L`arte perduta di guarire

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L`arte perduta di guarire
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BERNARD LOWN: L’arte perduta di guarire
Bernard Lown: L’arte perduta di guarire
Parte I
(G Ital Cardiol 2009; 10 (9): 612-632)
Titolo originale
The Lost Art of Healing
© 1997 Garzanti
Editore SpA
Traduzione italiana di
Cristina Spinoglio
pubblicata su licenza di
Garzanti Libri SpA,
Milano.
Prefazione
La medicina degli Stati Uniti è unanimemente
considerata la migliore del mondo. Non passa
giorno senza assistere a un importante passo
avanti in campo scientifico, molte malattie un
tempo mortali oggi sono curabili e la gente, in
media, è più sana e vive più a lungo. Tuttavia
l’insoddisfazione del paziente nei confronti
del medico non è mai stata tanto sentita. Anche se aumenta la competenza dei medici nel
curare la malattia e prolungare la vita, i malati sono diffidenti, sospettosi e addirittura ostili nei loro riguardi. Sorpresa, imbarazzo e risentimento si diffondono quindi nella classe
medica, che non può astenersi dall’ammettere la presenza di una profonda crisi del sistema sanitario. Date le spese esorbitanti del settore, che ammontano a mille miliardi di dollari l’anno, le possibili e numerose soluzioni
comportano costi ancora più alti. Con questo
libro, mi propongo di offrire uno sguardo diverso sui problemi del nostro sistema sanitario
e di suggerire una differente conclusione.
Credo che la crisi profonda che dilania la
medicina contemporanea sia soltanto in parte
dovuta ai costi crescenti che la società deve sostenere: il problema è più globale e non si limita all’economia. La medicina, a mio avviso,
ha perso la sua strada, se non addirittura la
sua anima. Il patto non scritto tra medico e
paziente, consolidatosi attraverso i millenni,
sembra essersi infranto.
Nel corso della mia vita professionale ho
assistito a un percorso singolare: la medicina è
giunta al suo apogeo, in un alone di rispetto
che ha rasentato l’adulazione, per poi cadere
in disgrazia, dopo l’inizio di un repentino rovesciamento della sua immagine, che continua a deteriorarsi. Verso la metà del nostro
secolo la figura del medico relegava nell’ombra quelle di qualsiasi altra professione o vocazione. Paradossalmente, sembra ora che
ogni nuovo miracolo della medicina abbia come conseguenza un appannamento e una
perdita di lustro dell’immagine. I medici hanni una reputazione più bassa che mai, eccetto
forse ai tempi biblici quando l’Ecclesiaste salmodiava: «Egli che ha peccato contro il suo Signore, fallo cadere nelle mani dei medici».
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Nessuna significativa trasformazione sociale nasce da un’unica causa. Riflettendo su
quarantacinque anni di pratica medica, mi accorgo che qualcosa di fondamentale rischia di
venire vanificato. A volte mi pare addirittura
che la medicina stia per essere coinvolta in un
patto faustiano. Una tradizione di tremila anni, che univa medico e paziente in un rapporto fondato sulla fiducia, sta per essere trasformata in un nuovo tipo di relazione. Il processo della guarigione è sostituito dal trattamento, la cura è soppiantata dalla presa in carico
e banali procedure tecnologiche prendono il
sopravvento sull’arte di ascoltare. I medici
non assistono più la persona, ma si occupano
di parti biologiche frammentate che non funzionano più. Il più delle volte l’essere umano
che soffre viene escluso dalla transazione.
L’introduzione di tecnologie sempre più
sofisticate è certamente una delle ragioni di
questo stato di cose.
Confrontata con le nitide immagini apportate dagli ultrasuoni, dalla risonanza magnetica, dalla tomografia computerizzata, dall’endoscopia e dall’angiografia, l’anamnesi
del paziente diventa vaga, confusa, soggettiva e apparentemente irrilevante. Inoltre ci
vuole un certo tempo per ricostruire un’anamnesi completa. Per molti medici la tecnologia è diventata un sostituto sufficiente al
colloquio con il paziente.
Il declino del prestigio di cui godevano i
medici è stato accelerato anche dall’incredibile arroganza che viene instillata negli studenti in medicina. Si insegna loro un modello medico riduttivo, in cui gli esseri umani sono considerati complesse macchine biochimiche. Una
persona ammalata è semplicemente un ricettacolo di organi che funzionano male o di sistemi regolatori fuori uso che reagiscono alla
somministrazione di sostanze chimiche. Fedele a questo modello, il medico, come un perfetto scienziato, utilizza strumenti sofisticati e
metodi all’avanguardia, impegnandosi in un
atto di vera e propria ricerca.
Non è soltanto il contemporaneo concetto
filosofico di malattia a rinforzare questa visione delle cose, ma anche potenti motivazioni
economiche. La società valorizza la tecnologia
molto di più dell’ascolto o della disponibilità a
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dare dei consigli. Il tempo trascorso in sala operatoria ad
applicare tecniche invasive riceve compensi dieci volte superiori al dialogo con il paziente o con la sua famiglia. Oltre a rendere superfluo il discorso, la pratica medica corrente si concentra sulle malattie acute o sulle emergenze
ed è quasi del tutto indifferente alla prevenzione e alla difesa della salute. Poiché la medicina preventiva richiede
molto tempo, anche se è considerata come l’approccio più
valido alla malattia nel rapporto costi-benefici, essa viene
completamente trascurata. Una prevenzione efficace ha
sempre un ruolo marginale rispetto alle cure d’emergenza,
che sono circondate da un alone di eroismo.
Sono convinto che la situazione non verrà cambiata da
incrementi economici. Il declino continuerà finché i medici
non riprenderanno contatto con la loro tradizione di guaritori. Con parole toccanti rivolte al suo medico, il saggista
Anatole Broyard, poco prima di morire per un tumore alla
prostata, scrisse:
fatti in grado di fare una diagnosi corretta nel 70% dei casi. L’anamnesi è il mezzo più utile di tutti gli esami e le tecnologie disponibili per una ragione molto semplice: le rimostranze che il paziente fa al medico, anche se si riferiscono a un organo specifico, hanno un carattere funzionale e derivano essenzialmente dalle difficoltà della vita. Originate spesso da un cuore tormentato che uno strumento
moderno non può cogliere, non si nascondono invece a un
orecchio attento e abituato all’ascolto dei sussurri appena
appena percepibili né a uno sguardo avvezzo a scorgere le
lacrime non versate.
I cinici e i realisti possono pensare che si tratti di chiacchiere romantiche, ma anche un realista non può rimanere indifferente a interessi economici su larga scala. Il modo
più efficace e più economico per il medico di fare una diagnosi è quello di confrontarsi con l’essere umano nel suo
complesso. Per esempio, i dolori al torace alla mezza età,
soprattutto nei maschi, sono un problema abbastanza comune, che porta inevitabilmente a esami clinici costosi e
diversificati. La reazione del medico è stereotipata. Dopo
un colloquio frettoloso, il paziente viene informato che sono necessari esami clinici per escludere un’angina pectoris,
cioè un grave disturbo alle coronarie. Il paziente è comprensibilmente ansioso di procedere al più presto. Dopo
diverse settimane vissute nell’ansia, in cui vengono eseguite analisi costose, l’accertamento culmina con un angiogramma coronarico, molto invasivo. Dopo che il paziente è
finalmente informato che l’angiogramma è normale e che
il dolore al petto non ha rapporti con il cuore, egli si dimostra ammirato per la competenza e la scrupolosità del medico ed enormemente impressionato dal potere magico
della tecnologia moderna. La reazione del paziente, piena
di gratitudine, conferma al medico di aver seguito la strada giusta. Inoltre rinforza l’idea che indossare le vesti di
Cassandra e prevedere il peggio è psicologicamente ed
economicamente conveniente.
Ma l’intera procedura non è necessaria: fondo la mia
opinione su quarantacinque anni di esperienza con molte
migliaia di pazienti sofferenti di dolori al petto. Una diagnosi di angina pectoris può essere esclusa nel 90% dei casi con un colloquio approfondito. Era la convinzione del
dottor William Heberden che, più di due secoli fa, individuò e descrisse l’angina pectoris: nessun progresso tecnologico ha poi contraddetto la sua concezione. Nella stragrande maggioranza dei casi, un’anamnesi attenta rivela
che i dolori al petto sono provocati da artriti, stress psicologico, indigestione o altri banali problemi. Il disturbo alle
coronarie è improbabile in assenza di squilibrio lipidico,
diabete o ipertensione, soprattutto se la storia familiare è
ampiamente negativa per quanto riguarda le malattie cardiache e se il soggetto non ha mai fumato e non ha mai subito periodi troppo lunghi di stress. Queste informazioni
possono essere ottenute facilmente con l’anamnesi e con
alcune semplici analisi cliniche. Un ascolto attento sin dall’inizio evita l’insorgere di un’inutile ansia nel paziente e fa
risparmiare alla società spese ingenti: in questo caso, la differenza dei costi tra i due diversi approcci medici è dell’ordine di uno a cinquanta. Ogni anno soltanto per i dolori al
torace sprechiamo miliardi in diagnosi inutili. La crisi economica che investe la medicina è in ultima analisi una crisi
nel modo di esercitare la professione, come tenterò di illustrare nei prossimi capitoli.
Non vorrei chiedere troppo tempo al mio medico. Vorrei soltanto che riflettesse per cinque minuti sulla mia situazione, che mi
offrisse per una volta tutto il suo ascolto, che si mettesse in contatto con me per un breve tempo, che penetrasse la mia anima e osservasse la mia carne per giungere a capire la mia malattia, perché
ogni persona si ammala in un suo modo particolare... Quando prescrive analisi del sangue e radiografie ossee, vorrei invece che analizzasse attentamente me, oltre alla mia prostata, cercando a tentoni il mio spirito. Senza questo percorso, non sono nient’altro che
la mia malattia1.
Il mio scopo non è semplicemente di condividere con il
pubblico interessanti esperienze mediche, ma di trasmettere un messaggio, un’idea fondamentale per i nostri tempi inquieti. La pratica di una medicina dal volto umano resta possibile, anche in quest’epoca di involuzione personale nel buco nero dell’egoismo. Anzi, è più necessaria che
mai.
Non posso mettere troppo categoricamente l’accento
sul fatto che, per curare, non bisogna abbandonare la
scienza. Al contrario, il processo di guarigione fruisce delle condizioni ottimali quando arte e scienza sono congiunte, quando si tenta di penetrare corpo e anima insieme.
Soltanto quando sono in grado di riflettere sul destino del
malato afflitto da dolore e paura, i medici possono capire
l’individualità specifica di un singolo essere umano. Un paziente è qualcosa di più della sua malattia. Questo impegno globale stimola l’immaginazione clinica, affinando la
precisione nel giudizio e aiutando a superare la difficoltà
di prendere una decisione. Il medico in questo modo acquisisce il coraggio per affrontare i dubbi contro cui la sola
abilità tecnica risulta inadeguata. Medico e paziente sono
inseriti in un rapporto paritario: più il paziente acquista
potere e autonomia, più migliorano le capacità terapeutiche del medico. Cinquant’anni fa, il medico di Boston Francis Peabody sosteneva che il segreto per curare il paziente
era proprio prendersi cura di lui.
Un ascolto attento sin dalla primissima visita è la garanzia di un trattamento corretto: proprio perché si basa sulla sensibilità di entrambi, rappresenta lo strumento diagnostico più efficace nel complesso corredo del medico. Il
medico in grado di raccogliere un’anamnesi accurata, è in-
1Anatole
Broyard, «New York Times Magazine», 26 agosto 1990.
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allo scopo di rianimare il muscolo cardiaco e per la tecnica
di cardioversione, da me ideata per correggere diversi tipi
di tachicardie, cioè ritmi cardiaci troppo rapidi. Queste scoperte salvarono migliaia di vite e aprirono la strada alla
fondazione delle unità coronariche in ambiente ospedaliero e alla moltiplicazione delle operazioni al cuore, compresa l’introduzione di by-pass in caso di ostruzione delle arterie coronariche. Il nostro lavoro si preoccupò anche di attrarre l’attenzione sul gravissimo problema dell’infarto e a
definirne i metodi per la prevenzione.
Un’altra figura importante della mia vita fu il professor
Frederick Stare, che costituì il primo Dipartimento di Dietetica alla Harvard School of Public Health e incoraggiò le
mie prime ricerche in campo medico. Pur organizzando un
vasto laboratorio di ricerca presso il suo dipartimento, non
mi allontanai mai dalla pratica clinica. Vedevo i pazienti
tutte le settimane e partecipavo ogni giorno alle visite
ospedaliere. La mia conoscenza della medicina non nasce
quindi soltanto dalla torre d’avorio dell’accademia, ma anche dalle trincee della pratica ospedaliera.
Le mie concezioni sono state forgiate da diversi elementi: la nascita all’estero, l’eredità ebraica con tradizione
rabbinica, la passione per i libri e soprattutto la mia storia
d’amore mai interrotta con la medicina. Una pratica di
quattro decenni e più non ha fatto che intensificare il fascino che ha sempre esercitato su di me l’arte magica del
curare, come fu definita da Maimonide, grande filosofo e
medico del XII secolo, il quale pregava: «Possa io non dimenticare mai che il paziente è una creatura che soffre.
Possa io non considerarlo mai semplicemente come il ricettacolo della malattia».
Mi sento straordinariamente privilegiato perché sono
un medico. Un medico ha un posto in prima fila per uno
spettacolo teatrale ineguagliabile. Infatti, anche se l’arte
può imitare la vita, non è mai completamente alla sua altezza. Il medico è spettatore di un panorama di eventi ad
ampio raggio, che costituisce lo specchio della storia sociale e culturale di un’epoca. Proprio per questo mio privilegio, spesso mi sono sentito in colpa nel mandare il conto ai
miei pazienti. Raramente è possibile avere un rapporto che
esplori l’intimità a tal punto. Nessun piacere equivale alla
gioia di aiutare altri esseri umani a rendere la propria vita
più lunga e più sicura. Questo libro vuole essere una piccola ricompensa ai miei pazienti, che, in ultima analisi, sono
stati i miei maggiori maestri e che mi hanno aiutato a diventare medico.
A questo punto, i lettori scettici si chiederanno perché
dar credito al mio punto di vista, che contraddice l’informazione sanitaria attualmente in voga. Le mie credenziali
e la credibilità della mia testimonianza emergono in queste pagine, vorrei solo sottolineare brevemente come sono
giunto a credere con tanta fermezza alle mie idee.
Per anni e anni ho accumulato esperienza di casi clinici.
Alla fine di una lunga giornata di lavoro, spesso prendevo
appunti sui pazienti che avevo visto. Riflettendo sugli spunti che mi offrivano, mi sono reso gradualmente conto che la
strada migliore dal punto di vista clinico è quella di considerare ogni paziente come un caso a sé, unico. Quando sono
entrato alla Johns Hopkins Medical School nel 1942, mi affascinava la psichiatria che gettava luce sul comportamento individuale: la abbandonai per la mancanza di rigore
scientifico e per lo scolasticismo medioevale che regnava
nei suoi ranghi. La psichiatria evidentemente non faceva
per me. Avevo bisogno di ordine e anelavo alla perfetta
simmetria e alla prevedibilità offerte dalla scienza: il mio
romantico ardore giovanile mi faceva sperare che la scienza avrebbe presto chiarito i misteri del corpo umano e spiegato i processi base della malattia. Ero inebriato dai progressi scientifici e tecnologici del giorno e volevo a tutti i costi contribuire all’inarrestabile impeto del lavoro di ricerca.
Nei rapidi progressi della medicina la cardiologia era allora all’avanguardia. L’introduzione dei cateterismi cardiaci a opera dei premi Nobel André F. Cournand e Dickinson
W. Richards, proprio all’epoca in cui mi laureai in medicina
nel 1945, apriva nuove prospettive. Per la prima volta le cavità cardiache potevano essere penetrate in tutta sicurezza e ispezionate minuziosamente con cateteri decodificabili a distanza. La diagnosi, da supposizione basata sull’osservazione clinica, si trasformò in dato scientifico esatto in
base a misurazioni dirette. Si svilupparono tecniche chirurgiche innovative per la correzione di disturbi congeniti del
cuore e di valvole cardiache difettose e si perfezionò la tecnica per l’applicazione dei by-pass in caso di arterie coronariche ostruite. La cardiologia dava il massimo di sé.
Quando cominciai a praticare, le terribili malattie infettive come la tubercolosi e la poliomelite erano sotto controllo e i disturbi cardiaci costituivano ormai la prima causa di morte nei paesi industrializzati. Negli Stati Uniti c’era
un morto per disturbi cardiaci ogni novanta secondi. Molte questioni complesse e stimolanti rimanevano aperte. Le
nuove scoperte scientifiche avevano permesso approcci innovativi e invenzioni rivoluzionarie, alcuni enigmi diagnostici irrisolti e malattie un tempo fatali si erano arresi ai
progressi medici. L’ottimismo era all’ordine del giorno.
Andai a Boston per seguire uno dei più importanti cardiologi del secolo, il dottor Samuel A. Levine, professore
alla Harvard Medical School che aveva la base al Peter Bent
Brighman Hospital, ora noto come Brighman and Women’s Hospital. La mia prima ricerca ebbe come oggetto un
farmaco ormai collaudato, la digitale, che da due secoli era
utilizzato contro i disturbi cardiaci. Pur trattandosi di un rimedio efficace, poteva avere gravi effetti collaterali sul ritmo cardiaco e causare addirittura la morte. Il mio lavoro di
ricerca dimostrò il ruolo critico del potassio nello stabilire
l’uso sicuro della digitale.
Le scoperte si susseguirono poi a un ritmo incalzante e,
a un’età ancora giovanissima, ottenni l’attenzione del
mondo intero per l’introduzione della corrente continua
ASCOLTARE IL PAZIENTE: L’ARTE DELLA DIAGNOSI
1. La scienza dell’anamnesi e l’arte di ascoltare
In quest’epoca di tecnologia dilagante è facile dimenticare che un elemento essenziale nelle cure mediche deriva
ancora da un’arte creatasi all’aurora dell’umanità. Venticinque secoli fa, Ippocrate consigliava: «Dove c’è amore
dell’uomo, c’è anche amore dell’arte. Alcuni pazienti, consci della gravità della loro condizione, ritrovano la salute
semplicemente attraverso la gratificazione ottenuta dal
rapporto con il medico». Nel XVI secolo Paracelso, il più importante medico tedesco della sua epoca, includeva tra le
qualità di base di un medico «l’intuizione che è necessaria
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oppressione al petto, non gli era difficile capire se il disturbo derivasse da una cattiva circolazione coronarica. Ciò avviene quando il medico compie un’anamnesi accurata, prestando attenzione ai numerosi spunti offerti. Al giorno
d’oggi sono pochi i medici in grado di riconoscere i casi più
delicati di angina, soprattutto perché non colgono questi
spunti oppure non hanno voluto investire tempo sufficiente in un’anamnesi dettagliata. Oggi, si giunge alla diagnosi di disturbi coronarici con esami innocui, ma anche con
analisi invasive come l’angiografia coronarica. Su un milione di angiogrammi eseguiti nel 1993, 200.000 hanno rivelato arterie coronariche perfettamente normali. Se l’insegnamento di Levine fosse stato seguito, questi pazienti
con coronarie normali non sarebbero stati sottoposti a un
esame tanto costoso e fastidioso.
L’approccio di Levine rendeva possibile una diagnosi
corretta di angina pectoris sin dal primo incontro con il paziente. Levine sottolineava gli atteggiamenti che portavano su piste false, per esempio chiedere ai pazienti di «mostrare con un dito» dove si localizza «il dolore»; l’angina
non è percepita come dolore né la si può indicare con un
dito. Se il paziente segue comunque le istruzioni e indica
un punto nella regione pettorale, si può accantonare immediatamente la diagnosi di angina pectoris. Se invece di
mostrare un punto preciso il paziente stringe un pugno o
pone il dorso della mano nell’area centrale dello sterno, di
solito ci si trova di fronte a un caso di angina. La diagnosi
è ulteriormente confermata se il paziente, nel precisare le
sensazioni provate, utilizza espressioni come «mi è difficile descriverlo, non è proprio un dolore, è una sorta di tensione, di pesantezza, di pressione». Allora la diagnosi è certa. Levine suggerisce numerosi altri indizi, in modo che il
medico raramente può sentirsi incerto sulla presenza di angina, anche prima di terminare il primo colloquio.
Mentre intrattenevamo un professore che era nostro
ospite a Los Angeles nei primi anni Sessanta, sentii il dottor M., ex-allievo di Levine, raccontare pubblicamente un
episodio che vedeva coinvolto il nostro comune maestro. Il
dottor M. raccontava che si trovavano di fronte a un giovane in apparenza in buona salute che si lamentava di una
sorta di disagio nella parte superiore del ventre. Dopo aver
fatto alcune domande, il dottor Levine attribuì categoricamente il sintomo all’angina pectoris e scrisse in cartella
quest’unica frase: «Il paziente soffre di angina pectoris». Il
paziente, di soli trentaquattro anni, non presentava fattori di rischio coronarici. Si rilevò poi un disturbo sorprendente in un soggetto così giovane: un’ernia epigastrica che era
evidentemente responsabile dei sintomi che Levine attribuiva all’angina. Secondo il dottor M., «Levine dimostrò di
essere superiore ai medici comuni. Scrisse in cartella senza
mezzi termini: “La mia diagnosi è errata”. Avrebbe potuto
rappezzare facilmente il suo sbaglio, ma non era nei metodi del buon vecchio Sal. Tutti dovevano sapere».
Dopo questo episodio feci le altre visite in corsia con il
dottor Levine. Poi, dopo aver lasciato i malati, chiesi se era
comune avere quel tipo di disturbo con un’ernia epigastrica. Con mia grande sorpresa Levine rispose: «Certamente
no. Sono assolutamente convinto che quest’uomo soffre di
disturbi coronarici e che il suo disagio è dovuto all’angina».
«Perché allora scrivere quell’osservazione?».
«Sono un insegnante. È importante far capire ai propri
allievi che non si è infallibili». Sussurrò poi con un risolino:
«Anche il grande Levine può sbagliare». Poi aggiunse, co-
per capire il paziente, il suo corpo, la sua malattia. Egli deve possedere la sensibilità e il tatto che gli permettono di
entrare in comunicazione empatica con lo spirito del paziente».
Principi di questo genere non hanno perso la loro validità anche nella nostra epoca, in cui regna sovrana la medicina scientifica. Il tipo di pratica che io ho adottato si collega a questa antica tradizione. La mia scelta professionale non è stata né predestinata dal cielo né influenzata da
un dono ereditario. Ottimi maestri hanno dato forma alle
mie idee sul significato di essere medico, soprattutto il dottor Samuel A. Levine, sotto la cui direzione ho iniziato il tirocinio al Peter Bent Brigham Hospital di Boston nel 1950.
Era il mio mentore e il mio modello ma, dopo due anni passati sotto la sua guida, mi lasciai prendere dall’arroganza
giovanile e conclusi che il vecchio signore non aveva più
nulla da offrirmi. Ero stufo delle sue storie, che avevo
ascoltato innumerevoli volte, e partecipare con lui ogni
mattina alle visite ospedaliere mi faceva perdere tempo
prezioso che avrei utilizzato meglio, pensavo, in una ricerca produttiva.
Per circa sei mesi smisi di presenziare alle visite ospedaliere quotidiane del dottor Levine, limitandomi a seguire
una volta la settimana i pazienti esterni della clinica cardiologica. Ben presto non potei fare a meno di constatare
la mia incapacità di clinico. Saltava agli occhi la differenza
tra le reazioni dei pazienti curati da Levine e quelli seguiti
da me. Anche quando la patologia non era del tutto chiara, egli prescriveva un farmaco la cui efficacia non era stata nemmeno dimostrata e il paziente migliorava, rifioriva,
guariva. Io, invece, pur avvalendomi delle ultime scoperte
derivanti dalle rivelazioni del «New England Journal of
Medicine», non mi sognavo risultati simili.
Ripresi così a frequentare le sue visite giornaliere sei
mattinate alla settimana nella speranza di imparare la sua
arte. Dovevo essere un discepolo ben tardo, perché mi ci
vollero altri undici anni con Levine per acquisire la perizia
del clinico. Ma alla fine la sua arte lasciò un’impronta, permettendomi di capire a fondo e rapidamente l’unicità di
ogni paziente e di giungere sempre a una prescrizione terapeutica individualizzata.
Durante questi lunghi anni, la mia ammirazione per le
prodigiose capacità cliniche di Levine non fece che crescere. Secondo lui, d’accordo con il dottor William Osler, «la
medicina è la scienza dell’incertezza, l’arte della probabilità». Pensava che la maggior parte dell’informazione significativa potesse essere ottenuta da un’anamnesi accurata e
da un attento esame clinico. Era convinto che un’intera
batteria di analisi non avrebbe potuto sostituire una mente desiderosa di sapere, ma si compiaceva dei progressi
scientifici e sosteneva che l’arte della medicina consisteva
nel portare la scienza al capezzale del malato. Aveva visitato più di trentamila pazienti cardiopatici e sembrava che
ognuno di essi avesse lasciato un segno duraturo nella sua
memoria. Una sorprendente capacità di ricordare informazioni dettagliate e precise di quasi ogni paziente che aveva curato era il puntello su cui poggiava il suo genio clinico: una sorta di modello di individuazione che gli permetteva di distinguere i tratti importanti da quelli irrilevanti.
Levine formò una generazione di cardiologi esperti
dell’angina pectoris. Per quanto possa apparire sorprendente, non ricordo nemmeno un suo errore nel diagnosticare un’angina. In un paziente che presentava un senso di
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ziane, mani calde anche a basse temperature, precoce ingrigimento dei capelli, tinta salmone degli zigomi. Se individuava qualcuno di questi sintomi, si lanciava in una ricerca instancabile di altri piccoli indizi: pelle liscia, calda e
umida, leggero tremolio della lingua, iperattività dei riflessi, sguardo brillante e particolarmente vivo, impercettibile ingrossamento della tiroide e rapidità dei movimenti.
Ricordo una volta in cui fu chiesto a Levine dall’endocrinologo dell’ospedale di fare un consulto su di una donna con un sospetto disturbo alle coronarie. Una volta al capezzale della paziente, Levine cominciò a saltellare con
malcelata eccitazione e, dopo aver auscultato il cuore, diagnosticò un ipertiroidismo. Mi chiese che cosa pensassi del
primo suono del cuore e io risposi che era spezzato.
«Come si accorda questo sintomo con un lungo intervallo P-R1 nell’elettrocardiogramma?», chiese. «Sa bene
che le uniche situazioni in cui un intervallo P-R prolungato
è associato a un forte suono iniziale del cuore sono la gravidanza, la stenosi mitralica, la fistola arteriovenosa, il
morbo di Paget o gravi forme di anemia? Questa sessantenne è forse incinta o si ritrova nelle altre condizioni?».
Scossi il capo, ma protestai che stabiliva una diagnosi in base a ben misere prove. Allora egli diede un duro colpo alla
mia mancanza di acume diagnostico: «Bernie, ometti di osservare ciò che è ovvio», concluse.
«Che cos’è ovvio?».
«Non vedi lo sguardo fisso, unilaterale, dell’occhio sinistro?».
Guardai bene e, naturalmente, anche se non proprio
evidente, c’era un’asimmetria dei due occhi, con la palpebra sinistra ritratta di qualche millimetro. Non è un sintomo raro nell’ipertiroidismo. Levine, ora trionfante, si irritò.
«Conferma la diagnosi di ipertiroidismo anche se non è
possibile palpare un gozzo tiroideo ingrossato».
Con totale sconcerto dell’endocrinologo, la cui pratica
quotidiana era proprio costituita da disturbi alla tiroide, la
diagnosi fu poi confermata.
Il dottor Levine era colpito dalla vivacità e dalla rapidità dei pazienti affetti da ipertiroidismo. Aveva per loro una
profonda ammirazione ed era convinto che questa condizione li proteggesse dai disturbi alle coronarie. Appresi più
tardi, quqndo diventò mio paziente, che aveva preso tre
granuli di estratto tiroideo al giorno per più di trent’anni.
Pensava che coloro che avevano la funzionalità tiroidea accresciuta avessero lo sguardo brillante e vivace e fossero
quindi più interessanti perché la personalità traspare dallo
sguardo. Levine suggerì che il fascino universale emanato
da Monna Lisa derivasse da un ipertiroidismo. Sosteneva
che lo sguardo dall’alto verso il basso faceva sì che coloro
che ammiravano il quadro credessero che fosse rivolto verso di loro e ne garantiva il successo attraverso i secoli. Levine una volta mi confidò: «Se guardi attentamente il collo
di Monna Lisa, osserverai un rigonfiamento dovuto al gozzo tiroideo».
Parecchie volte, visitando il Louvre, ho studiato la
straordinaria dama di Leonardo, ma senza riuscire a trovare il minimo accenno di gozzo. Ciò non significa che rifiuti
la diagnosi del mio mentore, perché Levine spesso vedeva
me un ripensamento: «Non voglio sembrare meschino a
questi giovani medici che pendono dalle mie labbra».
Ironia volle che la storia si sia poi conclusa in modo
drammatico. Dopo tre anni, a trentasette anni, il paziente
ebbe un grave attacco cardiaco. L’opinione iniziale di Levine era quindi corretta. Retrospettivamente si può provare
un certo disagio per l’omissione di Levine nell’informare il
paziente della sua condizione. È tuttavia opportuno ricordare che l’episodio avvenne più di quarant’anni fa, quando la medicina non era assolutamente in grado di modificare la prognosi.
Levine palesava agli studenti il processo di scoperta clinica in cui piccoli indizi ordivano a poco a poco un elegante tessuto diagnostico. Innanzitutto bisognava stabilire
un’anamnesi che permettesse di distinguere gli indizi fondamentali da quelli irrilevanti. La visita avrebbe poi confermato o confutato l’intuizione diagnostica. Lo strumento
principe, secondo Levine, è lo stetoscopio, che rende percepibili i misteri del cuore. Questo apparecchio, semplicissimo e poco costoso, è inestimabile per ascoltare il ritmo
cardiaco ed eventuali soffi. Levine sosteneva che dopo una
visita esauriente, soltanto di rado permane il dubbio sulla
diagnosi. Alludeva al fatto che l’eccessiva fiducia nel cosiddetto check-up, che mobilitava l’artiglieria pesante della
medicina dell’epoca, i raggi X e la fluoroscopia cardiaca,
l’elettrocardiografia e la fonocardiografia, le analisi del
sangue e delle urine, testimoniava un’insufficiente abilità
diagnostica.
Levine accumulò una vera e propria enciclopedia di piccoli indizi diagnostici generalmente correlati a condizioni
curabili. Per esempio, poiché si sa che l’endocardite batterica subacuta, un’infezione che si annida su valvole cardiache già danneggiate, è estremamente rara in assenza di
soffi o in pazienti con fibrillazione arteriale cronica, il medico può risparmiare al paziente il disagio di costose procedure diagnostiche e di numerose emoculture. Levine
aveva il genio di applicare tecniche semplici per problemi
difficili, per esempio l’esame per riconoscere la costrizione
dell’aorta, uno strozzamento congenito della parte superiore dell’aorta, cioè del principale condotto sanguigno dal
cuore al corpo. Questa condizione spesso ignorata, ma curabile, provoca una pressione alta limitata alla parte superiore del corpo. Levine ipotizzò che se si comprimevano
l’alluce e il pollice e poi si rilasciava la pressione, il pallore
sulla pelle sarebbe durato più a lungo in presenza della costrizione. Questo esame può essere eseguito in dieci secondi circa, richiede come attrezzatura solo un orologio munito di quadrante per i secondi e non costa nulla.
Levine era anche straordinariamente acuto nel riconoscere le patologie cardiache dovute a ipertiroidismo, cioè
ad attività eccessiva della tiroide. All’epoca il disturbo veniva spesso trascurato e Levine fece diagnosi corrette
quando nessuno le aveva sospettate. Il paziente cardiopatico con disturbi alla tiroide presenta molti sintomi classici
delle cardiopatie e dell’aritmia, ma il problema soggiacente non è il cuore, bensì un’iperattività della tiroide, condizione assolutamente curabile. Levine cercava sintomi banali, come un leggero tremore delle dita nella mano in
estensione, un appetito robusto senza aumento di peso o
addirittura con perdita di peso, movimenti intestinali eccessivi anche se normali, sudorazione anche in ambiente
fresco, preferenza per il freddo soprattutto in persone an-
1L’intervallo
P-R è il tempo impiegato da un impulso elettrico per
passare dall’atrio al ventricolo, misurato in centesimi di secondo.
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B Lown - L’arte perduta di guarire
trarre conclusioni in base a confusi presagi, quando avrei
potuto chiedere senza difficoltà alla signora Goyang che
cosa succedeva?
La visita non evidenziò nulla di diverso rispetto al passato. Fui rassicurato dalle sue condizioni e pensai di fargli
seguire lo stesso programma per un altro anno. Ma invece di lasciare che la signora Goyang raggiungesse il marito nella sala visite, come facevo di solito, volli vederla da
sola. Le chiesi come stava il signor Goyang. Rispose che
aveva già raccontato tutto lui. «Non è cambiato nulla?»,
chiesi. Divenne cauta e tergiversò, ripetendo che il marito
era l’unico che avrebbe potuto informarmi. Continuammo
la schermaglia per circa cinque minuti senza risultati. La
mia irritazione cominciava a trasparire, perché era chiaro
che la donna nascondeva qualcosa. Alzando il tono, alla
fine sbottai: «Non si preoccupa di quel che sta succedendo a suo marito? Una moglie devota non si rifiuterebbe
mai di fornire informazioni importanti al medico di suo
marito».
La donna, che mi era sempre sembrata calma e imperturbabile, scoppiò in lacrime. «Non è nella consuetudine
delle donne cinesi di parlare alle spalle del marito».
Lasciai perdere le divagazioni e la interrogai cortesemente sui particolari. «Il signor Goyang ha aumentato la
dose di nitroglicerina?».
«Sì, ne inghiotte una dopo l’altra», rispose tra i singhiozzi.
«Fa esercizio fisico?».
«No, i dolori al petto sono troppo forti. L’ha interrotto
da un mese».
«Nuota?».
«No, ho paura».
«Perché allora questo inganno?», incalzai.
«È terrorizzato da un’altra operazione al cuore», rispose.
Senza indugiare feci provare a Goyang gli attrezzi ginnici che aveva adoperato molte volte senza provare alcun
dolore al petto. In passato era riuscito a giungere fino a
undici minuti seguendo un protocollo di esercizi graduati.
Ora arrivò soltanto a cinque minuti, poi fu colto da una
forte tensione al petto e si coprì di sudore. La pressione ebbe un brusco abbassamento, che ebbe come conseguenza
un forte capogiro. L’elettrocardiogramma era molto discontinuo e rivelava brevi accessi di tachicardia ventricolare, un gravissimo disturbo del ritmo cardiaco. Lo portammo in ambulanza al Brigham and Women’s Hospital, dove
un angiogramma coronarico evidenziò un forte restringimento dell’arteria coronaria principale. Quando fu individuata la gravità della sua condizione, tutti furono concordi nell’affermare che l’unica possibile terapia era un’operazione immediata. Subì un’intervento di emergenza per
l’applicazione di un by-pass coronarico. Ora le sue condizioni sono ottime.
Se sua moglie non lo avesse accompagnato e io non
avessi «ascoltato» i suoi occhi, non avrei notato il profondo cambiamento nelle condizioni di Goyang. Il mio paziente con tutta probabilità non sarebbe sopravvissuto.
L’ascolto non è passivo. Quando un medico fa un’anamnesi, struttura una vera e propria storia che ricostruisce la malattia e le vicende familiari e poi risale al passato
in modo esaustivo, dalla a alla z. Dopo i preliminari necessari all’incontro con un nuovo paziente, il medico si concentra sul problema principale, cioè quello che rappresen-
ciò che gli altri non erano in grado di vedere. Riflettendoci, perché non dovremmo permettere ai maestri gli stessi
voli di fantasia dei poeti?
Levine mi insegnò l’arte di ascoltare, il fondamento
della medicina. Un ascolto efficace mobilita tutti i sensi,
non semplicemente l’udito. Praticare l’arte della medicina
non richiede soltanto una conoscenza approfondita del disturbo, ma anche una valutazione dei dettagli più intimi
della vita emotiva del paziente, considerata di competenza dello psichiatra. Nei manuali di medicina o durante l’università non si accenna neppure alla necessità di un complesso coinvolgimento con i pazienti. Per poter curare, un
medico deve sapere innanzitutto ascoltare. Un ascolto attento è terapeutico di per sé, perché tutte le storie umane
sono interessanti. Pochi grandi libri espongono la condizione umana più chiaramente di un paziente che ha permesso di esplorare in profondità nella sua vita.
Nel breve tempo disponibile per raccogliere un’anamnesi, lo scopo è di ottenere, oltre ai fatti essenziali, una visione globale dell’essere umano. Sembra facile, ma ascoltare è lo strumento più difficile tra tutti quelli disponibili al
medico.
Fissando il soffitto
Chang Goyang, uno scienziato del Maryland, veniva sempre nel mio studio accompagnato dalla sua graziosa moglie
cinese, che tutte le volte mi guardava dritto negli occhi con
uno sguardo che sembrava trafiggermi. Quella donna mi ricordava una figurina del Buddha, silenziosa e priva di emozioni. Goyang era stato mio paziente per un decennio a
causa di un’angina pectoris, conseguenza di un grave restringimento delle coronarie. La prima volta era venuto a
Boston per un consiglio sull’applicazione di un by-pass raccomandatagli dal suo medico, intervento che egli temeva
molto. Ritornava per le visite annuali e le condizioni del
suo cuore rimanevano stabili nel corso degli anni.
In occasione di questa visita in particolare, l’anamnesi
confermò la stabilità del suo disturbo coronarico. Mi fece
credere che non si erano verificati cambiamenti nella gravità o nella frequenza degli attacchi di angina e che la sua
capacità di fare esercizio fisico non era alterata. Nuotava
almeno cinque volte la settimana e camminava senza alcun
dolore al petto. Per non avere attacchi di angina durante
l’allenamento, all’inizio metteva sotto la lingua una dose
di nitroglicerina ad uso profilattico. Mi rallegrai di queste
notizie.
Durante la visita, tuttavia, ebbi una strana sensazione.
Dopo qualche tempo, ciò che mi preoccupava divenne
chiaro. A differenza delle altre dieci visite precedenti, quest’anno qualcosa era cambiato. La signora Goyang, che di
solito mi guardava sempre, fissava con ostentazione il soffitto, senza mai degnare di uno sguardo né il marito né
me. Non si era mai comportata in questo modo. Si trattava
forse di una sorta di indizio? Forse i due avevano litigato
durante il lungo viaggio in auto. Forse era annoiata. O voleva comunicare qualcosa? Ma cosa?
«Sciocchezze, smettila di fantasticare. Smettila di recitare Amleto», dissi tra me e me. Ma questi pensieri diventavano ossessivi e mi distraevano dalla visita. Perché dunque mi comportavo come un antico augure che tenta di
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G Ital Cardiol Vol 10 Settembre 2009
vuole curare non può e non deve concentrarsi esclusivamente sul problema principale e nemmeno sull’organo malato. Per aiutare il malato, bisogna capire gli aspetti problematici della sua vita. Purtroppo alcuni medici agiscono solo
sul problema principale: si tratta di un modo ben misero di
esercitare la medicina, concluse il professore Kanner.
ta la ragione della visita. Putroppo il disturbo principale
può non essere quello che davvero mina la salute del paziente e può avere poco a che fare con il problema soggiacente. L’ho imparato quando ero ancora studente alla
Johns Hopkins Medical School.
Più di cinquant’anni dopo la laurea, ho pochi ricordi
dei miei professori, ma mi è rimasto impresso il dottor Leo
Kanner, un neuropsichiatra infantile, che ebbe su di me
un’influenza duratura. Mi è difficile credere di averlo visto
in realtà soltanto due volte in vita mia, nel 1943, al secondo anno di università, durante la presentazione dei casi.
Ho spesso sentito un paziente lagnarsi di un disturbo debilitante, ma dopo un colloquio esauriente in cui veniva alla luce un difficile problema sociale o familiare, abbandonare la sua attenzione verso il sintomo principale. «Dottore,
non è questo che davvero mi tormenta». Molte volte mi sono trovato io stesso coinvolto in problemi domestici, professionali, psicologici, familiari o addirittura esistenziali. Una
volta che emergono, le parole si rivelano più efficaci dei farmaci. Sono persuaso che la maggioranza delle medicine prescritte per alleviare i sintomi principali sono del tutto inutili.
Molti farmaci si rivelano inefficaci e gravano inutilmente sul
bilancio. Un paziente con un problema irrisolto cerca una risposta e acquista farmaci che oltre a essere inutili possono
provocare effetti collaterali. Inoltre, pazienti disperati acconsentono a essere sottoposti a esami costosi e invasivi.
I medici si concentrano sul disturbo principale soprattutto perché le facoltà di medicina non formano gli studenti all’arte di ascoltare. Anche se si sottolinea l’importanza di raccogliere un’anamnesi attenta, in realtà, poi,
non la si insegna affatto. Tra i medici circola un aforisma
assai cinico: «Se tutto il resto fallisce, parla con il paziente». Un altro aspetto essenziale è il fatto che indagare oltre i problemi connessi con il disturbo principale richiede
tempo e il tempo è denaro. Inoltre, la storia del paziente
fornisce dati sfumati, mentre il medico anela a fatti concreti. La tendenza ad applicare la tecnologia, tuttavia, non è
soltanto indotta dal desiderio di certezza: essa è considerata un sostituto efficace del tempo.
Il problema principale
In una conferenza, che sicuramente non è stata dimenticata, il dottor Kanner ci parlò di una donna che aveva visto
alcune settimane prima. Il suo problema principale era un
disturbo comportamentale del suo bambino di otto anni,
Dicky. Al terzo piano della loro casa, i genitori avevano allestito per lui una sala attrezzata con tutti i giocattoli più
moderni, ma tutte le mattine il bambino scendeva in soggiorno e spargeva i fumetti e gli inserti illustrati dei quotidiani sul tappeto persiano. Né suppliche, né promesse, né
minacce modificavano il suo comportamento. La madre,
convinta che il figlio fosse gravemente disturbato, cercò
l’aiuto di Kanner.
Quella sera Kanner presenziava a un banchetto per la
vendita di buoni del tesoro in favore della Seconda guerra
mondiale. Al suo fianco, sedeva una donna di mezza età
dall’aspetto distinto che, durante la cena, sforzandosi di
mantenere la calma, gli disse che suo figlio Robert era marine nel Pacifico. Temeva che potesse essere stato ucciso
durante l’attacco ad alcune isole occupate dai giapponesi.
Poi, inaspettatamente, pose una domanda curiosa: «Dottor Kanner, forse lei in quanto psichiatra può spiegare lo
strano potere psicologico di avvenimenti banali. Quando
penso al passato, affiora un ricordo molto piacevole: quello delle domeniche mattina, quando Bobby spandeva sul
pavimento del soggiorno tutti i suoi fumetti».
Kanner spiegò che la prima donna, quella che si preoccupava del comportamento del figlio, era seriamente disturbata. Il suo matrimonio era in gravi difficoltà, il marito
la tradiva. Si sentiva abbandonata, disperata e priva di aiuto. Quella che sembrava essere la sua preoccupazione principale non c’entrava nulla con i suoi problemi. Ciò di cui si
lagnava, spiegò Kanner, era soltato il biglietto d’ingresso
per un’esibizione teatrale. Ci chiese: «Supponete di essere
dei critici teatrali. Potete forse scrivere un articolo brillante semplicemente in base al biglietto di ingresso per uno
spettacolo che non avete visto? Tutto quello che potete dire è che una commedia con un dato titolo avrà luogo il dato giorno alla data ora. Forse conoscete il nome dell’autore, ma è tutto ciò che sapete. Lo stesso succede con il “problema principale”. Vi comunica che qualcosa è sufficientemente grave da indurre il paziente a cercare aiuto. Ma è
tutto. Il problema principale spesso non interessa nemmeno l’organo giusto».
Kanner ci invitò, in quanto studenti di medicina, a non
fare mai prescrizioni in base a un «problema principale», a
meno di non conoscere bene il paziente, e di immaginare
invece quale possa essere il disturbo reale. Un medico che
Il cuore malato di un padre
Dopo avermi detto «Mio padre ha il cuore malato», una
donna sulla quarantina me lo presentò. La donna tormentava un fazzoletto tra le mani e sembrava molto agitata. Il
padre, un uomo anziano, si teneva in disparte, guardava
nel vuoto ed era palesemente poco desideroso di essere
coinvolto nella conversazione. Non era appannato dall’età, ma rispondeva alle domande con lucidità e precisione,
pur comunicando l’opprimente sensazione di assenza di
speranza.
Quando chiesi al paziente che cosa lo tormentava, la figlia disse che era troppo ammalato per rispondere. Affermò categoricamente che soffriva di una grave forma di angina pectoris. Parlava come se lui non fosse presente e il
padre non faceva attenzione a quello che lei diceva. I suoi
giorni erano contati, sentenziò. Gli chiesi se sentiva dolori
al petto. Annuì sconsolatamente. Poi si contraddisse dicendo che non aveva nulla di fisico che non andasse.
«Papà, come puoi negare quello che è ovvio per tutti?», incalzò la figlia.
Ero imbarazzato. Qualsiasi cosa tentassi di fare, la figlia, come un placcaggio vincente in una partita di rugby,
si precipitava a intervenire. Il padre sembrava malato,
emaciato, indifferente e molto più vecchio dei suoi settan-
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B Lown - L’arte perduta di guarire
via, dopo un ricovero di una settimana, l’episodio patologico non si era mai più verificato. Discutendo con l’équipe,
commentai con un senso di frustrazione: «Se soltanto potessimo far comparire l’aritmia, il problema sarebbe presto
risolto». Il paziente, che stava ascoltando, sembrò perplesso e disse: «Dottore, so come fare».
«Come?», chiesi imbarazzato.
«Alzandomi in piedi e chinandomi per allacciare la
scarpa sinistra».
La risposta mi parva talmente stravagante che feci una
battuta e lo incoraggiai a fare una dimostrazione. Si abbassò ed immediatamente comparve la tachicardia che
avevo inutilmente aspettato.
Spesso un paziente non solo racconta i suoi problemi di
salute, ma ci fornisce le informazioni per affrontarli meglio. Un preside di università aveva consultato medici per
più di dieci anni per una tachicardia ventricolare, un disturbo molto grave del ritmo cardiaco. Era stato ricoverato in
molti centri specializzati ed erano state tentate più di una
dozzina di cure diverse, senza successo. Alla prima visita,
gli chiesi in quale momento del giorno sopravveniva l’aritmia. Rispose che era quasi sempre al mattino, prima che
andasse al lavoro. Quando lo interrogai ancora, precisò
che succedeva tra le 7,30 e le 8,30.
Dopo aver raccolto altre informazioni, gli dissi che il
suo problema si sarebbe risolto se avesse messo la sveglia
alle 5,30 e, appena sveglio, avesse preso una doppia dose
di un farmaco antiaritmia prima di ritornare a dormire. Gli
raccomandai di non prendere altre dosi di questo farmaco
durante il giorno. Seguì il mio consiglio per otto anni e si
liberò completamente dell’aritmia.
È sorprendente che nessun medico avesse tentato di
identificare l’ora precisa in cui sopravveniva l’aritmia. L’assunzione di una dose maggiore del farmaco durante la
giornata, come gli era stato prescritto, gli provocava sintomi collaterali senza combattere l’aritmia. La ragione dell’insuccesso era chiara. L’effetto della dose serale al mattino presto era svanito. La dose del mattino era presa quasi
in concomitanza con l’inizio dell’attacco e non poteva
quindi raggiungere un livello soddisfacente nel sangue.
Inoltre a quell’ora avrebbe avuto bisogno di una dose
maggiore per prevenire l’aritmia. Nessuna diavoleria tecnologica aveva potuto risolvere il suo difficile problema. La
soluzione non avrebbe mai potuto essere intravista senza
l’informazione fornita dal paziente.
tacinque anni. La visita medica rivelò un cuore piccolo e sano, pressione bassa e nessun segno di disturbo cardiaco.
Quando mi affrettai a riferire le buone notizie alla figlia, la sua reazione mi costernò. «Oh no, no, no!», strillò,
scoppiando in un pianto convulso. Alla fine riuscii a calmarla. «Non crede che papà abbia una grave malattia cardiaca?», chiese incredula.
Riuscii poi a persuaderla dei fatti, mentre continuava a
singhiozzare priva di controllo, interrompendosi per ripetere: «Cosa devo fare?».
Il padre era stato proprietario di una grossa farmacia,
dove suo marito era uno dei farmacisti. Quando la madre
era morta, lei e il marito avevano persuaso il vecchio ad andare ad abitare con loro. Arredarono il terzo piano e lo trasformarono in un appartamento indipendente. Dopo un anno il vecchio fu convinto a intestare la farmacia al genero.
Durante gli ultimi anni la presenza del padre aveva cominciato a irritare il genero, che insisteva affinché il vecchio
non mangiasse con loro. Anche il fatto che quest’ultimo
semplicemente camminasse per casa urtava i nervi del genero. Il padre era consapevole del nervosismo del giovane
e, quando questi era in casa, aveva addirittura paura a spostarsi dalla poltrona. Poiché mangiava poco, perse molto
peso e diventò sempre più solitario. La figlia, fuori di sé per
il rimorso e il senso di colpa, aveva paura di contrastare quel
marito dal pessimo carattere. Alcuni mesi prima le aveva
dato un ultimatum: o se ne va tuo padre o me ne vado io.
Fu a partire da quel momento che lei si convinse che il padre sarebbe morto a causa delle gravi condizioni del cuore.
Questa è una tragedia umana celata dietro un sintomo.
Il male immaginario non ha niente a che fare con la realtà
che affliggeva quella famiglia.
L’indizio nascosto
L’ascolto che non si limita al sintomo considerato principale è, a mio avviso, lo strumento più efficace, più rapido e
meno costoso per risolvere la maggioranza dei problemi
medici. Una ricerca inglese ha dimostrato che il 75% dell’informazione che permette la diagnosi corretta deriva da
un’anamnesi dettagliata, il 10% dalla visita, il 5% da semplici esami di routine, il 5% da analisi invasive e costose.
Nel 5% dei casi non c’è mai stata risposta. Questo risultato
non è sorprendente. In un certo senso il paziente è la banca, l’unico posto dove viene depositato il denaro. Perché il
denaro frutti, bisogna avere un comportamento accorto e
affidabile. Alcuni dei più difficili problemi medici che ho
incontrato li ho risolti soltanto grazie all’informazione fornita dai pazienti.
Il tempo investito per ottenere un’anamnesi accurata
non è mai speso male. Anzi, fa risparmiare tempo. Costituisce, per così dire, la mappa della rete stradale, senza la
quale il viaggio è semplicemente una sorta di divagazione
con soste ai garage per continui controlli. Quando i dati
anamnestici sono carenti, il medico può trovarsi paralizzato nell’inazione o fare scelte terapeutiche inadeguate.
Prima dell’epoca del monitoraggio elettrocardiaco in
ambulatorio, mi trovavo al capezzale di un paziente che
aveva un’aritmia a cui non sapevamo dare una soluzione.
La vita dell’uomo era ormai condizionata da attacchi di rapida aritmia che sopravvenivano più volte al giorno. Tutta-
Parola di moglie
Il colloquio è molto più proficuo quando è presente un altro membro della famiglia, specialmente il coniuge. Molti
medici preferiscono vedere il paziente da solo, pensando
sia più facile concentrarsi sull’essenziale e mantenere il
controllo. Un’altra giustificazione è che il paziente da solo
è meno inibito: possono venire affrontati problemi intimi
che altrimenti sarebbero ignorati.
Non sono d’accordo. Naturalmente per prima cosa
chiedo al paziente se desidera che il coniuge sia presente
durante il colloquio. La risposta è sempre affermativa. Sono convinto che una simile presenza accelera anziché rallentare il flusso delle informazioni e accorcia il tempo necessario a conoscere il paziente. Senza la presenza del co-
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pass coronarico con un’operazione al cuore. Negli ultimi
due mesi aveva sofferto di una pressione al petto che lo affliggeva alla fine del pomeriggio e durava fino all’ora di
coricarsi, impedendo il sonno. Il medico di La Jolla, dove viveva, aveva applicato raffinate tecnologie, trascurando
un’anamnesi accurata. Un’analisi del tallio sotto sforzo
aveva evidenziato numerose aree di perfusione, segno di
gravi danni dovuti a un blocco delle arterie coronarie. Poiché il signor A. aveva un disturbo coronarico, si escludeva
che il suo dolore al petto fosse dovuto all’angina. Si verificava soprattutto la sera mentre era a riposo, non quando
faceva esercizi; durava per parecchie ore, senza trarre beneficio dalla nitroglicerina. Questi fattori confutavano innegabilmente la presenza di angina. Bisognava essere in
grado di dare al paziente una spiegazione che potesse
spiegare il suo malessere, renderlo accettabile e affrontarlo in modo razionale.
Avevo visto la signora A. a una sola visita, due anni prima. Soffriva anche lei di un serio problema cardiaco, ma la
patologia più grave era un enfisema all’ultimo stadio. Era
una signora nel vero senso della parola e irradiava fascino
e dignità. Per quanto costretta in una sedia a rotelle e con
gravi difficoltà respiratorie, trasmetteva una gioia di vivere
che mi lasciò senza parole per l’ammirazione e il rispetto.
«Ogni giorno per me è una gioia svegliarmi e vedere
l’alba. Mi rammento dei miei numerosi privilegi. Soprattutto il fatto di avere da quasi cinquant’anni un compagno
che continuo ad amare». Lo diceva con un sorriso, come se
assaporasse questo evento meraviglioso.
Mentre ascoltavo il signor A. lamentarsi di dolori al
petto, mi ricordai che la moglie, durante quel colloquio,
aveva anche detto che l’inquinamento e l’aria piena di polline del Texas, dove allora vivevano, peggioravano i suoi
problemi di salute e che avevano progettato di stabilirsi in
California.
Chiesi al signor A. quando si erano trasferiti in California. «Il 28 gennaio», rispose: esattamente due mesi prima
dell’epoca in cui si erano manifestati i primi dolori al petto. Feci tesoro di questa informazione per poterla utilizzare in seguito e parlammo poi della famiglia e degli amici. I
figli erano ancora in Texas, come la maggior parte dei loro
amici.
Cominciai a percepire un’atmosfera malinconica.
Quando mi informai sul sonno, il signor A. rispose che,
preoccupato per la moglie, raramente dormiva durante la
notte e spesso le massaggiava la schiena per aiutarla a respirare. Erano completamente vincolati alla casa, ma non
gli dispiaceva perché uscire per loro era diventato difficile.
La moglie era vincolata alla sua sedia a rotelle; quando soffriva di crisi respiratorie e doveva dipendere dall’ossigeno,
gli impegni sociali dovevano essere annullati.
L’esame sotto sforzo non provocò alcun dolore al petto. Anzi, il signor A. continuò l’esercizio per più di dieci minuti prima di arrendersi per la fatica. Era una prestazione
eccezionale, anche per un uomo di parecchi decenni più
giovane e risentiva senz’altro delle due ore quotidiane di
intenso esercizio fisico «per mantenere l’equilibrio mentale».
Quando ci vedemmo nel mio studio dopo la visita, in
presenza del figlio, cominciai a esporre i fatti: «Lei ha un
apparato cardiovascolare straordinariamente sano; il disturbo alle coronarie diagnosticato anni fa con un angio-
niuge, informazioni essenziali vengono spesso omesse o
dimenticate; i problemi imbarazzanti vengono evitati. Vedere la coppia permette inoltre di capire la dinamica familiare, che non può essere trasmessa completamente con le
parole. Ascoltando le risposte del paziente e osservando il
coniuge, si avvertono immediatamente le aree di potenziale disagio. Il matrimonio è riuscito oppure i due sono alle strette? C’è uno scheletro nell’armadio di famiglia? Ci
sono conflitti con i figli, con nuore e generi, o con altri
membri della famiglia? Il lavoro del paziente è troppo frustrante (una situazione senza via di uscita) ed è troppo doloroso parlarne? Questi e altri problemi vengono rapidamente alla luce quando marito e moglie sono insieme.
Molti degli esempi che cito dimostrano l’importanza
della moglie nel mettere a fuoco i problemi essenziali che
portano un paziente dal medico o nel sottolineare quello
che traspare appena. Dico «moglie» al posto di «marito»
per diverse ragioni. Le donne di solito sono la fonte più
preziosa di informazione sulla salute del marito. Inoltre i
disturbi alle coronarie, che rappresentano gran parte della mia pratica clinica, sono di gran lunga più diffusi tra gli
uomini. Poi, mentre un marito spesso non è disponibile a
liberarsi dal lavoro per accompagnare la moglie, una donna trova sempre il tempo per essere con suo marito.
A volte, fatti di minore importanza di quelli riportati
nel caso della signora Goyang vengono alla luce solo se la
moglie è presente. Quando interrogo un uomo sul sesso,
risponde subito: «Il sesso non crea problemi».
A ogni visita preliminare, il copione è sempre lo stesso.
«Il sesso?», chiedo.
«Il sesso, niente problemi», risponde subito il paziente.
Dopo essere stato mio paziente per circa cinque anni,
un uomo venne per la prima volta con la moglie. Durante
un intervallo, quando feci la stessa vecchia domanda sul
sesso, diede la solita risposta. La moglie sembrò sorpresa e
lo guardò perplessa.
Chiesi allora: «Come punteggiate esattamente la frase?».
Rispose con imbarazzo: «Sesso niente. Problemi!». Si
difese dicendo: «Per cinque anni ho dato sempre la stessa
risposta, ma lei non faceva mai attenzione».
Con l’età l’ascolto del medico si trasforma. I fatti e le informazioni sembrano scorrere più in fretta e a volta diventa
necessario concentrarsi a lungo su eventi banali. Le perdite
tuttavia sono compensate dai guadagni. Ora mi concentro
di più sulle interruzioni tra una frase e l’altra, sul significato
nascosto dalle pause, sulle inflessioni di voce, sulle parole
che emergono spontaneamente dopo un’esitazione. Spesso
è il silenzio a comunicare l’essenziale. Nel corso degli anni si
imparano a decifrare proprio queste frasi non dette. L’intuito si è affinato e permette di cogliere la complessità, di assorbire ciò che è subliminale e di integrarlo quasi istantaneamente in una forma elaborata che incorpora l’altro nella sua essenza. Peccato che sia necessaria una vita per acquisire questa saggezza clinica che permette al medico di capire il problema essenziale con economia di discorso.
Il dolore al petto dovuto al mal di cuore
Il signor A., un californiano di oltre settant’anni, mi consultò per avere un parere sulla necessità di applicare un by-
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B Lown - L’arte perduta di guarire
gramma è rimasto assolutamente stabile. Non c’è traccia di
angina pectoris. Il dolore al petto non ha nulla a che vedere con il cuore, eppure sono sorpreso che sia così lieve». Mi
guardò perplesso e io continuai: «Considerando il forte vincolo in cui è coinvolto, ammiro la razionalità, la calma e l’umanità con cui lei fa fronte al suo difficile dovere. Si è trasferito in California per il benessere di sua moglie e ora è
privo di qualsiasi aiuto. Il suo difficile compito comincia prima dell’alba e non finisce neppure al tramonto. Lei fa da
medico a sua moglie per tutto il giorno. Anche un giovane
troverebbe difficile una tale dedizione continua e logorante. Il dolore al petto che sopravviene alla fine del pomeriggio è un’espressione del linguaggio del corpo, cioè di quanto esso ha subito per lo stress a cui è stato soggetto. Peggiora di notte perché tutti noi siamo più fragili nell’oscurità».
Mentre parlavo il signor A. voltò il capo e le sue spalle
sussultarono; il figlio senza vergogna si asciugava gli occhi.
Cominciai a dare qualche consiglio pratico su come allargare la cerchia delle responsabilità. Mentre mi lasciava, il signor A. disse che avrebbe accorciato l’intervallo tra le visite. Quando ritornò, non aveva più nessun dolore al petto.
Un’anamnesi accurata è qualcosa di più di una lista di
dettagli. È l’aspetto più importante dell’arte medica: anche
se richiede tempo. Mai tempo è speso in modo migliore.
Costituisce le fondamenta per un rapporto umano tra medico e paziente fondato sul reciproco rispetto. Il tempo investito è solo un piccolo sacrificio per curare e per guarire.
Il primo contatto, quando il medico incontra il paziente, dovrebbe cominciare con una stretta di mano: un saluto di benvenuto, un gesto di ospitalità e un segno della disponibilità ad accettare qualcuno in quanto essere umano.
Per il medico la stretta di mano è una vera miniera di informazioni. Innanzitutto questa prima transazione illustra alla perfezione il carattere e lo stato psicologico del paziente: la mano stringe quella del medico con calore, oppure
con titubante diffidenza o con reticenza sospettosa? Una
stretta di mano vigorosa di una persona in pieno controllo
di sé contrasta con le dita incerte e esitanti in un paziente
timoroso e turbato.
Bisognerebbe scrivere un trattato sul valore diagnostico di una stretta di mano. Per esempio, un uomo di sessantacinque anni venne da me nel pieno dell’inverno per avere un parere su una fastidiosa palpitazione cardiaca. Mentre ci stringevamo la mano, fui colpito dalla sua palma
anormalmente calda e sudaticcia. Fuori faceva un freddo
cane e commentai che doveva avere dei guanti di pelle assai confortevoli. Replicò che non indossava quasi mai i
guanti. Immediatamente sospettai la presenza di un’iperattività tiroidea, che fu poi confermata da successive analisi cliniche. Quando la tiroide è iperattiva, il metabolismo
di ogni singolo organo aumenta considerevolmente, poiché si crea un maggiore flusso sanguigno, la pelle è calda
e arrossata, mentre il cuore, che batte con maggiore rapidità, è predisposto alle aritmie.
Come sottolinea Thomas, l’arte del medico medioevale
era l’applicazione delle mani. Fino all’avvento della medicina moderna nel nostro secolo, nella maggioranza dei casi si poteva fare ben poco d’altro. Con il passaggio del tempo, questo semplice atto di compassione è stato trasformato in arte per poi diventare un gesto con valore scientifico:
la mano infatti è diventata un’importante strumento diagnostico. Si sentiva il polso per misurare il ritmo cardiaco:
il medico più illustre dell’antichità, il greco Galeno, fu il
primo a valutare il ritmo cardiaco auscultando il polso. La
palpazione del petto poteva rivelare le dimensioni del cuore o l’esistenza di un aneurisma, quella del collo una tiroide ingrossata o la presenza di anomalie della valvola aortica. L’addome forniva abbondanti informazioni alle dita
sensibili: una milza o un fegato ingrossato, un’aorta dilatata; la presenza di un’appendice infiammata o di un tumore poteva essere individuata soprattutto grazie a un’esperta palpazione.
Anche se non sono un esperto nell’arte di ascoltare
mettendo l’orecchio contro il ventre o contro il petto, in
molte occasioni ho fatto tesoro di una palpazione attenta
della parete toracica. Sono persuaso che a volte permette
di individuare un attacco cardiaco imminente, convinzione
considerata con diffidenza dai miei colleghi. Circa trentacinque anni fa, in una calda giornata di luglio, mi è successo davvero. Con i due giovani specializzati del mio reparto
visitammo un robusto atleta di mezza età, un tempo terzino a Salt Lake City. Quel giorno gli era stata asportata la cistifellea; la nostra era una visita post-operatoria di routine.
I segni vitali erano integri, ma mettendo la mano sul petto
possente individuai un sollevamento parossistico sul lato
sinistro della parete toracica, che di solito è esente da movimenti. Sussurrai all’équipe che avremmo dovuto prescrivere un elettrocardiogramma d’urgenza, poiché avrebbe
potuto verificarsi un attacco cardiaco. I due colleghi si
2. Ascoltare con il tatto
Lewis Thomas, nel suo libro The Youngest Science1, saggiamente ricorda che il tatto è lo strumento più antico e più
efficace a disposizione del medico. Questa affermazione
mi sembra veritiera: sono infatti persuaso che il gesto di
toccare il paziente dà grossi vantaggi all’internista, in confronto allo psichiatra che sta seduto a distanza e si limita
ad ascoltare. Il tatto è un mezzo per ottenere informazioni significative. Spesso la conversazione preliminare è impersonale e il rapporto con il paziente subisce poi cambiamenti significativi dopo la visita. La distanza svanisce e viene sostituita da una tranquilla conversazione che scorre
senza difficoltà. Materiale mai divulgato né sospettato viene improvvisamente a galla senza indagini particolari. Non
ci si irrita più per le domande. Quello che pochi minuti prima era un estraneo ci rivela la parte più intima di sé, di solito riservata solo a amici di lunga data.
I medici del Medioevo mettevano un orecchio sull’addome o sul petto del paziente per sentire i movimenti delle viscere o il ritmo del cuore. Alcuni affinavano l’arte di
percepire i suoni del corpo. Difficilmente si poteva avvicinarsi di più a un paziente: l’orecchio posato sul petto era
un gesto che dimostrava simpatia e complicità. «È difficile
immaginare un gesto umano più amichevole, un segno più
intimo di interessamento personale e di affetto di un capo
che si china sul corpo», scrive Thomas, convinto che questo
comportamento costituisca uno dei maggiori progressi
della storia della medicina.
1Lewis
Thomas, The Youngest Science: Notes of a Medicine-Watcher,
New York, Viking, 1983.
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chicardia arteriale parossistica. Il suo aspetto indicava l’appartenenza all’alta società e l’abitudine al lusso. Si toglieva ogni capriccio e non era mai stata ostacolata. Quando
mi disse che seguiva una psicoterapia a New York, dove si
recava parecchie volte l’anno, le chiesi: «Perché non a
Rio?».
«Oh, è un posto troppo piccolo; il pettegolezzo è la nostra principale occupazione».
Cercai di scoprire le radici della sua inquietudine emotiva con un’anamnesi accurata, ma non approdai a nulla.
Mi disse che era una cattolica fervente e che aveva un figlio, ora sposato. Quando toccai l’argomento della sua vita coniugale e sessuale, tergiversò, affermando categoricamente che le mie domande non avevano nulla a che fare
con il cuore. D’altronde, questo era il territorio del suo psichiatra.
Le feci una lunga esposizione sulla correlazione tra il
cervello e il cuore e sugli insuccessi terapeutici nel caso tali rapporti fossero ignorati. Ascoltò in modo distaccato e
non rispose nulla. Ma dopo una visita attenta qualcosa
cambiò. Non più distante, sembrò ansiosa di parlare proprio mentre mi accingevo a farle una fluoroscopia. A quell’epoca, la fluoroscopia veniva eseguita in una stanza buia
e, per adattarsi all’oscurità, si mettevano occhiali a lenti
rosse. Lei stava con la piastra fredda mentre io muovevo lo
schermo fluorescente sul suo petto. Ero seduto molto vicino e i nostri petti quasi si toccavano. Quando mossi il fluoroscopio, proprio vicino al cuore apparve un grosso crocifisso che non aveva tolto. In quel momento chiese: «Dottore, il ritmo cardiaco anormale può essere dovuto alla masturbazione?».
Spensi il fluoroscopio, ma non accesi la luce. Nella profonda oscurità, i suoni erano amplificati. Parlai con un sussurro. «Domanda molto interessante. Perché me la fa?».
A bassa voce e con precisione, cominciò a parlare.
Pazzamente innamorata, si era sposata quarantatré
anni prima. Il matrimonio era stato uno dei più spettacolari di Rio, ma dopo la cerimonia il marito era scomparso, per
andare dall’amante il giorno delle nozze! Quando me lo
disse, la sua voce per la prima volta tradì un’emozione.
Seppe del tradimento del marito la settimana dopo e giurò di non avere mai più rapporti sessuali con lui. In compenso si era masturbata spesso. In quanto cattolica ortodossa, non aveva mai voluto prendere in considerazione il
divorzio.
«Ne ha parlato con il suo psichiatra?», chiesi.
«No, non l’ho fatto con nessun altro», rispose. «Questa
croce devo portarla da sola. È il mio destino».
L’arte di toccare è diventata superficiale poiché la visita stessa si è fatta superficiale. Questa presa di distanza è
iniziata 176 anni fa, quando il medico francese René Laennec cominciò a utilizzare un tubo di cartone arrotolato,
che poi fu perfezionato nello stetoscopio. Pur avendo ampiamente migliorato la qualità dell’auscultazione, questa
tecnica ha ridotto notevolmente il contatto intimo. Il viaggio della medicina scientifica ci ha portato lontano, per lo
più in positivo. Non avrebbe senso desiderare un ritorno
all’epoca in cui la testa si chinava e l’orecchio si posava per
percepire quei rumori del corpo da cui si indovinavano le
malformazioni del cuore o dei polmoni. Ma il progresso
scientifico e le innovazioni tecnologiche non dovrebbero
eliminare quelle qualità che migliorano l’intimità del rap-
guardarono stupiti. Il più cinico e arrogante dei due proruppe persino in una risata soffocata, insinuando che io li
prendevo in giro.
Continuammo con le visite. Circa venti minuti dopo, ci
fu un gran trambusto nel reparto in cui avevamo fatto le
visite e venimmo a sapere che il paziente che avevamo appena lasciato aveva avuto un arresto cardiaco. Non reagì ai
tentativi di rianimazione e l’autopsia rivelò un grave attacco cardiaco. I due colleghi, intimiditi e confusi, mi considerarono con deferenza, almeno per alcuni giorni.
Un altro metodo per la palpazione è la percussione, introdotta dal medico settecentesco Leopold von Auenbruggen per sondare i misteri del corpo. Il giovane Leopold osservava il padre, un mercante di vini, percuotere le botti
per sapere quanto vino vi restava. Quando poi diventò medico, applicò lo stesso metodo di percussione alle cavità
corporee. La percussione aiuta a individuare il consolidamento del tessuto del polmone nel caso di polmonite e la
presenza di liquidi nel petto e nell’addome, e fornisce le
dimensioni approssimative del cuore. Permette inoltre di
stabilire un contatto più stretto e fiducioso tra medico e
paziente.
Toccare profondi segreti
Ricordo in particolare due pazienti in cui un’anamnesi accurata aveva rivelato poche informazioni significative. Ma
durante la visita, che è atto di comunicazione svolto attraverso il tatto, emerse un flusso crescente di materiale importantissimo.
La prima paziente, una donna di ottantacinque anni, si
lamentava di svariati dolori. L’anamnesi non rivelò particolari significativi, ma la donna era chiusa in se stessa e come
sopraffatta da una profonda tristezza. Durante la visita,
mentre le stavo delicatamente palpando l’avambraccio, in
un lampo di genio chiesi: «Se vuole aiutarmi, perché è così
riservata?». Quando le parole letteralmente balzarono
fuori, rimpiansi di essere stato così invadente e sfacciato. Il
suo corpo fu percorso da brividi, sembrava una preda presa in trappola. Con il capo che dondolava da ambo le parti, disse in un bisbiglio male articolato, appena percettibile: «No, oh no!». Dopo una pausa interminabile, per metà
chiese e per metà affermò: «Lo sa, ora?». Rimasi silenzioso,
non consapevole di quello che immaginava che io sapessi e
non preparato a ciò che sarebbe sopraggiunto. Guardando
dritto davanti a sé, concentrata in un lontano dolore, raccontò qualcosa che era stato rimosso per anni.
Allevata in una famiglia benestante di Boston, a diciannove anni aveva cominciato a frequentare un uomo più
anziano, sui trentacinque anni. I genitori, assolutamente
contrari alla relazione, le predissero che avrebbe fatto una
brutta fine. Quando si rese conto di essere incinta, ottenne un lavoro in una fattoria del Vermont. Si sbarazzò da
sola del bambino e sotterrò il neonato vicino a una vecchia
sorgente. Rimase nubile, timorata e devota, senza mai rivelare a nessuno che aveva ucciso il suo bambino. Fino a
quel momento.
L’altra paziente era una donna brasiliana di Rio de Janeiro, graziosa, ardente, piena di fascino, che sembrava
ancora sulla quarantina mentre in realtà aveva già sessantun anni. Venne da me a causa di numerosi episodi di ta-
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B Lown - L’arte perduta di guarire
I farmaci possono alleviare alcuni dei sintomi per un certo
periodo, ma la malattia soggiacente non guarisce. L’assenza di attenzione per l’aspetto psicologico impoverisce la
medicina nel suo nucleo vitale scindendo la cura dalla guarigione. Questa pratica diffusa ha danneggiato l’immagine
dei medici e ha diminuito considerevolmente il loro prestigio sociale.
Il mio interesse per la psicologia precede quello per la
medicina. Quando ero alle scuole superiori, divoravo le
opere di Freud ed ero un appassionato della psicoanalisi,
che consideravo uno dei massimi progressi scientifici del
nostro secolo. Come ho già detto, volevo diventare psichiatra, ma poco dopo essere entrato all’università, la psichiatria perse il suo fascino. Fui colpito nello scoprire quanto
questa disciplina potesse essere soggettiva e la disillusione
mi spinse all’estremo opposto. Durante il periodo di specializzazione, passai un anno pietoso a sezionare cadaveri
al Grace New Haven Hospital come interno in anatomia
patologica. Tuttavia, pur avendo scartato apertamente la
disciplina psichiatrica, non persi l’interesse per i rapporti
tra psiche e cervello, nucleo vitale della nostra peculiarità
di esseri umani.
Dopo aver seguito la specializzazione in cardiologia, ritornai alla mia prima infatuazione scientifica. È strano come i cicli e i ricicli riportino alle fissazioni giovanili. Anche
se avevo rapidamente abbandonato il mio originario interesse per la psichiatria, la mia vita è pervasa dalla preoccupazione per gli aspetti psicologici della malattia. Anche se
non ci fu un progetto né una decisione cosciente, per più
di tre decenni le mie ricerche si sono concentrate sull’esplorazione dei rapporti tra psiche e cuore. Senza dubbio,
le proprie azioni sono il risultato del proprio spirito. Ero ritornato ai miei inizi, destinato da un fato ineluttabile.
Il mio interesse per la psicologia era continuamente riattivato dalle osservazioni cliniche e dallo studio della letteratura scientifica. Un articolo pubblicato in una rivista
medica indiana sul tema «Uccisi dall’immaginazione»1 mi
lasciò un’impressione indelebile.
Un medico indù era stato autorizzato dalle autorità carcerarie a condurre un sorprendente esperimento su un criminale condannato a morte per impiccagione. Il medico
persuase il prigioniero a farsi dissanguare, assicurandogli
che la morte, proprio perché graduale, sarebbe stata indolore. Il prigioniero, consenziente, fu legato al letto e bendato. Recipienti pieni d’acqua furono fissati ai quattro lati
del letto e sistemati in modo da gocciolare in bacinelle poste sul pavimento. La pelle alle quattro estremità del prigioniero fu incisa e l’acqua cominciò a gocciolare nei contenitori, all’inizio velocemente, poi sempre più adagio. Il prigioniero diventava sempre più debole, condizione rafforzata
dal tono di voce del medico, che era sempre più basso. Alla
fine il silenzio fu assoluto e lo sgocciolio cessò. Anche se il
condannato era un uomo giovane e sano, alla fine dell’esperimento, quando l’acqua smise di gocciolare, sembrava
svenuto. A un esame attento, tuttavia, si accertò che era
morto, anche se non aveva perso una sola goccia di sangue.
Da secoli circolano aneddoti analoghi. I medici hanno
sempre saputo che l’attività nervosa influenza ogni parte
porto. «La medicina oggi non è più l’applicazione delle
mani, ma è costituita dalla capacità di leggere i segnali
emessi dalle macchine», scrive Lewis Thomas. Quello che
dobbiamo deplorare è la perdita dello stretto legame tra
medico e paziente.
3. Psiche e cuore
Se ascoltare è così importante, che cosa deve ascoltare il
medico? Innanzitutto deve prefiggersi di capire il problema medico e la persona che sta dietro i sintomi, la più difficile da comprendere. Durante il colloquio, il medico comincia a conoscere il paziente in quanto essere umano.
Questo non significa soltanto sapere i fatti fondamentali
sulla famiglia, l’educazione, il lavoro eccetera, ma anche
conoscerne il carattere.
Sin dagli albori della medicina, i medici sono stati consapevoli che le emozioni possono predisporre un individuo
alla malattia e ne influenzano il decorso. I cardiologi hanno imparato che lo stress psicologico può condizionare gli
aspetti specifici delle funzioni cardiache. La tensione può
aumentare il ritmo cardiaco, accrescere la pressione, ridurre il flusso sanguigno dell’arteria coronarica, aumentare la
sensibilità elettrica del cuore e modificare le proprietà retrattili del miocardio, il muscolo che pompa il sangue. Una
psiche disturbata può inteferire con il ritmo cardiaco, predisporre all’angina pectoris, far precipitare un attacco di
cuore e provocare una morte improvvisa per arresto cardiocircolatorio.
Quindi il colloquio non si propone soltanto di conoscere un disturbo, ma di capire quello che turba la psiche del
paziente. Oggi sentiamo parlare di psiche come se si trattasse di una scoperta recente, ma nella storia della scienza
la psiche è antecedente al cervello in senso fisico. Fino alla
fine del XIX secolo la psiche era considerata inseparabile
dal corpo, ma quando la scienza ha preso il sopravvento il
dualismo ha cominciato a condizionare anche il pensiero
medico. La psiche era scissa dal corpo e sembrava un oggetto a parte, un’entità spirituale e non scientifica. Il corpo, oggetto dell’indagine scientifica, può essere sondato,
studiato, penetrato, sezionato e oggettivato. Liquidi e secrezioni possono venire prelevati e analizzati chimicamente. Può essere identificato un processo patologico, il decorso venirne pronosticato, la reazione alla terapia verificata
e quantificata. Tutto ciò rientra nel campo della scienza. Lo
stesso non si può dire della psiche, perché le sue sfumature sono percepite e immaginate, non misurate. Fino a oggi, non c’è un metodo che possa chiarire in modo oggettivo gli stati dell’interiorità umana perturbati e espressi con
sensazioni di ansia, tensione, inadeguatezza e depressione. Gli stati emotivi sono fattori di rischio per le malattie,
influenzano le modalità di apparizione di un dato disturbo, ne determinano il decorso e la rapidità di guarigione.
Quando i problemi psicologici dominano la malattia,
come spesso succede, il medico generico può diagnosticare una nevrosi, termine onnicomprensivo con cui vengono
definite le condizioni che mancano di spiegazione scientifica. Le aspettative del paziente vengono disattese dal rifiuto di prendere in considerazione gli aspetti psicologici
della malattia e l’incapacità di capire le dimensioni emotive di un disturbo cronico non aiuta il medico a migliorarlo.
1N.S.
Yagwer, Emotions as a Cause of Rapid and Sudden Death,
«Archives of Neurology and Psychiatry», 36, 1936, 875.
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vori insoddisfacenti e mal pagati costituiscono un fattore a
rischio per le malattie cardiache. Lo stesso vale per gli Stati Uniti.
Oltre all’occupazione, il livello di istruzione è un’efficace strumento predittivo per le aspettative di vita. I laureati vivono in media più a lungo di coloro che hanno solo la
licenza elementare. E se un lavoro stressante è un fattore
a rischio per i disturbi cardiaci, lo è anche la mancanza di
lavoro. Negli Stati Uniti, ogni punto in percentuale sulla
disoccupazione aumenta le morti per disturbi coronarici di
circa seimila unità l’anno. D’altro lato, le malattie cardiache mietono meno vittime tra coloro che sono felicemente sposati, hanno una buona rete di conoscenze, vivono in
famiglie unite, compiono lavori interessanti e coltivano
molti e svariati interessi. Tra coloro che vivono soli, il possesso di un animale domestico diminuisce il rischio di infarto. Un attacco cardiaco ha prognosi positiva per coloro che
hanno molti contatti sociali. Per esempio, coloro che vivono con il coniuge, con un membro della famiglia o con un
amico, nei sei mesi successivi a un attacco cardiaco dimezzano il tasso di ricaduta rispetto a quelli che vivono soli.
Tra i pazienti con disturbi alle coronarie, il fatto di vivere
soli comporta lo stesso rischio che avere un’insufficienza
cardiaca congestiva, una delle più gravi complicazioni dell’attacco di cuore. Questi dati mettono in risalto il potere
che ha la psiche di influire sui disturbi cardiaci e sul loro
decorso.
Altri dati che avvalorano questa tesi provengono dai
disastri naturali e dalle guerre, che provocano situazioni di
grave stress psicologico, con un aumento della morbilità e
della mortalità cardiaca. Per esempio il forte terremoto del
1981 avvenuto in Grecia fu seguito, nelle ventiquattro e
quarantotto ore successive, dal triplicarsi delle morti cardiovascolari. L’attacco di missili iracheni sulle città israeliane provocò un aumento della mortalità cardiaca: il giorno
in cui atterrarono i primi missili Scud ci fu una notevole impennata delle morti per infarto, che aumentò addirittura
del 58%, con una vulnerabilità femminile doppia rispetto
ai maschi.
Se gli eventi esistenziali negativi predispongono alla
morbilità e mortalità cardiaca, quelli positivi possono posticipare la morte. Due psicologi di San Francisco, D.P. Phillips e E.W. King, hanno ipotizzato che coloro che rischiano
la morte fanno una sorta di «patto» con Dio chiedendogli
di posticipare la loro morte fino al manifestarsi di un’occasione importante, come una nascita, un matrimonio, un
anniversario, una festa religiosa eccetera. Se alcune persone fossero davvero in grado di rimandare la morte, ci dovrebbe essere un abbassamento significativo delle morti
prima di un importante evento psicosociale e un’impennata dopo. Phillips e King scelsero di studiare la distribuzione
delle morti tra gli ebrei e i non ebrei nel periodo intorno
alla Pasqua ebraica. Scoprirono che i maschi più anziani
tendevano a morire con minore frequenza nella settimana
prima della Pasqua. Questa osservazione si ripeté ogni primavera per un periodo di diciannove anni, quanto durò la
ricerca.
Come la Pasqua ebraica, ogni ricorrenza della festa del
Plenilunio d’Autunno è un’occasione gioiosa per le donne
cinesi, in cui si riscontra una diminuzione del tasso di morte nella settimana precedente la festa. Segue poi un’impennata di decessi nella settimana successiva.
del corpo. Quasi 350 anni fa, William Harvey, che scoprì la
circolazione sanguigna nel corpo, affermò: «Ogni stato
della mente che è vissuto con dolore o piacere, con speranza o paura, è causa di un’agitazione la cui influenza si
estende al cuore».
Nel corso della mia professione, mi sono interessato alla morte improvvisa per arresto cardiaco, una delle principali cause di decesso negli Stati Uniti. Era abbastanza naturale associare i miei due principali interessi per analizzare se lo stress psicologico fosse la causa immediata della
morte cardiaca improvvisa. Molto prima che i medici si interessassero a questa relazione, la saggezza popolare in
molte società e culture diverse trasmetteva l’idea che le
forti emozioni potessero provocare una morte improvvisa.
Il linguaggio quotidiano è pieno di espressioni come «morì con il cuore spezzato», un «peso sul cuore», il «cuore era
pieno fino a scoppiare», «è morto di crepacuore», ognuna
delle quali allude a uno stress emotivo intollerabile. Ai
giorni nostri la stampa spesso associa la morte improvvisa
a emozioni intense. Tuttavia la professione medica è sempre stata incerta se attribuire o meno queste convinzioni
alla saggezza popolare ed è rimasta scettica malgrado la
mole di studi epidemiologici che associavano le emozioni
nella morte cardiovascolare.
All’inizio del secolo Karl Pierson, il padre della biostatistica moderna, studiò i dati della morte dei coniugi sulle
pietre tombali di cimiteri inglesi tedeschi e olandesi e osservò che mariti e mogli tendevano a morire entro un anno l’uno dall’altro. Quella che appariva una semplice coincidenza da allora è stata dotata di significato. Coloro che
soffrono per la perdita del coniuge e di uno stretto membro familiare sono ad alto rischio di morte cardiaca. Dall’epoca di Pierson, molti studi epidemiologici hanno dimostrato che le tensioni sociali di varia natura possono essere
associate a un aumento dei disturbi coronarici e alla morte. Una ricerca molto documentata riporta i cambiamenti
nella morbilità e nella mortalità nei giapponesi che si erano trasferiti alle Hawai e nella baia di San Francisco. In
Giappone i disturbi alle coronarie sono rari. Aumentarono
tra coloro che si erano stabiliti nelle Hawai e eguagliarono
l’alto tasso americano tra quelli che risiedevano nella costa
ovest. La spiegazione corrente è che i giapponesi siano stati vittime delle abitudini di vita malsane degli americani
come dieta ricca in grassi, aumento del consumo del tabacco e vita sedentaria. Il fatto sorprendente, tuttavia, è che i
giapponesi residenti nella costa ovest che resistono all’assimilazione, anche quando eguagliano il tasso di colesterolo, il consumo di tabacco e la pressione sanguigna degli
americani, hanno un’incidenza più bassa di disturbi cardiaci e di morte dovuta a problemi cardiaci. Anche se il fatto
di mantenere la cultura giapponese difende contro i danni dei disturbi cardiaci, i processi psicologici devono avere
un ruolo chiave nell’immunizzazione.
Dati simili sull’impatto dello stress, in questo caso collegato all’impiego, sono stati trovati in un’indagine sugli
impiegati statali londinesi. Gli alti funzionari e il personale amministrativo avevano un’aspettativa di vita più alta,
mentre gli operai avevano un tasso addirittura quattro volte superiore di morte cardiovascolare. Una rettifica sui fattori di rischio, presupponendo che le classi inferiori avessero uno stile di vita meno sano, non alterò queste sorprendenti disparità statistiche. I fattori psicologici associati a la-
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B Lown - L’arte perduta di guarire
Come ho già detto prima, la gente crede alla correlazione tra lo stress e il cuore. Quando chiedo a qualcuno in
che giorno della settimana preferirebbe morire di morte
improvvisa, la risposta è invariabilmente il lunedì. Poiché la
maggioranza svolge un lavoro spiacevole, il primo giorno
della settimana è considerato il più stressante. Questa impressione generale è avvalorata da un importante studio
canadese che ha seguito più di cinquecento maschi per oltre quarant’anni2. Mentre le morti per cancro erano distribuite in modo omogeneo in tutta la settimana, lo stesso
non valeva per le morti per infarto: il lunedì si assisteva a
un’incidenza doppia rispetto al resto della settimana.
