La scatola di attrezzi

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La scatola di attrezzi
La scatola di attrezzi
di Arnaldo “Bibo” Cecchini*
Sommario
La comunicazione, la costruzione del consenso e la partecipazione sono processi diversi fra
loro, talvolta, ma non sempre intrecciati fra loro, e ciascuno di essi è di grande importanza per
la pratica della pianificazione, a tal punto da poterli considerare l’essenza del processo di
pianificazione territoriale.
La teoria della pianificazione ha ampiamente esplorato ed ha tentato di stabilire principi,
regole e procedure per la gestione di tali processi, ponendosi quesiti e proponendo risposte circa
il trattamento dei problemi quali la legittimazione, la razionalità, la diversità di punti di vista e
il potere.
Questa discussione ci è presente e su di essa il nostro punto di vista può essere più o meno
così riassunto: noi siamo fermamente convinti che la pianificazione in senso proprio (che
implica, per definizione, produrre “piani”) è assolutamente necessaria, oggi come e più di
sempre. Produrre piani, quasi per definizione, implica in buona sostanza un sistema di regole,
vincoli ed incentivi.
Detto ciò è evidente che la combinazione di questi tre elementi va definita in ogni
situazione concreta e la loro miscela può variare.
Inoltre, il rapporto fra tecnico, committente ed utente – sempre cruciale in ogni politica
territoriale – è anch’esso mutevole e il ruolo dell’utente (alla fin fine “i cittadini” lato sensu) è
oggi più rilevante, tanto che ci impone di rivedere il concetto stesso di cliente (che nel nostro
caso sono coloro che governano o amministrano).
La nostra proposta di “strumenti” non vuole essere una negazione di questa discussione e
della sua delicata complessità per un’opzione di tipo tecnicistico, ma è un tentativo di ancorare
alle potenzialità concrete ed effettive gli orientamenti teorici; infatti se la partecipazione, la
costruzione del consenso, ed effettivamente la pianificazione stessa, sono – tra l’altro – anche
processi comunicativi, e se assumiamo che enunciati, opinioni, interessi e previsioni siano
sempre fondati su una rappresentazione, su un modello, ecco che emerge l’interesse per le
tecniche che esplorano la possibilità di una costruzione collettiva e che si propongono di
esplicitare questi modelli.
Parole chiave: costruzione degli scenari, cross-impact analysis, algoritmi genetici, software La
Macchina del Tempo, pianificazione strategica, partecipazione pubblica
* Laboratorio di Analisi e Modelli per la Pianificazione (LAMP), Dipartimento di Architettura e Pianificazione, Università degli Studi di Sassari; [email protected]
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1. Premessa
Facciamo un’utile e salutare escursione nel campo del mestiere del pianificatore e
di uno dei suoi alleati naturali ed essenziale partner: l’“analista dei sistemi territoriali”, un mestiere che comprende al suo interno l’attività di “costruttore di modelli”.
En passant ciò spiegherà perché abbiamo costruito un Laboratorio che si chiama
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di Analisi e Modelli per la Pianificazione (LAMP) .
Comincio da un’insieme di schemi che in qualche modo caratterizzano il rapporto
tra il pianificatore e chi gli propone un lavoro, che – quasi sempre – è un soggetto
pubblico in qualche modo portatore di interessi generali:
Schema 1
È lo schema classico; è lo schema cui fa riferimento Simon (1988) quando si chiede “chi è il cliente”; Simon ritiene che questa domanda possa avere una risposta
“semplice” in alcuni casi (quelli che egli chiama “microsociali”):
«Chi è il cliente? Sembra bizzarro domandarsi chi sia il cliente quando ci riferiamo a progetti destinati ad ampi sistemi sociali. La domanda non ha bisogno di essere posta se riferita ai
compiti di progettazione su piccola scala, perché in questi casi la risposta si ricava dalla definizione dei ruoli professionali dei progettisti. A livelli microsociali di progettazione è accettato
universalmente il fatto che il lavoro dei professionisti, siano essi architetti, avvocati, ingegneri
civili o medici, venga finalizzato ad un determinato cliente e quindi i bisogni e i desideri di
quest'ultimo determinino gli obiettivi del lavoro di questi professionisti» (Simon 1988, pg. 187)
Il campo e le modalità di applicazione di questo schema sono comunque molto
meno semplici di quanto si pensi, sia perché la relazione tra cliente e professionista è
spesso molto complicata e talvolta il professionista non rinuncia ad essere cliente di sé
stesso ed il cliente ad interferire con il professionista (si pensi al rapporto fra un architetto che progetta una casa e il suo committente/cliente o – per pensare in grande – a
quello fra Michelangelo e Giulio II), sia perché con la divisione e la specializzazione
del lavoro sempre più estesa nel mondo moderno lo schema tende ad essere spesso di
questo tipo:
Schema 2
1. LAMP è un’associazione che comprende otto Università e Centri di ricerca italiani; si veda
http://lamp.sigis.net.
