vittorio d`alessio_la canzone di ran

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vittorio d`alessio_la canzone di ran
LA CANZONE DI RAN
Bianca vestale
solitaria custode del cielo,
nei miei occhi
di pozzo profondo
la tua luce
non è mai piovuta
eppure ho cantato
i tuoi mari
che nelle nostre pupille
si sfumano
come felci
racchiuse nel quarzo.
Zed, la piccola
Luna dei prati,
sedotta da un sogno celeste,
muovendo
le ali di petalo,
seghettò l'infinito.
Nel volo seguita
da mille fioche
lampare.
Tra i tuoi seni
pensavano
di poter riposare
le tremule vele.
Alle tue orecchie
pensavano
di poter affidare
il tumulto del cuore
e i capelli pensavano
di intrecciare
con le piccole zampe.
Signora
dal profilo di falce
nessun'ombra
macchiò i tuoi deserti.
Un lampo
un fragore
un dolore
acuto di oceano
respinse
le lucciole
al prato.
In quale
pugno di prato
Zed
sei caduta?
In quale fiore
riposi?
Quale voce
di stelo ti culla?
Quale filo
di seta ti avvolge?
Quale dolce
ricordo
ti nutre?
Piccolissima stella,
la terra
di te non ha frutto.
Racchiuso
nel mio cuore
il tuo respiro,
il tuo volo continua
e sono grandi
gli oceani
e i cieli
che per te
so ancora
inventare.
Maggio era venuto a profumare i prati e giocando tirava la coda al sole per ottenere
minuti in più di luce.
Il sole, gridando e sbuffando, si faceva catturare e poi annoiato lo trascinò nel tramonto.
Venne giugno con le labbra di zucchero.
I cuccioli in quel periodo erano avvinti dallo spazio, da soli erano già scesi al fiume e per tre volte erano
saliti fin sulla nuca del monte per rubare le forme all'orizzonte. Soli, l'albero e la volpe, riempivano le ore.
Spesso si tuffavano nei mulinelli del passato, ma non sempre ritornavano a galla insieme. Quando accadeva,
avevano negli occhi espressioni diverse.
L'albero viveva momenti di incertezza.
Era troppo crudo, distante, ciò che la volpe andava dicendo.
Lei che aveva vissuto in quel prato ma anche al di là dei monti, lei che aveva guardato con occhi più attenti il
cielo e con altri desideri aveva attraversato la terra, possedeva parole che l'albero non consolava e certezze
che l'albero non aveva mai posseduto.
- Ho la mente confusa - disse l'albero non appena i cuccioli si furono allontanati.
- Stai spalando il cumulo dei miei anni e i sì per cui ho vissuto e i no per cui ho lottato a volte non hanno più
valore.
- Ti sto semplicemente pulendo dal muschio e dalla polvere.
- Non capisco, ma sento che sto male. Ho l'animo pieno di anitre selvatiche che gracidano, gracidano e non
mi lasciano pensare. Provo la stessa sensazione di paura, che avvertii quando varcai la soglia della notte.
Allora venne il pipistrello a consolarmi e le sue parole...
- Ascoltami e fa’ spazio alla speranza nel tuo cuore, se non vuoi che le mie parole siano foglie secche sui tuoi
rami. Il pipistrello ti parlò di gioia e fece bene. Forse sbagliò a non dirti tutto. Ma chi mai, invitandoti nella
sua tana, ha il coraggio di dire: -Sii il benvenuto, in questo luogo flaccido di noia.
Questo è il mio compagno irascibile ed egoista, che mi assale ogni giorno nel più assoluto silenzio. Questi
sono i nostri cuccioli. Hanno le stesse nostre zampe e lo stesso taglio degli occhi, ma anche la nostra disfatta.
E questa sono io. Vecchia in una età giovane, delusa e inviperita senza la minima voglia di cambiare.
Nessuno mai sarà disposto a dirti questo? Così fece il pipistrello e tu gli credesti. - Perché dovrei credere in
te?
- Perché io ti amo fino a farti male. Lui era solo un curioso e venne a lusingarti.
- Se tu mi amassi, come dici, ti preoccuperesti di farmi gioire, non di farmi morire.
- Proprio perché ti amo, io voglio che tu muoia.