Chiarire il ruolo dei fattori psicologici nella morte per
infarto è un’impresa scoraggiante. Perfino il compito minore, quello di definire oggettivamente lo stress, si scontra con problemi inafferrabili. Quello che è stressante per
una persona è piacevole per un’altra. Gli indizi psicologici
di stress o le caratteristiche personali sono per lo più soggettivi. Un altro ostacolo della ricerca nel rapporto tra psiche e cervello sta nel fatto che il pensiero medico è dominato da modelli meccanicistici in cui la causa e l’effetto sono considerati collegati a livello spaziale o temporale.
Questo è vero nel campo della fisica dei grandi corpi in cui
lo stress e le sue conseguenze sono misurabili. Ma nel caso del campo psico-cerebrale, che io considero quello dell’attività nervosa superiore, uno stimolo, innocuo o dannoso, non è mai assolutamente separato dalle qualità trasmesse dalla sua percezione. Per esempio, se siamo preoccupati perché nostro figlio tarda a tornare la sera, uno
squillo di telefono può provocare la minacciosa premonizione di un incidente; improvvisamente il cuore si mette a
battere più in fretta, la pressione aumenta e ci ritroviamo
coperti di sudore. Ma nella maggioranza degli altri casi lo
squillo del telefono non provoca alcuna eccitazione psicologica.
Il fatto che un avvenimento particolare si riveli emotivamente stimolante e portatore di ansia è determinato da
una serie di fattori, inclusa la predisposizione genetica, le
prime esperienze infantili, i processi di condizionamento
dell’intera vita e una serie di variabili sociali e culturali. Tutti questi elementi forgiano quell’unico prisma psicologico
che rifrange gli eventi quotidiani. Inoltre, uno stimolo negativo raramente è unico, palese e fondamentale. Più frequentemente, è cronico, discontinuo e apparentemente
insignificante. Le reazioni psicologiche, poi, possono ritardare a lungo, confondendo la nostra capacità di evidenziarne le cause.
Nella ricerca del ruolo dello stress nella morte per infarto, un primo passo fu quello di determinare se una stimolazione elettrica di particolari centri cerebrali predisponesse animali da laboratorio a una fibrillazione ventricolare,
cioè il ritmo cardiaco elettricamente disturbato che provoca la morte per infarto. Operando con animali sotto anestesia con elettrodi speciali, stimolammo il centro cerebrale, che ha le dimensioni di un pisello e controlla il ritmo cardiaco. L’ipotesi soggiacente era che stimolando elettricamente tali centri cervicali si sarebbe messo fuori uso un
cuore già danneggiato, provocando una fibrillazione ventricolare.
Affidai il compito al dottor Jonathan Satinsky, un medico appena specializzato. La sua relativa mancanza di
esperienza era un vantaggio, poiché non era turbato da
questo progetto scoraggiante che molti colleghi più esperti avevano rifiutato. Prepararsi sulla complessa anatomia
del cervello richiedeva un anno di duro lavoro. Per fortuna, si rivelò un periodo speso bene, perché i risultati furono assai più convincenti di quanto ci eravamo aspettati.
Nell’animale anestetizzato, la fibrillazione ventricolare
segue alla chiusura improvvisa di una grossa arteria coronarica. Scegliemmo un piccolo vaso coronarico che, se occluso, raramente ha come risultato una fibrillazione. Negli
animali di controllo, i vasi coronarici erano ostruiti senza
stimolazione cerebrale, anche se l’elettrodo era correttamente posto al cervello. Solo il 6% di questi animali di controllo ebbero una fibrillazione ventricolare come risultato
di un’occlusione dell’arteria coronarica. Tuttavia, quando i
due eventi erano simultanei, cioè il cervello era stimolato
elettricamente mentre l’arteria era ristretta e poi totalmente occlusa, l’incidenza di fibrillazione ventricolare saliva al 60%, dieci volte superiore.
Apprendemmo rapidamente che non si devono stimolare le strutture del sistema nervoso centrale per predisporre il cuore a una fibrillazione ventricolare. Gli stimoli
dannosi che provengono da un cervello perturbato sono
trasmessi tramite i nervi del sistema nervoso simpatico. Stimolare questi nervi verso il cuore aveva un risultato analogo senza bisogno di esplorare alla cieca la fitta rete di neuroni del cervello.
Come sito della stimolazione, scegliemmo il ganglione
stellato, una stazione trasformativa nel traffico nervoso
simpatico dal cervello al cuore, collocato in un luogo accessibile nel collo. Il dottor Richard Verier, fisiologo, dirigeva
la ricerca nel mio laboratorio. Quando il cuore fu privato
dal flusso sanguigno con una lenta costrizione del vaso coronarico, il ritmo cardiaco rimase inalterato. Ma quando la
costrizione fu accompagnata dalla stimolazione del ganglione stellato, si ebbe come risultato una fibrillazione
ventricolare. Per essere sicuri che il risultato fosse la conseguenza diretta dell’attività nervosa simpatica, dovemmo
impedire altri effetti della stimolazione, come l’invariabile
accelerazione del ritmo cardiaco e della pressione. Quando
questi cambiamenti furono preclusi, la stimolazione del
ganglione stellato aumentò la vulnerabilità del cuore alla
fibrillazione ventricolare. Altri esperimenti dimostrarono
che l’aritmia dipendeva dall’azione della noradrenalina direttamente sul muscolo cardiaco. La noradrenalina è il
neurotrasmettitore simpatico, la sostanza chimica rilasciata in piccole quantità dai terminali nervosi che stimolano
una pulsazione elettrica e fungono da base alla trasmissione neurale.
Il grande potere dell’attività nervosa simpatica, il sistema che informa gli organi del corpo sulle emozioni stressanti, mi fu chiarito in un esperimento in cui la circolazione coronarica era completamente intatta, ma una semplice stimolazione dei nervi simpatici poteva far insorgere
una fibrillazione ventricolare. Vi è un certo lasso di tempo
nel ciclo cardiaco in cui uno stimolo elettrico di forza sufficiente può provocare una fibrillazione ventricolare, che si
riferisce a un periodo ventricolare vulnerabile (vedi capito-
2S.W.
Rabkin e coll. The Electrocardiogram in Apparently Healthy
Men and the Risk of Sudden Death, «British Health Journal», 47,
1982, 546-552.
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te settimane o addirittura mesi erano passati da quando
gli animali erano stati sottoposti a scariche elettriche; ma il
ricordo del lieve trauma rimaneva profondamente impresso nel loro cervello e modificava la reattività cardiaca. Questi risultati dimostrarono per la prima volta che lo stress
psicologico poteva aumentare considerevolmente la suscettibilità del cuore a essere colpito da una aritmia potenzialmente letale.
Le aritmie, inclusa la fibrillazione ventricolare, furono
provocate in animali con le coronarie ristrette dal loro precedente soggiorno in ambiente nocivo. Il tipo di stress psicologico non era fondamentale; ottenemmo risultati con
analoghi animali addestrati a premere un dispositivo per
evitare piccole scariche elettriche. Altre ricerche dimostrarono che la reazione allo stress era mediata dal sistema
nervoso simpatico, una delle due componenti del sistema
nervoso autonomo. Se si bloccava farmacologicamente
l’attività neurale simpatica, gli animali erano protetti dalla fibrillazione ventricolare indotta dallo stress psicologico.
Un altro elemento di questo puzzle fu il ruolo dell’altra
componente, il sistema nervoso parasimpatico. Come abbiamo già detto, il sistema simpatico stimola il cuore e i vasi sanguigni, preparando l’organismo ad anticipare il pericolo e a reagirvi. Il grande fisiologo di Harvard Walter B.
Cannon aveva definito questa reazione stato di «lotta o
fuggi». Il sistema parasimpatico, invece, ha un effetto opposto: il cuore batte più adagio, la pressione diminuisce e
il muscolo cardiaco diventa meno sensibile.
Il nervo vago è il principale condotto del sistema parasimpatico e va dal cervello al cuore. Un’attività vagale accresciuta è quindi auspicabile e può essere aumentata con
l’esercizio fisico. Un sistema cardiovascolare sano e ben
condizionato a livello vagale è contraddistinto da un polso
lento, da bassa pressione e da contrazioni cardiache più efficienti che richiedono un minore apporto di ossigeno. È
quindi importante definire il ruolo della sollecitazione vagale durante lo stress psicologico. Per districare questa
complessa rete di rapporti neurali abbiamo impiegato più
di cinque anni. Si può riassumere il nostro lavoro in un’unica frase: l’attività vagale diminuisce o annulla completamente l’eccitazione emotiva simpatetica e mediata a livello neurale, proteggendo quindi dalla morte per infarto.
Attraverso gli esperimenti sugli animali e gli studi clinici, siamo giunti alla conclusione che la morte per attacco
cardiaco è un incidente elettrico in un cuore a corto di ossigeno, tipico di coloro che hanno gravi disturbi coronarici. L’evento scatenante, o fattore di rischio transitorio, può
derivare da stress emotivo e comportamentale. Esso agisce
in modo episodico e momentaneo e differisce dai fattori di
rischio familiari cronici come colesterolo alto, ipertensione, obesità, mancanza di esercizio e diabete, che agiscono
in modo continuo, spesso per l’intera vita e predispongono ai disturbi coronarici. L’azione dei fattori a rischio transitori, molti dei quali originati da un’intensa attività nervosa, giustifica il paradosso secondo cui si può morire improvvisamente senza gli indizi di occlusione coronarica.
lo 13). In questo esperimento rilevammo che deboli stimoli elettrici successivi, troppo deboli per perturbare il cuore
anche se somministrati nel periodo ventricolare vulnerabile, provocavano una fibrillazione ventricolare con stimolazione del nervo simpatico tramite il ganglione stellato.
Ogni forma di stimolazione in se stessa era completamente innocua, ma la combinazione di stimolazioni elettriche
simultanee dei nervi simpatici e del muscolo cardiaco provocavano la morte per aritmia.
Avendo trovato che l’attività nervosa superiore era in
grado di provocare disturbi potenzialmente fatali del ritmo cardiaco, eravamo pronti ad affrontare un problema
più difficile, quello di verificare se fattori comportamentali e psicologici avevano lo stesso effetto. Ci trovammo di
fronte a due problemi metodologici, uno collegato alla fibrillazione, l’aritmia che era oggetto del nostro esperimento, e l’altro collegato alla necessità di scegliere uno
stress psicologico appropriato per i cani, i nostri modelli
sperimentali. Per studiarne gli effetti psicologici, gli animali devono essere svegli e non trattati con sedativi. Qui ci
trovavamo di fronte a un problema altrettanto insuperabile. Sembrava logico che, per studiare la fibrillazione ventricolare, dovessimo provocarla. Tuttavia provocare una fibrillazione ventricolare è estremamente traumatico, soprattutto quando la fibrillazione è accompagnata dalle
dolorose azioni di rianimazione; non solo sarebbe stato disumano, ma il dolore e l’agitazione dell’animale avrebbe
precluso l’investigazione significativa delle variabili psicologiche.
Quale poteva essere il procedimento per capire la sensibilità alla fibrillazione ventricolare? Era necessario stabilire un momento chiave che servisse a verificare la vulnerabilità alla fibrillazione ventricolare senza mai oltrepassare
i limiti che provocavano la fibrillazione stessa. Trovai una
soluzione basandomi sulla conoscenza clinica ottenuta con
l’utilizzazione del defibrillatore (vedi capitolo 13). Nei pazienti che morivano improvvisamente per fibrillazione ventricolare, l’aritmia mortale non giungeva senza preavviso.
Era preceduta da lievi aritmie molto frequenti, che mostravano sequenze ripetute di extrasistole estremamente ravvicinate. Questi prodromi della fibrillazione ventricolare
potevano forse fungere da sostituti alla sua franca manifestazione? Invece di provocare una fibrillazione, potevamo
ottenere informazioni significative suscitando queste aritmie premonitrici? Ci accorgemmo che era possibile in alcune condizioni psicologiche e fisiologiche senza che gli animali da laboratorio ne fossero nemmeno consapevoli.
Quanto allo stress psicologico, all’inizio utilizzammo il
condizionamento negativo classico. I cani erano collocati
in due ambienti diversi, una gabbia in cui l’animale era lasciato indisturbato e una cinghia pavloviana in cui l’animale era sospeso con le zampe al di sopra del terreno. Per i tre
giorni successivi, i cani appesi alle cinghie ricevevano un’unica leggera scarica elettrica. Non ricevettero altre stimolazioni. Dopo alcuni giorni, i cani dei due diversi ambienti
furono esaminati per individuare la facilità di indurre aritmie premonitrici della fibrillazione ventricolare.
Gli animali nelle cinghie erano agitati, il ritmo cardiaco
era rapido e la pressione alta. Gli animali in gabbia erano
rilassati. Sembrò incredibile che il semplice trasferimento
degli animali dalle gabbie alle cinghie potesse facilitare
l’induzione di aritmie premonitrici della fibrillazione. Mol-
La validità del concetto dei fattori di rischio transitori
mi è stata dimostrata da un’insolita esperienza clinica. Il signor Jones, un educatore di trentanove anni, sembrava il
ritratto della salute; aveva un fisico robusto e non era stato ammalato un solo giorno in vita sua. Era il 1974 e la mia
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B Lown - L’arte perduta di guarire
vicino che suonava il campanello. Una delle figlie aprì la
porta e lui cadde sul pavimento dicendo: «Mi dispiace».
Durante i colloqui psichiatrici era apparso completamente a suo agio, ma quando lo psichiatra era entrato nella stanza, era stato colpito da un’aritmia. Il cambiamento
era stato evidente e pienamente quantificabile; le extrasistole erano aumentate di almeno quattro volte durante i
colloqui psichiatrici in rapporto al resto del giorno. Le complesse forme di aritmia che erano sotto controllo grazie a
farmaci anti-aritmia erano ricomparse durante le altre sedute.
Un attento monitoraggio del suo ritmo cardiaco per
molti giorni rivelò un modello insolito. La maggior incidenza di extrasistole avveniva nelle prime ore del mattino,
quando sembrava che Jones dormisse tranquillo. Il fatto fu
ulteriormente confermato da un’analisi del sonno, che
reigstrava le onde cerebrali, i movimenti oculari e il tono
muscolare, rendendo possibile l’identificazione del sonno
REM, associato con il sogno. Durante il sonno REM, Jones
aveva una frequenza maggiore e forme più complesse di
extrasistole di quando era sveglio. Di solito durante il sonno le extrasistole ventricolari diminuiscono e le forme più
avanzate spariscono. Il fatto che le extrasistole fossero premonitrici di aritmie gravi fu provato quando Jones ebbe un
secondo arresto cardiaco che coincideva esattamente con
la fase del sonno REM.
Dopo essere stato rianimato, Jones fu colto dal panico
e mi implorò di fare di tutto perché l’episodio non succedesse più. Per la prima volta era pronto a divulgare il contenuto di un sogno, soprattutto quello che aveva avuto immediatamente prima dell’arresto cardiaco. Aveva sognato
di essere in automobile con una donna completamente nuda. Il motore era acceso e la macchina si trovava pericolosamente in bilico sull’orlo di un precipizio. Con l’intensificarsi del desiderio, il suo comportamento era diventato
violento. Inorridito da quello che stava facendo, aveva pigiato sull’acceleratore, la macchina era precipitata e si era
fatto il buio.
Il ruolo critico dell’attività nervosa superiore nella genesi delle sue aritmie fu anche dimostrato dai rimedi che le eliminarono. La meditazione ridusse la frequenza delle extrasistole e tre farmaci impiegati successivamente come antiaritmia, ognuno dei quali con una funzione diversa, modificarono la circolazione neurale verso il cuore. Un farmaco
agiva direttamente sul cervello impedendo gli improvvisi
scatti di collera di Jones, che assomigliavano agli attacchi
di epilessia; il secondo bloccava l’attività nervosa simpatica; il terzo migliorava l’attività del nervo vago parasimpatico. Quando questi tre farmaci erano associati, tutte le
aritmie scomparivano e non potevano essere provocate
neppure dai colloqui psichiatrici. Per premunirsi contro
eventualità pericolose, fu consigliato a Jones di meditare
quando il suo livello di tensione diventava insopportabile.
Fu iniziato un impegnativo programma di esercizio fisico e
di condizionamento. Più di vent’anni dopo, Jones conduceva una vita piena e produttiva. Anche se aveva avuto dei
momenti difficili, i disturbi del ritmo cardiaco erano scomparsi.
clinica era un centro di cura per pazienti affetti da aritmie
gravissime. Jones fu inviato da un piccolo ospedale del
Connecticut con la diagnosi di improvviso arresto cardiaco
causato da un attacco dovuto probabilmente a un’occlusione dell’arteria coronarica. La diagnosi di coronaropatia
era sorprendente, poiché il suo colesterolo era di soltanto
160 mg/dl, non aveva mai fumato, la pressione era bassa e
i suoi genitori erano entrambi viventi e non presentavano
patologie cardiache.
Il giorno in cui si era verificato l’arresto cardiaco non
era accaduto nulla di eccezionale. Per ragioni non chiarite,
il signor Jones aveva deciso di ritornare a casa presto nel
pomeriggio. Mentre giocava con le figlie adolescenti, venne meno, divenne cianotico, cominciò a rantolare e smise
di respirare. Jones fu sottoposto a una rianimazione cardiopolmonare dai membri della famiglia e trasportato
d’urgenza al vicino ospedale, dove gli fu applicato un defibrillatore. Dopo dodici ore riprese conoscenza, senza presentare nessun danno neurologico. Gli elettrocardiogrammi non mostravano segni di attacco cardiaco. Anche gli
specifici enzimi cardiaci erano normali. Aveva numerose
extrasistole ventricolari contro le quali i vari farmaci antiaritmia si rivelarono inefficaci. Dopo venti giorni nell’ospedale locale, fu trasferito nel mio reparto al Peter Bent Brigham Hospital.
Un check-up completo, che comprendeva un cateterismo cardiaco e un angiogramma coronarico rivelò un cuore perfettamente normale e vasi coronarici liberi. Il monitoraggio del ritmo cardiaco, tuttavia, mostrava frequenti
extrasistole e brevi parossismi di tachicardia ventricolare,
un episodio con una serie rapidissima di battiti anormali
che poteva preannunciare la fibrillazione ventricolare.
L’arresto cardiaco era inspiegabile. I colloqui psichiatrici non avevano individuato nessun disturbo emotivo, pur
evidenziando una notevole tensione esistenziale. Cresciuto in una modesta famiglia di lavoratori, Jones era stato il
primo membro della famiglia a frequentare l’università.
Instancabile nel lavoro, aveva periodi di grande entusiasmo e si buttava con fervore in ogni progetto. Ma era spesso contrariato dalle scorrettezze dei colleghi e covava un
rabbioso risentimento per tradimenti veri o immaginari. La
collera veniva smaltita con costanti esercizi fisici, tenaci e
solitari. Faceva spesso sogni con scene di violenza e contenuto erotico, che poi rinnegava come se non appartenessero al suo vero Io. Poiché aveva passato l’infanzia in una
famiglia rigidamente religiosa, era imbevuto di moralismo, soprattutto riguardo al sesso, vissuto come peccaminoso. Negava di provare attrazione sessuale se non per la
moglie, pur ammettendo che molte delle sue colleghe gli
facevano delle avances. Temeva il comportamento sessuale violento e la perdita del controllo. Tenere a freno l’aggressività era il leit-motiv della sua vita.
Sei mesi prima dell’episodio che gli fu quasi fatale aveva avuto un insuccesso professionale che aveva messo a repentaglio il suo lavoro, dato il periodo di stagnazione economica. Turbato e irrequieto, trovava poco sostegno nella
moglie, che doveva occuparsi dei genitori vecchi e malati, o
nei figli, che sempre più spesso erano fuori casa con gli amici. Appena prima dell’episodio di fibrillazione ventricolare,
Jones, secondo le sue stesse parole, aveva «giocato alla lotta» con le figlie adolescenti. Mentre erano coinvolti in questo gioco sessualmente provocatorio, furono interrotti dal
Il caso del signor Jones illustra il ruolo fondamentale
del rapporto psiche-cervello nel provocare la morte. Malgrado le indagini più accurate, fummo incapaci di scoprire
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condizioni oggettive e quelle autogenerate e collegate a
modelli comportamentali profondamente radicati, a volte
con base genetica. Arricchendomi di esperienza clinica, sono diventato più scettico sulla possibilità di migliorare i
comportamenti non adattativi innati, che si tratti di alcolismo, dipendenza dal fumo o dalle droghe, obesità, assenza di auto-stima, abitudini ossessive o semplicemente mancanza di gioia di vivere.
Bisogna essere più umili nell’affrontare il problema. A
questo livello insufficiente della conoscenza psicologica,
forse dovremo accontentarci di alleviare Prometeo nel suo
tormento piuttosto di cercare inutilmente di liberarlo dalle spire che lo avvolgono. Per il cardiologo si tratta di diminuire una trasmissione nervosa potenzialmente nociva al
cuore, anche se lo stress esiste, sia esso auto-indotto o provocato dall’esterno. Le ricerche innovatrici del professor Richard Wurrtman e dei suoi colleghi al Dipartimento di Neuroscienze del MIT sembrarono indicare una strada: scoprirono che la sintesi dei neurotrasmettitori cerebrali, come la
serotonina, poteva venire modificata dalla dieta. I neurotrasmettitori, unità chimiche di trasmissione situati tra i
nervi, sono secreti nelle terminazioni nervose da precursori degli aminoacidi presenti nel sangue derivati dalla dieta
quotidiana. Quindi la concentrazione di neurotrasmettitori cerebrali dipende in parte da quello che mangiamo.
All’inizio ci concentrammo sulla serotonina, poiché
sembrava controllare la trasmissione nel sistema nervoso
simpatico. Non era chiaro se un aumento della concentrazione della serotonina nel cervello avrebbe ridotto l’attività nervosa simpatica cardiaca, ma quando somministrammo agli animali gli aminoacidi precursori della serotonina,
ci rendemmo conto che la trasmissione nervosa dal cervello al cuore era notevolmente ridotta. È un metodo che
può proteggere il cuore contro le aritmie letali conseguenti a un’improvvisa occlusione di una grossa aorta coronarica. Questi risultati avevano aperto una nuova strada per
studiare la modulazione neurale centrale dell’attività cardiaca, che aspettava di essere sperimentata sugli esseri
umani.
Perché gli effetti del cervello e della psiche sul sistema
cardiovascolare sono stati ignorati così a lungo? Innanzitutto, per la difficoltà di trovare tecnologie adatte ad analizzare problemi tanto complessi. Il cervello umano ha più
di venti miliardi di cellule nervose. Ogni neurone è in grado di comunicare con più di 10.000 neuroni vicini, e questi
scambi generano più di 100 messaggi al secondo. Questo
brusio può trasformarsi in una cacofonia da fare impazzire,
poiché ci sono più di mille miliardi di connessioni possibili.
Inoltre il cervello non è isolato, ma continuamente
inondato da un flusso di input sensoriali. Oltre alla complessità, c’è il fatto che il cervello, che ci definisce, non può
essere lo strumento adeguato a determinare la propria natura. Il paradosso è che se il cervello avesse un’organizzazione abbastanza semplice perché potessimo capirlo, noi
saremmo semplici al punto da non poterlo più capire.
In un mondo di cui spesso ci sfugge il senso, ci sono altri ostacoli per capire l’attività psiche-cervello. Il grande filosofo Baruch Spinoza sosteneva che «ogni cosa è una causa da cui scaturiscono diversi effetti». I poeti, come pure la
moderna teoria del caos, esprimono questo concetto con
l’immagine di una foglia che cade e fa accendere una stella lontana. Quello che io definisco «effetto Spinoza» ren-
qualsiasi anomalia strutturale del suo cuore. Mai prima, a
mia conoscenza, c’era stato un così evidente rapporto tra
profondi problemi psichici e disturbo del ritmo cardiaco.
Jones aveva sempre lottato per controllare il suo comportamento erotico e aggressivo. I due episodi di arresto cardiaco erano stati innescati dall’espressione simbolica della
sessualità e della violenza. Il suo ritmo cardiaco era saturato di livelli complessi di extrasistole ventricolari, premonitrici e forse causa della fibrillazione ventricolare. L’aritmia
poteva venir precipitata dalla tensione psicologica, che aumentava durante la fase REM del sonno, era ridotta dalla
meditazione e infine veniva annullata dai farmaci che diminuivano l’effetto della trasmissione nervosa dal cervello
al cuore. Raramente si incontra un paziente che permette
una così vivida comprensione di un processo complesso che
per tanto tempo è sfuggito alla spiegazione scientifica.
Jones è forse un caso eccezionale, che non si applica alla condizione umana in generale? Non credo. Penso che il
suo sia un caso emblematico, addirittura caricaturale, di
una realtà molto diffusa.
Incuriositi dall’esperienza con Jones, esaminammo il
ruolo dello stress psicologico in gruppi più ampi di pazienti
che erano stati rianimati dopo un arresto cardiaco o avevano avuto aritmie ventricolari che li avevano portati vicino
alla morte. Se i fattori psicologici avessero potuto davvero
provocare una morte improvvisa, si sarebbe dovuta trovare
una maggiore incidenza di gravi stati emotivi nelle ventiquattro ore precedenti l’insorgere dell’episodio di aritmia.
Lavorando con il dottor Peter Reich, allora primario in
psichiatria al Brigham and Women’s Hospital, trovammo
che un quinto di questo gruppo di 117 pazienti aveva avuto gravi problemi psicologici nelle ventriquattro ore precedenti l’evento cardiaco, anzi la maggior parte addirittura
meno di un’ora prima. Tra le situazioni che provocavano la
tensione psicologica, c’erano conflitti interpersonali, umiliazioni in pubblico, minaccia di separazione da parte del
coniuge, lutti, insuccessi professionali e, in alcuni casi, un
incubo. L’emozione predominante che si collegava al problema psicologico era una rabbia impotente. Altri stati affettivi erano la depressione acuta, la paura, l’eccitazione e
il risentimento.
Il fatto che fossimo incapaci di identificare l’evento psicologico scatenante nella maggioranza dei pazienti non significa che questo non fosse stato presente. Le tecniche psicologiche di cui ci servivamo erano soggettive e troppo imprecise per evidenziare perturbazioni emotive latenti. Ciononostante, in un primo tempo potemmo dimostrare che
lo stimolo provocato dallo stress psicologico era presente
nel 21% dei casi di pazienti colpiti da arresto cardiaco.
Molte persone soffrono di tensioni profonde, spesso
non individuate dai medici né riconosciute dai membri
della famiglia, che nondimeno rappresentano un vero e
proprio cancro che corrode il benessere psicologico. Quando permangono a lungo, gli effetti delle emozioni negative sono corresponsabili di malattie e della morte prematura. È possibile individuare lo stress cronico in modo oggettivo? È un compito sicuramente meno arduo di quello che
si proporrebbe di alleviare tali condizioni di stress. La prevenzione sarebbe la strada migliore, ma la vita raramente
lo consente.
Si possono classificare arbitrariamente le tensioni psicologiche in due categorie distinte: quelle provocate da
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B Lown - L’arte perduta di guarire
Non meno ingenui dei profani, i medici vengono invariabilmente presi di mira. Giudicando dal successo che hanno i pazienti con la sindrome di Münchhausen nello sciorinare le loro false malattie, si può concludere che la professione medica sia particolarmente suscettibile agli imbroglioni. Può darsi che si tratti di un condizionamento professionale, visto che il medico si affida alla sincerità dei pazienti, supposta tale nel loro stesso interesse. Vedere chiaro oltre le imposture di un imbroglione incallito non è mai
facile, ma a volte un medico viene messo fuori strada dal
desiderio di indagare, dal buonsenso o da una ottusità bella e buona. Il comportamento aberrante è spesso grottesco
e non ha una spiegazione plausibile. L’incontro con un paziente affetto da sindrome di Münchhausen è estremamente frustrante e sconcertante, e lascia al medico un senso di mistero sui meccanismi della mente umana.
de l’interpretazione dei dati scientifici estremamente problematica. Nel campo psiche-cervello, si è di fronte a un vero e proprio labirinto. Un articolo nella rivista «Science» di
Sigwart Ulrich mi ha permesso di approfondire le mie intuizioni di questo aspetto. Ulrich si chiedeva se c’era una
correlazione tra la guarigione dopo un’operazione alla cistifellea e il paesaggio visibile dalla finestra della stanza in
cui riposavano i pazienti. A uno sguardo superficiale, questa domanda sembra oziosa, ma riflettendoci ha implicazioni notevoli. Ulrich ha dimostrato l’effetto Spinoza: i pazienti con una finestra che dava sul giardino guarivano più
rapidamente. Avevano bisogno di una dose inferiore di
narcotici, si ristabilivano meglio e venivano dimessi dall’ospedale prima di quelli la cui stanza casualmente si affacciava su uno squallido parcheggio.
Questi problemi, alcuni elaborati, altri appena accennati, sono più appassionati di quanto avessi immaginato da
giovane. Approfondirli è un’impresa degna di Sisifo, ma occorre perseverare. Il rabbino Tarfon, che ha scritto nel Talmud, esortava: «Non indietreggiate di fronte a un compito
che, per sua natura, non può essere portato a termine».
Continuo a essere convinto che il rapporto psiche-cervello è
il più complesso che la medicina si trovi ad affrontare.
Incontrai il mio primo caso di sindrome di Münchhausen quando ero ancora interno. La paziente, una giovane
di soli vent’anni, aveva appena avuto il suo terzo figlio. Il
marito, che lavorava nella marina mercantile, era in viaggio per mare. Poiché la madre doveva stare con i due bambini più grandi, al suo capezzale non c’era nessuno che potesse illuminarmi sulla sua situazione domestica. Era stata
trattenuta in ospedale per una febbre post-partum. Avevamo ipotizzato un’infezione uterina, ma non c’erano segni
clinici che la provassero. Per quanto facessimo, non riuscivamo a trovare la causa del suo aumento di temperatura.
Tanto magra da apparire spettrale, pallida e facile alle
lacrime, sembrava ancora un’adolescente. Affettuosa, era
l’incarnazione dell’innocenza ed era la beniamina dei medici e delle infermiere di gran parte dell’ospedale. Quasi
ogni pomeriggio aveva la febbre alta, e si mostrava collaborativa per esami anche invasivi che non avevano alcun risultato.
Alla fine qualcuno emise l’ipotesi che la febbre fosse
prodotta artificialmente, cioè provocata dalla manipolazione del termometro da parte della paziente. Nessuno
credeva davvero che questa dolce creatura potesse far salire di nascosto la temperatura. Per maggior sicurezza, tuttavia, togliemmo dal suo letto il radiatore supplementare,
passammo alla temperatura rettale e lasciammo un’infermiera mentre era misurata la temperatura. Ma la giovane
continuava ad avere febbri episodiche.
I medici si sentono molto frustrati quando sono obbligati ad ammettere che non capiscono il problema. Una tattica molto comune è quella di fare una diagnosi priva di significato che dia l’impressione di conoscere la situazione.
Seguendo questa consuetudine, definimmo il problema
«febbre con origini sconosciute».
Ogni mese presentavamo i nostri casi più difficili a un
medico supervisore. Il dottor L., diabetologo di fama e clinico acuto, ascoltò attentamente e fu sorpreso che in un
mese non avessimo trovato spiegazioni. Quando giunse al
capezzale della giovane donna, fece solo poche domande,
poi si trasformò in un terribile orco tuonando: «Dillo, ai
medici che alteri la temperatura». La ragazza si coprì, tirando il lenzuolo per nascondere i suoi occhi verdi terrorizzati. «Oh, non obbligatemi ad andare a casa. Voglio uccidermi con i miei bambini!». Questa terribile manifestazione di dolore era sconvolgente.
Quando lasciammo il suo letto, chiesi al dottor L., come
4. La sindrome di Münchhausen
L’ascolto è il primo passo per ottenere una diagnosi corretta, ma, come abbiamo visto, non è un esercizio puramente
verbale. È necessario stare attenti alle parole non espresse,
alla mimica del viso che può contraddire quello che si sta
dicendo, alle contrazioni involontarie del volto, a una
stretta di mano, e in generale al linguaggio del corpo. L’ascolto attento, che è sempre ricompensato, è indispensabile con quei pazienti che si prefiggono deliberatamente di
ingannarci. Le svariate ragioni di questo inganno possono
essere collegate alla tossicodipendenza, all’alcolismo o a
modelli comportamentali in cui si ricercano compensazioni a malattie o danni subiti. I pazienti più difficili sono persone psicologicamente disturbate che mettono a dura prova la pazienza del medico. Riuscire a scoprire l’enigma dietro il discorso pieno di rimostranze di questo genere di pazienti è una vera e propria sfida per le capacità cliniche e
l’immaginazione del medico.
L’esistenza di questi pazienti dimostra come la medicina abbia una scarsa comprensione della condizione umana. Dopo aver praticato per decenni, i medici credono di
conoscere tutte le possibili stranezze comportamentali, ma
rimangono stupefatti quando incontrano pazienti con la
sindrome di Münchhausen. Questa patologia prende il nome dal soldato di ventura tedesco che, nel XVIII secolo,
scrisse una serie di storie inverosimili di imprese fasulle. Coloro che ne soffrono fanno i salti mortali per fingere gravi
disturbi. Il comportamento sembra motivato in modo strano e a volte sfugge al controllo degli stessi soggetti, anche
se i sintomi e gli effetti clinici sono provocati intenzionalmente. Molti di questi pazienti sono maestri nell’arte di
tessere una matassa di menzogne. Alcuni sono tossicodipendenti sotto effetto della droga, altri isterici, sociopatici
o persone vessate da situazioni di vita disastrose, che non
hanno lasciato loro altra via d’uscita se non quella di fingersi ammalati.
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G Ital Cardiol Vol 10 Settembre 2009
«È difficile da credere», mormorai. «Mi segua», disse
aveva capito che la paziente alterava la temperatura. Mi
spiegò che sarebbe stato inverosimile per chiunque avere
una temperatura così alta senza altri segni clinici come, per
esempio, aumento del polso e dei globuli bianchi e aspetto malaticcio. Non solo la paziente non presentava nessuno di questi segni, ma aveva mantenuto l’appetito e il peso, malgrado la situazione durasse da mesi. Era evidente
che ci ingannava; concluse che il solo modo con cui poteva
aumentare la temperatura in presenza di un’infermiera
doveva essere quello di massaggiare il termometro con lo
sfintere rettale. Per quanto possa sembrare stravagante, la
paziente confermò che questo era il metodo con cui faceva salire il termometro. Fu trasferita in un reparto psichiatrico e migliorò notevolmente.
lei.
Dalla porta alla metà della passerella c’era una scia di
sangue sulla neve appena caduta che portava al luogo in
cui si trovava l’agghiacciante attrezzo. Sam fu trasferito all’ospedale psichiatrico il giorno stesso.
Dopo molti anni, al Peter Bent Brigham Hospital a Boston, incontrai il mio terzo paziente affetto da sindrome di
Münchhausen. Sui quarantacinque anni, ex-marinaio, con
molti tatuaggi su ogni braccio, arrivò all’unità coronarica
con un forte dolore al petto. Era coperto di sudore, ma non
sembrava molto grave. La temperatura era normale, la
pressione pure, il ritmo cardiaco non era troppo rapido e i
globuli bianchi nella norma. Dopo un breve periodo, fece
richiesta di una forte dose di morfina per alleviare il suo disagio. Nessuno sospettava qualcosa di equivoco, perché
mostrava le alterazioni dell’elettrocardiogramma tipiche
di un possibile attacco cardiaco.
Quando entrai nella stanza, era sdraiato sul letto con
gli occhi chiusi. Gemeva e si contorceeva malgrado i narcotici. Si sedette subito di fronte a me e parlammo dei racconti di mare di Jack London, che lo interessavano molto. La
discussione si protrasse per dieci minuti. Improvvisamente
ebbi una strana sensazione. Quest’uomo non provava alcun dolore. Appena la nostra conversazione si era fatta più
animata, le smorfie erano cessate; era completamente a
suo agio e sorrideva. Non era il paziente che avevo visto
appena entrato nella stanza. In quel momento, sembrò
leggermi nel pensiero, perché si buttò subito nel letto e riprese a lamentarsi e a contorcersi in modo istrionico.
Dissi alle infermiere di somministrargli un placebo, una
forte dose in intramuscolo di acqua salata. Gli enzimi nel
sangue erano di nuovo normali. Sospettavo che si trattasse di un tossicodipendente e decisi di appurarlo direttamente. Appena entrai, balzò giù dal letto e preparò la valigia con i suoi pochi averi.
Chiesi: «Cos’è questa fretta? Parliamo un po’. Siamo
ansiosi di aiutarla».
Sembrò divertito e si sedette: «Le do credito. Lei è più
sveglio degli altri dottori».
«Cosa intendi dire?».
«Il dolore al petto è andato bene per tre ricoveri di seguito. La porfiria funzionava ancora meglio».
«Non capisco», dissi.
«Tutto è iniziato quindici anni fa, a Seattle. Ero tossicodipendente e fui ricoverato al Washington Hospital dell’università con fortissimi crampi allo stomaco. Il medico di
guardia mi visitò accuratamente e poi mi somministrò del
Demerol. Il mattino successivo, entrò nella mia stanza
trionfante: “Ho fatto la diagnosi, ho fatto la diagnosi! Lei
ha la porfiria. Lo abbiamo dimostrato. L’urina è scura e positiva”. Non avevo mai sentito parlare di quella malattia.
Sa cosa ho fatto? Quell’idiota mi diede un manuale di medicina e molti articoli sulla porfiria. In un giorno, diventai
un’autorità su quella strana condizione. Tutta l’équipe era
in uno stato di forte eccitazione. Nessuno aveva mai visto
un caso di porfiria. Fui anche presentato ad altri medici. Rimasi ricoverato per due settimane e diventai una celebrità.
Il medico che mi aveva fatto la diagnosi cominciò a scrivere altri articoli. Diventai così molto addottorato sulla porfiria. Mi valse almeno duemila ricoveri».
Il secondo paziente, Sam, era un giovane di ventisette
anni con ferite infette alle gambe, ulcere ai piedi e brutte
flebiti, causa di ricorrenti coaguli nel sangue che si propagavano ai polmoni, mettendo in pericolo la sua vita. Mi occupai di lui quando ero interno al Montefiore Hospital di
New York. Sam, giovane, brillante, colto, umano, ma così
terribilmente infelice, mi straziava il cuore. Sembrava che
la sua gamba sinistra fosse stata dilaniata da una mina anti-uomo. Dopo settimane di infiltrazioni e di antibiotici locali ed endovenosi, una coltre di tessuto granuloso in apparenza sano copriva le piaghe. Ma non appena la gamba
guariva, misteriosamente si apriva di nuovo, emanando un
pus maleodorante. Durante questi episodi morbosi, aveva
la febbre alta, valori anormali dell’emocromo e attacchi di
brividi. In queste occasioni, Sam gridava come se lo torturassero, calmandosi soltanto dopo aver ricevuto una dose
massiccia di morfina alla quale si assuefece rapidamente.
La situazione continuò per mesi.
Poiché avevo passato molti momenti piacevoli a chiacchierare e a incoraggiarlo, avevo con lui un buon rapporto. Infine, a febbraio, cominciò a fare progressi. Per la prima volta la gamba sembrava quasi completamente guarita. Ci congratulammo e organizzammo una festa per la sua
dimissione dall’ospedale programmata per il giorno successivo. Non ero di servizio quella sera. Quando mi presentai in corsia il mattino seguente, Sam sembrava di nuovo
sofferente; giaceva sotto una mole di coperte, perché scosso dai brividi. Sembrava accusarmi, come se io avessi sbagliato qualcosa. La gamba era peggiorata.
Ma una delle infermiere della notte mi prese in disparte. Disse che prima che commiserassi troppo questo disgraziato, doveva dirmi qualcosa di importante. Mentre parlava conteneva a mala pena la rabbia.
«Questa notte, durante la bufera, non riuscivo a trovare Sam. Il gabinetto era occupato. Poiché la persiana della
portafinestra che porta sulla passerella esterna era chiusa,
guardai fuori ma nell’oscurità non vidi nulla. Finché non
spensi le luci del reparto, scorgevo solo una leggera nevicata. Allora vidi una sagoma vestita di bianco. Afferrai il
cappotto e corsi fuori. Avvicinandomi, udii dei gemiti strazianti e riconobbi Sam, che era piegato in avanti e stava facendo qualcosa che non capii. Gemeva come se lo torturassero. Poi vidi la cosa più terribile che abbia mai visto nella
mia carriera di infermiera. Sam si percuoteva la gamba con
un asse di legno dotata di una grossa lancia arrugginita a
un’estremità, con la quale lacerava parte del suo arto. Urlai, lui buttò via l’asse e ritornò correndo al suo letto».
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B Lown - L’arte perduta di guarire
Stava spazientendosi per il mio interrogatorio.
«Un’ultima domanda», dissi. «Come è riuscito a cambiare le onde T dell’elettrocardiogramma?».
«Questo è un segreto». Poi aggiunge con un sussurro:
«Ma diamine, ho iperventilato!» (i medici sanno che con
una respirazione profonda e sostenuta, si può alterare un
normale elettrocardiogramma ed evidenziare una circolazione inadeguata alle coronarie). Poi se ne andò dal reparto di emergenza con grande sorpresa dell’équipe che, pochi minuti prima, lo aveva giudicato moribondo.
Quest’utima affermazione e tutte le altre erano davvero incredibili, ma non volevo contrariare il paziente. Ero
più interessato ad ascoltare le sue risposte alle altre domande. «Ma come la mettiamo con l’urina? Come poteva
renderla positiva al pigmento porfirino?», chiesi.
«All’inizio non sapevo», rispose. «Ma poi ricordai che
per alcuni giorni prima del ricovero, avevo bevuto del distillato clandestino. La sera prima del giorno in cui volevo
farmi ricoverare bevevo un po’ di quella pozione e la mia
urina diventava positiva».
Alla fine era stato ricoverato in quasi tutti gli ospedali
del Nord Ovest e dell’Ovest. Disse con orgoglio che il suo
caso era stato riportato su molte riviste mediche. Ma dopo
cinque o sei anni il suo trucco fu scoperto e, poiché la porfiria non era più una diagnosi utilizzabile, passò al dolore
al petto.
Otto anni dopo, ero al pronto soccorso del Brigham
Hospital a sostituire un collega di cardiologia quando un
medico del servizio mi chiese se volevo dare un parere su
un uomo sui cinquant’anni che aveva avuto un attacco di
cuore. Preoccupato perché, malgrado la forte dose di narcotici, l’uomo aveva ancora dolore e l’unità coronarica era
completa, il medico voleva la mia opinione prima di inviare il paziente in reparto.
Andai a visitarlo e trovai un uomo sulla cinquantina
che mi pareva di conoscere, ma che non ero in grado di situare. Mi mostrò un certificato di un recente ricovero in un
ospedale di Brooklyn. La diagnosi di dimissione era «angina instabile», stato provocato da un grave restringimento
dell’arteria coronaria che lasciava presagire un attacco cardiaco imminente. Giudicando dalla cartella clinica, sembrava che i medici fossero perplessi per il dolore al petto e
i mutevoli dati dell’elettrocardiogramma, ma ben poco
d’altro. Leggendo la cartella, ebbi una sensazione di déjàvu. Quando tirai giù la coperta per visitarlo, i tatuaggi sul
braccio mi fecero capire tutto. «Il barone di Münchhausen
in persona»!, esclamai.
Saltò giù dal lettino e cominciò a vestirsi. «Ho sempre
pensato che i cardiologi sono stupidi», disse con disgusto,
«ma in ogni cesta c’è una mela marcia e io ho avuto la sfortuna di incontrarla».
«Cosa è successo da quando ci siamo visti l’ultima volta?», indagai.
«Il dolore al petto è molto meglio della porfiria come
biglietto da visita e non ho neppure dovuto bere delle schifezze».
«Cosa intende dire?».
«Ho avuto più ricoveri con un’angina instabile che con
qualsiasi altra cosa in vita mia. Tutto quello che devo fare
è dare il segno di Levine», disse stringendo il pugno sul
basso sterno, «e va bene per molte settimane. Ma devo evitare di essere cateterizzato».
«Al Maimonides Hospital non ci è riuscito. Le hanno
fatto un angiogramma. Non è forse un rischio?».
«Le mie letture mediche mi hanno convinto che posso
solo essere vincente. Immagini qualcuno come me, un maschio di mezza età con alto tasso di colesterolo. Ci sono più
di 80 probabilità su cento di avere un’occlusione alle coronarie. Se fosse stato negativo, sarebbe stato sufficiente al
Maimonides. Ma se fosse stato positivo, che pacchia! Mi si
sarebbero aperte le porte di tutti gli ospedali della nostra
buona vecchia America».
Il quarto e ultimo paziente Münchhausen che ho incontrato è il più strano di tutti. Era stato trasferito in ambulanza all’unità coronarica del Brigham dall’ospedale di Rhode
Island, dove era stato ricoverato per una perdita di coscienza. Il mattino seguente, durante le visite in corsia, gli chiesi per quale motivo era ricoverato e la risposta non fu lo
svenimento.
«Ho del mercurio nel cuore».
«Come è potuto entrare il mercurio nel cuore?».
«Mangiando delle ciambelle».
«Mangiando delle ciambelle?», chiesi esterrefatto.
«Sì, mangiando delle ciambelle», ribadì tranquillamente.
«Mi racconti com’è andata».
«Bene. Ho comprato delle ciambelle. Mia moglie e mio
figlio le hanno mangiate e d’un tratto una delle ciambelle
è caduta per terra e il mercurio si è sparso sul pavimento».
«Come sapeva che era mercurio?».
«Ci lavoro. Sono tecnico ospedaliero e lavoro con l’apparecchio Van Slyke che determina l’ossigeno nel sangue.
Usiamo mercurio in continuazione. Mia moglie e mio figlio
hanno ora una grave disfunzione ai reni. Abbiamo citato
in giudizio la panetteria».
Ero stupefatto e mi chiesi se avevo a che fare con uno
schizofrenico. Come se avesse letto nei miei pensieri, disse:
«Se non mi crede, mi faccia una radiografia al cuore e vedrà il mercurio».
Decisi di assecondarlo e gli feci una fluoroscopia cardiaca. Mentre il fluoroscopio era acceso, con mio grande stupore vidi una massa ampia e pesante di materiale nero che
fluttuava alla rinfusa, come le perline di un caleidoscopio,
nel suo ventricolo destro.
Non era assolutamente possibile che un metallo pesante che non poteva essere assorbito come il mercurio potesse raggiungere il cuore. Se fosse stato ingerito sarebbe
passato attraverso l’intestino senza essere assimilato e sarebbe stato espulso con le feci. Naturalmente, avrebbe potuto essere immesso con una iniezione endovenosa, ma sarebbe stata una follia. Inoltre ne soffrivano anche la moglie e il figlio. No, era impossibile. Telefonai al Providence
Hospital dove erano in cura e effettivamente c’erano pazienti con quel nome. Il mistero si infittiva.
Chiesi alle infermiere di tenere d’occhio il paziente e il
giorno dopo mi dissero che aveva rasentato più volte un
arresto cardiaco. Il tracciato all’elettrocardiogramma sull’oscilloscopio era diventato improvvisamente piatto, il che
indicava che non c’era più attività cardiaca. Ma poiché lo
controllavano, le infermiere avevano scoperto che aveva
disinserito uno dei comandi. Dopo che gli fu detto che gli
allarmi erano provocati dal disinnesto di un elettrodo, le
emergenze cessarono.
Credendo che l’uomo fosse uno psicopatico, chiedem-
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G Ital Cardiol Vol 10 Settembre 2009
tentativo di approfondire il caso, non lo seguii più e ancora oggi mi interrogo sulle sue cause.
mo un consulto psichiatrico, ma lo psichiatra, per quanto
possa apparire incredibile, credette alla sua storia. Ci disse
che il paziente, che era soggetto stabile e privo di tratti psicopatologici, si lamentava perché non avevamo fiducia in
lui e credevamo che la sua storia fosse falsa. Lo psichiatra
mi accusò di comportamento scarsamente professionale.
«Dopo tutto, lei ha avuto la prova che il mercurio è presente nel suo cuore».
Durante la visita seguente, chiesi alle infermiere di raccogliere l’urina del paziente, poiché il mercurio sarebbe stato espulso dal corpo tramite i reni. Lui ascoltava con grande interesse mentre escogitavo la mia storiella per l’équipe.
Quando uscimmo dalla stanza, spiegai allo staff che non
c’era assolutamente nessuna possibilità che il mercurio fosse espulso dai reni e chiesi di controllare il termometro. Il
giorno dopo l’urina conteneva piccole masse di mercurio:
ma un’infermiera attenta aveva scoperto termometri rotti
e avvolti nei giornali nel cestino della carta straccia.
Il lavoro di tecnico ospedaliero del paziente consisteva
nel misurare il contenuto di ossigeno del sangue con una
colonnina di mercurio. Il paziente quindi possedeva una
scorta di mercurio, aghi e siringhe. Aveva la possibilità di
iniettare il mercurio in vena, il solo modo con cui esso
avrebbe potuto raggiungere la parte destra del cuore, dove era situato. Doveva avere fatto lo stesso con la moglie e
con il figlio. Quando cominciai a capire il problema, sembrò indignato e ferito e la mia convinzione vacillò.
Il giorno dopo il suo letto era vuoto. Fui informato che
lo aveva lasciato in tutta fretta, dicendo che era scandalizzato dalla mancanza di professionalità in quel famoso
ospedale. Telefonai al suo medico curante al Providence e
condivisi con lui i miei sospetti. Il dottore era offeso. Disse
che conosceva bene il paziente e che era in corso un’azione penale contro la panetteria perché aveva messo il mercurio nelle ciambelle. Poiché ero stato snobbato nel mio
L’incontro con pazienti affetti dalla sindrome di Münchhausen mi spinse a consultare la letteratura specializzata e
venni a conoscenza di casi ancora più strani. Un articolo dei
National Institutes of Health raccontava di una paziente
che si iniettava adrenalina di nascosto, con la conseguenza
di una grave ipertensione e di un ritmo cardiaco accelerato
che faceva pensare a un tumore della ghiandola surrenale.
Entrambe le ghiandole surrenali furono asportate in un disperato tentativo di salvarle la vita. Alla fine nel tavolino da
notte furono trovate siringhe, aghi e flaconi di adrenalina,
ma il danno ormai era stato compiuto dagli stessi medici
che avevano cercato di curare questo caso insolubile.
Ancora peggiori sono i casi di Münchhausen per procura: ne sono vittime i bambini di cui i genitori simulano malattie. In un caso, una madre aveva portato il bambino piccolo in ospedale per eccessiva sonnolenza e vomito di materie fecali. Un esame completo rilevò che il bambino era
normale. Da una ricerca più approfondita si venne a sapere che la madre somministrava al bambino sedativi e gli faceva mangiare le proprie feci.
Forse è un motivo d’onore per i medici il fatto che siano così spesso ingannati dai pazienti con la sindrome di
Münchhausen, perché significa che hanno fiducia nei racconti dei pazienti. Nello stesso modo, la legge considera innocente un imputato a meno che non sia dichiarato colpevole e con ragionevole dubbio. Anche un bravo medico
può quindi essere preso nella rete di incredibili inganni.
Poiché l’arte di ascoltare si atrofizza sempre più e la medicina si arrende alla tecnologia, diventa sempre più difficile
individuare le manifestazioni anormali della psiche e i pazienti afflitti da sindrome di Münchhausen avranno sempre più successo.
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BERNARD LOWN: L’arte perduta di guarire
Bernard Lown: L’arte perduta di guarire
Parte II
(G Ital Cardiol 2009; 10 (10): 677-707)
Titolo originale
The Lost Art of Healing
GUARIRE IL PAZIENTE: L’ARTE DEL MEDICO
5. Parole che feriscono
© 1997 Garzanti
Editore SpA
Traduzione italiana di
Cristina Spinoglio
pubblicata su licenza di
Garzanti Libri SpA,
Milano.
Ascoltare la storia del paziente è l’aspetto più
importante dell’arte medica. Il tempo richiesto non è che un piccolo investimento per curare e guarire, anzi una storia è terapeutica di
per sé. Le parole sono lo strumento più efficace che il medico possiede, ma le parole, come
un’arma a doppio taglio, oltre che guarire
possono anche ferire.
Sperimentai per la prima volta il potere
micidiale delle parole all’inizio della mia carriera, poco dopo avere iniziato la specializzazione in cardiologia al Peter Bent Brigham
Hospital con il dottor Samuel Levine che, una
mattina alla settimana, dirigeva l’ambulatorio
di cardiologia. Dopo la visita di un medico
principiante, arrivava Levine con tutta la sua
schiera, valutava il problema e dava consigli
sulla diagnosi e sulla cura. Insofferente ai discorsi prolissi, richiedeva una sintesi succinta
dei fatti principali e, con una o due domande
precise, circoscriveva il problema essenziale. A
differenza delle risposte tortuose che davano
alle mie domande, a lui i pazienti rispondevano con brevità e precisione. L’interazione che
si instaurava era sempre istruttiva. La visita in
sé era piuttosto rapida, una palpazione dell’apice del cuore, un colpetto sulla parte inferiore del petto, una breve auscultazione con lo
stetoscopio, poi un dialogo platonico che, a
gradi, portava a una diagnosi corretta. Dopo
alcune parole di incoraggiamento al paziente,
Levine passava poi al letto seguente. Ogni visita era significativa: anche se durava raramente più di cinque minuti, imparavo sempre
qualcosa di importante.
Era una calda giornata di luglio, prima
dell’invenzione dell’aria condizionata. La paziente di quel mattino, una donna di quarant’anni, era in cura all’ambulatorio da più di
trent’anni. Levine l’aveva curata per l’atrofia
della valvola tricuspide, dopo un attacco infantile di febbre reumatica. Questa valvola si
trova nella parte destra del cuore, e quando si
atrofizza, il sangue rifluisce al fegato, all’ad-
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dome e agli arti e non ai polmoni. I pazienti
con una stenosi alla valvola tricuspide non
hanno il respiro affannoso, ma si gonfiano e
spesso hanno il ventre ingrossato come in un
avanzato stato di gravidanza.
La signora S., anche se poteva fare solo
sforzi limitati, non aveva il respiro affannato e
dormiva senza essere sostenuta da pile di cuscini. Anche se le gambe e il ventre erano gonfi di
liquido, continuava a lavorare come bibliotecaria. Venerava Levine, il quale a sua volta ammirava la sua forza di carattere e il suo comportamento stoico. I sentimenti di rispetto e affetto
reciproco erano molto evidenti. Avevo sentito
Levine mormorare: «È una donna coraggiosa e
dignitosa», complimento che si permetteva raramente. Anche la signora S. non era eccessivamente espansiva ed era convinta che l’incoraggiamento del suo medico l’aiutasse a tenere
duro.
Il giorno del dramma, la signora S. aveva
avuto una grave congestione, contro cui le
iniezioni diuretiche si erano rivelate inefficaci.
I farmaci non riuscivano più a fare espellere ai
reni il liquido in eccesso. Il peso rimaneva stabile, ma era un dato ingannevole, poiché, per
lo scarso appetito aveva perso tessuto, che era
stato sostituito dai liquidi.
Ma come al solito, era ottimista e si aspettava che Levine battesse un colpo della sua
bacchetta magica come aveva fatto in passato. Quel mattino Levine era subissato dai visitatori e chiaramente esausto. La sua visita fu
più affrettata del solito e l’esame abbastanza
superficiale. A rendere più spiacevole l’atmosfera, c’era la solita schiera di medici che gli si
affollavano intorno per tentare di cogliere le
preziose parole del vecchio maestro. Levine
disse che si trattava di un caso di ST, che nel
gergo medico significava stenosi della tricuspide. Mentre molti medici indugiavano dopo
la visita, la donna, di solito taciturna, si fece
sempre più ansiosa e visibilmente agitata. Finalmente, quando fu lasciata sola, mormorò:
«Questa è la fine».
Cercai una ragione della sua inquietudine,
mentre sul suo volto si diffondeva il terrore:
«Il dottor Levine ha detto che ho lo ST», rispose.
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G Ital Cardiol Vol 10 Ottobre 2009
farto acuto del miocardio, l’aiuto la definice trombosi coronarica, mentre il medico di guardia propende per un
grave episodio ischemico. In nome di Dio, come si può sopravvivere con un cuore così malandato? Quel che è peggio», continuò, «quando ho chiesto all’infermiera cosa è
successo, mi ha detto che sarebbe stato meglio non fare
domande».
Tutti questi termini erano sinonimi di una stessa condizione. Una parola inopportuna o mal scelta, può spingere
il paziente alla disperazione e fargli immaginare il peggio.
I medici non dovrebbero mai infondere nei pazienti
l’incertezza e la paura, ma purtroppo questo succede spesso. Molti pazienti chiedono un secondo parere sulla necessità di applicare chirurgicamente un by-pass coronarico o
una valvola cardiaca. Sono spesso ansiosi e pieni di un’apprensione morbosa. Con disappunto, sono venuto a sapere che queste emozioni sono per lo più iatrogene, cioè sono frutto del linguaggio dei medici. Per anni, ho preso nota di molte espressioni infelici riportate da pazienti che le
avevano sentite da un altro medico. Poiché è mia consuetudine vedere insieme marito e moglie, ho registrato soltanto le espressioni ripetute da ciascuno dei due indipendentemente e ne ho accumulate centinaia. Quelle che seguono sono tra le più comuni.
«Lei sta vivendo dei giorni presi a prestito».
«Sta andando rapidamente verso il declino».
«Il prossimo battito del suo cuore sarà l’ultimo».
«Può avere un attacco cardiaco da un momento all’altro».
«L’angelo della morte veglia su di lei».
«Sì, certo, ha lo ST», confermai.
Cominciò a piangere piano, come se avesse perso ogni
speranza.
«Cosa pensa che significhi ST?», chiesi.
Quasi scoppiai a ridere quando rispose: «Penso che significhi situazione terminale».
Le dissi che il dottor Levine aveva utilizzato il termine
ST come abbreviazione per stenosi della tricuspide, ma non
mi ascoltava già più. Osservai con preoccupazione che il
suo respiro stava diventando sempre più stentato e più rapido. Per la prima volta era incapace di stare distesa, la
mancanza di respiro la obbligava a sedersi.
Dopo averla visitata di nuovo, fui sorpreso nel constatare rantoli umidi nella parte superiore del petto, che rivelavano una grave congestione ai polmoni. Pochi minuti dopo, erano completamente inondati. La radiografia al torace confermò la presenza massiccia di liquido e la paziente
venne immediatamente ricoverata. Nessuno degli accorgimenti abituali, come ossigeno, morfina o diuretici, fecero
effetto. Ebbi il coraggio di telefonare a Levine nel suo studio privato, ma quando gli dissi cosa stava succedendo dalla sua voce dubbiosa capii che non credeva alla mia storia.
Commentò che i pazienti con una stenosi della tricuspide
non hanno questi segni clinici. Promise tuttavia di vederla
verso le 19, dopo avere finito di visitare i suoi pazienti privati. Prima che riuscisse a togliere quello che sembrava un
maleficio, la donna fu stroncata da un edema polmonare e
morì. I pazienti con stenosi alla tricuspide si logorano gradualmente e muoiono lentamente, non con una congestione ai polmoni. La congestione è il risultato di un’insufficienza del ventricolo sinistro, ma il suo ventricolo sinistro
non era danneggiato. Quando morì, mi sentii paralizzato
e inorridito.
Ho sentito molte variazioni della frase «Lei ha una
bomba a orologeria nel petto» e «Lei è una bomba a orologeria che cammina». Un cardiologo indicò un’arteria
ostruita in un angiogramma e informò la moglie del paziente: «Certo questo vaso sanguigno ristretto è un buon
segno di vedovanza». Un altro paziente raccontava che il
suo medico aveva detto: «Il solo pensiero della sua anatomia mi spaventa».
Un paziente che aveva avuto un attacco al cuore ed era
restio a sottoporsi a un’operazione per l’applicazione di un
by-pass mi sussurrò: «Il medico mi ha detto che non può
garantire che il prossimo attacco cardiaco non sarà l’ultimo». L’urgenza dell’operazione fu comunicata a un altro
paziente con queste parole: «L’operazione deve essere fatta subito, preferibilmente ieri».
Un paziente che aveva avuto un attacco cardiaco arrivò al pronto soccorso con una tachicardia ventricolare, un
grave disturbo del ritmo cardiaco, e raccontò, come particolare inquietante, che un medico aveva cominciato a gridare: «Lo stiamo perdendo! Lo stiamo perdendo!».
Questo è solo un piccolo campione e trovo assai grave
la frequenza con cui parole tanto terribili vengono pronunciate. A volte possono venire prontamente smentite,
ma spesso possono provocare danni psicologici gravissimi.
In tutta la mia carriera medica, mi è successo spesso di
constatare reazioni analoghe alle parole del medico, anche se meno drammatiche. Una volta, ero ancora in specializzazione, stavo facendo le visite con il medico di turno,
che curava un paziente per un recente attacco di cuore. Era
l’inizio di novembre e il paziente chiese se poteva tornare
a casa per il giorno del Ringraziamento. Il dottore, con assoluta mancanza di tatto, rispose che sarebbe stato fortunato a tornare a casa per Natale. Non appena queste parole furono pronunciate, il paziente perse conoscenza per un
improvviso attacco di tachicardia. Fu rianimato con difficoltà da un imminente attacco cardiaco.
In un grosso ospedale è quasi impossibile proteggere il
paziente dalle parole degli inesperti o degli imprudenti. Le
parole inopportune possono nuocere quanto una ferita fisica. Ricordo di avere visitato un paziente in via di guarigione da un attacco di cuore. Il malato sembrava scoraggiato, il polso era rapido e con tutta evidenza stava per
avere una congestione cardiaca. Poiché non c’erano ragioni per un evento di questo tipo, immaginai che avesse ricevuto brutte notizie da casa.
«Signor Jackson, perché è così abbattuto e depresso?»,
chiesi.
«Lo sarebbe chiunque dopo avere sentito quello che ho
sentito io», rispose.
«Che cosa?».
«L’internista mi ha detto che ho avuto un attacco di
cuore, l’assistente mi ha confidato che si trattava di un in-
Non serviva più un altro parere.
Il signor Glimp aveva quasi settant’anni e viveva in Florida. La sua testa di capelli bianchi non si accordava con l’aspetto giovanile privo di rughe e con gli occhi azzurri sorridenti, ma c’era in lui una tristezza senza fine quando si ri-
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B Lown - L’arte perduta di guarire
lo che era successo, era sconvolto. Era un uomo perbene,
non certo un affarista. Avevo fiducia in lui e pensavo che
ogni minuto perso poteva costare la vita a Harold».
La signora Glimp era confusa e costernata. Prima dell’operazione il marito era calmo, imperturbabile, ottimista. Ora era depresso e piangeva spesso.
Ma cosa si aspettavano da me? Il danno era fatto. Nessuno poteva riaggiustare il suo cervello danneggiato o
mettere a posto il cuore. Chiesi perché non avevano chiesto un secondo parere prima dell’operazione. Sembrarono
entrambi sorpresi per quella che sembrò loro una domanda insensata. Dove andare per un secondo parere e perché? Il dottore aveva detto che c’erano tre ostruzioni e che
non poteva andare peggio.
La moglie era adirata: «Se la sua casa va a fuoco, chiede un altro parere? Chiama i pompieri. Pensavamo di avere fatto la stessa cosa. Il dottore aveva detto che poiché il
cuore era sano, l’operazione non presentava problemi».
Il paziente aveva un cuore normale ed era asintomatico.
Pazienti di questo tipo non hanno bisogno di operazioni. Si
raccomanda un’operazione per impedire una morte subitanea o un attacco cardiaco. Ma se il muscolo cardiaco è intatto, la vita non viene prolungata né un attacco cardiaco impedito con un innesto alle coronarie. Con poche eccezioni,
quando un medico afferma che una situazione clinica è pericolosa, la maggioranza delle persone, dimenticando la
scarsa fiducia che di solito hanno nei medici, ci pensano due
volte prima di mettere in discussione il parere del dottore.
volse alla moglie, una donna ancora piacente. «Diglielo»,
disse dopo avere tentato inutilmente di trovare le parole
giuste. Il braccio destro era immobilizzato al gomito, conseguenza di un recente incidente. Nella sua fisionomia nulla lasciava spazio al dubbio. Perché dunque desiderava
chiudere la stalla dopo che erano scappati i cavalli? Perché
aveva viaggiato fino a Boston per chiedermi un parere?
L’operazione per applicare il by-pass era già avvenuta.
«Non sono mai stato malato un giorno in vita mia», disse.
«Ma soffriva di angina» (è il sintomo che più comunemente porta alle operazioni delle coronarie) «e questo è il
motivo per cui ha avuto l’operazione».
«Che cos’è?», rispose.
«Tensione al petto o pressione quando si è sotto sforzo». Posai una mano aperta sullo sterno, il punto del dolore anginoso.
«No, mai», disse con enfasi, la voce spezzata dall’emozione.
«Quali sintomi hanno reso necessaria l’operazione?».
«Dottore, mi lasci spiegare. Sono stato sano per tutta la
mia vita, ho preso appena qualche aspirina. Ho deciso di fare un check-up. Una clinica famosa con un’ottima reputazione aveva traslocato nelle vicinanze. Ci andai soltanto per
un check-up. Era venerdì mattina. Il medico pensò che dovessi fare un test sotto sforzo per maggior sicurezza. Dopo
avere evidenziato qualche disturbo, consigliò un esame al
tallio. La clinica è molto efficiente, ti fanno passare da un
esame all’altro senza farti aspettare. Dopo il tallio, mi disse
che avevo un disturbo grave. Bisognava applicare un catetere senza indugiare. Spiegò che il cateterismo avrebbe fornito un quadro delle mie arterie coronariche. Gli davo fiducia perché era molto simpatico. In poche parole mi disse che
avevo poca scelta, il cateterismo cardiaco è soltanto un esame senza rischi, considerato affidabile da tutti. Non era opportuno rimandare perché avrei potuto avere un attacco
fatale da un momento all’altro. Che scelta avevo?».
Tutto questo fu detto in modo esitante, interrotto da
pause, le parole emesse con un sibilo rauco e frammezzate da saliva.
La moglie continuò il racconto. «Alla fine del pomeriggio di venerdì cominciai a preoccuparmi perché Harold tardava tanto a tornare. Dopotutto era solo un esame di routine. La mia preoccupazione si trasformò in panico quando
il dottor P. telefonò e mi disse di andare subito perché Harold aveva un “grave malessere”. Giunsi alla clinica più morta che viva. Il dottore mi aspettava per farmi vedere il filmato con le coronarie di Harold. Ma cosa ne sapevo io di coronarie? Sembravano vermi bianchi che si contorcevano. Il
dottore mi fece presente che tutte le arterie principali erano ostruite. Mi sentii di sasso quando disse che Harold era
un morto che cammina. D’accordo con lui, pensai che non
potevamo permetterci di aspettare: «Può morire da un momento all’altro. Chiesi: “Dove devo firmare?”. “Non deve
firmare, l’ha già fatto Harold”. Sentii che Dio ci proteggeva.
L’avevamo scampata per un pelo! Ora eravamo in buone
mani. Il dottore disse che eravamo fortunati; c’era un posto
nella lista del programma operatorio per il giorno seguente, che era sabato. Mentre era in sala operatoria, Harold ebbe un grave attacco cardiaco. I medici non sapevano se ce
l’avrebbe fatta. La sfortuna non l’aveva abbandonato. Due
giorni dopo, il lunedì, ebbe un colpo apoplettico. L’operazione era necessaria? Il medico ne era convinto. Dopo quel-
Ci sono due semplici regole pratiche. La prima: quando
un paziente è asintomatico o ha avuto qualche raro episodio di angina, raramente c’è bisogno di un’urgenza chirurgica. C’è sempre tempo per richiedere un altro parere. La
seconda: se il medico ricorre a una strategia della paura,
utilizza frasi minacciose e fa una prognosi infausta se l’intervento prescritto non è accettato, non bisogna fidarsi di
lui. Un medico che espone la fascia a lutto è un affarista
oppure un ciarlatano che non ha perso con l’età un infantile desiderio di onnipotenza. Quando avrete un secondo
parere, dite subito che le analisi invasive consigliate saranno fatte in un altro ospedale. Il medico che esegue la visita non deve avere nessun incentivo economico dalla procedura che prescrive.
I medici e le loro famiglie non sono immuni dai danni
dovuti a parole incaute. Il dottor S.N., psichiatra, aveva
avuto gravi attacchi di aritmia, che erano stati diagnosticati come tachicardia ventricolare. Il medico gli aveva detto
che avrebbe potuto essere fatale e che ci sarebbe stato bisogno di impiantare un dispositivo elettrico nel torace per
far cessare il ritmo pericoloso in qualsiasi momento si fosse verificato. La procedura era costosa e non senza complicazioni. La signora N., la moglie, che aveva letto articoli su
questi dispositivi, era fermamente contraria. Dopo un lungo matrimonio, il dottor N. teneva in gran conto il prodigioso intuito della moglie. D’altra parte, aveva fiducia nel
suo esperto cardiologo. Venne comunque a Boston per
una seconda opinione.
Dalla sua storia, venni a sapere che gli attacchi erano brevi e non gli avevano mai provocato né perdita di conoscenza né vertigini. Aveva semplicemente delle palpitazioni.
Inoltre, l’intervallo tra i tre episodi parossistici che aveva avu-
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to era di quattro e più anni. Potei identificare dei fattori precipitanti che potevano essere evitati e quindi mi pronunciai
contro l’applicazione del dispositivo. Il medico si sentì sollevato, ma la moglie continuava a essere apprensiva.
Quando parlai con la signora N. da sola, mi disse che il
loro cardiologo, risentito perché non avevano seguito il
suo consiglio, le aveva chiesto: «Può vivere in pace con se
stessa pensando che una mattina si può svegliare e trovare suo marito morto accanto a lei, pur sapendo che questo
dispositivo gli avrebbe salvato la vita?». Certamente si
chiedeva perché mai un medico poteva dire queste cose se
non fossero state vere. Come poteva fidarsi del mio giudizio e di qualsiasi altra prognosi umana, quindi fallibile? Potei fare ben poco per rassicurarla e quando lasciò il mio
studio era ancora impaurita e angosciata.
Una ferita che non si cicatrizza
I medici di solito non riconoscono l’influenza delle parole
nel provocare dolore e contribuire alla malattia. Quando
ero alla Johns Hopkins Medical School, alla facoltà c’era
uno psicofisiologo non ortodosso, il dottor Horsley Gant.
Era l’unico discepolo americano del grande fisiologo russo
Ivan Petrovich Pavlov. Gant aveva condizionato dei cani, in
modo che il polso accelerava e la pressione saliva, somministrando una lieve scarica elettrica alla zampa dopo il suono di un campanello. Dopo numerose ripetizioni, anche il
più lieve accenno di campanello provocava l’aumento del
ritmo cardiaco e della pressione anche senza scarica elettrica. Questa risposta cardiovascolare al campanello non diminuiva con il tempo. Dopo parecchi mesi, il ritmo cardiaco e la pressione aumentavano al suono di un qualsiasi
campanello.
Invariabilmente, una risposta a uno stimolo condizionato non doloroso con il tempo si affievolisce, e poi si
estingue del tutto se non viene rinforzata. Secondo Gant,
le risposte cardiache a stimoli dolorosi potevano essere
sempre rievocate. Affermava che il cuore acquisiva una
memoria indelebile e definiva il fenomeno «schizocinesi»,
una condizione che ho riscontrato in numerosi pazienti.
Queste risposte riflesse si fissano in modo permanente
nel sistema nervoso. A differenza della maggioranza degli
eventi neutri, che svaniscono senza lasciare traccia, le esperienze dolorose, paurose o minacciose si fissano nel cervello come se fossero programmate geneticamente. Purtroppo i ricordi piacevoli svaniscono, mentre durano soltanto
quelli negativi. Per milioni di anni, la paura è stato il maestro migliore, quello che avvertiva del pericolo. Il repertorio di risposte neurofisiologiche al dolore persiste perché
ha un valore di sopravvivenza. Per gli uomini di oggi, può
avere una funzione meno adattativa, ma non ha perso affatto il suo potere formativo. Tuttavia le tracce mnestiche
del dolore possono deformare le risposte fisiologiche normali ed essere fonte di fissazioni morbose che possono minare la salute.
Criticare gli altri medici
Poiché la medicina è un grosso affare commerciale e la
competitività cresce di giorno in giorno, non è raro sentire
medici o ospedali criticarsi l’un l’altro nel tentativo di reclutare i pazienti. Fare una critica al medico curante di un
paziente è estremamente insidioso. I medici dovrebbero
essere caritatevoli l’uno con l’altro perché anche un clinico
eccezionale può fare errori. Inoltre, il racconto di un paziente sugli sbagli di un collega è solo un lato della medaglia. Molti sono convinti, spesso giustamente, che i medici
si coprano l’uno con l’altro e ben di rado si facciano la spia,
anche quando sono consapevoli di una pratica sbagliata o
sono stati testimoni di errori o scorrettezze da parte dei
colleghi. Questo tipo di comportamento biasimevole non
dovrebbe mai essere tollerato, ma prima di condannare bisogna essere attenti ad ascoltare le due parti.
Troppo spesso sento i medici parlare male dei colleghi
soltanto perché non sono d’accordo con la loro linea di
condotta. Sentire un medico denigrare un collega può demoralizzare il paziente. Può anche avere un effetto boomerang, minando la fiducia nel medico intemperante e diminuendo il prestigio di una professione che ha sempre
maggior bisogno di apparire affidabile. Infine, può addirittura compromettere la professionalità di un medico.
Molti dei miei pazienti mi hanno detto che i loro medici reagivano male quando lasciavano intendere di desiderare un altro parere. Un cardiologo di New York ha detto:
«Lei non ha bisogno di un altro parere. La mando da lui,
ma potrebbe spendere meglio i suoi soldi, per esempio in
beneficienza».
Una volta ricevetti una telefonata allarmata da un paziente di Filadelfia che avevo visto tre mesi prima. Aveva
un grave problema al cuore che non migliorava. Ma dopo
che ebbi modificato la terapia e aggiunto un nuovo farmaco, era stato in grado di ritornare a lavorare e di riprendere una vita normale.
«Cosa succede?», chiesi con una certa apprensione.
«Non è cambiato nulla. Mi sentivo benissimo finché
non ho visto il cardiologo, oggi. Le ripeto le sue parole
esatte: “Sono stupito che Lown le abbia dato questo farmaco, che per lei è un veleno. Prima o poi, avrà una grave
complicazione”».
Anche se la nuova terapia funzionava bene, il paziente
era scoraggiato e fu molto difficile ridargli fiducia.
Dopo una lunga assenza, la signora Z. era ritornata alla clinica per un nuovo controllo. Capelli biondo scuro e occhi azzurri scintillanti adornavano un volto semplice e grazioso. La sua pelle aveva il pallore trasparente delle madonne medioevali. A quarantasei anni aveva ancora un’allegria giovanile e spensierata, forse a causa degli anni passati a insegnare. Parecchi anni prima, i medici le avevano
trovato frequenti extrasistole ventricolari, o cuore a sobbalzo; e le fu detto che, per il prolasso della valvola mitralica, poteva morire da un momento all’altro. Terrorizzata,
assunse diversi farmaci, senza però tollerarne alcuno.
Quando vidi la signora Z. per la prima volta, era molto
riservata e rispondeva alle domande come immersa in un
sonno profondo. Tremava e a volte diceva frasi incoerenti.
Stava prendendo due farmaci che le causavano letargia,
sonnolenza, debolezza, attacchi d’ulcera e insonnia. Malgrado queste condizioni, era troppo impaurita per smettere la cura.
Un esame attento rivelò un cuore completamente normale tranne per un leggero prolasso della valvola mitralica che era del tutto innocuo. I suoi battiti a sobbalzo furono ignorati e dimenticati. Le feci smettere tutti i farmaci,
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B Lown - L’arte perduta di guarire
teggerli contro eventuali colpe future. In realtà questo
comportamento insensibile può solo spargere i semi per ulteriori contese (vedi capitolo 10). Quando un medico non
ha l’accortezza di addolcire una previsione infausta con
parole gentili, il paziente è ferito dalla sua assenza di compassione. I medici in questo modo tolgono professionalità
a un rapporto che, per essere efficace, deve essere nutrito
di rispetto e di fiducia. È la mancanza di fiducia che apre le
porte dei tribunali.
Come può il medico imboccare una strada che comporta tanti rischi e disagi? Una difficoltà, afferma Norman Cousins, può essere concepita come un problema da risolvere
o come un’inesorabile sentenza di morte. Perché scegliere
quest’ultima?
La svalutazione dei valori umani inizia alla facoltà di
medicina. Non è certo la strada migliore cominciare a studiare medicina sezionando un cadavere al corso di anatomia. Per superarne il disgusto, si considera il corpo sotto
formalina come un oggetto inanimato, dimenticando che è
stato un essere umano. È solo l’inizio di un indottrinamento sistematico che durerà quattro anni, il cui scopo è quello di dare una formazione scientifica senza curarsi di affinare la sensibilità ai rapporti umani. Il giovane medico non è
formato all’arte di ascoltare e il suo interesse non viene stimolato. Più tardi, i fattori economici comprometteranno
ulteriormente la disponibilità ad ascoltare. Il pessimismo
predispone il paziente a essere accondiscendente e passivo
ed evita al medico di passare troppo tempo a spiegare.
Interviene anche un altro fattore. I medici raramente
sono sicuri delle loro motivazioni. Di fronte a una grave
operazione, è naturale che un paziente cerchi pareri alternativi. Un’analisi troppo approfondita può rivelare che le
certezze sulla prognosi sono solo una certezza superficiale, una copertura. Se si basa invece su studi epidemiologici
che definiscono le probabilità per un’ampia popolazione,
un medico informato può fornire pronostici precisi. Il paziente tuttavia non è un semplice dato statistico, non lo
tocca l’andamento generale ed è desideroso di conoscere
il proprio caso personale. I medici imparano in fretta che
un tono perentorio e una formulazione dogmatica scoraggiano ogni tentativo di chiarificazione e danno un taglio
netto a ogni questione.
Le prognosi severe possono essere una forma di attività promozionale. L’utilizzazione di tecnologie sempre più
sofisticate, alcune delle quali di dubbia utilità, rende necessaria l’accettazione da parte dell’utente. Creare timori
sulla sopravvivenza indebolisce le resistenze all’acquisto e
trasforma i pazienti in clienti arrendevoli.
Quello che sto dicendo irriterà molti medici che non
praticano la chirurgia, non si spartiscono i compensi né
eseguono personalmente tecniche invasive e costose. Hanno certamente ragione. Ma molti altri medici sono ben
consapevoli di essere diventati docili mercanti di tecniche
terapeutiche. Fin dall’università hanno imparato ad amoreggiare con la tecnologia. La loro formazione sottolinea
che il modo migliore per aiutare un paziente è costituito
da una batteria di esami esaurienti, preceduti da un’anamnesi frettolosa. Scarso interesse è attribuito al colloquio
poiché il paziente è subito indirizzato allo specialista e sottoposto a una moltitudine di esami. Questo modello è quasi unanimemente considerato il migliore sia dal punto di
vista scientifico che morale.
la esortai a riprendere una vita normale e a ritornare a insegnare. Si risvegliò da un incubo, da una visita annuale all’altra il suo carattere si trasformò completamente. Era piena di allegria e facile al riso.
Erano ormai trascorsi cinque anni. La signora Z. fu dapprima visitata dai miei allievi, che la definirono completamente guarita. Quando entrai con un altro assistente per
esaminarla a mia volta, stava leggendo un libro sull’insegnamento della letteratura inglese nei licei. Chiacchierammo un po’ sulla difficoltà di insegnare quando la maggior
parte dei giovani considera la lettura antiquata. Continuavo a pensare all’argomento e senza riflettere commentai:
«Sicuramente lei ha dei problemi».
Si alzò di scatto, la paura dipinta sul suo bel viso, il collo di un cremisi livido, e cominciò a tremare come aveva
fatto la prima volta che l’avevo vista. «Cosa intende? Cosa
intende dire, dottore?». Era una supplica disperata più di
una domanda. In un attimo questa donna tranquilla era
stata trasfigurata dalla paura.
Sapevo che in situazioni del genere si ottiene una maggiore efficacia se non ci si rivolge al paziente, ma al proprio
collaboratore. Invece di rassicurarla parlandole direttamente, mi rivolsi all’assistente, ignorandola del tutto e
commentando quello che era appena successo.
«Parlavo dei problemi che gli insegnanti di inglese hanno in questo nostro paese e questa povera donna ha pensato che mi riferissi al suo cuore. Credevo di averla convinta che va tutto bene, ma una ferita, una volta inflitta, non
si cicatrizza più e qualsiasi circostanza può farla riaprire».
Mi interruppe: «Oh! Grazie a Dio! Sono così sollevata. Pensavo che parlasse del mio cuore».
Perché i medici utilizzano queste parole?
Perché molti medici dipingono ai loro pazienti scenari terribili? La psicologia più elementare insegna che la paura
non può indurre un comportamento costruttivo. Invece di
mobilitare le risorse interne dei pazienti, questi discorsi annientano la speranza e compromettono la possibilità di
prendere decisioni intelligenti. Quel che è peggio, le emozioni negative aggravano i sintomi, ostacolando il processo di guarigione e peggiorando la prognosi. La malattia
avvilisce il senso del sé, rendendo i pazienti particolarmente vulnerabili alle parole del medico da cui dipendono per
guarire e per mantenersi in vita.
Non c’è una risposta uniforme per spiegare le espressioni catastrofiche di cui si avvalgono i medici. Il loro linguaggio è strettamente collegato allo spirito della nostra cultura. I fatti clinici sono riportati con tono grave, che provoca
ansia, e il preconcetto che per essere ascoltati bisogna essere sgradevoli è diventato diffuso nella prognosi medica
quanto nelle previsioni del tempo. Si presenta lo scenario
diagnostico più fosco possibile, convinti che non devono esserci equivoci. Il risultato finale è che i medici, secondo le
parole di Reinhold Niebuhr, capiscono bene, agiscono male e giustificano il male dicendo che avevano capito bene.
Un’altra spiegazione possibile è che in tempi di contenzioso i medici si sentano obbligati, per premunirsi dal punto di vista legale, a dire al paziente la verità nuda e cruda.
Confrontati con estranei che possono intentare loro una
causa, i medici sono persuasi che il pessimismo possa pro-
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si prestano senza batter ciglio ad analisi e visite specialistiche senza fine. Non è raro che i parenti mi chiedano con insistenza che nulla rimanga intentato per sapere quel che
non va e per trovare una cura. Anche se i pazienti si lamentano dell’indifferenza dei medici e del loro linguaggio crudo, questa apparente disumanità è considerata il prezzo
inevitabile della medicina scientifica.
A volte mi sento scoraggiato quando il paziente non si
accorge neppure quanto tempo io passi per ottenere un’anamnesi accurata che mi informi sulla situazione. Eppure,
appena lo introduco nello studio, dove in un angolo troneggia un fluoroscopio mastodontico come un animale
preistorico con un quadro di comando degno di un aeroplano, il paziente rimane impressionato e gli posso leggere nel pensiero: «Sono fortunato perché sono capitato in
uno studio munito degli strumenti più sofisticati» oppure
«Utilizzerà questa macchina meravigliosa su di me?». La
credenza infantile nella magia della tecnologia è una delle ragioni per cui il pubblico americano sopporta una medicina disumana.
Ma qualsiasi sia la spiegazione, non c’è alcuna giustificazione per aggredire i pazienti con un linguaggio che intimidisce e intimorisce: le scelte non devono essere indotte con la paura. Se in medicina deve esserci un’alleanza,
l’alleato più autorevole è il paziente, a cui spetta la parola
decisiva.
L’ospedale, dove i medici acquisiscono poi la maggior
parte della loro conoscenza empirica e prendono abitudini professionali durature, è un luogo di raffinata tecnologia e di alta specializzazione. Più di una volta mi sono scontrato con l’équipe che voleva dimettere troppo rapidamente uno dei miei pazienti. Quando protestavo, ricevevo
sempre la stessa risposta: perché occupare un letto prezioso quando le analisi sono state completate e non c’è indicazione chirurgica? Poco importa che le condizioni cliniche
rimangano vaghe o che il programma terapeutico per un
disturbo cronico non sia ancora stato definito, o che il paziente, che vive solo, sia troppo debilitato per prendersi cura di sé.
Un altro fattore che condiziona la pratica medica è la
convinzione di medici e pazienti che tutto ciò che è rotto
debba venire riparato. Una volta i pazienti convivevano
con molti dei sintomi: bastava rassicurarli della loro innocuità. Dolori, fatica, smemoratezza e insonnia temporanea
fanno parte della vita. La smania di diagnosticare o curare
l’incurabile e di pronosticare l’imprevedibile non è solo
una forma di arroganza, ma apre un vaso di Pandora con
conseguenze pericolose. Ma non penso ai rischi di sottovalutare segni o sintomi che potrebbero essere manifestazioni iniziali di una malattia? La cosiddetta esplorazione diagnostica non è forse un ben piccolo prezzo di fronte alla
diagnosi di una malattia grave ma potenzialmente curabile? La risposta è semplice. Nella stragrande maggioranza
dei casi, un’anamnesi attenta, una visita completa e poche
analisi danno al medico la certezza che non c’è niente di
grave. In genere le malattie non sono catastrofiche e il
tempo dimostrerà la necessità di ulteriori indagini.
C’è un’altra considerazione. I medici, come chiunque
altro, sono il prodotto di una cultura che consuma tecnologie e la loro tendenza ad affidarsi a esse è accresciuta
dall’assurda caccia a ogni possibile anomalia o stranezza
diagnostica. In questa sorta di gara, aumenta il prestigio di
quel medico che sospetta ragionevolmente l’esistenza di
un disturbo raro. Per vincere la competizione è necessario
sottoporre il paziente a ogni sorta di esami. Le facoltà di
medicina e gli ospedali pullulano di medici ingaggiati in
una lotta senza quartiere per far carriera nel mondo accademico. Sono richieste pubblicazioni e, affinché gli articoli siano accettati su riviste importanti, bisogna avere dati su
larga scala. In quale altro modo accumulare dati, se non
trasformando ignari pazienti in cavie soggette a salassi ed
esami d’ogni tipo? La formazione alla professione medica
considera queste pratiche il massimo della medicina cosiddetta scientifica.