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È uno schema che propone qualche problema aggiuntivo sia perché – anche ammesso che vi sia una gerarchia fra gli esperti – le relazioni che il cliente deve attivare
sono molteplici, sia perché gli esperti essendo in genere esperti in diversi settori hanno priorità, valori, linguaggi ed obiettivi diversi, sia perché la specializzazione delle
competenze rende sovente difficile al cliente la comprensione del ruolo che ciascuno
degli esperti ha o potrebbe avere.
Inoltre potrebbe anche darsi una situazione come la seguente:
Schema 3
Uno schema anche questo complesso, persino nel caso vi sia una gerarchia tra
clienti (ad esempio non è certo che se il committente è una coppia e l’esperto un arredatore, vi sia tra i clienti un comune sentire).
Ma in realtà molto più spesso la situazione è:
Schema 4
con la somma delle complicazioni che già così appaiono evidenti.
Lo stesso Simon afferma comunque che questi schemi non vanno affatto bene in
altri casi ovvero che non vadano affatto bene per quanto riguarda il lavoro del pianificatore; infatti:
«Non sta all'architetto decidere se i fondi che il suo cliente ha destinato alla costruzione della casa sarebbero spesi meglio, da un punto di vista sociale, per la costruzione di case popolari.
Né tantomeno il medico deve chiedersi se la morte del suo paziente renderebbe la società migliore. […] Con la crescita del sapere, ci si interroga su quello che è il ruolo del professionista.
[…] Per questo motivo si pongono ai professionisti dei nuovi obblighi affinché considerino, al
di là dell'interesse del cliente, anche le conseguenze prodotte dalla realizzazione dei loro progetti» (Simon 1988, p. 188)
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Dunque le situazioni descritte negli schemi precedenti sono del tutto ottimistiche
nel caso che invece che con il lavoro dell’architetto ad esempio (o del chirurgo estetico), si abbia a che fare con quello del pianificatore: infatti in questo caso appare prepotentemente un nuovo “attore”: l’utente o meglio – per farla corta – gli utenti.
Schema 5
Infatti – come abbiamo detto – normalmente i clienti del pianificatore e
dell’analista sono pubbliche amministrazioni, che in generale sono strutture assai articolate al proprio interno; per di più si tratta di un’articolazione fra soggetti che potrebbero avere obiettivi diversi: si pensi alla differenza che può esservi fra “tecnici” e
“politici” in un’amministrazione pubblica italiana: con i tecnici che restano ed i politici che durano 5/10 anni, per non parlare dei problemi che si pongono tra le sfere di
influenze di settori e di assessorati diversi.
Vero è che le amministrazioni in linea teorica esprimono gli interessi dell’utenza
(ovvero dei cittadini o dei loro elettori), ma non coincidono con essa per varie ragioni;
in particolare non è detta che i clienti siano l’espressione degli utenti (i loro rappresentanti): alcuni utenti ad esempio potrebbero non essere cittadini ed elettori tout
court (si pensi alle persone di minore età) o non esserlo in quella nazione (gli stranieri) o non in quella area amministrativa (i pendolari o i city users non residenti), o non
essere elettori attivi (tutti coloro che dall’esercizio dei diritti sono emarginati o che si
“tirano fuori”); alcuni utenti poi potrebbero non condividere le opinioni degli amministratori in quella specifica questione (ed in diversi modelli politici come ad esempio
una democrazia rappresentativa senza vincolo di mandato essi potrebbero essere la
maggioranza) e tra quelli che non le condividono vi potrebbero essere ragioni diverse
di non condivisione (per esempio potrebbero alcuni potrebbero credere che il problema non sia importante o preferire soluzioni alternative, anche in contrasto fra loro).