Mille volte al giorno ti vedrò morire
fino a quando dalla notte delle tue radici
salirà alla luce delle foglie
il verde topazio della linfa nuova.
Mille volte
ti vedrò morire
perduto nell'immensità
d'una parola
o nel lampo fulmineo
d'un idea.
Eterno cucciolo,
mio amato,
tenero arboscello
dalle profonde rughe
vedrò i tuoi rami
tuffarsi nel granito
per pescare il cuore
della vita.
Percorrerai
le vene dell'universo
e solo andrai
oltre le comete
a cercare l'origine
del moto.
Non tornerai stanco dall'infinito,
né deluso,
né umiliato,
non sarai
polvere di roccia,
né polline inghiottito
dal ciclone
né aria succhiata
da un respiro.
Sarai la roccia
il fiore
l'aria.
Polpa di pesca
nocciolo
e non solo buccia;
bianca farina
pane
e non solo spiga;
carezza, sibilo
canto
e non solo vento,
amato mio
e non solo mio,
mille volte emigrerai
tra l'alta marea
delle verità nascenti.
Avrai parole
più delle parole,
gioia più della gioia
che può contenere
il piccolo anfiteatro
del tuo corpo.
L'infinito poi si comporrà
nella tua mente
e l'armonico mosaico
dell'ultima tessera
si sentirà chiuso:
la dolcissima
morte.
- Tu mi parli di due "morti"? Una iniziale - come annientamento -; l'altra finale come completezza.
- Quale completezza ha avuto mio figlio in dieci giorni?
Non è stata certo la morte a sopraffarlo ma la vita a non nutrirlo.
- E qual è la differenza?
.
- È che la morte non lo ha preso ma lo ha semplicemente raccolto. Fu una pietra ad
impedire a tuo figlio di essere.
- Perché dici di "essere"? Forse che mio figlio non è stato.
- È stato ma non nel modo in cui tu pensi.
- Ma tu deliri! Poco ti manca dall'accusarmi di essermi inventato un figlio.
- Tuo figlio non sapeva di essere tuo figlio.
Lacerò con urlo
l'albero la notte.
Come punta
le radici
si intrecciarono, squarciando
l'anima alla terra.
Fu strazio
dentro il cielo.
- Tu che mi parli d'amore e mi spingi a cercare la prima scintilla che illuminò gli abissali silenzi del nulla,
con quali occhi, con quale cuore mi stai vicino?
Maledetta sia la tua lingua che imparò a parlare e maledetti siano i tuoi pensieri che vogliono attanagliare
l'universo ad una idea, se il tuo vicino rimane l'eterno sconosciuto e se il tuo animo non riconosce il mio
dolore.
Tu hai visto mio figlio sorgere dalla terra ancora impastato di neve perché vuoi negarlo?
- Non lo nego, l'ho visto.
- Allora perché dici che non è stato?
- Perché non aveva ancora vissuto.
- Cos'erano allora quel tenerissimo stelo e quelle due minuscole ali verdi, pronte ad
aggiungere anni ai giorni? Era mio figlio, era.
- No ancora non lo era!
- Possa il tuo corpo conoscere l'avidità dei vermi.
Pozzo di fogna diventi l'utero tuo, perché mai più da te venga alla terra un altro cucciolo se non sai più
distinguere la vita dalla morte.
- Ascoltami.
- Vattene, non voglio più vederti!
È diventato un cimitero nelle tue parole il mondo.
Hai dissotterrato il passato e scheletri antichi e vecchi canti sono riapparsi nell'umidità della notte. Ma in essi
non hai riconosciuto tuo padre, né tua madre. Li hai ripudiati e hai staccato i tuoi figli dalla storia.
I miei cuccioli, correndo, stanno imparando a conoscere il prato. Nel loro passo c'è il passo di mia madre.
Non l'ho negata. Nelle loro orecchie c'è il fruscìo dei secoli, l'hai sempre saputo. Nella tua voce invece c'è
l'immagine umiliata della vita.
Tu difendi ad oltranza i princìpi ricevuti e non accetti nessun modo di essere nuovo, anche la vita come
l'acqua si rinnova.
Mi sono trascinata dalla tana ai tuoi piedi, la notte in cui venisti, per esserti vicino. Ho generato sotto le tue
foglie perché tu sentissi ciò che io sentivo, perché tu soffrissi come io soffrivo ed amassi i cuccioli che
venivano a trovarci.