Ma ritorniamo all’argomento iniziale. Qualunque sia lo
stimolo per accertamenti ad ampio raggio, qualunque sia
il desiderio o l’impazienza di imparare, l’utilizzazione di un
linguaggio perentorio e assolutista assicura la sottomissione del paziente. Anche se egli può trarre solo un minimo
giovamento dalle torture di un check-up completo, la retorica deve essere convincente: nulla sarà più efficace dell’insinuazione che il benessere e la sopravvivenza dipenderanno dai risultati delle analisi. Anche il paziente più intelligente e più scettico soccomberà immediatamente a un’argomentazione così persuasiva.
I pazienti sono spesso complici consenzienti dell’ingranaggio che vede il medico irretito nell’immenso complesso
medico industriale. Inquieti e desiderosi di rassicurazioni,
6. Parole che guariscono
Anche se talvolta feriscono, le parole di un medico hanno
un potenziale di guarigione di gran lunga superiore. Il processo di guarigione richiede qualcosa di più della scienza:
deve mobilitare le aspettative positive dei pazienti e la loro fiducia stimolante nel sostegno dei medici. Poche cure
sono più efficaci di una parola scelta attentamente: i pazienti, infatti, desiderano essere curati e la cura per lo più
è dispensata dalle parole. Il colloquio, spesso terapeutico
di per sé, è uno strumento troppo spesso sottovalutato, anche se l’esperienza medica è ricca di esempi sul potere risanatore delle parole.
Personalmente cerco di essere ottimista anche nella situazione più cupa, il che non implica travisare la verità,
bensì essere fedele al compito più alto della medicina: aiutare, cioè, il paziente a resistere quando la situazione è
senza speranza e a guarire ogniqualvolta sia anche solo vagamente possibile.
Ricorro a due diverse linee di condotta, una per i pazienti malati di cuore, l’altra per i pazienti sani. Una volta
finita la visita di un paziente con gravi problemi alle coronarie, lo invito a entrare con il coniuge nel mio studio per
una sintesi dettagliata della situazione. Illustro con esattezza le possibili complicazioni e gli esiti di un disturbo alle coronarie, compresa la possibilità di una morte improvvisa. Per molti medici, questo è un argomento tabù, ma mi
è difficile immaginare che un paziente intelligente con un
disturbo alle coronarie non sia consapevole di questa possibilità. Anche se il medico non ne parla, il paziente ci penserà sicuramente. Spesso ognuno di noi si sveglia da un
sonno profondo, sopraffatto dalla paura, con il pensiero di
avere qualche sintomo di tumore e di qualche altra malattia mortale. Per i pazienti coronarici anche un sintomo ba-
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B Lown - L’arte perduta di guarire
Quando Levine era ormai malato in fase terminale, ereditai qualcuno dei suoi clienti, tra cui un malato di cuore,
A.B., che ho poi seguito per più di trent’anni. Durante una
visita, non molto tempo fa, egli si ricordò di essere stato ricoverato, nel 1960, al Peter Bent Brigham Hospital, per un
accesso di febbre alta. Levine aveva diagnosticato un’endocardite batterica subacuta, una infezione potenzialmente letale se si innesta su una valvola cardiaca danneggiata. Prima dell’epoca degli antibiotici, era mortale quasi
nel 100% dei casi e anche ora è una malattia grave. «Levine mi disse: “Lei è gravemente malato, ma non deve preoccuparsi. So quello che non va. So come curarla. So cosa la
farà stare meglio. Guarirà completamente”. Anche se sapevo di essere gravemente malato, non mi preoccupai e
sono ancora qui».
Per quanto io abbia imparato moltissimo da Levine, i
miei migliori maestri sono stati i pazienti che mi hanno arricchito di esperienza clinica e mi hanno insegnato la complessità della reazione alle parole del medico. Mi sono reso conto che una parola da niente può essere fonte di incoraggiamento e di speranza. L’episodio che mi ha aperto
gli occhi sullo straordinario potere delle parole nella guarigione mi sarebbe passato inosservato se il paziente stesso non me l’avesse fatto notare. Anche se avevo utilizzato
una parola con un significato nefasto, il suo ruolo si rivelò
decisivo nella guarigione. Mi trovavo di fronte a un ritmo
cardiaco che viene denominato galoppo.
nale, soprattutto nel cuore della notte, può essere letto come un presagio di morte improvvisa. La paura e il senso di
impotenza sono accresciuti dal fatto che questi timori non
possono essere condivisi con la famiglia o con gli amici.
Il mio discorso sulla morte subitanea è invariabilmente
accompagnato da un silenzio pieno di tensione. Il paziente e la moglie si guardano e vorrebbero chiaramente essere altrove. Raramente interrompono con domande. Dopo
avere spiegato dettagliatamente i pericoli, concludo pressappoco così: «Sollevo la questione perché non c’è alcuna
probabilità che lei muoia improvvisamente nei prossimi
anni. Questa conclusione si basa sulla visita di oggi. Non ho
mai visto morire improvvisamente un paziente che, come
lei, non presenti irregolarità cardiaca in ventiquattr’ore di
monitoraggio, abbia un ventricolo sinistro che si contrae
normalmente e sia capace di esercizio per più di nove minuti con un ritmo cardiaco e una pressione normali. Questi
buoni risultati sono la base della mia fiducia per una prognosi favorevole».
Quando il paziente lascia il mio studio, si percepisce
nettamente un crollo di tensione. Diversi anni fa ho avuto
una giovane segretaria molto brillante che (dopo la visita
di un paziente di questo tipo), come se qualcosa l’avesse
tormentata a lungo, chiese infine: «Dottore, lei dà dell’erba ai suoi pazienti?».
«Cosa?», esclamai esterrefatto.
«Della marijuana, dell’erba?», ripeté.
Preso alla sprovvista, chiesi perché mi facesse una domanda così strana.
«Escono dallo studio come inebetiti, sono come drogati e sembrano completamente nelle nuvole. Se vengono da
fuori, chiedono qual è il migliore ristorante di Boston perché vogliono festeggiare».
Mi chiedo spesso quale sia l’origine del mio ottimismo
clinico. Certamente in parte è un’eredità del mio grande
maestro, il dottor Samuel A. Levine, che è rimasto un modello per tutta la vita. Eccellente diagnostico, la sua capacità nel trattare i malati gravi era ancora più prodigiosa.
Quando si trovava al capezzale di un malato, era animato
dal buonumore e da un inguaribile ottimismo, pur rimanendo ancorato alle solide fondamenta di una valutazione realistica. Levine, nell’interesse del paziente, sottolineava l’importanza di essere costruttivi. «Quando un medico fa una prognosi infausta o, peggio ancora, quando
dice che il paziente morirà e il suo calcolo si rivela sbagliato, è l’intera categoria dei medici a soffrirne. Di solito è
meglio lasciare la porta socchiusa, anche nelle circostanze
più gravi».
Un certo numero di teorie che Levine aveva proposto si
sono poi rivelate sbagliate, molti dei farmaci che prescriveva si sono dimostrati insufficienti e sono stati sostituiti da
altri più efficaci. Ma il suo approccio ai pazienti rimane valido. Anzi, ha ancora maggiore rilevanza oggi, nell’epoca
della tecnologia impersonale. Spesso ho sentito Levine inquietarsi che l’età d’oro della medicina stesse tramontando, poiché la preoccupazione per il malato stava per essere sostituita dalla preoccupazione per la malattia.
Appena si avvicinava a un paziente, l’ottimismo permeava ogni sua parola. Quando Sal, come lo chiamavamo,
finiva la visita e stava per lasciare il letto del paziente, metteva sempre amichevolmente la mano sulla sua spalla e diceva tranquillamente: «Va tutto bene».
Un bel galoppo
Il paziente aveva sessant’anni ed era molto grave. Due settimane dopo un attacco cardiaco, era ancora in unità coronarica. Il caso era davvero difficile e presentava quasi tutte
le complicazioni da manuale. Aveva perso quasi completamente l’uso del muscolo cardiaco e soffriva di un’insufficienza cardiaca congestiva: a causa della contrazione inadeguata del ventricolo sinistro, il sangue tornava indietro
e inondava i polmoni, ostacolando la respirazione. Nello
stesso tempo, il pompaggio di sangue insufficiente abbassava la pressione e il semplice movimento di sedersi provocava vertigini e svenimenti. Debole e ansimante, non aveva neppure l’energia per mangiare; gli mancava l’appetito
e il solo odore del cibo lo nauseava. La mancanza di ossigeno lo agitava e impediva il sonno. La fine sembrava prossima; pallidissimo, con le labbra violacee per la mancanza di
ossigeno nel sangue, ansimava periodicamente alla ricerca
dell’aria come se stesse per annegare.
Ogni mattina durante la visita, quando entravamo nella sua stanza sembravamo lugubri addetti di pompe funebri. Avevamo esaurito tutte le piatte parole di rassicurazione che conoscevamo e pensavamo che comunque gli incoraggiamenti sarebbero stati un insulto alla sua intelligenza, togliendogli la già scarsa fiducia che aveva in noi. Per
non dovere affrontare troppo a lungo il suo sguardo e il
suo silenzio, cercavamo di affrettare la visita, consapevoli
del peggioramento irreversibile. Dopo essermi consultato
con la famiglia, scrissi in cartella «nessuna rianimazione
possibile».
Una mattina si verificò un lieve miglioramento: disse
che stava bene e in effetti i segni vitali erano più franchi.
Non riuscivo a capacitarmi del mutamento e continuavo a
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G Ital Cardiol Vol 10 Ottobre 2009
stertoroso. Questi periodi di insufficienza respiratoria erano estenuanti, ognuno di essi pareva annunciare la morte.
Una bella giovane donna, che credevo essere sua figlia,
sedeva al suo capezzale giorno e notte. Era già presente
quando cominciavo le visite alle otto del mattino e quando me ne andavo a tarda sera la trovavo ancora indaffarata intorno al suo letto, cercando di dargli conforto. Raramente avevo assistito a una tale devozione filiale. Aveva
circa venticinque anni, era riservata e silenziosa come Tony.
Anche se osservava tutto attentamente, raramente faceva
domande ai medici o alle infermiere, ma cercava invece di
anticipare ogni bisogno di Tony, la sete o le necessità corporee.
Era così bella che veniva voglia di divorarla con gli occhi e mi sorprendevo a lanciarle sguardi furtivi per assicurarmi della sua impalpabile realtà. Concentrarsi sulla malattia e sulla morte imminente in presenza di una gioventù così dirompente non era impresa facile. La giovane donna era sempre presente, tranquilla. Cercava senza riuscirci
di passare inosservata. A volte piangeva silenziosamente e
dimostrava un affetto molto forte per questo patriarca
morente.
Un giorno dissi a Tony: «È fortunato ad avere una figlia
così devota; non lascia mai il suo letto».
«Non è mia figlia, dottore, è la mia compagna», rispose bruscamente.
Era una possibilità che non mi aveva mai sfiorato e ne
rimasi molto colpito.
Dopo alcuni giorni dissi scherzosamente a Tony: «Dovrebbe sposarla».
Mi guardò interrogativo e come sognante: «No, dottore, non voglio lasciare una vedova subito dopo le nozze».
«E chi lo dice?».
«Bene, dottore, sono pronto a fare un patto. Lisa è ansiosa di sposarsi e se lei mi garantisce per scritto che ci sarò
ancora per altri cinque anni, sono pronto a seguire il suo
consiglio».
Allora, senza indugio, stilai una dichiarazione che garantiva, senza possibilità di equivoco, che Tony sarebbe vissuto per cinque anni. Nei giorni seguenti, migliorò e presto si sentì abbastanza bene da essere dimesso. Alcuni giorni dopo, ricevetti una cartolina dalla coppia in luna di miele. Non vidi Tony per parecchi anni e spesso mi preoccupavo del mio suggerimento impulsivo e irrazionale. Era stato
giusto incoraggiare un matrimonio tra una donna nel pieno della vita e un uomo in così totale declino?
Un giorno Tony comparve nel mio studio, identico malgrado il passaggio del tempo, e disse: «I cinque anni sono
trascorsi, dottore. Ho bisogno di un nuovo contratto».
Non sembrava possibile che cinque anni fossero passati così rapidamente. Guardai la sua cartella e vidi che Tony stava bene. Il mese prossimo sarebbe stato il quinto anniversario della garanzia. Feci di nuovo lo stesso tipo di contratto. Lisa, più bella che mai, era fiorente e chiaramente innamorata.
Passarono cinque anni senza che lo vedessi e cominciai
a guardare il calendario, poiché sapevo che stava per scoccare il decimo anniversario. Alla data esatta, Tony comparve, molto malato, con gravi difficoltà di respirazione, oppresso da un edema delle dimensioni di un cuscino e che
gli gonfiava il ventre. Era calmo, non si lamentava e emanava una tranquilla dignità. Mi aspettavo che mi chiedes-
dubitare della sua sopravvivenza, quindi non sciolsi la prognosi. Convinto tuttavia che un cambiamento di ambiente
potesse essere salutare e gli avrebbe almeno permesso di
dormire, lo feci trasferire in un reparto di cure meno intensive; in una settimana fu dimesso e non ne seppi più nulla.
Sei mesi più tardi comparve nel mio studio, in ottima
salute. Malgrado la patologia cardiaca, era guarito dalla
congestione ed era per lo più asintomatico. Ero davvero incredulo. «Un miracolo! Un miracolo!», esclamai.
«Ma no, non è un miracolo!», rispose.
Mi sconcertava la sua certezza che l’intervento divino
non fosse responsabile della sua guarigione miracolosa.
«Cosa intende dire?», chiesi timidamente.
«So bene il momento esatto in cui è accaduto questo
cosiddetto miracolo», affermò senza esitazione.
Mi disse che aveva capito che non sapevamo più che
pesci pigliare, che ci sentivamo impacciati, confusi e impotenti. Date le sue condizioni, il nostro atteggiamento finì
per persuaderlo che era spacciato. Vedeva bene che avevamo perso ogni speranza e che non c’era più nulla da fare.
Poi aggiunse con una certa enfasi: «Il giovedì mattina del
25 aprile siete entrati, avete circondato il letto e, dalle vostre espressioni, mi pareva di essere già nella bara. Poi lei
ha messo lo stetoscopio sul mio petto e ha invitato i colleghi ad ascoltare “questo bel galoppo”. Immaginai che il
mio cuore fosse ancora capace di un galoppo in piena regola, quindi non potevo morire e sarei guarito. Vede, dottore, non è stato un miracolo. È una questione di testa».
Il paziente non sapeva che il galoppo era un cattivo segno, cioè un ritmo generato da un ventricolo sinistro insufficiente e troppo teso che si sforza senza risultati di pompare il sangue. Un bel galoppo è un ossimoro.
La mia esperienza più sorprendente tra le guarigioni
inaspettate fu quindi un puro e semplice incidente, ma anche un atto di arroganza. Era cominciata in un modo abbastanza innocente, poiché mi ero aspettato che morisse un
uomo di mezza età, ma, con la mia prognosi, mi ero messo
ambiziosamente nei panni di Dio!
I giorni più felici della mia vita
Una massa di capelli bianchi incorniciava il suo volto abbronzato di italiano. Costretto a letto, sembrava un leone
addomesticato sul punto di ruggire. Ma Tony era silenzioso oppure parlava a monosillabi. I suoi grandi occhi castani meditabondi e le sopracciglia scure e arcuate tradivano
una vita passata piena di romanticismi e passioni. Ora
aspettava la morte: un disturbo alle coronarie aveva compromesso il suo cuore. La sola cosa che lo scuoteva dallo
stato di torpore erano i colombi; li nutriva, li faceva gareggiare e raccontava orgoglioso che uno dei suoi uccelli aveva fatto un volo di addirittura ottocento miglia.
Fu trasferito nel mio reparto con una cardiomiopatia
terminale, una grave malattia cardiaca. Il disturbo era evoluto in un’insufficienza cardiaca congestiva che interessava
entrambe le cavità di pompaggio, i ventricoli destro e sinistro. Non c’era modo di dargli un po’ di buonumore. Per
fortuna dormiva moltissimo, ma il sonno non lo ristorava e
si svegliava ancora più stanco di quando si era addormentato. Lunghi momenti di apnea erano interrotti da movimenti convulsivi accompagnati da un pesante rantolare
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B Lown - L’arte perduta di guarire
sibili e non c’era nulla di positivo da dire, lasciavo la tendina tirata e rimanevo in silenzio.
Penso che l’ottimismo abbia un ruolo decisivo anche
con un paziente giovane o di mezza età che non soffre di
cuore, ma è entrato nelle spire del meccanismo sanitario.
Banali deviazioni dalla media nelle sue analisi sono state
esagerate e si è così imbarcato in un interminabile pellegrinaggio alla ricerca di cure. Convincere le persone che nulla le minaccia è a volte un compito ingrato, se non addirittura impossibile. Per alcuni, i benefici secondari della malattia, come il fatto di ottenere la comprensione in un coniuge indifferente o di disertare un lavoro poco gratificante, possono essere superiori ai disagi della presunta infermità. Altri hanno una morbosa paura di morire: non servono le semplici parole di rassicurazione. I pazienti esigono
una risposta inequivocabile e i medici sono spesso esitanti.
Mi sembra proficuo scoraggiare i pazienti dal ripresentarsi quando non ci sono segni di malattia cardiaca. Alla fine del colloquio, quando il paziente chiede di fissare il
prossimo appuntamento, dico: «Certo, la rivedrò tra dieci
anni».
Il paziente fa un riso soffocato: «Parla sul serio dottore? Pensa che vivrò tanto a lungo?».
Ci sono anche altre risposte: «Ancora di più. Faccio affidamento sul suo desiderio di vivere», oppure: «Mi preoccupa sapere se ci sarò io. Quanto a lei, non ho dubbi». Di
solito si sente una risata soddisfatta e i più spiritosi chiedono se voglio fissare subito l’appuntamento. Invariabilmente, i pazienti se ne vanno contenti e sollevati.
se il rinnovo del contratto, ma non lo fece. In passato aveva domandato l’impossibile, ma era abbastanza saggio da
non chiedere a un essere umano di compiere un miracolo.
Lo feci ricoverare al Peter Bent Brigham. Facemmo del
nostro meglio per assorbire l’edema, facilitare la respirazione e migliorarne le condizioni generali. Visse ancora
due anni.
Poco dopo la sua morte, Lisa venne nel mio studio. Era
ormai una donna sui trentacinque anni e aveva raggiunto
la perfezione femminile. Sembrava ansiosa di parlare ed
esordì con emozione, ma nel complesso serena. «Dottore,
lei mi ha dato i giorni più felici della mia vita. Non mi
aspetto più una simile pienezza». Il suo discorso era posato e attentamente misurato.
«Cosa farà ora della sua vita? È ancora molto giovane»,
dissi.
«Vorrei con tutta me stessa farmi una cultura. Andrò all’università. Vede, quando Tony mi ha incontrata ero una
prostituta ancora adolescente. Vengo dal Sud. I miei genitori mi hanno abbandonato quando avevo quattordici anni. Quando ho incontrato Tony, non avevo nessuna speranza per l’avvenire. Tony si occupava di matematica e Dio sa
di che cosa d’altro. Avrebbe potuto essere duro e rozzo,
ma con me fu sempre il più tenero degli amanti. Mi ha insegnato più di qualsiasi libro. Mi ha insegnato a essere
umana. Voleva che le consegnassi questa busta per contribuire alle sue ricerche sul cuore. È anonima».
Si alzò bruscamente e se ne andò. La busta conteneva
cento biglietti fiammanti da cento dollari. Tutto ciò avveniva venticinque anni fa: non l’ho mai più rivista.
Per i pazienti con condizioni cardiache meno stabili che
fanno una visita al mese e vengono sottoposti a esami non
necessari e a terapie con effetti collaterali negativi, propongo una visita dopo un periodo che varia da due a cinque anni. L’efficacia di questo approccio è illustrata da un
altro esempio. Un uomo telefonò un giorno alla mia segretaria, insistendo che io avevo chiesto di visitarlo il mercoledì della settimana seguente. Non ricordavo di avere dato
un simile appuntamento e non ricordavo neppure il paziente.
Alle domande della segretaria, l’uomo rifiutò di dire
cosa non andava, insistendo però che si trattava di un’emergenza. Per fortuna avevo un posto libero. Quando arrivò, qualcosa scattò nella mia mente, ma per quanto mi
sforzassi non riuscivo a raccogliere nessun dettaglio per
colmare il vuoto della mia memoria. Esordì chiedendo se
sapevo il significato di quel giorno. Quando dissi di no,
sembrò sorpreso e ferito.
«Non si ricorda? Oggi sono esattamente vent’anni dall’ultima volta che mi ha visto».
Suo padre, spiegò, vent’anni prima era stato in cura da
me al Peter Bent Brigham Hospital per un attacco cardiaco.
Anche se lui all’epoca aveva solo ventitré anni, presentava
gravi dolori al petto ed era convinto di soffrire degli stessi
sintomi del padre, che l’avrebbero portato all’infarto. Terrorizzato di morire da un momento all’altro, mi chiese un
consiglio. La visita rivelò un sistema cardiovascolare perfettamente normale, ma anche se lo rassicurai, chiese se poteva rivedermi il mese dopo. Rifiutai, suggerendo invece di
rivederlo dopo vent’anni.
«Lei ha detto ‘vent’anni esatti’», mi ricordò. Fino a un
mese prima non aveva avuto nessun sintomo cardiaco, ma
Queste esperienze non sono eccezionali; sono numerosi gli esempi di anziani uomini ebrei e anziane donne cinesi capaci di rimandare la morte in occasione di importanti
feste religiose. Sono scadenze brevi, durano solo pochi
giorni, ma sono persuaso che il fenomeno sia valido. È concepibile che la morte possa venire rimandata per periodi
più lunghi. Molti pazienti mi hanno detto che era stata
diagnosticata loro una malattia mortale, solo pochi mesi di
vita, ma poi guarivano e sopravvivevano per parecchi anni.
Queste guarigioni apparentemente miracolose sono spesso rivendicate dalle fedi religiose di tutto il mondo.
La fede e l’ottimismo sono qualità che aiutano a vivere. Ippocrate, il padre della medicina, disse: «Alcuni pazienti, anche se consapevoli che la loro situazione è critica,
ritrovano la salute semplicemente perché sono soddisfatti
del medico». Tutto nasce dalla fiducia che il medico infonde trasmettendo ottimismo. Questo atteggiamento è decisivo per una buona pratica della medicina ed è un aspetto
significativo dell’arte di curare. Personalmente non ho mai
cercato di spaventare un paziente né ho mai dipinto la situazione clinica a tinte fosche. Anche quando le condizioni sono serie, sottolineo gli elementi positivi senza peraltro
indulgere a un eccessivo ottimismo.
All’inizio della mia carriera, mentre sottoponevo i pazienti al fluoroscopio, mettevo uno specchio di fronte allo
schermo. Mia moglie aveva confezionato una tendina che
poteva essere tirata. I pazienti potevano stare di fronte allo specchio e vedere battere il loro cuore. Quando il cuore
era in buone condizioni, alzavo la tendina e indicavo con
piacere la sua bella sagoma e il suo battito sano. Quando
l’immagine era scarsa, con contrazioni deboli e appena vi-
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G Ital Cardiol Vol 10 Ottobre 2009
Ecco quattro esempi di pazienti diversi per nazionalità,
religione e cultura: due indiani, un cristiano di Madras e un
indù di Bombay, e due ebrei ortodossi, uno del Midwest e
uno del New Jersey. Come vedremo c’è un filo conduttore,
anche se si tratta di mondi diversi per valori e educazione:
in tutti i casi la malattia era una manifestazione dei conflitti familiari. Il processo di guarigione è stato innescato proprio dalla presa di coscienza di tali contrasti.
ora aveva fastidiose palpitazioni accompagnate da vertigini che lo angosciavano. Si era poi accorto che il momento
dell’appuntamento era imminente.
«Ho un appuntamento con lei oppure un appuntamento con la morte», disse con la più assoluta serietà.
Un’anamnesi attenta e la visita non rilevarono alcuna
anomalia. Verosimilmente, i sintomi erano portati da una
recrudescenza delle antiche ansie. Dopo molte rassicurazioni, suggerii di rivederlo dopo solo dieci anni, spiegando
che, anche se lui era sano come sempre, io ero già avanti
negli anni.
Un dottore o un guru?
Alcuni anni fa, chiesi a una dottoressa della Siberia sovietica qual era secondo lei l’essenza della medicina. Rispose semplicemente: «Ogni volta che un medico vede un paziente, quest’ultimo deve poi stare meglio». Era un’idea
molto saggia e in base alla mia esperienza mi sono accorto
che il miglioramento è facilitato dalle parole. Oggi è di
moda e addirittura chic indulgere nel pessimismo, ostentando una certa profondità filosofica. La vita umana è considerata alla stregua di un’esistenza meramente animale,
niente di più dell’indifferente trascorrere del tempo dell’orologio biologico. Nonostante queste pretese intellettuali,
il pessimismo non ha senso. Lacera il tessuto connettivo
della società e contribuisce all’alienazione. Invece di aiutarlo a espandersi, costringe l’individuo a ricercare il senso
della vita entro gli stretti confini del suo sé. In questo modo, la vita appare sminuita e la promessa del domani perde significato.
Thomas Mann ha consigliato di comportarci come se il
mondo fosse stato creato per gli esseri umani. L’ottimismo,
per quanto soggettivo, diventa un fattore oggettivo essenziale a liberare l’energia necessaria per plasmare la propria salute. L’ottimismo è un imperativo morale kantiano
e, per i medici il cui ruolo è affermare la vita, è un imperativo terapeutico. Anche se l’esito è dubbio, parole affermative creano almeno benessere, se non possono assicurare la
guarigione.
Dopo vent’anni, la signora V. tornò da me. Era minuta, di
carnagione scura, con fattezze delicatamente cesellate e
grandi occhi marroni che trasmettevano riserbo e rassegnazione. Si muoveva in modo impercettibile; fluttuava
con grazia nella stanza, sembrava che i piedi non toccassero mai il terreno, come se sfidasse la forza di gravità. Un sari marrone scuro ondeggiava intorno alla sua figura adolescenziale. Come il marito, aveva problemi di cuore, ma non
era la conseguenza di una febbre reumatica infantile. La
sua presenza mi risvegliò antichi ricordi.
Rajiv V., suo marito, era stato un accademico ospite dell’università di Boston. Parlava un inglese perfetto, con lievi inflessioni di Harvard e Oxford e il ritmo fluido dei suoi
antecedenti indiani. A solo trentott’anni era stato ricoverato nel mio reparto al Peter Bent Brigham Hospital per un
infarto acuto del miocardio. Mi colpì un così grave attacco
di cuore in una persona tanto giovane, soprattutto poiché
erano assenti i fattori di rischio per precoci disturbi alle coronarie. Il suo tasso di colesterolo era sorprendentemente
basso, come pure la pressione. Non aveva mai fumato e negli anni passati correva per tre miglia al giorno. Ero anche
sconcertato dalla sua accettazione fatalistica di questo
evento che era stato quasi letale. A differenza della maggior parte dei pazienti americani, non chiese mai perché
era successo, malgrado la sua intelligenza e le sue conoscenze in campo medico.
Quasi dieci anni dopo, per quanto ormai lo conoscessi
bene, non avevo ancora capito il motivo di un attacco tanto grave. I suoi anziani genitori erano vivi e lui non era né
ansioso né troppo preso dalle sue attività. Lo consideravo
una personalità di tipo B, non assillato dal tempo e privo di
eccessiva ambizione. Gli avevo chiesto spesso se qualcosa
lo preoccupava. La risposta era sempre: «No, dottore, la
mia vita non ha tensioni di alcun tipo».
Un giorno chiesi alla signora V., in sua presenza, perché
pensava che suo marito avesse avuto un attacco cardiaco.
Senza alcuna esitazione, rispose che era stato provocato
dallo stress. Egli negò categoricamente. Poi, dopo una lunga riflessione, commentò: «Non ho nessuna tensione, tranne quella che viene dal mio maledetto cognato».
Rajiv sembrava a disagio, come se si fosse pentito della
sua ammissione. Di solito tranquillo e pacato, d’un tratto si
animò, il tono di voce aumentò leggermente, le parole si
fecero più sonanti. Il cognato, marito di sua sorella, desiderava venire negli Stati Uniti, ma aveva bisogno di appoggio familiare nel nostro paese per l’ufficio immigrazione. Il
cognato non aveva soldi e Rajiv aveva lavorato duramente
per anni per aiutare la coppia e i figli, chiedendo alla banca un prestito di 5000 dollari versati al cognato senza inte-
7. Cuori di tenebra parole di luce
Un medico che vuole curare non può concentrarsi esclusivamente sul sintomo principale del paziente e sui suoi organi malati, ma deve anche occuparsi degli aspetti difficili
della sua vita. In presenza di un simile atteggiamento, il
paziente percepisce che il medico è interessato a lui come
persona, non come problema pratico, e condivide più volentieri questioni intime e dolorose, aiutando il medico a
condurre meglio il processo di guarigione. Come abbiamo
visto nel capitolo 3, l’anamnesi non significa soltanto conoscere la malattia, ma comprendere i problemi che turbano
il paziente.
Le tensioni in atto sono numerose e complesse quanto
le singole vite e generalmente raggiungono l’apice in campo professionale e familiare. Un disturbo cronico, ovunque
sia localizzato, non può essere pienamente capito senza
tenerne conto. All’inizio sembra che una terapia farmacologica possa fare il suo effetto, ma poi a poco a poco affiora un sintomo completamente nuovo in un’altra parte del
corpo. La cura diventa allora interminabile e frustrante per
medico e paziente.
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B Lown - L’arte perduta di guarire
Rajiv improvvisamente si fece attento, sollecitandomi a
continuare, mentre la moglie sedeva come un Buddha di
legno senza nemmeno l’ombra di un’emozione.
«Può immaginarsi il suo senso di colpa e la sua costernazione quando lei lo inviterà con la famiglia per una serata
insieme?», continuavo con entusiasmo, sentendo la crescente animazione di Rajiv. «Non saprà più cosa fare. Poiché
lei lo dirà anche a sua sorella, non potrà mantenerlo segreto. Avrà paura che si tratti di un vile stratagemma, ma non
sarà capace a risolvere l’enigma. Sua sorella gli ricorderà
sempre il suo proponimento di dimenticare il passato. Pensi alle notti insonni che passerà! Non proponga una data
imminente, lasci passare per esempio tre settimane, così
suo cognato si roderà nell’incertezza e nell’indecisione».
Rajiv, con il volto colorito, era chiaramente interessato,
ma non ancora convinto.
Continuai: «I suoi nipoti saranno stupiti quando lei li riceverà con affetto. Senza dubbio lui avrà detto loro che lei
è il diavolo in persona, responsabile della rottura tra le due
famiglie per squallidi motivi di soldi. Sono convinto che più
lei sarà amichevole, più gli sarà difficile negare i suoi obblighi finanziari verso di lei. Presto o tardi, pagherà il suo debito».
Rajiv ascoltava con attenzione rapita, mentre si asciugava la fronte sudata, anche se lo studio era piacevolmente fresco. Ma evidentemente non era ancora convinto.
Ecco il mio asso nella manica: «Se segue il mio consiglio, scriverò una lettera alla sua adorata madre e le spiegherò dettagliatamente che lei ha avuto un attacco di cuore e ha rischiato di morire. Poiché voleva risparmiarle l’ansia, non glielo ha scritto. Nella lettera sottolineerò che raramente ho incontrato un uomo tanto devoto alla propria
madre. La inciterò a mandarle parole di conforto durante
questo difficile periodo. Le parlerò anche del suo nobile
carattere e di come ha voluto rappacificarsi con suo cognato per amore di sua sorella, la sua figliola».
A questo punto non esitava più. Si sporse in avanti, il
corpo arcuato nell’azione, come uno dei generali di Kipling bramosi della battaglia. «Lo farò, lo farò!», gridò.
La moglie inaspettatamente si scosse dalla sua trance e
cominciò a parlare a bassa voce. Mi sforzai di cogliere le
sue parole: «Lei non è un dottore, ma un guru».
Circa quindici anni dopo questo episodio, avevo trascorso un mese all’unità coronarica con un giovane medico etiope. L’ultimo giorno del suo soggiorno, egli proruppe: «Dottor Lown, lei è davvero come i vecchi stregoni
etiopi». Ci fu un mormorio imbarazzato tra l’équipe e più
tardi il giovane etiope venne a scusarsi. Gli dissi che il suo
era uno dei più bei complimenti che avevo mai ricevuto.
Anche il fatto di essere stato definito un guru era un
complimento. Erano passati sei mesi e io aspettavo la prossima visita di Rajiv con una certa agitazione. Rajiv aveva
messo in esecuzione il nostro piano? Il cognato aveva accettato il suo invito? Era stata fatta la pace tra le due famiglie? Tutto era stato perdonato? Come promesso, avevo
scritto alla madre, ma lui lo aveva saputo?
Quando arrivò, Rajiv non fece menzione della nostra
conversazione. «Cosa ne è di suo cognato?», chiesi alla fine.
«Sta bene, non è poi un tipo cattivo ed è ottimo con la
mia amata sorella».
«Vi siete poi riconciliati?».
ressi. Quando la famiglia era arrivata in America, Rajiv aveva trovato loro un appartamento e un lavoro di ingegnere
per il cognato: «Non mi sono risparmiato per la mia adorata sorella», spiegò. Le due famiglie abitavano vicine e i figli erano molto attaccati. Ma il rapporto tra i due uomini
si era rapidamente deteriorato.
In tutta la sua lunga conversazione, Rajiv non chiamò
mai il cognato per nome; quando diceva «cognato», aggiungeva sempre «maledetto». Emerse che il cognato non
voleva restituire il prestito e neppure ammetterlo. Con suo
grande disappunto, Rajiv era venuto a sapere che questo
«maledetto» cognato gli aveva alienato l’affetto della sua
venerata madre, spargendo delle voci sul suo conto che
avevano adirato la donna. Alcune settimane prima dell’attacco di cuore, Rajiv aveva appreso che la madre lo aveva
diseredato. Come conseguenza, Rajiv e la sorella avevano
troncato ogni rapporto. Parlò con dolore della pena della
sorella e aggiunse che immaginava come potesse sentirsi:
«Ma cosa può fare quella povera creatura, sposata con un
mascalzone che le ha dato tre figli?».
Dopo questa esplosione di collera, pensai che questo
potesse essere davvero il fattore scatenante dell’attacco di
cuore. Anzi, se l’ascesso non fosse scoppiato, si sarebbe potuto verificare un altro attacco, forse fatale. Rajiv continuò
dicendo tristemente che la cosa peggiore era la perdita
dell’affetto dell’adorata madre. Chiese ripetutamente, con
un filo di voce alterata dal dolore: «Dottore, come è possibile che mia madre mi rifiuti?».
Seduto al suo fianco, in un clima di profonda tristezza,
non sapevo cosa fare per il futuro. La disperazione di Rajiv
sconfinava dal campo della mia competenza cardiologica,
ma era forse al di là del mio compito di medico? Cosa
avrebbe potuto prescrivere la medicina? Quale consiglio
avrebbe contribuito a spezzare questo nodo gordiano? Mi
sentivo accaldato e sudato, improvvisamente la cravatta
mi stava stretta, non riuscivo a stare seduto. Ero andato a
stuzzicare un vespaio, il problema andava oltre la mia comprensione.
Quindi ascoltai con stupore il flusso di consigli che,
d’impulso, mi trovai a dare con la certezza di una rivelazione. «Deve invitare a cena suo cognato e la sua famiglia come se non fosse successo nulla», suggerii. Prima che potessi finire la frase, proruppe aspramente: «Mai, mai!». Divenne paonazzo e fu colto da una rabbia improvvisa. «Preferisco morire piuttosto che quel furfante entri ancora a casa
mia. Non voglio esporre i miei figli, Dio mi perdoni, all’influenza di quel mascalzone. Non sono il Mahatma pronto
a porgere l’altra guancia. Anche se sono cristiano, non voglio né perdonare né dimenticare». Il torrente di parole
straripava come da una diga infranta.
Non ero un giudice che potesse stabilire il torto e la ragione di un caso tanto complesso. Nel mio ruolo di medico, lo blandii con dolcezza: «La sua rabbia e la sensazione
di essere stato tradito sono giustificate. Il perdono in questo caso non è un atto religioso. Non deve invitare il suo
maledetto cognato per immolarsi davanti a lui. Al contrario, sarebbe un efficace atto di vendetta e un gesto educativo nei confronti dei suoi figli, un testamento della sua dignità. Dimostrerebbe chi è umano e chi barbaro. Significherebbe riscattare la sua amata sorella da tormenti infernali. Come lei ha detto giustamente, lei è solo una vittima
innocente».
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G Ital Cardiol Vol 10 Ottobre 2009
il giorno stava a mala pena in piedi. La moglie era sconvolta e non sapeva a chi rivolgersi.
Parlai con la certezza affettuosa di un genitore che rassicura un bambino spaventato. «Il suo dolore non è angina! Non morirà né lentamente né improvvisamente. Se desidera punirsi, non disturbi il suo sonno. Faccia qualcos’altro». Mi guardò esterrefatto, come se gli avessi letto nel
pensiero e sussurrò: «Sì, dottore, le credo». Passai il resto
della giornata a scervellarmi sul perché aveva tali disturbi
del sonno dopo un’operazione riuscita di by-pass.
Parecchi mesi dopo vidi di nuovo il professor K. all’ospedale. Questa volta era stato ricoverato non per un problema cardiaco, ma per una massa nel quadrante addominale destro. C’era stata suppurazione, con febbricola per
alcune settimane. Sembrava contento di vedermi.
«Cosa ne è del suo dolore al petto?».
«È passato».
«E l’insonnia?».
«Dormo tutta la notte».
Espressi soddisfazione per questo bel risultato.
«Senza dubbio, lei mi ha curato».
«Come? L’ho visto per appena dieci minuti e prima lei
aveva sofferto per dieci lunghi mesi».
«Dottor Lown, spero che non si senta offeso, ma lei è
come i vecchi medici indù del secolo scorso. Non parlavano
in modo evasivo, per esclusione, ma conoscevano i propri
pazienti. Non intendo mancare di rispetto alla scienza e
agli scienziati, ma l’incertezza è il loro stile professionale.
Tergiversano, ma un medico deve sapere andare oltre la
scienza; per aiutare i pazienti, occorre guidarli con sicurezza».
La nuova autorevolezza di cui ero stato investito mi incitava a cercare altre cause per i suoi problemi cardiaci. Gli
chiesi come spiegava un attacco cardiaco in una persona di
soli trentacinque anni che non presentava nessuno dei fattori a rischio classici per i disturbi coronarici. Il suo tasso di
colesterolo era solo di 160 mg, la pressione era bassa; non
aveva mai fumato, non soffriva di diabete e apparteneva a
una famiglia di persone longeve. Mi interruppe con un
moto di impazienza: «So con esattezza che cosa lo ha provocato. Mia madre, tirannica e feudale, ha dominato completamente la mia vita. Quando ebbi quest’unica opportunità di venire in America con una nomina alla facoltà di
medicina di Boston, realizzando i miei sogni più utopici, lei
me lo impedì categoricamente. Lasciai l’India comunque,
ma lei mi maledisse e mi diseredò».
Continuò con il tono dolcemente liquido della lingua
indiana innestata sull’inglese, più duro. «Quando venni
qui, avevo incubi tutte le notti. C’era mia madre, che mi
soffocava fino a uccidermi, notte dopo notte, senza tregua. Avevo paura di addormentarmi e trovarmi di fronte
mia madre vendicatrice. Durante il giorno, mangiavo quattro o cinque uova, ero troppo stanco per fare dell’esercizio
fisico, ma lavoravo duramente per mettermi alla prova. Gli
incubi smisero improvvisamente con l’attacco di cuore».
Pensosamente e con tristezza, aggiunse: «Ora ho pagato il
mio debito».
Ma non aveva pagato tutti i suoi debiti. Lo rividi dopo
altri sei mesi; per quanto totalmente asintomatico, era ancora preoccupato. Aveva paura di ritornare in India, dove
l’assistenza medica era insufficiente. La conversazione rivelò una ragione più profonda: il timore ispiratogli dalla ma-
«Non abbiamo mai avuto un vero dissapore».
«E sua madre?».
«Su sua insistenza, andrò presto a renderle visita in India».
Avrei dovuto essere esultante, invece scoprii una debolezza nel mio carattere. Il suo tono pragmatico, che mi negava il dovuto riconoscimento, mi turbava. Ero tuttavia
molto soddisfatto di quello che ritenevo un mio successo
terapeutico. Ma alla fine tutto si tramutò in tragedia. Rajiv accettò un lavoro più prestigioso in India. A differenza
della sua posizione accademica a Boston, stabile e rilassata, con il nuovo lavoro si trattava di entrare nell’occhio del
ciclone, dati i conflitti tra forze politiche e etniche avverse.
Ricordandogli che l’attacco di cuore che gli era quasi costato la vita era stato provocato dallo stress psicologico, sconsigliai a Rajiv di ritornare in India. Non volle ascoltarmi,
perché quel lavoro era stata l’aspirazione della sua vita.
Dopo un solo anno in India, Rajiv morì per un improvviso
attacco cardiaco.
La moglie di Rajiv era ritornata negli Stati Uniti a vivere con il figlio. Una volta l’anno la signora V. veniva a Boston per una visita medica. A ogni occasione, ricordavamo
Rajiv e la fatidica visita nel mio studio di più di trent’anni
prima, quando lei mi aveva definito un guru.
Troppo spesso la psicopatologia familiare è talmente
radicata che la cura è impossibile. Il conforto, tuttavia, non
è mai impossibile: anche in casi insolubili, le attenzioni del
medico aiutano a mitigare la sofferenza e rendono la vita
più sopportabile.
La maledizione di una madre
Il professor B.K. era un eminente scienziato di una delle facoltà mediche di Boston. Era venuto negli Stati Uniti a
trentacinque anni e sei mesi dopo sostenne di avere un infarto acuto del miocardio. Era ricoverato nel reparto di
unità coronarica dell’ospedale e cercavamo di capire se
aveva avuto davvero un attacco al cuore. Leggendo la cartella, trovai strano che fosse stato ricoverato lì, perché un
formicolio alle spalle e al petto non è un sintomo che deriva dal cuore e non è certo dovuto all’angina pectoris. I letti dell’unità coronarica erano molto ambiti; si era inoltre
alla fine di maggio e l’équipe che si occupava dei ricoveri
aveva già avuto quasi un anno di esperienza; avrebbe
quindi potuto essere più accorta. Il mistero fu risolto quando incontrai il professor K. Raramente avevo incontrato
qualcuno più ansioso. Sembrava che non stesse più nella
pelle. Senza dubbio la sua paura aveva convinto tutta l’équipe di giovani che un attacco cardiaco era imminente.
Dopo alcune domande che stabilivano senza ombra di
dubbio che i suoi sintomi non erano collegati al cuore, gli
chiesi se dormiva bene. Rispose che da quando era stato
operato con successo per l’applicazione di un by-pass coronarico dieci mesi prima, dormiva pochissimo. Di notte, incapace di prender sonno, lasciava il letto e guardava la televisione finché, morto di fatica, ritornava a dormire due o
tre ore la mattina. Si svegliava poi alle 6,30 per portare i figli a scuola. Certi notti, troppo agitato, non andava affatto a dormire e, dopo l’operazione, non aveva avuto più
rapporti sessuali con la moglie. Privato del sonno, durante
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B Lown - L’arte perduta di guarire
gendo impassibile: «Lei sicuramente sa che abbiamo quattro figli, non tre». Feci un salto sulla sedia girevole, la mia
voce si colorò di eccitazione e disappunto: «Parlatemene.
Come mai avete aspettato tanto?».
«Mio marito mi ha fatto giurare di non pronunciare
mai il suo nome. Per lui, lei è morta. Molte notti, io piango
nel sonno».
«Non capisco. Vostra figlia è morta?».
«No, è vivissima».
«La vede?».
«No, anche se mi scrive, nascondo le sue lettere».
Non era una conversazione facile. Ogni parola era per
lei palesemente dolorosa.
Quando il signor D. ritornò dopo l’elettrocardiogramma, la moglie smise di parlare, lanciandogli uno sguardo timoroso, furtivo e colpevole. Resistetti al desiderio di proseguire il discorso sulla figlia perduta fino alla visita successiva, sei mesi dopo.
Questa volta, feci in modo di vedere la signora D. da sola. Mi supplicò di nuovo di non fare cenno della figlia al
marito. Aveva paura che gli venisse un infarto o che la trattasse male perché aveva divulgato un segreto di famiglia,
che di sicuro non era un segreto perché tutti nella loro comunità dovevano saperlo. Sembra che questa figlia fosse
stata la favorita del padre. Brillante, intelligente, capricciosa e caparbia, lo rigirava come voleva. Aveva cominciato a
frequentare un ragazzo non ebreo al liceo; quando si diplomò, scapparono e si stabilirono a Cleveland. Il padre,
qundo lo venne a sapere, fece shivah (il lutto ebreo in caso di morte) per una settimana, ebbe un crollo nervoso e,
dopo essersi ripreso, ordinò di fare sparire ogni traccia del
ricordo della figlia. Quando scoprì una sua lettera, ebbe un
violento accesso d’ira. Sospettavo perfino che avesse picchiato Rachel, anche se quest’ultima era evasiva sull’argomento.
Una volta, esasperato, ebbi uno scontro con il signor D.
Dopo tutto, ora eravamo amici. «Se non è sincero con me,
non posso aiutarla. Ho la sensazione che qualcosa la turbi
profondamente, ma che si vergogni di parlarne con me. Se
un medico non conosce i fatti, è inutile per il paziente».
Allora egli mi raccontò la storia a cui aveva accennato
la moglie, ma con molta più rabbia e emozione. Sua figlia
si era sposata suo malgrado. Era stato un rifiuto deliberato del suo ebraismo. Con Israele minacciato e la ferita ancora aperta dell’Olocausto, come poteva permetterlo? Se
sua figlia rifiutava il fatto di essere ebrea, allora non era
sua figlia. Alla visita seguente, abbordammo il problema,
ma senza risultato.
Le sue condizioni di salute peggiorarono; non seguì la
terapia anticoagulante ed ebbe un piccolo infarto. Eravamo giunti a una situazione di crisi. Avevo la sensazione che
la sua vita fosse diventata insopportabile e che egli stesse
lentamente sacrificandosi in un modo che nessuno era capace di impedire, compresa la vittima, la quale si avviava
inconsapevolmente verso il precipizio.
Una delle visite avvenne in un tardo pomeriggio autunnale, piovigginoso, grigio e triste. Giravo senza posa davanti a un’ampia porta finestra che occupava l’intera parete e sovrastava un parcheggio sotterraneo di cinque piani,
amplificando la plumbea malinconia esterna. Dondolandomi avanti e indietro, ero frustrato e arrabbiato contro il
mondo intero per la mia impotenza.
dre soffocava ancora la sua vita. Lo indussi ad avere un
confronto con lei.
L’ultima volta che lo vidi mi disse che aveva telefonato
alla madre e aveva detto: «Cado in ginocchio e ti bacio i
piedi, Madre. Ho sofferto molto. Ho avuto un attacco di
cuore e ho dovuto subire un’operazione. Sono di nuovo
stato operato al ventre. Sono stato punito più di quanto
meriti un qualsiasi essere umano. Per piacere, perdonami».
Lei rispose: «Sì, ora ti perdono».
«Dovrebbe essere contento».
«Lei non intendeva questo».
«Perché dice così?».
«Per il suo tono di voce, che conosco bene. Ora il suo
favorito è mio fratello minore».
Si sarebbe potuta prevedere una rapida progressione
del suo disturbo cardiaco al ritorno in India. Non sapevo
come curare quest’uomo profondamente disturbato; le
nostre diversità culturali erano troppo grandi.
I chutzpah
Curare è diverso da guarire. Nel primo caso, si tratta con
organi che funzionano male, nel secondo con un essere
umano che soffre. Questa storia, che avvenne più di vent’anni fa, illustra bene la differenza. Mi lasciò un’impressione indelebile e mi provocò molto disagio.
Il signor S.D. era un omone del Midwest, robusto e
massiccio. Si era fatto da solo ed era una persona piacevole, gentile e affidabile, la cui unica attività oltre al lavoro e
il golf, era la sinagoga, di cui era presidente. Cercava un’opinione medica per una ricorrente fibrillazione atriale, disturbo del battito cardiaco in cui il polso è rapido e irregolare. Anche se la palpitazione può essere snervante, si tratta di uno stato benigno. Per il signor D., tuttavia, il parossismo dell’aritmia si dimostrava sempre più debilitante.
Sua moglie Rachel lo accompagnava sempre, testimone silenziosa. Un tempo doveva essere stata bella, con i
suoi capelli corvini, ora tinti, con fattezze graziosamente
cesellate, zigomi alti, occhi verde scuro austeri e tristi, che
guardavano sempre altrove, forse per non lasciare intravedere una profondità che era meglio tenere nascosta. Magra, era tesa come una molla d’acciaio, la sigaretta sempre
accesa che ne alterava la bocca voluttuosamente disegnata. Tendeva una mano floscia, fredda e sudata, che rifiutava ogni contatto umano. Non parlava mai, ma si affidava
al marito. Lui pesava circa 115 chili. Malgrado la differenza, erano stati insieme trantacinque anni, avevano tre figli
affezionati che frequentavano l’università e il calore del
loro rapporto era evidente.
Un’anamnesi attenta non mi rivelò problemi psicologici. Anche se retrospettivamente ricordo il sussulto di lei
quando il signor D. parlò della famiglia, all’epoca non ci feci caso. Diversi farmaci anti-aritmia controllavano con successo il suo problema, ma soltanto momentaneamente.
Con gli anni, venni a conoscere bene la coppia e a rispettare la loro dignità provinciale e senza pretese, ma ogni visita mi lasciava l’impressione che la calma esteriore nascondesse carboni ardenti. I tentativi di identificare la fonte di
questo fuoco nascosto erano scoraggiati con fermezza.
Un giorno, mentre imploravo di nuovo la signora D. di
smettere di fumare, lei ribatté che era impossibile, aggiun-
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G Ital Cardiol Vol 10 Ottobre 2009
Poi all’improvviso, senza alcuna provocazione, cominciai a gridargli: «Non so perché sto sprecando il mio tempo
con un essere umano miserabile come lei. Mi irrita con la
sua autocommiserazione, ma più ancora per quello che ha
fatto a sua figlia, a sua moglie, alla sua famiglia, agli altri
figli e a se stesso. Ha rovinato la vita di tutti, È pazzesco il
suo egoismo. Secondo la religione ebraica Dio può perdonare le colpe commesse contro di Lui, non le colpe commesse contro altri esseri umani».
Tremavo per l’apprensione. Cos’era questo discorso
maniacale che usciva dalla mia bocca, degno della biblica
asina di Balaam? Il signor D. si mosse in avanti, come il toro alla carica del matador, con gli occhi fuori dalle orbite,
il respiro ansimante, le vene del collo rigonfie. Mi immagginavo che sarei stato spinto all’indietro, che avrei frantumato la vetrata per atterrare sulla terrazza d’asfalto del
parcheggio. La signora D. cominciò a piangere istericamente, agitando le estremità, gridando come se fosse esorcizzata. Ero coperto di sudore, angosciato e pieno di rimorsi per la mia stupida piazzata.
Non era nelle mie abitudini ma, come un giocattolo
che si carica, la molla era così tesa che non potevo smettere. «Se ha una qualche dignità, vada fino a Cleveland, proprio adesso, e bussi alla porta di servizio di sua figlia. Non
merita l’ingresso principale. Si metta in ginocchio, le chieda perdono. Solo lei può alleviarla dal peso della colpa,
non Dio».
Ero diventato psicotico, pretendendo di essere Geremia, l’antico profeta dalle parole forti? Non c’era la mirra?
Sentii un singhiozzo soffocato e vidi il corpo massiccio del
signor D. in preda a convulsioni. Si alzò lentamente piegato dal dolore e dall’età, e lasciò la stanza. La moglie, che
sembrava ancora più raggrinzita, lo seguì. Ero dilaniato dal
senso di colpa, ma sentii un alto impulso: «Va bene. Questo è guarire: ci vuole dolore per diminuire il dolore».
Quando giunse il successivo appuntamento, fui sorpreso quando comparve dal signor D., trattenuto ma più rilassato. Aveva fatto esattamente ciò che lo avevo esortato a
fare. Era andato a Cleveland e aveva chiesto il perdono della figlia. Non avevano smesso di festeggiare e lui era esultante. Le due famiglie ora erano inseparabili e continuava
a parlare del suo nipotino. Considerava gli anni passati come un’aberrazione che era meglio dimenticare. Inoltre, la
fibrillazione atriale non era più un problema. Lo stesso farmaco che prima non riusciva a controllare il suo ritmo cardiaco ora glielo aveva reso preciso come un orologio.
Riflettendo sul signor D. più di vent’anni dopo, non sono fiero di come mi comportai allora. Il fatto che l’esito si
fosse poi rivelato positivo non significa che i mezzi fossero
stati legittimi. Mezzi inadatti non sono mai giustificati dalle buone intenzioni né dai buoni risultati. Era davvero l’unico modo per far riconciliare il signor D. con la figlia? La
persuasione cortese alla lunga non avrebbe avuto lo stesso
risultato? Una tale tempesta di emozioni gli aveva arrecato un grave danno, sia fisicamente sia psicologicamente.
Avevo perso il controllo, agendo come un indemoniato,
ma ciò non giustificava assolutamente un comportamento
scorretto. L’acquisizione del controllo di sé è un aspetto
che richiede alti costi nella formazione di quasi tutti i medici, durante la quale i pazienti sono cavie involontarie.
Non ho mai più perso il mio sangue freddo con un paziente: avevo ormai fatto tesoro dell’esperienza.
L’inammissibile può diventare normale
Il signor G., uomo d’affari sessantenne del New Jersey, possedeva un avviato negozio di macchine utensili ed era felicemente sposato con una donna intelligente e sollecita.
Perché dunque questo disturbo prematuro alle coronarie?
Il livello di colesterolo e la pressione erano normali e non
aveva mai fumato. Anche se aveva un temperamento nervoso e apprensivo, il lavoro non era fonte di preoccupazioni. Ma il suo disturbo alle coronarie era incurabile e progressivo. Aveva subito tre operazioni (due applicazioni di
by-pass coronarici e un palloncino in angioplastica), ma
l’angina peggiorava e rendeva inutile un programma terapeutico già di per sé gravoso.
Lo vidi spesso nel corso degli anni, continuando a prescrivere, senza molti risultati, diversi farmaci anti-angina,
come nitrati e beta bloccanti e bloccanti del canale del calcio. Nella visita che voglio raccontare sembrava più depresso del solito. Dall’anamnesi non emerse nulla, ma dopo la
visita, quando lui e la moglie entrarono nel mio studio, ebbi la sensazione che mi sfuggisse qualcosa. La moglie sembrava ansiosa di parlare, ma non si decideva a farlo.
Ritornai al soggetto dei figli, pensando confusamente
che questo fosse lo scheletro nascosto nell’armadio. La
coppia aveva due figlie e un figlio, il secondogenito. Tra gli
ebrei ortodossi, un figlio maschio è fondamentale nella gerarchia familiare e avevo il sospetto che lì stesse il problema.
«Ha dei problemi con i figli?», chiesi con cautela.
A questo punto la signora G. si intromise: «Per amor
del cielo, parlagli di Richard».
Le disse di tacere. «Richard non ha nulla a che fare con
la mia angina».
«Va d’accordo con suo figlio?».
«No», rispose rudemente.
«Perché no?».
«Perché Richard è omosessuale e avrei preferito morisse di cancro», disse, palesemente in collera con me per la
mia insistenza.
Con gentilezza e circospezione, replicai: «Mi stupisce.
Per un uomo dignitoso come lei, il suo comportamento è
irrazionale e gretto». Insistetti poi, con un tono più grave:
«Ha senso accorciare la vita di sua moglie, rovinare quella
di suo figlio e uccidere se stesso, tutto per una mentalità ristretta?».
Continuai a parlare dell’omosessualità sottolineando
che era un problema biologico e genetico, non comportamentale, da cui non doveva scaturire nessun senso di colpa. Pur insistendo che un padre non ha il diritto di condannare il proprio figlio, gli esprimevo la mia simpatia per la
sua vergogna e la sua sofferenza, per altro mal indirizzate.
La conversazione fu lunga e profonda e furono versate
molte lacrime. Consigliai una terapia familiare, ma quando
se ne andarono non ero sicuro che avrebbero seguito il
mio parere.
Quella che in studio sembra una soluzione felice, può
dissolversi quando il paziente se ne va e indurre a riflettere sull’invadenza del medico negli aspetti più intimi della
vita. Non sapevo se il signor G. sarebbe ritornato nei prossimi anni, se avrebbe affrontato il problema, cercato di risolverlo, se mai lo avrebbe risolto o se avrebbe aggravato
ulteriormente il suo già grave problema alle coronarie.
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B Lown - L’arte perduta di guarire
quando i sintomi sono banali. È più problematico quando
il medico è meno sicuro, per esempio quando non si può
escludere una grave patologia. A volte si sbandiera la certezza fino all’assurdità, apparentandosi agli sciamani o
peggio ai ciarlatani. Ma un medico che sa valutare il potere delle parole è consapevole che in alcuni casi la certezza
può solo capovolgere la situazione e alleviare il dolore
quando tutto il resto ha fallito.
È etico rincuorare il paziente affermando qualcosa che,
su un terreno strettamente scientifico, non è plausibile? In
un’epoca di caduta morale, l’etica medica raccomanda la
sincerità con i pazienti. Ma più di cinquantacinque anni fa
il grande scienziato medico L.J. Henderson diceva «l’idea
che la verità, l’intera verità, e nient’altro che la verità, deve essere comunicata al paziente è un esempio di falsa
astrazione, di fallacia, definita da Whitehead “la fallacia
della concretezza smarrita”»1.
A volte, anche quando le basi scientifiche per la cura
erano labili o nulle, mi è successo di parlare di guarigione.
È la vana promessa di una cura impossibile? Il medico può
sbagliare e perdere la fiducia del paziente o essere oggetto di un’azione legale (vedi capitolo 10). Ma l’esperienza
mi ha insegnato che se il paziente percepisce che l’esclusiva preoccupazione del medico è il suo benessere, la sua fiducia non verrà meno anche se il medico avrà torto. In alcuni casi, quando ho promesso una cura che non è andata
in porto, i pazienti quasi si scusavano, come se non fossero
riusciti a tenere fede alle mie aspettative. Quando ero affranto per la famiglia di un paziente morto durante un’operazione, erano i parenti a consolarmi. Mi sono spesso
sentito dire: «Sappiamo che lei ha fatto del suo meglio».
Nella mia lunga carriera medica, non sono mai incorso in
pratiche legali.
Quando sbaglio, come succede, purtroppo, troppo
spesso, non lo nascondo, anzi lo comunico ai colleghi, soprattutto ai miei studenti. Prendo a cuore le parole del
poeta Evtuschenko, nella poesia L’inespresso:
Ritornò e capii immediatamente che era un’altra persona. Il suo modo di fare burbero era scomparso. Non evitava più di guardarmi negli occhi. Per la prima volta, un
sorriso illuminava il suo viso massiccio.
«Quali buone notizie?», mi informai.
«Abbiamo appena festeggiato la Pasqua ebraica e Richard e Gilbert erano con noi. Entrambi hanno letto l’Haggadah. Gilbert, il suo amico, è un uomo splendido; non si
può trovare di meglio. Vivono insieme da parecchi anni.
Hanno entrambi successo e guadagnano più di centomila
dollari l’anno. La Pasqua ebraica è riuscita bene. Richard
era un po’ geloso delle mie attenzioni per Gilbert. Mia moglie e io ora siamo attivi nel movimento per i diritti degli
omosessuali. Abbiamo anche partecipato all’ultima marcia». Quest’uomo un tempo taciturno sfornava un fiume di
parole. Parlava con facilità e orgoglio e non voleva smettere di raccontare l’incredibile storia di quello che gli era successo l’anno prima. La lotta contro i pregiudizi verso l’omosessualità era diventata la maggiore preoccupazione sociale del signor e della signora G., e l’angina aveva smesso di
essere il suo problema principale.
8. Il potere della certezza
Nel caso del professor B.K., lo scienziato indù pieno di paura, avevo criticato lo staff perché aveva accettato di ricoverarlo all’unità coronarica mentre il suo problema era palesemente l’ansia. È un fatto clinico comune che il formicolio
nelle mani sia una manifestazione di iperventilazione e che
un respiro rapido e superficiale accompagni gli attacchi
d’ansia. I membri dello staff mi assicurarono di aver ripetuto al paziente che il formicolio non era un sintomo cardiaco. Perché non li aveva creduti? E perché aveva subito accettato le mie parole come vangelo? Volli appurare la situazione e venni a sapere che il medico di guardia e l’assistente, malgrado le rassicurazioni, avevano instillato il dubbio
nel paziente perché lo avevano attaccato al monitor. L’inesperienza li aveva resi insicuri e avevano trasmesso al paziente un doppio messaggio. Io fui invece categorico ed
esclusi l’eventualità che i suoi sintomi fossero dovuti al cuore. Il professore aveva bisogno di certezze, non di equivoci.
Un clinico percepisce subito che i pazienti desiderano
una mano ferma che li aiuti a superare l’incertezza generatrice d’ansia collegata alla malattia. Le parole di un medico devono essere autorevoli senza apparire dogmatiche:
una linea sottile infatti separa i due atteggiamenti. Bisogna sceglierle attentamente accordandosi alla personalità
di ogni paziente.
Uno dei motivi dei tentennamenti dei medici è l’abitudine a considerare la medicina una disciplina scientifica. La
medicina insegna che i sintomi possono avere una varietà
di cause: lo studente impara più di cinquanta cause per
una milza ingrossata, ma il paziente non trae alcun beneficio da questa esaustività accademica. Al contrario le possibilità possono trasformarsi in probabilità, che, se comunicate al paziente, provocano disagio e inducono un’altra
quantità di sintomi. Il professore indiano colpì nel segno
quando disse che l’incertezza è lo stile professionale della
scienza e degli scienziati.
Un medico deve al paziente precisione e determinazione. Non è difficile quando la condizione clinica è chiara o
Tutti gli sbagli e tutte le colpe
si martellano come epilettici
dicendo: «Quello che non è espresso sarà dimenticato
e quello che è dimenticato, succederà di nuovo».
La coscienza degli errori facilita l’apprendimento. Ammetterli pubblicamente aiuta a non ripeterli più e a non
sentirsi onnipotenti. Non possediamo poteri assoluti, soltanto intuito, esperienza e una parvenza di conoscenza.
Questi strumenti si affinano quando ci si concentra costantemente sull’interesse dell’essere umano che soffre.
Guarire un mal di schiena
Stavo facendo le visite del mattino al reparto B del Peter
Bent Brigham Hospital, accompagnato da Jim, un nuovo
specializzando con ottime credenziali di studioso, che tuttavia mostrò ben presto un’assoluta mancanza di buonsenso. Era dogmatico, arrogante e privo di senso dell’umorismo.
1L.J.
Henderson, Physician and Patient as a Social System, «New
England Journal of Medicine», 212, 1935, 819-823.
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G Ital Cardiol Vol 10 Ottobre 2009
tenazione di pensieri: era stata la paziente. Si era arrampicata sui muri, aggrappandosi all’idea che questa tecnica
avrebbe alleviato il suo dolore. Perché un medico deve annientare la speranza a cui si attacca disperatamente il paziente? Quali leggi superiori giustificano questa etica inflessibile?
Come si può essere certi che la cardioversione non sarà
di aiuto? La scarica elettrica può saturare i circuiti nervosi,
bloccare la trasmissione neurale verso il muscolo e quindi
interrompere un circuito cibernetico, in cui lo spasmo muscolare stimola dolorosamente le fibre nervose provocando un disagio che a sua volta causa spasmi ancora maggiori. I cinesi, per migliaia di anni, hanno curato ogni sorta di
dolori e disturbi cronici applicando l’agopuntura in luoghi
molto lontani dalla localizzazione del dolore o applicando
sugli aghi piccole scariche elettriche. È anche possibile che
la leggera anestesia prima della cardioversione si riveli salutare. Se il paziente si aspetta qualcosa di più da una terapia, il medico è forse obbligato a disilluderlo? Il benessere del paziente non è forse l’obiettivo primario, se non
esclusivo, della medicina?
Per infondere fiducia, il medico deve a sua volta possederla. Non deve preoccuparsi di mostrarsi eccessivamente
ottimista. In tal modo può evitare al paziente una snervante peregrinazione di medico in medico e lo può proteggere da stati ipocondriaci.
L’esempio che segue dimostra come un atteggiamento
rassicurante può spezzare il ciclo della malattia proprio come il bisturi incidere l’ascesso.
Visitammo una paziente che doveva subire una stimolazione elettrica (cardioversione, vedi capitolo 12) per una
fibrillazione atriale, un’irregolarità del ritmo cardiaco conseguenza di una recente operazione alla valvola mitralica.
Nella cardioversione, una scarica elettrica nel petto elimina il ritmo anomalo. La signora H., una robusta donna di
quasi cinquant’anni, non dava la minima importanza ai nostri programmi e si preoccupava poco del suo disturbo cardiaco. Si contorceva per un terribile mal di schiena, incapace di trovare una posizione comoda, girandosi e rigirandosi tra smorfie e lamenti. Gli antidolorifici prescritti le accrescevano il disagio, provocandole nausea, vertigini e stitichezza. Era furente: «Non voglio sottopormi a quella diavoleria a meno che non mi faccia scomparire il mal di schiena. Voglio una risposta chiara. Il trattamento elettrico mi
curerà la schiena?».
Risposi senza esitazione: «Certo».
Jim, che aveva il piede posato sul bordo del suo letto, si
battè una coscia con aria sarcastica e sbottò: «Che asinata!
La prego di spiegare come può una cardioversione lenire
una sciatica!». Mi rigirai come lo spiedo sul fuoco ardente,
arrossendo per il disagio e l’imbarazzo. La signora H., confusa e arrabbiata, chiese: «Chi è quel bel tipo?». Risposi che
era un principiante che aveva molto da imparare.
Quando lasciammo la sua stanza, la rabbia mi aveva
letteralmente tolto la parola e rimasi in silenzio. Il mattino
seguente, applicammo la cardioversione alla signora H. e
fu ristabilito un ritmo cardiaco normale senza incidenti.
Più tardi passai a vederla per informarmi del suo mal di
schiena. Disse che il trattamento era stato miracoloso; il
dolore era completamente scomparso. Chiese di Jim, perché questa donna di campagna credeva nelle azioni dirette ed avrebbe voluto dargli un pugno sul naso. Le consigliai di non usare la violenza, ma di fare appello piuttosto
alla sua intelligenza.
Il mattino seguente alle nove la stanza infermiere del
reparto B era un vero e proprio alveare di attività di medici, infermiere, pazienti e inservienti. Jim e io stavamo
esaminando le cartelle quando improvvisamente entrò la
signora H. Rossa in faccia, era fuori di sé e chiese il silenzio. Quando tutti tacquero, urlò: «Voglio dirvi qualcosa.
L’assistente del dottor Lown qui presente, di cui non so il
nome né voglio saperlo, pretende di essere un medico. È
più stupido di una gallina e dovreste vergognarvi di tenervelo intorno». Poi raccontò con parole pungenti quanto
era accaduto, concludendo con una sfilza di imprecazioni
rabbiose. Jim all’inizio si fece rosso, poi sbiancò e quasi
svenne. Non so che effetto educativo ebbe l’episodio su di
lui, perché scelse di non passare con noi i suoi due anni di
tirocinio.
Se uno studente in medicina mi chiedesse se la cardioversione fa passare il mal di schiena, risponderei categoricamente di no. Jim sarebbe stato pienamente giustificato
se avesse espresso il suo disaccordo in privato, ma, di fronte a un paziente sofferente, è una colpa imperdonabile togliere la speranza di alleviare il dolore.
Questo caso solleva numerosi problemi. Per prima cosa,
è etico promettere al paziente qualcosa che difficilmente
si verificherà? Non c’è evidentemente nessun legame anatomico tra la schiena e il cuore e sarebbe sciocco se io sostenessi l’efficacia della cardioversione contro i dolori di
schiena. Ma non ero stato io a dare inizio a questa conca-
La donna con le palme sudate
Una donnina piccola e fragile giaceva in una piccola stanza che conteneva quattro letti, anche se c’era spazio a malapena per due. Sembrava un uccellino spaurito appollaiato su un ramo spoglio nel pieno dell’inverno. La voce era
soffocata perché singhiozzava continuamente. Le nocche
erano bianche e ossute, le dita stringevano convulsamente
le ginocchia avvicinate al mento. Quando le porsi la mano,
esitò e parve sconvolta. La stretta di mano fu rapida, superficiale, le nostre palme si toccarono appena e lei ritrasse subito la sua mano floscia e sudata.
Era sposata da due anni con un bel bambino di un anno, ma la famiglia si dibatteva in gravi difficoltà economiche. Poco più che ventenne, aveva sempre goduto di buona salute fino alla comparsa di una fastidiosa palpitazione
cardiaca. Aveva infine trovato i soldi e il coraggio per consultare un medico. Gli ultimi mesi, dopo la prima visita medica, erano stati un incubo.
Il dottore che l’aveva visitata aveva diagnosticato un
disturbo del ritmo cardiaco potenzialmente mortale e le
aveva detto che le numerose extrasistole potevano preannunciare una morte istantanea. Terrorizzata, consultava il
medico tutte le settimane, anche se non avrebbe potuto
permetterselo. Ogni settimana, oltre al costo dell’elettrocardiogramma e all’esoso onorario del medico, doveva pagare una baby-sitter. La diagnosi era prolasso della valvola
mitralica e la giovane donna pronunciava queste misteriose parole come se fossero un incantesimo fatale. Il medico
aveva anche aggiunto che era pericoloso stare da sola con
il bambino. Le prescriveva farmaci anti-aritmia che le pro-
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B Lown - L’arte perduta di guarire
dici accademici che praticano in cliniche universitarie, e che
non assistono mai ai normali casi quotidiani; affrontano
solo questioni straordinariamente complesse e complicate.
Un paziente con un prolasso della valvola mitralica non si
rivolgerà a una clinica universitaria, a meno di non presentare aritmie significative, infarti o endocarditi batteriche,
complicazioni molto rare di questa condizione. Quando gli
accademici pubblicano articoli sul prolasso della valvola
mitralica, possono riferire giustamente che il 10% o più dei
pazienti ha gravi complicazioni. Nella mia carriera, ho visto
più di venti pazienti con prolasso della valvola mitralica
che hanno avuto un arresto cardiaco. Ma sono direttore di
una clinica specializzata sull’aritmia che accoglie pazienti
da tutti gli Stati Uniti e dall’estero. Dio solo sa quanti milioni di persone costituiscono la popolazione base di riferimento. Generalizzare l’incidenza di una condizione sulle
basi dei pazienti di un cronicario o di un ospedale militare
crea falsi risultati. Nel primo caso si ha un’utenza di cronici e di anziani, nel secondo solo pazienti giovani.
Quale che sia la patologia, banale come il prolasso della valvola mitralica o letale come un’insufficienza cardiaca,
il paziente si aspetta dal medico parole di speranza e ottimismo per migliorare non solo il suo problema medico, ma
la propria vita in generale. È più facile se il medico ha un carattere ottimista ed è sicuro di sé. La certezza non si trasmette solo con le parole ma evitando che intervengano eccessivi cambiamenti nello stile di vita. Restrizioni troppo rigide minano la fiducia e impoveriscono la qualità della vita.
I medici a volte assumono il ruolo di religiosi fanatici. I
religiosi di antico stampo spesso negano tutti i piaceri corporei e opprimono i «peccatori» con la paura dell’inferno
e della dannazione eterna. Anche il medico, nella missione
più temporale di procrastinare la morte, di solito sconsiglia
le attività piacevoli. Questo atteggiamento può negare ai
vecchi e ai malati le poche soddisfazioni che sono loro rimaste.
Mi ricordo una barzelletta che circolava negli ambienti
medici. Un paziente chiede al medico cosa può fare per vivere più a lungo. Il dottore sciorina una lunga lista di proibizioni, che comprende quasi tutte le cose che gli piacciono. Il paziente costernato chiede: «Se mi nego tutte queste
cose che rendono la vita degna di essere vissuta, vivrò più a
lungo?» La laconica risposta è: «No, ma lo potrà credere».
Non cerco mai di imporre restrizioni categoriche a un
paziente, a meno che non ci siano ovvie controindicazioni.
Anche quando esistono dati sicuri sugli effetti nocivi di un
cibo o di un comportamento particolari, la flessibilità e la
moderazione sono preferibili a una rigida proibizione. Il
paziente che asserisce di non avere mangiato un uovo in
dieci e più anni di solito non sta meglio di uno che ogni
tanto ne mangia uno. La ragione è chiara. Un comportamento compulsivo origina la paura. Se si pensa che le uova sono pericolose per la vita, si sta costantemente all’erta.
Questa continua attenzione, secondo l’insigne fisiologo
americano Walter B. Cannon, innesca il modello neurofisiologico arcaico del comportamento lotta-o-fuggi. Questo sistema si è evoluto per milioni di anni per permettere
all’animale l’istantanea disponibilità a una lotta per la sopravvivenza o alla fuga. Durante l’attivazione di questo
stato comportamentale c’è un aumento di adrenalina,
un’attivazione dei riflessi simpatici, un’accelerazione del
ritmo cardiaco e un aumento della pressione. Molte ricer-
vocavano nausea e vertigini, rendendo difficoltose le cure
al piccolo: le aveva quindi consigliato di tenere una babysitter tutto il giorno che fosse presente in caso di collasso.
Poiché non potevano permettersi di pagare qualcuno,
la suocera, con cui non si intendeva affatto, si era trasferita a casa loro e l’aveva sostituita completamente come madre e come moglie. Cominciava a sentirsi un’estranea a casa propria. A ventiquattro anni, aveva la sensazione che la
sua vita fosse finita e i suoi singhiozzi erano frutto della disperazione.
Visitandola, trovai il suo cuore completamente normale tranne per un soffio innocuo e alcuni battiti irregolari
che non avevano alcun significato prognostico infausto. Le
spiegai che il suo cuore era normale, che poteva prendersi
cura del figlio senza alcun pericolo, che la suocera poteva
ritornare a casa propria. Le consigliai di dimenticare questa sfortunata esperienza e dichiarai che sarebbe vissuta fino a un’età veneranda.
«Ma vorrei piuttosto parlarle di un suo grave problema», dissi poi, con finta serietà.
«Di che cosa si tratta?», chiese con gli occhi spalancati
per l’apprensione.
«Il suo unico problema reale sono le palme sudate».
Mi guardò sollevata e rise nervosamente. Ammise che
le sue mani erano un problema che le provocava continuo
imbarazzo. Adolescente, aveva paura di andare a ballare
perché temeva di lasciare un alone umido sulla spalla dei
ragazzi. A quell’epoca passava più tempo a pensare alle
sue mani sudate che a qualsiasi altra cosa.
Le dissi che, con il modo in cui stringeva la mano, accentuava il problema. «Se dà una stretta rapida e vigorosa,
nessuno si accorgerà di nulla. Ma se tende una mano floscia e la porge con esitazione, le dita dell’altra persona scivoleranno lentamente su tutta la sua palma, percependo
immediatamente che le sue mani sono sudate. In questo
modo, lei preannuncia il problema e quindi lo aggrava. Ma
se stringe le mani correttamente, con la palma che tocca la
palma, è possibile non accorgersene. Proviamo».
Sperimentammo poi varie strette di mano. Dopo un
po’, cominciò a rilassarsi ed era divertita e palesemente sollevata. Da quel giorno la sua ansia finì e non ebbe altri problemi di cuore.
Come aveva potuto il suo medico sbagliare così clamorosamente? La presenza di un prolasso della valvola mitralica, quando è accompagnato da ritmo irregolare provocato dal ventricolo, le cosiddette extrasistole ventricolari, è
considerata dai medici potenzialmente letale. È una concezione errata. Il prolasso della valvola mitralica è una condizione banale e assolutamente benigna. Negli Stati Uniti ne
soffrono con tutta probabilità circa 25 milioni di persone,
di cui appena cinquemila avranno dei problemi. È come un
granellino di sabbia. È più comune tra le giovani donne
(circa il 15% ne soffre), ma la morte è talmente rara da non
costituire un problema. E tuttavia migliaia di persone, come la giovane appena descritta, ne sono terrorizzate. Molte addirittura sono morte in seguito agli effetti collaterali
dei farmaci anti-aritmia, pericolosi e non necessari.
Come mai queste opinioni errate persistono tra i medici? La prognosi infausta da parte del medico generico è
conseguenza della cultura sanitaria. La comprensione, la
diagnosi e la cura di un disturbo vengono stabilite dai me-
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G Ital Cardiol Vol 10 Ottobre 2009
Dodici anni dopo era ancora attivo ma sempre più sofferente: aveva un’insufficienza cardiaca congestiva, pericolose irregolarità del ritmo cardiaco con accessi di extrasistole, una fibrillazione atriale e ricorrenti parossismi di
edema polmonare.
Mentre partecipava a un congresso a Filadelfia, fu visto
accasciarsi; un suo amico che sedeva con lui sul palco più
tardi mi disse di avere visto il professor T. poggiare improvvisamente il capo sul tavolo. Dopo più di dieci secondi, il
professore scrollò la testa come se fosse stato troppo a lungo sott’acqua, fece alcuni profondi e rumorosi respiri e gli
occhi si velarono come se avesse perso conoscenza. Era
un’osservazione precisa. Quando ricoverammo il professor
T., la dura realtà fu subito evidente. Aveva avuto brevi accessi di tachicardia ventricolare con un ritmo di quasi 300
battiti al minuto. Questa pericolosa aritmia faceva temere
una morte cardiaca improvvisa. A un ritmo di 250 battiti e
più, il pompaggio del cuore è gravemente compromesso
anche in un cuore normale; in un cuore malato cessa completamente. Il ventricolo già compromesso del professore
non aveva più contrazioni e aveva smesso di irrorare sangue al corpo e al cervello. Erano mini-episodi di arresto cardiaco, regrediti poi spontaneamente. Se fossero persistiti,
sarebbe stata la fine.
Il professore era sempre più sofferente e spesso doveva essere ricoverato per prosciugare l’edema polmonare,
che rischiava di soffocarlo. Le aritmie divennero sempre
più gravi e frequenti. La quantità di farmaci che gli erano
necessari sfidavano la saggezza di re Salomone. Fui quindi
colpito quando un giorno, all’inizio dell’estate, chiese se
gli avrei permesso di andare a pescare in Islanda con un
gruppo di giovani amici. Anche se era debole e aveva le
labbra bluastre, era ancora molto lucido e determinato a
intraprendere questo viaggio estenuante.
Lì per lì, rimasi sconvolto. Invece di rispondere subito
con un divieto categorico, tentai alcune evasive manovre
verbali, sapendo il significato che aveva per lui l’avventura
annuale di pesca. Mi informai sulle dimensioni della barca,
sulla difficoltà degli accampamenti, sulla possibilità di seguire una dieta a basso tenore di sale, sui suoi compagni,
sulla durezza dell’impresa eccetera. Era chiaro che considerava questo viaggio come un’ultima avventura che potesse coronare degnamente la sua vita piena e produttiva.
Non ebbi il coraggio di dirgli di no.
Una volta deciso che il viaggio in barca non gli doveva
essere negato, mi dedicai a mettere a punto un programma
pratico. Per prima cosa, elaborai un metodo per curare il
suo edema polmonare, sollecitandolo a portare sulla barca
una bombola a ossigeno e consegnandogli dosi di morfina
e diuretici. Ripetei con lui quello che doveva fare in caso di
rantoli o respiro affannoso e difficile. Spiegai che in questi
casi i polmoni erano inondati di liquido e che bisognava
quindi agire senza indugio. La mia grande preoccupazione
era l’apporto accresciuto di sale a causa degli spruzzi di acqua marina. Infine insistetti che facesse un contratto con
una compagnia di elicotteri che lo prelevasse in caso l’insufficienza cardiaca congestiva diventasse incurabile.
Mi lasciò in perfetta forma psicologica, ma provato fisicamente. Dopo la sua partenza ebbi dei momenti di apprensione. Il mio disagio crebbe con l’estate e mi rimproverai la mia irresponsabilità. Perché avevo lasciato che un
uomo prossimo alla morte per un’insufficienza cardiaca al-
che scientifiche dimostrano che gli animali costantemente
sulla difensiva sono più predisposti ai disturbi cardiaci.
Le probabilità di sopravvivenza aumentano, qualsiasi
sia la malattia, quando il soggetto ha un atteggiamento rilassato e filosofico di fronte alla vita e una certa dose di
umorismo. Trecento anni fa, il grande medico inglese Thomas Sydenham affermò che «l’arrivo di un clown esercita
sulla salute un’influenza più benefica di venti asini carichi
di farmaci».
Un medico deve essere l’incarnazione dell’ottimismo e
cercare sempre un raggio di luce anche nelle circostanze
più fosche. Quando l’esito è dubbio, un atteggiamento affermativo crea benessere, anche se non porta alla guarigione. Il mio motto è: «Non limitare il paziente. Lascia che
i limiti siano messi in atto da lui stesso». Ho sempre evitato di vessare e di opprimere il paziente con paure e divieti. Con questo metodo in certi casi alcuni pazienti sono sopravvissuti a dispetto di tutte le certezze mediche, a volte
in circostanze davvero miracolose. L’ottimismo può avere
risultati gratificanti.
L’ultima avventura
Aspettavo sempre con piacere la visita del professore. Era
un uomo alto e dinoccolato, con un aspetto giovanile, una
massa di capelli brizzolati, grandi occhi grigi che illuminavano un viso intelligente. Guardava leggermente di sbieco,
tenendo la testa da un lato e sembrava che il suo sguardo
mi attraversasse. Lo ammiravo profondamente, non tanto
per le sue insigni ricerche in campo giuridico, ma soprattutto per la sua dignità e obiettività di paziente.
Dodici anni prima aveva avuto un grave infarto del
miocardio che gli aveva lasciato il cuore in uno stato pietoso. Mi ero reso conto della vastità del danno quando avevo visualizzato cuore e polmoni con il fluoroscopio. Non
vedevo nulla che si muoveva nel centro del suo petto, soltanto un’unica massa immobile. Non era percepibile neppure un tremolio. Con ansia balbettai «Professor T.!», perché volevo assicurarmi che fosse ancora in vita.
«Sì, dottore, vuole che faccia un lungo respiro?».
«Sì, naturalmente», risposi sollevato e seguii il suo consiglio inalando profondamente.
Dimesso dal Peter Bent Brigham Hospital dopo avere
superato molte pericolose complicazioni, insistette per riprendere la sua vita limitandola il meno possibile. Chiese
quanto sarebbe vissuto. La prognosi, gli dissi, è nelle mani
di Dio. «I greci erano più saggi di noi, ma i loro dèi erano
in grado di prevedere ben poco. Capivano che la profezia
richiede la completa conoscenza di tutte le cose dell’universo. Non possiamo neppure prevedere se piove o c’è il
sole con una settimana di anticipo e lei mi chiede una predizione sulla sua vita», dissi con cautela.
Accettò la mia prudenza, ma insistette dicendo che gli
dovevo questa informazione perché potesse pianificare i
pochi anni rimanenti. Pensando di esagerare di almeno il
50%, risposi: «Certamente 5 anni». Non abbordò più il soggetto e riprese una vita piena, insegnando alla Harvard
Law School, navigando in estate nelle acque settentrionali del Labrador e del Newfoundland, viaggiando dal Cairo
al Medio Oriente. Superò la fatidica data e non mi rimproverò mai la timidezza delle mie previsioni.
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B Lown - L’arte perduta di guarire
che quando la conoscenza è inadeguata. La cura deve essere prescritta immediatamente. Il dolore non aspetta la futura soluzione definitiva e molti problemi medici sono unici,
eccezionali, mai incontrati prima dal medico né contemplati
dalle statistiche. I dati saranno spesso sfumati, il paziente dovrà servire da banco di prova e, se nessun manuale tratta il
suo specifico problema, bisognerà inventare la cura. Si finisce per cercare fatti impalpabili che sostituiscano dati precisi che non esistono. Quando ci si confronta con l’incertezza,
il medico deve saper confortare il paziente, con una presa in
carico globale. Solo allora il medico può in un qualche modo
superare il tormento e l’assurdità di prendere decisioni.
lo stato terminale e ricorrenti tachicardie ventricolari se ne
andasse a navigare attraverso l’Atlantico? Avrei potuto
giustificarlo in qualche modo se la direzione fosse stata il
Sud, ma si dirigevano verso il gelido Nord, l’Islanda. Cominciai a esaminare attentamente i necrologi, che prima sorvolavo appena. L’estate si trascinava.
Venne l’autunno, la mia impazienza aumentava. Mi
mancava il coraggio di telefonare a casa sua, ma un giorno
vidi il nome del professor T. sulla lista dei pazienti con appuntamento. Era quindi ancora vivo. Non l’avevo ucciso!
Quando infine comparve sembrava stare meglio di come lo
avevo visto da parecchi anni. Il suo aspetto cachettico e devastato era stato sostituito da una sana abbronzatura e da
un colorito arso dal vento, mentre l’umore era ottimo.
«Professor T., ha usato l’elicottero?», chiesi.
«Sì, certo», rispose.
«Oh, mio Dio! È stato un errore da parte mia lasciarla
andare». Prima che potesse rispondere continuai: «Il suo
edema polmonare si era aggravato?».
Sembrò perplesso: «Sì, abbiamo utilizzato l’elicottero,
ma non era solo per me», spiegò.
«C’erano altri malati di cuore che navigavano con lei o
c’è stato un grave incidente?», mi informai incredulo.
«Né uno né l’altro. La barca è andata a incagliarsi su un
enorme banco di ghiaccio galleggiante. Non c’era modo di
uscirne. Dopo essere rimasti bloccati per una settimana, i
compagni dell’equipaggio mi hanno chiesto di chiamare
l’elicottero per potere ritornare al lavoro. Sono stati grati
della mia lungimiranza».