Le relazioni sono molte e difficili specie nelle democrazie post-moderne (o postdemocrazie come le chiama Crouch (2003)): insomma il rapporto con gli utenti è oggi
più rilevante che in passato.
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«Quando la pianificazione fu istituzionalizzata come parte dei moderni sistemi politici occidentali, il processo era interamente tecnico, operato da architetti, appoggiati da filantropi e riformisti, ma implementato come fait accompli top-down. Questo modello è stato solo raramente modificato dato che si assumeva semplicemente che se in qualche modo gli utenti avevano
una rilevanza nella preparazione di un piano, questa si limitava al fatto che esso andava informato ed educato, ma non coinvolto in modo diretto. Le mostre civiche di Patrick Geddes (1915,
1949) erano la cosa più vicina alla partecipazione […] Per i successivi 60 anni il processo di
coinvolgere gruppi diversi dagli esperti che preparavamo il piano si è progressivamente ampliato […] Questo processo è conosciuto dagli anni ‘60 come partecipazione pubblica, ma è stata
concepita come un’attività di supporto alla redazione del piano piuttosto che come vero coinvolgimento di un pubblico più ampio nell’effettivo processo di piano» (Batty, 1997, p. 17)
I problemi di comunicazioni possiamo vedere sono già molti e diversi. Ma non è
finita!
Schema 6
Eh sì: ci sono i portatori di interesse, molti dei quali possono non essere in alcun
modo utenti (si pensi agli azionisti di un’immobiliare che possiede i terreni edificabili
o ai finanziatori dell’opera o agli operai che verranno utilizzati nella sua realizzazione); inoltre vi sono portatori di interesse non economici che anch’essi non sono utenti,
eppure si tratta di attori rilevanti del processo (si pensi alle Associazioni ambientaliste
o ai media). Come direbbe Snoopy (Shultz, 2004): “la trama si infittisce”. Ma la nebbia non è mai troppo fitta! Anche se cominciassimo a tenere conto del fatto che il lavoro del pianificatore deve fare i conti con tutte queste relazioni dimenticheremmo
qualcosa, che infatti viene spesso dimenticata. È stravagante che in quasi tutti gli studi
relativi ai processi decisionali sia presente – in modo irrealistico – l’idea che tutti i
portatori di interessi siano “attori” espliciti e dichiarati (in anni ed anni di uso dei giochi di simulazione, ad esempio, non ci è mai capitato di vedere un ruolo che fosse esplicitamente e palesemente definito come “gli speculatori”): in realtà molti attori sono occulti e dunque molte delle relazioni rilevanti nel processo di pianificazione sfuggono alla “trama comunicativa” esplicita e nota.
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…
Schema 7
Infine una delle possibilità che sovente esistono è quello che i portatori di interessi
nascosti si confondano o si contamino o si intreccino con i portatori di interessi illegali o criminali (se prendiamo un film come il classico e oserei dire attuale Le mani sulla città, la rete di queste relazioni appare evidente in tutta la sua drammaticità): interessi occulti, interessi illegali e interessi criminali nella storia dello sviluppo urbano
hanno svolto un ruolo rilevante in molte fasi.
…
…
Schema 8
Non ci dilungheremo oltre se non per sottolineare che non sempre vi è una totale
distinzione tra questi ruoli (nulla vieta a clienti, esperti e stakeholder di essere anche
utenti, anche se non dovrebbe succedere che clienti ed esperti siano anche stakeholder, specie di tipo economico).
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Questa lunga premessa ci mostra come il processo di pianificazione sia in realtà
estremamente complesso anche come processo relazionale e come in esso giochino un
ruolo rilevante la comunicazione, la negoziazione, il compromesso.