Ti ho chiesto di essere loro padre e a te mi sono donata come sposa perché mai più avvertissi di essere solo.
Ma tu non volevi questo.
Tu volevi essere compianto.
Volevi che io ti aiutassi a cercare le parole e i gesti più strazianti perché gli altri, quantificando il tuo dolore,
nella pietà ti amassero.
La morte di tuo figlio in questo modo diventava possibilità di relazione. Gridasti. La morte mi ha rubato mio
figlio ed anche la primavera, per essere fino in fondo madre, ti aiutò a negarti e ti incoronò di spine.
Ah, se gli altri venendoti incontro ti avessero chiesto: - Quale figlio piangi? Non vedi, non era che un fiore,
un dondolìo dello stelo nell'aria, un respiro non ancora finito!
No. Quello non era tuo figlio. Ancora non sapeva perché la luna lascia il posto al sole, né perché anche senza
il vento le farfalle volano.
È come se io mi fossi sentita madre ancora prima di aver generato. Sarò madre solo quando i miei cuccioli
mi riconosceranno tale. Quando il mio ventre era gonfio, io ero solo il bozzolo di progetto iniziato tra le
stelle.
E madre non sarei mai stata se, avvertito il primo moltiplicarsi delle cellule, non mi fossi nutrita per nutrire la
vita.
Perché allora non gridasti - La morte mi ruba i figli - quando il vento fece razzia dei tuoi fiori e la grandine
strappò dai tuoi rami i frutti?
Non lo facesti perché gli altri avrebbero deriso il tuo esagerato dolore per una probabile paternità.
Hai aspettato che tuo figlio avesse la tua stessa immagine per accusare chi in altri modi ti aveva già
depredato.
Tu piangi te stesso e la maledizione di non aver avuto una stirpe. Tu volevi un figlio per dare una certezza
alla vita.
Sei vittima del tuo stesso desiderio di possesso, perché se ciò non fosse, tu saresti ugualmente felice di essere
padre dei miei cuccioli.
Disse e pianse nel vederlo piangere, mentre i cuccioli si facevano piccoli nell'intento di mordersi la coda.
- Ora lasciami - disse l'albero - Ho voglia di star solo.
La volpe chiamò i cuccioli e andarono alla tana, anche perché il sole stava nascendo e la mente, con la luce,
sposava la dolcezza del riposo.
- Se sei venuto, solo a vedere come sto, a perlustrare con i tuoi raggi la chioma e il tronco, godi pure; sto
male.
Una femmina, una madre, una volpe che giura di amarmi e sogna di entrare nelle radici, parlando delle stelle
e dei cuculi, della barca e dell'oceano, mi ha distrutto.
Ho seminato il dubbio anche là dove c'era la certezza ed ora il deserto avanza. Deserto di parole, di pensieri.
È inutile che continui a girarmi intorno e a spostare lentamente la mia ombra. Non ho nulla da nasconderti.
La mia solitudine è così carnosa che non ha bisogno di essere accertata. Né ho voglia di vestirla o di
spingerla nei meandri della terra. Nel buio. C'è che sia pane per gli sguardi affamati e acqua per le bocche
assetate. Non mi vergogno.
La dignità l'ho persa quando, presa in esame la mia vita, sono rimasto col tumulo dei miei anni spesi
nell'ansia di piacere o nel desiderio d'essere amato.
Se sei venuto a curiosare fa pure: non mi imbarazzi e neppure mi fai rabbia. Se sei venuto a riprendermi,
vattene!
Vattene anche se sei venuto a convincermi o a tenermi compagnia!
Non sarò più tuo.
Nemmeno della luna.
Non sarò più di nessuno.
Per anni mi sono illuso che era essenziale lottare per liberarmi da qualcuno e da qualcosa.
Non ho mai pensato di liberarmi da me stesso.
Non ho fatto altro che passare dalla cella più piccola alla cella più grande e solo perché dell'ultima non ho
più visto i confini, ho cantato l'inno alla libertà.
Illuso! Ho sbagliato!!!
Anche la tattica non era quella giusta.
La mia è stata una guerra settoriale e mai globale.
Se vi avessi odiato tutti fin dal primo momento, forse sarei riuscito ad annientarvi. -Uno alla volta - mi
dicevo -Dal più debole al più forte.