Fu la sua ultima visita. Il professor T. morì alcuni mesi
dopo, esattamente dodici anni dopo il primo attacco cardiaco. Fu un’esperienza istruttiva che mi dimostrò la debolezza della capacità prognostica dei medici di fronte alla
volontà umana.
Racconto questi casi clinici non solo per sottolineare il
valore dell’ottimismo e della fiducia, ma per dimostrare
che la medicina deve ancora navigare in acque per lo più
inesplorate. Si pensa che, poiché viviamo nell’era della
scienza, bisogna finirla con le congetture. Se scegliamo le
analisi adatte, il computer scodella la diagnosi esatta per la
quale c’è un rimedio efficace. Fosse così! Non sono persuaso che sia tanto semplice. I cosiddetti dati clinici medici sono approssimazioni biologiche; i risultati e le prognosi sono statistiche e la loro applicazione al soggetto richiede invariabilmente una scelta tra diverse opzioni. Un medico
esperto sa che troppo spesso i problemi medici non possono avvalersi della scienza.
Un programma efficace per il paziente richiede la conoscenza dell’arte di curare a cui contribuiscono l’esperienza, il ricordo di casi analoghi e il buonsenso. Anche l’umiltà è importante, perché qualsiasi prescrizione e qualsiasi consiglio hanno un grosso margine di errore. Molti dati
clinici sono basati su studi epidemiologici compiuti su ampie popolazioni. Un medico si confronta invece con il singolo, con l’individuo unico. Non c’è mai alcuna certezza
che egli corrisponda alla curva normale di distribuzione
statistica. La statistica può offrire una verità probabilistica,
ma nasconde l’anima e l’individualità.
Il medico, fedele alla sua missione, cerca la certezza
quando è immerso nel dubbio. Ma il dubbio non può far rimandare l’urgenza della cura e la necessità di guarire. La
chiave dell’autentica professionalità consiste nell’agire an-
9. Tecniche di guarigione straordinarie
C’è un’altra dimensione della medicina, che va al di là dell’incertezza e deriva dalla sua infrastruttura scientifica.
Personalmente sono stato testimone di un’epoca rivoluzionaria della medicina, tuttora in atto. Scoperte scientifiche
di immensa portata e straordinarie innovazioni tecnologiche hanno mutato completamente il volto della medicina.
Quando ho cominciato l’università, la polmonite era ancora una malattia mortale, la poliomielite un flagello e la
mastoidite un grave problema pediatrico che tormentava
le giovani madri.
Non c’era cura per le endocarditi batteriche. Malati di
cuore per la sifilide o la febbre reumatica riempivano le
corsie del Johns Hopkins Hospital. La cardiochirurgia era
solo ai suoi timidi inizi. Non c’era risposta della medicina
per moltissime malattie gravi, dalla lussazione all’anca al
distaccamento della retina. L’emodialisi per i disturbi renali era ancora sconosciuta. La cura per i pazienti con insufficienze renali era un incubo: vomitavano e avevano continui pruriti. Come in molte altre situazioni, noi medici rimanevamo impotenti e offrivamo soltanto parole vuote per
lenire una sofferenza immensa. Ho un ricordo nitido, che
risale al periodo dell’internato, di un paziente con insufficienza renale all’ultimo stadio. Poiché non lo avevo trovato a letto, andai a cercarlo e lo trovai impiccato nel bagno
degli uomini. Quando lo tirai giù, considerai la sua sopravvivenza come un miracolo, fin quando non mi guardò con
rabbia indescrivibile, singhiozzando convulsamente. Ricordo ancora le sue parole: «Non siete medici! Siete un plotone di nazisti!».
Le malattie che provocarono tanta sofferenza, come il
mal di cuore di origine sifilitica, la poliomielite e la comune otite sono quasi scomparse. Altre, come il vaiolo, sono
state debellate. Viviamo in una nuova era della medicina,
senza precedenti, con una nuova cultura che interessa sia
medici sia pazienti. Le innovazioni terapeutiche quasi miracolose sono mirate a diagnosi ben definite. La soggettività non ha più nessun ruolo nel localizzare una patologia
e il successo terapeutico non ha più nulla a che fare con il
carattere, la personalità o il carisma del medico. L’elemento chiave di un risultato positivo è associato alla sua competenza professionale e alla sua abilità tecnica. A differenza di epoche passate, poco importa se il paziente crede a
quello che prescrive il medico. La polmonite lobare, una
volta letale, è curata con antibiotici indipendentemente
dai sentimenti del paziente per il medico che prescrive i
farmaci o dalla fiducia nella terapia.
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In quest’epoca moderna, la crescente intimità tra medicina e scienza crea l’illusione che siano una sola cosa. Spinge i medici a banalizzare l’importanza della presenza a
fianco del letto, incoraggia il fatto di trascurare l’anamnesi e diminuisce l’investimento personale. La cura ha sostituito il processo di guarigione come se fossero due sistemi
in concorrenza e non complementari.
Par i pazienti, la rivoluzione scientifica ha migliorato le
aspettative di una cura immediata per qualsiasi malattia.
Ma le preoccupazioni per la salute sono aumentate; anzi,
per molti sono un cruccio continuo e il soggetto di conversazione favorito. I media diffondono continuamente notizie mediche e hanno appositi giornalisti specializzati sull’argomento. L’industria della salute è una delle più fiorenti e il maggior salasso delle risorse economiche. Anche se
viviamo più sani e più a lungo che nel passato, la tolleranza ai disagi è diminuita ed è aumentata la paura delle malattie. Forse questo è dovuto anche alla familiarità del popolo americano con il pensiero medico. In questo clima culturale, i sintomi più banali sono spesso considerati segni
premonitori di malattie mortali. Norman Cousins sintetizza efficacemente: «La maggioranza della gente pensa che
vivrà per sempre fino a quando si prende un raffreddore,
allora pensa che morirà in un’ora».
Un altro aspetto del nuovo assetto culturale è un sempre maggiore disincanto nei confronti della medicina
scientifica. In uno studio condotto dalla Harvard School of
Public Health nel 1994, soltanto il 18% degli intervistati si
dichiarava soddisfatto del sistema sanitario americano. Le
terapie alternative hanno sempre maggiore popolarità. In
una ricerca pubblicata nel «New England Journal of Medicine», gli studiosi hanno interrogato un campione selezionato di 1539 adulti di lingua inglese demograficamente
rappresentativi della popolazione statunitense. Hanno
scoperto che il 34% ha fruito di almeno una terapia alternativa nell’ultimo anno. Erano incluse il rilassamento, la
chiropratica, il massaggio, i dosaggi megavitaminici, e le
diete come stile di vita, per esempio quella macrobiotica.
Le terapie mediche alternative erano ricercate soprattutto
per disturbi cronici non pericolosi come il mal di schiena, le
emicranie, le allergie eccetera. Anche se tutti i gruppi sociali vi ricorrevano, i bianchi benestanti e colti sotto i cinquanta le utilizzavano con maggiore frequenza. Gli autori
di questa ricerca hanno valutato che in America oltre la
metà degli 813 milioni di visite annuali riguardano terapie
non convenzionali1.
Perché la gente cerca con frequenza sempre maggiore
terapeuti alternativi invece di medici tradizionali? Forse
perché la medicina ortodossa non dà sollievo a tutti i loro
disturbi. In America soltanto il 25% dei pazienti che si rivolge a un medico tradizionale è curato con successo. L’altro 75% ha problemi che la medicina ufficiale risolve con
difficoltà. Dopo avere cambiato una quantità di specialisti
ed essersi sottoposti a tecnologie costose e invasive, molti
pazienti frustrati si allontanano dalla medicina convenzionale. Il potere di questa lobby di scontenti è stato dimostrato quando il Congresso ha incaricato i National Institu-
tes of Health di creare una sezione dedicata alla ricerca sulle medicine alternative che spaziasse su panorami diversi,
dalla guarigione psichica all’omeopatia, dall’agopuntura
alla fitoterapia eccetera.
Nella mia esperienza di cardiologo altamente specializzato, i problemi di più della metà dei miei pazienti non sono dovuti al cuore, ma a condizioni di vita stressanti. Pochi
pazienti si rivolgono a terapie alternative quando i medici
si concentrano sulla guarigione senza focalizzarsi unicamente sui potenti strumenti scientifici a loro disposizione.
Guarire un paziente e migliorare il suo benessere spesso richiede immaginazione per lenire il disagio o calmare un
dolore. A volte per migliorare il benessere del paziente anche il medico ortodosso può ricorrere a tecniche non convenzionali, che non vengono insegnate all’università, ma
scoperte con l’esperienza clinica e verificate con il buonsenso.
Il dottor Samuel A. Levine non disdegnava di spaventare i pazienti affinché cambiassero stile di vita. Faceva capolino nella tenda a ossigeno che circondava il letto del paziente, preparata diligentemente dalle infermiere. Per coloro che hanno difficoltà respiratorie, la tenda crea un micro-ambiente freddo, umidificato, ossigenato e funzionale.
Impacciato negli stretti confini della tenda, Levine quasi
sfiorava con il proprio il viso del paziente. Toccandogli il naso con l’indice, pronunciando ogni sillaba con tono solenne,
scandiva una sorta di incantesimo: «Se fumerà ancora dopo
questo attacco di cuore, morirà». Poi usciva dalla tenda a
ossigeno senza aggiungere altro. La sua formula magica
era talmente potente che non ho mai visto nessun paziente a cui era stata applicata riprendere a fumare; alcuni sono arrivati al punto di evitare la compagnia dei fumatori.
Cito di nuovo le parole della dottoressa siberiana che
mi disse: «Ogni volta che un medico vede un paziente,
quest’ultimo deve poi stare meglio». Quando visito un paziente terminale in ospedale e non c’è più nulla da fare, ricordo questa donna siberiana. Giro il cuscino in modo che
il paziente, il cui capo riposava su una superficie stazzonata e umida, possa giacere su un tessuto fresco e liscio. Dopo che ho lasciato la stanza, a volte il paziente chiama l’infermiera: «Chi è quel simpatico dottore?». Basta poco, a
volte, per fare star meglio qualcuno. A volte un intervento
banale può sembrare straordinario al paziente e dargli un
po’ di sollievo.
Sognare un’omelette
Il signor H. era un maestro di scuola sulla cinquantina, gentile, semplice e premuroso. Si preoccupava molto della sua
salute, il che era comprensibile, poiché aveva consultato
medici per tutta la vita. Una febbre reumatica infantile gli
aveva danneggiato le valvole cardiache, soprattutto quella mitralica, che aveva una grave stenosi. La valvola mitralica si apre nel ventricolo sinistro, la più grande camera di
pompaggio del cuore; quando è ristretta, il sangue defluisce, congestionando i polmoni. A un’età ancora relativamente giovane il signor H. aveva avuto un’operazione riuscita alla valvola mitralica, che gli aveva permesso di condurre una vita normale. La situazione fu aggravata da
un’endocardite batterica. Questa infiammazione gravissima del rivestimento del cuore e delle sue valvole aveva re-
1D.W.M.
Eisenberg, Unconventional Medicine in the United States:
Prevalence, Costs and Patterns of Use, «New England Journal of
Medicine», 328, 28 gennaio 1993, 246-252.
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B Lown - L’arte perduta di guarire
le sulla superficie corporea. Le linee che collegano una serie di punti associati a un organo particolare, definiti meridiani, si estendono dalla testa all’alluce e sono i percorsi
del flusso del mitico ch’i.
Strumento fondamentale della medicina orientale per
più di cinquemila anni, l’agopuntura non fu menzionata
nemmeno una volta nell’arco di tutti i miei anni di università. Tuttavia durante i miei primi anni di professione, incontrai numerosi pazienti che ne erano entusiasti. Incuriosito dall’idea che aghi che pungevano in punti misteriosi
della pelle potessero rivelarsi terapeutici, lessi quei pochi
testi sull’argomento disponibili in inglese. Non fui convinto. Quello che mi disturbava era la pretesa di attribuire efficacia per qualsiasi disturbo, dall’acne allo xantoma, compresa la bronchite, il diabete, l’epilessia, l’ipertensione,
l’impotenza, la sterilità, l’emicrania, la miopia come pure
la nefrite, l’ulcera peptica, la sciatica eccetera. Come l’antico olio di serpente, nulla era escluso dal suo mitico dominio.
Ero anche perplesso dall’assenza di una qualsiasi razionalità anatomica o fisiologica. Per esempio, la giunzione
del collo e del cranio è il punto della cistifellea, mentre i
polsi sono i punti per i polmoni. La depressione è il disturbo del fegato, mentre la paura è un disturbo dei reni e entrambi reagiscono ai punti di agopuntura lungo i rispettivi
meridiani di questi organi. Pensavo fosse impossibile che
bucando un piede con un ago fosse possibile migliorare la
funzione del fegato e alleviare uno stato d’animo morboso depressivo. Credevo fosse incredibile che, dopo cinquemila anni di utilizzazione, mancassero le prove oggettive
per dimostrarne l’efficacia. La medicina, con grande difficoltà, era uscita dal labirinto del soggettivismo e pochi erano disposti a sostituire lo strumento esatto della scienza
con le foglie di tè e le fiabe popolari.
Ma il mio scetticismo si infranse quando ebbi un incontro diretto con l’agopuntura. Andando in slitta quand’ero
ragazzino mi ero seriamente danneggiato la schiena; anni
dopo, verso la metà degli anni Sessanta, ebbi sporadici accessi di fortissimo mal di schiena e di sciatica. Il trattamento convenzionale comportava lunghi periodi di assoluto riposo a letto e mi ritrovai parecchie volte immobilizzato fino a sei settimane. Poiché non volevo fare fronte all’imprevedibilità di un’invalidità episodica e poiché cominciavo ad
avere alterazioni neurologiche, mi sottoposi a un’operazione di ernia del disco. Le conseguenze furono soddisfacenti per cinque anni. Ma poi i dolori alla schiena ricomparvero, anche se non mi obbligavano più a lunghi periodi di riposo.
Nel 1973 feci parte della prima delegazione di cardiologi americani nella Repubblica Popolare Cinese. Il gruppo,
condotto dal dottor E. Grey Dimond di Kansas City, era
composto da otto insigni specialisti del campo. Volai da Boston direttamente fino a Canton con brevi fermate per il rifornimento a Seattle e Tokyo. Arrivati a Canton alla fine di
un viaggio estenuante, cominciai ad avere un forte mal di
schiena, che in breve tempo mi mise completamente fuori
gioco. Anche il soffice materasso dell’albergo cinese mi
sembrava la ruota della tortura medievale. L’unico sollievo
consisteva nello sdraiarmi sul pavimento, purché nessuno
camminasse vicino a me. I miei colleghi americani, per
quanto eminenti autorità mediche, non avevano la minima idea di come curare un mal di schiena lancinante. Il me-
so necessaria la somministrazione di antibiotici per endovenosa per sei settimane. L’infezione distrusse la sua valvola e dovette subire un’altra operazione che fu difficile, ma
gli restituì la salute.
Ben altre cose avrebbe dovuto allarmarlo, ma si preoccupava soprattutto del colesterolo. Anche se non presentava fattori di rischio alle coronarie, e le sue arterie erano
normali, seguiva una dieta rigorosamente povera di grassi
animali. «Mia moglie è molto severa con me; veglia che
neppure un granello di colesterolo passi attraverso le mie
labbra».
Quando lo vidi a Natale, gli chiesi cosa desiderasse per
il nuovo anno. Rispose senza esitazione, come se il pensiero fosse stato accarezzato a lungo: «Sogno un’omelette».
Continuò: «Sono dieci anni che non mangio un’omelette.
Mia moglie dice che per me è veleno a causa delle condizioni del mio cuore».
Gli spiegai che il suo tipo di problema cardiaco non richiedeva un’esclusione rigorosa del colesterolo. «Le prescrivo ora un’omelette una volta la settimana, tutte le domeniche». Per essere sicuro che la moglie potesse credere
l’incredibile, un cardiologo che prescrive un’omelette,
scrissi una lettera d’accompagnamento per la ricetta di
un’omelette di due uova ogni settimana. Alla visita successiva, il paziente era raggiante. «Aspetto la domenica come
non mi era mai successo prima». Gli occhi splendevano:
«Dottore, è il più bel regalo che ho ricevuto da moltissimo
tempo».
Medicina complementare e agopuntura
L’agopuntura è una tecnica di medicina alternativa che di
solito viene prescritta per i più svariati problemi di salute.
La parola agopuntura evoca un alone di magia che viene
dalla Cina e la speranza di un sollievo immediato per qualsiasi malanno. Le sue origini si perdono nell’antichità, ma
è noto che era già usata all’epoca del favoloso Imperatore
Giallo, Huang Ti, che si pensa sia vissuto verso il 2650 a.C. e
viene citato nei primi testi medici conosciuti, il Nei Ching e
Il Classico di medicina interna, scritti da studiosi del III o II
secolo a.C. Fu introdotta in Occidente nel Settecento da
parte di missionari gesuiti inviati a Pechino, ma fu poco conosciuta fino a circa cinquant’anni fa, quando il sinologo
francese Soulié de Morant pubblicò un esauriente trattato
su questa pratica.
L’agopuntura è basata su un sistema di credenze filosofiche che deriva dagli antichi insegnamenti taoisti. Il
principio essenziale prevede una lotta tra li opposti, lo yin
e lo yang, che costituisce la base dell’universo e di tutte le
cose (vedi David Eisenberg, Encounters with Qi: Exploring
Chinese Medicine, Norton Press 1985, New York). La malattia è considerata uno squilibrio tra queste forze opposte, ma completamentari e indissolubilmente legate. All’interno dell’unità di questi opposti, c’è l’universale ch’i
(qi) che dà all’esistenza la sua vitalità. La salute di un individuo dipende dal giusto equilibrio del ch’i; la malattia è
la conseguenza di troppo o troppo poco ch’i. L’agopuntura fondamentalmente si propone di ristabilire un equilibrio e un flusso normale di questa sostanza eterea. Il corpo è una sorta di puntaspilli per circa mille punti di agopuntura, che segue un modello topografico sempre ugua-
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sia tradizionale sia occidentale. Il presidente Mao ha detto: «La medicina e la farmacologia cinesi sono una miniera
di tesori e bisogna sforzarsi di esplorarle e di portarle a un
alto livello». Si tratta in realtà dell’agopuntura, della fitoterapia e del massaggio. La nostra visita avvenne nel bel
mezzo della «grande rivoluzione culturale proletaria».
Qualsiasi espressione di Mao era diventata un comandamento assoluto e ogni minima riserva all’entusiasmo generale giustificava la prigione, la deportazione ai lavori forzati in campagna o anche peggio. In quanto terapia nazionale, era l’epoca d’oro dell’agopuntura e se ne vantavano
i meriti con esempi inverosimili di cure straordinarie.
Anche senza tenere conto delle sciocchezze ideologiche, era comunque impressionante osservare la sua efficacia come sostituto dell’anestesia in diverse operazioni chirurgiche. Assistemmo a tiroidectomie, asportazioni di tumori al cervello e operazioni di cardiochirurgia effettuate
in pazienti svegli sottoposti ad agopuntura. La ricostituzione di una lacerazione nel cuore, a cui presenziai, mi fece
una grande impressione. Il paziente, un giovane di vent’anni con un difetto del setto ventricolare, entrò nella sala operatoria di un importante ospedale di Shanghai camminando da solo. Dopo aver stretto le mani degli otto visitatori americani, si mise sul tavolo operatorio e l’operazione ebbe inizio. La stanza era spoglia, tranne per una bombola a ossigeno, uno sfigmomanometro e una primitiva
pompa a ossigeno. Il paziente era preparato con il drappo
operatorio, gli era stata messa una fleboclisi e un sottile tubo di gomma che forniva ossigeno gli era stato inserito in
una narice. Parecchi aghi gli furono poi applicati nell’orecchio e nel polso sinistro. Dopo un quarto d’ora, sembrò addormentato. Allora fu collegato a una vecchia macchina
per by-pass che forniva un pompaggio esterno al cuore.
L’operazione fu compiuta con estrema abilità e eccezionale rapidità. Il chirurgo aveva aperto il petto in un battibaleno e fibrillato elettricamente il cuore per fare smettere le contrazioni. La fibrillazione ventricolare è un ritmo
caotico e ultrarapido in cui il pompaggio del cuore cessa,
permettendo al chirurgo di avere un po’ di tregua per il
suo lavoro. In assenza di un macchinario esterno per il
pompaggio esterno, il paziente morirebbe in pochi minuti.
Poiché ero in testa al tavolo operatorio, potevo osservare bene il volto del paziente. L’intera scena era completamente surreale per coloro che erano abituati alla medicina occidentale. Più di una volta, durante l’operazione, il
paziente aprì gli occhi e parlò, anche se non aveva contrazioni cardiache. Un eminente chirurgo americano che stava vicino a me mi disse incredulo: «Vede anche lei quello
che vedo io?». Sussurrò che era stato sottoposto a un trucco cinese di ipnosi di massa.
Il paziente si lamentò solo due volte, quando si verificò
un’emorragia eccessiva, che il chirurgo ebbe difficoltà a
asciugare rapidamente. Poiché il paziente aveva il drappo
operatorio e non poteva vedere quello che succedeva nella sua cavità pettorale e il chirurgo rimaneva in silenzio,
ero sconcertato dagli indizi che il paziente era in grado di
raccogliere. Quando il chirurgo ebbe la situazione sotto
controllo, il paziente si rilassò.
Mentre l’operazione stava giungendo alla fine e stavano richiudendo il torace, cominciai a preoccuparmi su come avrebbero ristabilito il cuore che fibrillava, perché non
c’era in vista nessun defibrillatore cardiaco in quel teatro
glio che potevano propormi era Tylenol e codeina, che tutti si portano dietro in caso di mal di denti.
Disperato, chiesi ai miei ospiti cinesi, che erano desiderosi di aiutarmi, se potevano consigliarmi un trattamento
tradizionale per i dolori di schiena. Si prestarono gentilmente e fui mandato in un istituto di medicina tradizionale. Rimasi in short e dopo un’anamnesi rapida, se non inesistente, comparvero due uomini enormi che assomigliavano ai guerrieri sumo giapponesi. Ciascuno di loro afferrò
una delle mie gambe e le tirarono come se volessero disporle ad angolo retto. Il dolore fu ancora più forte ed ebbi la sensazione di essere squartato. Quando mi lasciarono
per un momento, saltai giù dal tavolo, dicendo che stavo
meglio. All’hotel, stavo peggio di prima. Poiché il dolore
era insopportabile e gli antidolorifici offerti dai cinesi erano inefficaci, lasciai perdere le mie riserve e chiesi l’agopuntura.
L’agopuntore era un uomo piccolo, fragile e poco simpatico. Mi massaggiò lo stomaco e mi inserì un ago lungo
e sottile sul fondo schiena. Non sentii nulla mentre rigirava l’ago. Seccato che non provassi sensazioni, inserì di nuovo l’ago, mi sembrò nello stesso punto. Sentii una pesantezza e un formicolio spiacevoli e i muscoli delle natiche resistettero alla rotazione dell’ago. Il medico era contentissimo del mio disagio e mormorò qualcosa che sembrò «dechi». Più tardi appresi che «de ch’i» significava «ottenere il
ch’i», fare in modo che l’energia vitale fluisca. Dopo parecchi minuti, mi suggerì di alzarmi e camminare. Rifiutai categoricamente. Con mia grande sorpresa, i tormenti che
provavo solo alcuni minuti prima avevano cominciato a diminuire e non volevo riattivarli con esperimenti troppo audaci. Inoltre, desideravo deliziarmi nella meravigliosa sensazione di essere quasi libero da ogni dolore.
L’agopuntore continuò a insistere perché mi alzassi. Mi
alzai senza aiuto e feci qualche passo senza grande dolore.
Mentre pochi minuti prima sembrava che un attizzatoio
bollente fosse stato messo sul mio nervo sciatico, ora sentivo soltanto un piccolo irrigidimento e un intorpidimento.
Anche se fisicamente mi sentivo bene, psicologicamente
ero in stato di choc. L’agopuntore ritornò il giorno dopo e,
oltre agli aghi, portò una stufetta; l’estremità accesa di un
bastoncino di erbe che bruciava lentamente, un assenzio
cinese, fu posta vicino alla mia pelle nel punto esatto in cui
mi aveva applicato l’agopuntura. Riuscii a camminare ancora meglio e senza dolore. In passato, data la gravità del
dolore, ci sarebbe voluto un mese o un riposo assoluto a
letto prima di guarire. Ora, dopo tre giorni, potevo camminare senza problemi. Un settimana dopo salivo sulla Grande Muraglia Cinese e non ebbi difficoltà durante il viaggio
di ritorno da Hong Kong a Boston. Per circa un anno i dolori di schiena non ricomparvero.
Se questa cura miracolosa mi fosse stata raccontata da
qualcun altro sarei stato scettico, ma non potevo negare
una realtà che avevo vissuto sulla mia stessa pelle. O ero un
nevrotico suggestionabile oppure l’agopuntura aveva un
merito oggettivo. Come si sarebbe potuto aspettare, scelsi
quest’ultima opzione. Ricordando le parole di sant’Agostino «Non ci sono miracoli, solo leggi sconosciute», non pensai più che fosse una «puntura da imbroglione». Cominciai
a fare una ricerca scientifica.
In Cina avemmo l’occasione di saperne di più su quella
che chiamavano anestesia con l’agopuntura nella clinica
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B Lown - L’arte perduta di guarire
operatorio tecnologicamente vuoto. Quando la gabbia toracica fu chiusa, utilizzarono un vecchio defibrillatore,
identico a quello che avevo introdotto più di dieci anni prima (vedi capitolo 13). Misero le placche degli elettrodi sulla parete toracica e rilasciarono una scarica elettrica, che
restituì subito un ritmo normale. Poi medici e infermiere si
allinearono davanti a me, si inchinarono e dissero: «Vi ringraziamo per avere servito il popolo». Il paziente si sedette, di nuovo strinse le mano a ognuno, si installò da solo su
una sedia a rotelle e fu condotto nella stanza.
Da allora, i cinesi hanno imparato che l’agopuntura
non è in tutti i casi un sostituto efficace dell’anestesia. Non
è più utilizzata nelle operazioni addominali o ginecologiche, e molti pazienti non sono soggetti adatti. È comunque
un’ottima tecnica per diminuire la percezione del dolore.
La base della sua efficacia è ancora misteriosa. Incuriosito
dal modo in cui lavoravano, ho visitato l’Istituto di Medicina Tradizionale Cinese di Shanghai, un centro pilota della
ricerca sull’agopuntura. Vi ho trovato una irrefutabile conferma del potere dell’agopuntura come agente analgesico. Ho assistito a un esperimento che avrebbe urtato la
sensibilità di molte persone.
Un coniglio fu legato a una barella, con il corpo immobilizzato e la testa libera. Fissata di fronte al naso del coniglio c’era una matassa di fili. Quando il reostato elettrico
veniva girato, i fili diventavano incandescenti. In pochi secondi il coniglio mosse la testa lontano dalla fonte di calore. L’esperimento fu ripetuto parecchie volte con una reazione identica. Diversi aghi di agopuntura furono poi inseriti in una delle zampe posteriori del coniglio, che furono
poi attaccate a uno stimolatore elettrico. Questa volta,
quando il filo davanti al naso del coniglio diventò incandescente, la testa non si mosse. Vidi con incredulità e orrore
la punta del naso cominciare a bruciare e diventare nera
con il classico odore acre di carne bruciata. Quest’unico ma
decisivo esperimento dissipò tutti i miei dubbi sul fatto che
l’agopuntura potesse annullare la sensazione di dolore.
Ma in che modo la percezione del dolore è bloccata
dall’agopuntura? Gli scienziati cinesi offrivano diverse
spiegazioni. Una si collegava ai meccanismi di selezione
della corda spinale, che si può chiudere quando stimoli potenti penetrano nella rete nervosa. In base a questa teoria,
lo stimolo dell’agopuntura serve come semaforo rosso che
blocca l’informazione dolorosa che sorge nelle terminazioni dei nervi periferici e impedisce che i messaggi nocivi raggiungano il cervello. Un’altra spiegazione è che l’agopuntura rilasci neuropeptidi nel sangue, che smorzano la percezione del dolore. A sostegno di questa seconda teoria c’è
il fatto che trasfondere il sangue di un animale in agopuntura in un altro animale abbassa il dolore di tre volte anche se quest’ultimo non è stato sottoposto a agopuntura.
Il dottor David Eisenberg, attento studioso della medicina tradizionale cinese, ha concluso: «Ci sono sufficienti
prove scientifiche che l’agopuntura possa alterare in modo
prevedibile e riproducibile la percezione del dolore negli
animali e negli esseri umani». Egli ipotizzò che il sollievo
dal dolore potesse essere dovuto al rilascio di endorfine, simili agli oppiacei. I cinesi hanno riportato casi di assuefazione all’agopuntura2. I soggetti assuefatti presentano i
sintomi tipici dell’astinenza, stanchezza, nausea, dolori addominali e emicrania quando si smette l’agopuntura. I sintomi scompaiono rapidamente quando si riprende l’agopuntura, il che fa pensare che questa tecnica stimoli nel
cervello i centri di produzione di questi neuromediatori,
come le endorfine e le encefaline, che potenzialmente
danno assuefazione.
La mia esperienza personale con l’agopuntura e le osservazioni fatte durante i numerosi viaggi in Cina sollevano importanti interrogativi nel campo della neurofisiologia e della psicobiologia. Se la stimolazione della rete dei
nervi sottocutanei può bloccare la trasmissione del dolore
ai nervi in modo così totale da poter operare collo e cervello senza anestesia, devono esistere potenti elementi alla
superficie del corpo che alterano la percezione del cervello o la decodificazione delle sensazioni fisiche. Queste ultime possono essere alterate anche senza penetrare attraverso la pelle? Poiché il massaggio e la semplice pressione
sono efficaci, è possibile che gli aghi non siano necessari.
L’agopuntura ha una base neurofisiologica comune
con i placebo? L’azione dei placebo è importante in medicina. Perché una semplice pillola rivestita di zucchero modifica le funzioni corporee più complicate? Non si può mai
essere certi che l’effetto attribuito a un farmaco non sia in
parte o completamente dovuto all’effetto placebo. Come i
farmaci, anche i placebo possono indurre gravi effetti collaterali. Secondo il dottor Herbert Benson, sostenitore della reazione di rilassamento, l’efficacia di un placebo comporta tre elementi fondamentali: la fiducia e le aspettative del paziente, quelle del medico e il rapporto medico-paziente. Questi stessi elementi sono la base di gran parte
della medicina alternativa3.
Mi rivolgo spesso a quella che è definita medicina alternativa per risolvere problemi per i quali non trovo risposte
scientifiche e linee di condotta utili nella letteratura medica. Non ci si può sempre basare sui libri. Le qualità peculiari di ogni individuo implicano il fatto che ciò che vale per
uno non si rivela egualmente efficace per un altro. A volte, non hanno successo neppure misure straordinarie. Oggi è difficile che un medico utilizzi l’ipnosi; con maggiore
probabilità, il paziente sarà indirizzato da uno psicologo.
Nella nostra epoca, in cui tutto può trasformarsi in azione
legale, un medico può venire penalizzato se fallisce una
sua tecnica innovativa e le conseguenze sono ancora peggiori se la tecnica è davvero nuova e non ancora sottoposta a verifiche. La paura di azioni legali rende i medici esitanti, circospetti e, di conseguenza, spesso inefficaci.
2Eisenberg,
3Eisenberg,
Singhiozzo e ipnosi
Alla fine degli anni Cinquanta, fui chiamato a visitare un
medico della Virginia Occidentale che era ricoverato al reparto di pneumologia del Peter Bent Brigham Hospital. Era
una visita di routine per una verifica preoperatoria dello
stato del cuore. Il dottor E.W. era un afro-americano, depresso, cachettico e pieno di rughe, che sembrava molto
più vecchio dei suoi cinquantatré anni. Era in attesa di una
toracectomia esploratoria per una lesione al polmone sini-
op. cit., 118.
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op. cit., 12.
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G Ital Cardiol Vol 10 Ottobre 2009
della registrazione. Se il singhiozzo era dovuto a un tumore che irritava un nervo del plesso, perché si interrompeva
di notte? Se il sonno lo faceva cessare, era probabilmente
la conseguenza di un deterioramento strutturale piuttosto
che di una lesione organica. Era un fatto positivo. Forse era
impossibile determinarne la causa, ma l’induzione di uno
stato di rilassamento non avrebbe provocato un sollievo simile a quello ottenuto durante il sonno? All’improvviso,
eureka! La suggestione postipnotica sarebbe stata un’indicazione utile? Non era un percorso per me inusuale, considerando il fatto che, durante l’anno precedente, avevo lavorato con un gruppo per studiare le conseguenze cardiovascolari dello stress cronico indotto tramite una suggestione postipnotica.
Senza lasciarmi scoraggiare dal fatto che l’ipnosi non
era mai stata utilizzata prima per singhiozzi incurabili,
chiesi aiuto a un brillante psicologo, il dottor Martin Orne,
del Massachusetts Mental Health. Anche se molto giovane,
era già considerato un’autorità nel campo dell’ipnosi e,
poiché era stato nostro collaboratore delle precedenti ricerche, lo conoscevo bene. Quando gli telefonai per riferirgli il caso clinico, Orne confermò che l’ipnosi era un approccio terapeutico ragionevole.
«Lo può vedere questo pomeriggio?», chiesi.
«Non è possibile. Sto andando all’aeroporto».
«Va bene. Il paziente soffre di singhiozzo da due anni,
alcuni giorni in più non cambiano niente. La aspettiamo al
suo ritorno», risposi. La mia delusione divenne disperazione quando mi informò che sarebbe rimasto in California
per sei settimane.
«Cosa devo fare allora?», implorai disperato.
Orne, con il suo spiccato accento tedesco, rispose che
dovevo procedere senza di lui. «È facile. Ipnotizzerà il dottor W. come mi ha visto fare per un anno. Non avrà problemi». Poi mi diede alcune semplici istruzioni sull’arte dell’ipnosi, raccomandandomi di non citare mai il singhiozzo
mentre il paziente era sotto ipnosi, mi augurò buona fortuna e mi lasciò da solo.
Il giorno dopo appesi un cartello davanti alla stanza del
dottor W.: «NON DISTURBARE. TERAPIA IN CORSO». Raramente ero
stato così ansioso. Mi trovavo in un bel pasticcio e non avevo nessuna possibilità di tirarmi indietro. Ma ipnotizzare il
dottor W. si rivelò piuttosto facile. Era un soggetto disponibile, cooperante e altamente motivato. Poiché Orne non
mi aveva permesso di nominare il singhiozzo, mormorai:
«Si rilassi ora, si rilassi profondamente». Questo bisbiglio,
simile ai mantra buddisti mi faceva venire sonno, ma non
aveva nessun effetto sul singhiozzo. Non succedeva nulla.
La seduta, che aveva luogo il mattino, durava venti minuti. Giorno dopo giorno aumentava la mia disperazione: la
frequenza del singhiozzo rimaneva immutata. Nel frattempo, strani mormorii, timide occhiate e risolini soffocati
tra il personale infermieristico mi accoglievano tutte le volte che arrivavo per una seduta. Senza dubbio si chiedevano cosa stessi facendo dietro quella porta.
Un giorno, facendo visita al dottor W., ebbi l’idea di
chiedergli di fare un conto giornaliero dell’esatto numero
di singhiozzi. Questa richiesta sembrava idiota, ma era sostenuta da un progetto. Gli diedi un taccuino e gli suggerii un metodo per fare la registrazione. Subito prima di ipnotizzarlo gli chiesi il numero di singhiozzi della giornata.
Il primo giorno erano 43.657. Mentre era sotto ipnosi,
stro. Si sospettava un tumore perché aveva fumato tre pacchetti di sigarette al giorno per trent’anni. Si era nell’epoca antecedente a quella delle eleganti tecnologie diagnostiche che evitavano di ricorrere alla chirurgia. L’aspetto
più sconcertante del paziente erano i frequenti accessi di
singhiozzo che gli scuotevano tutto il suo corpo. Gli spasmi, che avvenivano solo quando era sveglio, lo facevano
balbettare e interferivano con la nutrizione.
Negli ultimi due anni il dottor W. non aveva avuto mai
una tregua momentanea dal singhiozzo quand’era sveglio. Si era rivolto a numerosi centri nella vana ricerca di
una cura, ma nessuno gli aveva prescritto una terapia che
gli desse sollievo. Era stato anche sottoposto a un’operazione che gli aveva reciso il nervo frenico sinistro, paralizzando parzialmente il diaframma. Questa procedura drastica non aveva avuto altro effetto che ostacolargli la respirazione. Un tentativo di suicidio lo aveva fatto ricoverare
nel reparto psichiatrico del Massachusetts Mental Health
Hospital, dove una radiografia di routine al torace aveva
individuato una macchia al polmone. Fu quindi trasferito
nel nostro ospedale, poiché le sue condizioni erano giudicate gravi. L’importante perdita di peso di più di sei libbre,
la grave anoressia e il singhiozzo facevano pensare a un
cancro con metastasi.
Non avevo mai visto un essere umano così triste. Ero
desolato che nella nostra epoca la medicina moderna fosse impotente di fronte a un singhiozzo. Nelle mie osservazioni cliniche, espressi la certezza che la condizione avrebbe potuto essere efficacemente curata, ipotizzando che la
lesione al polmone fosse benigna, conseguenza dell’immobilità del diaframma.
Quando, alcuni giorni dopo, ritornai da un viaggio, il
mio assistente, un medico appena specializzato, mi suggerì di visitare il dottor W., che sembrava ormai sotto la mia
responsabilità. Il medico chiese ai chirurgi che il paziente
fosse trasferito nel mio reparto ed essi acconsentirono,
poiché non desideravano essere afflitti da un problema incurabile, quando io mi ero auto-proclamato specialista di
singhiozzo. La mia costernazione crebbe quando consultai
di nuovo la voluminosa cartella del dottor W. Tutti i possibili trattamenti contro il singhiozzo conosciuti dalla medicina erano già stati tentati: lo zucchero sul dorso della lingua, l’inalazione di vapori di ossido di nitrato, l’aglio e altri rimedi più esotici, tutto senza alcun esito. Anche la recisione del nervo frenico, in un disperato tentativo di migliorare la sua condizione, si era rivelato inutile.
La mia costernazione aumentò e si trasformò in panico
quando mi accorsi che non ero un esperto di singhiozzo e
che non avevo nulla da suggerire che non fosse già stato
tentato innumerevoli volte. In realtà, non avevo mai affrontato un problema simile. Cosa potevo fare per un uomo così depresso e debilitato? Il dottor W. diceva, con frasi spezzate, che se non guarivamo il singhiozzo non voleva
più vivere, perché la sua vita era diventata un inferno. Il
singhiozzo aveva spezzato il suo matrimonio, gli aveva fatto abbandonare la professione e lo aveva reso invalido e
povero.
Nei giorni seguenti non mi occupai d’altro se non di
quel dannato singhiozzo. Le ricerche sui testi disponibili
furono completamente frustranti. Mi ossessionava uno
stesso pensiero, che sembrava emettere poche battute cacofoniche, come l’ago di un fonografo inceppato nel solco
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B Lown - L’arte perduta di guarire
ramento del rapporto medico-paziente. Alcuni dirigenti
dell’amministrazione sanitaria credono che una riforma
equa del sistema sanitario richieda anche una regolamentazione del «caos delle azioni legali contro la malasanità»1.
Negli Stati Uniti la medicina ha avuto la sua gloria nelle piccole comunità nei primi decenni del nostro secolo.
Medici formati in modo rigoroso sapevano abbastanza per
curare ogni singolo caso. Anche quando non era certo della patologia, cosa che succedeva spesso, il medico andava
a casa del paziente e rimaneva al suo capezzale. Il ricovero
era eccezionale. Il medico conosceva il paziente come persona e la sua famiglia e aveva un’idea ben precisa dei suoi
problemi psicologici e sociali. Nella società odierna, questa
situazione idilliaca è scomparsa. Nelle ampie aree urbane
in cui risiede la maggioranza della popolazione, il medico
si confronta con un estraneo. Raramente c’è tempo per i
convenevoli, una stretta di mano o quattro chiacchiere rilassate. Il medico, costretto dagli orari, ha a disposizione
soltanto venti minuti a paziente. Il colloquio si concentra
perciò sul sintomo principale, che di solito non mette in luce il motivo reale della visita. Il poco tempo disponibile
inoltre può essere interrotto dallo squillo del telefono o da
altre intrusioni. La visita è spesso superficiale come l’anamnesi e si concentra sugli organi interessati dal sintomo.
Questi incontri brevi e spesso frustranti non fanno
emergere i problemi più profondi; al massimo possono
soddisfare temporaneamente una richiesta immediata.
Quando l’anamnesi è rapida, il medico si perde in un mare
di possibilità, che giustificano il ricorso alla tecnologia. Invece un’anamnesi attenta, una visita accurata e poche analisi di routine forniscono l’85% dell’informazione di base
necessaria per una diagnosi giusta. Le tecnologie costose e
invasive sono molto meno soddisfacenti e permettono di
ottenere solo il 10% circa dei dati utili per una diagnosi
certa2.
La paura di cause legali e la superficialità dell’incontro
iniziale incoraggiano ulteriori analisi e procedure spesso
invasive. Se si tiene conto di tutte le opzioni diagnostiche,
non si incorrerà in accuse di negligenza. Con tale medicina
difensiva, problemi di poco conto saranno oggetto di innumerevoli analisi. Sono venuto a saperlo dai miei assistenti
che, per integrare il loro magro stipendio, spesso passano
la notte al pronto soccorso o nei reparti degli ospedali di
provincia che mancano di personale. In passato, questo incarico si limitava alla presenza fisica, permettendo di aggiornarsi nella lettura e di recuperare il sonno. Ora questo
non succede più: dopo un week-end di guardia, i giovani
medici arrivano alle visite del mattino completamente
esausti. Le guardie di routine richiedono la prescrizione di
un’infinità di analisi e la presa in carico delle complicazioni che possono risultare dalle procedure invasive. Prima, a
un ragazzino caduto dalla bicicletta con escoriazioni, ci si
limitava a curare la zona lesa. Oggi, prima di rimandarlo a
casa, bisogna prima escludere tutte le possibili complicazioni, il più delle volte assolutamente improbabili. Un giovane medico mi ha spiegato: «Lo faccio solo per essere coperto dall’assicurazione».
era possibile alludere al problema senza menzionare la parola «singhiozzo». Prima di finire la seduta, gli suggerii
semplicemente di ridurre la quantità a meno di 40.000. Il
giorno fu di una lunghezza estenuante fino alla visita seguente.
All’ora fatidica, prima di sedermi, la domanda era già
sulle mie labbra: «Che numero oggi?», chiesi solennemente, tentando di nascondere la mia apprensione. Il dottor
W. rispose, senza emozione, che era giunto a 38.632. Potevo a mala pena dissimulare la mia eccitazione. Poiché il numero di singhiozzi era diminuito quasi esattamente di
5.000, decisi di pormi come obiettivo una riduzione analoga ogni giorno. Non ero ancora pronto a cantare vittoria,
ma per la prima volta c’era uno spiraglio di luce alla fine di
una lunga galleria buia. Alla prossima seduta di ipnosi,
suggerii: «Domani saranno meno di 34.500». Il giorno dopo erano 34.289. Ogni giorno riducevo di 5.000 e ogni volta i singhiozzi diminuivano quasi esattamente di questo
numero.
Quando giungemmo a circa 15.000, il miglioramento
era evidente. Il signor W. era meno depresso. Per la prima
volta, aveva qualche speranza, ogni tanto sorrideva perfino. Cominciammo a parlare in modo costruttivo del suo ritorno a casa e del modo di rimettere insieme i frammenti
della sua vita spezzata.
Quando raggiungemmo 5.000, rallentai il ritmo. Più
tardi disse che viaggiare in macchina, in passato, rendeva il
singhiozzo intollerabile. All’epoca era giunto a zero e in
ipnosi gli suggerii che mentre guidava sarebbe rimasto a
zero. Facemmo un giro con la mia automobile e non emise un solo singhiozzo. Il dottor W. aveva capito di essere
guarito e che era ora di ritornare a casa.
Questa impresa mi aveva occupato per più di tre settimane, durante le quali ero stato in un indescrivibile stato
di ansia ed eccitazione. Continuavo a chiedermi: «Perché
sto indulgendo in simili idiozie, completamente fuori dalla mia portata, diventando lo zimbello dei colleghi e mettendo a repentaglio la mia carriera?». La paura di azioni legali per negligenza non era ancora all’orizzonte, ma io stavo agendo in modo negligente. Fu la prima e ultima volta
che mi cimentai nell’ipnosi, soprattutto perché non avevo
mai incontrato un problema simile. Dovessi rifarlo, seguirei una simile linea di condotta? Probabilmente sì.
Un medico appartiene a due culture: quella dominante è la scienza, la seconda è l’arte di curare, che è indispensabile al pieno successo della scienza. In futuro il dominio
della scienza andrà oltre la malattia e la cura, ma non sostituirà mai l’arte. Rimarrà sempre ampio spazio per le terapie alternative che hanno le loro radici in tradizioni diverse della scienza. La realtà fondamentale è che l’anima
non è racchiusa nel cervello. La medicina non può abbandonare la guarigione delle anime sofferenti senza compromettere il suo ruolo per la condizione umana.
10. La malasanità compromette la guarigione
Si parla di malasanità per ogni problema sanitario: il prezzo oltraggioso dei farmaci, i costi in aumento delle spese
ospedaliere, gli onorari esorbitanti degli specialisti e anche
il carattere meccanico della medicina moderna e il deterio-
1J.S.
Todd, Reform of the Health Care System and Professional Liability, «New England Journal of Medicine», 329, 1993, 1733-1735.
2J. Hampton, «British Medical Journal», 2, 1975, 486-489.
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centrazione di giovani con scarsa esperienza e poca supervisione, ma perché hanno la responsabilità di tutta questa
artiglieria pesante tecnologica. Paradossalmente, l’ospedale è un posto assai rischioso per i malati.
Ricordo ancora con dolore la tragica sequenza di eventi che accadde a uno dei mei pazienti quando venne ricoverato. Era un insigne cattedratico, studioso di fama internazionale, e curavo i suoi disturbi alle coronarie da più di
vent’anni. Ricoverato in chirurgia per la rimozione di un
tumore alla vescica, ebbe un leggero attacco cardiaco il secondo giorno dopo l’operazione. Il medico di guardia,
pensando che il paziente avesse un’insufficienza cardiaca
congestiva, decise senza consulto di inserire un filo di
Swan-Ganz per misurare la pressione del cuore. In questa
procedura, si inserisce un catetere in una vena del collo, lo
si fa passare nel ventricolo destro e lo si inserisce in un ramo dell’arteria polmonare. Ciò permette di misurare la
pressione nella cavità ventricolare sinistra, un dato fondamentale, e aiuta a controllare l’equilibrio dei fluidi. In teoria, dà un’informazione preziosa, ma in pratica è raramente utilizzato, se non addirittura mai. Nel professore non
era assolutamente giustificato.
Il giorno dopo, venni a sapere dalle infermiere che il
mio paziente era molto agitato perché gli era stato applicato un catetere nel cuore. Il dispositivo era stato inserito nel
ventricolo destro e aveva provocato una tachicardia ventricolare, rapidamente degenerata in fibrillazione venricolare
e poi in un arresto cardiaco. Sopravvisse cinque giorni soltanto a un prolungato tentativo di rianimazione. Quando il
medico di guardia fu interrogato sulla necessità di una procedura tanto invasiva, rispose che sarebbe stata una negligenza trascurare un controllo emodinamico. In un uomo di
ottant’anni che aveva appena avuto un leggero attacco di
cuore, la procedura era assolutamente ingiustificata.
Anche se un episodio talmente tragico è eccezionale, i
media trasmettono l’immagine di una giungla di misfatti e
di negligenze, lo scatenarsi di un’epidemia di incompentenza medica. «Il macello della malasanità è sorprendente.
Se addizionate i morti annuali negli Stati Uniti per crimini,
per incidenti stradali e per incendi, non eguaglieranno la
stima di 80.000 morti ogni anno in ospedale per errori medici»3. L’articolo continua rivelando che decine di migliaia
di pazienti sono rimasti paralizzati, cerebrolesi, ciechi o invalidi di conseguenza all’incompetenza medica.
Certo, si possono citare singoli casi di grave incompetenza che provocano vere e proprie tragedie. Quello che
inasprisce l’opinione pubblica è la riluttanza dei medici a
denunciare un collega davvero incompetente. Un caso che
ebbe ampia risonanza nei media fu quello di un uomo di
quarantaquattro anni ricoverato per una banale operazione alla schiena. Credeva di essere dimesso in pochi giorni,
ma passò sei mesi all’ospedale e fu dimesso con danni cerebrali gravissimi che soltanto 70 pastiglie al giorno potevano tenere sotto controllo. La tragedia era stata provocata da un anestesista alcolizzato che diede al paziente una
dose di sedativo dieci volte superiore al previsto, e poi non
controllò i segni vitali durante l’operazione. I colleghi che
passano sotto silenzio tanta incompetenza non sono in alcun caso giustificabili.
L’ironia vuole che, per evitare problemi, si giunge proprio alla situazione indesiderata. Nel migliore dei mondi
possibili, qualsiasi procedura utilizzata su un paziente può
provocare un minimo inevitabile di complicazioni. Nessuna
tecnica ne è esente. Anche un’innocua iniezione endovenosa può diventare focolaio di infezioni o causa di coaguli di sangue. Il cateterismo cardiaco, comunemente praticato, una volta su quattrocento può provocare una complicazione gravissima. Inoltre, raramente si fa un solo esame e
si ricorre a analisi supplementari per confermare i risultati
originari, moltiplicando le probabilità di reazioni indesiderate.
Qualsiasi analisi medica, anche di routine e ben collaudata, si rivela inesatta in circa il 5% dei casi, dando luogo a
risultati falsamente positivi o falsamente negativi. Un risultato falsamente negativo significa che l’analisi non è riuscita a individuare una situazione esistente. L’errore opposto,
un risultato falsamente positivo, è a mio avviso molto più
grave, perché dà l’avvio a innumerevoli altre analisi. Per
esempio se un’elettrocardiogramma sotto sforzo è positivo, e mostra alterazioni compatibili con disturbi alle coronarie, il medico spesso prescrive un angiogramma coronarico, invasivo, costoso e fonte di complicazioni supplementari. Se il test è positivo, viene ripetuto; se il secondo test è
negativo, il risultato non è comunque definitivo. Un terzo
test si rivela necessario e solo se è normale si riconosce l’errore del primo. Possono passare settimane o mesi prima
che la situazione venga chiarita e dissipare infine i timori
di gravi malattie. Più si fanno analisi, più si rischia un’informazione errata. Nel caso di un risultato falsamente positivo, si innesca un meccanismo senza fine per individuare
uno stato patologico che non esiste. Nel caso di risultati
negativi, si trascura una condizione clinica che bisognerebbe curare. In entrambi i casi, il paziente rimane sconcertato e deluso.
La tendenza a indulgere in accertamenti e analisi cliniche scaturisce dalla natura stessa della medicina. Molti problemi che un medico incontra mancano di una spiegazione immediata, ma, volente o nolente, devono essere curati. Ci vuole molta esperienza perché un medico sia in grado di controllare l’arte di navigare nel mare dell’incertezza, soprattutto nell’epoca delle certezze scientifiche. La
formazione universitaria sottolinea l’aspetto scientifico
della materia, rinforzato poi durante la pratica in ospedali attrezzati di modernissime tecnologie applicabili a ogni
problema.
Un altro elemento che facilita la propensione ad analisi indiscriminate è la conoscenza enciclopedica del giovane
medico. Minore è l’esperienza, minore la capacità di distinguere il probabile dall’improbabile. Ci vuole molta esperienza per capire che i fenomeni strani si incontrano raramente e per sapere quando è opportuno lanciarsi in accertamenti approfonditi.
Questi fattori spiegano perché le autorità sanitarie, a
ogni nuovo ricovero, raccomandano una lunga lista di esami, molti dei quali molto specifici. Ci si giustifica con una
domanda stereotipata: e se il paziente avesse questa rara
malattia? Poiché le équipe inesperte si basano su quello
che hanno studiato, non c’è da stupirsi che si ricorra tanto
volentieri alla tecnologia. Non ci si dovrebbe meravigliare
che, anche nei migliori ospedali, si verifichino tante complicazioni. I pericoli si moltiplicano non solo per l’alta con-
3B.
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Herbert, «New York Times», 10 agosto 1994.
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B Lown - L’arte perduta di guarire
dici sull’argomento è comprensibile: pochi avvenimenti
sono più demoralizzanti per un medico che dovere affrontare un mandato di comparizione che gli intimi di consegnare la cartella clinica con tutte le osservazioni su un paziente. Il senso di colpa, la necessità di investire un tempo
già scarso in incontri con avvocati, il turbamento della
tranquillità, la vergogna di essere accusato di un misfatto,
si uniscono a un indicibile senso di frustrazione. Il medico
che ha sbagliato si sente offeso e con il tempo questa sensazione si trasforma in rabbia. Putroppo, l’ho vista dirigersi contro altri pazienti, creando così le premesse per altre
cause legali.
Lo sdegno per l’intervento della legge è acuito da una
precisa convinzione dei medici: «La qualità della pratica
medica non è mai stata così alta; i modelli non sono mai
stati così rigorosamente definiti; il livello dei singoli professionisti è storicamente insuperato; la quantità e la qualità
delle pubblicazioni sono senza precedenti»4. C’è qualcosa
che non funziona.
La malasanità negli ospedali americani è stata ampiamente analizzata. Soltanto 1% dei pazienti subisce danni
in seguito a errori medici durante un ricovero, ma su 30 milioni di ricoveri annuali, anche un tasso così basso significa
300.000 casi di negligenza, circa 800 al giorno. Il pubblico
quindi non è così attaccabrighe come i media e la classe
medica vorrebbero far credere. In realtà le cause legali sono molto meno di quanti non siano i casi di negligenza o
malasanità. Uno studio condotto a Harvard ha evidenziato
che soltanto l’1,53% dei pazienti danneggiati da una pratica medica ha intentato un’azione legale. Negli Stati Uniti i casi di negligenza sono otto volte superiori alle richieste di risarcimento e ci sono quattordici casi di negligenza
per ogni caso di risarcimento. La ricerca ha concluso che «le
controversie legali raramente compensano il paziente
danneggiato dalla negligenza dei medici e raramente
identificano e perseguono il responsabile delle cure sbagliate»5. Anche nel clima carico di polemiche degli Stati
Uniti, la probabilità che un medico venga perseguito per
negligenza è solo una su cinquanta.
Inoltre, è infondata l’opinione tra i medici e gli assicuratori secondo cui le azioni legali sono un fattore essenziale degli alti costi della sanità. Soltanto l’1% delle spese sanitarie sono da attribuire alle responsabilità professionali6.
In media, i medici spendono il 2,9% delle loro ingenti entrate per assicurarsi contro gli errori professionali: un’inezia, se si pensa che ne spendono il 2,3% per l’automobile.
Le assicurazioni, più che essere vittime, fanno incetta dei
Anche se i danni arrecati dalla malasanità non devono
mai essere giustificati, bisogna considerarli nel loro vero significato. L’incompetenza vera e propria è solo una parte
infinitesimale degli errori medici. Più spesso essi sono dovuti a medici ben preparati che trascurano l’anamnesi, fanno
un uso eccessivo di tecnologie e danneggiano i pazienti più
dei medici incompetenti. Purtroppo l’attenzione si focalizza su casi più clamorosi, non sui problemi meno eclatanti,
ma più gravi, causati dall’attuale cultura medica.
Sono più numerosi i casi di invalidità e di morte in seguito all’eccessiva prescrizione di farmaci, alla polifarmacologia e alle interazioni fra farmaci che quelli dovuti all’uso improprio della tegnologia. I danni creati dai prodotti
farmaceutici sono di gran lunga superiori a quelli provocati dalla chirurgia o da tecniche invasive. Non passa settimana senza che mi imbatta in uno o più pazienti che hanno
effetti collaterali negativi ai farmaci.
Ho imparato ben presto che anche il medico più scrupoloso a volte può fare errori gravissimi nelle prescrizioni
di farmaci. Mentre ero ancora in specialità, il dottor Samuel Levine mi chiese di vedere il signor G., uno dei suoi
pazienti esterni, che soggiornava in un albergo. Era passata da poco la mezzanotte, durante una tempesta invernale. Da anni, il signor G. soffriva di disturbi alle coronarie e
di insufficienza cardiaca congestiva ed era curato con la digitale. Lo trovai gravemente sofferente per una grave congestione cardiaca, i polmoni pieni di liquido e il ritmo cardiaco che raggiungeva 150 battiti al minuto con la regolarità di un orologio. Si trattava di una tachicardia atriale parossistica con blocco (vedi capitolo 11), un disturbo del ritmo cardiaco provocato da sovradosaggio di digitale. A
causa della tormenta di neve fu difficile ottenere un’ambulanza. Mentre aspettavamo, gli somministrai del clorite
di potassio, un antidoto per questo tipo di avvelenamento
da digitale. Dopo diverse ore, il signor G. ritornò a un normale ritmo cardiaco e la congestione migliorò.
Ma come aveva potuto avvelenarsi con la digitale? Il
mattino seguente Levine non poteva credere all’intossicazione, poiché il dosaggio del farmaco non era cambiato. Il
paziente prendeva soltanto un diuretico al mercurio la settimana per espellere i liquidi e una dose giornaliera di digitale. Levine mi fece vedere i suoi appunti che confermavano che la dose giornaliera del signor G., di 0,1 mg. di digitossina, non era stata modificata da parecchi anni.
Ma la signora G. ricordò che quando avevano fatto l’ultima visita tre mesi prima, Levine aveva compilato una
nuova ricetta di digitossina, che fu portata in una farmacia
locale. Giocando a Sherlock Holmes, andai alla farmacia,
controllai le ricette e ne trovai una con la bella calligrafia
di Levine in cui era prescritta una dose doppia di quella
presa dal paziente. Era scritto chiaramente 0,2 mg. al giorno, non 0,1 mg. Levine fu mortificato quando glielo dissi e
non fu in grado di dare spiegazioni del suo grave errore.
Era pienamente consapevole che dare a un paziente cardiopatico due volte la dose prescritta di un farmaco altamente tossico avrebbe potuto rivelarsi letale. Imparai che
anche i più bravi medici non sempre possono essere eternamente vigili.
Gli errori umani non possono venire eliminati e anche
i medici migliori possono sbagliare. Nell’ambiente medico
si è convinti che le cause per negligenza siano intentate alla leggera e manchino di serietà. La suscettibilità dei me-
4J.M.
Vaccarino, Malpractice. The Probleme in Perspective, «Journal of the American Medical Association», 238, 1977, 861-863.
5H.H. Hiat e col., A Study of Medical Injury and Medical Malpractice: An Overview, «New England Journal of Medicine», 321, 1989,
480; L.L. Leape e coll. The Nature of Advanced Events in Hospitalized patiens, «New England Journal of Medicine», 324, 1991, 377;
A.R. Localio, A.G. Lawthers, T.A. Brennan e coll. Relation between
Malpractice Claims and Adverse Events Due to Negligence: Results
of Harvard Medical Practice, «New England Journal of Medicine»,
325, 1991, 245-251.
6Medical and Hospital Professional Liability: A Report Prepared for
the Texas Health Policy Force Task, Austin, Tonn and Associates,
1992; e B. Beckman e coll., The Doctor-Patient Relationship and
Malpractice, «Archives of International Medicine», 154, 1994, 1365.
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G Ital Cardiol Vol 10 Ottobre 2009
Una ricerca inglese sulla malasanità indica che un danno fisico non è sufficiente a dar luogo a un’azione legale;
sono spesso in causa un comportamento insensibile e una
mancanza di comunicazione. I querelanti sono contrariati
dall’assenza di spiegazioni, che considerano una mancanza di onestà, dalla riluttanza a scusarsi e dal fatto di essere
stati trattati come nevrotici. Più di un terzo non si sarebbe
deciso per la causa se avesse ricevuto scuse o perlomeno
una spiegazione7.
Da questa ricerca inglese, emergono tre motivazioni:
un senso di altruismo, per evitare che amici o vicini incappino in situazioni analoghe; il desiderio di raccontare la verità di quanto è successo; ottenere un risarcimento finanziario per quanto hanno patito. Analoghe ricerche americane dimostrano che i pazienti fanno causa non tanto per
un rimborso finanziario, quanto per ricevere una spiegazione o nella speranza che il personale medico fornisca
una giustificazione e impari qualcosa dai danni arrecati.
L’azione legale diventa un modo per obbligare il medico
ad assumersi le proprie responsabilità e a vivere la stessa
rabbia e la stessa sofferenza che ha sopportato il paziente.
Un paziente ha così sintetizzato i sentimenti di molti: «Se
dovessi utilizzare un paio di parole, direi «affidabilità» e
«giustizia». Per essere più esplicito, sembra che ci sia un atteggiamento generale che vuole i medici al di sopra e al di
là delle normali limitazioni a cui deve attenersi il resto dell’umanità»8.
premi; per esempio, nel 1991, le assicurazioni per danni
professionali hanno incassato 1,4 miliardi di dollari.
Perché tanto trambusto? C’è sotto qualcosa. Anche se i
medici sono davvero terrorizzati dall’idea di essere perseguiti, la medicina difensiva ha una motivazione inconscia.
Più aumenta la paura di azioni legali, più aumenta la razionalizzazione delle procedure lucrative, soprattutto quelle
invasive. Più c’è rischio di pratiche legali, più l’onorario è alto. Il caso del filo di Swan-Ganz ne è un esempio. Vi era
un’epoca in cui a metà dei pazienti che avevano avuto un
infarto del miocardio transmurale anteriore veniva inserito
questo filo. Era un modo efficace per controllare la funzione del cuore in pazienti cardiopatici. Un medico guadagnava parecchie centinaia di dollari per inserire questo filo, oltre a un onorario fisso giornaliero per tenerlo in loco. Egli
doveva comunque fare ben poco mentre il paziente sopportava un disagio non indifferente. Secondo me, questa
tecnica offriva scarsa informazione, se non addirittura nessuna, ed era molto più semplice ottenerla con un metodo
meno traumatico e meno costoso, cioè visitare il paziente.
Sulla base della mia esperienza, dopo aver diretto unità coronariche per più di dieci anni, penso che il tasso di
complicazioni di un filo Swan-Ganz sia del 10%, da ematomi impercettibili sul collo a gravi infezioni e aritmie a volte mortali. In realtà il timore di cause legali è diventato un
modo per giustificare razionalmente l’eccessivo indulgere
in procedure lucrative. La popolarità di una tecnica è funzione dei suoi benefici economici. Quando fu ridotto il rimborso della tecnica Swan-Ganz, ne fu ridotto anche l’uso,
sebbene la giustificazione clinica fosse immutata.
Evitare le negligenze
In ambienti medici si sente spesso dire che tutti i medici possono incorrere in pratiche legali, indipendentemente dalla
loro competenza e dalla scrupolosità delle cure. È come la
sorte in una lotteria. Il sottinteso è che «per essere protetti, il solo modo possibile è assicurarsi per danni a terzi»9. Sono convinto che i medici che hanno paura di essere perseguiti, prima o poi lo saranno. La paura di una causa, quando diventa una preoccupazione prevalente nella mente del
medico, ne costituisce le premesse. La medicina difensiva ha
due conseguenze: moltiplica gli accertamenti responsabili
di potenziali complicazioni e rende ogni paziente un potenziale nemico. Disumanizza la professione e ne altera gli
obiettivi. Il paziente, invece di trovare un medico amichevole e sollecito, incontra disinteresse e ostilità. La comunicazione è compromessa e il paziente, esitante e visibilmente
insoddisfatto, diventa agli occhi del medico un potenziale
querelante. Quando il rapporto è mediocre, basta poco per
mettere in moto il meccanismo della giustizia: l’attesa delusa di un miglioramento, un onorario che sembra troppo
esoso o una complicazione derivata da un farmaco o da una
tecnica diagnostica. Questa folle dinamica ha l’inevitabilità
di una profezia che si auto-realizza. Il paziente non ha rimorsi ad agire contro un estraneo che gli è indifferente.
Perché i pazienti intentano una causa?
I pazienti che perseguono legalmente medici o ospedali
per lo più sostengono di avere ricevuto cure insufficienti.
Spesso hanno avuto l’impressione che il medico non fosse
disponibile quando ne avevano bisogno o li avesse abbandonati a se stessi. Un’altra risposta diffusa è che il medico
abbia ignorato le preoccupazioni del paziente e non abbia
tenuto conto del suo punto di vista. Le cause principali sono il risultato di una mancanza di comunicazione più che
di una negligenza in sé.
Intraprendere un’azione legale richiede molta determinazione, sostenuta da una forte dose di rabbia e frustrazione. Le procedure, lunghe ed estenuanti, richiedono un
enorme investimento di tempo e di energie emotive. Inoltre, in alcuni casi il giudizio viene emesso contro il querelante. Anche se molti medici credono che la maggioranza
delle cause siano originate da un torto banale o addirittura immaginario, in realtà esse nascono sempre da gravi
danni. Gli incidenti per i quali medici e ospedali sono perseguiti legalmente sono seri, spesso hanno come risultato
invalidità a lungo termine che incidono sul lavoro, sulla vita sociale e sulle relazioni familiari. Secondo i dati di una
ricerca, nel 52% dei casi nelle cause legali si sono riscontrate gravi deformazioni e addirittura la morte, mentre i danni emotivi costituiscono un altro 20%. Più del 70% delle
azioni legali vengono intraprese contro i chirurghi e i medici del pronto soccorso. La maggior parte delle cause vengono suggerite da medici o paramedici che si prendono carico delle cure successive.
7C.
Vincent, M. Young e A. Philipps, Why Do People Sue Doctors? A
Study of Patients and Relatives Taking Legal Action, «Lancet», 243,
25 giugno 1994, 1609-1617.
8A. Somanovitz, Standards, Attitudes and Accountability in the
medical Profession, «Lancet», 547, 1985, ii.
9Vaccarino, op. cit.
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B Lown - L’arte perduta di guarire
ra più sconcertante era il fatto che non potesse più pensare in modo sensato. Insistette che non aveva febbre né dolori e che i farmaci non erano cambiati. Controllai comunque il suo armadietto dei medicinali e trovai una boccetta
di pillole di digossina da 0,25 mg invece che 0,125 mg che
aveva preso negli ultimi dieci anni. Venni a sapere che aveva finito le medicine tre settimane prima, quando il suo
medico non c’era. Aveva telefonato al sostituto che a sua
volta aveva chiamato la farmacia locale per il rifornimento. Per un errore di comunicazione, 0,125 fu raddoppiato
in 0,25. Poiché mia madre aveva una degenerazione maculare ed era quasi cieca, non poté leggere l’etichetta della
nuova boccetta; le pillole erano quasi uguali per dimensione e colore. Evidentemente era stata intossicata da questo
farmaco fondamentale contro l’insufficienza cardiaca. Per
questo semplice errore avrebbe potuto morire.
Una volta che l’errore è stato commesso, come può il
medico spiegarlo al paziente? I medici non ricevono istruzioni all’università né dopo su come affrontare gli errori.
La tendenza immediata è sottrarsi, tenere segreti i propri
piani, scaricare la responsabilità, confondere le acque o tirarsi indietro, piuttosto che farsi avanti e ammettere l’errore. Durante il tirocinio in ospedale, i miei superiori mi
raccomandavano di non scrivere mai sulla cartella di un paziente qualsiasi cosa che avrebbe potuto suggerire un atto
di negligenza o un errore. Ho incontrato medici restii a
esprimere rincrescimento quando qualcuno moriva per
paura che potesse venire interpretato come un’ammissione di colpa, che portasse a responsabilità legali.
Stare zitti e sperare che l’errore passi inosservato è la
politica peggiore. Si possono prevedere esiti avversi, li si
può ponderare e ci si può scusare. Il fatto che i medici si nascondano dietro un contegno professionale è interpretato
come una mancanza di sensibilità e aumenta il senso di abbandono del paziente. Riconoscere l’errore è ammirevole
e dimostra umiltà.
Ricordo la paura che provai dopo avere quasi ucciso un
paziente. Il signor K. aveva una fibrillazione atriale, ma invece del polso rapido che è di regola, il suo ritmo cardiaco
era di quaranta battiti al minuto. Pensai fosse dovuto a un
blocco del sistema di conduzione dall’atrio al ventricolo,
che filtrava la raffica di impulsi troppo rapidi. Questo mi
fece erroneamente concludere che il signor K. non avesse
bisogno di digitale, il farmaco abituale per rallentare il ritmo cardiaco in presenza di fibrillazione atriale.
Un mese dopo avere interrotto la digitale, arrivò al Peter Bent Brigham Hospital in uno stato di semi-incoscienza
con un edema polmonare fulminante, con lo stesso ritmo
cardiaco della fibrillazione atriale, ma disordinato. Il signor K. sembrava all’ultimo stadio e gli fu necessario un
ventilatore e un’intubazione tracheale per parecchi giorni,
durante i quali non si sapeva se sarebbe guarito. La ragione di questo episodio che lo aveva portato così vicino alla
morte era chiara: evidentemente il suo sistema di conduzione non era stato danneggiato come aveva creduto. Era
normale e responsabile del ritmo eccessivamente rapido
durante la fibrillazione atriale, con 190 battiti al minuto. In
un paziente con gravi disturbi del muscolo cardiaco, il battito eccessivamente rapido aveva fatto precipitare l’insufficienza cardiaca galoppante.
A guarigione avvenuta, il signor K. subodorò quel che
era successo e non fui sorpreso che ce l’avesse con me. Ri-
L’enorme aspettativa, di fatto irrealistica, sull’operato
della medicina contribuisce alla volontà di ricorrere alla
giustizia. I pazienti con disturbi cronici hanno la speranza
di cure magiche, ma vengono rapidamente disillusi. Il dolore artritico non è alleviato da nessun farmaco miracoloso; il respiro affannoso dell’enfisema non si arrende alle
astuzie del medico. La maggioranza dei disturbi cronici
non ha una cura sicura, ma le condizioni sono rese più tollerabili dalla cortesia e dal rispetto. Anche piccole manifestazioni di gentilezza da parte del medico rimangono impresse a lungo. Mi sono spesso meravigliato che i terapeuti di medicine alternative fossero raramente oggetto di
azioni giudiziarie. Lo stesso avviene per i medici pieni di
dedizione che passano molto tempo con il paziente. Entrambi si concentrano sull’ascolto e stabiliscono con il paziente un rapporto empatico.
Queste osservazioni, anche se a me paiono evidenti,
non sembrano avere presa sui medici. Per esempio, un paziente che si informa sulle cure post-operatorie, è trattato
male dal chirurgo: «Io faccio il mio lavoro in sala operatoria. Un’infermiera risponderà alle sue domande», ribatte
se il paziente insiste. Un altro paziente mi chiede di dargli
una fotografia del chirurgo che una settimana prima ha
sostituito la valvola della sua aorta. Il mio primo pensiero,
che il chirurgo avesse fatto una profonda impressione su
questo paziente riconoscente, rapidamente si dilegua a
queste parole amare: «Non so che faccia abbia; la sola volta che mi ha assistito è stato nella sala operatoria quando
non ero cosciente. Non mi ha mai visitato né prima né dopo l’operazione». Queste piccole scintille possono fare
scoppiare la deflagrazione dell’azione giudiziaria.
Per impedire che si intentino cause legali, bisogna innanzitutto riconoscere che gli errori medici sono inevitabili. In quasi tutti i campi della vita, un errore è semplicemente un inconveniente. L’artista decide di cancellare un tratto o al peggio di rifare uno schizzo, ma in medicina, il bersaglio dell’errore è un essere umano che soffre. Poiché
ogni paziente è unico, la professione medica è sostanzialmente sperimentale, incerta e fallace. Un medico non può
mai essere sicuro di come un particolare individuo reagirà
al trattamento, ma la sensazione della personale fallibilità
diminuisce la frequenza di gaffe irreparabili. Stare costantemente in guardia contro se stessi non è un modo di vivere facile, ma assicura la fedeltà al principio fondamentale
di Ippocrate: «Primo, non nuocere» (Primum non nocere).
Per parafrasare Bertolt Brecht, l’obiettivo della scienza medica non è aprire una porta verso la saggezza infinita, ma
tentare di compensare un infinito errore. L’ironia vuole
che il rigoroso dubbio di sé della scienza sia estraneo alla
tradizione medica.
Quando si verificano gravi danni, può essere difficile
accertare la causa o la parte responsabile. Personalmente
considero colpevole quel medico che non esercita l’immaginazione clinica e non sa in anticipo che qualcosa non andrà per il verso giusto. Come esempio vorrei riportare un
episodio avvenuto a mia madre. Aveva passato i novant’anni, viveva sola, era ancora intellettualmente brillante e
insisteva per mantenere la sua indipendenza. Ma un giorno, alla fine del pomeriggio, la trovai in disordine, ancora
in vestaglia. Prima ancora di salutarmi, disse che era stufa
di soffrire e che desiderava morire. Non aveva più appetito, le mancava la forza per reggere un cucchiaio, ma anco-
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ché gli analgesici non facevano effetto, aveva passato varie notti insonni. Il lunedì mattina, dato che non era stato
trovato nulla di anormale, il chirurgo di guardia aveva insistito che si trattava di un «dolore da guarigione» che si
sarebbe risolto con il tempo. Lei protestò dicendo che stava veramente molto male, ma il medico minimizzò e si disse sicuro che tutto si sarebbe risolto. In ogni caso, l’ospedale non avrebbe permesso una proroga, perché la paziente
era già stata ricoverata più a lungo di quanto lo richiedessero le sue condizioni. Durante il volo verso la Florida, il dolore era diventato insopportabile e la donna fu colta dal
panico quando si accorse di essere seduta in una pozza di
sangue. Si sbottonò la gonna e vide l’intestino che fuoriusciva dall’incisione addominale lacerata. Un’ambulanza
l’aspettava al decollo all’aeroporto di Miami e arrivò all’ospedale con una setticemia, che la tenne tra la vita e la
morte per molte settimane.
Fui mortificato per quello che era accaduto. La regolamentazione DGR si basava su dati arbitrari invece che sulle
condizioni del singolo paziente. Obbligava i medici a praticare una medicina brutale, da letto di Procuste. Ero sicuro che la signora B. avrebbe intentato una causa all’ospedale, al chirurgo e a me, ma non successe niente.
Durante la visita annuale di un anno dopo, le chiesi
perché non aveva intentato una causa per negligenza. Disse che la sua famiglia e i suoi medici in Florida l’avevano
consigliata di farlo e che aveva consultato un avvocato, il
quale aveva detto che era un caso facilissimo. Ma lei aveva
rifiutato di procedere, perché, disse, «Mi fu detto che non
avrei potuto fare causa senza citare anche lei. Avrei piuttosto preferito morire».
Molti errori che portano ad azioni legali potrebbero essere in parte riparati con il semplice ascolto del paziente.
Nessun esempio è più eloquente e tragico di quello di
Betsy Lehman, una giornalista specializzata in questioni
sanitarie del «Boston Globe». Morì improvvisamente a
trentanove anni al Boston’s Dana-Farber Cancer Institute
alla fine di un estenuante trattamento di tre mesi per un
tumore al seno. Non era morta della sua malattia, ma di un
fortissimo sovradosaggio di farmaci antitumorali sperimentali che le avevano rovinato il cuore proprio quando
stava per essere dimessa. L’autopsia non mostrava segni di
tumore al seno. Il terribile errore non era dovuto all’inesperienza di un unico interno sovraccarico di lavoro. Era un
errore madornale avallato da una dozzina di medici, infermiere, farmacologi, compresi alcuni tra i più esperti. Per
quattro giorni consecutivi le fu somministrata una dose
quattro volte superiore a quella permessa, ma nessuno ne
prese nota. La terapia fu poi protratta per parecchi giorni,
mentre la paziente si lamentava degli effetti collaterali
senza essere ascoltata! La Lehman avvertì più volte i medici che stavano trascurando gravemente qualcosa. Pur essendo una personalità nota nel campo sanitario, le sue
suppliche rimasero inascoltate11.
Ancora più incomprensibile è il fatto che, poco tempo
prima della tragedia della Lehman, un’altra donna fosse
intossicata con le stesse modalità, subendo un danno permanente al cuore. L’ospedale semplicemente attribuì il fat-
conobbi prontamente il mio errore e, per il senso di colpa
e il rimorso, lo consigliai di citarmi in tribunale. Mi disse
che ci aveva già pensato. Circa tre mesi dopo, comparve nel
mio studio per una visita. Quando gli chiesi perché fosse
masochista al punto da ritornare dal medico che lo aveva
quasi ucciso, rispose: «Ha ragione. Lei mi ha quasi ucciso.
Ma d’ora in avanti lei farà particolarmente attenzione al
modo in cui mi cura. Se vado da qualcun altro può non essere altrettanto attento e conciarmi per le feste». Aggiunse poi che quello che lo aveva spinto a tornare era il fatto
che io non avessi tentato di giustificarmi, ma fossi stato
«pronto ad affrontare la tempesta».
«Sii più schietto con me, lascia che conosca la tua colpa
nel suo vero volto», dice un personaggio del Racconto d’inverno di Shakespeare. Un paziente che ha subito un danno
si aspetta la stessa cosa. Ammettere un errore e presentare scuse sincere chiarisce la situazione. Non conosco nessun
caso in cui, malgrado le scuse, si sia giunti a una causa e so
che questa franchezza cementa il rapporto tra medico e
paziente.
Secondo me, le azioni giudiziarie sono per lo più conseguenza di una pratica spersonalizzata della medicina.
L’esperienza del mio gruppo, il Lown Cardiovascular Center di Brookline nel Massachusetts, mi ha dimostrato che
quando la professione si esercita con dedizione invece di limitarsi alla tecnologia, non c’è da preoccuparsi di eventuali cause. Questo piccolo gruppo di cinque medici lavora insieme da circa vent’anni senza mai essere incorso in alcuna
azione legale. Conosco altri gruppi con situazioni analoghe.
Un esempio istruttivo del valore di questo approccio è
la mia esperienza con la signora B., che ho visitato ogni anno per parecchi decenni. Aveva gravi problemi cardiaci, tra
cui un disturbo alle coronarie, ipertensione, aritmia cardiaca e disturbi vascolari periferici molto fastidiosi. Quando
ebbe un grave aneurisma aortico addominale, un’occlusione di questa grossa arteria che avrebbe potuto rompersi,
insistette per farsi operare a Boston sotto la mia direzione
invece che a Miami, a casa sua, anche se aveva modeste risorse economiche. L’operazione riuscì bene, la convalescenza fu senza problemi. Al settimo giorno d’ospedale,
mentre la si preparava per le dimissioni, cominciò ad avere
dolori addominali. L’ospedale, che aderiva alla regolamentazione del Diagnosis Related Group (DGR)10, insisteva per
dimetterla, ma io persuasi i chirurghi che doveva rimanere
finché non si fosse chiarita la natura dei dolori. Poiché era
già venerdì e non c’erano parenti che potessero prendersi
cura di lei a Boston, l’autorità ospedaliera accettò di tenerla fino a lunedì.
Giunto all’ospedale alla fine della malattia di lunedì,
trovai che la signora B. era già stata dimessa. Il responsabile chirurgo mi assicurò che le sue condizioni erano migliorate e che era ritornata in Florida. Sei settimane dopo, la signora B. mi telefonò dall’ospedale di Miami per raccontarmi le sue sventure. Dopo che l’avevo vista nel week-end, il
dolore addominale era progressivamente peggiorato. Poi-
10Diagnosis Related Groups (DGR) creano categorie diagnostiche e
assegnano a ciascuna una durata specifica di ricovero in base ai
dati di tutti i pazienti ricoverati. Sono contemplate eccezioni individuali, ma solo dopo varie controversie burocratiche.
11Richard Knox, Doctor’s Orders Killed Cancer Patient, «Boston
Globe», 23 marzo 1995.
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B Lown - L’arte perduta di guarire
gione di questo mutamento è anche dovuta a un uso smodato della tecnologia, che è in larga misura considerata un
mezzo per aumentare le entrate. Poiché è antieconomico
passare molto tempo con i pazienti, la diagnosi viene fatta per esclusione, con accertamenti clinici senza fine. Le
azioni giudiziarie contro la negligenza medica sono semplici bubboni di un sistema sanitario malato. Non sono le
azioni giudiziarie a danneggiare la medicina: anzi, esse sono la conseguenza di una medicina compromessa. Il sistema sanitario non verrà migliorato finché il paziente non ritornerà a essere centrale per i medici.
to a un «errore umano». Questi incidenti sono avvenuti in
uno degli ospedali oncologici più prestigiosi del mondo,
una istituzione pilota della ricerca nel nostro paese. Se può
succedere al Dana Farber, può succedere ovunque. Nessun
sistema è sicuro se il paziente non diventa la preoccupazione centrale di coloro che applicano la tecnologia e somministrano farmaci.
Ritorno alla mia argomentazione fondamentale. Il nostro sistema sanitario è in crisi perché la categoria medica
non considera più suo obiettivo principale il processo di
guarigione, che comincia con l’ascolto del paziente. La ra-
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BERNARD LOWN: L’arte perduta di guarire
Bernard Lown: L’arte perduta di guarire
Parte III
(G Ital Cardiol 2009; 10 (11-12): 744-763)
Titolo originale
The Lost Art of Healing
© 1997 Garzanti
Editore SpA
Traduzione italiana di
Cristina Spinoglio
pubblicata su licenza di
Garzanti Libri SpA,
Milano.
GUARIRE IL PAZIENTE: LA SCIENZA
11. La digitale: il prezzo di
una scoperta
Per più di quarant’anni, oltre all’esercizio della professione, mi sono impegnato nella ricerca cardiovascolare. Questa attività ha arricchito la mia conoscenza della medicina e affinato la mia prospettiva scientifica; malgrado la
fatica, il lavoro sperimentale è stato un’avventura inebriante. Il trionfo della scoperta mi ha
fatto sentire come penso si senta un alpinista
che ha scalato una vetta sino ad allora inesplorata.
Le mie prime ricerche si sono concentrate
sul farmaco cardiaco più famoso, la digitale, la
cui introduzione nel 1775, da parte del medico
inglese e botanico William Withering, segnò
l’inizio dell’era moderna della terapia cardiologica. Il dottor Withering aveva saputo che
un’anziana erborista dello Shropshire, in Inghilterra, era riuscita a curare l’idropisia, cioè
l’edema, «dopo che molti medici ortodossi non
ci erano riusciti». Aveva utilizzato venti e più tipi di erbe, ma il dottor Withering, botanico
perspicace, si era subito accorto che il principio
attivo era la digitale, che si trova nelle foglie
della pianta purpurea con questo nome. Poiché dirigeva un ospedale per persone indigenti, sperimentò subito e senza costi il notevole
effetto terapeutico della digitale. Credendo di
avere scoperto un nuovo diuretico, lo descrisse
nei dettagli nel suo libro, rimasto un classico,
pubblicato circa dieci anni dopo1.
Si potrebbe immaginare che un farmaco
in uso da più di centocinquant’anni possa riservare ai medici ben poche sorprese, ma nel
1950, quando ero ancora un giovane ricercatore, mi resi conto ben presto che anche clinici provetti non sapevano bene come e quando
utilizzare questa medicina. Generazione dopo
generazione, come testi sacri, erano state trasmesse idee false, da un manuale all’altro.
11William
Withering, An Account of the Foxglove
and Some of Its Medical Uses, Londra, M. Swiney,
1985.
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La digitale era diventata un prezioso sostegno dei cardiologi per motivi validissimi.
Innanzitutto, rinforzava le contrazioni del
muscolo cardiaco, mirando al problema centrale delle cardiopatie, un pompaggio insufficiente. Veniva espulso il fluido in eccesso, che
stagnava nelle cavità del corpo e si manifestava con caviglie gonfie; si smaltiva il peso eccessivo, sintomo di cattiva salute; la respirazione
era facilitata e il polso troppo rapido rallentava. Il paziente era in grado di camminare senza ansimare e di muoversi nel letto senza accessi di tosse convulsa. Per la prima volta dopo
settimane godeva di una notte di sonno e
scompariva finalmente l’estenuante fatica che
rendeva il più piccolo sforzo un’impresa insuperabile.
Non è sorprendente che la digitale fosse
considerata un farmaco meraviglioso. Ma anche le meraviglie hanno un prezzo. Perché l’azione sia pienamente terapeutica, il paziente
riceve una dose quasi tossica. Gli effetti collaterali, spesso insidiosi, sono contraddistinti da
mancanza di appetito, capogiri, vertigini e
spiacevole sensazione di testa pesante. Più pericolosa è la comparsa di aritmie cardiache, alcune delle quali possono preannunciare la
morte.
All’inizio della mia carriera, nel 1950, ebbi un’esperienza collegata all’utilizzazione
della digitale angosciante, ma carica di insegnamenti. Il primario di un reparto femminile del Peter Bent Brigham Hospital mi chiese
di visitare una paziente abituale del dottor
Samuel Levine che era stata appena ricoverata. La signora M. aveva un’insufficienza cardiaca con congestione ai polmoni e gambe
gonfie conseguenti a edema. L’inalazione di
ossigeno non aveva migliorato la sua respirazione affannosa. Uno dei motivi della congestione era il ritmo cardiaco straordinariamente rapido, che raggiungeva i 190 battiti
al minuto. Anche un cuore sano va in scompenso se batte tre volte al ritmo normale, ma
il cuore della signora M. era stato gravemente danneggiato da una febbre reumatica infantile.
Quando incontrai Levine quel mattino, gli
dissi di visitare subito la signora M., poiché era
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B Lown - L’arte perduta di guarire
Spiegai a Levine che il disturbo del ritmo cardiaco della
signora M. al momento del ricovero era un meccanismo cardiaco di un tipo fino ad allora non descritto, che io avevo
scoperto di recente e definito tachicardia atriale parossistica con blocco. Di solito indica un’intossicazione da digitale.
In presenza di tachicardia atriale parossistica con blocco,
somministrare altra digitale equivaleva a spegnere un incendio gettando del gasolio sul fuoco. A ogni aggiunta di
digitale, il ritmo cardiaco accelerava e, quando raggiungeva più di 200 battiti al minuto, il cuore precipitava bruscamente in una fibrillazione ventricolare, meccanismo alla
base della morte cardiaca. Poiché l’aritmia era comparsa in
circostanze analoghe e poiché Levine aveva prescritto dell’altra digitale, temevo un esito tragico, inevitabile per l’aggiunta del diuretico. La tachicardia atriale parossistica con
blocco di solito compariva in pazienti che avevano assunto
una dose troppo forte di digitale: il diuretico provocava
una perdita di acqua corporea con sali e elettroliti.