2. Che cos’è un buon modello?
Non sarà compito di questo articolo affrontare in dettaglio l’insieme delle questioni che andrebbero affrontate, ma voglio dire che, se anche ci limitassimo, come spesso è possibile ed utile, ad alcuni solo di questi processi ed in particolare alla relazione
fra uno degli esperti (il modellista), altri esperti (il pianificatore), l’insieme dei clienti
e l’insieme degli utenti, di questa complessa rete di relazioni dobbiamo essere consapevoli e al suo interno dobbiamo collocare le competenze necessarie ad un buon modellista e dunque da ciò ricavare le caratteristiche di un buon modello.
Pensando in generale al concetto di razionalità limitata proposto da Simon e a tutta la riflessione sulla complessità il cui esito sostanziale è quello di proporre modelli
basati sul paradigma bottom-up invece che su quello top-down va aggiunto quello di
razionalità ecologica suggerito da Gigerezer (Gigerenzer et al., 1999), che – in sostanza – ci dice che un’euristica è razionale se si adatta alla struttura dell’ambiente;
serve cioè una “scatola degli attrezzi”, con strumenti fast-and-frugal, che funzionino
presto e bene.
A suo tempo (Cecchini, 1999) avevamo individuato le seguenti caratteristiche per
un buon modello:
1. un modello non deve essere una scatola nera (un black box), è essenziale capire
come funziona e perché; è anche essenziale che lo possano capire quelli che lo usano per pianificare ed anche quelli cui il piano è destinato;
2. un modello deve prevedere e tenere in conto l’azione e la reazione dei soggetti sociali, dei loro interessi consapevoli e no, confessabili e no, razionali e no;
3. un modello deve essere fatto in modo da consentire di valutare più risultati possibili, rendendoli confrontabili e consentendo di capire che cosa più di ogni altro determina le loro differenze;
4. un modello deve essere compatibile con altri modelli, diversi nell’impostazione e
nelle tecniche;
5. un modello deve essere parco, non richiedere un numero eccessivo di variabili,
una quantità eccessiva di dati, una potenza di calcolo eccessiva;
6. un modello deve essere adattabile a situazioni diverse, deve potersi “alimentare”,
manipolare e gestire con quel che si può trovare;
7. un modello deve potersi costruire in tempi rapidi, almeno in rapporto ai tempi di
realizzazione del progetto;
8. un modello deve essere riutilizzabile con frequenze e comunque non deve essere
un hapax legomenon.
Per dirla in un altro modo: ci servono modelli modulari che siano amichevoli, che
vuol dire in grado di essere usati e capiti dai protagonisti del processo di piano (non
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usare dei black box se non è proprio indispensabile!); flessibili, che vuol dire adattabili a circostanze diverse e a diverse fasi del processo di piano; a molti livelli, che vuol
dire che debbono poter essere utilizzati a diversi livelli di complessità ed essere interoperabili; poco costosi, che vuol dire che debbono essere di uso comune, attivabili
quando servono e con un costo che sia una frazione modesta del costo dell’attività di
piano; essi debbono inoltre essere collegati a strumenti di comunicazione di ogni tipo
(anzi più precisamente del tipo “giusto” per quel particolare obiettivo e per quel particolare gruppo di attori); questo modelli debbono servire per:
• decidere, permettendo di rendere il processo trasparente, motivato e responsabile;
• negoziare, consentendo il confronto di diversi punti di vista e l’eventuale composizione di interessi;
• costruire consenso, favorendo il consenso informato e consapevole per le decisioni prese dal soggetto pubblico;
• valutare, permettendo di verificare il risultato delle scelte e la correzione in itinere
delle scelte inefficaci o contraddittorie.
Questi modelli debbono raggiungere i propri obiettivi potendo essere parte di modelli più raffinati e hard come quelli comprensibili ed usabili solo da alcuni degli esperti, quando è necessario.