Così non ho fatto altro che uccidere e amare, uccidere e amare, e mi sono sempre trovato con un Dio da
ammazzare ed un Dio da inventare.
Ma stanotte ho sgozzato sulla stessa pietra che li innalzava dal pantano dei terrestri i vari semidei preposti
alla mia felicità.
Finalmente mi sono liberato dalla tirannìa dell'eterno.
L’altare è vuoto
Nessuno vi salga
O forse una sola è degna dell'incenso e delle mie preghiere: la solitudine. E nella solitudine gioisco. Anche
tu, sole, immenso midollo della terra, nei miei confronti sei impotente!
Sforzati, suda!!!
Manda pure i tuoi raggi sulle mie corolle, tanto non si apriranno.
Non avrai fiori da insaporire, né abbevereranno ai miei fiori gli eserciti delle api.
Il silenzio ci avvolge.
Ci cattura l'alito della notte.
Ma anche quella avrà pace.
Solo i miei occhi. L'altare è pronto.
Vi salga la solitudine e il suo grande potere di escludervi. Benedetta sia l'unicità che mi ritrovo e in cui mi
sento finalmente mio!!!
No, forse non è vero.
Anche adesso sono posseduto. Ecco mi guardano!
Mi spiano.
Conosco i volti dei miei carcerieri, conosco il loro respiro e il peso della loro ombra sul mio corpo, o forse è
il contrario?
Certamente è il contrario.
Calamitàti dalla mia presenza .. i..carcerieri sono diventati prigionieri del loro stesso ruolo mentre io che ho
scelto la cella sono finalmente libero.
Stupenda costruzione di un teorema!!!
Muri, inferriate, porte creano libertà.
Buio, silenzio, solitudine nutrono la vita.
Luce, spazio, cielo: pilastri dell'angoscia!
Sono io.
Io sono inizio, io sono fine.
Sono vita e morte nello stesso istante.
Vita per me che ho scelto, morte per quelli che non sanno la mia scelta.
Perché chi mi vede e dice: - È lui? Come si è ridotto!!! - e guardandomi continua a parlare di me col verbo
"era", non sa che in quel momento io sto sgranocchiando il rosario del "sarò".
E chi pensa di poter misurare la vitalità del mio corpo, attratto dall'esplosione delle foglie non sa che da
tempo dormo nel giaciglio della morte.
Continua affermazione degli opposti “io sarò”; dea vivente incarnatasi nella genesi. Perciò tu, sole, che
caparbiamente continui ad infilarti nel mio assonnato fogliame, per scoprire da quale ferita sale questo
sintomo di morte, sappi che il mio spirito nelle radici danza.
E a te luna, che dall'altra parte del globo aspetti di tendermi un abbraccio, mozzerò nell'incontro le tue mani.
Voglio stare solo.
E se avrò voglia di ubriacarmi di stelle e di nuotare tra le sfumature della luce, non lo dirò a nessuno, perché
mi direste come fare; anzi mi vestirò di tristezza per accaparrarmi il vostro compianto.
E mentre sul mio corpo sentirò la vostra pietà, nell'animo mio crescerà l'alta marea della gioia.
Sarò doppiamente felice: e per avervi ingannato e per essere finalmente libero di sognare anche di diventare
padre, senza che nessuna volpe gravida venga a mettere una ipoteca sui miei sogni. Chi riderà più di me, se
con i fiocchi di neve sparerò alle stelle o se, trasformati in rosso corallo i rami, mi perderò nell'azzurra vastità
d'un cielo? Nessuno più getterà cenere sul fuoco e la fiamma salirà alta sul ceppo.
Ho sempre sognato di volare.
Anche ora che la linfa si fa forza per andare nei cunicoli irrigiditi dal tempo. Volare.
Staccarsi da questa terra fradicia di luna e fare il girotondo con le allodole, là dove il canto dell'uomo non è
che il residuo d'una lunga eco.
Fuggire.
Separarsi per sempre dall'ombra e da tutto ciò che nel cuore fa male: liberare la radice e tenderla nell'aria
come sicuro timone.
Andare.
Sfuggire alla malva e al pioppo perché si è stanchi di ascoltarli e ritornare, perché si ha voglia di cercarli.