Levine ascoltò attentamente senza interrompere.
Quando ebbi terminato, mi pose alcune domande e poi
commentò: «Bernie, apprezzo i suoi insegnamenti. Avrei
dovuto essere meno orgoglioso e ascoltarla prima». Non
fece mai più cenno di questo episodio, ma da quel momento chiese il mio parere sulla somministrazione di digitale
nei casi dubbi.
la più grave del reparto. Pur ammirando l’accuratezza dell’anamnesi di Levine e la precisione della sua visita, fui costernato nel sentirlo prescrivere una forte dose di digitossina (della famiglia dei farmaci della digitale) e un diuretico a base di mercurio. Senza pensarci, scoppiai: «Questa
combinazione di farmaci la ucciderà. Morirà sicuramente
in giornata». Gli occhi di Levine si restrinsero per la rabbia,
controllata a stento. Con le labbra che si muovevano appena disse: «Annoti la sua opinione nella cartella della signora M. esattamente come me l’ha detta». Poi se ne andò rapidamente.
Dopo avere finito di scrivere la breve annotazione mi
sedetti, poiché la mia energia si era esaurita come se fossi
appena salito sul Bunker Hill Monument. Il giorno, che era
appena iniziato, si trascinava come se l’orologio fosse stato scarico, mentre io speravo contro ogni speranza che la
mia folle prognosi si rivelasse sbagliata. Una visita in reparto alla fine del pomeriggio dissipò tuttavia ogni prospettiva che la prescrizione di Levine potesse migliorare la grave
situazione della signora M. La dose massiccia di digitale
non aveva rallentato il suo ritmo cardiaco; al contrario,
batteva sempre più rapidamente. A causa dei ritardi nel reparto sovraccarico di lavoro, non aveva ancora ricevuto il
diuretico che secondo me le avrebbe dato il colpo di grazia. Il panico mi impedì di pensare ad altre possibilità. Quarantacinque anni fa era impensabile che un semplice specializzando mettesse in discussione le prescrizioni mediche
di un medico più anziano, soprattutto della levatura del
dottor Levine.
Il mattino seguente corsi a vedere la signora M., ma il
suo letto era vuoto. Era morta durante la notte. Il medico
di guardia mi disse che il diuretico le aveva dato il colpo di
grazia. Quando aveva cominciato a evacuare grandi quantità di urina, la situazione era rapidamente peggiorata. Il
ritmo cardiaco aveva raggiunto 220 battiti al minuto, era
diventata cianotica, aveva rantolato ed era morta. Non fu
tentata una rianimazione, perché quella tecnica sarebbe
stata scoperta solo un decennio più tardi.
Per quanto sconvolto dall’esito, confessai con vergogna che ero più turbato dalla possibilità di perdere la specializzazione che dal tragico destino della signora M. La
mia carriera come allievo prediletto di Levine, così promettente il giorno prima, sembrava alla fine.
Aspettai con ansia l’arrivo di Levine, perché avevo paura di parlargli della signora M. Appena ci vedemmo, Levine mi chiese di lei. Con il capo chino, sussurrai che era morta durante la notte. Levine si allontanò rapidamente, urlando: «Mi segua!». Lo seguii trascinando i piedi, sentendomi come qualcuno che sta per essere accusato di un crimine indicibile. Quando entrammo nel suo piccolo studio,
chiuse la porta. Pallidissimo, mi fece sussultare con queste
parole: «Dove ho sbagliato?».
Ricordando l’episodio quasi cinquant’anni dopo, sono
ancora scosso dall’intensità delle emozioni e dall’inatteso
scambio di ruoli. L’imputato doveva giudicare il venerando
giudice. Si chiedeva a un medico inesperto di dare la propria opinione su un uso improprio della digitale a uno dei
maggiori cardiologi. la cui specialità era proprio la farmacologia clinica. Per me, quello fu il momento supremo di
Levine come essere umano. Non ho mai incontrato qualcuno con l’onestà morale di confessare un così grave errore.
umiliandosi di fronte a un giovane.
Quel che Levine non sapeva è che avevo vissuto una
tragedia analoga a causa della mia ignoranza. Purtroppo
la mia abilità nel dosare la digitale era stata acquisita a duro prezzo. Era il 1948, ero interno al Montefiore Hospital
nel Bronx, nel reparto dei malati cronici. Molti malati terminali o cronici venivano trasferiti al Montefiore per lungodegenze da tutta la città di New York. Come interno,
avevo un’autonomia quasi totale. Le responsabilità erano
enormi e a volte poste nel modo sbagliato. La supervisione
veniva fatta principalmente dagli interni più anziani, specializzandi, che avevano solo un anno d’esperienza più di
me. I medici di ruolo, che erano in carica ufficialmente, limitavano i controlli alle visite del mattino. La formazione
dei medici si compiva sulla pelle delle persone economicamente più svantaggiate, perché l’équipe aveva tutta la responsabilità dei reparti.
C’è la tendenza a indorare i ricordi del passato, «i bei
tempi andati». Ma riflettendo sulle cure ospedaliere di cinquant’anni fa, mi rendo conto che da allora sono stati fatti enormi cambiamenti positivi. Oggi gli ospedali sono molto più sicuri, i pazienti vengono informati meglio, i farmaci sono somministrati più attentamente, le sale operatorie
sono più funzionali. Il mutamento più importante è che il
paziente ha l’ultima parola in quello che viene fatto. Retrospettivamente, i danni compiuti negli ospedali cinque
decenni fa mi lasciano di stucco.
Era passata la mezzanotte quando una donna di trent’anni fu portata nel mio reparto al Montefiore. La signora W. pesava meno di 40 chili. Era febbricitante, pallidissima, con i muscoli fortemente compromessi. I globi oculari
fuoriscivano come prugne secche nelle cavità vuote, la pelle pendeva in pieghe disidratate. I suoi numerosi problemi
erano per lo più il risultato della strana combinazione di
anoressia e colite ulcerosa. Una diarrea incurabile la svuotava di tutti i fluidi vitali mentre l’anoressia impediva ogni
assorbimento per via orale.
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alla G-strofantina. Il rapporto tra potassio e digitale non
era ancora stato scoperto.
Più tardi in quello stesso anno, quando ne seppi di più,
riesaminai l’elettrocardiogramma della paziente. Era chiaro che al ricovero il suo ritmo cardiaco presentava una tachicardia del seno, un battito veloce, normale reazione fisiologica a uno stress fisico o psicologico. In una simile situazione clinica la digitale non serve a rallentare il ritmo,
ma il fenomeno non basta a spiegare l’ipersensibilità. La
paziente non aveva mai preso digitale prima della piccola
dose che le era stata fatale e l’autopsia non era significativa, poiché rivelava un muscolo cardiaco perfettamente
normale, valvole intatte e vasi coronarici efficienti. In assenza di disturbi cardiaci, pefino una dose massiccia di digitale, anche se può intossicare, non uccide. Secondo l’eminente primario cardiologo del Montefiore Hospital dell’epoca, pazienti giovani con un cuore sano potevano consumare grandi quantità della sostanza. Cercando nella letteratura esistente, lessi il caso di un soggetto che, in un tentativo di suicidio, prese una dose 200 volte superiore a
quella che avevo somministrato ed era sopravvissuto. Perché allora questa forte ipersensibilità?
Poiché ero inesperto, mi concentrai sul suo rapido ritmo cardiaco, di 170 battiti al minuto. La digitale era il farmaco più efficace per contenere la rapidità del ritmo cardiaco. A causa delle condizioni del tratto gastrointestinale,
il farmaco doveva essere somministrato per endovenosa e
proprio quella settimana avevo letto di un farmaco francese a base di digitale estremamente efficace, la G-strofantina. Poteva essere somministrato soltanto per endovenosa
e agiva molto rapidamente, quindi sembrava l’ideale per la
signora W. Era passata la mezzanotte e non c’era nessuno
che potesse consigliarmi. Poiché la sua condizione era critica, applicai l’elettrocardiografo e iniettai quella che credevo essere una piccola dose di G-strofantina, un quinto
del quantitativo normale. Non successe nulla per cinque
minuti. Poi improvvisamente la signora W. cominciò ad
agitare le braccia e ad annaspare come un pesce fuor d’acqua. La sua bocca si contorse mostruosamente, spalancandosi ripetutamente come se volesse inalare aria. Invece di
rallentare, il cuore continuava a battere rapidamente. In
pochi minuti, il colorito divenne blu violaceo. Mentre guardavo la stampata dell’elettrocardiogramma, il ritmo diventò caotico, tipico del modello della fibrillazione ventricolare. Piccoli fasci di muscoli devastati si contorcevano nell’agonia, anelando all’ultima molecola di ossigeno da un flusso sanguigno che non circolava più. Paralizzato dall’impotenza, me ne stavo tremante come se stessi assistendo a un
omicidio commesso su uno schermo cinematografico. La signora W. morì otto minuti dopo la somministrazione della
fiala.
Il mattino seguente, alla riunione dei medici, ero tormentato dal senso di colpa, acuito dalla mancanza di sonno. Senza tralasciare alcun dettaglio, dissi senza mezzi termini all’équipe quello che era successo e mostrai gli eloquenti stampati dell’elettrocardiogramma. Avrei voluto
essere biasimato, ma nessuno criticò il mio comportamento né il mio giudizio. Al contrario, fui trattato con il rispetto accordato all’eroico soldato in trincea. I soli commenti
furono: «Non prenderla così male», «Si perde e si vince»,
«Questo è il prezzo da pagare per diventare medico», «Per
acquisire esperienza si prendono dei duri colpi».
Il commento più duro fu: «Hai preso un rischio calcolato». Sì, avevo fatto il calcolo, ma il paziente aveva subito il
rischio senza avere nessuna possibilità di scelta. Il primario,
una persona gentilmente paterna, mi consolò dicendo che
i buoni giudizi derivavano dall’esperienza, «ma l’esperienza è il nome che diamo ai cattivi giudizi».
Era una situazione surreale! Era stata fatta un’esecuzione sommaria senza sollevare sdegno alcuno. Certo, il
gesto non era stato premeditato e scaturiva dall’ignoranza, ma da quando l’ignoranza è una giustificazione per
una colpa così grave? Cinque minuti dopo la mia esposizione, ognuno era passato al caso successivo senza il minimo
segno di indignazione. Un paziente era stato prematuramente mandato al creatore e questi medici con un’eccellente formazione, che erano ottimi esseri umani, commiseravano il colpevole, indifferenti verso la vittima.
Una settimana dopo, quando ebbi a disposizione le
analisi del sangue della paziente, rimasi stupito dal profondo sconvolgimento degli elettroliti, compresi sodio, potassio e cloruro. Non stabilii subito la connessione tra il tasso di potassio estremamente basso, solo 1,6 mg, un terzo
della concentrazione normale, e l’estrema ipersensibilità
Avevo poco tempo per cercare una risposta. Il lavoro
era pesante, con guardie a notti e a week-end alterni. Il carico dei pazienti era alto e molti di loro erano gravissimi.
Quando arrivavo a casa esausto, trovavo i miei due bambini piccoli bramosi dell’attenzione paterna e mia moglie
chiusa in un piccolo appartamento, lontana dagli amici e
dalla famiglia e desiderosa di compagnia. Avevo poche occasioni per ripensare al mio fatale errore e tormentarmi;
quella sconvolgente esperienza affondava nella profondità della coscienza, ma continuava a esercitare una forza
magnetica subliminale.
L’anno seguente, interno in specialità, avevo più tempo per riflettere e la triste signora W. ricominciò ad apparire nei miei pensieri quando tentavo di rilassarmi o prima
di dormire. Come un mal di denti che lambisce continuamente la coscienza, la morte della donna stregava la mia
mente, anche perché il suo ricordo era ravvivato dai numerosi pazienti che presentavano un’intossicazione da digitale. In molti di loro il dosaggio non era stato modificato e lo
stato tossico era provocato dalla somministrazione di un
diuretico a base di mercurio, Appena cessava il copioso
flusso di urina, il paziente veniva colto da nausea, vomito,
vertigini e debolezza. Il battito cardiaco diventava irregolare con raffiche di extrasistole ventricolari. Nei pazienti
più anziani, l’intossicazione da digitale era particolarmente grave e spesso preannunciava la morte.
Nella seconda metà degli anni Trenta, Levine aveva fornito la spiegazione più esauriente sull’intossicazione da digitale indotta dai diuretici. Egli pensava che quando un
diuretico agisce sui reni per liberare il corpo da un eccesso
di sali e acqua, il liquido non può raggiungere i reni senza
attraversare il cuore. Levine ipotizzava che, poiché la digitale era assorbita da tutto il corpo, i liquidi mobilitati dal
diuretico contenevano notevoli quantità del farmaco. La
somministrazione di diuretici corrispondeva quindi a
un’ulteriore somministrazione di digitale, quella delle
scorte immagazzinate nel corpo. Levine era convinto di
avere dimostrato la sua ipotesi quando si accorse che il liquido dell’edema filtrato da pazienti che assumevano digi-
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ca della digitale grazie alla perdita di potassio nel sangue
indotta dal diuretico? Sembrava un enigma insolubile! Poi,
come succede spesso, l’enigma si chiarì. Di nuovo, il ricordo della signora W. suggerì una risposta. Perché non utilizzare una digitale a azione rapida, come quella che le avevo somministrato? Se la mia idea fosse stata giusta, nei pazienti che avevano perso potassio dopo la somministrazione di un diuretico, la tossicità sarebbe stata raggiunta con
una dose minore di digitale. Il modello sperimentale era
ora evidente: somministrare una digitale a effetto rapido
prima e dopo il diuretico. Per questo avevo bisogno di un
farmaco più sicuro della G-strofantina, più rapida all’inizio
e più efficace.
Cercai tutte le possibili forme di digitale ad azione rapida, ma nessuna faceva al caso mio. Poi venni a sapere che il
dottor Charles Enselberg, cardiologo al Montefiore, stava
sperimentando un nuovo principio attivo a base di digitale
sintetica, l’acetil-strofantina. Questo farmaco, cugino primo della G-strofantina, poteva essere somministrato a una
dose pienamente digitalizzante in un paio di minuti e veniva completamente eliminato dal corpo in meno di due ore.
Un sovradosaggio non poteva provocare una tossicità grave, poiché il farmaco si esauriva rapidamente. Era l’ideale
per la ricerca che avevo in mente. All’epoca non esistevano
comitati che regolamentassero l’approvazione preliminare.
Bastava chiedere il permesso al primario del servizio. Non
solo la risposta era invariabilmente positiva, ma si faceva
bella figura, dimostrando un’attitudine per la ricerca.
Il mio entusiasmo cresceva di giorno in giorno. Trovai
rapidamente dieci pazienti con insufficienza cardiaca che
non avevano ancora assunto digitale e somministrai loro
per endovenosa la quantità di acetil-strofantina che potevano tollerare. Due ore dopo, quando la titolazione chimica era completata e tutto il farmaco eliminato dal corpo,
dovevano ingerire un diuretico a base di mercurio. Nelle
ventiquattro ore seguenti, ogni goccia della loro urina veniva conservata per misurare la quantità di potassio. Il
giorno seguente titolai di nuovo la loro tolleranza per l’acetil-strofantina. Alcuni pazienti, la seconda volta, ebbero
bisogno di quantità molto minori del farmaco per raggiungere la tossicità, mentre altri tolleravano esattamente la
stessa dose. Per non inficiare i risultati, chiesi al dottor Ray
Weston, un ricercatore in cardiologia, di analizzare i dati.
Quando mi mostrò il risultato finale, non potei contenere
la mia euforia. I pazienti che non avevano dimostrato cambiamenti, avevano un tasso di potassio nel sangue immutato. Quelli che durante la seconda somministrazione di
acetil-strofantina erano stati più sensibili e potevano tollerare quantità molto minori di farmaco avevano perso
grandi quantità di potassio nell’urina. Quindi la concentrazione di potassio nel sangue era molto più bassa.
Poiché non avevo nessun appoggio finanziario nè assistenza tecnica, ero obbligato a fare da solo tutto il lavoro.
La ricerca non mi esentava dal pesante onere clinico. Ciò significava che le mie quattordici ore di lavoro quotidiano
venivano accresciute, ma l’eccitazione del lavoro e le sue
importanti implicazioni cliniche mi davano energia da vendere. Il duro lavoro e la mancanza di sonno furono premiati. La ricerca ebbe come risultato la mia prima pubblicazione medica. Per quanto l’articolo fosse scarno, soltanto
quattro pagine, fu ampiamente recensito e citato. Il lavoro fu riportato nel «Journal of the American Medical Asso-
tale conteneva abbastanza farmaco da rallentare un ritmo
cardiaco rapido. In breve, la causa dell’intossicazione da digitale indotta dalla somministrazione di un diuretico era
dovuta al fatto che il muscolo cardiaco era esposto a una
dose maggiore di digitale, fenomeno che Levine definì ridigitalizzazione diuretica.
Questa teoria non corrispondeva al caso della signora
W. Non aveva mai assunto diuretici e prima di ricevere la
G-strofantina non aveva mai ingerito digitale. Per capire la
sua ipersensibilità alla digitale, bisognava tenere conto di
altri fattori. Questa conclusione mi stimolò a esaminare in
modo più critico l’ipotesi di Levine. Secondo la sua teoria,
l’intossicazione da digitale avrebbe dovuto verificarsi solo
in pazienti con una diuresi abbondante. Ma non riuscivo a
individuare nessuna relazione evidente. A volte i pazienti
che evacuavano pochissimo malgrado i diuretici erano
molto intossicati; altri che perdevano grosse quantità di liquido e di peso non manifestavano nessun sintomo di intossicazione da digitale.
Per verificare la teoria di Levine, somministrai dosi supplementari di digitale a pazienti con un’intossicazione da
digitale dovuta all’assunzione di un diuretico. La dose che
prescrivevo sorpassava di molto quella che secondo Levine
rimaneva residua nel liquido secreto dopo il diuretico. Ciononostante, non un solo paziente ebbe un’intossicazione
da digitale dopo quella singola dose supplementare. Non
avevano nessun sintomo tipico né tantomeno la significativa aritmia da sovradigitalizzazione. Con questo avevo
demolito l’ipotesi di Levine, ma non avevo identificato il
fattore X, che era espulso dal corpo e avrebbe spiegato la
sensibilità accresciuta verso la digitale.
Se il diuretico provocava l’espulsione di qualche elemento dal corpo, di che cosa si trattava? Il caso della signora W., come il fantasma di Banquo nel Macbeth, suggeriva
una risposta. Il ritornello ossessivo della sua morte improvvisa si cristallizzava in una domanda: il basso tenore di potassio nel corpo interferiva sulla sensibilità cardiaca alla digitale? Cercando nella letteratura medica, trovai che un
cardiologo di San Francisco, John Sampson, aveva scoperto
all’inizio degli anni Trenta, che il potassio poteva arrestare
le extrasistole ventricolari, o battiti supplementari, espressione comune per il sovradosaggio da digitale. Ma ciò non
spiegava la questione essenziale sul rapporto potenzialmente negativo tra basso tenore di potassio e digitale.
Se il potassio fosse stato il fattore X, allora una concentrazione ridotta di potassio nel sangue avrebbe potuto essere trovata soltanto in coloro che avevano sintomi di intossicazione da digitale dopo avere ricevuto un diuretico.
Con mia grande gioia, questo si rivelò vero. Ma la mia teoria non era ancora stata provata con il rigore richiesto dalla scienza. Per farlo era necessario ripetere sperimentalmente ciò che era successo alla signora W., in particolare
dimostrare che un diuretico sensibilizzava il cuore alla digitale solo quando faceva espellere dal corpo grosse quantità di potassio, riducendo la normale concentrazione nel
sangue di potassio, condizione definita ipopotassiemia. Se
la mia ipotesi era giusta, la sensibilità alla digitale dopo la
somministrazione di un diuretico sarebbe stata funzione
del livello di potassio nel sangue.
L’esperimento era più facile da descrivere che da effettuare. Come potevo dimostrare che un paziente, senza assumere il farmaco, diventasse più sensibile all’azione tossi-
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G Ital Cardiol Vol 10 Novembre-Dicembre 2009
nuova categoria di diuretici che risparmiassero il potassio. I
nostri risultati furono riepilogati in molti articoli e in un libro che diventò un best-seller medico. Appena trentenne,
ero diventato un’autorità mondiale sul più importante farmaco cardiologico dell’epoca. Negli anni Cinquanta, l’argomento delle mie numerose conferenze fu esclusivamente
«L’uso e l’abuso della digitale». Una volta, quando mi presentarono come oratore in un convegno medico in una piccola cittadina nel Michigan, il presidente molto agitato parlò più o meno come segue: «È un grande privilegio per il
nostro ospedale avere la presenza del dottor Lown, specialista mondiale dell’avvelenamento da digitale». Improvvisamente, la signora W. nella sua agonia apparve davanti ai
miei occhi. Il senso di colpa mi corrodeva come un’ulcera.
Il lavoro sulla digitale e sul potassio mi fece considerare per tutta la vita ogni farmaco come un potenziale veleno, che necessitava sempre di nuove osservazioni. L’alchimista e medico medioevale Paracelso ha scritto: «Tutte le
sostanze sono veleni; non ce n’è nessuna che ne sia esente.
La giusta dose distingue un veleno da una cura».
Come era suo solito, Shakespeare espresse il medesimo
concetto con maggior forza poetica. In Romeo e Giulietta,
Frate Lorenzo cerca una pozione che induca in Giulietta un
sonno che simuli la morte. Trova un fiore con poteri curativi e riflette:
ciation» e nella principale rivista medica inglese, «Lancet».
Entrambi lo considerarono fondamentale.
L’intossicazione da digitale era una causa essenziale di
morte tra i pazienti con insufficienza cardiaca e la mia scoperta che la perdita di potassio indotta dai diuretici sensibilizzava il cuore all’azione tossica della digitale sollevava
molti interrogativi ai quali era urgente rispondere. Per
continuare le ricerche era importante ottenere una collaborazione in medicina cardiovascolare in un ospedale pilota nella ricerca. Il Peter Bent Brigham Hospital, ora Brigham
e Women’s Hospital, era l’istituzione ideale in cui approfondire il rapporto tra digitale e potassio.
All’epoca il dottor John Merrill vi stava facendo studi
d’avanguardia con il rene artificiale introdotto di recente
e centinaia di pazienti vi erano dializzati ogni anno. Molti
avevano insufficienze cardiache e venivano curati con la
digitale. La dialisi, oltre a espellere i prodotti di scarto del
metabolismo, eliminava il potassio dal corpo. Era quindi
possibile determinare rapidamente in che modo l’espulsione di potassio dal corpo influenzava i pazienti in cura con
la digitale.
Un interesse ancora maggiore derivava dal fatto di lavorare con il dottor Levine, anche se avevo poche, se non
nessuna probabilità di avere un dottorato con lui. Egli
prendeva solo una persona all’anno e favoriva i laureati di
Harvard, soprattutto quelli che avevano preso la specializzazione al Peter Bent Hospital. Ma nulla era perduto se ci
si applicava e, con mia grande sorpresa, fui ammesso al colloquio.
Misi in atto una strana strategia. Dalle voci in ambiente ospedaliero, avevo appreso che Levine era estremamente onesto e orgoglioso e non amava essere contraddetto.
Decisi tuttavia di mettere alla prova il suo lavoro di ricerca.
Quando presentai le mie credenziali, certo non sensazionali, mi chiese perché volevo fare un dottorato con lui. Gli
risposi che il mio scopo era dimostrargli che aveva torto su
un certo dato. Stupito, mi chiese di che cosa si trattasse. Gli
spiegai che la sua teoria ampiamente accettata sulla redigitalizzazione diuretica era sbagliata. Si controllò a fatica.
«Naturalmente non ha letto il nostro articolo sull’argomento, perché proviamo con certezza che, in un cuore a
ritmo rapido, il liquido dell’edema contiene grandi quantità di digitale».
Risposi con argomentazioni accuratamente preparate
parlando del ruolo critico del potassio, aggiungendo che il
Peter Bent Hospital era il luogo ideale per continuare la
mia ricerca. Poi venne la mia battuta finale a sicuro effetto, cioè che ogni buon scienziato come Levine, di fronte alla promulgazione della verità, credeva nella ritrattazione
pubblica. Dal suo comportamento ostile quando ci separammo pensai di non avere nessuna probabilità di ottenere la nomina. Ma Levine si rivelò un uomo integerrimo. Il
suo ego era stato umiliato, e tuttavia mi offrì lo stesso lavoro; ma mi punì per la mia arroganza non permettendomi di lavorare sulla digitale per più di un anno.
Durante il secondo anno, Levine mi lasciò libero di lavorare con il farmaco. In poco tempo, provammo in modo decisivo il rapporto tra potassio e digitale. Questo allertò i medici sull’importanza delle perdite di potassio nella genesi
dell’intossicazione da digitale e dell’aritmia cardiaca. Li
spinse a prescrivere potassio supplementare quando somministravano diuretici e a stimolare l’introduzione di una
La virtù, se non ben adoprata, in vizio si trasforma;
Talvolta il vizio redento è dall’azione.
La scorza tenera di pianta in dolce forma
È sito di veleno e medica pozione.
Il mio lavoro di ricerca sulla digitale fece altri benefici.
Stimolò l’interesse sull’aritmia cardiaca, poiché i farmaci a
base di digitale potevano provocare tutti i possibili disturbi
del ritmo cardiaco. Per la prima volta, i medici impararono
che i disturbi del ritmo atriale potevano essere dovuti a eccesso di digitale. La ricerca segnò inoltre la fine dell’utilizzazione di farmaci a base di digitale a lunga azione come la
sua foglia, la digitossina, il Ditaligin e preparazioni analoghe. Il mio entusiasmo per l’uso della digossina contribuì alla sua utilizzazione universale e moltissime vite furono salvate grazie a un uso corretto dei farmaci a base di digitale.
Anche se la morte della signora W. aveva lasciato un’eredità di vita, io rimanevo convinto che un lieto fine raramente giustifica i mezzi inadeguati. La tragedia che avevo
inflitto alla signora W. avvenne presto nella mia vita e stimolò la mia sensibilità morale di fronte alle miriadi di problemi che un medico deve affrontare. Fui sensibilizzato di
fronte al fatto che troppo spesso in medicina, come nella
vita in genere, obiettivi rispettabili provocano gravi sventure. Mezzi sbagliati spesso inquinano fini encomiabili. Pochi contesterebbero il fatto che prolungare la vita è un bene senza riserve. Ma con l’obiettivo di prolungare la vita, i
medici spesso infliggono indicibili sofferenze e giustificano
razionalmente il fatto che le buone intenzioni possano
condurre ad azioni discutibili. Quando c’è una scissione tra
i mezzi e i fini, la fibra morale si consuma.
12. Una nuova tradizione medica
Il dottor Samuel Levine fu il pimo a sottolineare il danno
del riposo a letto per i pazienti cardiopatici. Maturò que-
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logia. I farmaci cardiologici per le vittime di attacchi cardiaci erano limitati a glucosidi di digitale, farmaci antiaritmia come quinidina e procainamide, anticoagulanti come
eparina e warfarina, morfina e diversi sedativi. Ai pazienti
agitati, venivano somministrate forti dosi di sedativi, che
indubbiamente contribuivano all’alto tasso di mortalità e
a complicazioni come choc, edema polmonare ed emboli ai
polmoni.
I pazienti con attacchi di cuore costituivano un lavoro
gravoso per le infermiere, che dovevano nutrirli tre volte
al giorno, aiutarli a muoversi come pesi morti sulle padelle e mantenere alto il morale per limitare la depressione.
Inoltre coloro che avevano bisogno di ossigeno dovevano
essere tenuti sotto tende speciali che circondavano i letti.
Per ottenere un’adeguata concentrazione di ossigeno le
lenzuola dovevano essere tirate in modo da impedire la dispersione d’aria. I pazienti erano immobilizzati come lattanti in fasce. Nel loro isolamento, a volte venivano a malapena sentiti a causa del frastuono del pompaggio dell’ossigeno ed erano appena visibili attraverso le tende di plastica appannate. All’epoca il 35% dei pazienti colpiti da attacco cardiaco e ricoverati al Brigham moriva.
Durante le visite del mattino, Levine diceva spesso che
l’esito sarebbe stato molto migliore se i pazienti fossero
stati curati seduti in una comoda poltrona. Quando gli
chiedevo se aveva fatto ricerche in merito, rispondeva che
era troppo vecchio e troppo occupato per una simile impresa. Ebbi la pazza idea di offrirmi volontario e Levine accettò subito. Anche se sapevo che il progetto sarebbe stato difficile, non mi aspettavo certo tante difficoltà. Non
avevo capito che una tradizione stava per essere infranta:
era una di quelle trasgressioni che invariabilmente sollevavano bufere polverose di opposizione. Per un breve periodo mi ero alienato lo stesso Levine, perché stava scrivendo
un articolo sulle vicissitudini del riposo a letto per i pazienti cardiopatici e mi chiese di essere il coautore. Invece di
esprimere gratitudine, non volli firmare l’articolo. Poiché
non avevo partecipato al lavoro, non era giusto che si pensasse che avevo dato un contributo. Levine si offese e nei
successivi quindici anni della nostra collaborazione non mi
chiese mai più di firmare un articolo con lui. L’esordio del
nostro sodalizio non era stato, quindi, brillante.
Per portare avanti la ricerca dovevo individuare subito
i pazienti con diagnosi di attacco cardiaco e persuadere il
personale a prescrivere una grande e comoda sedia a
sdraio che avevamo ideato appositamente a questo scopo,
su cui i pazienti riposavano sin dal primo giorno del ricovero. In genere la mia richiesta e le mie argomentazioni non
avevano seguito. Non potevo nemmeno citare la letteratura, poiché non esisteva. La maggior parte dei medici considerava la mia come un’impresa scarsamente morale e, se
insistevo, alcuni mi ricordavano il processo di Norimberga
e l’immoralità della sperimentazione medica priva di giustificazione. Entrando in un reparto, fui accolto più volte
con il saluto nazista, un battito di tacchi e un «Sieg heil!».
La mia tattica per addolcire l’opposizione dell’équipe
era quella di portare Levine al capezzale dei malati. Aveva
l’effetto di uno sceriffo, determinato a mantenere la legge
e l’ordine, che arrivava in occasione di episodi di disobbedienza civile. Gli ospedali universitari erano allora organizzati come possedimenti feudali. Ogni medico con una certa anzianità di servizio, di solito con una clientela privata,
sta idea grazie alla sua vasta esperienza clinica nel curare
pazienti con insufficienza cardiaca. Un paziente in particolare lo fece riflettere sugli effetti potenzialmente negativi
del riposo a letto.
Alla fine degli anni Trenta, Levine fu chiamato a visitare un uomo con una grave insufficienza cardiaca congestiva. Data la sua fama, ci si aspettava un miracolo, poiché i
medici che lo avevano in cura avevano tentato senza successo tutte le cure conosciute. Levine notò che il paziente
era agitato e i suoi polmoni erano inondati di liquido; se
fosse stato seduto in una comoda poltrona, la forza di gravità avrebbe fatto defluire il liquido dai polmoni, dove avveniva il ricambio di ossigeno, verso gli arti che costituivano depositi meno dannosi. Il semplice fatto di rimanere seduto portò alla sua inaspettata guarigione.
Osservazioni analoghe avevano persuaso il dottor Levine delle conseguenze negative del riposo a letto, soprattutto per i pazienti con insufficienza cardiaca. Le complicazioni comprendevano l’ateletassia, o collasso dei lobi del
polmone che predisponeva alla polmonite, l’embolia polmonare, la congestione dei polmoni, il prostatismo, la ritenzione urinaria, l’assottigliamento delle ossa e la stitichezza. In particolare il riposo a letto era molto dannoso
dopo un grave attacco cardiaco, per il quale erano prescritti lunghi periodi di assoluta immobilizzazione.
All’inizio degli anni Cinquanta, con queste diverse definizioni diagnostiche (trombosi acuta delle coronarie, infarto acuto del miocardio o semplicemente attacco cardiaco),
il riposo assoluto andava da quattro a sei settimane. Era
proibito stare seduti, girarsi da una parte all’altra senza
aiuto e nutrirsi da soli durante la prima settimana. L’evacuazione di feci e urina rendeva necessaria una padella: per
coloro che erano stitici, cioè quasi tutti, stare in precario
equilibrio su una padella era imbarazzante e tormentoso.
L’insistenza dei medici su un rigoroso riposo a letto si
basava su un sacrosanto principio terapeutico, cioè la necessità di riposare la parte del corpo sofferente, si trattasse di un arto fratturato o di un polmone colpito dalla tubercolosi. A differenza di un osso rotto, che poteva venire
immobilizzato in un’ingessatura, o di un lobo polmonare,
alleviato gonfiando con aria la cavità addominale, il cuore
non poteva essere messo a riposo con tanta facilità. La sola approssimazione al principio del riposo per un cuore sofferente era diminuire il suo onere di fatica. Durante il riposo a letto il ritmo cardiaco e la pressione erano più bassi,
indicando così un ridotto uso dell’ossigeno e quindi un minore lavoro cardiaco. Quindi il riposo a letto era tradizionalmente equiparato al riposo del cuore.
Ma era davvero così? Era sorprendente che nessuno
avesse studiato il problema, mentre ogni altro aspetto della terapia dell’infarto era stato analizzato con attenzione.
Era solo un altro esempio della rigidità della tradizione
medica, da cui erano banditi un salutare scetticismo e il
semplice buonsenso.
All’epoca gli ospedali mancavano di unità coronariche.
I pazienti con attacchi al cuore erano ricoverati ovunque ci
fosse un letto disponibile. Non esistevano ancora i monitor
per controllare il ritmo cardiaco ed era sottovalutata l’importanza delle aritmie. Il Peter Bent Brigham Hospital aveva solo due apparecchi per l’elettrocardiogramma, uno dei
quali, installato su un grosso carrello mobile, serviva a tutti i ricoverati che non potevano essere condotti in cardio-
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no stare seduti in poltrona non si consideravano malati
senza speranza. Nella nostra cultura, si muore nel proprio
letto, quindi il fatto di stare fuori dal letto allontanava
oscuri presagi. Più passava il tempo, più si rimaneva in poltrona e ciò permetteva di valutare i progressi. Il paziente
era un partecipante attivo e informato nel processo di guarigione. Secondo me l’accrescimento del potere su di sé era
il fattore principale, molto più efficace ad alleviare la paura e l’ansia di qualsiasi parola rassicurante dell’équipe.
Molti altri erano i cambiamenti salutari. Il giorno dopo
il ricovero, i pazienti non sembravano più pallidi e malati.
Il dolore era rapidamente lenito da piccole dosi di morfina.
Anche se le loro condizioni rimanevano gravi, erano ottimisti e impazienti di riprendere una vita normale. Chiedevano allo staff di lasciarli camminare e insistevano per essere dimessi precocemente.
Anche altri risultati erano sorprendenti. Tra i decessi
dei pazienti curati a letto, il 30% era dovuto a embolia polmonare. Questa grave complicazione, che risultava dalla
tromboflebite nelle vene delle gambe, non fu riscontrata
in nessuno degli ottantuno pazienti curati in poltrona. Retrospettivamente, non penso che il risultato fosse davvero
sorprendente. L’ansia aumenta la possibilità di coagulazione del sangue e l’immobilizzazione totale contribuisce al
ristagno del flusso sanguigno. La posizione distesa impedisce inoltre la ventilazione dei polmoni, che servono da
mantice per aspirare il sangue nel petto e facilitare il ritorno venoso del sangue dalla periferia al cuore. Inoltre i polpacci, compressi dalla posizione, impediscono il flusso venoso. Tutti questi fattori provocano flebiti nelle gambe,
con coaguli che possono propagarsi ai polmoni e causare
la temuta embolia polmonare.
Nei pazienti curati in poltrona, questi fattori sono ridotti, se non totalmente assenti. Scompare anche un’altra
complicazione, la sindrome mano-spalla, una situazione
artritica dolorosa e invalidante in cui la spalla sinistra e la
mano destra sono rosse e gonfie. Molte teorie tentavano
di spiegare questo straordinario cambiamento della mano.
Quella dominante all’epoca, definita distrofia neurale simpatica, attribuiva la condizione a un riflesso dal muscolo
cardiaco danneggiato che attraversava il sistema nervoso
autonomo e costringeva i piccoli vasi, diminuendo il flusso
sanguigno verso la mano. L’immobilità era un fattore di rischio. Mentre avevo incontrato almeno cinquanta pazienti con la sindrome mano-spalla all’epoca del rigoroso riposo a letto, non ricordo di averne mai rivisti dopo che il riposo in poltrona era diventato la routine.
Malgrado le previsioni nefaste, tenere fuori dal letto
pazienti molto gravi durante i primi spasimi dell’attacco
cardiaco non ebbe come conseguenza nessuna complicazione. Come dice il nostro articolo: «L’aspetto più incoraggiante di questo tipo di cura per i pazienti con attacco acuto alle coronarie era il continuo senso di benessere e il morale alto. Questo era particolarmente evidente in coloro
che erano alla loro seconda o terza occlusione. Dicevano
invariabilmente che l’episodio attuale era più facile da
sopportare»1.
era il signore del suo maniero e poteva fare quello che voleva senza l’interferenza del primario. Il personale ubbidiva come nell’esercito. La disciplina non era imposta, ma veniva chiaramente percepita dai giovani professionisti ambiziosi e impazienti di fare carriera. Non si contestavano gli
ordini di Levine, ma ciò non impediva che molti medici riversassero la loro rabbia su di me.
L’idea di trasportare un paziente gravemente malato
su una poltrona era considerata inammissibile, anche se
proveniva da una personalità autorevole. Spesso, quando
Levine voltava le spalle, un interno mi mostrava il pugno
mormorando: «La vedremo più tardi, Lown!». Ma nonostante l’appoggio di Levine, la ricerca di pazienti all’inizio
fu lenta e difficoltosa. Anche se al Brigham in media si ricoverava un paziente con attacco al cuore al giorno, ne
trovavamo a malapena uno alla settimana per la cura in
poltrona.
Ma la terapia in poltrona, anche a un solo paziente, si
rivelò talmente gratificante da guadagnare proseliti e lo
studio si avviò con rapidità. In poco tempo, ero subissato di
chiamate per mettere i pazienti in poltrona. Gli ordini di
Levine non erano più necessari e in cinque mesi ottantuno
pazienti furono curati in questo modo. All’inizio erano
messi in poltrona per mezz’ora e alla fine della prima settimana di ricovero rimanevano seduti quasi tutto il giorno.
Paragonati ai pazienti con rigoroso riposo a letto, i nostri stavano davvero bene. Levine evitava spiegazioni psicologiche, attribuendo i benefici a fattori meccanici. Ricorreva alla stessa linea di ragionamento che giustificava il riposo a letto, ma invertiva le argomentazioni. Secondo lui, la
posizione eretta riduceva il sovraccarico di lavoro del cuore.
Nella posizione eretta riduceva il sovraccarico di lavoro del
cuore. Nella posizione prona, la gravità faceva ristagnare il
sangue nelle parti del corpo dipendenti; con minore volume di sangue da pompare, il cuore lavorava meno. La spiegazione non aveva senso. Come poteva un paziente seduto
per trenta, sessanta minuti al giorno ricevere questo effetto benefico straordinario e durevole, tanto più se il ritmo
cardiaco e la pressione aumentavano stando seduti?
La mia osservazione di molti pazienti con infarto del
miocardio curati sia con rigoroso riposo a letto sia con regime più elastico sulla poltrona suggeriva una spiegazione diversa, che includeva fattori psicologici. Godere di buona salute e un momento dopo essere gravemente ammalati comportava un forte shock psicologico. Sentirsi dire che il male
derivava da un attacco cardiaco implicava pensieri di invalidità e morte. Questa situazione spiacevole era rinforzata
dall’insistenza del medico su un riposo assoluto a letto, con
la proibizione di qualsiasi attività, anche semplici movimenti. Il paziente era lasciato alla mercé di forze che sfuggivano
al suo controllo e l’ansia era accresciuta dal fatto di non sapere quando si sarebbe guariti. L’inquietudine e l’agitazione inevitabili del paziente erano combattuti con forti dosi
di derivati di bromuro e poi di barbiturici. Il dolore era acuto, durava a lungo e rendeva necessaria la somministrazione di narcotici. La combinazione di questi fattori portava a
molte complicazioni, molte delle quali gravissime.
Giacere a letto ventiquattro ore su ventiquattro, oltre
a essere scomodo e innaturale, diminuiva la forza fisica e
minava la determinazione psicologica di guarire. Sin dal
terzo giorno a letto, la depressione era la regola e molti
perdevano interesse alla vita. Invece i pazienti che poteva-
1S.A.
Levine e B. Lown, «Armchair’ Treatment of Acute Coronary
Thrombosis», «Journal of the American Medical Association», 148,
aprile 1952, 1365.
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e provocare ulteriori complicazioni in pazienti che già si
trovano in una situazione così grave? Non era soltanto un
piccolo errore, era un fraintendimento colossale. Perché le
conseguenze deleterie del riposo a letto non erano state
individuate prima? Perché questo aspetto della cura del
paziente non era mai stato analizzato, sia nella sua giustificazione clinica sia nella durata del trattamento? Prima
della nostra pubblicazione, nessuna ricerca sistematica sul
riposo a letto era stata pubblicata sulla letteratura medica.
Adagiarsi di fronte a un procedimento scorretto di solito è
questione di ideologia o di vantaggi economici.
Il dogmatismo medico, in passato come oggi, è dovuto
a una molteplicità di fattori, il più importante dei quali è il
terreno accidentato e incerto su cui si muove il medico.
Ogni paziente è una scoperta. Di fronte alla miriade di variabili, un medico non può mai essere categorico su un risultato. Quello che agisce su un paziente non solo è inefficace per un altro, ma può essere dannoso e perfino letale.
Un medico esperto sa che l’esito non può mai essere previsto, tranne statisticamente su una vasta popolazione di individui a cui il paziente singolo può non appartenere mai.
Ma quando si confronta con il dolore, con le infezioni, con
emorragie, aritmie mortali eccetera, il medico non può rimandare l’azione al momento in cui la conoscenza sarà sicura. Potrebbe aspettare Godot. Paradossalmente gli esseri umani, quando sono spinti ad agire, imparano a giustificare il percorso scelto con una sicurezza che non è confortata dalla profondità delle conoscenze. Come avveniva per
il riposo a letto in caso di infartuati.
Un altro fattore si collega alla necessità di persuadere
il paziente di una scelta terapeutica. Per mantenere il controllo, il medico spesso ricorre al semplice stratagemma di
dipingere la situazione a tinte fosche (vedi capitolo 5). Una
prognosi sfavorevole e un regime terapeutico severo fanno pensare che il medico conosca bene la situazione e sia
confortato dagli ultimi dati scientifici, comunicando così
un senso di sicurezza. Se la diagnosi è pesante, il paziente
e la sua famiglia diventano remissivi e arrendevoli, se invece è favorevole il medico viene subissato di domande. Poiché molte di esse non hanno risposta, le pretese scientifiche del medico vengono smascherate. La tendenza attuale di coinvolgere i pazienti nelle decisioni non ha diminuito il dogmatismo medico, anche se nemmeno i professionisti più rigidi possono rifugiarvisi a lungo.
Quanto ad altre ragioni del riposo assoluto a letto, credo che dipendano dall’impotenza dei medici nel curare le
vittime di infarto. Quando non sono disponibili le buone
risposte, spesso emergono quelle cattive. Le misure terapeutiche erano palliativi e semplicemente reattive: la morfina per il dolore, i diuretici e la digitale per l’insufficienza
cardiaca e alcuni farmaci antiaritmia quando il ritmo cardiaco era anomalo. Non si era assolutamente in grado di ridurre il danno di un’arteria coronarica in trombosi. L’idea,
che fu poi rivoluzionaria, di dissolvere il coagulo ostruente
non apparve all’orizzonte fino all’introduzione della terapia trombolitica all’inizio degli anni Novanta.
La teoria di diminuire il lavoro del cuore non era senza
merito. Pensare che se il cuore utilizza meno energia contrattile il danno al muscolo venga ridotto, era un concetto
valido, ma era una logica perversa credere che il letto fosse il posto più adatto per far riposare il cuore. Non andiamo a letto quando siamo stanchi? Il sonno non ringiovanisce? I medici non ingessano un arto rotto per proteggerlo
Nel gennaio 1951, Levine suggerì che scrivessi una prima stesura di un articolo sulla nostra esperienza, per presentarla al congresso della prestigiosa Association of American Physicians. Il gruppo si riuniva ogni anno a maggio a
Atlantic City. Quando chiesi quanto tempo avevo, Levine
disse che era già giovedì e che avrebbe voluto una bozza
completa per lunedì. Poiché pensavo che mi avrebbe accordato almeno quattro o cinque settimane per questo duro
lavoro, rimasi senza parole. All’epoca, la mia unica esperienza di scrittura era una lotta di due mesi per quell’articolo di quattro pagine sulla digitale e il potassio.
Lavorai per una giornata intera senza dormire. Poiché
non padroneggiavo la dattilografia, scrissi e riscrissi a mano numerose bozze di un articolo di quindici pagine. Come
richiesto, consegnai il manoscritto il lunedì, aspettandomi
aspre critiche e numerose correzioni. Nei giorni seguenti,
poiché Levine non faceva commenti, il mio disagio crebbe.
Pensavo che trovasse il manoscritto orrendo e non volesse
urtare i miei sentimenti. Alla fine, non più in grado di contenermi, chiesi che cosa ne pensasse. Levine rispose con
franchezza che la bozza gli piaceva e che la mandava senza cambiamenti. Ero particolarmente sorpreso che avesse
cambiato poco del capitolo dedicato alla discussione, poiché Levine era convinto che soprattutto i fattori circolatori fossero responsabili dell’effetto salutare della cura, mentre il capitolo dedicato alla discussione sottolineava il ruolo dei fattori psicologici. In ogni caso, l’articolo fu subito
accettato per la presentazione.
Appena arrivammo a Atlantic City, Levine radunò i suoi
colleghi, alcuni dei medici americani più insigni, e preparò
un gruppo di fedelissimi per animare la discussione dopo
la solita esposizione di dieci minuti. Non appena ebbe finito il suo discorso tutti si precipitarono a lodare la qualità
innovativa e la portata storica dell’articolo di Levine, che
avrebbe rivoluzionato la cura dei pazienti colpiti da attacco cardiaco. Nessuno si alzò per contraddire queste pretenziose osservazioni. Una persona seduta al mio fianco, che
non sapeva che avevo collaborato al manoscritto, mi confidò: «Questo nuovo metodo un giorno sarà definito sedia
elettrica, non cura della sedia».
Più tardi mi resi conto che il nostro studio era stato condotto in modo insufficiente, poiché non era stato sottoposto a verifica, era aneddotico e il campione era troppo esiguo per poter giungere a delle conclusioni. Ciononostante
ebbe una grande influenza sulla cura dei pazienti con un
attacco cardiaco. Prima della nostra ricerca, i malati rimanevano ricoverati per un mese e più; pochi anni dopo la
sua pubblicazione, il periodo di ricovero fu ridotto della
metà. La gamma di attività permesse ai pazienti fu allargata e l’auto-cura divenne la norma. L’odiata e pericolosa padella fu abbandonata, camminare venne permesso prima e
la mortalità ospedaliera fu ridotta di un terzo. Considerando il fatto che negli Stati Uniti circa un milione di persone
ogni anno veniva colpito da un attacco al cuore, con questa semplice strategia furono salvate forse centomila vite
ogni anno. La riabilitazione e quindi il ritorno al lavoro furono accelerati e il tempo richiesto per una piena guarigione passò da tre mesi a un mese.
Continuo a essere sconcertato dai modi in cui i medici
giustificano razionalmente trattamenti che non solo non
hanno vantaggi, ma presentano gravi inconvenienti. Perché costringere le vittime di un attacco cardiaco a un rigoroso riposo a letto che potrebbe solo aumentare il disagio
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dalle abitudini e dal discorso ideologico. La sicurezza ottenuta con un sistema di credenze fortemente radicate, anche se scarsamente fondate, ostacola notevolmente il progresso. L’accettazione generale di una pratica diventa la
prova della sua validità, anche se manca di altre fondamentali qualità. Claude Bernard, grande fisiologo francese
del XIX secolo, diceva che il talento dell’innovatore consiste
nel «vedere ciò che tutti hanno visto e pensare quello che
nessuno ha pensato». Ma una volta che un nuovo paradigma si impone, la sua accettazione è straordinariamente rapida e pochi continueranno ad aderire al vecchio metodo.
Schopenhauer disse al proposito che ogni verità passa attraverso tre stadi: prima, è ridicolizzata, poi violentemente ostacolata e infine è accettata come assolutamente evidente.
dai colpi? Questi ragionamenti semplicistici hanno curato
l’ulcera peptica con salassi, raffreddamento dello stomaco
e raggi X, e sono alla base di quantità di altri metodi empirici, ma non dimostrati.
Anche la tradizione anti-psicologica della medicina
scientifica ha ostacolato la scoperta degli effetti dannosi
del riposo a letto prolungato. Intendo la scarsa sensibilità
dei medici per i fattori psicologici e comportamentali e la
misconoscenza dell’effetto delle emozioni sugli organi del
corpo. Ci si inchinava di fronte all’anatomia, alla fisiologia
e alla biochimica, mentre la psichiatria veniva marginalizzata ed era appena tollerata. Le conseguenze negative del
riposo forzato a letto, per lo più emotive, non erano correttamente percepite e venivano ignorate.
Un ultimo fattore era eminentemente economico: più
a lungo un paziente rimaneva in ospedale, maggiore era il
guadagno del medico, ottenuto senza particolare sforzo.
Dopo i primi giorni critici, le condizioni dei pazienti si stabilizzavano e il decorso in genere era uniforme, poiché il
muscolo cardiaco infartuato si cicatrizzava e guariva. Il medico si limitava a fare una breve visita di pochi minuti, fonte di un cospicuo onorario.
Il paziente, costretto a mantenere l’inattività totale,
era in una sorta di ibernazione. Il solo avvenimento atteso,
con disagio e impazienza, era la visita del medico. Mosè
che scendeva dal Monte Sinai non poteva venire accolto
con maggiore deferenza: ogni sillaba era considerata una
rivelazione divina e il riposo a letto era accettato come una
panacea. Durava meno invece il ricovero di un paziente curato in poltrona che ben presto riacquistava le forze. L’ospedale, naturalmente, aveva un legittimo interesse a tenere tutti i letti occupati.
Con mia grande sorpresa, ricevevo inviti a conferenze
su tutti gli argomenti che avevo studiato, con una eccezione: la cura in poltrona per gli infartuati. Anche se l’influenza del nostro lavoro era stata profonda e aveva modificato sostanzialmente il trattamento della trombosi coronarica, sulla letteratura medica la ricerca veniva citata raramente, se non addirittura mai. Eppure aveva salvato un
numero notevole di vite.
Anche se i medici non volevano perdere il controllo dei
guadagni, la motivazione economica non era decisiva, come mi ero reso conto nelle mie numerose visite nell’exUnione Sovietica. I medici e gli ospedali sovietici non avevano assolutamente incentivi economici a prolungare il ricovero di pazienti infartuati, perché il sistema sanitario comunista dava ai medici uno stipendio fisso. Fui quindi stupito di scoprire che, più di vent’anni dopo che la nostra ricerca era stata pubblicata, i pazienti in Unione Sovietica
erano ancora confinati a letto per un mese e più dopo l’infarto. Quando feci domande, mi fu data una risposta ideologica piuttosto che scientifica, cioè che in una società capitalistica basata sullo sfruttamento della classe lavoratrice
era necessario riportare rapidamente i pazienti al lavoro,
qualsiasi fossero le condizioni cliniche. Invece in una società socialista preoccupata dal benessere delle persone, i pazienti erano tenuti a riposo finché l’infarto non era completamente guarito. Non sospettavo affatto che la cura in
poltrona fosse un trucco astuto per favorire il capitalismo!
La lezione più importante che trassi da questa esperienza è che molte pratiche mediche non sono fondate razionalmente. Come succede in altri campi del sapere, sono
sostenute da una sorta di inerzia tenuta in vita dalla moda,
13. Lo shock che cura: corrente continua
e cardioversione
Alla fine degli anni Cinquanta, i medici non erano in grado
di curare la tachicardia, cioè un ritmo cardiaco rapido e sostenuto. Le tachicardie, che possono essere originate sia nei
ventricoli che negli atri, si verificano quando una fonte
elettrica anomala interferisce con il regolatore fisiologico
del ritmo del cuore. Il normale regolatore del ritmo, il nodo
senoatriale, è una piccola struttura a forma di virgola, non
più lunga della punta di una matita, collocata nell’atrio destro. Emette più di 2,5 miliardi di pulsazioni nell’arco di una
vita, con una regolarità da orologio di circa 70 battiti al minuto. Sa inoltre quanto il sangue deve essere pompato e accorda il ritmo cardiaco in conseguenza. In caso di grande
sforzo, il nodo senoatriale raggiunge una velocità di 160
battiti al minuto o più e, quando il sonno dispone il corpo
alla calma, può scendere a 30 battiti al minuto. Per ottenere questo accomodamento preciso, il nodo senoatriale è riccamente innervato e funge da stazione di collegamento nel
flusso di informazioni dal cervello al cuore.
In caso di tachicardia, il ritmo del cuore non è più accordato fisiologicamente alla richiesta di flusso sanguigno da
parte del corpo. Il cuore corre come un’automobile con
l’acceleratore al massimo e la fonte anormale di attività
elettrica lo rende indifferente alle influenze nervose regolatrici. Il ritmo può essere superiore a quello riscontrato
durante l’esercizio fisico più strenuo e rimanervi costantemente. Quando il regolatore di ritmo anormale è situato
nel ventricolo, la conseguente tachicardia ventricolare minaccia la sopravvivenza. Il pericolo deriva in parte dal ritmo troppo rapido, che va da 150 e 280 battiti al minuto,
molto più alto di quello che un cuore normale può sopportare. È anche dovuto al fatto che quando il battito cardiaco è originato fuori dal nodo senoatriale, l’attività elettrica non fluisce lungo il sistema di conduzione normale del
cuore; è invece trasmesso a caso e il muscolo cardiaco è attivato in modo disordinato. L’effetto sono contrazioni del
muscolo cardiaco disorganizzate e ampiamente insufficienti a pompare il sangue. A peggiorare la situazione, c’è
il fatto che la tachicardia ventricolare compare in pazienti
già sofferenti di cardiopatie, di solito disturbi alle coronarie. Questi pazienti tollerano male un ritmo cardiaco disorganizzato; in realtà, pochi sopravvivono abbastanza a lungo per essere ricoverati. La tachicardia ventricolare di solito annuncia una morte improvvisa.
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B Lown - L’arte perduta di guarire
di costituzione delicata, con occhi azzurri vivaci e capelli
biondo cenere. Era sempre allegro anche se, a cinquantacinque anni, aveva già avuto due attacchi di cuore che lo avevano molto debilitato. Circa una volta la settimana aveva
una tachicardia ventricolare, che all’inizio non gli dava difficoltà respiratorie né altri sintomi. Si lamentava soltanto delle palpitazioni, da lui definite «cuore che correva». La tachicardia si verificava sempre di notte, svegliandolo da un sonno profondo. Non ricordava di sognare. Anche il mio sonno
veniva interrotto: molte furono le notti in cui corsi all’ospedale per incontrare un signor C. che si profondeva in scuse.
Imparammo che la somministrazione di Prenestyl in
una massiccia dose endovenosa ristabiliva un normale battito cardiaco, ma era un’operazione delicata. Non appena
si faceva l’iniezione, la pressione scendeva rapidamente.
Poi si combatteva una battaglia tra gli effetti nefasti del
farmaco e quelli che alla fine si rivelavano salutari. I primi
danneggiavano la funzione di pompaggio del cuore e i
polmoni del signor C. erano prossimi alla congestione. Diventava cianotico per insufficiente ossigenazione e il suo
respiro era sempre più rapido e difficile. L’ansia saliva e
aspettavamo con apprensione. Che cosa avrebbe ceduto
per primo, l’aritmia o il cuore? Dopo un’ora di tensioni, il
signor C. tornava a un ritmo cardiaco normale, i segni vitali ricomparivano rapidamente e ritrovava il brio di sempre.
Quando ci salutavamo, prometteva che non avrebbe mai
più disturbato il mio sonno.
Le strette di mano accompagnate dalle scuse più contrite erano inutili, poiché l’episodio si verificava più o meno una volta la settimana. Egli non riusciva a identificare
nessun elemento scatenante, né fisico né emotivo. Invariabilmente, la crisi iniziava dopo mezzanotte. Cominciavo a
considerare questa notte senza sonno settimanale una pena per qualche mia inconfessata colpa medica. Dopo la decima volta, la fatica nervosa cominciò a farsi sentire, ma
non mi aspettavo affatto quello che stava per avvenire.
Alle 2,30 del mattino di martedì 3 novembre 1959 fui
svegliato dalla telefonata di un’infermiera del pronto soccorso del Peter Bent Brigham Hospital: «Il suo amico signor
C. è qui per vederla». Quando arrivai al pronto soccorso,
sembrava stare abbastanza bene. Il suo cuore batteva a 170
battiti al minuto, ritmo che poteva tollerare senza danni
per parecchie ore. Con l’ottimismo assicurato da numerosi
episodi analoghi, dissi al signor C. che presto lo avremmo riportato al suo stato normale. Ma questa volta la solita dose di Pronestyl non fece scomparire la tachicardia, anzi peggiorò il suo stato. Il ritmo cardiaco, invece di diminuire,
giunse a 212 battiti al minuto, mentre la pressione sistolica
raggiungeva 80 ed era difficile da misurare. A questo livello di pressione, soltanto il cuore e il cervello sono sufficientemente irrorati, mentre la circolazione nel resto del corpo
è decisamente insufficiente. Erano evidenti segni di insufficienza cardiaca con congestione polmonare. Il giorno dopo
tentammo il Dilantin senza alcun effetto. Giovedì sembrava più morto che vivo, ma il suo sguardo comunicava fiducia perché non avevo mai fallito con lui. Continuai a mormorare banalità su come avremmo ristabilito un normale
ritmo cardiaco, non avendo in realtà la minima idea di come agire. Cominciavo a sentire brividi di panico.
Alla fine di giovedì, eravamo tutti inebetiti per la mancanza di sonno e il nostro morale era a zero, poiché l’ultima scintilla di speranza si era spenta. Ma il signor C. man-
Le tachicardie originate nelle cavità superiori del cuore, gli atri, sono tollerate molto meglio. La più comune di
tutte le tachicardie, la fibrillazione atriale, affligge circa un
milione di americani. In questa aritmia, l’atrio si scarica a
ritmi estremamente rapidi, che superano i 350 battiti al minuto. Questi ritmi rapidissimi non sono tollerabili dalle camere di pompaggio, i ventricoli, ma per fortuna il rapido
bombardamento di impulsi non può raggiungere i ventricoli senza attraversare uno stretto ponte di tessuto connettivo, il fascio atrioventricolare. Questo stretto passaggio riduce di un terzo gli impulsi. Anche se il ritmo è rapido e irregolare, viene tollerato per mesi, perfino per anni. Una
volta che il ritmo cardiaco è rallentato con farmaci come la
digitale, si può vivere una lunga vita normale e asintomatica, senza che la funzione cardiaca sia alterata.
Lo stesso avviene con un’altra forma di aritmia atriale,
definita flutter, cioè una contrazione rapida del muscolo
cardiaco a livello atriale. All’inizio della mia carriera medica, era impossibile regolare questo ritmo disordinato, insensibile ai pochi farmaci cardiologici allora disponibili.
Non costituiva una minaccia immediata per la vita, i ritmi
cardiaci raggiungevano dai 120 ai 160 al minuto e l’atrio
scaricava due volte più rapidamente. Il flutter atriale poteva essere ben tollerato per brevi periodi, ma se l’aritmia
persisteva per diverse settimane o più, il cuore cominciava
a scompensare. Una volta iniziata la congestione dei polmoni, il decorso inevitabilmente peggiorava.
Questi diversi disturbi del ritmo costituivano un grave
problema per i cardiologi e i fallimenti terapeutici erano
all’ordine del giorno. Alla fine degli anni Cinquanta, per ristabilire un ritmo normale si utilizzavano tre farmaci: la
quinidina, la procainamide (Pronestyl) e la difenilidantoina anticonvulsiva (Dilantin). La quinidina, il principio attivo più importante, preso per via orale era particolarmente
efficace per combattere la fibrillazione atriale, ma era
inefficace per la tachicardia ventricolare e non poteva venire somministrato per endovenosa o intramuscolare. Inoltre, molti pazienti, non tolleravano la quinidina a causa di
forti diarree, febbri alte o riduzione delle piastrine nel sangue. Per la tachicardia ventricolare, il farmaco più efficace
era il Pronestyl. Quando era somministrato per vena, la rapidità dell’effetto provocava una caduta della pressione,
complicazione rischiosa in un cuore già gravemente provato dall’aritmia. Il terzo farmaco, il Dilantin, serviva raramente quando la tachicardia derivava da disturbi alle coronarie, il motivo più comune di questo ritmo disordinato.
Sin dall’inizio della mia carriera mi ero reso conto del
rischio di questi farmaci antiaritmia. Prima del trattamento farmacologico molti pazienti tolleravano la tachicardia
ventricolare, rivelando solo i sintomi minori, alcuni senza sapere nemmeno che il loro ritmo cardiaco non funzionava.
La pressione era buona, anche se il cuore poteva battere fino a 200 battiti al minuto. Ma subito dopo aver assunto il
farmaco antiaritmia, cominciavano a peggiorare, a sentirsi
male e tutto sembrava precipitare. Il decorso peggiorava
continuamente: la pressione diventava impercettibile, si
sviluppava uno stato di collasso circolatorio e la guarigione era rara. Se il farmaco riusciva invece a ristabilire un ritmo cardiaco normale, l’azione di pompaggio riprendeva.
Questa era la situazione della terapia antiaritmia quando per la prima volta incontrai il signor C. Era uno scozzese,
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L’ostacolo successivo era trovare qualcuno disposto ad
anestetizzare un paziente quasi morto. Temendo di perdere tempo prezioso rivolgendomi a semplici assistenti, cercai il dottor Roy Vandam in persona, professore al Dipartimento di Anestesia del Peter Bent Brigham. Sembrava improbabile che volesse associarsi a un’impresa fallimentare.
Dopo aver spiegato il nostro dilemma terapeutico, con un
tono disperato, gli chiesi se poteva mandarci uno dei suoi
giovani collaboratori. Si rifiutò, dicendo che non era un lavoro che avrebbe potuto delegare a un collaboratore e aggiunse che sarebbe venuto subito. Arrivò immediatamente, portando con sé una scatoletta di ossido di nitrato come anestetico e procurandosi la mia eterna riconoscenza.
Quando il signor C. era sul punto di venire anestetizzato, arrivò il direttore sanitario e interruppe l’operazione. Il
signor C. era quasi addormentato e ogni minuto di ritardo
metteva a repentaglio la sua sopravvivenza. Il direttore sanitario mi bombardò di domande: avevo esperienza con i
defibrillatori a corrente alternata? Avevo mai usato la
macchina con pazienti sofferenti di tachicardia ventricolare? Qualcuno al Peter Brigham, a Boston o altrove, aveva
già utilizzato quella tecnica? A ogni domanda la mia risposta fu negativa. Alla fine chiese se mi rendevo conto che,
se il paziente fosse morto, l’ospedale sarebbe stato legalmente perseguibile. Io rimanevo inflessibile e lui insistette
perché chiedessi chiarimenti all’avvocato dell’ospedale. Rifiutai ma, come compromesso, dichiarai sulla cartella del
paziente la mia sola ed esclusiva responsabilità, aggiungendo che l’ospedale era contrario al mio procedimento.
Chiarita questa questione burocratica, il signor C. venne finalmente anestetizzato. Poi applicammo gli elettrodi
a destra e a sinistra sul suo petto e appena il dottor Vandam diede il segnale, tutti si allontanarono dal letto per
permettere di somministrare la scarica elettrica. Per un minuto la punta dell’elettrocardiografo fu come impazzita e
non eravamo in grado di capire se la tachicardia si era fermata. Auscultando poi il cuore del signor C. con un stetoscopio, sentii un bel ritmo lento, forte e regolare. Questi
suoni cardiaci mi diedero un brivido da pelle d’oca, ricordandomi la prima volta che avevo ascoltato, da giovane, la
Quinta Sinfonia di Beethoven.
Il signor C. si svegliò quasi subito, come da una piacevole siesta, con un sorriso angelico sulle sue labbra rosee.
Presto non ebbe più bisogno di ossigeno né di farmaci per
sostenere la circolazione. Era avvenuto un miracolo. Il signor C. guarì rapidamente e il giorno dopo riusciva già a
camminare. Approvai il progetto di vacanza in Florida con
la moglie, senza nemmeno immaginare che presto avrebbe dovuto affrontare il capitolo più crudele della sua saga.
Esattamente tre settimane dopo, un venerdì mattina, la
signora C. telefonò che suo marito aveva di nuovo una tachicardia venricolare ed era ricoverato a Miami. La rassicurai
dicendo che il grande ospedale universitario possedeva sicuramente un defibrillatore a corrente alternata e che avrei
parlato con il suo medico. Spiegai dettagliatamente al primario del servizio di cardiologia la storia recente del paziente e dissi che sarebbe morto se non avesse ricevuto corrente
elettrica per ristabilire il ritmo. Nessuna delle mie argomentazioni fece il minimo effetto e un’amichevole discussione si
trasformò ben presto in un diverbio, poiché il mio interlocutore opponeva un netto rifiuto. Sosteneva che l’uso del defibrillatore a corrente alternata per la tachicardia ventrico-
teneva un briciolo di ottimismo e cercava di rallegrarci.
«Sono sicuro, dottor Lown, che mi tirerà fuori come avete
fatto le altre volte». Questi commenti rendevano la situazione ancora più intollerabile. Mi venne in mente un aforisma di Bertolt Brecht: «Lo ammetto, non ho speranza. I
ciechi parlano di una strada là fuori. Vedo».
Il venerdì mattina il respiro del signor C. era ansimante, la pelle coperta da un leggero strato di sudore freddo,
le labbra cianotiche; si agitava continuamente perché in
cerca di ossigeno. I polmoni erano completamente inondati dalla congestione che non reagiva ai diuretici. Smettemmo di misurargli la pressione e lui smise di confortarci. Dopo ogni parola, aveva un lungo intervallo in cui si dibatteva e annaspava per espirare. Per la prima volta, i suoi occhi
spalancati esprimevano disperazione. Il messaggio era:
«Questa volta non ce l’avete fatta».
Mi tormentavo per l’ennesima volta per escogitare
quello che avremmo potuto fare, ma non riuscivo a trovare nulla. Poi mi ricordai che, soltanto pochi anni prima, il
dottor Paul Zoll, un medico-inventore del vicino Beth Israel
Hospital, aveva provocato una vera e propria rivoluzione
medica provocando uno shock da corrente alternata nel
petto per curare la fibrillazione ventricolare, l’aritmia che
preannunciava la morte subitanea. Il dispositivo attingeva
la corrente che proveniva da una presa elettrica e agiva sul
cuore fino a portarlo a un ritmo normale. Era una conquista straordinaria per le vittime dell’arresto cardiaco. Di fatto erano morte e, anche se la corrente alternata non permetteva la rianimazione di tutti, almeno era esente da
complicazioni. Nessun danno poteva essere inflitto a una
persona morta; ma il mio paziente era ancora vivo e pienamente cosciente.
Poiché non avevo mai visto un defibrillatore a corrente
alternata, non avevo la più pallida idea di come utilizzarlo. Le mie numerose domande avevano bisogno di risposte
immediate: lo shock era doloroso? Era necessaria l’anestesia? C’era un apparecchio con il voltaggio adatto per rallentare la tachicardia ventricolare? Se il primo shock falliva, quanti altri shock supplementari potevano venire somministrati? La scarica elettrica avebbe traumatizzato il cuore o danneggiato il sistema nervoso? Poteva bruciare la
pelle? C’erano rischi per i presenti? Era pericoloso per il paziente ricevere ossigeno? Questa valanga di domande mi
riempiva la testa. Non c’era nessuno a cui potessi rivolgermi al Peter Bent, perché pochi avevano fatto esperienza
con il defibrillatore di Zoll.
Cercai di telefonare allo stesso Zoll, ma il caso volle che
fosse fuori città e non potesse essere raggiunto. Parlai con
uno dei suoi collaboratori che disse che non avevano mai
utilizzato un defibrillatore a corrente alternata con qualcuno con una tachicardia ventricolare. Fino ad allora tutti
coloro che erano stati soggetti al trattamento di Zoll avevano avuto un arresto cardiaco ed erano privi di sensi. Il
collaboratore non poteva darmi nessun consiglio utile e la
mia determinazione vacillò. Ma ritornato al capezzale del
signor C. gettai al vento ogni precauzione. Per prima cosa
mi rivolsi alla signora C., spiegando che avremmo potuto
uccidere suo marito con questa tecnica non ancora collaudata. Poiché aveva sofferto in silenzio al suo fianco per tutto questo tempo, era ben consapevole che aveva raggiunto la fine e che poteva morire da un momento all’altro. Coraggiosamente, ci esortò ad agire.
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B Lown - L’arte perduta di guarire
te il cuore e infine somministrai una scarica elettrica che ristabilì il ritmo normale. Ma questa volta non ci fu una guarigione rapida. Il signor C. rimase in prognosi riservata per
l’insufficienza cardiaca e per una grave infezione; quando
finalmente fu dimesso dopo più di sei settimane, era un
uomo vecchio e sofferente. Non sopravvisse a lungo: la mia
vittoria si era trasformata in una tragedia.
lare non era riportato in letteratura medica. Non teneva affatto in considerazione che la nostra esperienza era troppo
recente per essere stata pubblicata. Aggiunse che nessuno
poteva assicurargli che non avrebbe dovuto subire un’azione legale se qualcosa fosse andato storto.
Chiesi incredulo: «Lascerà morire quest’uomo senza
tentare il metodo che gli ha salvato la vita?».
«Dottore, mi rifiuto di applicare una tecnica nuovissima che non è nemmeno stata documentata».
Fuori di me, pregai la signora C. di prendere il primo
volo per Boston. Dopo due ore, mi telefonò dall’aeroporto
internazionale di Miami in uno stato di grande agitazione.
Nessuna compagnia aerea voleva accettare un paziente
così grave. Erano le 2 del pomeriggio e si avvicinava il
week-end. Il mio comportamento era incosciente. Su mio
suggerimento, un paziente moribondo aveva firmato per
essere dimesso contro il parere dell’ospedale e giaceva senza cure in un affollato aeroporto internazionale. Non sapevo cosa fare. Doveva prendere subito un aereo per Boston. Alle quattro del pomeriggio, non sapendo dove rivolgermi, decisi di fare visita al professore di Medicina dell’aviazione alla Harvard School of Public Health, il dottor Ross
McFarlane. Invece di telefonare, pensai che sarebbe stato
meglio introdurmi senza farmi annunciare dalla segretaria. Lo trovai nel bel mezzo di una riunione con altre due
persone. Senza fare attenzione agli ospiti, gli raccontai la
mia disgraziata vicenda e la grave emergenza medica. Il
professor MacFarlane era rimasto imperturbabile di fronte
all’intrusione: «Lei non potrebbe aver scelto un momento
migliore», disse ridendo. I suoi ospiti che venivano da Washington, D.C., erano importanti ufficiali della Federal
Aviation Authority. Presero il telefono e cominciarono a
chiamare i dirigenti delle diverse compagnie della rotta
Boston-Miami. Infine raggiunsero il direttore della Eastern
Airlines, che accettò l’imbarco del signor C. sul volo di Boston delle 19, che sarebbe arrivato al Logan International
Airport verso le 22,30.
Esultavo, ma verso le 22 il telefono squillò e quando alzai il ricevitore, mi accorsi che era una chiamata interurbana. All’inizio non capivo quello che stavano dicendo, ma
alla fine capii che il comandante delle Eastern Airlines chiamava per dire che al Logan Airport c’era nebbia e il volo
era stato dirottato all’Idlewild di New York. Si chiedeva cosa avrebbe dovuto fare con il passeggero malato. Gli dissi
di contattare un servizio di ambulanze che trasportasse il
signor C. a Boston. All’una, la signora C. era di nuovo in linea, agitatissima. L’ambulanza li aveva portati a Manhattan prima di rendersi conto che il Brigham non era a New
York, ma a Boston. Poiché era un’ambulanza locale non le
era permesso di varcare la periferia della città. Ci volle
un’altra ora prima che il signor C. potesse essere caricato su
un’ambulanza privata. Con la fitta nebbia di quella notte
il viaggio a Boston fu lento. Arrivarono all’ospedale alle otto di sabato mattina.
Eravamo pronti, ma il signor C. era allo stremo, in stato di semi incoscienza, più morto che vivo. Quando gli
shock elettrici furono scaricati lungo il petto, invece di riprendere il ritmo normale, il cuore fu catapultato in una
minacciosa fibrillazione ventricolare. Altre scariche non
ebbero nessuna utilità. Gli aprimmo il petto senza tecnica
sterile. Fu un’esperienza terribile, con molto sangue e
un’indescrivibile confusione. Provai a scuotere direttamen-
Ma perché la scarica aveva provocato una fibrillazione
ventricolare, un’aritmia più grave di quella che volevamo
curare? Una ricerca sulla letteratura si rivelò infruttuosa:
nessun articolo parlava dei possibili effetti nocivi della corrente alternata sul cuore. Il metodo di Zoll era stato sperimentato in tutto il mondo ma nessuno aveva documentato le eventuali conseguenze pericolose della sua utilizzazione.
Consapevole degli effetti potenzialmente negativi della corrente alternata, cominciai a visitare le camere operatorie in cui erano compiute operazioni al cuore. Il cuore
spesso andava in fibrillazione e la corrente alternata era
applicata direttamente per combattere l’aritmia. A volte,
quando erano richiesti shock ripetuti, nella camera operatoria c’era odore di hamburger di muscolo di cuore bruciato. Le operazioni al cuore in cui era necessaria la rianimazione elettrica mietevano molte vittime.
Nessuno si premurava di sottolineare gli affetti nefasti
del defibrillatore a corrente alternata perché l’arresto cardiaco equivaleva alla morte. Se il paziente non ce la faceva, c’erano molte altre ragioni a prescindere dal defibrillatore. I chirurghi, piuttosto disinvolti, mi dicevano che, anche se un defibrillatore a corrente alternata provocava un
danno al cuore, era un prezzo minimo per la sopravvivenza del paziente. Ma se si fosse trattato di curare le aritmie
in pazienti vivi, la tecnica avrebbe dovuto essere priva di
complicazioni. Feci una serie di semplici esperimenti per
verificare la sicurezza della somministrazione di corrente
alternata su un petto integro, come succedeva negli arresti cardiaci. Non avevo fondi e le mie richieste di borse di
studio furono rifiutate, soprattutto perché mancavo di credenziali in campo ingegneristico, ma anche perché l’utilizzazione dell’elettricità per trattare le normali aritmie era
da molti considerata stravagante. Il progetto fu avallato
dal dottor Frederick Stare, il mio primario e professore del
dipartimento di Scienze dell’Alimentazione alla Harvard
School of Public Health, dove avevo un piccolo laboratorio
animale. Mi spinse a continuare e negli anni successivi sottoscrisse tutti i costi della ricerca senza che io mi dovessi
preoccupare delle grosse somme spese.
In molti esperimenti animali, dimostrai senza problemi
che la corrente alternata era dannosa per il cuore. Provocava tutte le anomalie del ritmo catalogate nei manuali,
traumatizzava il muscolo cardiaco, causava una perdita del
potassio nel muscolo e creava ustioni elettriche. Se erano
somministrate troppe scariche, la disfunzione al cuore diventava permanente.
Per motivi teorici di fisiologia, decisi di verificare la corrente continua, ma avevo bisogno di qualcuno con una
esperienza in ingegneria elettrica. Per fortuna, e quasi per
caso, incontrai un giovane e brillante ingegnere elettronico, Baruch Berkowitz, che capì subito il problema e si rivelò utile e inventivo. In un anno di continui esperimenti sugli animali, dimostrammo che una delle numerose forme
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d’onda della corrente continua che avevamo studiato era
efficace nell’arrestare la fibrillazione ventricolare più intrattabile, che non poteva essere modificata dalla corrente alternata. Per verificare i limiti del sistema, raffreddammo il cuore, acidificammo il sangue e riducemmo la pressione dell’ossigeno a una frazione del normale, circostanze che rendevano la reversione quasi impossibile. Anche in
queste difficilissime condizioni la corrente continua ripristinò il ritmo normale. Inoltre non danneggiava il cuore come la corrente alternata. Nel petto integro di animali, anche dopo 200 successive scariche elettriche ad alta energia,
non si verificava nessun danno al cuore. Avevamo quindi
ideato un defibrillatore quasi infallibile. Stavo cercando un
metodo per curare la tachiaritmie e avevo finito per trovare un defibrillatore nuovo e migliorato.
Per la prima volta la fibrillazione ventricolare non provocava più tanti morti. Non solo il defibrillatore a corrente
continua forniva un nuovo approccio per la rianimazione
di pazienti il cui cuore era in arresto, ma ampliava l’orizzonte della cardiochirurgia. Durante un’operazione per inserire un by-pass, il chirurgo ha bisogno di un cuore che
non batte per eseguire un piccolo innesto di vena o di arteria che passi attraverso vasi coronarici ostruiti. Il cuore
viene arrestato inducendo la fibrillazione ventricolare, durante la quale la circolazione agli organi vitali è mantenuta con un apparecchio ossigenatore di pompaggio esterno.
La defibrillazione a corrente continua ha fornito, per la
prima volta, un modo sicuro per restaurare un normale ritmo cardiaco. Il grande progresso nella cardiochirurgia negli ultimi trent’anni non sarebbe stato possibile senza il defibrillatore a corrente continua.
Il primo chirurgo che capì l’importanza di questa scoperta fu il dottor Don Effler, primario di cardiochirurgia alla Cleveland Clinic. Nel 1962, poco dopo l’ideazione del defibrillatore a corrente continua, incontrai Effler a un congresso della Sun Coast Heart Association a Tampa, in Florida, dove eravamo entrambi conferenzieri. Alla fine della
giornata, mentre eravamo seduti al bordo della piscina,
spiegai il mio lavoro sul defibrillatore. Dimostrò scarso interesse e io dimenticai questa conversazione fino a molti mesi dopo, quando Effler comparve nel mio modesto laboratorio nel sottosuolo della Harvard School of Public Health.
Aveva viaggiato tanto con l’unico scopo di imparare l’uso
del nuovo apparecchio e la sua équipe divenne la prima a
utilizzare il defibrillatore a corrente continua. Non è forse
un caso che il chirurgo argentino René Favoloro, che lavorava con Effler alla Cleveland Clinic, abbia fatto il primo intervento di by-pass alle coronarie qualche anno dopo.
Più di vent’anni dopo, Effler mi scrisse una lunga lettera sul defibrillatore a corrente continua e concluse:
Il defibrillatore a corrente continua sostituì quello a
corrente alternata malgrado una forte resistenza da retroguardia da parte dell’inventore di quest’ultima, e in pochi
anni il defibrillatore a corrente continua rimase l’unico in
uso. C’era ancora una domanda: perché non utilizzare il
defibrillatore per aritmie diverse dalla fibrillazione ventricolare? Per poterlo fare avremmo dovuto essere assolutamente certi che la corrente continua con la particolare forma d’onda utilizzata non fosse dannosa per il cuore. Dopo
molti esperimenti sugli animali, mi resi conto che questo
piccolo, insolubile problema rovinava tutto. La forma d’onda sicura a corrente continua in effetti poteva provocare la
fibrillazione ventricolare. Succedeva raramente, forse una
volta su cento, ma quando succedeva era molto pericoloso. Anche se non aveva conseguenza su un cuore che già
soffriva di fibrillazione ventricolare, come nel caso dell’arresto cardiaco, era assolutamente inaccettabile per curare
aritmie meno gravi.
Presto scoprimmo perché succedeva. Ogni volta che il
cuore batte c’è un breve intervallo nel ciclo cardiaco, che è
sensibile alla fibrillazione ventricolare. È vero sia in un cuore normale sia in un cuore malato. L’intervallo si riferice al
periodo ventricolare vulnerabile e avviene all’inizio nel ciclo del cuore, durante l’iscrizione dell’onda T sull’elettrocardiogramma. È un breve intervallo durante il quale il
cuore ricupera dopo la contrazione e ritorna a una fase di
riposo pronto per la prossima scarica elettrica. Il periodo
vulnerabile è estremamente breve, dura da 0,02 a 0,04 secondi: un’impulso elettrico somministrato in tale periodo
innesca un’aritmia potenzialmente fatale. Capimmo questo fenomeno con la sperimentazione, senza sapere che i
fisiologi lo conoscevano da cinquant’anni.
Una volta individuata la causa della fibrillazione ventricolare, fummo in grado di utilizzare il defibrillatore a corrente continua con molta più sicurezza. Utilizzando un
semplice timer elettronico, innescavamo la scarica elettrica
in modo che avvenisse lontano dal periodo vulnerabile del
ciclo cardiaco. Definii questo metodo cardioversione e la
sua introduzione costituì una vera e propria rivoluzione in
cardiologia. Per la prima volta, tutti gli episodi di tachicardia potevano essere affrontati: la fibrillazione atriale, la
tachicardia venricolare, il flutter atriale e molti altri disturbi. La cardioversione incoraggiò la creazione di reparti di
unità coronariche, centri di cura per pazienti colpiti da attacchi vulnerabili alle aritmie. Ancora più gratificante del
miglioramento della terapia cardiologica in generale, era
semplicemente il fatto di assistere al ritrovamento di un
ritmo tranquillo in pazienti stremati da un cuore che batteva all’impazzata. In poche ore potevano dimenticare l’episodio.
Nelle faccende umane, la risoluzione di un problema
invariabilmente ne porta con sé di nuovi. Mentre una volta un cardiologo aveva raramente un paziente con tachicardia ventricolare, ora è un fatto comune. Mentre in passato era difficile che qualcuno sopravvivesse a due o tre attacchi di tachicardia ventricolare, ora ci sono pazienti che
hanno avuto parecchie centinaia di accessi di questo tipo.
Il nuovo campo dell’aritmologia era aperto e consisteva in
tecnologie innovative per la diagnosi e per la cura. Quello
che mi stupiva è con quanta rapidità, quasi improvvisamente, questa tecnica sia stata adottata in tutto il mondo
per diventare ovunque il trattamento standard.
Spunto di questa lettera fu una domanda della mia segretaria,
che mi chiese di definire la «serendipity»1. Le diedi la classica definizione del dizionario, ma poi le parlai del mio viaggio a Tampa,
della mia partecipazione a un congresso medico, della mia piacevole passeggiata al bar vicino alla piscina sorseggiando un drink al
sole e di come alla fine ero giunto al defibrillatore a corrente continua, che ha diminuito sensibilmente il tasso di morbilità e mortalità. Il leggendario principe di Serendipin trova sempre un tesoro
quando cerca qualcos’altro. È una bella storia.
1Fare
piacevolmente e casualmente interessanti scoperte; il termine deriva dal mitico principe di Serendipin (n.d.t.).
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B Lown - L’arte perduta di guarire
brillazione ventricolare, il cuore moriva non perché cessava l’attività, ma al contrario per un sovraccarico di attività
elettrica. Una più approfondita osservazione del cuore in
fibrillazione aveva dimostrato che si trattava di una vera e
propria tempesta, provocata da correnti elettriche che si
scaricavano alla rinfusa, colludendo o cancellandosi l’una
con l’altra, solo per riemergere da chissà dove in un pazzo
disordine. Se questo caos non cessava in pochi minuti, metteva fine alle contrazioni organizzate del cuore e si diceva
che il cuore era in fibrillazione. Una volta che questo avveniva, il paziente moriva in pochi minuti, a meno che non
fosse rianimato da uno shock elettrico.
Come ho osservato prima, la scintilla elettrica responsabile della messa in moto delle contrazioni del cuore di
solito ha origine nel regolatore fisiologico del cuore, il nodo senoatriale (vedi capitolo 13). Dal nodo senoatriale, lo
stimolo attraversa i condotti preesistenti nel cuore, che
permettono un’attivazione sequenziale in modo che il
pompaggio proceda dall’apice verso la base dove sono situate le valvole. Il modello corrispondente di questo ritmo
elettrico continuo genera una pressione sufficiente, che
pompa il sangue attraverso le valvole cardiache verso i
grandi vasi, distribuendo così il flusso in tutto il corpo. La
fibrillazione ventricolare, scompigliando l’attività elettrica, disorganizza anche l’attività meccanica del cuore e interrompe la sua azione di pompaggio.
Una volta innescata la fibrillazione ventricolare, come
ho già sottolineato, il tempo è fondamentale e i secondi
sono preziosi. Se si vuole correggere subito questo disturbo letale del ritmo, il paziente non deve trovarsi lontano
da un defibrillatore a corrente continua. L’unità coronarica era munita non soltanto di defibrillatore, ma anche di
apparecchi ad alta tecnologia elettronica che identificavano il momento esatto in cui si originava l’aritmia potenzialmente letale.
Anche se le innovazioni rivoluzionarie del defibrillatore a corrente continua e la cardioversione erano già utilizzate al Brigham, non riuscii a convincere l’amministrazione
a costituire un’unità coronarica. Cercai di persuadere l’esimio primario di medicina, il dottor George Thorn, ma, anche se approvava l’idea, pensava fosse improbabile che il
consiglio di amministrazione potesse avvallarla, poiché si
progettava di costruire un ospedale completamente nuovo nei prossimi anni e non c’erano quindi fondi per il mio
progetto. Diventavo sempre più impaziente, perché altre
tre unità coronariche erano già state aperte a Miami, Filadelfia e New York.
