coscie nude lasciando trasparire l’anatomia del suo corpo che, sia d’estate che d’inverno, era messa in risalto da abiti
la cui stoffa aderiva, si incollava e poi scivolava via, sulla sua pelle sempre nuda. Spesso, soprattutto con la bella stagione, Giulia
aveva abiti così aderenti che le si poteva scorgere l’anatomia dell’ombelico, la rotondità dei capezzoli del seno o le fossette che si
disegnavano sulle natiche nel momento in cui le serrava nello sforzo fisico. I fiori delle stoffe si applicavano al suo corpo come dei
tatuaggi aderendo ai nervi, alle ossa e ai muscoli, divenendo un tutt’uno con il resto della figura.
Le amiche di Giulia l’avevano avvertita più volte delle mosse dell’ex suocera, del suo potente cannocchiale e della sua ingerenza
sugli affari di famiglia che ancora avevano in comune e che amministratori avidi gestivano, spesso in combutta fra loro, per lucrare meglio alle spalle delle due donne che facevano finta di nulla pur essendone perfettamente informate. Anche Giulia si era
procurata un cannocchiale simile a quello della suocera, l’aveva piazzato sulla balaustra prospicente il lago, ben in vista dalla riva
opposta, e l’aveva puntato alle stelle, come a indicare che il suo sguardo era superiore e volto altrove, non alle cose terrene, ma in
alto, molto in alto, e l’aveva abbandonato lì senza mai usarlo. Eppure quella rivalità la faceva soffrire e sentiva che l’anello spezzato
della famiglia avrebbe dovuto ricomporsi un giorno solo per onorare quell’amore diviso, diverso e comune che comunque c’era
e ci sarebbe sempre stato fra lei e la madre di suo marito. Ma questi erano pensieri che da sempre albergavano nella sua mente
e in quel momento proprio non potevano avere seguito, la gravidanza doveva assolutamente procedere al meglio e comunque la
sua nuova storia d’amore, l’ennesima dopo la morte di Alessandro, era preponderante sui cattivi pensieri, fece un altro sorriso e si
diresse in giardino dove l’attendeva, sotto la pergola, un giovine nudo e annoiato. A Giulia piacevano questi «giochi». Licenziava
per un giorno tutta la servitù, non prima che avesse allestito sotto il gazebo un sontuoso pranzo o un cena raffinata, sprangava il
cancello della villa e invita a turno un ragazzo, anche sconosciuto, per usarlo come spesso facevano gli uomini nel 1904 con certe
signorine pronte, per lucro, ad assecondare le voglie e i desideri di qualsivoglia signore danaroso.
La ricerca della preda avveniva in modo semplice e per nulla laborioso. Giulia si recava in visita presso un’amica il cui marito possedeva una fabbrica o un’azienda o vasti terreni agricoli, chiedeva poi all’amica di visitare i possedimenti o le officine e, fingendo
attenzione alle macchine dell’industria o agli ortaggi dei campi, selezionava invece con attenzione le maestranze dei lavoratori,
vagliandole con infinita attenzione e con occhio clinico. Erano ovviamente scartati tutti gli impiegati, le «mezzemaniche» e quelli
che dimostravano più di venticinque anni. Le presse, le macchine sbuffanti vapore, le mietitrici e gli erpici abbisognavano di braccia
forti e giovani e fra gli ingranaggi dei macchinari, Giulia trovava i suoi migliori incontri. Dopo avere individuato il soggetto e scelto con
una rapida occhiata il ragazzo, a lei poco bastava, il suo segretario personale e omosessuale si occupava di tutto il resto. Trovava
l’occasione di parlargli, di offrire quanto più poteva per convincerlo e fissava l’appuntamento in un hotel del lago con molto anticipo,
fingendo che l’incontro fosse con lui. Quindi il giorno stabilito parcheggiava la sua auto di fronte all’ingresso dell’hotel almeno una
mezz’ora prima dell’orario stabilito e attendeva la preda. All’arrivo del ragazzo scendeva ossequiosamente dall’auto, gli serrava la
mano in modo mellifluo e lo faceva salire, poi lo conduceva alla villa di Giulia e qui gli dava ordine di accomodarsi nudo sotto il
gazebo o in veranda o altrove e che lui sarebbe arrivato poco dopo. Il segretario, affascinato dalla spigliatezza e dalla sfrontatezza
della donna, l’aveva eletta a musa e nume ispiratore e per lei avrebbe fatto qualsiasi cosa, riconoscendole una venerazione e un
affetto che avrebbe potuto portarlo presto alla confusione dell’omosessuale innamorato di una donna che non avrebbe mai potuto
né possedere né amare. Giulia, consapevole di questa malìa, ne approfittava quanto più poteva, pur non essendo una donna cinica,
ma il gioco erotico che aveva cominciato, rivendicava pur delle vittime e dei sacrifici.
Il suo nome durante questi incontri non veniva mai pronunciato e una mascherina di crespo le celava il volto durante gli incontri,
garantendole l’anonimato. A Giulia piaceva possedere con il solo sguardo le persone e possedere un uomo nel 1904, come spesso
gli uomini possedevano le donne, la rendeva forte e sicura. Durante questi giochi abbozzava una conversazione che per il ragazzo
convenuto, spesso ignorante e non istruito, risultava difficile e faticosa. Talvolta, in rari casi, tutto si svolgeva in un modo tranquillo
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Villa Giulia - CRAA Centro Ricerca Arte Attuale, Verbania
Villa Giulia - CRAA,
Verbania
e fluido, le parole si susseguivano e si sviluppavano nello spazio in modo armonico e gentile e in quei casi Giulia si sentiva felice,
il suo sguardo poteva ammirare un corpo bellissimo, privo di barriere, adagiato in una delle sue poltrone o in una chaise-longue
e il mormorio della conversazione la confortava dalla solitudine e dalla rabbia di aver perso un marito così giovane e così amato.
La sua era come una rivalsa nei confronti della società che non le permetteva di essere ciò che avrebbe voluto e l’indennizzo per
una vedovanza così precoce.
Quel giorno Giulia avrebbo voluto gridare la sua felicità per la gravidanza che portava con sé, ma indossò invece la maschera di
crespo e si avvicinò al ragazzo che, attendendo invece il segretario, sussultò in un’espressione di stupore e apprensione. Automaticamente la sua baldanza, che nella sua mente sarebbe stata rivolta a un uomo, si trasformò in terrore e un gesto pudico lo portò
a nascondere il sesso con le mani serrate a conchiglia. Ma da lontano, dietro Giulia, sulla soglia della villa, il segretario gli fece un
segno di assenso e il giovane capì che il gioco si sarebbe svolto differentemente.
Giulia versò qualcosa da bere e ne offrì immediatamente al ragazzo che, per prendere il bicchiere, fu obbligato a lasciare intravedere la parte più intima del suo corpo. A quel gesto Giulia lo invitò a non nascondersi e avviò timidamente la conversazione
chiedendogli: «Qual è il tuo nome?»
«STOOOOOP ! ! ! ! Fine scena 85 seconda. Si riprende fra un’ora. Tutti al trucco!» urlò un operatore.
Così terminò la registrazione di una puntata della telenovela erotica più seguita negli ultimi tempi su ErosViewTV.
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I LOVE MUSEUMS
Finito di stampare nel mese di settembre 2009
presso Tap Grafiche S.p.a.
Poggibonsi (SI)