Ho cercato in tutti i modi di volare.
Ho barattato i miei frutti in cambio delle ali, ma le farfalle non hanno mai accettato. Le ho viste, piccolissime
gocce di colore, nascere dai fiori e correre alle stelle.
Ho pregato le foglie, allorché si tingono di sangue, di oro e di terra, di trascinarmi nella loro corsa.
Mi hanno sempre dimenticato.
Le ho viste correre sui campi appena arati, alzarsi sui muggiti delle vacche e inscenare giochi.
Mi hanno detto che alcune vanno ad inventare il sole nella casa dell'uomo ed altre, perdute nella notte,
giungono fin nelle reti dei pescatori e per sempre si trastullano con la forza del mare.
Io ho visto l'uomo correre al di là sopra delle cime innevate, chiuso nel guscio duro che sega il cielo senza un
battito d'ali.
Solo io resto nel punto dove le mani mi posero per essere confine, punto cardinale, certezza di un ricordo.
Se mi spostassi di un metro tutto il mondo circostante perderebbe la sua certezza. Beato il sasso che non ha
orecchi, né cuore, né lacrime, né avanzi di ricordi.
Beata l'acqua che più di una farfalla sa nascere e rinascere, essere nebbia e nuvola, oceano e piccolissimo
fiocco di neve.
Io resto qui nella immobilità del sasso a sognare la metamorfosi dell'acqua.
Molto tempo fa, un merlo, col becco più giallo della avena, venne a cercare i miei rami. Si posò tra le foglie
tenerissime e i fiori sudati di rugiada, in un mattino di primavera antica, in cui le cime dei monti, sfuggiti alla
nebbia, sembravano isole addormentate sulla tranquillità del mare.
Subito incantò le mie orecchie.
- Lungo il fiume le canne cantano il tuo desiderio di volare - Tremai.
Uno sconosciuto conosceva i miei sogni.
- Sono venuto a mettere penne ai tuoi rami:
Gioii.
Uno sconosciuto era venuto a dare argilla ai miei sogni. - Se credi in me avrai il cielo.
Morii.
Uno sconosciuto mi amava.
Per mesi e mesi saltò da un ramo all'altro, da una foglia all'altra e mai lo vidi stanco o perplesso. Andò via
solo quando gli uomini incendiarono la notte con le stoppie. Era già matura l'uva, quando andò via.
Per mesi e mesi mi lasciai sedurre dalla sua presenza.
Seguivo ogni suo movimento, ogni suo consiglio, ogni espressione dei suoi occhi piccoli e rotondi.
A sera, quando la folla si allontanava dai miei rami, lui conquistandomi con uno sguardo si intrufolava nel
mio cuore e parlando già mi metteva in volo.
Io gioivo.
Ammiravo la sua capacità di organizzare, la facilità con cui contrattava, la fede che aveva nel suo piano.
Aveva il potere di non farmi pensare, di non mettere niente in discussione. Con lui vissi un tempo
lunghissimo di illusione.
Mi vendette e io non me ne accorsi.
Mi rese ridicolo ed io stetti al gioco.
Mi abbandonò ed io non gli gridai di girarsi.
Più in là seppi che non ero stato l'unico a cadere nella sua rete. Aveva cercato di far camminare ritta una
lucertola e far nuotare un sasso.
Chi era?
Un matto, un megalomane, un politico, un profeta? Forse nessuno. Forse tutti.
Il giorno che era venuto, dopo la mia muta ed incondizionata accettazione, contrattò con le api: tutto il mio
nettare per un po' di cera.
Quelle vennero a succhiarmi e, andando, lasciavano sui miei rami una patina di cera. I fiori caddero.
Nacquero i frutti.
Li nutrii come non mai.
Egli mi fu accanto in ogni ora di quel lungo tempo di maturazione. Dolce compagno di un unico sogno, con
tenerezza spostava le foglie che ostacolavano l'azione benefica del sole. Quando tutti i frutti furono maturi,
cercò di avere piume. Tutta la polpa, fino al nocciolo, in cambio di due o tre piume colorate.
Mi beccarono tutti, dal più piccolo fringuello al grande falco.
Più brava di un cesellatore, saldò piuma dopo piuma ai rami splendenti di cera.
Mi creò le ali.
Ma ciò non bastava.