Era il 1963. Parlai della necessità di un’unità coronarica
con il mio maestro, il dottor Samuel A. Levine, che non faticò a farsi convincere e divenne subito un potente alleato,
stornando l’intero suo fondo di ricerca per il progetto. L’American Optical Company, che era stata la prima a costruire
il defibrillatore a corrente continua e i cardioversori, donò
tutto l’equipaggiamento elettronico necessario. L’ospedale
non poté resistere a un’offerta tanto allettante e alla fine
mise a disposizione lo spazio per un’unità coronarica a quattro letti, la prima nel New England e la quinta nel mondo.
Le altre unità coronariche, prima dell’apertura di quella al Brigham, erano essenzialmente polarizzate sulla rianimazione cardiopolmonare. Lo scopo del monitoraggio era
di intercettare le prime avvisaglie della fibrillazione ventricolare. Uno dei principali strumenti era il monitor collega-
14. Le unità coronariche
La defibrillazione a corrente continua dimostrò ampiamente che la morte improvvisa per cause cardiache era reversibile. Si poteva sopravvivere. Potenzialmente poteva
salvare una vita umana, ma quando i medici del pronto
soccorso raggiungevano un infartuato gli sforzi per la rianimazione spesso si rivelavano vani. Il filo di speranza che
seguiva a un arresto cardiaco durava solo per un breve intervallo, poi si spezzava per sempre. Dopo cinque minuti, il
danno al cervello era irreversibile e il cuore non poteva ritornare a un funzionamento normale.
Per evitare una torre di Babele terminologica, sarebbe
più chiaro se i medici utilizzassero molti termini in modo intercambiabile, anche senza rigore scientifico. Per esempio,
il collasso cardiaco può denotare un periodo di perdita di
conoscenza, una caduta della pressione o un arresto del ritmo cardiaco. L’arresto cardiaco risulta dalla cessazione del
battito cardiaco che, se non ricompare prontamente, porta
a una morte immediata. L’attacco di cuore, sinonimo di infarto del miocardio e di trombosi coronarica, è anch’esso
utilizzato per definire la morte cardiaca subitanea.
Trent’anni fa era comunemente accettato che la morte
improvvisa fosse causata da un attacco cardiaco. Si pensava che l’attacco iniziasse con un trombo o un coagulo che
improvvisamente bloccava una grossa arteria coronarica,
cioè con una trombosi coronarica acuta. Poiché il vaso
ostruito dal trombo non poteva più portare il sangue al
cuore, il segmento del muscolo cardiaco privato del sangue
portatore di ossigeno e di nutrimenti vitali moriva rapidamente e lasciava una cicatrice. Il resto del muscolo cardiaco, con arterie coronariche valide, non era colpito se non
per l’aumentato carico di lavoro: doveva infatti far circolare un normale volume di sangue nel corpo con un muscolo pompante ridotto.
Il vaso coronarico bloccato danneggiava anche il sistema
di conduzione elettrica. Era ancora più pericoloso del danno
al muscolo del cuore. Nella necessità di evitare il tessuto
morto, il flusso di corrente elettrica si disperdeva in gorghi,
che a volte diventavano caotici. In alcuni pazienti si trasformavano in vere e proprie tempeste elettriche che sommergevano tutto il cuore. Il ritmo cardiaco disorganizzato (fibrillazione ventricolare) preannunciava l’arresto cardiaco (vedi
capitolo 13). Per diminuire il ritmo incessante della fibrillazione ventricolare, secondo me sarebbe stato indispensabile
ricoverare subito i pazienti in un’unità speciale di controllo
dotata di un defibrillatore a corrente continua: le loro probabilità di sopravvivenza sarebbero aumentate perché potevano essere rianimati dalla fibrillazione ventricolare.
All’inizio degli anni Sessanta, tentai di incoraggiare l’apertura di quella che sarebbe stata la prima unità coronarica di cure speciali al Peter Bent Brigham Hospital. Seppi
che non era un’idea originale quando il dottor Grey Dimond, allora professore al Dipartimento di Medicina dell’Università del Kansas, venne a farci visita. Mi parlò della
miracolosa impresa compiuta dal dottor Hughes Day, un
medico generico di Bethany, nel Kansas, che aveva già organizzato la prima unità coronarica degli Stati Uniti. Questa scoperta mi spronò a sviluppare l’unità coronarica del
mio ospedale.
Centrale nei miei pensieri era la protezione dei pazienti cardiopatici dalla fibrillazione ventricolare. Durante la fi-
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sentiva un contatto visivo diretto con la sala infermiere,
cioè i pazienti potevano vedere le infermiere e viceversa.
Insistevo sul fatto che un ambiente tranquillo e in penombra era essenziale per percepire l’umore e lo stato d’ansia
dei pazienti. Soltanto quando regnava la calma si poteva
individuare un gemito flebile, il tumulto represso della disperazione.
Le infermiere erano promosse dai loro superiori al livello di personale laureato. Come i medici, portavano con sé
lo stetoscopio. Partecipavano alle visite del mattino e facevano osservazioni sui pazienti, dando preziose informazioni su ciò che non andava, osservazioni che raramente i medici potevano fare da soli. Un interno sovraccarico di lavoro o un assistente che in una rapida visita deve affrontare
un grave problema clinico raramente hanno il tempo di
ascoltare il paziente. Organizzavamo conferenze didattiche per le infermiere e io facevo un’ora alla settimana di
lezione esclusivamente per loro. Era un modo più coinvolgente di svolgere la professione. Regnava l’entusiasmo e il
morale era alto.
In caso di arresto cardiaco le infermiere non dovevano
aspettare i medici, ma iniziavano subito la defibrillazione.
Formate in particolare sulla rianimazione cardiopolmonare, erano più esperte dell’équipe medica. Anche se i medici
conoscevano la tecnica, non avevano tempo di metterla in
pratica. Era un’esperienza estetica osservare un’infermiera
specializzata reagire a un arresto cardiaco. Ho ancora un
senso di ammirazione al ricordo di un’esile infermiera che
mi chiese di visitare un paziente appena ricoverato. Poiché
l’unità era piena, era temporaneamente in attesa nella sala terapie. Mi disse che era un ispettore dei vigili del fuoco
di quarantotto anni che aveva avuto un arresto cardiaco
pochi minuti prima. Quando entrai nella sala, il paziente
non aveva ansia né paura per questo evento quasi catastrofico. Commentò: «Per un pelo non passavo a miglior vita».
Dalla sua storia venni a sapere che, mentre l’infermiera faceva un elettrocardiogramma, lui aveva avuto una fibrillazione ventricolare. Non si era persa d’animo: per prima cosa, si era assicurata che il modello disordinato non
fosse dovuto a un conduttore non collegato, aveva sentito
il polso, innescato il defibrillatore, aspettato dieci secondi
perché accumulasse energia sufficiente, stabilito la scarica
appropriata, applicato il gel conduttivo alle spatole degli
elettrodi, sistemato gli elettrodi e poi rilasciato la corrente. Aveva fatto tutto in ventisette secondi! Sapevo il tempo preciso perché aveva lasciato l’elettrocardiografo in
funzione, per cui potevo accertarmi dell’ora. Quando il paziente si era risvegliato un minuto dopo, lo aveva rassicurato dicendogli che aveva avuto un’aritmia non grave che
non si sarebbe ripresentata. Erano entrambi tranquilli e si
comportavano come se quello che era appena successo fosse semplice routine non degna di spiegazioni. Che straordinaria professionalità medica!
Ma non volevo che ci si concentrasse soprattutto sui pazienti da rianimare. Avrebbe avuto più senso prevenire la
fibrillazione ventricolare invece di compiere atti eroici dopo l’evento. Il vecchio motto secondo cui un’oncia di prevenzione è meglio di una libbra di cura era perfetto. Poiché
la fibrillazione ventricolare era reversibile e i pazienti non
sembravano stare peggio, l’équipe medica considerava innocue le aritmie. Ma lo erano veramente? Cominciai a osservare alcuni pazienti con fibrillazione ventricolare che
to con il paziente, che teneva il ritmo cardiaco sotto continua sorveglianza e faceva suonare un allarme appena era
percepibile un cambiamento. Un gruppo di infermiere adeguatamente formate era sempre pronto a intervenire in caso di arresto cardiaco con tutta una serie di attività ben disciplinate. L’atmosfera era quella di una stazione di pompieri, circondata da una grande zona boschiva in periodo di
siccità e con un piromane che si aggirava nei dintorni.
Ma quando c’era l’allarme, era l’équipe meno preparata che prendeva il comando. Ne seguiva un’attività precipitosa e febbrile, anche se molti erano falsi allarmi dovuti alle stampate dell’elettrocardiogramma. Quando avveniva
un vero arresto cardiaco, lo spazio intorno al paziente era
gremito di infermiere, interni, assistenti, studenti, tecnici e
inservienti. Le voci diventavano acute, piene di eccitazione.
I medici, a differenza delle infermiere, non avevano un piano di azione, ma esercitavano la loro autorità. Poiché l’ignorante ha più tracotanza del saggio, era il più inesperto
a dare ordini. Più bicarbonato; la linea venosa è ostruita; ha
ancora bisogno di venire stimolato; potete auscultare il polso? allontanatevi; il comando è stato dato; dannazione,
perché il defibrillatore non è collegato con la corrente?
Circolava all’epoca questa barzelletta. Un paziente arriva all’unità coronarica con un lieve attacco al cuore. È
spaventato, ansioso, desideroso di sapere l’accaduto. Ma
sono tutti troppo occupati a salvare vite per preoccuparsene. Circondato da una tecnologia che ispira soggezione, il
solo suono che è in grado di udire è il battito amplificato
del suo cuore. Tutto ciò che può vedere è lo schermo dell’oscilloscopio luminescente con gli stessi scarabocchi sempre ripetuti, che egli giustamente interpreta come il suo
battito cardiaco. Viene la sera e teme di sentire il verdetto.
Quando arriva il custode a pulire il pavimento, il paziente
si rivolge a lui per avere informazioni. «Dimmi, ragazzo,
cosa succede?». «Non so, ma posso dirle una cosa. Senti
questo bip, bip, bip? È meglio che lo fai smettere. Se no, ti
prepari delle grane. Entreranno dieci uomini in bianco e ti
conceranno per le feste».
Quando nel gennaio 1965 fu aperta l’unità coronarica
del Brigham, misi fine all’atmosfera da circo che regnava
nelle altre unità coronariche quando avveniva un arresto
cardiaco. L’obiettivo principale era comunque lo stesso: rianimare i pazienti con infarto acuto del miocardio che avevano avuto un arresto cardiaco. Concepiti per le aritmie
ventricolari, i nuovi monitor a oscilloscopio, situati strategicamente, mi davano una vaga idea del futuro. Il paziente veniva inserito nella lista di priorità. Le infermiere, invece di affaccendarsi intorno al letto, temendo di mancare
una pericolosa extrasistole, antecedente a una grave aritmia, si concentravano sulle stampate dell’elettrocardiografo amplificate su grandi schermi televisivi.
L’unità coronarica del Peter Bent Brigham era rivoluzionaria sotto molti aspetti. Era stata costituita con particolare attenzione a diminuire i fattori di stress psicologico;
l’illuminazione, per esempio, quando entrava il personale
era affidata a un reostato in modo che i pazienti non fossero inondati da fasci di luci accecanti. Chi desiderava
ascoltare la radio doveva utilizzare degli auricolari. Poiché
i chirurghi erano invariabilmente massicci, imponenti e minacciosi, c’era un cartello sulla porta: “Chirurghi, non entrate a meno che non dobbiate fare un consulto!” L’unità
era ideata in modo da proteggere la privacy anche se con-
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B Lown - L’arte perduta di guarire
«Che cosa sta spruzzando sul pericardio?».
«Oh, è Xylocaina», il nome commerciale per l’anestetico locale lidocaina.
«Perché?».
«Previene le irregolarità del ritmo cardiaco quando sto
lavorando ai polmoni», spiegò.
La mia unica esperienza di Xylocaina era quella di un
dentista che me l’aveva iniettata nella gengiva per anestesia locale. Non avevo mai incontrato nessuno oltre al dottor Black che vantasse le proprietà antiaritmiche della
Xylocaina. Un controllo della letteratura medica si rivelò
inefficace, ma sapevo che i chirurghi erano famosi per i rimedi casalinghi. Poiché mi aggrappavo a un nonnulla nella mia ricerca di un nuovo farmaco antiaritmia, decisi di
considerare la Xylocaina più da vicino.
Fu una delle numerose occasioni in cui si rivelò estremamente utile avere un laboratorio di sperimentazione
animale affiancato alla mia unità clinica. I problemi che
non potevano essere risolti in clinica venivano analizzati
nelle ricerche sugli animali e le risposte che così ottenevamo potevano essere poi applicate ai malati. Il problema
posto allora era semplice. La lidocaina somministrata per
endovenosa durante un attacco cardiaco avrebbe abolito
l’extrasistole ventricolare?
Ci mettemmo al lavoro con determinazione. Dopo avere occluso la coronaria discendente della zampa anteriore
di un cane, si svilupparono aritmie ventricolari plurime nelle ventiquattr’ore seguenti, che furono refrattarie ai farmaci disponibili. Non appena somministrammo la lidocaina, le
extrasistole ventricolari furono soppresse. Era come se fosse stato girato un rubinetto, che interruppe il flusso delle
aritmie. Era successo in modo tanto improvviso, rapido e totale che rimasi perplesso. Era troppo bello per essere vero.
Pura coincidenza, mi sentivo bofonchiare senza convinzione. Ma i risultati furono confermati dal fatto che quindici,
venti minuti dopo la cessazione della lidocaina, l’aritmia ricomparve; la lidocaina non provocava cadute della pressione e non comprometteva l’attività di pompaggio ventricolare. Ripetemmo l’esperimento dozzine di volte con identici risultati. La mia eccitazione non conosceva limiti.
A volte l’impetuosità è ricompensata. In una settimana
utilizzai la lidocaina con i pazienti senza chiedere il permesso alla Food and Drug Administration, che ne avrebbe
ritardato di anni l’utilizzazione clinica. Mandai un memorandum all’équipe raccomandando di somministrare a tutti i pazienti la lidocaina se al momento dell’ammissione all’unità coronarica avevano presentato extrasistole. In base
all’esperimento sul cane, estrapolai la dose per l’uomo basandomi sul peso. Questo oggi sembra folle, poiché non
c’era motivo di credere che i cani metabolizzassero o espellessero la lidocaina come gli esseri umani. Per fortuna quello che avevamo osservato sui cani si verificò anche nei pazienti. Sono passati molti anni, ma oggi il metodo di utilizzazione della lidocaina a scopi terapeutici rimane essenzialmente lo stesso.
Le settimane che seguirono furono straordinarie. Eravamo in grado di mettere fine alle irregolarità del ritmo
cardiaco con una semplice iniezione di lidocaina e potevamo ripristinare le extrasistole con una semplice diminuizione del flusso endovenoso. Appurammo che la lidocaina era
sicura anche nei pazienti più gravi e in coloro con insufficienze cardiache. Le complicazioni per sovradosaggio da li-
non potevano essere rianimati. Anche se il ritmo normale
era prontamente restaurato, durante la fibrillazione il cuore lavora a tutto spiano, all’impazzata, senza supplemento
di ossigeno e nutrimento poiché la circolazione del sangue
era cessata. Era evidente che anche l’accesso più breve di fibrillazione ventricolare avrebbe peggiorato il danno già
dovuto all’arteria bloccata. Dovevamo spostare l’attenzione dal trattamento dell’arresto cardiaco alla sua prevenzione. Più facile da dire che da fare! Non si poteva curare ogni
vittima di attacco cardiaco per proteggere l’uno su settantacinque che poteva avere una fibrillazione ventricolare.
Come prevedere chi avrebbe sviluppato una fibrillazione?
Non esisteva nessuna informazione che suggerisse una fibrillazione imminente. La volontà di proteggere il paziente
era insufficiente in assenza di farmaci rapidi, sicuri ed efficaci. Quelli disponibili all’epoca agivano lentamente, compromettevano il pompaggio del cuore e provocavano moltissimi effetti collaterali. Era un’impresa scoraggiante.
Anche se avessimo avuto un farmaco miracoloso, come
potevamo essere certi che avrebbe protetto chiunque fosse stato minacciato da fibrillazione ventricolare? Per un
evento che si verificava raramente, come selezionare una
linea di condotta terapeutica definitiva che indicasse un
farmaco anti-aritmia efficace? Il problema era semplificato
dal fatto che nei primi spasmi di un attacco cardiaco, i pazienti avevano battiti sobbalzanti, extrasistole ventricolari.
Ero convinto che questi battiti, per la loro frequenza e il loro tipo, identificavano un cuore instabile dal punto di vista
elettrico ed erano quindi indicatori di suscettibilità alla fibrillazione ventricolare. Il fatto di diminuire o meglio ancora abolire le extrasistole che avvenivano di frequente
avrebbe impedito il verificarsi della gravissima fibrillazione
ventricolare. Queste irregolarità di minore entità avrebbero costituito un obiettivo terapeutico per definire l’uso appropriato dei farmaci. Avremmo somministrato i farmaci
per abolire l’extrasistole e ci saremmo così assicurati contro
il verificarsi della fibrillazione ventricolare.
Con un obiettivo terapeutico adeguato come quello
dell’extrasistole ventricolare, potevamo individuare le caratteristiche di un farmaco ideale. Una condizione essenziale era che il farmaco antiaritmia non compromettesse
ulteriormente un cuore già danneggiato. Il farmaco doveva essere somministrato per vena, assicurando così un’efficacia immediata. Pur esercitando una rapida azione antiaritmia, non doveva danneggiare l’azione di pompaggio
del cuore o modificare la pressione sanguigna. Inoltre doveva essere eliminato rapidamente dal fegato o dai reni in
modo da evitare qualsiasi effetto collaterale. Ma un simile
farmaco non esisteva e nell’improbabile circostanza che le
compagnie farmaceutiche lanciassero un progetto pilota
per scoprire il farmaco ideale, ci sarebbero voluti almeno
dieci anni prima che fosse disponibile. Quello che dovevamo tentare di fare era trovare un farmaco nella farmacopea a nostra disposizione, che avesse un’insospettata azione antiaritmica e le altre proprietà che stavamo cercando.
Mi cimentai con il problema per mesi. Infine si fece strada nella mia mente il ricordo di un episodio che apparentemente non aveva nessun rapporto con il problema. Ero in
una sala operatoria degli anni Cinquanta con un chirurgo
specializzato nel torace, il dottor Harrison Black, che stava
eseguendo una pneumonectomia. Fece qualcosa di diverso
dal solito, aspergendo il cuore con un liquido chiaro.
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Ma non c’è rosa senza spine. Ogni progresso ha i suoi
costi: la medicina diventa sempre più spersonalizzata e la
tecnologia ha la precedenza sugli stessi pazienti. Paradossalmente il mio lavoro di ricerca ha facilitato quello che deploro maggiormente.
docaina cessavano in pochi minuti dopo la cessazione del
farmaco.
Con l’avvento della lidocaina l’obiettivo dell’unità coronarica passò dalla rianimazione dei pazienti in arresto
cardiaco alla prevenzione. Durante il primo anno dell’unità, somministrando la lidocaina a tutti coloro che presentavano extrasistole, non registrammo un solo episodio di
fibrillazione ventricolare su 130 pazienti. Risultati tanto incoraggianti avrebbero potuto farci riflettere sulla necessità di reparti così dispendiosi, ormai diffusi in tutto il paese
con costi di miliardi. Ma ero troppo preso dall’entusiasmo
per preoccuparmi dell’aspetto finanziario e lanciarmi in
analisi sui costi e benefici.
La lidocaina era all’ordine del giorno nei pronto soccorsi, nelle unità di cure intensive e in sala operatoria. Le vendite erano alle stelle. Da anestetico locale per uso dentistico diventò uno dei maggiori farmaci salvavita. Una conseguenza negativa della sua introduzione fu il progressivo
smembramento della nostra équipe di infermiere meravigliose. Erano maestre della rianimazione cardiopolmonare
e le semplici endovenose di lidocaina non stimolavano le
loro capacità. I drammi di un tempo erano solo ricordi, l’unità coronarica diventò tranquilla, almeno in superficie,
Le infermiere si demoralizzarono, ma secondo me il
dramma era dovuto al semplice fatto che non succedeva nulla. I pazienti erano ricoverati senza confusione, senza cicatrici sul cuore o sull’anima. Fantastico! Ma non potevo più riaccendere la scintilla dell’entusiasmo in queste infermiere. Le
mie argomentazioni non avevano più presa. Anche se mi
ascoltavano rispettosamente, rimanevano demoralizzate e
passavano ad altri lavori. Osservare le extrasistole sul monitor captava l’attenzione, la nuova tecnologia era affascinante ed essere in grado di far funzionare le macchine migliorava lo status. La dimensione umana andò persa nel rimpasto.
All’epoca non potevo capirlo, ma eravamo all’inizio di
una nuova era della medicina, in cui l’interesse era destato
dall’applicazione di nuove tecnologie più che dalla cura
dei pazienti. Per questi ultimi, era una situazione completamente nuova, come mi dimostrò la domanda retorica di
un paziente «Che problema è avere un attacco di cuore?
Un sano riposo di una settimana. Non mi dispiacerebbe
averne un altro fra cinque anni».
Lo sviluppo delle unità coronariche ha avuto molte
conseguenze positive. Ha stimolato l’istituzione di unità di
cura intensive per altre discipline mediche e reso centrale
il ruolo delle infermiere. Il continuo monitoraggio delle diverse funzioni cardiovascolari ha migliorato le cure dei malati gravi e la mortalità dei pazienti con infarto del miocardio è diminuita del 50%. Ha stimolato la ricerca su ogni
aspetto dell’attacco cardiaco, confermando che l’evento
scatenante era un coagulo che ostruiva improvvisamente
un’arteria coronaria. Queste conoscenze hanno facilitato
quella che è stata la scoperta più notevole, l’introduzione
della terapia trombolitica per dissolvere il trombo di ostruzione. Tutti questi progressi non sarebbero avvenuti senza
la ricerca possibile con questo tipo di unità. La dissoluzione di un coagulo in un vaso coronarico ha portato la mortalità in seguito a un attacco cardiaco a circa il 6%, una bella differenza se si pensa che trent’anni prima moriva una
persona su tre. Sono convinto che questo notevole abbassamento della mortalità non si sarebbe verificato senza
l’avvento dell’unità coronarica.
15. L’extra-sistole ventricolare:
ritmo cardiaco o segno premonitore?
C’è una morte per cause cardiache ogni novanta secondi.
Negli Stati Uniti, si superano le 400.000 vittime annue, che
eguagliano quelle del cancro. La morte improvvisa, la più
catastrofica di tutte le manifestazioni cardiopatiche, arriva
furtivamente senza essere stata annunciata come un ladro
nella notte. In circa il 25% delle vittime, la morte è il primo
e ultimo indizio di sofferenza cardiaca. Tocca circa il 60%
di tutti coloro che hanno disturbi alle coronarie.
Pare incomprensibile che questa causa primaria di morte nel mondo industrializzato sia stata ampiamente ignorata dalla categoria medica sino all’inizio degli anni Settanta.
La morte è il dato più concreto e più visibile in medicina. Allora come è possibile che il gravissimo problema della morte improvvisa per motivi di cuore non sia stata affrontata
quando se ne conoscevano meno elementi? Credo che questo paradosso si colleghi al modo in cui le idee in campo medico vengono generate, promosse e polarizzate.
Gli interessi di un medico sono scanditi dalla voce dell’accademico e gli interessi degli accademici sono a loro volta indirizzati dalle osservazioni fatte nel loro territorio, l’ospedale universitario. Se non vi giungono pazienti con patologie particolari, i loro problemi passano inosservati. Coloro che muoiono improvvisamente per un attacco di cuore
non arrivano vivi all’ospedale, ma raggiungono soltanto il
suo perimetro esterno, il pronto soccorso. Si tratta di una
deviazione più che di un ricovero, una breve tappa in cui
vengono dichiarati morti prima di essere portati all’obitorio. Questo rapido passaggio non viene registrato nella
mente dell’accademico, non è all’origine di ricerche, non ha
come risultato manoscritti, conferenze, simposi, congressi
eccetera; quindi non ha alcun impatto. Anche le morti che
avvengono fuori dall’ospedale rimangono fuori dal campo
visivo degli accademici. La loro indifferenza verso la morte
per attacco cardiaco ha indotto i clinici a pensare che questo evento fosse il risultato di un attacco cardiaco irreversibile. Imprevedibile e incomprensibile, era una manifestazione divina davanti a cui i medici rimanevano impotenti.
Il cambiamento di questo modello, a cui contribuirono
numerosi fattori, avvenne all’inizio degli anni Sessanta. Influì l’introduzione del defibrillatore a corrente continua,
con cui si potevano somministrare scariche elettriche ai pazienti in fibrillazione ventricolare, restituendo loro una vita normale. Molti di quelli che sopravvivevano non presentavano nessuna modifica elettrocardiografica, né negli enzimi del sangue, che indicasse un infarto del miocardio, o
attacco cardiaco. Questo fatto contestava la credenza dominante secondo cui la morte improvvisa era la conseguenza di un grave attacco di cuore e dimostrava invece
che era provocata da un incidente elettrico reversibile che
portava alla fibrillazione ventricolare.
Un altro fattore del cambiamento ebbe origine alla
Johns Hopkins Medical School di Baltimora. William Kou-
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B Lown - L’arte perduta di guarire
ventricolare, un evento aritmico, era logico chiedersi se ci
sarebbero state aritmie ventricolari prima dell’evento fatale. Se tali episodi avessero permesso di identificare il paziente a rischio, avrebbero manifestato un modello distintivo, si sarebbero presentate abbastanza di frequente da essere riconoscibili e avrebbero anticipato l’arresto cardiaco.
Non potevano le extrasistole ventricolari, ritmi cardiaci
apparentemente banali, essere i segni indicatori della morte subitanea? La semplice esistenza di extrasistole, percepite dai soggetti come battiti a balzo o palpitazioni, è fin
troppo comune per essere significativa. Sin dall’epoca del
medico latino Galeno le extrasistole sono state considerate innocue. Sono spesso provate da coloro che hanno pene
d’amore, invocate dai poeti per descrivere un cuore gravato dalla passione e descritte dagli ipocondriaci come palpitazioni intollerabili. La frequenza delle extrasistole aumenta con l’età. Verso i settant’anni, quasi tutti ne hanno
e di solito non sono accompagnate da altri sintomi. Molti
soggetti hanno frequenti extrasistole per tutta la vita senza avere nessun problema. Queste osservazioni non si accordavano alla mia ipotesi e mi ricordavano un’osservazione di Thomas Henry Huxley: «La tragedia della ricerca
scientifica è che una bella ipotesi può essere annientata da
un brutto fatto»1. La mia teoria che collegava le extrasistole alla morte subitanea era semplicemente una fantasia indimostrabile?
Da quando l’elettrocardiografo era stato introdotto all’inizio del secolo dal fisiologo olandese Willem Einthoven,
i medici sapevano che le extrasistole differiscono una dall’altra sotto molti aspetti. Per esempio, possono essere originate nel ventricolo destro o sinistro, apparire presto o
tardi nel ciclo cardiaco, avvenire singolarmente, a coppie o
in sequenze e scaricarsi episodicamente o punteggiare il
ritmo cardiaco dopo ogni ciclo normale senza cessare.
Lavorando con il defibrillatore e con la cardioversione,
ero colpito dalla difficoltà di provocare una fibrillazione
con scariche elettriche anche in cuori di animali con arterie
coronariche ostruite. Lo stimolo elettrico richiesto era molte volte più potente di quello che poteva generare il cuore, pari a 50.000 volte la scossa necessaria a indurre un’unica extrasistole. Inoltre questo stimolo doveva essere innescato in un intervallo brevissimo situato all’apice dell’onda
T dell’elettrocardiogramma. Questo intervallo, che durava
soltanto venti millesimi di secondo, è il periodo vulnerabile del ciclo cardiaco descritto prima. Durante un minimo intervallo di tempo, lo strettissimo margine che separa continuamente la vita e la morte, a ogni battito cardiaco, ogni
cuore è suscettibile di fibrillazione ventricolare.
Concludemmo che un fattore critico nell’indurre la fibrillazione era il rapporto tra il periodo vulnerabile e una
forte corrente elettrica. Soltanto le extrasistole scaricate
all’inizio del ciclo cardiaco, durante il periodo vulnerabile,
erano pericolose. Anche se queste extrasistole precoci sono comuni e facilmente riconoscibili, il modo in cui generano la forza richiesta a provocare l’attività elettrica caotica osservata nella fibrillazione ventricolare rimaneva sconosciuto.
wenhoven, un professore di ingegneria in pensione che faceva un lavoro di volontario nel reparto di chirurgia, diede
uno strano suggerimento: la compressione manuale ritmica
dell’osso pettorale poteva sostituire l’azione di pompaggio
del cuore. Dimostrò che questa semplice manovra permetteva un adeguato flusso sanguigno agli organi vitali come
pure al cervello e al cuore per intervalli prolungati dopo
l’arresto cardiaco. Fu una scoperta davvero rivoluzionaria.
Dopo l’arresto cardiaco, ci vogliono meno di dieci minuti perché il cervello venga danneggiato in modo irreversibile e anche i pazienti che sono condotti in ospedale con
la massima rapidità arrivano inevitabilmente in uno stato
di morte cerebrale. L’innovazione di Kouwenhoven ha allentato la tirannia del tempo, creando un interludio di tenue sopravvivenza sufficiente a trasportare un paziente
ancora in vita al più vicino ospedale per applicargli un defibrillatore.
Un progetto cittadino, unico nel suo genere, portato
avanti a Seattle, Washington, dal dottor Leonard Cobb e
dai suoi collaboratori dimostrò che il massaggio esterno al
petto iniziato dai presenti era efficace per rianimare le vittime di arresto cardiaco. Con il massaggio al petto e la respirazione bocca a bocca, si riusciva a mantenere il flusso
del sangue agli organi vitali fino all’arrivo dell’ambulanza
che portava il paziente al più vicino ospedale per la defibrillazione. I risultati erano spettacolari: quasi il 30% di
coloro che erano colpiti da un arresto cardiaco potenzialmente fatale guarivano e venivano dimessi vivi dall’ospedale. Tuttavia, altre città non furono in grado di replicare
l’esperienza di Seattle, dove praticamente l’intera cittadina era stata formata, allenata e coinvolta. Inoltre, anche
con una rianimazione immediata, il 70% non sopravviveva all’arresto cardiaco. Era evidente che ridurre l’impressionante numero di morti cardiache richiedeva l’identificazione dei pazienti a rischio e lo sviluppo di misure pratiche di prevenzione. La lidocaina non rappresentava la soluzione, perché era efficace solo se somministrata per endovenosa.
Ricerche approfondite non riuscirono a scoprire gli indizi della morte subitanea. Poiché la maggioranza di coloro che avevano un arresto cardiaco aveva disturbi alle coronarie, gli usuali fattori di rischio coronarici non apportavano ulteriore informazione. I modelli elettrocardiografici
non erano significativi e anche quando un paziente era
stato visitato poco tempo prima dell’attacco non c’erano
sintomi che avrebbero potuto avvertire il medico della catastrofe imminente. Naturalmente era possibile che la
morte improvvisa fosse un caso fortuito, l’espressione di un
processo caotico che sfidava le previsioni, ma io rifiutavo di
accettarlo. Il mio ottimismo era nutrito non da preconcetti ideologici, ma da osservazioni cliniche in unità coronarica. Tra i pazienti ricoverati con un attacco cardiaco, più era
frequente l’extrasistole ventricolare, più il cuore era predisposto ad aritmie letali. La presenza della fibrillazione ventricolare era spesso annunciata da un’abbondanza di extrasistole ventricolari. Valeva anche per le vittime della morte
subitanea? Tra le due condizioni esisteva una differenza significativa. L’arresto cardiaco, a differenza dell’attacco
cardiaco, non era provocato da un’improvvisa occlusione
delle coronarie. L’esperienza con le vittime di attacco cardiaco all’unità coronarica quindi non serviva.
Poiché la morte subitanea proveniva dalla fibrillazione
1Thomas
Henry Huxley, «Biogenesis and Abiogenesis», in «Discourses Biological and Geological: Essay by Thomas Henry Huxley»,
New York, D. Appleton, 1896.
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subitanea. I cardiologi americani ignoravano il problema
soprattutto perché era completamente fuori dal campo
della loro esperienza. Inoltre, anche se fossero stati in grado di identificare tali pazienti, non c’era nulla che potessero fare per loro.
La mia crescente frustrazione portò a una strana idea
ispirata dal pianista van Cliburn. In America era uno sconosciuto finché non vinse il premio Ciaikowsky a Mosca, poi
divenne una star. Il mio non era un desiderio di celebrità
personale; mi proponevo di utilizzare i sovietici come propaganda per mettere a fuoco il problema trascurato della
morte subitanea. Se i sovietici si fossero persuasi che questo
problema meritava priorità nazionale, non avrebbero stimolato l’interesse degli americani? Nell’intensa competizione della guerra fredda che allora imperversava su tutti i
fronti, non sarebbe stato un affronto all’onore americano
permettere ai sovietici un altro primato dopo lo Sputnik?
Nel 1966 ottenni un invito dal dottor Eugene Chazov, un
eminente giovane cardiologo sovietico, per parlare ai medici di Mosca della morte subitanea. La conferenza, con un
pubblico di circa ottocento medici, fu un fiasco completo.
Nessuno sembrava interessato. Mi fu detto senza mezzi termini che «la morte subitanea è un problema americano, un
male del capitalismo dovuto allo stress di una società competitiva». Questo era assurdo perché il disturbo coronarico,
il fattore di maggiore predisposizione per la morte subitanea, era molto frequente in URSS, esattamente come in
America. Le ragioni non erano difficili da individuare: ipertensione diffusa, obesità, fumo, abitazioni affollate, una
dieta ricca di grassi animali, e soprattutto un’eccessiva tensione sociale da cui molti cercavano sollievo nel passatempo nazionale dell’alcoolismo. Mosca mi lasciò sconsolato.
Per quattro anni, fui invitato a tenere, dinanzi a dodici
mila cardiologi, la conferenza Connor, un’importante manifestazione che si teneva al congresso annuale dell’American Heart Association. L’argomento della morte subitanea prese una molteplicità di direzioni: le indagini epidemiologiche, la ricerca innovativa sui farmaci e sui meccanismi antiaritmia e i progressi nel campo dell’elettrofisiologia. Nel 1972, i sovietici, che avevano infine capito che la
morte subitanea era la principale causa di morte nell’URSS,
mi invitarono ad aiutarli ad affrontare il problema.
Negli anni seguenti, studi epidemiologici approfonditi
avevano confermato l’ipotesi dei battiti prematuri ventricolari. Come ricercatori clinici, tuttavia, non potevamo accontentarci di sapere semplicemente chi era predisposto a una
morte improvvisa. L’obiettivo dell’identificazione era proteggere contro la tragedia. Anche se c’erano numerosi farmaci antiaritmia, non era chiaro come usarli in questo caso.
Il dottor Vladimir Velebit, uno specializzando del mio gruppo, fece l’inquietante scoperta che ogni farmaco antiaritmia allora in uso poteva favorire l’aritmia in alcuni pazienti. Cioè, proprio il farmaco che si poteva utilizzare per impedire la morte improvvisa poteva provocare gravi aritmie che
portavano alla morte improvvisa. Non riuscivamo a scoprire
nessun fattore cardiaco distintivo che avrebbe potuto identificare il paziente suscettibile di avere una reazione nefasta
a un farmaco particolare. La reazione di ogni paziente a un
farmaco specifico era imprevedibile. La nostra ricerca portò
a un nuovo approccio definito «verifica approfondita dei
farmaci»: un breve monitoraggio elettrocardiografico e sotto sforzo prima e dopo una cospicua dose orale di un parti-
Come succedeva spesso nella mia vita, inaspettatamente ripensai a osservazioni cliniche dimenticate da lungo
tempo. All’unità coronarica il ritmo cardiaco era ininterrottamente controllato su monitor notte e giorno: spesso era
stato osservato che un paziente, prima di avere un arresto
cardiaco per fibrillazione ventricolare, aveva accessi di due
o tre extrasistole sequenziali o strascichi più lunghi di battiti successivi. Questo fatto mi suscitò interrogativi che si rivelarono decisivi. Gli scoppi di extrasistole abbassavano la
soglia del periodo vulnerabile alla fibrillazione ventricolare? Ogni extrasistole sequenziale aumentava in modo significativo la suscettibilità del periodo vulnerabile poiché
bastava un battito ad attivarlo? E quante extrasistole precoci sequenziali erano necessarie per raggiungere la giunzione critica, se le energie elettriche fisiologiche sono sufficienti a innescare la fibrillazione ventricolare?
Furono di nuovo gli esperimenti sugli animali a fornire
una soluzione all’enigma sull’energia. Quando applicavamo stimoli elettrici ai cuori di cani per generare due extrasistole successive nel periodo vulnerabile, era necessaria
meno energia per provocare una fibrillazione ventricolare
durante la seconda extrasistole. Se tre extrasistole sequenziali si scaricavano nello stesso modo nel periodo vulnerabile, la soglia per la fibrillazione ventricolare era ulteriormente ridotta. Quando erano scaricate quattro extrasistole, la fibrillazione ventricolare era provocata da piccole vibrazioni di energia elettrica. Era una scoperta nella nostra
conoscenza della genesi della fibrillazione ventricolare,
che spiegava come un semplice battito cardiaco potesse essere la base di un’aritmia letale. Il segreto risiedeva nella ripetizione delle extrasistole, ognuna delle quali costituiva
soltanto un piccolo cambiamento nella soglia, ma cumulativamente sufficiente a innescare un’aritmia letale. Spiegava perché la morte subitanea era spesso preceduta da una
molteplicità di extrasistole ventricolari singole o in serie.
Queste osservazioni mi incoraggiarono a trovare un
modo per classificare le extrasistole in base alla facoltà di
provocare la fibrillazione ventricolare. Con il dottor Marshall Wolf, che si specializzava con me alla fine degli anni
Sessanta, misi a punto una classificazione schematica delle
extrasistole ventricolari, riferendomi anche ai battiti ventricolari prematuri. Per confermare che le nostre categorie
fossero significative dal punto di vista clinico, dovemmo
determinare se i pazienti che presentavano extrasistole ripetitive (battiti ventricolari prematuri complessi) erano
maggiormente predisposti alla morte subitanea. Mancavamo di una popolazione sufficiente di pazienti coronarici e
dei fondi per portare avanti un progetto clinico a largo respiro. L’opportunità si presentò tuttavia quando parlai dell’idea a un caro amico, il dottor William Ruberman, che lavorava all’Health Insurance Plan di New York. Aveva a disposizione, per un controllo illimitato, quasi duemila uomini che avevano avuto di recente un attacco di cuore.
In una serie di esperimenti che si rivelarono definitivi,
Ruberman e i suoi collaboratori confermarono il rischio potenziale collegato ai battiti ventricolari prematuri complessi. I pazienti con extrasistole sequenziali precoci che interrompevano il periodo vulnerabile avevano cinque volte
più probabilità di morire dei pazienti coronarici senza battiti ventricolari prematuri. Malgrado questi risultati, nessun ampio programma di ricerca fu definito all’epoca per
identificare più precisamente il paziente a rischio di morte
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B Lown - L’arte perduta di guarire
cuore. Non credo che questo costoso apparecchio sia l’approccio ottimale a un problema di enorme gravità come la
morte improvvisa. Sarebbe certamente preferibile la prevenzione dell’emergenza della fibrillazione ventricolare,
piuttosto che la somministrazione episodica di corrente al
paziente in caso di aritmia, con tutti i conseguenti traumi
psicologici legati alla paura della morte. Possono essere introdotti altri trattamenti, per esempio esaurire il focolaio
elettrico o i tratti che provocano ritmi anormali con frequenze radio o altre forme di energia. La meta della prevenzione della morte improvvisa non è lontana, ma ogni
minuto è prezioso; perdiamo i più insostituibili atout sociali, esseri umani nel pieno della vita.
Alla metà degli anni Settanta, poiché conoscevo sempre meglio l’argomento, potevo ormai parlare apertamente ai miei pazienti della morte subitanea, argomento che
fino ad allora avevo temuto. Dicevo a un paziente con pochi fattori di rischio: «Lei non morirà improvvisamente» e
spiegavo perché. Come è stato detto nel capitolo 6, alleviare la terribile ansia della morte improvvisa, che senza dubbio ossessiona molti pazienti con disturbi alle coronarie,
procura quel senso di benessere che aveva fatto pensare
alla mia segretaria che io dessi marijuana ai pazienti. Non
solo si sentivano meglio, ma stavano meglio, perché il cuore si svuotava di un grave peso psicologico ed era meno
soggetto al superlavoro, come avevano dimostrato molti
dati clinici e sperimentali.
Forse la mia maggiore conquista in quasi cinquant’anni di ricerca clinica è stata quella di rendere la morte improvvisa un legittimo problema scientifico. Non si avverte
più un senso di inutilità. La morte improvvisa non è più un
argomento da evitare nel discorso tra medico e paziente
con disturbi cardiaci. I fattori che vi predispongono sono
stati capiti meglio ed è stata raccolta informazione sufficiente per definire con più precisione chi è ad alto rischio.
La morte improvvisa non evoca più una paura morbosa nei
pazienti con disturbi alle coronarie.
Parlando dei miei cinquant’anni di ricerca, vorrei esprimere chiaramente il mio coinvolgimento costante con la
comunità medica scientifica e le profonde radici che mi legano a essa. Sono convinto che, per una pratica efficace
della medicina, la scienza sia indispensabile come pure la
tecnologia più avanzata. Dalla prospettiva del ricercatore
clinico, sono giunto a capire che la cura senza la scienza è
una pura cortesia piena di buone intenzioni, ma non è medicina. D’altra parte, la scienza senza la cura svuota la medicina del suo carattere taumaturgico e nega il cospicuo
potenziale dell’antica professione. I due aspetti si completano e sono essenziali all’arte medica.
In rapporto al mio tentativo di interessare i cardiologi
sovietici al problema della morte subitanea, vorrei raccontare un aneddoto. Le imprevedibilità paradossali della vita
agirono in modo molto diverso da quello che avevo immaginato. Il mio rapporto con i sovietici, invece di stimolare
l’interesse per la morte improvvisa negli Stati Uniti, ebbe
come risultato la mia amicizia con il dottor Evgeni Chazov,
con cui collaborai per organizzare l’International Phisicians for The Prevention of Nuclear War. Nel 1985, Chazov
ed io fummo onorati nel ricevere il premio Nobel per la pace per l’organizzazione che avevamo fondato il cui scopo
era quello di mobilitare l’opinione pubblica contro la minaccia nucleare.
colare farmaco antiaritmia, controllava sia la reazione positiva sia quella negativa ai farmaci antiaritmia.
Un importante risultato fu raggiunto nel 1982 dal mio
collega dottor Thomas Graboys. I pazienti con gravi disturbi alle coronarie che avevano avuto una grave aritmia presentavano un forte rischio di recidiva. In tali pazienti, osservò Graboys, l’abolizione di battiti ventricolari prematuri ripetitivi e di quelli che avvenivano precocemente nel ciclo cardiaco riducevano l’eventualità di morte improvvisa.
Per abolire questi battiti ventricolari prematuri era necessario selezionare singoli farmaci e associazioni di farmaci.
Eravamo consapevoli che se non si adattava la terapia alle
particolarità di ogni paziente i farmaci antiaritmia potevano fare più male che bene. Tra i pazienti efficacemente
trattati, il tasso annuale di morte improvvisa fu soltanto
del 2,3% paragonato al 43,6% dei pazienti che continuavano ad avere battiti ventricolari prematuri.
Naturalmente questi pazienti avrebbero forse potuto
sopravvivere senza farmaci antiaritmia e la loro predisposizione all’aritmia avrebbe potuto regredire spontaneamente. Per abbordare questo problema, Graboys e i suoi
collaboratori ipotizzarono che se un farmaco proteggeva
contro una grave aritmia, l’interruzione avrebbe provocato un immediato riproporsi di questo stato. Per questa ricerca, scelse un gruppo di pazienti che avevano avuto reazioni negative ai farmaci e desideravano smetterli se questo non avesse messo in pericolo la loro vita. Furono scelti
ventiquattro pazienti che erano stati curati con successo
per una media di trentun mesi. Quando il farmaco fu interrotto, soltanto un paziente fu risparmiato da pericolose
aritmie. Questo risultato avvalorava le nostre due ipotesi:
primo, i pazienti con gravi aritmie ventricolari potevano
essere protetti da una terapia antiaritmia individualizzata;
secondo, la soppressione di sequenze ripetute di battiti
ventricolari prematuri con un farmaco antiaritmia permetteva una protezione a lungo termine.
Malgrado il sostanziale progresso, il tasso di morti improvvise rimaneva invariato. Questo era dovuto alla scarsità di risorse sociali per risolvere il problema della morte improvvisa. Quando la nostra sicurezza nazionale è stata in
pericolo, abbiamo mobilitato un numero senza precedenti di talenti intellettuali e stanziato risorse finanziarie illimitate per il Manhattan Project. Negli ultimi dieci anni,
quattro milioni di americani sono morti per un incidente
elettrico al cuore, che poteva essere previsto, ma non è stato fatto nulla. Mentre la ricerca sull’AIDS ha ottenuto
200.000 dollari l’anno per ogni vittima, durante l’ultimo
decennio il governo degli Stati Uniti ha stanziato solo 25
dollari per ogni vittima della morte cardiaca improvvisa. La
ragione per questi investimenti così sproporzionati è che la
morte improvvisa non costituisce un obiettivo politico,
tranne forse nell’aldilà.
Trovo doloroso pensare a vite perse prematuramente
per un problema risolvibile. Malgrado i numerosi farmaci
disponibili, nessuno agisce in modo definitivo e sicuro. È
necessaria ancora molta ricerca per la somministrazione di
microquantità di principi attivi antiaritmia, non solo all’organo bersaglio ma alla zona responsabile dell’aritmia. Il
defibrillatore-cardioversore impiantabile è un progresso
significativo. Questo apparecchio elettronico funge da costante sentinella del ritmo cardiaco e quando si verifica
un’aritmia, innesca una scarica elettrica direttamente al
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BERNARD LOWN: L’arte perduta di guarire
Bernard Lown: L’arte perduta di guarire
Parte IV
(G Ital Cardiol 2010; 11 (1): 54-85)
Titolo originale
The Lost Art of Healing
© 1997 Garzanti
Editore SpA
Traduzione italiana di
Cristina Spinoglio
pubblicata su licenza di
Garzanti Libri SpA,
Milano.
PROBLEMI INCURABILI
16. Curare gli anziani:
problemi e obiettivi
«La vita protratta è un dolore protratto», ammoniva Samuel Johnson. L’età avanzata è
spesso accompagnata da sempre maggior disagio, con continue interruzioni nel benessere
fisico e nelle funzioni mentali. Ai tempi di
Johnson la professione medica poteva fare
ben poco per attenuare il disagio dell’età o migliorare la qualità della vita. Ma anche oggi,
malgrado i molti progressi scientifici, l’elisir
della giovinezza rimane un sogno irrealizzabile. Molti considerano l’età anziana come
un’afflizione. Secondo Winston Churchill, è
«una pazza sostituzione della vita». Come medico, ho una visione più rosea della vecchiaia.
Le mie prime esperienze mediche mi hanno insegnato che gli anziani cercano disperatamente la loro identità invece di attaccarsi
semplicemente alla sopravvivenza. In molte
parole, riecheggia il lamento di Shylock nel
Mercante di Venezia. Con pochi piccoli cambiamenti, l’appello è attuale: «Sono vecchio.
Un vecchio non ha forse occhi? Non ha forse
mani, organi, dimensioni, sensi, affetti, passioni? Non è nutrito con lo stesso cibo, ferito
con le stesse armi, soggetto allo stesso disagio, curato dagli stessi mezzi, riscaldato e raggelato dalla stessa estate e dallo stesso inverno di un giovane? Se ci pungete, non sanguiniamo? Se ci fate il solletico, non ridiamo? Se
ci avvelenate, non moriamo?».
Quando ero ancora in formazione, vidi un
vecchio che era stato paziente esterno in tutte le cliniche di Boston senza essere soddisfatto. A novant’anni, girovagare per tutta la città non è uno scherzo. Perché continuava a cercare? Anche se appariva molto vecchio, trasmetteva una forte determinazione a comunicare il suo problema. L’uomo che lo accompagnava sembrava un fratello più giovane; in
realtà, era il figlio di settant’anni.
Il disagio era impresso ovunque sul volto
rugoso del vecchio signore. Ogni cosa che
mangiava gli provocava fastidiosi crampi allo
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stomaco. La pena immediata per inghiottire
un boccone di cibo erano dolori durevoli e
tormentosi che lo piegavano in due. Il digiuno
esigeva il suo dazio. Era ridotto a un sacco di
pelle rugosa che pendeva mollemente su un
fragile scheletro. Era stata diagnosticata
un’angina addominale, uno stato provocato
dal restringimento delle arterie che portavano il sangue all’intestino. La digestione richiedeva un flusso sanguigno maggiore di quanto
non sopportassero le sue arterie e l’intestino,
privato di sangue, aveva spasmi dolorosi. Gli
era stato detto che non esistevano cure né sollievo per il suo stato.
Mentre raccontava i suoi problemi, il figlio, che senza dubbio aveva sentito la storia
innumerevoli volte, sembrava annoiato. Interruppe il lamentoso racconto del padre, mormorando: «Papà, cosa ti aspetti alla tua età?
Dopotutto, hai novantacinque anni».
Irritato dal brusco commento del figlio,
sbottai: «Che cosa c’entra l’età con la sofferenza? Naturalmente, io l’aiuterò». Le mie
labbra tacquero in reazione al pallone gonfiato delle mie parole irresponsabili, che in realtà erano semplice bluff. Non avevo la minima
idea di come aiutarlo.
Un grande sorriso di sollievo illuminò il
volto dell’anziano signore: «Almeno, ho trovato il mio dottore. Non dobbiamo cercarne
più».
Si faceva vedere spesso alla mia clinica. Il
fatto di nutrirsi spesso in piccole quantità, pochi bocconi per volta, gli arrecava un modesto
sollievo, il fatto di riposarsi dopo avere mangiato diminuiva il dolore, ma ciò che per lui
era più utile era che qualcuno volesse ascoltarlo. Era stato fatto poco per cambiare la sua
condizione cronica, ma ora camminava più
eretto e non sembrava più depresso.
Parecchi decenni dopo incontrai un altro
uomo della stessa età. Agricoltore del New
Hampshire, dimostrava tutti i suoi novantacinque anni. Rattrappito in posizione fetale, il
signor J. dormiva quasi tutto il giorno. Il suo
ritmo cardiaco era di 30 battiti al minuto per
un blocco del sistema di conduzione del cuore, ma decisi di non applicargli un pace-maker.
Non si lamentava di nulla in particolare e non
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B Lown - L’arte perduta di guarire
La cura delle persone anziane richiede la capacità di immaginare e il desiderio di inventare. Soprattutto, richiede
meno fiducia nei farmaci e più attenzione alla riorganizzazione della vita. Richiede di essere sensibili alle avvisaglie
della depressione. Manifestare interessi non è un antidoto
contro la solitudine, ma ne diminuisce la sofferenza. Tenere
viva la speranza che la vita continua incoraggia il paziente a
perseverare. Porsi degli obiettivi, aspettare gli anniversari, le
lauree dei nipoti, i matrimoni, i bar mitzvah, i battesimi, tutto aiuta il paziente a mantenersi saldamente in vita. Un medico scandaglia tutti questi avvenimenti come un pescatore
di corallo si tuffa in profondità per cercare una perla.
Il medico sviluppa diverse strategie per tenere alto il
morale dei pazienti anziani, come fissare il prossimo appuntamento non troppo lontano, in un futuro che può apparire irraggiungibile, né troppo vicino, il che suggerirebbe una prognosi sfavorevole. Incoraggio anche i pazienti a
raccontarmi qualcosa di piacevole (una buona barzelletta).
Non ci si deve vergognare di accendere una candela di allegria quando tutto sembrava nero né sentirsi in colpa nel
raccontare una piccola bugia che trasmetta una verità più
profonda. Non si dovrebbe esitare ad assicurare a un paziente che la sua vita ha importanza né essere imbarazzati
nel dimostrare affetto. Resistendo alle banalità della medicina fatta di formule, il medico saggio non ha paura di
esercitare l’arte di curare.
Il dottor D. era un medico in pensione iperteso. La sua
principale ragione di vita era curare la moglie affetta dal
morbo di Alzheimer, che aveva ottantotto anni e con cui
aveva avuto una vita d’amore di sessantacinque anni. Non
riconosceva più i suoi figli e lui era per lei infermiere e conduttore della casa. Esile, gentile e garbato, camminava
sempre con un bastone e mi pareva un mistero che fosse in
grado di fare la spesa, di tenere pulita la casa e di lavare la
biancheria. Ma era pieno di allegria, così pieno di gratitudine, che tutti quelli della mia équipe aspettavano la sua
visita semestrale.
Aveva bisogno di incoraggiamenti e di rassicurazioni,
che gli davamo in abbondanza. Aveva perso peso e, come
medico, si preoccupava che fosse qualcosa di maligno. Durante la visita, sembrò più teso quando si pesò.
«Ho perso peso?», chiese con ansia.
«Il suo peso è di 60 chili, invariato rispetto all’ultima visita», mentii. In realtà pesava 59 chili. Il suo volto si illuminò: «Ecco delle buone notizie. Sono molto contento».
Ora nei suoi occhi c’era un lampo luminoso e un sorriso aperto. Alla visita seguente il peso era immutato. Non
avendogli detto la verità, gli avevo risparmiato sei mesi di
tormenti. La verità o la bugia possono essere astrazioni
senza significato. Il medico, quando è motivato da buone
intenzioni e dall’amore per i pazienti, non può mentire,
ma non sempre deve dire l’intera verità.
I miei pazienti più anziani mi hanno insegnato il linguaggio della circospezione e della prudenza. Non desiderano che sia loro ricordata l’età, bombardati come sono
dall’evidenza senza fine del loro degrado fisico. Una paziente, poco prima di raggiungere il suo novantesimo compleanno, andò da un oculista a causa della vista sfocata.
Mentre guardava nei suoi occhi con un oftalmoscopio, il
medico commentò: «La sua retina è in pessimo stato!». Le
chiese la sua età e quando gliela disse, rispose: «In questo
caso, è normale». Mi raccontò come si era sentita a disagio.
aveva bisogno di un ritmo più rapido per dormire lungo la
strada dell’eternità. Molto tempo prima, avevo interiorizzato: «Se nulla è rotto, non aggiustarlo». Ogni tanto, una
giovane donna che pensavo fosse sua nipote si sedeva vicino al letto. Dimostrava circa trentacinque anni ed era molto sollecita. A volte portava con lei suo figlio, che poteva
avere otto anni, un ragazzino tranquillo e malinconico.
Cercai di tenere sveglio il signor J. abbastanza a lungo per
spiegargli che non aveva senso alla sua età l’applicazione
di un pace-maker. In quel momento, entrò la nipote, ma lui
stava di nuovo russando. Lo esortai: «Si svegli. È arrivata
sua nipote con il suo bis-nipotino».
Si svegliò con uno scatto e mi sembrò vivace come non
mai. «Non è il mio bis-nipotino, è mio figlio, Billy». Poi, con
un gesto di perfetta civiltà, «Dottore, ecco mia moglie
Mary».
Dovetti fare un’immediata acrobazia intellettuale per
adattarmi a questa realtà completamente nuova. «Signor
J., abbiamo deciso di metterle un pace-maker nuovo. L’operazione, che è di poco conto, sarà fatta alla fine del pomeriggio».
Dopo che fu applicato il pace-maker, il ritmo cardiaco
del signor J. accelerò e raddoppiò i battiti al minuto. Il torpore del signor J. era finito. Diventò un anziano signore
piuttosto sveglio.
Tra questi due uomini c’era l’ampio fiume dell’esperienza nel mio modo di trattare le persone anziane. Per la maggior parte di loro la morte non arriva improvvisamente;
comporta invece una lunga separazione dal proprio sé e la
diminuzione dell’acutezza dei cinque sensi per comprendere il mondo esterno e rapportarsi a esso. Sentire di meno, in
particolare, è un invariabile accompagnamento dell’età
nell’ambiente urbano. Il pesante assalto dei decibel nelle
nostre orecchie pretende il suo pedaggio. Un medico può
non capire che un paziente si vergogni o non voglia ammettere questa menomazione. Ricordo la mia scrupolosa
spiegazione a una vecchia signora sul modo di prendere le
medicine. Dopo circa dieci minuti, vedendo il suo cenno di
capo che sembrava di consenso, le chiesi di ripetere quello
che avevo detto. Rispose: «Quello che dice sembra interessante, se avessi messo il mio apparecchio acustico, e potrei
ripeterlo. Non ne ho sentito neppure una parola».
Incontro sempre quello che Ronald Blyth Harcout definiva «la sorprendente contraddizione tra una mente viva e
il corpo senescente in cui è imprigionata». Cresciamo senza riconoscerci e imbarazzati dal nostro aspetto. La nostra
semplice presenza sembra richiedere delle scuse.
La maggior parte dei miei pazienti sono nel reparto geriatrico e più del 60% è in pensione. La gente vive più a
lungo e rimane in salute più a lungo. Ippocrate aveva stabilito i cinquantasei anni come età di demarcazione della
senilità. Oggi anche la settima decade della vita è per molti un periodo di piena realizzazione.
Per molte persone, invecchiare è un passaggio temuto,
contraddistinto dall’abbandono e dalla solitudine. Ma per
coloro che sono adeguatamente preparati, può essere affrontato con l’ardore della gioventù e con una perspicacia
che i giovani raramente posseggono. Ho visto non pochi
anziani che, nella loro decima decade, erano ancora creativi e pieni di sogni. Come quella signora novantenne, professoressa d’arte in pensione, che mi confidò: «I sogni sono
molto più vigorosi dei ricordi».
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G Ital Cardiol Vol 11 Gennaio 2010
Sulla solitudine
«Cosa intende?».
«Ha una camera esattamente sotto la mia. Abbiamo in
comune un tubo che porta l’acqua calda». Poi disse, con
una risata: «È il nostro sistema di telegrafo».
«Cosa vi telegrafate l’una all’altra?».
Ogni mattina, disse, chi si svegliava per prima percuoteva il tubo per far sapere che era ancora viva e stava bene. Poi aspettava la risposta dell’altra. Ma ora che la sua
amica era via, chi poteva sapere se la signora S. moriva o
peggio aveva un colpo o cadeva e si rompeva l’anca senza poter raggiungere il telefono? Raccontando le sue pene, era sconsolata e prossima alle lacrime. «Non posso
aspettare fino al ritorno della mia amica. La vita è così incerta».
Poi la vecchia signora S. si rassicurò: «Dottore, faccio un
dramma per niente. Dopo tutto è soltanto andata via per
due settimane». La rassicurai che non sarebbe successo nulla e promisi di telefonarle ogni giorno. Il suo antico ottimismo era ritornato e quanto uscì dallo studio era molto più
sicura di quando era entrata.
Molti dei miei pazienti più anziani sono sopraffatti dalla
solitudine. Quando raggiungono gli ottant’anni, la maggioranza dei loro coetanei è morta. Più avanzano nell’età,
più i loro parenti più giovani si ammalano e muoiono. Pochi vanno a fare una scappata da loro e uscire diviene sempre più difficile a causa dei reumatismi, dell’incontinenza o
della paura, o magari dell’imbarazzo provato nel dimenticare il nome di un amico intimo. Alcuni pazienti si imprigionano nelle proprie case, ma essere soli accelera l’invecchiamento e indebolisce. L’assenza di socializzazione ottunde le facoltà, altera il linguaggio e riempie le ore della
veglia di apprensioni morbose. I più anziani non hanno
paura della morte quanto del lungo atto del morire, della
strada accidentata verso la dissoluzione finale.
Un colpo, un attacco al cuore, un’emorragia, una caduta o una frattura sono invalidanti a ogni età, soprattutto
se si è soli. I racconti e le paure di simili eventi fanno parte
della conversazione quotidiana tra gli anziani. Quante volte ho udito la storia di una vecchia signora che si è ritrovata sul pavimento per giorni dopo essersi provocata una
frattura che la immobilizzava. È quasi sempre una donna,
perché le donne anziane cadono più spesso dei loro coetanei uomini e hanno sette volte più probabilità di procurarsi una frattura all’anca. Questa è la causa più comune di ricoveri per le donne anziane. La catastrofe è amplificata
perché una vita indipendente e autosufficiente è così portata alla fine. Dal 10 al 20% delle donne con frattura all’anca muore a causa delle complicazioni e il 25% viene
portato in una casa di riposo.
Una donna anziana mi ha dimostrato il significato della solitudine e la minaccia della vita solitaria. Benedetta
dall’anomalia genetica di cristallini oculari colorati di rosa,
la signora S. era sempre stata contenta di essere così. Anche a ottantanove anni, la vita per lei era un’avventura. Fui
quindi preso alla sprovvista quando, durante una visita,
apparve spaventata, piena di acciacchi e depressa. Non poteva essere la stessa donna che solo tre mesi prima era sempre ottimista e trovava tutto positivo perfino quando la
giornata era spenta e senza gioia. Le chiesi se una delle sue
poche amiche che rimanevano era morta o se si sentiva trascurata dai figli. Rispose negativamente.
Aveva dolori e disfunzioni dappertutto. Prima non faceva caso alla stitichezza, all’incontinenza o ai reumatismi,
ora questi disagi erano diventati insopportabili. Qualcosa
decisamente non andava. Ma dopo un’indagine dettagliata non riuscivo ancora a localizzare la fonte del suo scontento. Doveva essere un cambiamento della sua vita, ma
quale? Alla mia domanda sui figli, rispose che tutto andava bene. Non voleva ammettere che qualcosa fosse cambiato, ma forse le mie domande erano prive di tatto.
Quando la visita finì, nelle lente parole prima di congedarsi, quel commiato strascicato e senza confini tipico dei vecchi, la signora S. trasse una conclusione che non derivava
dalle premesse. Disse come era fortunata la sua amica O. a
poter andare in vacanza con la sua famiglia nel Michigan.
Le mie orecchie si rizzarono. Perché doveva informarmi
sulla signora O.?
«Dove vive la sua amica?», chiesi innocentemente.
«Oh, vive nel mio palazzo, in una camera esattamente
sotto la mia».
Sull’ipocondria
Sono convinto che la solitudine porta in incubazione l’ipocondria. Inoltre la nostra cultura medicalizza l’età, come se
diventare vecchi fosse una malattia. Nessuna categoria di
persone è così preoccupata delle malattie o così subissata
di mali e invalidità. Questo dolore sordo dietro l’orecchio
destro è segno di un tumore al cervello? Gli intestini irregolari necessitano un’immediata visita dal gastroenterologo? È difficile per tutti, ma soprattutto per i vecchi, non essere spaventati dagli allarmi senza fine trasmessi dai media. Se mangiate questo o quello, vi predisponete al tumore al colon o a un attacco cardiaco. La conversazione tra gli
anziani è costantemente sintonizzata sulle malattie e piena di aneddoti di mali capitati a coloro che hanno ignorato i primi segni di sintomi banali.
I solleciti membri della famiglia aumentano la medicalizzazione dei più anziani. Il senso di colpa che nasce dal
fatto di aver trascurato un genitore è tradotto nella paura
della sua morte. Questo si esprime spesso sollecitando l’attenzione dei medici per i genitori anziani, aumentando la
loro ansia e moltiplicano così le visite non necessarie.
Molte persone anziane si intrappolano volontariamente nel fiorente complesso medico-industriale. Le visite ai
medici, come lo shopping, combattono la solitudine. Per le
persone che non hanno nessun posto in cui andare e che
sono stufe di guardare sempre le solite quattro mura, mettersi in rapporto con l’industria della salute è un modo per
socializzare. Andare da uno specialista all’altro riempie il
tempo, oltre a fornire la gratificazione di avere qualcuno
che ascolta attentamente i propri problemi.
Per me è sconcertante che persone di tutte le età, ma
particolarmente gli anziani, orgogliosi del loro buonsenso,
possano perdere la ragione quando si tratta della loro salute. Alcuni dei pazienti più intelligenti che ho incontrato
sono tra i più ingenui e facili da ingannare, e si fidano dell’ultimo rimedio da ciarlatani come se fosse comunicato
dal Monte Sinai a un Mosé dei nostri giorni.
Oggi quasi tutti sono ossessionati dal colesterolo. Un
paziente mi telefonò d’urgenza perché il suo tasso di cole-
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B Lown - L’arte perduta di guarire
«Un’analisi sul bisbiglio. Cos’è».
«Sì, un’analisi sul bisbiglio».
«Lei intende un test della respirazione, della capacità
vitale; si soffia in un tubo?».
«No, non è così».
«È per il cuore?».
«Sì, si guarda dentro al cuore».
«Intende un ecocardiogramma?», chiesi perplesso.
«Sì, sì, un’eco, un test del bisbiglio!».
L’ecocardiogramma è inestimabile per la diagnosi dei
disturbi valvolari e delle anomalie miocardiche. Perché era
stato fatto su una persona completamente sana? Perché
veniva ripetuto ogni anno? Il costo è di circa 800 dollari, di
cui 500 sono puro guadagno.
Anche il più astuto uomo d’affari non è immune alla
stupidità dell’assalto tecnologico. Il signor N. era stato il signor Wall Street. All’apice della sua carriera, era una persona navigata e quando lo vidi per una visita nella sua elegante tenuta a Long Island parlò con orgoglio delle cure
devote e meticolose del suo medico. Ogni settimana e a
volte ogni giorno, il medico gli faceva personalmente un
elettrocardiogramma. «Il mio medico si preoccupa davvero per me». Mi condusse in una biblioteca interamente dedicata a riporre le sue registrazioni elettrocardiografiche:
ne aveva catalogate molte migliaia, dal pavimento al soffitto. Per fortuna non insistette perché io li esaminassi.
Uno o due elettrocardiogrammi all’anno sarebbero stati
sufficienti per il signor N.
Willard R. Espy, in Almanac of Words at Play, ha colto
alcune delle banali litanie che sostituiscono l’informazione
medica:
sterolo era salito a 220 mg, mentre un mese prima era di
210, una variazione insignificante.
«Ma perché ripete l’analisi una volta al mese?».
«Non fa male e posso permettermelo».
Un altro paziente si focalizzava continuamente sulle
minime fluttuazioni del suo livello di colesterolo. «Non
pensa che dovrei fare attenzione ai fattori a rischio, considerando che mio padre è morto improvvisamente per un
attacco cardiaco a settantaquattro anni?».
La preoccupazione per il colesterolo è comune, ma è
controproducente soprattutto tra gli anziani. La loro dieta
è già compromessa dalla dentatura, dalla stitichezza, dalla
mancanza di appetito e dall’intolleranza a molti cibi. La signora T., che aveva ottant’anni quando la vidi per la prima
volta, era sciupata e fragile. Le chiesi perché aveva perso 8
chili negli ultimi sei mesi, perdita che sopportava male. Rispose che non le restava niente che potesse mangiare: «Il
cardiologo mi raccomanda di non prendere grassi animali
per abbassare il colesterolo, il diabetologo dice di ridurre lo
zucchero, l’internista mi ammonisce di fare attenzione al sale per la ritenzione dei liquidi». Le consigliai di non tenere
conto dei consigli dei medici e di mangiare quello che voleva. In sei mesi ricuperò il peso perduto e il suo spirito vivace.
Un altro paziente anziano si lamentava: «Dottore, non
mi ha chiesto il livello di colesterolo».
«È sopravvissuto fino a novant’anni», gli risposi. «Che
differenza può fare? Ha una dieta sanissima».
Chiese allora con finta serietà: «Che dirò a cena? Mi
sento imbarazzato. Il colesterolo è il principale soggetto di
conversazione e io non ho niente da dire. È peggio che non
sapere il nome del presidente».
Con la variazione del livello del colesterolo che cambia
tra i vari laboratori o anche in uno stesso laboratorio, più
l’analisi è ripetuta, maggiore è la confusione e la preoccupazione sulla sua variabilità. Non è raro che i medici facciano un losco affare sui pazienti con il colesterolo alto. Poiché molti medici misurano il livello di colesterolo nei loro
laboratori privati, l’ansia dei pazienti è ottima per i loro affari. Ma i pazienti non sospettano nulla e sono riconoscenti verso i medici. Uno scienziato in pensione mi disse: «Il
mio medico si preoccupa molto per me. Mi misura il colesterolo una volta al mese».
Se la cultura non esclude l’ingenuità sulla propria salute, la mancanza di istruzione non è necessariamente indice di assenza di buon senso. Una delle mie pazienti più anziane, autodidatta e molto spiritosa, espresse così il suo disgusto per la follia del colesterolo: «Resta poco di cui rallegrarsi. Mangiare non è più una festa. Ogni boccone, se ha
gusto, diventa una colpa». Andò a una pompa di benzina
e l’addetto le chiese: «Signora, che tipo di benzina vuole?». «Il pieno di quella con basso tasso di colesterolo».
Il fatto di indulgere nelle analisi mediche non si limita
al colesterolo. Gli anziani, più inquieti sulle malattie nascoste in qualsiasi nuovo sintomo, sono più sensibili all’assalto
tecnologico di quanto non lo siano i pazienti giovani. Le
analisi costose sono prescritte con inimmaginabile leggerezza. La signora V. era anziana, ma in buona salute per la
sua età e non aveva disturbi cardiaci. Le chiesi a che tipo di
analisi era stata sottoposta all’ospedale locale di Boston.
Cercò di ricordarsi, con uno sguardo assorto sul suo volto grazioso. Poi, con aria trionfante, rispose: «L’analisi annuale sul bisbiglio».
Lo jogging provoca attacchi cardiaci negli anziani e spostamenti dei dischi vertebrali nei giovani; il riposo a letto favorisce i
coaguli... il caffè provoca la gotta; il tè induce la stitichezza; le uova ostruiscono le arterie. Se bevete vino, avrete un cancro alla laringe. Se dormite, e sognate, un sogno eccitante può provocare
un’occlusione alle coronarie. Come sanno i propugnatori del controllo delle nascite, lo sperma emesso durante l’orgasmo è responsabile del cancro alla cervice... La vita può essere pericolosa alla vostra salute!1
Sulla depressione
La depressione che ho osservato nelle persone anziane non
deriva, come afferma William Styron, da «una forte tempesta nel cervello»2. Le parole di Amleto la colgono meglio: «Come mi sembra tedioso, stantio, piatto e inutile
tutto ciò che si può fare in questo mondo». È una forma di
noia verso la vita così sottile che a volte non la si coglie subito. Il sorriso della socievolezza non è scomparso, la maschera che tutti indossano non abbassa gli angoli della
bocca e la conversazione è tenuta con garbo. Non si ammette l’esistenza di nessun cambiamento nel comportamento. Soltanto quando il medico conosce bene il pazien-
1William
R. Espy, An Almanac of Words at Play, New York, C.N. Potter, 1975.
2William Styron, Darkness Visible: A Memoir of Madness, New
York, Viking, 1990 (tr. it. Un’oscurità trasparente, Leonardo, Milano, 1980).
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G Ital Cardiol Vol 11 Gennaio 2010
te percepisce dei mutamenti. Non c’è più alcun motivo di
vanto né desiderio di prodezze. Un senso di indifferenza o
addirittura di disfatta aleggia nello sguardo. La presenza
della moglie è estremamente utile nel confermare queste
osservazioni. Risponde affermativamente: «Sì, Charley è
depresso», poi descrive dettagliatamente numerosi mutamenti somatici e comportamentali.
Il sonno disturbato è spesso il primo segno della depressione. Anche se a volte il paziente dorme troppo o ha
difficoltà ad addormentarsi, è molto più comune prendere
sonno, poi svegliarsi alle tre del mattino, sopraffatti dalla
stanchezza, ma incapaci di dormire. Più si prova, meno si riesce. «La fresca benevolenza delle lenzuola,/che presto levigherà il dolore»3 non viene più percepita. Ci si alza ancora
più stanchi di quando ci si è coricati. Il palato è impastato,
le attività solitamente piacevoli non arrecano gioia. Il sesso assorbe più energia di quanto offra piacere. I nipotini
stancano troppo, le loro espressioni graziose mancano del
solito fascino e il lavoro viene eseguito come una noiosa
routine.
Anche se mi capita di avere pazienti anziani che continuano a godere della vita, sono delle eccezioni. Le vicissitudini dell’esistenza hanno lasciato quasi tutti invalidi nello spirito e malati nell’aspetto e coscienti che la traiettoria
del futuro sta andando verso il basso. Coloro che sono stati creativi e hanno avuto vite piene non sempre sono risparmiati.
Ho sempre aspettato con piacere di vedere il signor E.
Ha un’ottima salute, malgrado vent’anni di angina. A ottantacinque anni, è ancora un artista in piena attività, onorato e vezzeggiato. Anche se l’angina lo coglie mentre legge il giornale del mattino o quando sta per andare a letto,
non lo prende mai mentre sta lavorando.
«Come va?», chiedo. «Prova piacere nel lavoro?».
«È più che un piacere, è la mia vita».
La sua vita è piena, è desiderato e applaudito. Una
donna di più di vent’anni più giovane è innamorata di lui.
Ma lui è pieno di pensieri morbosi e oppresso da un senso
di inutilità. La ragione per cui l’angina compare prima di
coricarsi, dice, è che teme di non risvegliarsi al mattino.
Rimbrottato, risponde che ha ereditato la malinconia
dalla madre. Una volta le aveva consigliato di procurarsi
degli occhiali per leggere. L’ottico, offrendogliene un paio,
le chiese se vedeva bene. Rispose: «Cosa c’è nella vita di
tanto bello che valga la pena vederlo?».
Prima del commiato, rassicuro il signor E. sulla stabilità
delle sue condizioni cardiache e gli dico che se qualcosa
non va può telefonarmi a casa. Sembra a disagio, mortificato, e capisco che è la cosa sbagliata da dire.
«Cosa si aspetta che mi succeda, dottore? C’è qualcosa
che non va?».
Passai molto tempo a rassicurarlo di nuovo, ma quando
varcò la porta, chiese: «Pensa che vivrò fino a stasera?».
«Sono sicuro che sopravviverà almeno fino a domani
mattina», rispondo.
Con una risatina, commentò: «Mi sento già meglio».
La depressione è un problema biologico accentuato
dall’età. È la conseguenza del logorio di una vita di tensio-
ni, che esaurisce gli specifici neurotrasmettitori cerebrali.
Può essere determinata da un disturbo organico, come il
mixedema o il morbo di Addison, che sovraccarica il corpo
di ormone tiroideo o di corticosterone. La depressione altera lo stato corporeo. I ritmi dell’organismo non sono rallentati, ma sovreccitati, con effetti devastanti sul sistema
cardiovascolare. Dati esaurienti indicano che dopo un attacco cardiaco i pazienti depressi recuperano male, hanno
maggior rischio di ricadute e più probabilità di morire improvvisamente.
A meno che i medici non riconoscano questa condizione, la terapia per i vari disturbi diventa inutile. Per fortuna, la neurochimica e la psicofarmacologia hanno permesso di capire molte cose e di scoprire farmaci molto efficaci.
Tuttavia non esistono panacee. I farmaci devono essere individualizzati e adattati nel dosaggio e comunque possono avere effetti collaterali spiacevoli. La disfunzione biochimica non è permanente e una volta guarita la depressione i farmaci devono essere interrotti. Anche se le medicine sono utili, la vita è decisamente migliore senza.
Sul lavoro
Nella società contemporanea, una delle principali cause di
depressione si collega al lavoro o alla sua perdita. Nulla
mette più a dura prova il sistema nervoso o assorbe le
energie che sentirsi svalutati al lavoro o proprio non apprezzare il proprio lavoro. È terribilmente frustrante. La
perdita del lavoro a ogni età è un fattore significativo per
l’aggravarsi dei disturbi cardiaci e nella morte improvvisa.
Anche essere retrocessi a causa dell’età è fisiologicamente
e psicologicamente distruttivo. I casi seguenti riguardano
due pazienti, che anche se in modo diverso, presentano
problemi simili.
Il signor W., di settant’anni, era il vicedirettore di
un’importante società che costruiva mobili. Apparentemente senza sforzo, continuava a lavorare dieci ore al
giorno per sei giorni alla settimana e si vantava di non
avere mai preso una vacanza in quarant’anni. Lavorava
tanto non per necessità, ma perché trovava il lavoro creativo e appagante. Gli affari avevano prosperato grazie alle sue amorevoli cure e il proprietario era un amico che
apprezzava la sua dedizione. Quando il proprietario morì,
fu il figlio a succedergli. Anche lui era in ottimi rapporti
con il signor W., che gli aveva insegnato tutti i trucchi del
mestiere.
Il signor W. era venuto a consultarmi parecchi anni prima del cambiamento di proprietà a causa di un’angina
pectoris, comune indicatore di disturbi alle coronarie. Il dolore al petto era stato prontamente controllato dalle pillole di nitroglicerina che avevo prescritto, che raramente si
rilevarono necessarie. La sua angina si verificava solo quando faceva una rapida passeggiata dopo i pasti, soprattutto
in inverno. Ogni volta che veniva da me, mi parlava del lavoro, che era tutta la sua vita, e raccontava che, dopo la
morte del proprietario, la nuova amministrazione apprezzava il suo contributo. In occasione di una visita in dicembre mi disse che il nuovo presidente gli aveva offerto una
vacanza di un mese in Florida, tutto pagato, come ricompensa dei suoi servizi inestimabili, come pure un regalo natalizio e un inatteso aumento di stipendio.
3Rupert
Brooke, «The Great Lover», in The Collected Poems of Rupert Brooke, New York, Dodd, Mead, 1943.
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B Lown - L’arte perduta di guarire
Anche se l’appuntamento successivo era programmato
in estate, alla fine di febbraio il signor W. venne da me per
un peggioramento dell’angina che si manifestava giornalmente ormai da una settimana, da quando era ritornato
dalla Florida. La vacanza era stata sotto tono e riposante,
trascorsa a giocare a golf e a ramino. «Per essere onesti,
era noioso. Per quanto tempo si può giocare a golf e a carte senza stufarsi?». L’abbronzatura lo rendeva molto più
giovanile di prima, ma mancava qualcosa. Prima di partire
per la Florida era pieno di brio e mi raccontava le sue nuove idee per l’azienda. Ora non c’era più entusiasmo. Qualcosa aveva sgonfiato il suo pallone. Pensava alla pensione,
anche se prima delle vacanze diceva di aver progettato di
lavorare fino a ottant’anni.
Ero preoccupato perché ora l’angina era provocata da
piccoli sforzi. Aveva attacchi soprattutto alla mattina
quando andava al garage. L’angina di solito si verifica nelle prime ore del mattino, ma la passeggiata al garage era
corta e in discesa. Inoltre, quando portava pesanti sacchi di
spazzatura, camminando per una distanza analoga, o
quando faceva esercizio verso sera, non aveva mai avuto
attacchi di angina.
«Va tutto bene al lavoro?», chiesi.
«Oh, certo», rispose troppo in fretta.
«Il suo lavoro è lo stesso?»
«Sì, certo».
«La sua autorità è diminuita?».
«Niente affatto».
Mi pareva di essere un giudice istruttore. Qualcosa era
cambiato, ma cosa? Poiché parlavamo liberamente, alla fine disse che, dopo che era ritornato dalle vacanze, aveva
trovato qualcun altro che occupava il suo ufficio. La sua
scrivania era stata trasportata al piano dove lavoravano gli
altri dirigenti. Il signor W. veniva sempre trattato con rispetto, il suo stipendio era immutato e i suoi consigli erano sempre richiesti e apprezzati. Si sentiva umiliato, abbattuto ed era profondamente ferito, confessò. Aveva perso
qualsiasi interesse per il lavoro. «Dottore, lei riderà. Forse
faccio una montagna per un nonnulla». Stetti zitto. «Avevano davvero bisogno del mio ufficio. Quello che fanno è
bene per l’azienda». Stava razionalizzando.
Così, ogni giorno, quando andava verso la macchina,
era ossessionato dall’ingiustizia della sua retrocessione. Gli
dissi di licenziarsi. Raramente do simili consigli, ma ero
convinto che le persone costrette a confrontarsi di continuo con un’umiliazione contro cui sono impotenti sono
quelle che muoiono di punto in bianco; nel suo caso scendendo in garage la mattina per recarsi al lavoro. Non ero
convinto che il mio consiglio fosse giusto e non lo forzai a
seguirlo. Continuò a lavorare e poco dopo ebbe un grave
attacco cardiaco che lo obbligò ad andare in pensione.
Ho incontrato un problema analogo con Y., un professore di matematica in pensione che avevo visto per circa
sette anni per una leggera forma di angina. Di solito era
esuberante, con un sorriso aperto, ma un giorno sembrò
chiuso in se stesso. Quando gli chiesi come era trascorso
l’anno, esitò e rispose: «Abbastanza bene». Quando gli
chiesi perché soltanto abbastanza bene, mi rispose che
aveva avuto problemi al tendine giocando a tennis. Qualcosa nella risposta suonava falso. Parlammo del suo lavoro, che gli piaceva moltissimo. Anche se il signor Y. era in
pensione, l’università gli forniva un ufficio, un aiuto di segretariato e riconoscimenti vari. Poi aggiunse: «Certo che
porto via un bello spazio». Il modo in cui lo disse mi fece
vibrare le antenne. Senza dubbio la mia esperienza con il
signor W. mi aveva reso sensibile all’importanza di mantenere un ufficio dove portare avanti il lavoro della propria
vita. Perdere questo spazio equivaleva a perdere la propria identità.
«E se il preside di facoltà ha bisogno dello spazio per
qualche giovane e promettente matematico?» indagai.
«Lei sa che le istituzioni hanno pochi riguardi verso il personale in pensione, qualsiasi siano i meriti».
Un’ombra di dispiacere attraversò il suo volto e disse
con esitazione: «Non so cosa farei se mi togliessero il mio
ufficio».
«La preoccupa?».
«Non proprio».
«Ma cosa farebbe se le chiedessero di andarsene?».
«Non ne sono sicuro. Avrei ben poco da fare. Finora sono stati ottimi con me».
Parlai allora più in generale della difficoltà di portare
avanti il proprio lavoro e del bisogno di prepararsi e fare
progetti in modo che la perdita di un ufficio non significhi
una perdita di scopo. Gli parlai del peggioramento dell’angina del signor W. dopo che aveva perso il suo ufficio.
Con qualche esitazione, il professore confessò che era
tormentato dall’incertezza. Ogni volta si aspettava che il
preside di facoltà gli chiedesse di lasciare l’ufficio. Gli chiesi: «Perché aspettare? Perché non prepararsi?».
Appariva confuso, come se lo stessi incoraggiando a
confrontarsi con un’inevitabile calamità naturale.
«Inizi a lavorare a casa un giorno alla settimana».
«Ma ho bisogno della biblioteca».
«Quanto dista dall’università?».
«Dieci minuti a piedi».
«Come matematico, probabilmente può lavorare e fare ricerca ovunque».
«Sì, certo. Naturalmente, è solo una breve passeggiata», mi rassicurò.
Capì lentamente che non gli stavo suggerendo di smettere il suo lavoro di matematico, ma di cambiare stile di vita. Parlammo ancora e io sottolineai che, se lavorava in casa sin da ora, il preside di facoltà avrebbe rappresentato
una minaccia minore e non sarebbe più sembrato onnipotente. In realtà il signor Y. voleva essere liberato dalla minaccia e avere quindi maggiore potere su se stesso. Lo
esortai a pensare al problema in questi termini.
Prese una rapida decisione. «Sembra una buona idea, la
proverò», disse. Poi aggiunse: «Riprendo a giocare a tennis».
Il collegamento all’inizio mi sfuggì. Poi capii che quando qualcuno è depresso, se pensa a una retrocessione sociale e alla conseguente inutilità, non ha nessun motivo
per tenersi fisicamente in forma. Nulla importa più. Con
l’affermazione che poteva mantenere la propria professionalità malgrado uno spostamento istituzionale, aveva
buone ragioni per affrontare nuove sfide.
Quando lo vidi l’anno dopo, il professore era di nuovo
pimpante e allegro. Il suo ufficio era stato assegnato a
qualcun altro, ma lui si era organizzato un ottimo studio a
casa sua e andare a piedi in biblioteca gli dava ulteriore
energia. Non aveva più né preoccupazioni né angina.
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G Ital Cardiol Vol 11 Gennaio 2010
Avevo imparato molto di più. Avevo capito che, senza
la memoria immediata, gli esseri umani funzionano veramente male. La depressione, così comune tra gli anziani,
può essere il risultato della frustrazione continua di cercare bastoni e altri oggetti quotidiani.
Sulla smemoratezza
Bruce Bliven, una volta direttore di «The New Republic»,
descrisse alcuni dei malanni dell’età.
Viviamo con le regole degli anziani. Se lo spazzolino è bagnato, devi lavarti i denti... Se indossi una scarpa nera e una marrone,
forse ce n’è un paio simile nell’armadio. Barcollo quando cammino, e i ragazzini mi seguono, e scommettono in che modo camminerò la prossima volta. Questo mi esaspera. I bambini non devono
giocare d’azzardo4.
Sul sesso
Fino a non molto tempo fa, evitavo tutte le domande sul
sesso ai pazienti di più di sessantacinque anni. Anche
quando diventai un medico esperto, ero riluttante a parlare dell’argomento con le donne anziane. Lentamente la
soglia dell’età si è alzata. Ora ne parlo anche con i pazienti di ottant’anni e più. Ciononostante, dopo più di quarant’anni di professione, sono ancora condizionato dai tabù
della nostra società. Il sesso di solito è associato alla gioventù. La società guarda senza troppo entusiasmo al sesso tra persone anziane, considerandolo ridicolo, sporco e
perfino perverso. Più la persona è anziana, più l’atto appare fuori luogo. Il concetto popolare del «vecchio sporcaccione» non aiuta il medico ad affrontare i problemi sessuali.
La sparizione della capacità sessuale nella vita ubbidisce a una legge biologica? Nell’Enrico IV, Shakespeare si
pone la stessa domanda: «Non è strano che il desiderio resti vivo per tanti anni?». La risposta è ambigua.