In buona sostanza lo scopo dell’analista deve essere quello di dare agli attori coinvolti nel processo di piano (ed abbiamo visto quanto siano numerosi) la capacità di
leggere, capire, rappresentare, prevedere i differenti sistemi che rappresentano il campo delle loro azioni. Non è un compito semplice avere buoni modelli anche per ragioni – chiamiamole così – epistemologiche , infatti la difficoltà nel trattare con la complessità dei sistemi urbani è di due tipi: uno ha a che fare con la complessità intrinseca
del sistema (ed è oggetto della riflessione teorica più avanzata e dei nuovi “paradigmi” cui abbiamo accennato (basterà citare Allen 1997) e che non tratteremo in questa
sede), l’altra – di cui stiamo parlando – con il fatto che in questo tipo di sistemi si presenta la possibilità dell’azione degli attori, che in molti sensi sono “azioni libere”.
3. Perché la pianificazione è (ancora) necessaria e perché ha bisogno di modelli
Noi siamo convinti che la pianificazione stricto sensu (che vuol dire per definizione la produzione di “piani”) è assolutamente necessaria oggi come sempre, oggi più di
sempre. Non spenderemo molte parole per giustificare questa posizione, che ci pare
essere divenuta un po’ minoritaria e tuttavia rimane molto convincente, ma alcune sì.
Il mestiere dell’urbanista è cambiato nel tempo, ma ha avuto un’evoluzione
drammaticamente rapida negli ultimi 20 anni, un cambiamento che in buona sostanza
stravolge i buoni principi dell’urbanistica classica, rimasti solidi per circa due secoli
(anche se con varianti consistenti) (Hall, 1988; Alexander, 1992).
Sicuramente fra le cause di questo cambiamento c’è l’innovazione tecnologica
(Castells, 1996; 2000), ma in primo luogo vi è un cambiamento radicale nel ruolo socia8
le e nei principi della professione, determinato dall’affermazione mondiale del cosiddetto pensiero unico, che in sostanza con le parole della sua massima realizzatrice, sostiene che “non c’è una cosa chiamata società” 2.
Ma senza società il ruolo dell’urbanista svanisce e si snatura: di qui può affermarsi
l’idea che l’organizzazione del territorio sia non il risultato delle scelte collettive espresse dalla “volontà generale” (la società appunto, con i rapporti di forza fra gli interessi di volta in volta definiti), ma della contrattazione locale fra i proprietari di aree
e di capitale finanziario, detentori dello jus aedificandi (che assurge al ruolo di diritto
inviolabile, quasi di diritto naturale) e chi può solo elemosinare qualche concessione o
porre qualche limite all’esercizio pieno ed incontrollato di questo diritto; la crisi attuale delle città (diversa e forse più devastante di altre crisi del passato (vedi Diamond,
2005)) e da questa rinuncia a governare i processi del lo sviluppo ha origine in primo
luogo, di qui deriva lo snaturamento della città, il loro “disincarnamento”, la loro perdita di identità (Davis, 2005).
Il pianificatore, l’urbanista da solo forse poco poteva per reggere a questo urto, ma
il fatto è che al disarmo materiale si è accompagnato anche il disarmo intellettuale,
accettando – implicitamente almeno – la rinuncia a concepire il territorio e la città
come “bene comune”.
Ma pianificare si deve, come mostrano le conseguenze del fenomeno “spontaneo”
dell’urban sprawl (Indovina, 2005), che è un fenomeno assai diverso nel contesto europeo e in quello nord-americano, ma sempre drammatico in termini ambientali e di
civiltà. Certo bisogna pianificare in forme nuove, meno top-down, più partecipate, più
flessibili, più reversibili, più sensibili ambientalmente.
E – vogliamo dire – pianificare si può, perché si va recuperando l’idea che un “bene collettivo” esiste e i cittadini possono esserne espressione e parte, con un ruolo definito nella rete del processo di governo, un processo che coinvolge esperti, clienti, utilizzatori, tenendo a bada i portatori di interesse espliciti, con compromessi, compensazioni, penalizzazioni e repressione, costringendo i portatori di interessi nascosti
all’emersione e alla trasparenza, combattendo con consapevolezza e rigore i portatori
di interesse illegittimi e criminali; un processo in cui l’esperto ha un ruolo chiave di
raccordo fra utenti e clienti e vigila in difesa dell’interesse collettivo e contro ogni
conflitto di interessi.