Ai ragni che sostavano tra le more regalò tutto il mio corpo per tessere infinite ragnatele.
Quelli mi invasero.
Fecero ad ogni piuma un nodo e le collegarono tra di loro.
Mi vietò di nutrire le foglie perché nel volo non creassero attrito. In piena estate mi denudai e apparvi così
come egli mi aveva ideato: coperto di piume dappertutto, come un goffo uccello strano con la coda
conficcata nella terra.
Così trasformato, aspettai.
.
Quando vidi il vento piegare a valle le canne ed increspare con un solo soffio l'acqua del ruscello, eccitato
chiusi gli occhi e aspettai che mi mettesse in volo.
Quello venne, sbuffando come un toro, mi attraversò e lo sentii andare oltre.
Quando aprii gli occhi, fioccava.
Dal cielo scendevano le piume sopra il prato, tra la gioia di chi non aveva mai visto niente di simile e le
risate di chi mi trovava nudo, al solito posto dove ero nato.
- Ho tre lucciole nel cuore, tre piccole speranze per non perderti - così disse la volpe, avvicinandosi per la
settima notte all'albero.
- I cuccioli hanno scoperto il vento ed ora seguono il decollo di leggerissime foglie al macero dell'inverno.
Io a te sono venuta perché ho tre stelle per illuminare questo buio; tre piccole candele per non perdermi nella
vastità dell'universo.
La terra ha i seni gonfi ed occhi d'iris la notte. I pesci sono tornati nel ruscello e l'acqua nasconde i loro
giochi. Da giorni le rane legano collane di perle alle mezzo sorde e occhi d'angelo ha il serpente che
danzando sfiora la smeraldina pelle della sua compagna.
C'è amore dovunque guardi.
In qualsiasi sussurro, fruscìo o parola ascolti, c'è amore. Io ho tre lacrime negli occhi, tutto ciò che è rimasto
d'un pianto lungo come un fiume.
Ho tre chiodi nella carne, tutto il dolore nel vederti inabissare nell'oceano, mentre dalla superficie ti chiamo.
Ho tre cani rabbiosi nelle orecchie, tutta la paura di non essere con te in questi momenti.
La luna ha radunato le stelle nel canestro e da sola fa la guardia all'infinito.
Siamo soli noi tre in questa notte che si preannuncia più muta di una conchiglia sepolta dentro i monti.
Ascoltami perché grande è ...
- Non infastidirlo! - gridò la talpa, venendo fuori col muso dal terreno appena smosso - Non vuole più
vederti!
Si raggrumò il sangue. Fiato e carne si fusero in un solo blocco:
- Io che vivo tra le sue radici lo conosco - proseguì collerica la talpa - Non parlerà più con nessuno, tanto
meno con te che sei venuta a figliare dentro il suo pianto. - Lo ha detto lui?
- No, lo dico io che ho ascoltato ogni tua parola, che ho ricostruito ogni espressione, ogni momento di queste
lunghe notti.
- Allora lasciami sola, se sai tutto. Questo silenzio appartiene a noi due.
- Non puoi eliminarmi!
Sia che resti, sia che scenda ad un metro sottoterra, non ti libererò mai più della mia presenza.
- La curiosità a quanto vedo, da quel velato desiderio che era, si è trasformata in diritto. Ciò nonostante non
acconsento ad avere un'intrusa al mio fianco.
- Se la tua mente non fecondasse merdai, volentieri me ne andrei nel mio budello di terra. Ma, sapendo chi
sei, non posso lasciare l'albero da solo.
- Non ho voglia di inacidire il latte ai cuccioli. Vattene da dove sei venuta e risparmiati prediche e giudizi,
tanto sai quanto poco ti ascolto.
- E invece mi ascolterà anche lui, distrutto dalla tua insana voglia di possederlo. Veloce si avvicinò al tronco,
lo scalò e si fermò sul primo ramo.
- Scendi dal pulpito e scompari nell'oscurità da cui sei venuta - disse la volpe visibilmente seccata - Più del
tempo che mi hai tolto cosa vuoi?
- Finalmente stanotte mi libero - grignò quella con gli occhi cattivi - Ho il ventre gonfio. Ogni volta che ti ho
veduta, una piccola goccia di veleno s'è intrufolata nelle mie budella e le ha bucate.