Abbandonai il pregiudizio che il sesso fosse destinato
alle persone giovani e valide all’inizio della mia carriera. Il
paziente, il signor S., aveva ottantasei anni, era curvo e
chiaramente provato dal peso degli anni. La signora S.
sembrava ancora più vecchia, il suo viso era come un’antica pergamena rugosa. Aveva le fattezze di una tinozza e
non si muoveva con grazia, ma ondeggiava da un lato all’altro come una matrioska russa.
Il signor S. venne a consultarmi per occasionali svenimenti, che potei constatare proprio nel mio studio. Misi lo
stetoscopio sul suo petto e sentii un battito, ma il successivo seguì solo dopo un lungo intervallo. Lo guardai con ansia ed egli mi guardò fisso. Il suo ritmo cardiaco era di soli
28 battiti al minuto. Era sorprendente, poiché il suo solo
disturbo erano temporanei svenimenti. Non prendeva medicine che potessero rallentare il ritmo cardiaco e io non
capivo il blocco, tranne per un deterioramento indotto
dall’età nel sistema di conduzione del cuore. Raccomandai
l’inserimento immediato di un pace-maker ventricolare.
Malgrado le mie suppliche marito e moglie rifiutarono
categoricamente. «Ho vissuto tutta la mia vita senza aggeggi e morirò senza». Certamente aveva ragione sull’ultima conclusione, ma le mie preghiere e le mie spiegazioni
non ebbero alcuna utilità e fui incapace a convincere la signora S. quando le parlai in privato. Erano assolutamente
contrari.
Quando stavano per andarsene, la donna diede un colpetto al marito. «Chiedi al dottore, chiedi al dottore, non
essere timido». Non avevo la più pallida idea di cosa volessero finché la signora S. sbottò. «Va bene per lui avere rapporti sessuali, considerando le condizioni del cuore?». Ero
troppo sorpreso per rispondere, ma feci un cenno affermativo pieno di ammirazione.
L’età di un paziente non giustifica il medico a proibire
il sesso o qualsiasi altra attività. È meglio definire i principi
Pochi aspetti dell’età sono inquietanti come la perdita
della memoria. I nomi propri sono spesso i primi ad andarsene, ma nulla è sacro. Un vecchio libertino, ora avanti negli anni, quando gli chiesero in un’intervista di parlare della sua attività sessuale, rispose con una barzelletta: «Due
uomini, uno vecchio, l’altro giovane, camminano per strada. Il giovane si gira ogni volta che passa una donna. Il vecchio riflette: “Ricordo che lo facevo anch’io, ma non ricordo perché”».
L’importanza della perdita della memoria mi è balzata
agli occhi visitando il signor B., che era stato uno dei più
prestigiosi avvocati di Boston. Una memoria favolosa, la
capacità di individuare subito i particolari, un’intelligenza
acuta e una grande padronanza del diritto erano i segreti
del suo successo. Per un quarto di secolo quest’uomo amabile e cortese era stato mio paziente. Ora aveva circa ottantacinque anni, si era abbassato di tre pollici, l’udito era
affievolito e la vista indebolita. Gli capitava spesso di cadere, anche se camminava ancora velocemente, inclinandosi
appena in avanti e guardandosi intorno per non inciampare. Si era fratturato l’anca e numerose costole, ma non
cambiava le proprie abitudini. Come molte persone anziane, il suo comportamento non doveva essere limitato dalle costrizioni fisiche. Ci vollero molti mesi per persuaderlo
a prendere un bastone.
A un appuntamento, quando andammo nella sala visite, era preoccupato di dimenticare il bastone. Per assicurarsi che non sarebbe successo, lo appesi all’apparecchiatura elettrica. Non potevamo attraversare la stanza senza inciamparci dentro. Dopo la visita, tornammo al mio studio e
chiacchierammo per dieci minuti. Quando ci salutammo,
chiese: «Dov’è il mio bastone?».
Nessun problema, lo rassicurai e cercammo nel mio studio, persino sotto la scrivania. Non era neppure nella sala
visite e cercammo di nuovo in ogni angolo del mio ufficio.
Infine, gli chiesi di rifare il cammino con me. Lentamente
percorremmo insieme la breve distanza tra le due camere.
«Sono venuto dalla sala visite allo studio», disse, con la
voce tremante.
«Dove è andato ancora?».
«Da nessuna parte. Sono venuto direttamente nel suo
studio».
«È andato in bagno?».
«Sì, sono andato in bagno».
Attaccato all’appendiasciugamani, ecco il suo bastone.
Il signor B. sogghignò: «Adesso ha capito cosa faccio
tutto il giorno: cerco questo maledetto bastone!».
4Bruce Bliven, in Lewis Thomas, The Fragile Species, New York,
Scribner’s, 1992, 74.
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B Lown - L’arte perduta di guarire
generali della terapia e lasciare che sia il paziente a limitare se stesso.
Alcuni anni più tardi stavo curando la signora D. per fibrillazione atriale parossistica. A ottantadue anni manteneva ampie tracce della sua antica bellezza. Viveva in Texas, ma non si fidava dei dottori di laggiù, perché non erano riusciti a mettere sotto controllo la sua aritmia. Avevo
prescritto dell’amiodarone, poi un nuovo farmaco antiaritmia che era molto efficace e che l’aveva liberata dagli attacchi, anche se lo prendeva solo due volte la settimana.
Quando un nuovo accesso di debolezza respiratoria le provocava un senso di soffocamento, mi telefonava.
Il senso di soffocamento era molto inquietante, perché
una delle gravi complicazioni dell’amiodarone è un disturbo polmonare che può provocare mancanza di respiro.
Non ero sicuro che una pillola supplementare di amiodarone e un Valium le avrebbe dato sollievo. I sintomi svanivano in pochi minuti, molto prima che il farmaco potesse venire assorbito.
Dopo parecchie settimane e molte telefonate, le dissi
di venire a Boston, Durante l’anamnesi, parlò in modo
oscuro, poi suggerì che gli uomini anziani come suo marito dovevano trovarsi altre donne. «Non lo sopporto più.
Mio marito ha ottantotto anni. Il suo istinto sessuale diventa più vitale con il passare del tempo e io sono incapace di
soddisfarlo. Anche se raggiungo l’orgasmo rapidamente,
non la smette e mi soffoca. Non so cosa fare, dottore». Cominciò a piangere, poi continuò: «Poiché non riesco a soddisfarlo, diventa irascibile e dice che sono una puttana,
una nevrotica e peggio».
La conversazione si rivelò rassicurante. Le dissi di andare da un esperto in problemi di coppia.
«Alla nostra età chiedere consigli sul sesso!». Scoppiò a
ridere.
Questa è una nuova svolta nel dramma sessuale tragico-comico che contraddistingue la condizione umana. Ricordo alcuni versi di Thomas Campion, un musicista, poeta
e medico della fine del XVI secolo:
bilmente tinta di tristezza. La perdita è profondamente
sentita e raramente espressa sinceramente. I medici evitano l’argomento, sentendosi impotenti su una situazione
che attribuiscono all’inesorabilità dell’età. Ma un ascolto
empatico può ancora rivelarsi terapeutico. Se gli dei fossero stati più caritatevoli, avrebbero permesso una rinnovata attività ormonale alla fine della vita. Avrebbero reso
possibile non solo di accarezzare i ricordi di amore con parole poetiche, ma di abbracciare il proprio partner con
passione ancora fremente. In assenza di questa ristrutturazione divina della biologia della vecchiaia, si cercano dei
sostituti.
Sulle storie d’amore
I miei pazienti mi sollevano il morale con il modo in cui affrontano le involuzioni della vecchiaia. La signora E.G., ottantacinque anni, aveva sottili capelli bianchi che, come
nuvole in corsa, esponevano uno scalpo luminescente. I
suoi occhi azzurri luminosi e vivaci erano incastonati in vortici di rughe finissime. Era rapida e simile a un uccellino,
ciarliera ma piena di grazia. Da dietro poteva ancora essere scambiata per quella che era un tempo, una giovane
donna civettuola che va all’appuntamento con il suo ragazzo. Quando parlava di Peter, suo marito di sessantatré
anni, diventava effervescente come un’adolescente che
racconta le meraviglie del primo amore. Non stava più bene, era afflitto da un grave enfisema e da flebiti, aveva
un’andatura malferma ed era relegato a casa per tutti i
mesi invernali perché la minima esposizione al freddo gli
provocava una polmonite.
Quando la visitai, disse che quello che deplorava dell’età era il lento decadimento. Si affrettò ad aggiungere che
bisognava accettarlo con spirito. Era fiera del suo peso, che
era esattamente quello del giorno del suo matrimonio.
Aveva richiesto l’aderenza a una rigida dieta per un anno
durante il quale aveva perso 12 chili. Tuttavia aveva raggiunto questa snella figura a prezzo di una pelle floscia e
rilasciata.
La signora G. ricordava: «Mia madre diceva sempre:
“Hai i tuoi bambini cara, ma alla fine lasceranno il nido e
troveranno il loro. Allora avrai solo tuo marito. Con lui hai
tutta una vita. Se lo perdi, rimani con niente, cara. Anche
lui ha bisogno di te. È un ruolo molto appagante”». Non
rimpiangeva affatto il suo ruolo e teneva il moderno femminismo in poco conto. Le chiesi della sua vita sociale. Rise. «Naturalmente ho molti amici. Ma mi faccio uno scrupolo di essere sempre a casa alle 2 del pomeriggio in caso
Peter desiderasse tornare prima dal lavoro. Sarebbe triste
per lui non trovarmi a casa. Non me lo perdonerei mai».
Quando andai a visitare il marito, la prima domanda
fu: «Come sta la mia ragazza? L’ha già visitata? Sta bene?».
Quando lo rassicurai che stava bene, mi disse che la sua salute lo preoccupava più della propria. «Qualsiasi altra cosa
è banale». Quando ritornarono insieme nel mio studio dopo la visita, si abbracciarono come se avessero dovuto sopportare una lunga separazione. «Oh, amore, siamo stati
lontani troppo tempo», si dissero l’un l’altra, tubando come giovani amanti e guardandosi con un’intensità che sfidava l’età. Questo gesto si ripeteva a ogni visita annuale
per il quarto di secolo in cui sono stato il loro medico.
Se sei giovane e io sono vecchio
Se sei calda e il mio cuore è freddo
Se la gioventù è fresca e l’età è secca,
La brace vive quando la fiamma muore.
Contrariamente al caso della signora D, la mia osservazione suggerisce che la sessualità di una donna spesso sembra durare più a lungo di quella di un uomo. Per sessualità, intendo la capacità di concentrarsi sulla totalità dell’atto amoroso invece che semplicemente sulla componente
genitale, capacità più femminile che maschile. La sessualità tra le persone anziane è costituita più dal ricordo che
dalla passione e le donne fanno tesoro dei propri ricordi.
Anche se aveva novant’anni, la signora N. amava un
uomo che aveva la metà dei suoi anni e lui la amava. Non
erano mai andati a letto insieme, perché pensava che
avrebbe rovinato il loro amore. Ma mi disse che una cosa
che le mancava con l’età era non fare più l’amore. «È più
difficile vivere senza». Si svegliava spesso con un senso
schiacciante di piacere alimentato dai ricordi erotici, ma la
vista dei suoi seni cascanti e della sua pelle rugosa la riempiva di vergogna e di repulsione.
Il medico è testimone di un ampio panorama della
condizione umana. La sessualità nella vecchiaia è invaria-
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G Ital Cardiol Vol 11 Gennaio 2010
Durante la sua visita, il signor G. aveva commentato:
«Sa, dottore, anche se siamo stati sposati per più di sessant’anni, mi piace ancora guardare Edith e la guardo per
ore, è così bella». Quando se ne andarono alla fine del pomeriggio, mi sentivo rincuorato e pronto ad affrontare un
altro duro giorno di lavoro. Anch’io camminavo sulle nuvole.
Ma questo tipo di rapporto è raro. L’età di solito attenua il romanticismo. Troppo spesso con un paziente anziano il medico affronta una sofferenza incurabile e un problema insolubile. Secondo me, nel curare le persone anziane, bisogna porre rimedio a una condizione che non può
essere curata e educare i pazienti a vivere pienamente malgrado le limitazioni imposte dall’età e dalla malattia.
Convalescente per molti malanni, tra cui polmonite, insufficienza cardiaca congestiva, angina pectoris, aritmia e
una dolorosa infezione a un ginocchio, il signor M., di novantadue anni, stava in ospedale come un piccolo cherubino avvizzito con capelli di seta bianca, guance rosee, una
bianca barba trascurata, una papalina sulla testa pelata,
basette ricciute. Senza dentiera, biascicava le parole in un
sibilo acuto. Dopo un po’ mi abituai alla sua voce e cominciai a capire quello che diceva. Il mio sguardo era fisso sui
suoi vivaci e profondi occhi marroni.
«I medici dicono che i risultati sono negativi, ma il paziente è positivo», disse assaporando le proprie parole come testimonianza che tutto funzionava perfettamente.
Continuò: «L’altro giorno, nell’atrio del palazzo in cui vivo,
una giovane donna mi ha buttato le braccia al collo e ha
tentato di baciarmi. Le ho detto: “Signora, lasci perdere,
sono allergico ai tulipani”».
Si vantava che molte donne lo corteggiavano. «Il portinaio continua a chiedermi: “Perché vive solo con tutte queste donne che lo corteggiano?” Gli dico che una donna che
vuole sposare un rudere come me sta diventando pazza.
Vuole che io mi accolli una moglie pazza? Questo lo zittisce fino al giorno dopo».
Quando stavo per lasciare il suo capezzale, chiese:
«Dottore, vivrò un mese?».
«Perché solo un mese?».
«Voglio essere vivo per andare al matrimonio della mia
bisnipotina. E dopo, troverò un’altra ragione». Non aveva
affatto paura di morire, ma gli premevano ancora troppe
cose per andarsene proprio allora. Ricordava il significato
di un vecchio proverbio ebraico: «Un uomo vuole vivere se
solo soddisfa la sua curiosità».
Il giorno dopo, durante le visite, raccontò che un cardiologo gli aveva detto che il suo cuore si era allargato.
«Perché è sorprendente, dottore? Per più di cinquant’anni
mi hanno detto che avevo un grande cuore».
Un altro paziente che ammiravo per il suo senso dell’umorismo era il signor T.N. Poco prima del suo novantatreesimo compleanno, sedeva immobile su una sedia a rotelle,
con gli occhi chiusi come se fosse immerso in pensieri profondi o in un leggero torpore. Aveva avuto una congestione polmonare e c’era liquido alla base del polmone destro.
Gli dissi che aveva bisogno del diuretico Lasix per asciugare l’eccesso di liquido. La risposta istantanea fu: «Preferisco
semi di pissss-tacchio», con le prime sillabe sottolineate in
un soffio sibilante.
A novantadue anni, il signor N. andava ancora a lavorare e trovava spunti ironici nella commedia umana di ogni
giorno. Aveva smesso di guidare pochi mesi prima, dopo
avere tamponato quattro automobili mentre tentava di
parcheggiare la macchina di sua moglie. Si lamentava che
quando prendeva diuretici perdeva il controllo e gocciolava talmente che inzuppava mutande e pantaloni, formando una pozza ai suoi piedi. Scherzai suggerendogli di indossare pantaloncini corti, e rispose: «Soltanto la mia ombra entra nei pantaloncini corti».
Un giorno arrivò senza essersi rasato spiegando che
l’appuntamento con me l’aveva obbligato a disdire il barbiere, che vedeva due volte la settimana, il mercoledì e il
sabato. Quando prescrissi il Lasix, suggerii di prenderlo il
martedì, il giovedì e la domenica.
Sul senso dell’umorismo
Nella nostra cultura ossessionata dalla giovinezza, la vecchiaia è considerata come il triste epilogo della vita. I vecchi, quando non sono ignorati, sono oggetto di ironia e di
banalizzazioni. Hanno poco da insegnare che si adatti ai
nostri tempi frenetici. Io ho imparato il contrario. Le persone che hanno raggiunto un’età veneranda con facoltà intatte sono di solito fonte di conoscenze e di insegnamenti
profondi. Aspetto con impazienza le visite di molti miei
vecchi pazienti e sto a lungo al loro capezzale quando sono in ospedale. Quello che mi colpisce è che, a differenza
dei pazienti giovani che sono ancora coinvolti nella lotta
della vita, i vecchi prendono più tempo per riflettere. Fanno osservazioni acute e ottimamente mirate e contemplano la caducità della vita con distacco e ironia.
Il senso dell’umorismo è fondamentale per rendere
più appagante l’avanzare dell’età. Un uomo di affari in
pensione di ottantasei anni riepilogava divertito il suo stato: «Le mie figlie sono molto sollecite, ma mi sfiniscono
con le loro preoccupazioni: “Papà, non devi mangiare salato, non devi uscire perché puoi scivolare sul ghiaccio e
romperti l’anca o prendere freddo e ammalarti di polmonite”. Il cibo è insipido senza sale. Non posso giocare a
golf per l’artrosi all’anca. Il mio intestino non funziona
senza Metamucil, Colace e l’aiuto di una supposta. Niente
alcol o carne rossa a causa della gotta. Nessuno con cui socializzare perché i miei amici sono tutti morti. Il sesso è
troppo pericoloso a causa dell’AIDS. Cosa mi resta? Potrei
pure essere morto».
Avevo seguito la signora C. per più di dieci anni. Sapevo che aveva ottantasei anni, ma quando le chiesi l’età insistette di averne cinquantanove. Mi ricordò un aneddoto
riportato dall’impresario teatrale Harold Clurman. «Un
giornalista intervista Sarah Adler, la decana del teatro
ebraico, che ha quasi novant’anni. “Signora Adler”, iniziò,
“non intendo imbarazzarla, ma vuole dirmi la sua età?”.
Senza batter ciglio, rispose: “Sessantotto”. “Ma signora
Adler”, riprese il giornalista, “come può essere? Ho chiesto
a suo figlio Jack quanti anni avesse e mi ha detto di averne sessanta”. “Bene”, rispose lei senza esitazione. “Lui vive la sua vita e io vivo la mia”»5.
5Harold Clurman, All People Are Famous, New York, Harcourt
Brace Jovanovich, 1974, 197.
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B Lown - L’arte perduta di guarire
Decise comunque di rischiare. Quando venne il momento dell’esame della vista, ascoltò attentamente una
donna davanti a lei e memorizzò la serie di numeri che leggeva all’esaminatore. Quando fu il suo turno, mise il mento nell’apposito appoggio, guardò attraverso un apparecchio binoculare e non vide nient’altro che un’immagine
confusa. Aspettò un minuto, cercando di mettere a fuoco,
ma senza risultati. Bisbigliò la sequenza che aveva appena
sentito. L’esaminatore disse: «Più forte, per piacere» e la signora Betty ripeté le lettere più forte. L’esaminatore sorrise: «La sua vista è buona al novanta per cento». E la signora Betty ebbe la sua nuova patente. Scoppiò a ridere quando mi raccontò come aveva ingannato un sistema che secondo lei penalizzava le persone anziane. Non guidò più,
poiché capiva bene il pericolo che rappresentava per gli altri, ma quel gesto di sfida le aveva permesso di non perdere il suo senso di indipendenza.
Sua moglie obiettò: «È più facile ricordare lunedì, mercoledì e sabato». Poi soprappensiero, aggiunse che Tom
spesso rifiutava di prendere il Lasix.
Insistetti sul mio programma.
«Ma perché?», chiese incredula.
Risposi: «Perché deve andare sulla sedia del barbiere».
Tom sbottò in un riso aperto. «D’ora in poi prenderò
questo dannato Lasix».
Il suo senso dell’umorismo non lo lasciò neppure alla fine. Gli chiesi se poteva ancora fare esercizi di ginnastica.
Rispose di sì. Quando gli chiesi quali, rispose: «Girare le
palle dei miei occhi».
«Com’è il suo udito?».
«Molto rovinato».
«A che livello?».
«Non riesco a sentire quando cade una banconota da
un dollaro, ma non ho problemi se è un biglietto da dieci».
Quando lo rassicurai che avremmo alleviato i dolori insopportabili del suo cancro alle ossa, si rizzò a sedere; gli
occhi non erano più semichiusi e divenne più vivo e allegro. «Dottore, devo farle una domanda importante». I suoi
occhi erano pieni di malizia. «Ora che sono stazionario,
posso riprendere ad andare a cavallo?».
Anche se cerco di essere obiettivo, sono attratto dai pazienti anziani che non si lamentano sempre, che muoiono
vivendo piuttosto di vivere morendo. Il signor X., quando
lo incontrai per la prima volta, aveva quasi ottant’anni. Era
solido e ben piantato e una grossa testa di riccioli bianchi
gli dava l’aria di un ragazzo. Questo aspetto giovanile era
accentuato dagli occhi blu-verdi ridenti, che emanavano
fascino e gentilezza. Parlava come un bostoniano autentico, era straordinariamente colto e un osservatore perspicace delle debolezze umane. Commerciava mobili all’ingrosso più come mezzo per incontrare gente che per guadagnarsi da vivere. Rideva gioiosamente quando raccontava
una barzelletta e ne aveva una per ogni stagione e anche
fuori stagione.
«Conosce questa? Un vecchio signore va da un otorinolaringoiatra lamentandosi per il mal d’orecchi. Lo specialista dice: “Non c’è da stupirsi, ha una supposta nell’orecchio”. “Grazie al cielo”, risponde il paziente, “adesso so
dove ho messo l’apparecchio acustico”».
Alcuni anni dopo il signor X., a ottantacinque anni, fu
portato in ospedale in ambulanza. Aveva un’anca fratturata e mormorava tra sé: «Questa è la fine, è davvero la fine!».
«La fine di cosa?», chiesi.
«Della mia vita sessuale».
«Cosa intende dire?».
«Definitivamente, per sempre».
«Cosa è successo?».
«Stavamo facendo l’amore e sono caduto dal letto. Ecco. Un uomo deve capire quando finisce una relazione».
I vecchi imparano come barcamenarsi e come circoscrivere le limitazioni che l’età e la società impongono loro.
Betty S. aveva la vista molto deteriorata, ma desiderava
guidare la sua BMW intorno all’isolato: le dava l’impressione di mantenere il controllo. Avrebbe presto compiuto novant’anni e aveva paura di andare alla motorizzazione per
rinnovare la patente, sapendo che le avrebbero fatto un
esame della vista, che era certa di non passare. Poteva a
mala pena vedere il segnale di stop all’incrocio.
Sulla guarigione
La signora K. mi assaliva sempre con una serie infinita di lamentele, talmente numerose che spesso non le annotavo
nemmeno. Arrivava truccata come una bambola e, quando
le esaminavo gli occhi, le mie dita di macchiavano di ombretto azzurro. Mi preoccupavo dei suoi tacchi a spillo,
perché inciampava spesso e di recente aveva avuto una tripla frattura al braccio. Il suo aspetto era ancora seducente
e attirava gli sguardi maschili.
Per anni aveva sofferto di aritmie invalidanti, ora controllate dai farmaci. Di natura, era una donna allegra, un
po’ volubile, ma negli ultimi anni si era sempre più scoraggiata e rasentava la depressione. Non riuscivo a capire perché fosse sempre così malinconica. Fisicamente, la situazione era immutata, anzi sosteneva che venire al Lown Cardiovascular Group le dava una sferzata di ottimismo.
Durante una visita in particolare, tutto la infastidiva più
del solito. La rassicurai di nuovo. «È molto strano», disse.
«Lei non trova niente che non va e il mio medico trova che
non va bene nulla». Secondo quest’ultimo, con la sua grave
forma di osteoporosi qualsiasi caduta avrebbe potuto provocare una frattura invalidante. Le aveva inoltre diagnosticato una grave diverticolite, che prima o poi avrebbe causato una perforazione o un’occlusione. Inoltre le aveva
chiesto: «Come può pretendere di stare bene se la sua tiroide non funziona, la cistifellea è in pessimo stato e ci sono
calcoli renali, per non parlare dell’artrite generalizzata?».
Dopodiché, qualsiasi cosa io dicessi per sottolineare
che stava bene, rispondeva: «Ma lei è il solo medico che dice così. Quando vado dagli altri, dicono che sono malata o
addirittura moribonda. Forse sto così bene perché mi hanno guarita prima che vedessi lei».
Poi, durante una visita, non si lamentò di nulla tranne
che di stitichezza cronica.
«Come mai?», chiesi.
«Perché quest’anno non ho visto nessun medico», mi
disse.
I pazienti anziani portano con sé un ricco bagaglio storico. In una breve visita, possono essere colti soltanto i contorni essenziali e gli elementi di collegamento e anche
questo prende più tempo di quello che di solito è disponi-
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G Ital Cardiol Vol 11 Gennaio 2010
veva ulteriormente debilitata. La vista era gravemente
compromessa dalla cataratta. Incapace di muoversi rapidamente, doveva dormire in posizione seduta perché altrimenti sveniva o cadeva quando si rialzava. Aveva consultato numerosi medici senza risultato.
Poiché non soffriva di angina, le feci smettere tutte le
medicine cardiologiche. Tutti i sintomi, compresi l’eccessiva fatica, scomparvero, ma la vertigine rimase incurabile.
Non sapendo cosa altro fare, le chiesi: «Cosa le piace più di
ogni altra cosa?».
«Oh, caro dottore, vorrei riprendere il pianoforte, il mio
unico piacere nella vita». Poiché era caduta dallo sgabello,
aveva smesso. Ora sedeva quasi al buio per la forte cataratta, che temeva di operare. Non faceva niente per tutto il
giorno, ma aveva un sorriso felice e rideva prontamente.
Prima della cataratta era stata una lettrice accanita, e ora
aveva ancora una ricca vita interiore. La sua dotatissima figlia, che aveva raggiunto un grande successo professionale, era per lei fonte di grande e giustificato orgoglio.
Quando la esortai a riprendere a suonare il pianoforte,
disse: «Ma non posso. La volta in cui ho cominciato a suonare rapidamente sui tasti e ho mosso la testa, ero così
stordita che sono caduta».
«Se non fosse caduta, suonerebbe?».
«Certo».
«Allora, il problema è facile da risolvere».
Sembrò sorpresa e sospettosa.
«Perché non si procura una poltrona girevole con i
braccioli in modo da non cadere?».
Circa sei mesi dopo, alla successiva visita, ero impaziente di sapere se aveva ripreso il pianoforte.
«Certo».
«Ha ancora paura di cadere dallo sgabello?».
«No. Mi sono subito procurata la poltrona girevole che
mi ha suggerito e ora non posso cadere».
Non si trattava di far ritornare la luce nel regno delle
tenebre, ma semplicemente di accendere una piccola candela. Un medico deve insegnare ad accettare l’età senza
accettare le conseguenze di pensare in modo sclerotizzato.
Il grande scrittore francese Paul Claudel scrisse al suo ottantesimo compleanno: «Ottant’anni. Non più occhi. Non
orecchie, non denti, non gambe, non fiato, ma quando
tutto è stato detto e fatto, se ne può fare a meno».
bile. La prima visita è fondamentale e personalmente passo un’ora o più con un paziente, finché non riesco a intravedere l’essere umano dietro i sintomi medici. Anche in
questo caso la mia immaginazione deve vegliare e interpretare gli eventi di tutta una vita per ottenere una storia
coerente. Lavoro per lo più sulle ipotesi. La mente cerca le
ragioni valide che motivano un comportamento umano,
ma in realtà un neo sul mento può avere più influenza su
una vita di tutti i traumi infantili. Un medico mosso dal desiderio di guarire deve ricercare i particolari che anche i più
intimi amici del paziente ignorano. Una comprensione empatica delle zone d’ombra non cancella le ferite del passato, ma le rende più tollerabili.
La paziente, a ottantaquattro anni, era così pallida che
sembrava imbalsamata. Pensai a un mixedema, lo stato patologico caratterizzato da un’espressione assente, sintomo
di un funzionamento inadeguato della tiroide. L’ipotesi del
mixedema fu rapidamente scartata quando mi guardò.
Sembrava un cerbiatto abbagliato dai fari di una macchina.
Non c’era possibilità di sfuggire a questo sguardo sgranato.
«Che cosa c’è?», mi informai.
«Angina pectoris, claudicazione intermittente, disturbi
cardiovascolari, ulcera peptica, enfisema, insufficienza renale, gotta, e potrei anche continuare», muggì.
Era ancora attraente, molto vivace e mi chiesi perché
non si era mai sposata e aveva trascorso la vita a prendersi
cura del fratello ora novantenne.
Quando glielo chiesi direttamente, disse soltanto:
«Non era possibile altrimenti».
Durante la visita, fui sorpreso dai molti peli ispidi sulle
braccia e quando mi informai sulle sue abitudini di rasarsi,
sfogò un dolore così amaramente insensato e indicibilmente tormentoso che rimpiansi di averlo fatto.
«Sin da quando ero ragazzina, avevo questi brutti peli.
Erano un incubo continuo. Non potevo mai mettere camicette con le maniche corte, nessun costume da bagno, nessuna esposizione al sole. Era una fonte di costante vergogna. Mi chiedeva perché non mi sono sposata?».
Aveva chiesto soltanto una visita, ma dopo che le diedi
consigli sull’angina, chiese: «Quando vuole vedermi ancora?».
«E il dottor X, che l’ha vista per quasi trent’anni?».
«È tempo di cambiare. Lei mi capisce meglio».
Nelle visite seguenti, venni a sapere che questo fatto
singolare che aveva rovinato la sua vita non era mai stato
affrontato e che l’irsutismo non era neppure stato notato
dai numerosi medici che l’avevano avuta in cura.
A volte, quando ascolto il problema di un paziente anziano, sono costernato perché mi sembra insolubile. Poi lo
divido nei suoi minimi aspetti, separo il nucleo essenziale e
converso con me stesso: «Non puoi risolverlo, ma almeno
puoi migliorare questo o quest’altro aspetto». Dopodiché,
emergono tante soluzioni parziali.
Sul medico che invecchia
Ora che ho passato la pietra miliare del mio settantesimo
compleanno, l’argomento dei medici anziani mi riempie di
trepidazione. Secondo lo scrittore ceco Milan Kundera:
«C’è una certa parte di noi tutti che vive fuori dal tempo.
Forse diventiamo consapevoli della nostra età solo in momenti eccezionali, e per la maggioranza del tempo siamo
senza età».
Ma i segnali ci sono tutti. Devo ammettere che sono
molto più lento nel ricordarmi dei fatti. È più difficile utilizzare il computer e non riesco più a fare una citazione
con la stessa prontezza. Non sempre ricordo subito i nomi
di amici anche intimi. Comincio a sentirmi a disagio quando devo affrontare dati scientifici essenziali o complesse
relazioni e leggo più lentamente. I testi che prima capivo
con un’occhiata ora devono essere letti parecchie volte. I
Aveva i capelli bianchi, con guance rosso mela, bei lineamenti, occhi verde acqua che piangevano molto. I capelli avevano la scriminatura in mezzo, come una nonna
vittoriana, la testa era così rigida che sembrava cementata
al corpo. Il minimo movimento le provocava una forte vertigine, risultato di un passato incidente stradale. All’inizio
venne da me perché le avevano diagnosticato erroneamente un’angina e la cura farmacologica inadeguata l’a-
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B Lown - L’arte perduta di guarire
ghi e seleziona una Gestalt emergente. Il fatto che questo
processo complesso non si attenui con l’età, come molte altre cose, mi sconcerta molto.
Con il trascorrere del tempo divido le mie incertezze
con i pazienti e, contrariamente a quanto ci si potrebbe
aspettare, ottengo fiducia e confidenza maggiori. Infatti
l’arroganza che trasmettono i medici nasconde palesemente l’incertezza: l’umiltà non è garantita ai giovani, ma
donata ai vecchi. L’organismo umano è un sistema di caos
meravigliosamente organizzato, con infinite variabili, che
necessitano anni di esperienza per essere comprese a fondo. A un medico ci vuole quasi l’intera vita per liberarsi dalla tendenza, acquisita durante gli anni di studio, a focalizzarsi sugli elementi strani o rari, a rinunciare al proprio io
e non avere paura di sbagliare.
Con l’età impariamo a capire che di solito incontriamo
ciò che è più comune. Quasi tutti i mali degli esseri umani
sono limitati, ma vengono aggravati dal fatto che i pazienti si immaginano il peggio e vengono invece migliorati o
curati dalla generosa e inequivocabile rassicurazione del
medico. Ora che sono vecchio, ascolto in modo diverso e
capisco meglio il testo inespresso. I fatti e i dati scivolano
così rapidamente, quindi comincio a chiedermi: «Perché
devo passare il tempo a occuparmi solo di queste inezie?».
Che cos’è la saggezza del medico? È la capacità di capire un problema clinico alla sua origine, non in un organo,
ma in un essere umano. L’intuizione e l’esperienza sono
necessarie per capire e integrare ciò che è subliminale, facoltà fondamentale per l’arte di guarire. La saggezza di integrare i fatti e le intuizioni subliminali per sintetizzare
un’immagine clinica olistica si acquista solo con l’età. Il cervello giovane fa una diagnosi specifica, ben definita, rapida. Si pensa che quello che fa soffrire il paziente possa essere individuato con la tecnologia. Ma riflettendo su quello che già i greci avevano capito della personalità, mi chiedo se abbiamo davvero progredito nella nostra conoscenza sulla condizione umana. Certamente abbiamo aggiunto
un sacco di dettagli.
complimenti pieni di buone intenzioni ora non mi lusingano più e li accetto sempre con cautela. «Dottor Lown, ha
trovato l’elisir della giovinezza? Perché non lo divide con
me?». «È rimasto lo stesso di dieci anni fa, o di quindici, o
di venti, o di venticinque». Si accende una luce rossa quando il paziente implora: «Dottor Lown, non pensa mica di
andare in pensione?». E naturalmente, anche se la pensione è un pensiero lontano, una volta che il problema è sollevato ci penso per tutto il riposo pomeridiano.
Ma a volte sono ancora convinto che ho appena raggiunto l’apogeo della perizia medica. Malgrado le molte
manchevolezze, il mio modo di essere medico è migliorato
e sono molto più utile ai miei pazienti. Il mio giudizio è più
profondo, ho maggiore chiarezza nell’anticipare un esito,
ho un’accresciuta sensibilità ai problemi inespressi, una
maggiore facoltà empatica. Sono meno propenso a immaginare chissà quale rara diagnosi dietro ogni anomalia clinica e sono meno entusiasta di fronte all’ultima diavoleria
tecnologica. La paura di essere portato in tribunale per negligenza, che non mi ha mai particolarmente assillato, è
quasi inesistente. Più divento vecchio, meno i miei giudizi
sono affrettati e più i miei pazienti diventano vecchi.
Sono convinto che invecchiando perdiamo in conoscenza ma acquistiamo in saggezza. Come può essere? La
conoscenza non è forse il fondamento della saggezza? Sì e
no. Posso illustrare meglio alcune di queste qualità con un
esempio.
U.Q. mi ha telefonato alle 10 di sera. Poche ore prima
sua moglie Olivia aveva avuto un forte dolore al petto. Era
in preda al panico e io chiesi di parlare con Olivia. Disse che
mentre stava chiacchierando aveva avuto un forte dolore
sotto il seno sinistro e che non poteva respirare profondamente. Non era preoccupata, ma di solito non si preoccupava mai. Diagnosticai una pleurite, consigliai una buona
notte di sonno e le assicurai che sarebbe stata meglio il
mattino dopo. Il giorno dopo non aveva più dolore e si meravigliò della mia certezza.
Olivia era una donna di sessant’anni, tozza, obesa e
ipertesa, con una storia familiare di disturbi cardiovascolari. La maggior parte dei medici, sospettando un attacco
cardiaco o un’embolia polmonare, avrebbero perseguito
l’ovvia trafila; cioè mandarla al pronto soccorso per elettrocardiogramma, radiografia polmonare e analisi del sangue. Avrebbe aspettato gran parte della notte in un pronto soccorso rumoroso, sarebbe stata ricoverata in una unità coronarica con una diagnosi di infarto del miocardio o
embolia polmonare. Il soggiorno ospedaliero sarebbe costato più di 5.000 dollari e alla paziente ci sarebbe voluta
più di una settimana per ristabilirsi dall’avventura.
La mia fiducia non era né espressione di indifferenza insensibile né di arroganza prepotente. Il dolore era nel posto sbagliato e non era caratteristico di un attacco di cuore. Olivia non aveva le gambe gonfie, dolori al polpaccio o
respiro corto. Quando le avevo preso il polso era solo di 72.
Tutti questi fatti non suffragavano la diagnosi di embolia
polmonare. Mentre parlavo con Olivia, avevo fatto un gioco di parole e lei aveva riso. Questo mi aveva ulteriormente convinto che non si trattava di qualcosa di tanto grave
da rendere necessario un ricovero. La mia sicurezza era una
conseguenza dell’esperienza che offre solo l’età.
Fare una diagnosi significa vagliare esperienze complesse. Il cervello forma un algoritmo, individua casi analo-
17. La morte e il morire
Riflessioni sulla morte
In gioventù credevo che la morte fosse irrilevante, addirittura irreale: soltanto la vita doveva essere presa sul serio.
Ora, avvicinandomi al limite estremo della vita, le mie idee
sono cambiate completamente. Un vecchio detto chassidico coglie quello che io penso sia l’essenza autentica dell’esistenza: «Alle due estremità c’è il destino, in mezzo c’è solo la vita». Mezzo secolo di professione medica mi ha convinto che la vita è avvolta dal destino. Questa possibilità
turba la parte più segreta di noi tutti.
I progressi dell’evoluzione, contraddistinta dall’acquisizione della coscienza, hanno portato con sé la morte come
ombra inseparabile del sé. Invece di confrontarsi con la
propria fine, il sé tenta di dissimularla e mistificarla. I complessi rituali dei diversi culti e delle diverse religioni si ispirano al timore della fine inesorabile della vita. La potente
cacofonia di negazioni e rifiuti non può interrompere il
metronomo che batte e porta ogni giorno la morte inevitabilmente pià vicina. Ogni ticchettio ritmico scandisce i
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G Ital Cardiol Vol 11 Gennaio 2010
Molti fattori forgiano l’atto del morire. Di solito, non è
né immediato né troppo dilazionato nel tempo. La morte
istantanea non presenta problemi alle sue vittime. Quasi
due terzi dei pazienti con disturbi alle coronarie muoiono
improvvisamente, a volte nel sonno, spesso senza sintomi
preliminari. Questo tipo di passaggio finale è auspicato da
molti, ma io non sono convinto che sia il miglior modo di
morire. La morte integra troppo strettamente la vita per
essere tolta con tanta cavalleria. La morte improvvisa non
prepara coloro che sopravvivono all’inesorabilità di questa
perdita. Il cadavere privo di significato non è l’attore chiave del dramma della morte, sono coloro che rimangono, i
sopravvissuti, che vivono la ferita della morte e sono costretti a continuare il sentiero della vita. Come aveva capito il filosofo tedesco Ludwig Feuerbach: «La morte è morte soltanto per i vivi». La morte è forse il prezzo pagato per
tutte le dolcezze che abbiamo apprezzato in vita. Come diceva con distacco uno dei miei pazienti, che aveva un tumore al fegato: «Paghiamo agli dei la morte come debito
per la vita».
La morte improvvisa, che sembra un passaggio così facile, lascia il terreno disseminato di mine emotive non
esplose che non possono essere disinnescate. Durano a lungo e ogni tanto lasciano esplodere frammenti di proiettili,
che provocano dolore e rimorso. La morte improvvisa di un
coniuge, di un genitore, di un fratello o di un amico è una
destinazione che non è stata anticipata da un viaggio preparatorio. Questo tipo di morte lascia la vita incompiuta,
un fantasma che si attarda senza essere esorcizzato e ossessiona i vivi. Non sono sicuro che la morte improvvisa sia
per tutti il male minore.
Gli esseri umani sono estremamente adattabili dal punto di vista psicologico, ma l’adattamento non è possibile
quando la morte è immediata e improvvisa. Adattarsi richiede il balsamo del tempo, mentre la morte improvvisa
toglie lo spazio emotivo necessario per venire a patti con
la perdita. Le questioni finanziarie, le ultime volontà, i lasciti non sono stati preparati e, quello che più conta, non si
è dato ordine ai rapporti umani. Non si può albergare l’illusione che gli ultimi pochi giorni possano miracolosamente porre rimedio agli aspri problemi e alle profonde ferite
accumulatesi in una vita. La morte non ha questo potere
magico. Ma ogni colloquio, anche frammentario e inadeguato, lenisce. La semplice dimostrazione di affetto è l’inizio dell’assoluzione e diminuisce il peso di un senso di colpa opprimente. L’ultimo saluto è emblematico di una comunione, di un ultimo ricongiungersi che ha un significato
durevole per i vivi.
Certo, la morte improvvisa è da preferire a quella lenta e dolorosa, che costituisce la realtà per la maggioranza
di coloro che sono ricoverati. Almeno l’80% degli americani muore in isolamento, lontano da casa, dal suo letto e dai
suoi cari. Il morente lotta soprattutto per rimanere attaccato alla propria identità, ma è una lotta perdente. Anche
il migliore degli ospedali è un ambiente organizzato per
spersonalizzare, infantilizzare e togliere potere. Il paziente è distaccato da tutto quello che è intimo, familiare e affettuoso. Oltre all’immagine di sé deteriorata c’è l’usurpazione da parte di altre persone, anonime ed estranee a decisioni sugli ultimi atti fondamentali della vita. L’essenza
della vita è ulteriormente annientata quando le funzioni
basilari come la respirazione e l’alimentazione sono dele-
momenti dell’orologio. La fine è sospesa. Il tempo cessa. La
vita è risucchiata nel buco nero del nulla. Non siamo capaci di concettualizzare il nulla, l’infinito, l’eternità. Il nostro
cervello programmato concepisce l’inizio e la fine, ma la
loro estensione illimitata esula dalla nostra comprensione.
Non si teme che la vita sia troppo corta, ma che la morte
sia troppo lunga. Siamo soffocati dal carattere eterno della nostra assenza.
All’inizio della mia carriera credevo che le persone veramente religiose avessero raggiunto una tranquillità spirituale che mettesse a tacere il tormento del dubbio. Ma
diverse esperienze con rabbini ultra-ortodossi che sono
stati e sono ancora miei pazienti mi hanno convinto del
contrario. Anche loro sono tormentati dal cronometro diabolico, inquilino permanente negli anfratti della loro mente. Questi rabbini, pieni di pietà, esaltano la fine come realizzazione del destino della vita e aspettano con impazienza il giorno finale per la propria benedetta comunione con
il Dio Onnipotente, ma le loro azioni smentiscono la profondità delle loro convinzioni. La vernice di certezza si
sgretola quando consultano i medici, proprio come fanno
coloro che mancano di certezza nell’aldilà e lottano invano per rimandare il gioioso ritorno a casa.
Molto è stato scritto sulla malattia e la morte. Da adolescente, ho letto due opere che mi hanno permesso di affrontare l’essenza della morte, La morte di Ivan Il’ič di Tolstoi e La montagna incantata di Thomas Mann. Queste
opere mi hanno lasciato un’impressione durevole di tristezza, una malinconia collegata non al vuoto della morte,
ma alla solitudine del morente. Gli ultimi passi sono compiuti amaramente da soli, con l’unica testimonianza di un
sé nudo, sempre più debole.
Gli esseri umani socializzati tollerano male il pensiero
di viaggiare da soli. Cerchiamo di convincerci che la vita è
un dono accordato per sempre. La morte succede agli altri.
Nonostante la logica, siamo maestri nella negazione. Albert Camus diceva: «Se c’è una colpa contro la vita, consiste non tanto nel disperare della vita quanto nello sperare
in un’altra ed eludere l’implacabile grandezza di questa».
Paradossalmente la preoccupazione della morte o la sua
negoziazione in definitiva ci preparano male alla sua inevitabilità. Per ritornare a Camus: «C’è solo una libertà, venire a patti con la morte. Dopodiché, tutto è possibile».
Anche se il pubblico si aspetta che i medici affrontino
con saggezza la questione della morte, essi non sono più
profondi o più preparati sull’argomento di qualsiasi altro
essere umano. L’esperienza della morte non dà ai medici
più saggezza che agli altri. Per esplorare il significato della vita o i misteri della morte, impariamo di più da poeti, filosofi e teologi. I medici, tuttavia, hanno esperienza nell’osservare il processo del morire e spesso possono plasmare il passaggio finale, come organizzatori dell’oscenità tecnologia oppure come guide di una fine serena.
Tutta la mia vita professionale si è incentrata sulle cure
a cardiopatici gravi. Troppo spesso, dovendo affrontare la
morte, ho imparato a conoscere le apprensioni dei pazienti più malati e degli anziani, non tanto associate alla morte, quanto al tormento di morire. Sono persuaso che la
professione medica ha un potere ineguagliabile nel diminuire la miseria e la paura di morire. Si può umanizzare e
restituire una dignità che è per lo più assente in quest’ultimo stadio della vita.
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B Lown - L’arte perduta di guarire
gate ad apparecchi meccanici. In tali circostanze, si è separati dalla vita.
Morire a piccoli passi quando si è ancora coscienti e vivaci alimenta una rabbia fremente, ma inespressa. Negli
ospedali moderni passano troppi specialisti; il paziente raramente sa chi ha la responsabilità della sua cura e chi conosce la sua storia. Anche i nostri medici curanti sono spesso estranei, non ci conoscono, non sanno chi siamo, dove
viviamo e come desideriamo morire. Possiamo anche avere la sensazione che sollevare problemi o esprimere proteste potrebbe compromettere la cura. Non sapere a chi rivolgersi, sentirsi impotenti contro una eccessiva burocrazia, incoraggia la rabbia rivolta a se stessi. Il risultato è che
ogni disagio associato alla malattia è amplificato e gli antidolorifici intontiscono invece di alleviare. Questa situazione innesca il terribile processo della morte spirituale e psicologica. Per alcuni gli ultimi giorni possono solo essere descritti come un periodo di continui tormenti, una vera discesa agli inferi.
proprie limitazioni culturali e sociali. Una tradizione medica consacrata incarica il medico di una singolare missione,
curare la malattia e quindi prolungare la vita. Per riempire
questa missione, devono essere utilizzati tutti i mezzi possibili. Anche se questa impresa è nobile e indiscutibile in
astratto, si scosta dalla realtà attuale. La realtà più essenziale è la rivoluzione biotecnologica che permette di prolungare l’atto di morire in modo interminabile. Questo potenziale quasi divino è fonte di orgoglio per il medico e comunica ai pazienti aspettative irrealistiche e irrealizzabili.
Il fatto di pubblicizzare questa o quella cura miracolosa nasconde l’illusione che i medici siano in grado di offrire un
rinvio dalla sentenza di morte. Norman Cousins ne parla in
The Healing Heart:
Morire
Prima di utilizzare la nuova tecnologia che sfida la morte, bisogna rispondere a molti interrogativi. Se la morte
può venire rinviata, quanto dura il rinvio? Il tempo supplementare sarà una semplice estensione delle condizioni disagiate in cui si trova il paziente? La vita manterrà un significato? A quale prezzo individuale, sociale ed economico si
raggiungerà questo tempo supplementare? Nell’atto quotidiano di prendere decisioni terapeutiche, lo specialista
delega il problema ai filosofi o ai gestori dell’economia sanitaria. I medici trattano con i semplici fatti prendendo decisioni terapeutiche, considerando solo raramente cosa interessa davvero ai pazienti. Inoltre ogni caso è individuale
e il medico non può prevedere i risultati di una particolare
scelta terapeutica. Anche se sono noti i dati statistici per un
dato disturbo, la distribuzione è invariabilmente gaussiana, cioè alcuni traggono vantaggio dall’intervento, altri rimangono stazionari e altri peggiorano. In base alle mie osservazioni, i medici hanno la tendenza a sottolineare i successi e minimizzano i possibili aggravamenti che possono
rendere ogni giorno rimanente un vero e proprio inferno.
Nell’eventualità di un possibile rinvio, il paziente si attacca
al minimo calcolo statistico. Di solito ciò che è offerto non
è una cura, ma una breve remissione, a volte così corta da
essere priva di significato.
Nella mia esperienza, gli oncologi sono i più convinti
propugnatori dell’intervento a ogni costo. Non hanno mai
rifiutato di curare nessuno dei miei pazienti. Sono sinceri
nel definire infime le possibilità di remissione, ma lo sono
molto meno nel descrivere tutte le deplorevoli conseguenze nell’affrontare una battaglia diseguale contro la morte.
La morte arriva in ogni caso, ma il suo arrivo è permeato di
indicibile dolore. Quando è il risultato inevitabile di una
malattia cronica e incurabile, è spesso meglio non impedirla con misure eroiche, ma preparare il suo arrivo con buon
senso e compassione.
Le biotecnologie hanno fatto progressi così miracolosi
che è diventato difficile riconoscere i limiti tra la presenza
Il medico non prescrive soltanto le medicine, ma è un simbolo
di tutto ciò che può essere comunicato da un essere umano a un
altro eccetto l’immortalità. Non siamo in grado di vivere per sempre, ma perseveriamo nell’idea che il medico possegga la scienza e
l’arte che ci daranno rinvii senza fine. Sembra che egli conosca i rifugi dove sono nascosti i segreti della vita1.
Troppo spesso ci si accosta alla morte non con sensibilità e
delicatezza ma con un misto schizofrenico di negazione e
di preoccupazione morbosa. Una donna francese mi ha
detto: «Gli americani sono il solo popolo che pensa che
morire sia un’opzione». Questo deriva in parte dal modo in
cui gli americani glorificano la gioventù. Ma, secondo me,
il fattore principale è il ricovero dei morenti con l’idea assai diffusa che la morte sia qualcosa di indecente e debba
essere evitata a tutti i costi. Questo è un precetto a cui i
medici contribuiscono enormemente. La facoltà di medicina e la formazione ospedaliera preparano i medici a diventare mercenari della scienza e manager di tecnobiologie
complesse. Ben poco dell’arte di curare viene trasmesso e
ai medici non si insegna a trattare con il paziente moribondo. Sin dall’inizio il giovane medico è condizionato a considerare la morte come un segno di fallimento, l’ultimo sacrilegio nel tempio della scienza. Il medico, che crede di
dover risolvere i problemi a tutti i costi, è spinto a credere
che questa sia la base del suo operato e la fonte delle più
importanti soddisfazioni professionali. L’idea che tutti i
problemi siano risolvibili è destinata a fallire di fronte all’immutabile legge della natura della morte. Ogni tanto,
quando chiedo a un giovane medico perché vengano prese misure tanto eccezionali per un moribondo, la risposta
è un gesto di sfida: «E se questo nuovo antibiotico o questo nuovo rimedio portasse alla guarigione? Abbiamo il diritto morale di negare a qualcuno una possibilità su cento
di sopravvivere?». E naturalmente anche i medici più giovani avranno immagazzinato nella loro memoria, per ora
solo di letture, tutta una serie di casi di malati terminali, di
moribondi la cui morte è stata dilazionata. La fede nei miracoli è il puntello di convinzioni religiose indiscutibili. Il risultato è che i medici sono sempre meno preparati al più
impegnativo dei loro compiti, alleviare la disperazione, il
dolore e la tensione psicologiche della morte, sia per la vittima che per la sua famiglia.
Ma un medico non può fare ciò che vuole. Anche quando è consapevole che può essere scorretto infliggere dolore per rimandare l’inevitabile, il medico è ostacolato dalle
1Norman
Cousins, The Healing Heart: Antidotes to Pain and Helplessness, New York, Norton, 1983.
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G Ital Cardiol Vol 11 Gennaio 2010
un grido e colto dalla nausea, corsi via, ma la puzza della
formaldeide sarebbe rimasta parecchi giorni nelle mie narici. Ogni volta che sentivo quell’odore, l’orribile scena mi
si ripresentava di nuovo davanti agli occhi.
e l’assenza della vita. Il ronzare dei respiratori, le pulsazioni silenziose del pace-maker, il pompaggio e gli apparecchi
di sostegno per il cuore e il groviglio di fili che somministrano sostanze nutritive o eliminano secrezioni o escrementi può rendere invisibile questa demarcazione finché
questi apparecchi sono silenziosi. Nelle unità di cura intensiva, vedo corpi intubati privi di quelle qualità che definiscono una presenza vivente. Questo «oggetto» che sopravvive è soltanto l’ombra di una vita che è già svanita.
Mantenere la vita contro la sua volontà è nello stesso
tempo enormemente costoso e straordinariamente vantaggioso. Una percentuale sostanziale dei guadagni ospedalieri deriva dal fatto di prolungare l’atto del morire.
Paradossalmente, la morte costituisce la parte più lucrativa del sistema sanitario e le spese per il periodo terminale
sono sproporzionatamente alte. Per esempio circa un terzo dei rimborsi dell’assistenza sanitaria statale vanno al
6% dei beneficiari di chi è morto quell’anno. I pagamenti
per i pazienti moribondi aumentano in modo esponenziale quando si avvicina la morte. Negli Stati Uniti l’ultimo
mese di vita assorbe il 40% dei costi complessivi per un paziente medio nell’ultimo anno di vita. Il sistema sanitario è
strutturato per tormentare gli anziani, non per un’intrinseca malevolenza ma perché è un programma basato sul
rimborso, non sulla qualità della vita2.
La pornografia della morte deriva in gran parte da un
insieme di cinque fattori: una tecnologia che rende possibile prolungare la vita quasi indefinitamente, una categoria medica che ha dichiarato guerra alla morte, un ospedale che ha un legittimo interesse a estendere questa battaglia solitamente inutile, un paziente che non conosce i suoi
diritti ed è condizionato a soffrire e un pubblico che si
aspetta solo vittorie dai medici.
Per coloro che sottoscrivono le teorie della cospirazione, questa è un’immensa cospirazione all’interno della società in favore della morte lenta. La medicina scientifica ha
innegabilmente allungato e migliorato la vita, ma per la
stessa ragione ha peggiorato la morte.
Non c’era mistero nella morte, soltanto un orrore spettrale. Ero andato all’università di medicina per imparare
qualcosa sulla vita, come far vivere meglio, non per confrontarmi con gli orrori della morte. Con il trascorrere del
tempo, riuscii a capire che un corpo morto ha soltanto un
lontano rapporto con la persona viva. Il corpo è semplicemente un involucro per la mente umana, la sede miracolosa di un cervello vivente. Quando il cervello smette di vivere, il miracolo finisce, lasciandosi dietro un oggetto inanimato che non provoca né paura né terrore.
La morte inanimata ha poco significato. Non sento come John Donne che «ogni morte di uomo mi diminuisce,
perché sono coinvolto con l’intera umanità; e quindi non
chiedere mai per chi suona la campana; perché suona per
te». La morte di un estraneo non è nulla nella marcia della vita. Nel processo di formazione medica, si è continuamente confrontati a morti anonime molto lontane come
quelle del Ruanda o della Bosnia. Il fatto di affrontare la
morte così spesso tende a banalizzarla e non prepara il medico a trattare con l’atto complesso del morire.
Il mio primo coinvolgimento con la morte che «importava» venne parecchi anni dopo l’università, quando ero
ancora interno in ospedale. Piansi quando quella paziente morì e provai rabbia, frustrazione e impotenza. Avevo
incontrato la signora D. quando lavoravo al Montefiore
Hospital nel Bronx come interno. Era gravemente malata
e lottai da solo per tutta la notte, con l’aiuto occasionale
di una sola infermiera, per ridurre la sua congestione fulminante. La signora D. aveva una grave stenosi mitralica
che ostruiva l’entrata del sangue al ventricolo sinistro,
provocando un ritorno del sangue che inondava i polmoni di liquido e impediva il ricambio di ossigeno. Il termine medico della sua condizione era edema polmonare,
letale a meno di non essere fermato immediatamente. Il
liquido in eccesso usciva a bolle dalla bocca in una schiuma arancione. Ciò avveniva parecchi anni prima della diffusione degli interventi alla valvola mitralica per correggere questo stato e io tentai inutilmente l’ossigeno, il laccio emostatico, la digitale, l’aminofillina e i diuretici al
mercurio.
Rivedo ancora i suoi grandi occhi verde scuro di irlandese mentre mi guardava come un folletto spaventato.
Aveva circa trentacinque anni ed era madre di tre bambini
piccoli. «Dottore, non voglio morire», implorava tra i rantoli per prendere aria. «I miei bambini hanno disperatamente bisogno di me». Poi diventò silenziosa, e la calma
era ancora più opprimente dei suoi lamenti angosciati.
Non c’erano apparecchi per flebotomia, né bacinelle,
né secchi. Era una di quelle notti in cui un pronto soccorso
strapieno aveva riversato nel nostro reparto già affollato
numerosi malati gravissimi. In uno sforzo disperato applicai il laccio emostatico sull’avambraccio, tagliai le vene del
gomito e la lasciai sanguinare nel letto. Il salasso diminuì
l’ingorgo nei polmoni e quando il letto fu pieno di sangue,
la paziente respirava meglio. Reagì alla morfina e il suo
pallido volto grazioso diventò tranquillo, le rughe intorno
L’aspetto terribile della morte è in gran parte causa nostra. Il mio primo incontro con essa è stato tremendo, ero
quasi persuaso di mancare del sangue freddo necessario
per fare il medico. Avvenne durante la mia prima settimana alla Johns Hopkins Medical School, mentre stavamo
provando le attrezzature didattiche. Era una giornata afosa e calda di mezza estate, prima dell’introduzione dell’aria condizionata, e ci trovavamo nel dipartimento di patologia. Andando a zonzo senza scopo, vidi spuntare da una
camera annessa un paio di gambe dalla forma giovanile,
con le unghie laccate di rosso brillante.
Incuriosito, mi avvicinai e lanciai un’occhiata, senza immaginare che avrei visto un ciuffo di peli pubici scuri e ricciuti. Ero imbarazzato di violare l’intimità di una giovane
donna nuda, ma poi i miei occhi furono attratti verso l’alto, al ventre, che era stato aperto e riempito di segatura.
Le braccia della donna pendevano ai lati della stretta barella, gli occhi erano immobili in uno sguardo fisso, la lingua gonfia usciva da una bocca semiaperta. Trattenendo
2J.D.
e G.F. Lubit, Trends in Medicare Payment in the Last Years of
Life, «New England Journal of Medicine», 383, 1993, 1092.
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B Lown - L’arte perduta di guarire
Alle tre quel pomeriggio incontrai un uomo alto, distinto, con i capelli bianchi, che poteva avere settantacinque anni. Era il mio primo paziente nero, ed era un medico in pensione che mi disse con orgoglio di essere uno dei
primi della sua razza a essersi laureato alla Harvard Medical School. La storia che narrò era un caso classico di angina pectoris di recente inizio. Il rapido progresso dei sintomi e il fatto che il dolore al petto avveniva ora a riposo e al
risveglio da un sonno profondo suggeriva l’imminenza di
un attacco cardiaco. Mentre parlava, la mia inquietudine
gli comunicava una preoccupazione crescente. Mi rassicurò con queste parole: «Sono un uomo profondamente religioso e non ho nessuna paura di morire».
Gli indicai la sala visite e gli dissi di spogliarsi. Lo lasciai
solo per un momento per scrivere alcune annotazioni e per
organizzare il suo ricovero in ospedale, quando rientrò
bruscamente. Guardandomi dritto negli occhi, parlò con
tono profondo: «Dottor Lown, voglio che lei sappia che sono pronto a incontrare il mio signore. Oh, Signore, sono
pronto ad andare!».
Pochi minuti dopo ci fu un colpo sordo. Accorsi e trovai
il dottore, completamente nudo, che giaceva sul pavimento, con il corpo contorto, lo sguardo fisso al soffitto, un
rantolo che usciva dalle labbra. Poiché non individuai il
polso, tentai di fare una respirazione bocca a bocca e cominciai a spingere sistematicamente sulla parte bassa dello sterno. Nello stesso tempo, gridai con tutti i miei polmoni per chiamare la segretaria. Accorse, diede un’occhiata e
uscì dallo studio. La richiamai spiegandole che l’uomo era
morto. Rassicurata sul fatto che non era testimone di
un’aggressione omosessuale, ritornò timidamente e chiamò la polizia.
Un elettrocardiogramma mostrò la linea piatta dell’arresto cardiaco. Il dottor J. non poteva più essere rianimato.
Inesperto, lo dichiarai morto e quando la polizia arrivò mi
rimproverarono di essere stato così studipo. Il cadavere
non poteva essere rimosso finché il coroner non lo avesse
esaminato. Era venerdì, lunedì era vacanza e il coroner non
sarebbe venuto per almeno quattro giorni. Nel frattempo
in un ufficio surriscaldato il cadavere sarebbe andato rapidamente in decomposizione.
La mia segretaria se ne andò e rimasi solo con il corpo
di un assoluto estraneo. Allora ricordai di aver fatto un favore al giudice istruttore di Boston. Lo trovai quella sera
nel New Hampshire: fece rilasciare il corpo con l’ammonizione di non dichiarare mai più nessuno morto: «Sostenga
che sono alla fine, che devono essere portati d’urgenza in
ospedale e lasci che sia l’ospedale a dichiararli morti».
alla bocca si distesero appena si riposò. Cambiai le lenzuola, la sollevai in posizione seduta, tolsi la fodera piena di
sudore e la sistemai comodamente. Quando comparve l’alba, dormiva nella tenda a ossigeno, con il quieto riposo di
un angelo.
Con la vista appannata dalla stanchezza, stavo annotando gli eventi della notte e scrivendo le ordinazioni,
quando fui interrotto da un prete irlandese, tarchiato e
quasi calvo, che entrò sbottando. Aveva saputo che la sua
parrocchiana signora D. era gravemente malata e voleva
vederla immediatamente. Gli dissi che si era appena addormentata, il suo primo riposo in ventiquattro ore, e gli spiegai le sue precarie condizioni mediche «Ragione in più per
me per vederla», replicò. Lo supplicai di desistere. Ero
pronto ad andare in chiesa in ginocchio, a offrire contributi a una beneficienza cattolica di sua scelta. Ma lui era sempre più furibondo. Disse che non mi sarebbe dovuto essere permesso praticare su pazienti cattolici perché non conoscevo la loro cultura e la loro psicologia. I cattolici sono
spiritualmente sollevati quando incontrano il loro pastore
e, indicando la sua tasca pettorale, annunciò con enfasi:
«Porto con me il passaporto per il cielo».
Con queste parole, mi oltrepassò precipitandosi al suo
capezzale e io lo seguii. La donna dormiva, ancora tranquilla, con il respiro regolare. La presenza del prete la svegliò bruscamente. Aprì gli occhi, impaurita, senza capire.
Egli cominciò a intonare in latino e mise un crocifisso sul
suo corpo. Emise un singhiozzo doloroso e il liquido pieno
di sangue riprese a spillare dalle sue labbra, accompagnato da un rantolo sibilante. Venti minuti dopo era morta.
Il prete mi rimproverò con veemenza di avere cercato
di interferire con la sua sacra missione, affermando che al
momento giusto era in grado di facilitare il viaggio finale
in paradiso di ogni pecorella del suo gregge. Fece rapporto all’amministrazione dell’ospedale perché avevo cercato
di impedire a un prete di compiere le sue essenziali funzioni religiose e l’amministrazione di questo ospedale ebraico
cortesemente biasimò il mio comportamento.
Riflettendo su questa esperienza, riconobbi una certa
arroganza da parte mia. La signora D. era gravemente ammalata e nulla di quanto era disponibile avrebbe prolungato la sua vita neppure per alcune settimane. Più verosimilmente sarebbe morta nelle ventiquattro ore seguenti.
Per la famiglia, sapere che aveva ricevuto gli ultimi sacramenti avrebbe alleviato l’enormità della perdita. La tragedia della sua morte fu ai miei occhi ancora più amara quando, meno di un anno dopo, a Filadelfia il dottor Dwight
Harkin e il dottor Charles Bailey introdussero l’operazione
di valvoctomia per aprire una valvola con stenosi. Avrebbe
potuto salvarle la vita.
Queste tre esperienze all’inizio della mia carriera mi lasciarono con il sentimento che la morte fosse una cosa da
evitare a tutti i costi. Ma la traiettoria del mio lavoro professionale entrava continuamente nell’orbita della morte.
Il lavoro all’unità coronarica, la defibrillazione e la cardioversione mi portavano a continui contatti con malati gravissimi e con morenti. Sono stato testimone della morte di
molte centinaia di pazienti.
Nei pazienti che muoiono di malattia, il male soggiacente plasma il corso del morire. L’atto finale è meno difficile nel caso di disturbo cardiaco e il momento preciso della morte è imprevedibile se paragonato, per esempio, all’inesorabile progredire del cancro. Anche se ogni malattia
In quei primi anni, tutte le mie esperienze con la morte furono quasi una calamità. Avevo appena cominciato a
specializzarmi in cardiologia clinica e aspettavo inutilmente che i pazienti bussassero alla mia porta. Poiché ne
venivano pochi, li visitavo in qualsiasi momento e ovunque, come successe nel mio studio, senza aria condizionata, in un caldo venerdì pomeriggio. Era la vigilia di un lungo week-end e la mia segretaria era assai dispiaciuta di
dovere rimandare il lungo week-end, ma un paziente aveva telefonato poco prima per un problema che sembrava
grave.
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G Ital Cardiol Vol 11 Gennaio 2010
fisica e psicologica che annulla la dignità. La classica immagine del morire con dignità, secondo Nuland, non esiste.
Per Nuland, la morte è priva di dignità perché morire è
un evento brutto, che non può essere abbellito. La sfida
della medicina è migliorare la qualità della vita per le persone più anziane e per le persone con malattie terminali,
«non prolungarne la durata». Poiché non c’è dignità nella
morte, il pubblico per essere preparato dev’essere informato meglio. Il testo di Nuland lascia poco all’immaginazione poiché tocca la maggior parte delle miserie che accompagnano il passaggio finale della vita. L’unico modo
per raggiungere una morte ragionevole, secondo Nuland,
è molto antecedente all’atto del morire. «La dignità che
cerchiamo morendo deve essere trovata nella dignità con
cui abbiamo vissuto le nostre vite»4.
L’argomentazione soggiacente di Nuland è un atteggiamento filosofico profondamente ancorato dal punto di
vista biologico e umano. La morte è intrinseca alla vita, egli
sostiene, e necessaria a liberare la specie da coloro che sono oppressi da infermità biologicamente imposte dall’età.
Lungi dall’essere insostituibili, dobbiamo essere sostituiti.
«Meglio sapere che cosa è morire», scrive Nuland. «Possiamo così essere preparati meglio a riconoscere i momenti in
cui chiedere sollievo o cominciare ad aspettarsi che sia la fine del viaggio». Ma nella mia esperienza, una conoscenza
dei dettagli morbosi del morire non prepara meglio a confrontarsi con la morte con imparzialità, anche se può diminuire le aspettative del paziente e la sua convinzione che il
medico possa compiere il miracolo. Inoltre, anche se il paziente conosce la natura della morte, il modo in cui muore
non gli appartiene. Nelle parole della cantante Joan Baez,
«Non scegli come morirai. O quando. Puoi solo decidere
come vivere». La medicina moderna plasma il modo di morire contemporaneo, in cui i medici trasformano i pazienti
in campo di battaglia per la loro incessante lotta contro la
morte.
Credo che l’immagine del medico sia stata offuscata
dal modo in cui i medici di oggi si avvicinano alla morte. È
stato messo in atto un complesso apparato al servizio della morte invece che della vita. La biotecnologia definisce le
regole, determinando ciò che è necessario e i medici seguono queste regole assurde invece di concentrarsi sul benessere dei pazienti. La follia di questo sistema è illustrata
dalla morte di mia madre.
Mia madre aveva novantasei anni. Anche se era intellettualmente lucida e aveva molti ricordi, spesso esprimeva rincrescimento per il suo visibile deterioramento fisico.
Poiché l’amore dei libri era una delle sue maggiori gioie, la
perdita della vista fu la privazione più difficile da sopportare. Anche l’udito era diminuito, ma era troppo orgogliosa per servirsi di un apparecchio acustico. Quando indagai
a fondo sul suo malessere, mi accorsi che nessuna articolazione era risparmiata da dolori tormentosi. Era diminuita
di statura, aveva rughe dappertutto, denti finti, capelli che
si spezzavano e numerosi altri handicap. Per quanto raggrinzita, era contenta quando le facevano i complimenti
per il suo aspetto giovanile: la gente di solito pensava che
non avesse neppure ottant’anni.
ha la sua specifica progressione e una serie definitiva di
sintomi, si possono fare alcune generalizzazioni. La verità
fondamentale è che il modo in cui moriamo è plasmato dal
modo in cui siamo vissuti. La morte è affrontata con meno
angoscia quando si è consapevoli di aver vissuto pienamente. Come scrisse James M. Barrie in Peter Pan, «La vita
di ogni uomo è un diario in cui egli intende scrivere una
storia e ne scrive un’altra; e la sua umile ora è quando egli
paragona il libro così com’è e quello che avrebbe voluto fare»3. L’ora più umile spesso viene alla fine della vita. La persona che non ha paura di morire è quella che si guarda indietro senza grossi rimpianti, che ha mantenuto il rispetto
di sé, che ha portato al massimo delle possibilità il potenziale dei doni naturali. Anche se queste caratteristiche non
possono svuotare la morte del suo bagaglio di dolore, la
rendono sopportabile e non sminuiscono il nostro senso di
dignità. Infatti il più piccolo disagio può apparire intollerabile se associato al senso di colpa e all’ansia. Il dolore più
tormentoso può essere sopportato se non è carico di emozioni negative.
Non c’è bisogno di vivere con il pensiero della morte.
Né l’atto della morte deve essere considerato con orrore,
dolore e infelicità, come è il caso per molti. Non ci sono
netti limiti biologici che demarcano il processo di morire
da quello del vivere. In realtà, come tutti i fenomeni biologici, la morte è un processo in corso che comincia alla nascita e procede con tempi diversi fino alla fine. Per la maggioranza dei pazienti la morte è preceduta da una lunga
malattia cronica. Molti ne sono afflitti per decenni: sarebbe improprio considerarli persone morenti. Soprattutto in
cardiologia, la prognosi di un medico sulla sopravvivenza è
più precisa come generalizzazione statistica che applicata
al singolo paziente. Ho visto spesso pazienti che sono sopravvissuti per decenni dopo che era stato detto loro che
avevano pochi mesi di vita. Se mi si chiede di fare una prognosi, cerco sempre di essere ottimista, perché l’ottimismo
è gratificante.
Quello che ho imparato durante i miei anni di cure ai
morenti è che la qualità della vita aiuta a dare un’impronta al passaggio finale. Ciò che più conta sono i rapporti affettivi stretti con gli altri, soprattutto i membri della propria famiglia. Avere molti bei ricordi e una famiglia presente nelle ultime ore facilita la difficoltà di morire. Avere
avuto successo nel lavoro, qualsiasi sia stato, è un solido pilastro come sostegno della fine. Una vita di preoccupazioni lascia svuotati del capitale emotivo necessario per navigare nei fondi sabbiosi dell’ultimo viaggio. Coloro che
hanno dato molto agli altri di solito hanno maggiore facilità a morire. Come ha insegnato il Talmud: «Una persona
possiede quello che ha dato».
La natura del morire
La gente desidera sempre di più mantenere il controllo
delle decisioni sulla fine della vita e su una morte dignitosa. Tuttavia, il dottor Shervin B. Nuland, in Come moriamo,
sostiene che la morte non può avere dignità perché la natura intrinseca del morire costituisce una disintegrazione
4Shervin
3J.M.
B. Nuland, How We Die: Reflections on Life’s Final Chapter, New York, Knopf, 1994 tr. it.
Barrie, Peter Pan, New York, Scribner’s, 1929.
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B Lown - L’arte perduta di guarire
zioso. Era priva di conoscenza e dicemmo all’infermiera di
non chiamare i servizi di emergenza. A mezzogiorno, mia
moglie e io uscimmo per pranzo. Ritornammo dopo quarantacinque minuti e vedemmo l’ambulanza fuori dal palazzo. Con trepidazione ci precipitammo dentro e fummo
accolti da un brusio di voci nel suo piccolo appartamento.
Quello che vidi era spaventoso. Mia madre era distesa
sul pavimento completamente nuda, con un tubo tracheale nella bocca, il mento coperto di una stoffa bianca, il viso chiazzato di rosso, le mani gonfie per le flebo, la pelle
già sottoposta al biancore della morte. Uomini robusti le
comprimevano il petto e scaricavano un defibrillatore sul
suo cuore morto. Era uno spettacolo osceno, un incubo
kafkiano. Urlai e cercai di mandare via tutti, ma mi fecero
uscire dalla stanza ignorando le mie urla. «È mia madre.
Non vedete che è morta? Sono un medico». Invocavo tra i
singhiozzi: «Sono suo figlio».
Ritrovato un certo contegno, chiesi chi era di guardia e
mi fu dato il nome di un medico di uno dei principali ospedali di Boston. Quando telefonai e mi presentai, il medico
si profuse in scuse e mise immediatamente fine a quell’orribile spettacolo.
Quella mattina era di guardia una nuova infermiera e
quando aveva visto che la paziente stava per morire era
stata colta dal panico e aveva chiamato il 911, malgrado le
nostre istruzioni. Senza dubbio i membri della squadra di
emergenza e il medico di guardia erano persone corrette,
raziocinanti, ma si erano comportate come i membri di un
reparto d’assalto. I nostri progetti studiati attentamente
per permettere a mia madre una fine umana dopo una vita ben spesa furono spazzati via da un sistema malato, robotizzato, che combatteva battaglie senza senso contro la
morte. Mia madre non sentiva più dolore, la sua morte era
stata tranquilla e dignitosa. Anche se le era stata risparmiata la sofferenza, la mancanza di dignità era stata inflitta ai viventi. Il ricordo della sua morte mi evoca dolore e lacrime, ma soffro ancora di più perché episodi di questo genere gettano un’ombra sulla mia professione.
Anche lo spiacevole spettacolo che circondava la morte di mia madre poteva essere il risultato di cure di emergenza prestate a uno sconosciuto, incidenti simili succedono in ospedale dove la stessa giustificazione non ha senso.
Incatenati ai monitor e ai dati di laboratorio, i medici spesso dimenticano la sofferente realtà umana. I medici del
pronto soccorso sono giovani, spesso inesperti, non confortati dall’esperienza che consentirebbe loro di distinguere
quando la lotta contro la morte ha senso o quando è un
esercizio completamente inutile.
Parlava correntemente almeno cinque lingue ed era di
cultura cattolica. Seppure agnostica nella pratica, era appassionata di tradizioni e liturgie e alla fine si legò alla cultura yiddish. Poiché aveva avuto una vita di povertà e di
privazioni nel suo paese di origine, si era forgiata un carattere forte e non aveva illusioni sulla vita. Amava la compagnia e si rallegrava quando qualcuno andava a trovarla, soprattutto i nipoti. Mia madre si faceva un dovere di telefonare ogni settimana ai suoi tredici nipoti e mia moglie
Louise e io l’andavamo a trovare ogni giorno e spesso anche di più. Non poteva quindi lamentarsi di vedere poco la
famiglia. Gradiva il fatto di essere la matriarca e il fulcro
della vita familiare e la sua longevità era ampiamente alimentata dall’affetto reciproco di una famiglia affettuosa.
Era decisa a vivere finché non avesse ultimato e pubblicato la sua autobiografia e tenne fede al suo proposito.
Poiché mia madre era sempre più debole, Louise e io
speravamo che si trasferisse da noi, ma era inflessibile nel
non volere essere di alcun peso ai suoi figli. Ma quando le
fu chiesto che cosa la tormentasse di più, confessò che era
la solitudine, a cui la vista e l’udito indeboliti contribuivano grandemente. Era l’ultima sopravvissuta di un’ampia
cerchia di amici intimi. Il filosofo romano Lucio Seneca
commentava: «La morte è a volte una punizione, spesso un
dono e per molti un favore». Mia madre, negli ultimi anni,
cominciò ad aspettare la morte come un favore. Considerava la semplice sopravvivenza come un esercizio senza valore. Era ansiosa di morire. Non temeva la morte, ma il lungo processo del morire.
Trent’anni prima aveva avuto un grave attacco di cuore da cui era guarita completamente. Durante gli ultimi
cinque anni della sua vita a volte aveva avuto crisi di angina, curate con nitroglicerina. Se la famiglia dava a mia madre il sostegno necessario, era nondimeno seguita da un
gruppo di medici sensibili e molto competenti che la curavano scrupolosamente. Erano per lo più geriatri, scientificamente preparati e padroni dell’arte della loro professione. Le telefonavano spesso a casa, come se fosse la loro madre. Nessuno cercò di ricoverarla, neanche per l’attacco cardiaco, soprattutto perché sapevano che avrebbe rifiutato.
Durante i suoi ultimi due mesi, cominciò a deteriorarsi
visibilmente e mi resi conto che non sarebbe vissuta a lungo. Il problema principale era un’aritmia incurabile: il polso non si abbassava mai a meno di 120 battiti al minuto e
non reagiva alle terapie. Pienamente consapevole che la fine era vicina, andava a letto con la speranza di non risvegliarsi al mattino. Ma nelle occasioni di festa, come il suo
novantaseiesimo compleanno, scherzava che ci avrebbe
sorpresi tutti a festeggiare il suo centesimo anno. Diceva
sempre più spesso che avrebbe desiderato andarsene, anche se le dispiaceva non sapere quello che sarebbe successo nel mondo e soprattutto nelle vite dei suoi familiari.
Nelle ultime settimane era chiaro che la morte era imminente. I polmoni congestionati erano insensibili ai forti
diuretici e rendevano la respirazione affannosa. L’ossigeno
dava sollievo alla fame d’aria e la sua lucidità era inalterata, ma per quanto non avesse gravi disagi, era impaziente
di affrontare l’impresa del distacco. Nel suo ultimissimo
giorno, mia madre si svegliò alle 3 del mattino e chiamò
l’infermiera che stava nell’appartamento perché l’aiutasse
a fare la doccia. Quando mia moglie e io arrivammo qualche ora dopo, era completamente vestita, con i capelli ben
pettinati e un’ombra di trucco che le ravvivava il viso gra-
Ricordo un confronto con l’équipe medica che dimostra quanto abbiamo bisogno di cambiare atteggiamento
verso la morte. Il signor I., un uomo di affari in pensione di
settantaquattro anni, arrivò in ospedale con un attacco
cardiaco, il sesto. Negli anni passati aveva sofferto di un’insufficienza cardiaca congestiva e aveva avuto parecchi gravissimi episodi di tachicardia ventricolare. I suoi polmoni
erano soffocati da rantoli, la pressione a mala pena misurabile. Aveva un enorme aneurisma ventricolare, una porzione immobile di muscolo cardiaco morto. Quando il dolore e l’ansia furono controllati con morfina e ossigeno, l’équipe cominciò a mobilitare tutte le risorse tecnologiche. Il
monitor aveva cominciato a intonare un ritmo distaccato,
e sugli schermi si susseguivano segnali elettrici illuminati al
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neon. Il respiratore e l’intubazione erano pronti, il defibrillatore era attaccato. La stanza era affollata di membri dell’équipe e di assistenti, che lasciavano poco spazio ai familiari. Si percepiva l’eccitazione della sfida medica, non il rispetto per un destino umano che si compiva. Un attento
esame indicò chiaramente che il malato era colpito in modo irreversibile.
La signora I. ci chiese di fare tutto il possibile per salvarlo, mentre suo figlio maggiore, un uomo sulla quarantina,
cercava invano di calmarla. Presi il figlio da parte e gli
esposi le alternative, dicendogli che potevamo prolungare
la morte di suo padre, ma non la vita. Il figlio ascoltò attentamente e poi rispose: «Cosa farebbe per suo padre in circostanze analoghe?».
«Cosa ne pensa sua madre?», chiesi.
«Si arrenderà al buon senso e sarà d’accordo a fare l’interesse di papà».
Diedi istruzioni all’équipe di dare al signor I. solo ossigeno, morfina e le cose necessarie al suo benessere. La
stanza si svuotò rapidamente. Prevalse un terribile silenzio. La tensione, come pure l’eccitazione, erano svaniti improvvisamente. La moglie e il figlio sedevano in un vigile
silenzio, là dove prima erano stati esclusi. Nessuno entrava
nella stanza, né un’infermiera né un medico, anche se il
paziente era in isolamento. Pensai tristemente a come è
solitario l’ultimo viaggio quando si è ricoverati. Sedetti vicino al suo letto e gli presi la mano. Era in pieno possesso
delle sue facoltà. Parlammo del più e del meno e ricordammo il nostro lungo rapporto. Ebbi una fitta di rimorsi e sensi di colpa quando commentò: «Ci sono vantaggi nel morire. Ho passato un bel momento con il mio dottore». Si addormentò e trapassò tranquillamente un’ora dopo.
Subito dopo riunii l’intera équipe e chiesi perché nessuno aveva offerto conforto a quest’uomo moribondo. «Se
avessimo deciso di fare un pompaggio cardiaco o di chiamare l’équipe per lo shock o di considerarlo un candidato
per il by-pass, vi sareste precipitati al suo capezzale». Dieci
persone, giovani medici e infermiere, chiaramente addolorati, stavano a capo chino. Cominciai a declamare, come un
prete in una chiesa silenziosa, che la vita viene privata del
suo significato quando gli esseri umani evitano di affrontare l’inesorabile certezza della morte. Per quelli di noi che
esercitano la medicina, l’incapacità di accettare la morte
come ultima destinazione della vita sminuisce l’impegno
umanitario magnificato da tutti. Aggrediamo continuamente pazienti a cui si potrebbe permettere di morire in
pace perché consideriamo la morte come un fallimento
professionale. Mettiamo la tecnologia tra noi e i pazienti
per risparmiarci il dolore di fallire nell’affrontare la nostra
propria mortalità. Parlavo senza rancore, quasi implorando. Parecchie settimane dopo ricevetti una lettera della vedova del signor I. che ci ringraziava di avere reso possibile
a suo marito una morte dignitosa come culmine di una vita ben vissuta.
Una buona morte
Il signor Y., noto scrittore, aveva una criniera di capelli bianchi, un viso rotondo, liscio e infantile illuminato da occhi azzurri, un sorriso timido e un modo vigoroso di parlare. Lo
incontrai la prima volta quando fu trasferito nel mio reparto al Peter Bent Brigham Hospital perché gli era stata diagnosticata un’insufficienza cardiaca congestiva incurabile.
Continuò a essere mio paziente per dieci anni e visse una vita produttiva, portando a termine molti libri importanti anche se afflitto da una cardiomiopatia terminale. Quando fu
ricoverato per l’ultima volta, il pompaggio del sangue era
troppo basso per rifornire una porzione di ossigeno sufficiente ai tessuti che soffocavano. Respirava rapidamente e
con fatica. Il suo corpo era passato da circa 150 libbre a 80.
I tessuti sottocutanei e il grasso erano da tempo scomparsi
e la sua pelle rugosa era simile a una pergamena mummificata giallastra che sosteneva lo scheletro. Anche se era in
grado di parlare, ogni parola era un bisbiglio smorzato.
Tuttavia la sua mente rimaneva lucida come il cristallo.
Lo rimandammo a casa a Cape Cod alla fine di luglio e
io non mi aspettavo che vivesse fino a ottobre. Mentre davo le ultime istruzioni sui farmaci e sulla dieta, improvvisamente si animò e chiese se mi avrebbe visto ancora. «Naturalmente. Le farò una visita a casa». Mi fece un debole sorriso quando gli autisti dell’ambulanza portarono la barella fuori dalla camera.
A novembre ricevetti una telefonata dalla signora Y.,
che mi diceva che suo marito chiedeva quando avrei fatto
la visita a casa promessa. Il week-end del Giorno del Ringraziamento presi un piccolo aereo per il Cape. Il signor Y.
era all’ultimo stadio di un’insufficienza generalizzata. Il
suo respiro stentoroso era interrotto da pause che sembravano definitive, ma poi emetteva profondi rantoli o respiri rapidissimi. La patina di ghiaccio dell’uremia, bianca,
fredda e leggera cospargeva le sue labbra, come se fossero macchiate di crema da barba. Un fine reticolato di venuzze rosse aggiungeva una sfumatura di colore al suo
pallore mortale.
Per festeggiare la mia presenza, il signor Y. si sedette a
tavola per il pranzo, senza peraltro assaggiare neppure un
boccone. Sua moglie, Augustine, pareva esausta, l’incarnazione stessa dell’esaurimento dopo notti e notti al suo capezzale attenta a cogliere ogni suo desiderio. La presi da
parte e le dissi di concedersi un week-end per riprendere le
risorse perdute. «Mai, mai», esclamò «È del tutto impensabile!».
«Pensa che possa morire mentre lei non c’è?», le chiesi.
Non rispose, ma i suoi occhi spaventati espressero questa
possibilità. «Non succederà», la rassicurai con più convinzione di quanta non ne sentissi in realtà.
Andai in camera da letto per parlare con il signor Y., dicendogli che volevo convincere Augustine a prendere alcuni giorni di riposo. Per la prima volta dal mio arrivo sorrise.
Potevo di nuovo vedere i suoi occhi ridenti che ricordavo
tanto bene, con il blu profondo non ancora appannato
dalla progressiva dissoluzione.
«Dottore, sono preoccupato perché Augustine fa troppo per me e trascura se stessa», rispose. «Non va bene. Mi
renderebbe molto felice se andasse via per alcuni giorni».
Quando convincemmo Augustine a prendersi un weekend per fare visita a un figlio a New York, il signor Y. fu rag-
La medicina è stata programmata per rifiutare il ritorno dei fantasmi. È concepibile riprogrammarla? Sono persuaso che l’atto del morire può essere umanizzato e che la
sofferenza può essere attenuata. Il mio ottimismo nasce
dal numero di «buone» morti a cui ho assistito. Il paziente
che sto per descrivere mi ha insegnato molto su come morire.
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B Lown - L’arte perduta di guarire
che le loro qualità spirituali e psicologiche uniche siano riconosciute e rispettate. L’ansia di essere lasciati soli può aggravare i sintomi e rendere tormentoso un dolore sopportabile, quindi l’elemento essenziale delle cure ai moribondi è assicurare loro una continua disponibilità.
Questo, come molti altri aspetti del curare, mi è stato dimostrato dal dottor S.A. Levine. Quando stava morendo di
tumore allo stomaco, mi chiese di essere il suo medico. Lo
andavo a trovare di notte dopo il lavoro e trovavo queste visite emotivamente estenuanti, perché non era solo il mio
maestro, ma mi era vicino come un genitore. Dopo ogni visita, dovevo fare un commento allegro, che era la parte più
difficile dela visita. Dall’inizio della nostra lunga associazione, sapevo che Sal non tollerava le ipocrisie e aborriva gli inganni, ma desiderava follemente un messaggio ottimistico.