Tutto ciò – ripetiamo – ha bisogno di buoni modelli e modelli di tipo nuovo: una
pianificazione partecipata, flessibile, reversibile ha bisogno di modelli adeguati: potenti, amichevoli, a basso costo, modulari, comunicabili.
Ecco perché il nostro mestiere di “creatori di modelli” non può non avere la specificazione di “per la pianificazione” e questo – molto più che in altri casi – impone di
legare molto più le tecniche agli obiettivi, gli strumenti a chi li usa: l’innovazione tecnologica (insieme con lo sviluppo di una nuova visione epistemologica nella costruzione di modelli) rende possibile questo obiettivo.
2. “There is no such thing as society: there are individual men and women, and there are families.”, Margaret Thatcher, British Prime Minister (“non vi è niente che si possa chiamare società: vi sono uomini e donne
e le loro famiglie”), citato da Bauman (1999).
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Abbiamo voluto spendere più spazio del solito in una speculazione teorica, che
tuttavia per non rendere vana una presentazione di una nuova concezione dei modelli
per la pianificazione e modelli di nuova concezione, era indispensabile.
Un buon approccio è quello di Godet (1986, pg.46) che prospetta “sette ideechiave per l’azione e l’antifatalità”:
1. Chiarire l’azione presente alla luce del futuro;
2. Esplorare avvenire incerti e multipli;
3. Adottare una visione globale e sistemica;
4. Tener conto dei fattori qualitativi e delle strategie degli attori;
5. Ricordarsi sempre che informazione e previsione non sono neutre;
6. Sceglier il pluralismo e la complementarietà degli approcci;
7. Mettere in discussione i pregiudizi.
Questo è esattamente lo spirito della nostra idea dell’attività dello specialista in
modelli vista come simile a quella dell’idraulico e dei modelli che possono servirgli
come di una “scatola di attrezzi”: un insieme di strumenti per l’azione di un buon pianificatore, una scatola di attrezzi che può essere usata sia dagli esperti che dai clienti
che dagli utenti: non una scatola nera, ma un processo di comprensione e condivisione.
Ma una riflessione teorica non serve senza esempi e buone pratiche: nel 1999 avviammo le conferenze biennali di INPUT (Informatica e Pianificazione Urbanistica e
Territoriale) a Venezia esattamente per questo motivo: nelle prime tre conferenze gli
esempi e le buone pratiche sono state numerose e soprattutto va nascendo una comunità di esperti di modelli per la pianificazione più estesa, più capace di dialogo e di intersezione con altre discipline e con altri approcci, più aperta: Alghero 2005 può essere una tappa ulteriore, anzi può consolidare alcune relazioni, formalizzandole e rendendole istituzionali.
Riferimenti bibliografici
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Allen P. M. (1997), Cities and Regions as Self-organizing Systems: Models of Complexity,
Gordon and Breach Science, Amsterdam.
Bauman Z. (2000), La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano.
Batty M., (1997), “Urban Systems as Cellular Automata”, Environment and Planning B, n. 24,
pp. 159-164.
Castells M. (1996, 2000), The Information Age: Economy, Society and Culture, Blackwell,
Cambridge, MA.
Cecchini A. (1999), “New Information and Communication Technologies (NICT) and the
Professions of Town and Regional Planners”, Computers, Environment and Urban Systems,
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Crouch C. (2003), Postdemocrazia, Laterza, Bari.
Davis M. (2005), Città morte. Storie di inferno metropolitano, Feltrinelli, Milano.
Diamond J. (2005), Collapse How Societies Choose to Fall or Succeed, Viking, New York.
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Gigerenzer et al. (1999), Simple Heuristics that Make us Smart, Oxford University Press,
Oxford.
Godet M. (1984), Prospective e planification stratégique, CPE, Paris.
Hall P. (1988), Cities of Tomorrow: an Intellectual History of Urban Planning and Design in
the Twentieth Century, Basil Blackwell, Oxford–New York.
Indovina F. (a cura di) (2005),
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