Per la tua lingua di vipera ho patito.
Per i tuoi occhi di pietra ho gemuto.
Per i tuoi figli appena nati, sette volte sono caduta dentro il fuoco e per sette volte ho urlato al Dio più vicino
di annientarti.
- Evidentemente il tuo Dio gironzola al di là della morte, se io ancora resto.
- Non cantare vittoria, piccola sgualdrina dal pelo di ruggine. Ci sarà un dio che ti spezzerà la schiena e con i
peli adornerà le foglie ispide dei rovi. Troppe sono le bestemmie che hai detto e più grande di un monte è
ormai lo scandalo che hai dato.
La guardò negli occhi la volpe e serenamente rispose:
- Tu che sei niente e con tracotanza usurpi il trono dell'eterno, non spezzare ciò che unisce, non disprezzare
ciò che è stato dato, non tagliare il filo sottilissimo che unisce il sasso alla cometa: la speranza. Sono sicura
che anche il tuo Dio nel giudicarmi si mostrerebbe più clemente.
- Io sono il mondo.
Il mondo ti ha visto nascere ed ho sostenuto il peso dei tuoi primi passi. Sono l'ultima dei mille offesi.
La più flebile delle tante voci che vorrebbero accopparti.
- Per mia fortuna il tuo corpo è sei volte più piccolo della mia coda e la tua bocca non è grande come la tua
rabbia, altrimenti non avresti perso tempo a distruggermi con le parole. Mi avresti ingoiata in un solo
boccone e poi saresti andata a bere il sangue dei miei cuccioli.
- Non solo questo avrei fatto!
Ai rami di quest'albero avrei appeso le vostre code, perché in qualsiasi momento di dubbio si abbia la
certezza della vostra fine.
- Se sei stanca di parlare, riposati.
Ho tante cose da dire all'albero, su cui hai cercato protezione, pensando che ti sarei saltata addosso. I tuoi
pettegolezzi sono di così antico stampo, che più che morderti mi viene voglia di accarezzarti. Non hai detto
se non quello che è già stato detto. Anche nei modi sei stata scialba.
Perciò non ingrossare inutilmente le vene nell'urlare; altro non sei che la punta più lontana di un grido,
consumatosi nel tempo.
- Non sarà la tua calcolata dolcezza a fermarmi. Ho solo iniziato.
Tutto deve sapere di te quest'albero, sprofondato nel silenzio.
- E tu credi che sapendo mi odierà di più?
Io ti dico che se oggi mi ha abbandonato è perché di me sa troppo poco.
- Allora informiamolo.
Scendiamo nei particolari della vita di questa femmina che ha orinato sulle tombe ed ha regalato le ossa di
sua madre ai cuccioli, perché imparassero l'arte della guerra.
- I miei cuccioli non hanno ancora denti e la cosa più dura che hanno messo in bocca è il capezzolo dei miei
seni.
- Sei stata il pianto di tua madre: il veleno che lentamente l'ha distrutta.
Sei stata sempre una ribelle, fin da quando posasti gli occhi sul mondo e lo trovasti malato, perché erano gli
occhi tuoi.
- I miei occhi ancora non sono stanchi della magnificenza del creato. Non c'è battito d'ali che non li rapisca,
né grappolo di glicine che non li intenerisca, né lucciola che non li metta in agitazione.
- Né ossa che non ti faccia languire.
Che ne hai fatto dello scheletro di tua madre, immonda profanatrice che scoperchi le fosse e dormi sulla
cenere dei secoli?
- Io già non ero con mia madre quando i cani le squarciarono il ventre e la lasciarono stanca di urlare tra le
spine. Pascolavo al di là della montagna.
Fu un airone a dirmi che presso la fonte delle zucche verdi il corpo di mia madre diventava aria, acqua e
terra. Come un albero si spogliava della carne e si disidratavano al sole i bianchi rami.
Cantai le nenie degli antichi quella notte e il pianto innacquò le stelle.
- Un pipistrello ci disse delle oscenità da te cantate e della danza accennata dal tuo corpo.
-E vero.
Gli occhi e i fianchi si mossero nel vento e il vento seppe di quei piccoli movimenti fame una preghiera:
All'eterne radici della vita offrii il sangue di mia madre e i peli strappati dai rovi nella corsa e le unghie e le
pupille. Tutto fu donato al tempo che scompone gli alberi e le rocce, i corpi e i respiri, i fiori e le galassie per
scinderli secondo piani stabiliti.