Mi chiese se doveva abbandonare la clientela privata, e sembrò contento quando gli dissi che non c’era fretta.
Alla fine divenne un’impresa per lui anche solo semplicemente andare a letto. Era ridotto a un ammasso di ossa
e a uno strano mosaico di sottili venuzze che si incrociavano sulla sua pelle tesa, giallastra, simile a una pergamena.
Lo potevo già immaginare disteso nella bara, ma i suoi occhi non persero mai quell’inconfondibile guizzo vitale.
Una sera decisi di non gravarlo con il peso della visita.
Mentre lo lasciavo, sussurrò: «Bernie, hai un minuto? Mi
sono ricordato una storia che può interessarti. Quando Sir
Clifford Albutt stava morendo, era assistito da Sir William
Osler. Un giorno, mentre il dottor Osler stava lasciando la
camera del malato, Sir Clifford chiamò: “Sir William, cosa
devo fare con le piaghe da decubito?”. Osler non ricordava nessuna ferita da sfregamento. Con costernazione si rivolse all’infermiera vicino a lui e mormorò: “Cosa dire sul
decubito?”. Rispose: “Non ce n’è traccia!”. Sir Williams,
che era alla porta, ritornò, esaminò Sir Clifford e lo rassicurò che la pelle era sana».
Naturalmente, trovai immediatamente una ragione
per visitare il dottor Levine più approfonditamente di
quanto avevo fatto prima. Avevo imparato la lezione: da
allora, fino alla morte di Sal, lo visitai attentamente ogni
volta. Nessuno accetta di essere trascurato.
giante. Augustine si persuase infine che l’uomo che aveva
sposato sessant’anni prima non sarebbe morto in sua assenza. Ritornò rinvigorita. Dopo una settimana, all’inizio
di dicembre, una neve leggera impolverava gli alberi spogli. La signora Y. vestì il marito con abiti caldi e spinse la sedia a rotelle nella veranda. Guardandola con profondo affetto, il signor Y. disse: «Gli alberi sono così belli, mi portano il ricordo della mia infanzia nello New Hampshire». La
sua testa si abbassò bruscamente e morì.
Fu una morte degna di una vita piena. Norman Cousins
ha scritto: «Quello che ho imparato è che la tragedia della
vita non è la morte, ma quello che muore dentro di noi
mentre viviamo»5. Nulla dello spirito del signor Y. era morto durante la sua lotta con la grave insufficienza cardiaca
congestiva. Passò dieci anni alle porte della morte, ma non
si arrese mai alla disperazione né permise alla malattia di
sminuire la sua umanità.
Il mio ruolo come medico del signor Y. fu quello di diminuire i sintomi, di migliorare la funzione cardiaca nei limiti che la scienza e la tecnologia permettevano, di trovare continuamente modi per accrescere il suo confort e di
infondere ottimismo a coloro che si occupavano di lui. Forse il compito più difficile fu quello di stimolare la sua prodigiosa creatività quando sembrava che non potesse vivere abbastanza per completare il suo compito. Quando la fine fu vicina, la strategia medica fu di smettere di sostenere la sua esistenza fisica, che era diventata moneta falsa.
Ora, quando mi guardo indietro, sono orgoglioso di avere
saputo unire l’arte e la scienza. Il medico ha il dovere di
rendere possibile una morte dignitosa.
Ognuno di noi resiste all’idea di diventare una massa
inanimata di carne dolorante. Non senza ragione, e per il
tempo più lungo possibile, aspiriamo a mantenerci aggrappati a quel puntino di unicità che dota ciascuno di noi
della propria immagine di sé. Una buona morte dovrebbe
essere un nostro inalienabile diritto. La maggior parte di
noi non chiede altro se non una breve malattia senza dolore insopportabile, la presenza della famiglia e degli amici, abbastanza tempo ed energia per sistemare gli ultimi
affari e soprattutto non essere sottoposti a un’umiliante
perdita del controllo, in breve non svuotare gli ultimi anni
dal senso di dignità del sé che ci è voluta una vita a coltivare. Vogliamo essere ricordati con affetto, un desiderio molto modesto che porebbe essere alla portata di tutti. Anche
se una buona morte non può essere garantita a tutti, è certo che a quasi tutti può essere risparmiata una fine tormentosa. La medicina possiede già i mezzi per assicurare
un passaggio quieto.
Alcuni rimedi
Riflettendo su una vita passata ad affrontare la vita e la
morte, sono convinto che il tormento della morte è, in misura non piccola, creato dall’uomo. È un prodotto della
cultura occidentale che nega che la morte ci è dovuta e
stanzia in modo insensato risorse mastodontiche per prolungare il tormentoso atto del morire. È un fenomeno contemporaneo e quindi non è immutabile. Ma è difficile prevedere un cambiamento nella struttura ospedaliera o nel
pensiero medico che umanizzi la morte istituzionale. Le
spese per le cure ai morenti sono troppo alte e i medici
troppo ostinatamente fissati a provare il loro potere sulla
morte perché si trovi il sistema di fare quello che sarebbe
socialmente auspicabile. Inoltre il romanticismo di salvare
una vita, anche quando si tratta di un esercizio inutile, non
è facilmente abbandonato da un’équipe di giovani medici,
ultimi guardiani del paziente ricoverato.
L’ospedale dei giorni nostri funziona in modo più efficiente quando i pazienti sono infantilizzati e privati di po-
Una morte dignitosa
Non tutti possono avere una buona morte, ma la maggior
parte dei pazienti desidera molto di meno. Desiderano ricevere cure che calmino il dolore e non essere abbandonati. Ora che il processo del morire può essere esteso in modo interminabile, è soprattutto importante che i medici
sappiano come curare i pazienti morenti. I pazienti desiderano benessere fisico, sollievo da sintomi e la sensazione
5Cousins,
op. cit.
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G Ital Cardiol Vol 11 Gennaio 2010
Dodici giorni prima della sua morte, il medico e brillante saggista Lewis Thomas fu intervistato dal corrispondente del «New York Times», Roger Rosenblatt:
tere. La morte con dignità non ha significato quando si è
stati deprivati della vita. Cambiare l’approccio culturale richiede la deistituzionalizzazione del morire: come requisito preliminare l’ospedale non dovrebbe più essere il luogo
dove morire. La vuota dichiarazione sul «rendere la dignità alla morte» non sarà realizzata finché gli ospedali saranno associati dall’atto del morire.
Ognuno morirà nel suo modo unico e peculiare, che riflette la vita che ha vissuto. Ma morire può significare andarsene dalla propria casa, dove si è compiuta tutta la propria storia umana degli ultimi decenni. Per molti, affinché la
famiglia possa affrontare la situazione, una casa di riposo
può rappresentare un’alternativa all’ospedale e alla casa.
Il crescente movimento per le case di riposo dà un filo
di speranza. Si valuta che nel 1992, l’ultimo anno per cui le
cifre sono disponibili, 246.000 persone hanno scelto le cure della casa di riposo6. Nella filosofia della casa di riposo,
la morte non è considerata come un evento che deve essere rimandato a tutti i costi. La persona è sostenuta sia psicologicamente sia fisicamente, mentre la famiglia è coinvolta nelle cure. Poiché il fatto di morire non è più nascosto, la morte è considerata nella sua vera essenza. Aiutare
il morente ad affrontare l’inevitabilità della fine diventa
un atto terapeutico. Lo scopo del movimento delle case di
riposo è quello di dare una dignità alla morte.
Le ricerche sulla morte in casa di riposo contraddicono
la concezione che la morte debba essere una fine dolorosa
e miserabile della vita. Il dottor Loring Conant, direttore
sanitario delle Case di Riposo di Cambridge, ha valutato
che «più del 60% delle persone ha una buona morte dopo
essere stato curato adeguatamente». Secondo Conant, la
buona morte è costituita da tre elementi. Il primo è il sollievo dei sintomi e l’alleviamento delle sofferenze, che è
diventato possibile con la comprensione scientifica della
patogenesi del dolore, con l’introduzione di nuovi potenti
analgesici e con il sistema innovativo di somministrazione
dei farmaci. Il secondo consiste nell’aiutare le famiglie a
venire a patti con la morte del proprio caro. Infine, bisogna
imparare a parlare degli argomenti imbarazzanti per portare in superficie problemi nascosti, che forse fino ad allora non sono mai venuti alla luce. Anche se tali conversazioni rimangono incomplete, il semplice inizio è di per sé terapeutico. Diminuire il peso di questi problemi irrisolti
spesso permette di controllare un dolore sino ad allora insopportabile.
Una buona morte è lo specchio di una vita vissuta bene. Nel luglio 1776 James Boswell fece visita al morente
David Hume, filosofo inglese e sommo umanista. Ora che
Hume era prossimo alla fine (morì per l’esattezza sette settimane dopo) Boswell era curioso di scoprire se il noto non
credente si fosse ricreduto. Boswell gli chiese se il pensiero
del nulla gli creava disagio. Nessun maggior disagio, rispose Hume, che il pensiero di non esser esistito prima della
nascita. Hume guardava avanti senza paura a una rapida
dissoluzione. La serenità delle sue ultime ore di vita turbò
Boswell e lasciò una profonda impressione nell’Inghilterra
contemporanea7.
Quando la morte era considerata come un evento metafisico,
richiedeva una sorta di rispetto. Oggi, poiché il processo si protrae
a lungo, sembra la dimostrazione di un fallimento. Un paziente
moribondo è una sorta di mostro. È la più inaccettabile di tutte le
anomalie, un’offesa contro la stessa natura... In un senso relativamente nuovo per la nostra cultura, ci vergogniamo della morte e
cerchiamo di nasconderla. Nel nostro modo di pensare, è un fallimento... Ma l’agonia del morente non è nulla di tutto ciò. Sono sicuro che il dolore cessa al momento della morte... Succede qualcosa quando il corpo sta per espirare. Sono rilasciati ormoni peptidi
dalle cellule dell’ipotalamo e dalla ghiandola pituitaria. Endorfine.
Aggrediscono le cellule responsabili della sensazione del dolore.
Nel complesso... credo nella benevolenza della natura nel momento della morte8.
Quando gli fu chiesto cosa gli sembrava morire, Thomas rispose: «Debolezza. Questa debolezza. Sto cominciando a perdere rispetto per il mio corpo».
«C’è un’arte di morire?», gli chiese Rosenblatt.
«C’è un’arte di vivere», rispose Thomas.
LE RICOMPENSE DEL MEDICO
18. Una moderna storia chassidica
Malgrado i miei quarantacinque anni e più in medicina, mi
sento sempre uno studente alle prese con un’università
troppo esigente. I professori non sono augusti studiosi,
bensì i pazienti che incontro quotidianamente. Molti mi insegnano le manifestazioni o il progredire di una malattia.
Alcuni mi fanno capire gli alti e bassi della sorte e la cattiva ventura di un fato indifferente. Altri mi informano sulle tragedie ineluttabili che colpiscono quasi tutti nella vita.
Pochi altri, come comete che sono passate straordinariamente vicino, hanno modificato in modo permanente la
traiettoria della mia vita, poiché il potente campo gravitazionale delle loro personalità che ha percorso il mio proprio, mi ha portato in un’orbita nuova.
I miei ricordi più tenaci riguardano le malattie che mi
hanno imposto sfide impossibili e i rapporti umani intensi
e durevoli fioriti in queste occasioni. Queste esperienze mi
hanno portato ai limiti estremi e mi hanno insegnato che
la condizione umana non deriva dai libri, ma dall’intimo
impegno con gli altri esseri umani. Nessuna conoscenza libresca equivale a quello che si può raccogliere dai pazienti che hanno permesso a un medico di guardare profondamente nei loro occhi.
Rileggendo i primi capitoli di questo libro, mi rimane
una dolorosa frustrazione per la mia inadeguatezza a comunicare la complessità del processo di cura. Vorrei quindi
scrivere ora dettagliatamente di un paziente che mi ha colpito molto, mi ha educato su problemi complessi della medicina, mi ha permesso intuizioni psicologiche straordinarie e ha affinato la mia arte della cura. Molto tempo fa, ho
capito che l’insegnamento che dura è quello che narra storie che rimangono nel tempo. Dalla nebbia dei lontani ri-
6J.
Foreman, «Boston Globe», 7 marzo 1994.
Ignatieff, The Needs of Strangers, New York, Viking,
1985.
7Michael
8Roger
74
Rosenblatt, «New York Times», 21 novembe 1993.
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B Lown - L’arte perduta di guarire
la mia arroganza, ma era un gentiluomo inglese e non mi
chiese precisamente cosa intendessi. Anche l’indagine più
modesta avrebbe rivelato che queste pretese erano pure illusioni. S.V. non era affatto impressionato e aveva una sola richiesta, quella che io incontrassi il suo mentore, il noto
rabbino londinese F.G. Con una certa riluttanza acconsentii, anche se speravo che questa fosse la prima e ultima volta che volgevo lo sguardo su S.V., i cui problemi mi parevano insolubili.
Il giorno seguente incontrai il rabbino G., un uomo di
settant’anni dall’aspetto distinto, con la barba, impeccabilmente vestito di un lungo caffettano nero, cortese e sollecito. Parlava con dolcezza e con un leggero accento straniero. Chiesi al rabbino che rapporti avesse con S.V., sperando di avere una breve spiegazione. Affrontò la cosa con
ardore. «Poiché lei è l’uomo che salverà la vita del mio pupillo, comincerò dall’inizio», articolò il rabbino con enfasi.
«Comincerò proprio dall’inizio».
«A dodici anni aveva già previsto l’Olocausto e lo sterminio degli ebrei. Il giovane S. tentava di convincere i suoi
genitori a lasciare la Germania mentre erano ancora in
tempo. Non gli davano retta, ma lui li supplicò senza tregua. A metà del 1939, i genitori si convinsero. La notte dei
Cristalli e le sempre maggiori vessazioni naziste contro gli
ebrei rivelarono che il figlio aveva ragione. La famiglia acconsentì a lasciare la Germania dopo le vacanze estive. S.
non voleva sentir parola, convinto che sarebbe stato troppo tardi. Il 1° settembre, prendendo con sé una piccola valigia di averi, questo fragile ragazzo viaggiò da solo verso
l’Inghilterra, arrivando a Londra il giorno in cui fu dichiarata la guerra. La sua famiglia perì senza lasciare traccia».
Poiché era lontanamente imparentato con S.V., il rabbino se ne prese carico e lo sistemò in un orfanatrofio vicino a Londra. Alla fine del 1944, S.V. ebbe un’endocardite
batterica che si annidò sulla valvola mitralica precedentemente indebolita da una febbre reumatica.
Poiché non si conoscevano cure per questa malattia, i
medici non si aspettavano che sopravvivesse, ma il rabbino
non accettò il loro verdetto. «Che senso può avere?», chiese. «Il Signore non è capriccioso nelle sue azioni», un’osservazione non diversa da quella di Einstein, che Dio non gioca a dadi con l’universo. «Dopotutto», continuò il rabbino,
«il Signore è intervenuto direttamente per risparmiare la
vita di questo ragazzo. Non è volontà di Dio che egli muoia
senza ragione in questa meravigliosa libera terra dell’Inghilterra».
Il rabbino tormentò instancabilmente i medici con la
stessa domanda. «Siete sicuri che non c’è cura per questa
infezione?». Un medico gli disse che c’era un nuovo farmaco miracoloso, la penicillina, efficace contro le endocarditi,
ma il farmaco era fortemente razionato, perché era riservato al personale militare. Il rabbino si informò sul modo
in cui era distribuita la penicillina. Quando venne a sapere
che arrivava confezionata in polvere che era versata in un
grosso contenitore di soluzione salina e poi somministrata
per via endovenosa, ebbe un’ispirazione. Il rabbino suggerì che l’ospedale mandasse telegrammi, a sue spese, a tutte le installazioni militari inglesi, chiedendo le fiale vuote
di penicillina. «Cosa faremo con le fiale vuote?», chiese
stupito il dottore. «Tutto quello che dovete fare», rispose
il rabbino, «è risciacquarle con pochi millilitri di soluzione
salina e iniettare la soluzione nel mio pupillo». Aveva pen-
cordi dell’università, pochi fatti resistono, ma molte delle
storie degli uomini persistono con la lucentezza di un diamante.
C’è una ragione più pressante nel mio desiderio di condividere con i lettori la storia del paziente S.V. È stata la sua
storia a indurmi a scrivere questo libro. Riflettendo sul mio
rapporto con lui, mi rendo conto che è emblematico del
processo di cura. Ma, come ogni buona caricatura, trasmette una verità più profonda: l’apparente esagerazione e la
prospettiva che sembra distorta mettono a fuoco l’essenziale. S.V. era apparentemente un uomo comune, ma mi
fece la più profonda delle impressioni, mi lasciò terribilmente sconcertato e mi fece soffrire a lungo dopo la sua
morte. Sembrava confuso e perplesso quando gli parlai del
mio desiderio di scrivere su di lui, un giorno.
«Perché su di me? Mi trova così interessante? Dovrei
sentirmi onorato. Senza dubbio sarò in una compagnia
molto distinta. Ma non sono sicuro che dirà l’intera verità,
perché ha così poca simpatia per il mio pericoloso stato di
salute». Tuttavia dopo questa conversazione mi spronò
spesso a raccontare la sua storia.
Tutto cominciò nel dicembre 1974, quando mia moglie
Louise e io facemmo un viaggio in Sicilia con una breve sosta a Londra per andare a teatro e visitare musei. Avevo
promesso a Louise una vera vacanza priva di impegni medici, ma durante il nostro breve soggiorno a Londra mi fu
richiesto un consulto su un problema medico complicato e
insolito al National Heart Hospital che non potei rifiutare.
Il paziente, S.V., aveva avuto le valvole mitralica e aortica sostituite l’anno precedente da un eminente chirurgo
londinese; da allora soffriva di palpitazioni cardiache incurabili conseguenti a un’insufficienza cardiaca. Aveva consultato il massimo cardiologo inglese, ed era stata applicata ogni possibile misura senza alcun successo.
All’ospedale incontrai il paziente: un uomo di mezza
età, poco attraente, di bassa statura, con spalle larghe e lineamenti marcati. Un paio di occhi leggermente sporgenti, grandi e azzurri, si guardavano intorno attoniti, da una
testa che sembrava troppo grossa per il suo corpo. La sua
andatura trasmetteva una certa innocenza infantile, ma la
voce, con un marcato accento inglese, era contrassegnata
da un cinismo tutto adulto. Sembrava singolarmente integro, malgrado le vicissitudini di un anno di continui ricoveri, un’operazione assai complessa con numerose complicazioni, inclusi molti piccoli attacchi. Aveva in tutta evidenza
un’insufficienza cardiaca destra e sinistra, con vene giugulari gonfie e larghe come cordicelle e crepitii respiratori alla base dei polmoni. La spiegazione immediata delle sue
difficoltà non era difficile da trovare: il suo cuore era continuamente in tachiardia, batteva tre volte il ritmo normale con punte di 180-200 battiti al minuto senza tregua, anche durante il sonno.
Esaminai attentamente la spessa cartella clinica in cerca di qualche indizio che spiegasse la fibrillazione cardiaca
a questo ritmo straordinario, ma ogni possibilità era stata
presa in considerazione ed erano state escluse le diagnosi
più strane. Continuai con la tattica del consultante: «Se soltanto il signor V. fosse nella mia clinica al Peter Bent Brigham Hospital a Boston, risolveremmo il problema». Dopo
aver pronunciato queste parole, mi vergognai di essermi
abbassato a una simile insulsaggine. Con tutta evidenza il
cardiologo inglese con cui facevo la visita mi vide in tutta
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G Ital Cardiol Vol 11 Gennaio 2010
za di suo padre, e pianse per gli anni di opportunità perdute per studiare e crescere spiritualmente al suo contatto.
Ma Giacobbe, che aveva pianto ogni giorno per tutti quegli anni per l’assenza del figlio, poteva ora indulgere nella
gioia di un ritrovarsi a lungo sperato».
Ancora sconcertato, chiesi: «Cosa c’entra questo con
me?».
«Come Giuseppe, ha incontrato Giacobbe», rispose il
rabbino.
«Chi è allora S.V.? Una sorta di Lamedvovnik?»1, chiesi.
«Può essere, può essere», rispose il rabbino in un sussurro misterioso, «ma non lo sapremo; non possiamo saperlo. S.V. stesso non lo sa. Solo il Signore lo sa. Gli esseri
umani mortali non possono mai penetrare questi segreti
nascosti nella Zohar (il libro più importante del movimento cabalistico) che sostiene l’universo».
Passarono molti mesi e dimenticai S.V. Avevo concluso
che era troppo ammalato per un viaggio oltre Atlantico,
ma non avevo valutato appieno la sua determinazione. Il
13 aprile 1975 un cardiologo di Londra volò a Boston con
S.V., che fu ricevuto all’aeroporto da un rabbino di New
York che lo fece ricoverare al Peter Bent Brigham. L’esperienza delle settimane seguenti fu molto difficile, perché
non avevo ancora la soluzione del problema. S.V. stava seduto nel letto giorno dopo giorno, aspettando che io compissi il miracolo.
Non conosceva anima viva a Boston, non riceveva visite e in quanto vegetariano non godeva neppure del magro
vitto ospedaliero. Pensavo che le restrizioni della sua dieta
fossero dovute all’applicazione delle regole kasher. La sua
unica distrazione era studiare il Talmud. Poiché S.V. indossava una papalina, pensai che potesse apprezzare qualche
consolazione spirituale e informai un rabbino ortodosso
del suo calvario. Il giorno seguente, S.V. era furibondo perché avevo violato la sua privacy. «Perché dovrei avere bisogno di questi religiosi fanatici?», chiese rabbiosamente. Rifiutò molti inviti dai chassidici e anche se lo incoraggiai a
lasciare l’ospedale per qualche ora ogni tanto, fu irremovibile. Ero incerto su cosa fare con lui.
Durante il lungo soggiorno in ospedale di S.V. cominciai a capire qualcosa del suo strano carattere. Le sue conversazioni spesso erano così strane che pensavo facesse
dell’ironia, ma S.V. scherzava raramente. Al contrario, c’era in lui una serietà meditabonda e grave, anche se non era
depresso. Rideva prontamente, ma con imbarazzo, come
se fosse una colpa. Era un ipocondriaco con molti malesseri e rispondere alle sue domande era un compito inutile
quanto tagliare la testa dell’Idra. Aveva un sorriso aperto
che sembrava angelico, ma anche quando sorrideva continuava a parlare dei suoi mali. Morbosamente affascinato
dalla professione medica, ottenne il certificato di nascita di
tutti i medici che lo curavano e venne a sapere dettagli intimi, a volte sconcertanti, delle loro vite. Ostentava queste
ghiotte informazioni al momento opportuno.
A causa del ritmo rapido persistente in fibrillazione
atriale, sospettai che S.V. non avesse preso il farmaco alla
sato che alcuni cristalli avrebbero aderito al vetro e la risciacquatura di migliaia di questi contenitori avrebbe fornito abbastanza penicillina per salvare la vita del ragazzo.
I medici fecero esattamente quello che aveva prescritto il
rabbino e S.V. inaspettatamente guarì.
S.V. stette bene sino al 1970, quando le sue valvole cardiache cominciarono a deteriorarsi, portandolo a una crescente invalidità. Il cardiologo riteneva urgente una sostituzione della valvola, ma il paziente esitava. Un giorno, il
cardiologo annunciò che l’eminente chirurgo londinese Sir
Donald Ross era pronto per l’operazione. S.V. non fu impressionato e disse che voleva scegliere da solo il chirurgo.
Mandò quindi lettere chiedendo informazioni ai maggiori
cardiochirurghi del mondo intero: Michael De Bakey e
Denton Cooley a Houston, Norman Shumway a Stanford,
Christian Barnard a Capetown, John Kirklin a Birmingham,
R. Barrat-Boyes a Auckland e Gerald Austen a Boston.
Il cardiologo inglese di S.V. sosteneva che nessuno di
questi medici eminenti avrebbe risposto alla sua lettera arrogante e incompetente, ma S.V. ricevette risposte dettagliate da quasi tutti. Nessuna lo soddisfò, tuttavia, e dopo
avere molto riflettuto, decise di fare l’operazione a Londra
e scelse un giovane e abilissimo chirurgo egiziano. Un anno dopo, mi mostrò le risposte dei migliori nomi della cardiochirurgia mondiale. La cosa più notevole era che ognuno aveva risposto non solo con dettagli sostanziali, ma cercando di convincere S.V. a diventare suo paziente.
Dopo qualche tempo, quando interrogai S.V. sulla sua
scelta del cardiologo, spiegò che aveva rifiutato di accettare valvole di plastica nel suo cuore e che solo pochissimi
chirurghi avevano esperienza in valvole di tessuto. Il più
competente era Barrat-Boyes in Nuova Zelanda, che era
troppo lontano. S.V. era davvero lungimirante: se avesse
avuto una valvola di plastica, non avrebbe tollerato l’aritmia perché le protesi di plastica non potevano sopportare
i ritmi cardiaci ultrarapidi e molto probabilmente sarebbe
morto. S.V. aveva pensato che un chirurgo egiziano a Londra avrebbe fatto di tutto perché un paziente ebreo sopravvivesse, soprattutto dopo essere stato scelto in preferenza all’eminente Sir Donald Ross. Di nuovo, S.V. ragionava bene. Il suo decorso ospedaliero fu tempestoso, le complicazioni si susseguirono e il cardiochirurgo gli salvò la sua
vita numerose volte, arrivando al punto di mettere una
branda nella camera di S.V., dove dormì per parecchie notti subito dopo l’operazione.
«Ma perché si è rivolto a me?», chiesi al rabbino. Mi
spiegò che S.V. aveva esaminato attentamente anche questa questione e aveva concluso che c’era solo un medico al
mondo che avrebbe potuto correggere il suo ritmo rapido,
cioè io. Continuai: «Su che cosa ha basato questa conclusione?». Il rabbino si fece misterioso e mi chiese quale brano della Torah fosse stato letto quella settimana. Non ne
avevo alcuna idea. Ragionò: «Si racconta di Giuseppe, che
non aveva visto suo padre Giacobbe per ventidue anni. Alla fine lo incontrò. E la Torah dice che Giuseppe pianse, ma
Giacobbe era eccitato. La prego di spiegarmi, dottore, queste diverse reazioni del padre e del figlio durante questo
gioioso incontro».
Mi strinsi nelle spalle, perplesso.
Il rabbino continuò trionfante. «Il Talmud fornisce una
profonda spiegazione psicologica. Quando Giuseppe incontrò Giacobbe, capì immediatamente la grande saggez-
1Nella
Cabala si sostiene che la terra è retta da trentasei saggi scelti
da Dio, i Lamedvovnik. Le lettere nell’alfabeto ebraico, hanno
equivalenti numerici: «lamed» corrisponde a «trenta» e «vov» a
«sei».
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B Lown - L’arte perduta di guarire
Anche se ora era completamente asintomatico, S.V. rifiutava di lasciare l’ospedale. Riprese a insistere in modo
teatrale dicendo che era un uomo moribondo. Alla fine,
mandai un giovane collega in cardiologia a prendere gli
averi di S.V. e li mandai a un albergo vicino, il Children’s Inn.
S.V. seguì come un automa, protestando che questo non
era il modo di trattare un paziente gravemente malato.
Il suo soggiorno a Boston sembrava interminabile. S.V.
insisteva perché voleva avere visite frequenti, se non quotidiane, e gran parte della mia équipe sembrava adibita a
questo scopo. Offriva cioccolatini, fiori e profumi alle segretarie per i compleanni e come anticipazioni dei compleanni. Le invitava al Ritz, dove cenavano sontuosamente, e le copriva di regali molto costosi. Conosceva tutti i mei
progetti e si vantava di conoscere intimamente gli episodi
della mia vita di famiglia. Era diventato una noia e una
grossa seccatura.
Quando gli chiesi dei suoi progetti di ritornare a Londra, S.V. rispose che dipendeva dalla mia disponibilità ad
accompagnarlo. Gli dissi categoricamente che non avevo
nessuna intenzione di farlo. Rispose filosoficamente che
era pronto ad aspettare indefinitamente e presto fu chiaro che parlava seriamente. Quando venne a sapere che dovevo dirigere una delegazione di cardiologi a Mosca, mi
chiese di prenotare un volo con scalo a Londra. Ma il viaggio era già stato organizzato passando da Copenaghen,
che era il luogo di raduno per la delegazione sponsorizzata dagli Istituti Nazionali di Sanità. S.V. continuò a dire con
voce monotona che Londra era sulla strada per Copenaghen e per quasi tutte le altre destinazioni.
Alla fine cedetti alle sue richieste, soprattutto per il
pensiero intollerabile che egli altrimenti potesse diventare
un ospite fisso della mia clinica. Il cambiamento dei piani
di volo era un problema imbarazzante da spiegare all’agenzia organizzatrice che pagava il conto. S.V. partì di
nuovo all’attacco. Una volta che fu certa la decisione di
passare da Londra, fece la sua prossima richiesta sotto forma di domanda. «Cosa sarò dunque in grado di fare per
ventiquattr’ore all’aeroporto di Heathrow, a meno che il
suo intento sia quello di profanare il sacro Sabbah?».
«Cosa intende dire?», chiesi con l’irritazione che trasudava da ogni sillaba.
Rispose che poiché aveva prenotato un volo di giorno,
saremmo arrivati venerdì sera dopo il tramonto. Agli ebrei
ortodossi non è permesso viaggiare o impegnarsi in quasiasi attività per le ventiquattr’ore che seguono il tramonto di venerdì e lui non voleva profanare il sacro Shabbat.
Disse che non poteva lasciare l’aeroporto, non poteva acquistare del cibo, non era sicuro di poter andare in bagno
perché le porte dei gabinetti funzionavano a monete,
quindi sarebbe stato obbligato a stare tranquillamente seduto, digiunando per tutto il tempo. S.V. aveva trasformato il mio nobile gesto in un sacrilegio ignobile. Poiché avevo già ceduto sul fatto fondamentale di fare scalo a Londra, cedetti ancora e riprenotai un volo di notte che partiva da Boston un giorno prima.
La vigilia della partenza, S.V. fu portato al Logan Airport di Boston dallo stesso rabbino che lo aveva accompagnato al Brigham parecchi mesi prima. Il rabbino arrivò
senza fiato: S.V. gli aveva chiesto di visitare tutti i monumenti di Boston che non aveva ancora visto. Andarono al
nuovo acquario, dove S.V. insistette per arrampicarsi a
digitale che lo avrebbe rallentato. Gli feci molte domande,
ma rispose in modo evasivo. Raccontò che al National
Heart Hospital a Londra aveva così poca fiducia nei medici
che non prendeva le medicine prescritte. Quando infine si
decise di prenderne alcune, prima si affrettò di fare un test
di controllo per sapere se erano sicure. Molti piccioni facevano il nido sulla cornice esterna della sua finestra. Ridusse in polvere una pillola di quinidina, la mescolò con briciole di pane e la mise sul bordo della finestra. Dopo che un
piccione la beccò e cadde morto stecchito, S.V. non prese
mai più quel farmaco. Mi assicurai che ci fosse sempre
un’infermiera quando doveva prendere le medicine.
Mentre le settimane passavano, ero sempre più incerto
sulla possibilità di trovare una risposta al problema di S.V.
Una sera tardi telefonai al famoso rabbino di Boston Joseph Soloveitchik. Non lo conoscevo, ma il grande rabbino
ascoltò attentamente la presentazione dei dati clinici e
commentò: «Dottore, questo è un problema medico, non
teologico».
S.V. era presente nel mio spirito dal mattino alla sera.
Prendevo in considerazione ogni possibile mutamento. Cominciai a detestarlo. Il sonno non mi dava riposo. Ma una
volta mi svegliai di botto alle tre del mattino e la risposta
era chiara davanti a me. Potevo a mala pena aspettare l’alba. Quando l’ipotesi fu verificata, funzionò. Eravamo in
grado di abbassare drasticamente il ritmo del suo cuore, fino a 70 battiti al minuto, con una combinazione di farmaci somministrati per endovenosa. Sarebbe funzionato oralmente? Funzionò. Il ritmo del cuore di S.V. rimase basso
per ventiquattro ore.
Il mattino dopo entrai trionfante nella stanza del mio
paziente, aspettandomi osanna di ringraziamenti e gratitudine. Nulla. Invece, con il volto arcigno che mi riservava
ogni giorno, dichiarò: «Devo ammettere che non mi sento
troppo bene».
«Perché?», chiesi rigidamente.
«Per il prurito all’ano che avete ignorato per mesi», fu
l’inattesa risposta.
Ebbi la tentazione di picchiarlo, ma mi limitai a uscire
dalla stanza. Dopo parecchie ore, ritornai con uno stuolo
di medici e annunciai a S.V. che era una delle persone più
ingrate che avevo avuto la sfortuna di incontrare. «Da
tempo ho imparato che nessuno può curare un paziente
che soffre di un prurito di cui non ha mai parlato», continuai. «Inoltre, molti anni di malattia l’hanno talmente condizionato ad avere benefici secondari che adesso teme di
stare bene. Non riuscirà più per molto a sfruttare con le sue
richieste tutti i ben intenzionati che le stanno intorno. La
sua ingratitudine è smisurata». Era il discorso più cattivo
che avessi mai rivolto a un paziente. Lasciai la stanza senza aspettare le sue scuse. I medici che mi accompagnavano
furono esterrefatti dalla mia piazzata. Sapevano che ero
diplomatico anche con il paziente più difficile e provocatorio. Dov’erano il mio tatto, la mia equanimità, la mia carità? Erano davvero stupiti.
Il giorno dopo, S.V. faceva le fusa come un gattino. Si
scusò, ricordandosi di una reazione simile da parte di un
medico inglese parecchi anni prima. Il medico gli disse che
non avrebbe più avuto nessun interesse a essere ulteriormente coinvolto nella cura di S.V. finché non avesse ricevuto una spiegazione scritta sul perché egli desiderasse stare
bene.
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G Ital Cardiol Vol 11 Gennaio 2010
Alle 13,30 S.V. aspettava in una Bentley guidata da un
autista, noleggiata per portarci al ristorante. La tavola era
imbandita come un banchetto con montagne di cibo: caviale, storione, uccellagione, carne di tutti i tipi e altro ben
di Dio e vini che comprendevano Chateau Mouton Rothschild e eccellenti Borgogna. Con mio disappunto, nessuno dei medici londinesi di S.V. si informò delle modalità
della sua straordinaria guarigione. Ci fu tuttavia un grande interesse per alcuni progressi tecnologici introdotti all’epoca al Brigham Hospital. Alla fine del pranzo, S.V. ebbe bisogno di una passeggiata digestiva. Aveva appena
toccato il cibo.
Ebbi l’impressione di camminare per ore. Mi sembrava
di essere drogato. Quando arrivammo ai grandi magazzini
Harrod’s, il posto preferito di S.V. a Londra, impiegati e
commessi lo salutarono con calore. Sapevano che era appena tornato dagli Stati Uniti e si complimentarono per il
suo bell’aspetto. Rispose che le apparenze ingannavano,
declamando, come in un ritornello di Gilbert e Sullivan,
«Ma sono un uomo molto malato». Mentre passeggiavamo nell’immenso negozio, S.V. diceva a tutti quelli che incontravamo: «Questo è il mio medico americano, il professor Lown di Harvard». Alla fine del pomeriggio ero finalmente libero. Ero stato con S.V. quasi ininterrottamente
per ventiquattr’ore. Mi sarebbe occorsa più di una settimana per rimettermi.
Il 10 agosto del 1975, S.V. mi scrisse:
piedi proprio fino in cima invece di prendere l’ascensore.
Ma il rabbino era pieno di gratitudine per il privilegio di
fare da guida turistica a quello che prima era un grave invalido!
All’aeroporto, Louise, mia moglie, prese S.V. da parte e
gli disse che era importante che io dormissi perché ero stato sveglio parecchie notti di fila con pazienti gravi ed ero
stanco morto. Le disse che aveva pensato di tenermi sveglio per tutta la notte. «Dunque», suggerì nel suo impeccabile inglese reale, «al professor Lown sarà offerta l’opportunità di riscattare la sua negligenza rispondendo a
molte domande urgenti sulla mia sopravvivenza troppo a
lungo ignorate». Quindi tirò fuori uno spesso taccuino a
tre anelli e a fogli mobili «pieno di domande per il professore». Quando ci stavamo imbarcando, Louise mi informò
dei progetti di S.V. per la traversata atlantica.
Appena seduti sull’aereo, mi tolsi con gesto drammatico l’orologio da polso e glielo misi davanti agli occhi.
«Questo orologio è fermo», dissi calcando su ogni sillaba.
«Lo carico ora. Ha esattamente un’ora di tempo. Se durante quest’ora ripete anche una sola domanda, la sua indagine verrà interrotta subito».
S.V. era fuori di sé. «Non può farmi questo. Ho aspettato per settimane questa occasione. Una delle ragioni principali del nostro volo insieme per me era ottenere risposte
vitali per la mia sopravvivenza. Mi dia almeno due ore per
riorganizzare le domande». Acconsentii. Bighellonò per
due ore e quando disse che era pronto, caricai l’orologio.
Le sue domande erano quelle a cui avevo già risposto molte volte. Quando l’ora fu terminata, gli voltai la schiena,
pronto almeno a farmi un pisolino. S.V., che soffriva di insonnia, non era disposto a rimanere senza compagnia. Mi
batté sulle spalle e mi chiese se ero pronto a vendicare l’onore della professione medica. «Non ha bisogno di essere
vendicato», risposi.
S.V. insistette: «Oh, sì!».
«Come mai?».
«Nessun medico mi ha mai battuto a scacchi», dichiarò
S.V.
«Ma io sì», mi infuriai. Non giocavo a scacchi da decenni e il mio gioco, mai veramente buono, era arrugginito. Tirò fuori un set da scacchi e iniziammo. In tredici mosse lo
avevo battuto. Pretendendo che era un colpo di fortuna,
chiese una rivincita. Accettai e lo battei in undici mosse.
Quando insistette per fare un’altra partita, gli dissi che
avrei assaporato questa vittoria per il resto della mia vita e
non gli avrei mai dato la soddisfazione di un’altra partita.
Rispose: «È bene che la mia sconfitta abbia rivelato un
aspetto brutale della sua personalità. Lei è una tigre travestita da medico».
Non c’era più tempo per dormire, perché il sole appariva all’orizzonte, inondando la cabina di volo della brillante luce mattutina. Il pilota annunciò che saremmo arrivati
a Heathrow in un’ora. S.V. era completamente sveglio ed
energico come se si fosse appena alzato dopo un sonno ristoratore. Mi avvertì di un nuovo sviluppo della situazione:
era stato organizzato un pranzo per me con alcuni medici
londinesi al Carlton Towers verso le 12,30 il giorno stesso.
Non potevo dire a questo malatissimo paziente che ero
troppo stanco per unirmi a lui per il pranzo! Quindi insistetti soltanto di rimandare di un’ora e accettò con magnanimità. Aveva il comando totale della situazione.
Boston mi ha aperto gli occhi ed è stata tonificante. Avere avuto l’occasione di osservarla in azione in ambiente ristretto, avere
visto un approccio molto più scientifico alla cardiologia di quello a
cui ero avvezzo, mi ha lasciato pieno di riverenza e rispetto per le
sue meravigliose imprese.
Ho avuto l’opportunità di osservare molti cardiologi nella mia
vita, ma non ho mai avuto esperienza dell’interesse personale, dell’umanità e del calore che ho ricevuto da lei e, sotto la sua influenza, dalla sua équipe. La mia gratitudine è più grande di quanto
non possa esprimere.
Prima, a giugno, aveva scritto alla mia segretaria:
Viaggiare con il dottor Lown è stata una bella e interessante
esperienza... Nessuno di noi ha dormito... Pover’uomo, è passato
davvero da un interrogatorio tipo Gestapo e senza possibilità di
fuga. L’ho interrogato sulla sua famiglia, sui genitori, gli zii, i fratelli, la moglie, i figli e poi sulle sue idee religiose, o sulla mancanza di esse, sulla politica, in cui egli ha solide convinzioni ecc... e poi
ho fatto un grosso errore a chiedergli di giocare a scacchi. È stato
interessante vedere quest’uomo cortese e gentile trasformarsi improvvisamente... Faceva un tipo di gioco rapido, forte, duro, azzardato, spietato... Devo ammettere che mi ha annientato.
S.V. fece numerosi viaggi a Boston per tredici anni. Aveva bisogno di numerose revisioni nel dosaggio e nelle combinazioni dei farmaci, ma forse la ragione principale di
queste costose visite era ricevere consigli sui suoi problemi
personali. Si comportava come un adolescente ubbidiente
che cercava il consiglio dei genitori. Soprattutto, cercava di
essere rassicurato sul fatto che avrebbe continuato a vivere. I miei incoraggiamenti, senza esitazione la certezza delle mie parole dissipavano le sue paure per molti mesi. Conversavamo spesso al telefono e quando cercavo di scoraggiare una sua visita, egli cominciava a parlare del mio desiderio di liberarmi di lui, perché la prognosi non era così favorevole. Continuava in modo sempre più energico finché
non cedevo e alla fine acconsentivo a vederlo.
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B Lown - L’arte perduta di guarire
La sua vita in Inghilterra era finita nel modo in cui era
iniziata, con un’endocardite batterica. La causa immediata
della morte era stata una fibrillazione atriale non controllata, la stessa aritmia che avevamo combattuto insieme per
tredici anni. Il numero 13 è sacro e carico di significato cabalistico per gli ebrei ortodossi.
La mia segretaria, che lo conosceva bene, aveva tenuto
S.V. informato dei miei progetti. Quando cercai di parlare
con lei di S.V., rispose soltanto: «Era un uomo molto misterioso».
Ancora oggi continuo a chiedermi spiegazioni sull’effetto sconvolgente che ebbe su di me e sugli altri. È frutto
di un’interazione complessa che si situa in una ragione in
cui la scienza ha ben scarso potere. La sua storia è un esempio del rapporto straordinario che un medico intesse con il
paziente e del modo in cui trasforma profondamente la
sua vita.
Evitavo di informare S.V. delle mie visite a Londra, ma
ogni volta lui veniva a saperlo. Quando sapeva del mio arrivo con sufficiente anticipo, organizzava sontuosi intrattenimenti. Una volta mi invitò alla prima dell’Opera, un
evento splendido e formale. Avevamo un palco nel piano
reale vicino alla Regina Madre accompagnata dal Principe
Carlo. Più tardi venni a sapere che era uno spettacolo di
beneficienza in cui i posti meno cari andavano da 100 a 80
sterline. S.V. aveva riservato un palco con dieci posti. Dove
trovasse i soldi, era un segreto mantenuto con cura.
Tentai parecchie volte di tenere le mie segretarie all’oscuro dei miei viaggi o del mio indirizzo londinese. Serviva
poco: mi trovava sempre. Ricordo una sera che arrivai a
Londra e presi l’hotel all’ultimo momento, sperando di seminare S.V. Appena entrato nella stanza, con un vago presentimento, vidi un vaso con bellissime rose con un bigliettino di saluti di S.V. impresso in rilievo. Come visitato dai
fantasmi, passai una notte sveglio con la luce accesa, con la
sensazione che S.V. fosse nella stanza che mi osservava.
Tredici anni dopo il mio primo incontro con S.V., continuava a stare bene, contro qualsiasi previsione medica. La
sua sopravvivenza non era un fatto di poco conto ed ero
sconcertato da lui e da tutto quello che lo riguardava. Chi
era S.V.? Da dove provenivano le sue abbondanti risorse
senza che avesse mai lavorato? Da che cosa era costituito il
suo ascendente sugli altri? Perché così tanta gente lo rispettava e lo adorava? Era davvero un Lamedvovnik, uno
dei Trentasei saggi sacri a cui nulla era impossibile?
Una volta, alla fine del gennaio 1987, mentre mi preparavo febbrilmente a un importante viaggio a Mosca per
febbraio, mi sentii come obbligato a scrivere la storia di
S.V. Non appena l’ebbi finita, ricevetti una telefonata dal
cardiologo londinese di S.V. Il 1° febbraio S.V. si era sentito male e aveva avuto la febbre durante la notte. Lo aveva visitato immediatamente, Nulla suggeriva un’endocardite batterica, ma le colture di sangue pochi giorni dopo
evidenziarono la presenza di stafilococchi. Venne ricoverato e fu iniziata subito una cura endovenosa di antibiotici.
Il giorno dopo, tuttavia, ebbe uno shock settico e un’insufficienza renale e la circolazione dovette essere sostenuta
artificialmente. In un’operazione al cuore d’urgenza, il suo
chirurgo egiziano trovò un grave danno alla valvola a causa dell’endocardite. Le valvole mitralica e aortica furono
sostituite da protesi appropriate. S.V. ebbe poi una rapida
fibrillazione ventricolare, l’aritmia che era stata il motivo
del mio primo consulto. Con l’innescarsi di questa grave
anomalia cardiaca, le sue precarie condizioni cliniche peggiorarono rapidamente. Gli fu data una forte dose di farmaci antiaritmia per endovenosa, ma morì quasi subito
dopo.
La morte di S.V. mi lasciò con un dolore vivo e una sensazione di vuoto, la mancanza di qualcosa che mi aveva ossessionato, ma che sostanzialmente mi mancava. Avevo
perso un punto di riferimento particolare che aveva scandito la mia vita con coincidenze inspiegabili, infondendomi uno strano senso di fiducia. Perché, anche se a fine gennaio ero così occupato, mi ero sentito obbligato a scrivere
la storia di S.V.? Perché in quel momento? Perché non potevo aspettare? Scrivevo perché «sapevo» che S.V. era malato, ancora prima che si rivolgesse a un medico? Scrivendo la sua storia posi fine alla vita di S.V., perché un Lamedvovnik non può mai esporsi?
L’ARTE DI ESSERE UN PAZIENTE
19. Farsi ascoltare dal medico
Un medico, per potenziare le certezze che gli derivano dalla scienza, deve padroneggiare l’arte di conoscere gli uomini. Anche il paziente deve coltivare un’arte speciale,
quella di trattare con il medico. La transazione medica si
basa sulla cura della malattia e sul fatto che il paziente desideri guarire. L’oggetto dell’arte del paziente è quello di
indurre il medico a incorporare la guarigione nel processo
di cura.
Guarire richiede un rapporto basato sull’eguaglianza
(un elemento chiave nel profondo rapporto medico-paziente) e sul rispetto reciproco. Questo non è garantito automaticamente né dall’uno né dall’altro: bisogna conquistarselo. Senza rispetto, un medico non può ottenere la fiducia del paziente e comunque il rispetto non è comunicato solo dal linguaggio. Così parlò del suo medico il saggista Anatole Broyard, morto di cancro: «Non ho nessuna fiducia in qualcuno che mi dice di amarmi quando non mi
conosce neppure». Il paziente desidera essere conosciuto
come essere umano, non semplicemente come il ricettacolo di una malattia. Soltanto il paziente è capace di stimolare l’attenzione del medico perché possa conoscere un campo più vasto, quello della persona che soffre. In questo risiede la sua arte.
Anche se i medici sono diversi l’uno dall’altro, come del
resto tutti gli esseri umani, ci sono comunque alcuni principi che possono applicarsi all’arte di essere pazienti. In primo luogo, secondo me, bisogna ridurre le aspettative sulla
scienza senza diminuire il rispetto per il medico. Anche se
sembra non avere limiti, la scienza medica sarà sempre costretta ad avere a che fare con la condizione umana. Malgrado i progressi della conoscenza medica, le immense lacune dell’ignoranza non saranno mai colmate. La medicina
non sarà mai in grado di impedire la morte o il deterioramento dovuto all’età, o di riparare completamente le conseguenze di incidenti gravemente traumatici o di correggere alcune anomalie congenite. Molte altre malattie non
troveranno ancora per lungo tempo una cura definitiva.
Oggi la medicina scientifica, anche nel suo senso più
stretto, manca di soluzioni precise per la maggioranza dei
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una sorta di limbo. In assenza di malattie identificate dal
punto di vista organico, i medici tendono a trasmettere
l’impressione che il paziente abbia un disturbo caratteriale invece di una malattia debilitante e fastidiosa.
La cardiologia, la disciplina che ho praticato per tutta
la vita, pullula di queste definizioni diagnostiche piene di
fantasia. Quando un paziente ha un innocuo soffio al cuore, palpitazioni, dolore al petto e varie espressioni di ansia,
la moda corrente è quella di diagnosticare una sindrome
da prolasso della valvola mitralica. Centosessant’anni fa,
un medico di Nottingham, John Calthrop Williams, descrisse la stessa condizione con il termine «palpitazioni nervose e simpatiche del cuore». Durante la Guerra Civile americana, fu identificato con l’eponimo «sindrome di Da Costa». Nei decenni successivi, un complesso di sintomi simile
fu definito con successo «cuore irritabile», «cuore del soldato», «astenia neurocircolatoria», «sindrome da iperventilazione» e «cuore ipercinetico».
Con l’avvento dell’efficacissima tecnica dell’ultrasuonografia, si osservò che in alcuni di questi pazienti la valvola mitralica ondeggiava durante la contrazione del cuore e
questa definizione scomparve. Poi fu lanciata la nuova diagnosi, «prolasso della valvola mitralica»: si pensò che questa deviazione fisiologica fosse un’anomalia e fu subito
trasformata in un disturbo. Svariati tipi di esiti nefasti furono attribuiti al prolasso della valvola mitralica, che quindi giustificava un intervento medico. Il fatto che il 99,8%
dei pazienti con prolasso della valvola mitralica vivesse vite lunghe e normali era ignorato, anche se questa cosiddetta patologia non era più pericolosa per la salute delle
lentiggini.
Ma questo è solo uno degli innumerevoli esempi di una
moda effimera, dovuta in parte al fatto che la mente umana non tollera l’incomprensione delle cause e inventa falsità per evitare il vuoto. Una spiegazione insufficiente è
considerata preferibile a un’ignoranza confessata. In realtà una definizione di prolasso della valvola mitralica, come
quella di sindrome di Da Costa più di un secolo fa, è una assurdità diagnostica priva di significato.
La stessa coazione a dare una spiegazione è responsabile della pratica medica prevalente di attribuire qualsiasi
sintomo strano all’ardita diagnosi di una malattia virale o
retrovirale. È incontestabile, non subito confutabile, benigna e spesso prima o poi i sintomi scompaiono senza lasciare traccia. Questa astuzia, anche se non dannosa (come sarebbe nel caso dell’ipertensione sostanziale che, se non
viene curata, ha come conseguenza tutta una serie di complicazioni cardiovascolari gravi), non è priva di un qualche
valore sociale di riscatto. In realtà, sia il paziente sia il medico guadagnano qualcosa dal gioco delle definizioni diagnostiche. Per il paziente che riceve una simile diagnosi
senza senso, può esserci la speranza che l’essere classificato sia un primo passo per venir curato. Giova anche al medico che, con una simile diagnosi, genera rispetto e tiene
la situazione sotto controllo. Naturalmente, se lo stato
continua a persistere, l’insoddisfazione del paziente si focalizza sul medico. Quando analisi interminabili e tecnologie costose si rivelano inutili e non offrono una cura immediata, il fallimento è dovuto al medico più che a una lacuna scientifica.
Il paziente deve capire che molti disagi derivano non
dal disturbo, ma dalle vicissitudini della vita. Nella nostra
disturbi cronici come le artriti, i disturbi cardiaci, i disturbi
neurodegenerativi, la sindrome autoimmune, e molti tumori. Anche se il ritmo del progresso scientifico è rapido,
dobbiamo fare una lunga strada prima che questi disturbi
siano compresi pienamente. In assenza di una cura, richiedono attenzioni e organizzazione, spesso per l’intera vita.
L’unico approccio medico disponibile è alleviare i sintomi,
rallentare e se possibile fermare il corso della malattia, aiutare il paziente a mantenere uno stato d’animo positivo e
impedire che la malattia prenda il sopravvento sulla sua vita. Questi obiettivi possono essere realizzati solo quando
le aspettative del paziente si attengono strettamente al
campo del possibile.
Un atteggiamento irrealistico nei confronti delle potenzialità della medicina si rivela fallimentare. In questa
nostra epoca, i pazienti tendono ad aspettarsi l’impossibile. Non sono subito soddisfatti della semplice scomparsa
dei sintomi e spesso richiedono cure che non esistono. Le
pretese dell’industria della salute e l’atteggiamento di onnipotenza di alcuni medici contribuiscono a queste aspettative irragionevoli. Questa malsana dinamica provocata
dalle dichiarazioni iperboliche dei medici e dalle conseguenti immense speranze del pubblico prepara la strada a
cocenti delusioni.
Le aspettative irrealistiche aumentano l’insoddisfazione di coloro che pensano che la loro situazione non possa
venire diagnosticata ma, nella mia esperienza, è la grande
maggioranza dei sintomi che manca di una spiegazione
esatta. La comunità medica ha risolto parzialmente questo
problema creando una quantità di definizioni diagnostiche prive di significato che mascherano l’ignoranza invece
di capire la causa soggiacente.
In The Doctor’s Dilemma, George Bernard Shaw generalizza che «tutta la professione cospira contro i profani».
Queste simulazioni non sono dovute a inganni deliberati.
La negazione è la difesa del genere umano contro l’abisso
dell’ignoranza. Per esempio, quando un medico definisce
«ipertensione sostanziale» un disturbo che affligge 50 milioni di americani, il paziente presuppone che si tratti di un
disturbo specifico, ben definito, pienamente compreso.
Purtroppo, la parola «sostanziale» nel linguaggio medico
corrente, significa: «Non ho la più pallida idea della causa». I medici spesso brancolano nel buio, non perché mancano di conoscenze, ma perché la scienza non li sostiene.
Più debole è la scienza, più creativa diventa la definizione diagnostica. Ci sono mode nella medicina come nell’abbigliamento. Per esempio, la gente soffre da tempo immemorabile di una costellazione di sintomi che si presentano come debolezza, continuo esaurimento, febbricola,
gola infiammata, dolori artritici, vuoti di memoria e disturbi del sonno. Oggi un paziente con questi sintomi viene
diagnosticato con «sindrome da fatica cronica». Ma la sindrome da fatica cronica è semplicemente una definizione
arbitraria e non un’entità ben definita. I sintomi probabilmente nascono da molti disturbi diversi, comprese malattie virali e immunologiche, disturbi endocrini, psicologici e
psichiatrici. Mettere sotto una stessa etichetta questi sintomi eterogenei che derivano da diverse condizioni senza
rapporto tra loro non fa progredire la comprensione della
patofisiologia della malattia. Al contrario, questa definizione genera confusione e ritarda la possibilità della cura.
Peggio ancora, la persona malata viene abbandonata in
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B Lown - L’arte perduta di guarire
difficile applicare la statistica a un unico paziente. La sola
possibilità dell’arte medica è quella di determinare dove,
semmai, un certo paziente si adatta alla curva di distribuzione gaussiana derivata da una popolazione più ampia. Il
fattore decisivo è la vastità dell’esperienza clinica del medico. Se il problema di un paziente rimane irrisolto per
molti mesi, è bene vedere un medico che abbia più esperienza in quel particolare campo.
Con una buona dose di esperienza medica, il medico
sviluppa una Gestalt complessa nei centri superiori del cervello. Paragonando ogni paziente a questa Gestalt, in gran
parte inconscia, il medico attiva un processo di scoperta, a
volte straordinariamente creativo, che può permettere risultati inattesi e apparentemente miracolosi.
Il mio ragionamento torna ora al punto di partenza.
Con il modo tipico degli esseri umani, sembro contraddire
quello che ho detto all’inizio. Anche se ho cominciato con
il sottolineare la necessità di diminuire le aspettative mediche, arrivo a ipotizzare la possibilità dei miracoli. La contraddizione è più apparente che reale. Anche quando la
cura è impossibile, guarire non è necessariamente impossibile. Anche se la scienza medica ha dei limiti, la speranza
non ne ha. Credo alla massima proposta dal dottor Edward
Trudeau circa un secolo fa: «Curare a volte, alleviare spesso, confortare sempre». I miracoli stanno nella capacità di
dare conforto e di guarire.
Questo mi è stato dimostrato dalla signora J., una donna lucida e serena di settantacinque anni. Da cinque anni
soffriva di parossismi di fibrillazione atriale che comparivano quasi ogni settimana, anche se tutti gli esami avevano
rivelato un cuore strutturalmente sano. I numerosi farmaci,
assunti singolarmente o in combinazione, erano inefficaci
e molti di essi provocavano fastidiose complicazioni. Gli
episodi di aritmia la lasciavano esausta per giorni e la paura di ricorrenze imprevedibili limitava le sue attività e la teneva confinata a casa. Quando ascoltai il suo problema, capii che nulla era stato lasciato intentato. Non riuscivo a
pensare a nessuna facile cura e fui quindi stupito da me
stesso quando espressi la certezza di risolvere il problema.
Mi lasciai la scappatoia di dire che avrebbe preso tempo.
Quando la signora J. ritornò, vari mesi dopo, la situazione era migliorata. Fui colpito da questo cambiamento,
anche se c’era un motivo preciso. L’avevo rassicurata dicendole che l’aritmia, per quanto fastidiosa, non era grave e
avevo interrotto la somministrazione di molti farmaci. La
paziente ora dormiva senza problemi e il sonno aveva ridotto l’aritmia. Avevo prescritto una forte dose di digitale in
caso di parossismo, in modo da diminuire il ritmo cardiaco
e da rendere l’aritmia più tollerabile. Anche se il problema
fondamentale rimaneva irrisolto, la signora J. era in grado
di riprendere una vita normale.
Ma non posso dare a me stesso il merito di questo risultato: era stata la paziente a effettuare questo straordinario cambiamento. Poteva essere aiutata perché si aspettava un miglioramento, non una cura definitiva. Considerava con ottimismo i piccoli cambiamenti ed era disposta a
sperimentarli fino in fondo, quindi io potevo cimentarmi
con il problema essenziale, perché avevo di fronte una persona molto motivata e non ipocondriaca.
Se il paziente è pronto a essere aiutato, anche di poco,
ed è grato di fare cambiamenti anche marginali, sprona la
volontà del medico a instaurare un rapporto tra eguali.
cultura che nega la morte, gli individui sono pervicacemente determinati a perseguire la felicità a ogni costo. Prima i
pazienti capiranno che i medici non possono promuovere
la felicità, più verosimilmente avranno bisogno del loro
aiuto. Lo psichiatra Viktor Frankel, deportato ad Auschwitz, l’ha definita felicità negativa. C’è una libertà nella
sofferenza. I medici competenti sono nel loro elemento
quando alleviano la sofferenza poiché non possono aiutare a perseguire la felicità.
Ci rivolgiamo alla medicina per riparare quelle che essenzialmente sono lacerazioni del tessuto sociale provocate dalla violenza, dall’oppressione economica, dall’ostracismo di classe, dal razzismo, dal sessimo e da molti altri fattori. In una cultura consumistica, in cui quasi ogni cosa viene trattata come articolo da consumare, la medicalizzazione è la risposta alla crescente frustrazione sociale. L’insoddisfazione per il proprio lavoro o per il matrimonio o per i
figli, o per la propia sorte nella vita, non di rado vengono
somatizzate. La maggior parte dei medici non ha il tempo,
la pazienza, la formazione o gli incentivi per farsi coinvolgere in queste questioni sociali e la loro disattenzione spinge i pazienti a guardarsi intorno a cercare una soluzione
rapida. A meno che non incontrino un medico che li aiuti
ad alleviare i sintomi, si concentri sulla fonte potenziale
del problema e insegni loro come sopportare le costrizioni
della vita, queste persone sofferenti si rivolgeranno alla
medicina alternativa e molti cadranno preda dei ciarlatani.
I pazienti più colti, che non sono presi nell’ingranaggio
né soccombono alle mode mediche, possono, io credo, padroneggiare l’arte di navigare lontano dal sistema sanitario. I pazienti malati cronici devono interrogare il medico,
non con l’intento di padroneggiare i rudimenti della fisiologia o della biochimica di una malattia, ma per ottenere
chiarezza nell’affrontare un problema cronico che richiede
risposte molto personalizzate. Il medico deve essere in grado di rispondere alle seguenti sei domande in modo chiaro per dare al paziente le informazioni essenziali su come
convivere con la malattia:
1. I sintomi derivano da un’entità clinica compresa in modo preciso per cui esiste una cura definitiva?
2. Se il disturbo non è curabile, i sintomi possono comunque venire alleviati?
3. Se il disturbo è pericoloso per la sopravvivenza, qual è
approssimativamente la durata della vita?
4. Se non è pericoloso, rimarrà a uno stato di remissione o
progredirà? In questo caso, in quanto tempo?
5. Ci sono complicazioni che possono essere previste e come
possono essere affrontate, o meglio, prevenute? In questo caso, quale sarà il compromesso nello stile di vita?
6. Un cambiamento nello stile di vita costituirà una differenza sostanziale in rapporto al benessere e alla sopravvivenza?
Il medico può non essere in grado di fornire le risposte
esatte, ma anche le approssimazioni sono valide. Mentre la
conoscenza di un medico può essere straordinariamente
precisa per predire quello che succederà statisticamente a
migliaia di pazienti, quando il denominatore diventa più
piccolo la precisione della prevenzione diminuisce in modo
esponenziale. Scompare quasi del tutto quando la dimensione del campione si riduce all’unità, cioè quando il medico è chiamato a fare previsioni per un singolo individuo. È
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G Ital Cardiol Vol 11 Gennaio 2010
cloni. La maggioranza dei medici è orgogliosa della propria competenza e desidera migliorarsi. Qualche vantaggio può quindi nascere dal fatto di approfittare di queste
qualità.
Un altro fattore è che, in una situazione di mercato, il
sistema sanitario è un’industria di servizi che mette al primo posto la soddisfazione del cliente. La capacità di trovare nuovi sottoscrittori per l’organizzazione, obiettivo primo, dipende dal livello di soddisfazione raggiunto. Gli amministratori devolvono somme immense per costruirsi
un’immagine all’altezza di questo obiettivo. La paura di
avere una pubblicità deleteria offre ai pazienti una certa
influenza.
All’interno di questa nuova struttura del sistema sanitario, la prima visita assume un’importanza ancora maggiore che in passato. Al medico e al paziente viene offerta
la prima occasione di conoscersi. Sin dall’inizio, devono costruire entrambi un rapporto solido e duraturo. Il medico
ha bisogno di capire rapidamente ciò di cui soffre il paziente per prescrivere le analisi cliniche che confermino la diagnosi e per stabilire prontamente una cura. Può rivolgersi
ad altri medici, prescrivere procedure invasive e forse raccomandare un ricovero.
Il corso della traiettoria diagnostica è determinato dal
paziente, che è l’unico depositario di informazioni vitali.
La profondità o la superficialità del giudizio dipende dal
modo in cui il paziente informa il medico durante la prima
visita. Il paziente ottiene un servizio migliore quando ha
obiettivi chiari e li presenta con lucidità. Definito semplicemente, l’obiettivo della prima visita è generalmente doppio: concentrare l’attenzione del medico sul problema medico giusto e suscitare la simpatia per il paziente in quanto persona. La naturalezza dell’incontro è la cartina al tornasole per la compatibilità della chimica delle personalità
e indica se è possibile un rapporto di rispetto reciproco.
Al primo incontro, il paziente ottiene risultati migliori
se si ricorda quanto il tempo sia prezioso. Molti anziani in
pensione, abituati ad avere molto tempo libero, sono incapaci di adattarsi a un ambiente in cui il tempo è centellinato. Alcuni non capiscono affatto l’atmosfera pressante di
certe cliniche, che sono sovraccariche di pazienti e funzionano all’insegna della «produttività». Anche se il paziente
può difficilmente modificare questo sistema, l’attenzione
al tempo gli permette almeno di guadagnarsi immediatamente la considerazione del medico.
L’esperienza mi ha insegnato che il giudizio iniziale del
medico non è dovuto soltanto al problema medico, ma alle qualità indefinibili di simpatia o antipatia del paziente.
La reazione emotiva del medico non è determinata dalla
comprensione del carattere, ma è plasmata da impressioni
banali, addirittura superficiali, per esempio se il paziente è
prolisso, noioso, confuso oppure chiaro e ben organizzato.
Non certo in piccola misura, questi fattori incidono sul
tempo e sulla continua preoccupazione del medico per il
suo programma giornaliero già stracarico.
Poiché le prime impressioni sono durevoli, non è una
buona idea sistemarsi comodamente in una poltrona nello
studio del medico come se si fosse invitati a un piacevole tè
pomeridiano. Se il medico ha il sentore che la visita sarà
lunga, molti dei suoi pensieri saranno occupati ad abbreviarla piuttosto che a focalizzarsi sul problema medico.
Quel che mette immediatamente il medico in allarme è un
Soltanto una relazione di questo tipo, caratterizzata da
comprensione e rispetto, può approfondirsi in una vera relazione di cura. Ciò incoraggia, secondo le parole di Lewis
Thomas, «la capacità di affetto», l’elemento essenziale per
la guarigione.
Ludwig Mies van der Rohe dice dell’architettura: «Nei
dettagli c’è Dio». Questo vale anche per la medicina. È possibile, a ragione sentirsi impotenti quando si affronta il
molosso del sistema sanitario e sarebbe folle aspettarsi una
dimensione umana da un sistema così burocratizzato. Navigare con successo intorno agli scogli del sistema sanitario
richiede lungimiranza, abilità, pazienza e tolleranza. Nell’ambiente delle cure organizzate, anche queste qualità
ammirevoli possono essere insufficienti. L’attenzione del
sistema, poiché è diventato un colosso industriale, si è spostata dalla cura del malato alla salvaguardia degli interessi economici, entrando in linea di collisione con la professione medica. Definire i problemi umani e clinici di un individuo richiede tempo, ma in uno sforzo controproducente
per limitare i costi il medico è spinto a ridurre il tempo investito con ogni paziente. Il fatto di dare la precedenza al
profitto sacrifica sia l’autonomia del medico sia il diritto
del paziente di sapere e di fare una scelta. A lunga scadenza, aumenta i costi del sistema sanitario.
Le monumentali trasformazioni che sono avvenute nel
sistema sanitario sono state accompagnate da una cacofonia di discorsi che danno a intendere rispetto per l’autonomia del paziente e per l’accrescimento del suo potere.
Spesso vengono enumerati in una carta dei diritti del paziente. La retorica altisonante è direttamente proporzionale all’effettiva diminuzione di questi diritti. Per appianare le difficoltà di un sistema impersonale si reclutano analisti del sistema ospedaliero e studiosi di etica medica.
Il principale obiettivo del sistema è il contenimento dei
costi. Per raggiungerlo gli ospedali creano una burocrazia
di amministratori, contabili e avvocati, ora più numerosi
del personale medico. L’efficienza diventa la bandiera per
l’omogeneizzazione con cui si affrontano tutti i problemi
dei pazienti. Le linee cliniche standard e gli algoritmi stabiliti al computer definiscono un processo terapeutico automatico per specifiche categorie diagnostiche. Tale standardizzazione, dovuta essenzialmente all’economia, ha altri presunti obiettivi, sebbene secondari: migliorare la qualità delle cure sanitarie, ridurre i costosi errori medici, diminuire le procedure non necessarie e creare una banca dati
uniforme per poter comparare i risultati clinici. I medici che
non aderiscono a queste linee di condotta sono sanzionati
con disincentivi economici e minacce di perdita del lavoro.
In una simile atmosfera, i medici diventano sempre più tecnici costretti a seguire queste linee generali, il cui scopo è
un razionalizzazione e non un’umanizzazione della cura.
Anche se difficile, non è affatto impossibile per un paziente informato ottenere migliori cure personali, sfruttando le contraddizioni proprie di un sistema di cure organizzate. In primo luogo, il fatto che i medici abbiano ancora un ruolo centrale dà una certa ampiezza di manovra. I
medici sono coloro che si occupano di smistare il flusso del
traffico umano ad altri specialisti e agli ospedali. Di solito
non si sentono a proprio agio in questo compito perché sono stati formati, anche se a volte in modo imperfetto, a rivolgersi all’individualità di ogni paziente. Sono poco preparati a considerare i pazienti come un assemblaggio di
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B Lown - L’arte perduta di guarire
All’inizio non misi in discussione i farmaci prescritti,
poiché era stata visitata da cardiologi esperti. Ma da un’attenta discussione apparve evidente che questa donna non
aveva un’angina; il suo dolore al petto era provocato da
problemi artritici e muscolari.
Cercai di determinare in che modo si era arrivati alla
diagnosi e la paziente ammise di averla suggerita lei stessa al medico. Tenendo conto delle osservazioni di un’amica che aveva avuto un attacco di cuore e che soffriva di angina pectoris, la signora T. si era convinta che il suo problema fosse identico. Dopo ulteriori discussioni con l’amica
malata, aveva fatto propri alcuni dei termini descrittivi. Alla visita iniziale disse al cardiologo che era certa che la sua
condizione fosse dovuta ad angina. Il medico, per non contraddire questa donna così intelligente, le prescrisse i soliti farmaci anti-angina. Poiché nessuno di essi la aiutava, ne
furono aggiunti altri alle visite successive. Quando fu completamente debilitata, la signora T. cercò un’altro parere
da me. Quando tutti i farmaci furono sospesi, la vertigine
e gli altri sintomi scomparvero, tranne il dolore al petto,
che ora non la preoccupava più.
Molti pazienti hanno perduto la vita per avere attribuito un’emorragia rettale alle emorroidi, perché un medico
incompetente ha accettato la loro diagnosi invece di accertare un tumore al colon. L’auto-diagnosi più comune è l’ernia. Ma anche questa definizione diagnostica è lungi dall’essere innocua, perché può sviare il medico da problemi
più seri che avrebbero dovuto essere accertati. Non c’è giustificazione per il medico che si limita alle definizioni fornite dal paziente. È bene parafrasare col comune avvertimento: caveat aeger, «guardati dal paziente». Evitare il
ruolo di complice nell’auto-vittimizzazione è un modesto
primo passo.
Il paziente ottiene risultati migliori se si presenta al medico con un’accurata descrizione dei sintomi, spiegando i
momenti di apparizione, indicandone la durata, descrivendo gli eventuali fattori precipitanti e le misure che danno
sollievo. I fatti presentati con questa chiarezza di solito
mettono il medico sulla giusta via.
Un’altra tattica da evitare è quella di consultare un medico perché giudichi tra diverse opinioni espresse da vari
specialisti già consultati. Alcuni pazienti cominciano una
visita chiedendomi se sono d’accordo con un medico o due,
o addirittura tre. Spesso mi è stato chiesto: «Mi può spiegare perché il dottor A. è completamente in disaccordo
con il dottor B.?», come se risolvere la presunta contraddizione illuminasse il problema del paziente. È spesso già abbastanza difficile spiegare perché è stato raggiunto un
particolare giudizio senza fare congetture su una seconda
o terza opinione.
Mentre il colloquio procede, il medico cerca di capire
quello che non funziona. Il compito è difficile e richiede risposte chiare e succinte da parte del paziente. Ma spesso
queste non ci sono. «Con quanti cuscini dorme?» è una domanda semplice che richiede una risposta di un’unica parola. Ma espressioni come «Quando sono stato operato alla retina, dormivo senza cuscini, cioè dieci anni fa. Poi,
quando soffrivo di ernia, ne usavo tre».
«E ora?».
«Ne uso uno».
A volte il percorso per arrivare alla risposta giusta è
molto più arduo. È meglio evitare le descrizioni cliniche,
paziente rilassato che consulta uno spesso taccuino di annotazioni. Si guadagna molto da una prima impressione
positiva. Entrare nella stanza con prontezza senza indugiare a guardare i diplomi o le cianfrusaglie che invariabilmente ricoprono la scrivania del medico, e fare un breve
discorso iniziale, stabilisce l’inizio di un rapporto serio. Comincia a plasmare l’atmosfera in cui può stabilirsi un rapporto di rispetto reciproco.
Un paziente di cui non si sa con chiarezza il disturbo
crea una serie di problemi. L’effetto peggiore è quello di
essere classificato in una qualche categoria diagnostica che
ha poco a che fare con il problema reale. Le conseguenze
possono essere drammatiche, e portare per esempio alla
prescrizione di farmaci inadeguati o di accertamenti clinici
non necessari o peggio a essere sottoposti a procedure invasive, pericolose e perfettamente inutili. È deplorevole
considerare la vittima responsabile: questo comportamento, esclusivamente dovuto al medico, è ingiustificato in
tutte le circostanze. Ma l’indignazione morale non cambierà l’attuale sistema sanitario. La consapevolezza del paziente di tale stato di cose gli offre gli strumenti per non
essere trattato in questo modo.
Vorrei sottolineare ancora una volta l’importanza di un
fatto fondamentale: il paziente deve focalizzarsi sul problema essenziale. È utile pensare, aiutati dalle ragioni specifiche per cui si cerca un aiuto medico, a quello che il medico considererà il disturbo principale. È meglio fare una
descrizione chiara e semplice del sintomo principale prima
della visita, piuttosto che durante. Spesso la lista dei sintomi è un pot-pourri di banalità, un enorme pagliaio in cui si
celano come aghi soltanto poche informazioni essenziali. È
comprensibile che dopo avere aspettato settimane per un
appuntamento, si sia ansiosi di scaricarsi totalmente, ma
secondo me questo è un grosso errore. Lamentandosi di
molte cose, soprattutto non collegate l’una con l’altra, si
corre il pericolo di essere etichettati come ipocondriaci, o
con problemi «psicosomatici» o peggio essere definiti con
termini spregiativi come «pulcino bagnato» eccetera. Dal
momento in cui un problema del paziente è banalizzato,
diventa intrattabile.
Il fatto di mantenere i tempi obbliga a pensare al problema essenziale e al modo in cui presentarlo in modo succinto. È spesso difficile anche per la persona più colta e intelligente. Il linguaggio degli organi che non funzionano
non è immediatamente traducibile in inglese o nelle altre
lingue. Mancano gli aggettivi quando ci si riferisce alle sensazioni del corpo. I pazienti spesso parlano di una presunta diagnosi suggerita da un vicino o più spesso da un articolo sui giornali. La motivazione del paziente (aiutare il
medico a capire rapidamente quello che non funziona),
anche se profonda, è comunque sbagliata. Il medico esausto, costretto ad abbreviare il tempo, può accettare un’auto-diagnosi senza ulteriori accertamenti.
Un’esperienza illustra i danni che possono derivare dall’auto-diagnosi. La signora T., una donna di più di ottant’anni, era gravemente debilitata da cinque anni in seguito a un’ipotensione posturale. Ogni volta che era in piedi,
la vertigine e la debolezza la facevano quasi svenire. Come
risultato, era costretta a letto, pesava sulla famiglia e diventava sempre più depressa. Prendeva molti farmaci a
causa di un’angina che senza dubbio contribuivano all’abbassamento di pressione.
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de come quelle ecclesiastiche, poiché nell’età della scienza
«la medicina deve essere guidata da un’informazione precisa». È meglio chiedere semplicemente se la condizione
patologica può essere curata efficacemente senza l’informazione anatomica ottenuta con analisi costose e invasive.
Se la risposta è negativa e il medico non sa come curare il
paziente in modo adeguato senza conoscere l’anatomia
delle arterie coronarie, a mio avviso è un clinico mediocre
o un tecnico superspecializzato. In ogni caso è meglio cercare una seconda opinione. La necessità di consultare un
altro medico dipende dalla serietà dell’intervento suggerito. Per esempio, se viene scoperto un grosso linfonodo o se
il paziente ha sangue nelle feci, è ragionevole che il medico prescriva una biopsia nel primo caso e una colonscopia
nel secondo. Ma sarebbe una semplice perdita di tempo e
un aumento dei costi prescrivere analisi che confermino
l’ovvio e il necessario. Un cateterismo cardiaco è invariabilmente il primo esame di una serie interminabile di approcci invasivi, a volte pericolosi per la vita stessa. Inoltre il disturbo alle coronarie può essere efficacemente curato con
una serie di metodi non invasivi che non richiedono una
precisa conoscenza dell’anatomia coronarica.
Nel sistema sanitario attuale, condizionato dalla tecnologia, un paziente non può accettare passivamente le decisioni del medico. L’obiettivo è un rapporto profondo, ma
con i diritti vengono i doveri. Un obbligo importantissimo
è aderire al programma concordato. L’attenta registrazione del paziente di quanto gli accade informa il medico curante se la cura è corretta o richiede modifiche.
come le disquisizioni sul passato remoto. Non tutto quello
che è successo è degno di nota e tanto meno degno di essere ripetuto. Più la risposta è breve e diretta, meno verosimilmente il paziente sarà sottoposto a tecnologie senza
senso. I medici hanno imparato, credo a torto, a considerare la tecnologia come un sostituto costoso del tempo passato con i pazienti.
Il paziente deve anche evitare di porre domande mediche generali che hanno poca attinenza con il suo problema. Se si desidera arricchire la propria conoscenza della
medicina, è preferibile seguire un corso o leggere un manuale medico, anche se diventare un medico in miniatura
non serve. Un comune errore è quello di credere che il fatto di padroneggiare i rudimenti dell’anatomia o dell’endocrinologia, o di qualsiasi altro ramo della medicina, faciliti
i rapporti con il medico o difenda i diritti di paziente. Entrambe queste ipotesi sono sbagliate. Conoscere l’anatomia della circolazione coronarica non permette di affrontare meglio la malattia ischemica. Queste idee sono promosse dai complessi medici industriali che, intenzionalmente o meno, favoriscono il consumismo medico generando ipocondriaci irriducibili.
In un certo senso, la medicina in miniatura e la continua curiosità in campo medico esprimono mancanza di fiducia nella professione medica che può essere così percepita anche se l’intento è benevolo. I medici, anche se nello
stesso tempo vengono considerati buoni samaritani, prendono male queste intromissioni nel loro campo. L’arte di
essere paziente consiste nello schivare queste impasse.
I pazienti dovrebbero portare con sé i loro farmaci. Devono essere in grado di dire il termine medico esatto, il dosaggio preciso e il momento del giorno in cui vengono consumati. Il medico allora conclude che il paziente è molto
intelligente oppure è sospettoso. In entrambi i casi, il risultato sarà buono e il trattamento certamente migliore. Essere bene informati sui farmaci prescritti protegge il paziente dal vedersi somministrare lo stesso tipo di farmaco
prodotto da un’altra casa farmaceutica con un nome diverso. L’interesse del paziente è ulteriormente protetto quando è in grado di descrivere gli effetti collaterali negativi, in
modo da evitare che gli venga prescritto un farmaco simile con una potenziale grave tossicità.
Per sfruttare al meglio la situazione, il paziente deve
sempre essere accompagnato da una persona fidata, in
particolare dal coniuge. Questo testimone aiuta il paziente a ricordare ciò che è stato detto, concluso e prescritto.
La presenza di un membro della famiglia, o di un amico, dà
al paziente il coraggio per interrogare il medico sulla giustificazione razionale di interventi, accertamenti, eccetera.
Sono necessarie poche domande fondamentali:
Scegliere un medico
Ci sono alcune linee pratiche da seguire per trovare un
buon medico. Naturalmente è necessario scegliere un medico esperto che si tenga informato sugli ultimi progressi.
Nessun laureato al primo anno di specializzazione ha questi requisiti. La scelta è difficile. Molti medici hanno grossi
nomi, ma prendono il paziente per il verso sbagliato. La
chimica delle personalità di medico e paziente deve essere
compatibile. Il paziente deve sentirsi a suo agio con il medico come con un amico intimo.
Pochi piccoli indizi possono aiutare a decidere se un
medico è in grado di instaurare un rapporto di reciproco rispetto e di fiducia. Quando incontra il paziente, il medico
stringe la mano? Questo gesto è un primo piccolo segno di
comunicazione. L’assenza di strette di mano può non giustificare la perdita di fiducia, ma è pur sempre un punto a
sfavore del medico. Anche la puntualità dovrebbe essere
una determinante fondamentale delle qualità umane del
medico, perché esprime il rispetto per un’altra persona.
L’attenzione per il tempo del paziente è un’indicazione
delle qualità richieste per un rapporto di cura. Essere costantemente in ritardo denota trascuratezza organizzativa, incapacità di pianificazione, eccessivo lavoro, indifferenza ingiustificata verso il tempo altrui. Gioca inoltre la
convinzione, comune tra i medici, che il paziente penserà
che il medico sia stato improrogabilmente trattenuto da
un’urgenza. Le vere emergenze sono raramente la causa
dell’abituale ritardo di un medico.
Bisogna anche guardare con diffidenza a un medico
che permette che il colloquio sia interrotto dalle telefona-
1. L’analisi o la tecnica diagnostica sono indispensabili per
confermare o meno la diagnosi che il medico ha già fatto? Oppure si tratta soltanto di un accertamento preliminare a cui seguiranno altri esami?
2. Qualsiasi sia il risultato delle analisi, cambierà il modo in
cui è trattato il disturbo?
3. Infine, quanto costano le analisi? Sono rimborsate dall’assicurazione?
Per esempio, se un medico suggerisce un cateterismo
cardiaco o qualsiasi altra cosa, non bisogna sprecare il tempo con dei perché. Il medico ha risposte precostituite, rigi-
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B Lown - L’arte perduta di guarire
con una pausa per palpare e auscultare altri organi, è probabilmente un clinico competente. Ma la migliore qualità
è la disponibilità del medico a riconoscere un errore senza
equivoci. Ogni paziente intelligente sa che la pratica della
medicina non è una scienza esatta. Gli errori sono inevitabili anche tra i professionisti più coscienziosi. L’ammissione
pubblica degli errori è il modo migliore per non ripeterli
più e di solito rivela un ottimo medico.
Anche il problema dei frequenti riferimenti agli specialisti merita un commento, perché non è un problema recente. Un secolo fa, Dostoevskij si lamentava così, nei Fratelli Karamazov:
te. Ho raccomandato alla mia segretaria di non interrompermi a meno di gravi urgenze. Trascorrono mesi senza che
ci sia una sola interruzione: c’è tutto il tempo per rispondere alle emergenze autentiche tra una visita e l’altra.
L’atteggiamento e il comportamento del medico, secondo me, sono fattori decisivi nella scelta. Il medico deve
irradiare positività e ottimismo. Tre secoli fa Jonathan
Swift ammoniva: «I migliori medici del mondo sono il dottor Dieta, il dottor Tranquillità e il dottor Allegria». Ci si deve aspettare un atteggiamento positivo anche quando
non c’è nessuna cura e la prognosi è nefasta. Ci sono molte tecniche per diminuire il dolore di una malattia terminale. La persona molto malata, anche se non si lascia ingannare dal falso ottimismo, ha bisogno di quel calore e di
quell’attenzione sprigionati dall’interesse per l’essere
umano.
È fondamentale che il medico sappia ascoltare. Dai dati delle ricerche, i medici in media interrompono i loro pazienti ogni quindici-trenta secondi. Il messaggio trasmesso
è l’impazienza, l’incalzare del tempo o la mancanza di interesse per quello che pensa il paziente. Al contrario, le domande aperte indicano la disponibilità a indagare a fondo
e le sintesi finali e i riassunti confermano che il medico ha
capito bene e sa ascoltare.
La fiducia in un medico è anche incoraggiata dalla
completezza dell’anamnesi, dalle domande sul lavoro e su
altri importanti problemi sociali, dalla capacità di esprimere rincrescimento per i piccoli mali e da una sollecitudine
autentica per quelli gravi. Il medico fa buona impressione
se agisce come se avesse tutto il tempo a disposizione, anche se il paziente sa benissimo che altri pazienti aspettano
di essere visitati.
La prudenza è d’obbligo se un medico, proprio all’inizio, fa l’errore di dire cose del tipo: «Perché ha aspettato
tanto?» oppure «Se soltanto l’avessi visto prima». È un atteggiamento tutt’altro che terapeutico.
Un medico che utilizza parole che feriscono, anche per
scherzo, merita un giudizio negativo. La signora N., di quasi novant’anni, di solito era allegra, ma un giorno, per la
prima volta, giunse nel mio studio in uno stato di depressione. Aveva appena consultato un ginecologo.
«Le ha trovato dei gravi problemi?», chiesi.
«Oh no!», rispose. «È soltanto quello che ha detto».
Spiegò che il medico le aveva chiesto cosa ci faceva lì, e lei
aveva risposto: «Dove dovrei essere?».
Aveva risposto con una risata: «Alla sua età dovrebbe
essere già morta».
Se il paziente prima della visita si spoglia totalmente, il
medico potrà fare una visita più accurata. Se controlla addirittura il campo visivo e il polso delle arterie dei piedi,
E poi hanno quel modo di mandarvi sempre dallo specialista:
«Io posso solo diagnosticare il suo disturbo, ma se consulta il tal
specialista, saprà come curarlo». Vi dico che il vecchio dottore che
vi curava di ogni malattia è sparito del tutto e al giorno d’oggi non
trovate altro che specialisti perfino pubblicizzati sui giornali.
Se il problema era allora all’inizio, ora è aumentato in
modo spropositato. Quando un medico è parco nella prescrizione di analisi e di visite specialistiche, pur essendo
pronto a riconoscere i limiti delle sue conoscenze, è legittimo un giudizio positivo. Il medico moderno, molto ben
formato dal punto di vista tecnico, non deve funzionare
soltanto come un vigile che dirige il traffico del paziente
per canalizzarlo verso altri specialisti. La maggioranza dei
problemi comuni è facilmente curabile da un medico generico.
Quando si dovrebbe andare dallo specialista? Sicuramente quando lo raccomanda un medico generico di fiducia. Se il paziente ha un disturbo già identificato che richiede cure a lungo termine, uno specialista di solito è più
adatto di un medico generico. Rivolgersi a uno specialista
è giustificato quando il paziente continua ad avere sintomi che non guariscono e peggiorano la qualità della sua vita e quando l’internista o il medico generico non hanno
trovato la causa entro un periodo ragionevole. Alcuni problemi, come quelli dermatologici, ginecologici, neurologici, oculistici, ortopedici e urologici, possono essere curati
meglio da uno specialista.
Si cerca un medico con cui sentirsi a proprio agio senza
temere di essere subito sottoposti a interminabili esami; un
medico per cui non si è mai un numero statistico; un medico che non raccomanda tecniche pericolose per la vita al fine di prolungare la vita stessa; qualcuno che non esagera
mai i pericoli di disturbi secondari né si lascia sopraffare
dalle malattie gravi; e soprattutto un essere umano la cui
preoccupazione per i pazienti è spronata dalla gioia di essere utile e di considerare il proprio un privilegio incomparabile.
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