L'Eterno, nell'accoglierli, li accarezza e li congiunge. Chi è ora mia madre, tu sai dirmelo?
Dov'è ora mia madre, tu sai dirmelo?
Io sogno che sia in ogni cosa. In ogni stelo d'erba l'accarezzo, in ogni sguardo di cucciolo la guardo, in ogni
goccia di pioggia la bevo.
- Hanno visto tuo figlio salire la collina col teschio di tua madre nella bocca. Hanno visto tuo figlio
rincorrere il teschio per la collina, riafferrarlo e ricominciare il macabro gioco con l'essenza della tua
presenza.
- Che dici se vedi uno scarabeo trasportare un secco stelo d'erba?
-Che dici se vedi un cucciolo di cane spolpare i resti di quello che fu profumato ramo di pesco?
Che dici ancora se vedi i ragni d'acqua inseguire affascinati l'ala di una farfalla, approdata nello stagno?
Trovi normale tutto questo e non dici niente.
Allora perché ti scandalizzi se i miei figli si sono appropriati del cranio di mia madre e giocando distruggono
l'immagine della morte, che da nemica si fa compagna dello stesso gioco.
Scalò la talpa di un altro ramo l'albero e, prendendo forza dalla distanza, spalancò la bocca alla lava di parole
che dalle viscere avanzava.
- Amico albero, che sei piombato nell'oscurità dei secoli per sfuggire alla parola e al gesto, unici mezzi per
contattare il mondo, ritorna tra di noi per un'ora e saziati delle parole che ora ti dirò.
Quando questa femmina venne al mondo, sua madre gioì e affidò ai vecchi il compito di trovarle un nome.
«Sandasa» la chiamarono, «la perfetta».
La tribù fu felice di avere un altro membro.
E «Sandasa» la chiamava sua madre e con l'utero ancora rosso nelle notti cacciava, per darle latte più del
necessario.
«Sandasa» la chiamavano gli altri cuccioli che come lei imparavano a fiutare i sentieri e a riconoscere l'odore
dell'impronta umana. Ma questa, non appena fu grande abbandonò sua madre, abbandonò la tribù e andò in
luoghi nuovi, lasciandosi chiamare «Sianda la povera».
Non cacciò mai, mai scavò la tana, né si adoperò a fare qualche cosa. Acqua al ruscello chiedeva per bere e
uva alla vigna per mangiare e, se quelli rifiutavano, senza dire niente e senza niente prendere, andava.
Femmina inutile, figlia degenere, sotterrò la dignità della sua razza in un viscido atteggiamento da
elemosinante. Forse che il dio che sta al di sopra delle nostre teste le diede gli appunti e i denti solo per
parlare, o i forti muscoli per elemosinare e le zampe per indietreggiare?
E’ guerra, si sa, la vita sulla terra; è sacro lo spazio e il suo confine; è forza e coraggio il cibo quotidiano; è
esplosione di sensi, di lotta, di sangue e sudore l'odorosa stagione dell'amore. Lei ha ridotto la vita a
misericordia e il corpo a flosci gesti.
Il suo amore non ha occhi, né bocca e neanche il profilo di una immagine.
- Non potresti essere più concisa - disse la volpe - La luna di sta facendo bianca e fra poco il sole salirà.
Rimanda ad un'altra notte il tuo racconto. Lasciami sola con lui, prima che i cuccioli, stanchi di giocare,
richiedano la mia presenza. "Tu, se è vero che gli sei amica, ritorna nella tua tana e parlagli dalle radici. A
me lascia la sua immagine.
- No, non cederò al tuo desiderio! Finora non hai detto che facezie.
O forse hai paura che racconti tutto?
- Parla pure. Di’ ciò che vuoi, ma non aspettarti che io ti ascolti ancora. Staccò gli occhi dalla talpa la volpe e
li posò su rami.
- A te, disse con la mente, regalo queste poche briciole di notte che rimangono. Sui rami c'è la talpa che ti
parla ...
Nel mio corpo c'è il mio cuore che ti parla.
Tu punta pure le orecchie verso chi ti dà maggiore piacere.