anno 2. numero 3 - Post

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anno 2. numero 3 - Post
MULTICULTURALISMO
RIVISTA ANNUALE
Direttori: Roberto FINELLI e Francesco FISTETTI
Comitato direttivo:
Francesco FISTETTI (direttore responsabile)
Roberto FINELLI (co-direttore)
Francesca R. RECCHIA LUCIANI (direttore editoriale)
COMITATO SCIENTIFICO:
Vanna GESSA KUROTSCHKA
Fabrizio LOMONACO
Romano MADERA
Mario MANFREDI
Edoardo MASSIMILLA
Fabio MINAZZI
Salvatore NATOLI
Mario PERNIOLA
Stefano PETRUCCIANI
Furio SEMERARI
Marcello STRAZZERI
Andrea TAGLIAPIETRA
Bruno ACCARINO
Bethania ASSY
Pietro BERALDI
Giuseppe CACCIATORE
Domenico CHIANESE
Pietro COSTA
Antonio DE SIMONE
Domenico DI IASIO
Piero DI GIOVANNI
Francesco DONADIO
Maria Rosaria EGIDI
Domenico M. FAZIO
Simona FORTI
SEGRETERIA DI REDAZIONE:
Sergio Alloggio, Arcangelo Di Canio, Rosaria De Bartolo
Indirizzo:
Francesca R. Recchia Luciani
Dipartimento di Scienze filosofiche
Università degli Studi di Bari
Palazzo Ateneo – Piazza Umberto I - 70100 BARI
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INDICE
Introduzione di Francesco Fistetti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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MARCEL MAUSS
La Nazione e lʼInternazionalismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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FRANCESCO FISTETTI
Dal tempo delle nazioni alla civiltà planetaria dellʼinter-nazione.
La lezione di Mauss . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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JOSEPH RAZ
Multiculturalism: a Liberal Perspective . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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WILL KYMLICKA
Liberal Theories of Multiculturalism . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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SEYLA BENHABIB
The Struggle over Culture: Equality and Diversity
in the European Public Sphere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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SUSAN MOLLER OKIN
Multiculturalismo e femminismo. Il multiculturalismo danneggia
le donne? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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MARIA CHIARA PIEVATOLO
Nota della traduttrice del saggio di Susan Moller Okin . . . . . . . .
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GIUSEPPE CACCIATORE
Immaginazione, identità e interculturalità . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
119
4
Indice
VANNA GESSA KUROTSCHKA
La capacità di immaginare la vita e i vincoli
del suo buon esercizio. Il corpo, la mente, le culture . . . . . . . . . .
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MARIA LAURA LANZILLO
Strategie multiculturali. Aporie e contraddizioni di unʼideologia
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BARBARA HENRY
Conflitti identitari e laicità. Una premessa al dibattito
sul multiculturalismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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INTRODUZIONE
Se abbiamo scelto di dedicare il terzo numero di «Post-filosofie»
alla problematica del multiculturalismo, non è solo perché è facilmente intuibile la sua contiguità o, meglio, intersezione con il tema
del riconoscimento, che è stato al centro dei fascicoli precedenti. Ci
sono anche ragioni molto più pressanti derivanti dal fatto che si tratta
di una parola-chiave del lessico politico contemporaneo che racchiude, per così dire, enciclopedie filosofiche differenti e talvolta incommensurabili, dal momento che nel linguaggio quotidiano evoca significati dissimili e rinvia ad universi simbolici opposti. Il termine “multiculturalismo”, infatti, non è un designatore rigido, ma piuttosto,
come direbbe Wittgenstein, una famiglia di concetti che hanno sì tra
loro numerosi tratti di rassomiglianza, ma incorporano esperienze
storico-culturali e forme di vita molto differenziate. Tuttavia, accade
di imbattersi in Italia, soprattutto nella pubblicistica corrente, in un
uso del termine gravato di una dimensione assiologica monistica: o
immediatamente positiva o intrinsecamente negativa. Diversamente
da altri paesi europei come lʼInghilterra, la Francia e la Germania, il
nostro paese solo in anni relativamente recenti ha conosciuto il fenomeno dellʼimmigrazione, in un primo tempo dallʼAlbania e dalle regioni balcaniche e poi soprattutto dal nord-Africa. Pertanto, solo nellʼultimo decennio si può dire che anche lʼItalia si è avviata a diventare una “società multiculturale” per la presenza di diversi gruppi di
immigrati, per lo più di religione musulmana. Ma paradossalmente
questo tendenziale cambiamento della composizione demografica
della società italiana non ha significato un approfondimento critico
della problematica del multiculturalismo, ma per lo più una sua uti-
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Introduzione
lizzazione in chiave banalmente ideologica o strumentalmente politica, e a volte addirittura in senso apotropaico come se non si trattasse
di una sfida da affrontare, ma tout court di una minaccia alla razionalità occidentale da scongiurare. Il risultato è stato che, salvo pochissime e lodevoli eccezioni (in particolare, gli studi di A. E. Galeotti,
L. Lanzillo, B. Henry, E. Vitale, A. Mezzadra, A. Dal Lago, C. Galli
e qualche altro), la vasta letteratura sullʼargomento sviluppatasi allʼestero è tuttora pressoché ignorata nel nostro paese. Per rendersene
conto, basti pensare al dibattito sullʼargomento che ha avuto luogo
tra Seyla Benhabib da un lato e Jeremy Waldron, Bonnie Honig e
Will Kymlicka dallʼaltro (i cui interventi sono stati raccolti nel volume Another Cosmopolitanism, ed. and intr. by R. Post, Oxford University Press, New York 2006). Ripercorrere questo dibattito è utile
per cominciare a costruire una mappa teorica del multiculturalismo,
una cartografia delle diverse posizioni in campo, una tassonomia sia
pure approssimativa degli approcci epistemologici diversi e spesso in
conflitto. La Honig, ad esempio, si rifà alla dialettica negativa di
Adorno, allʼetica dellʼospitalità incondizionata di Lévinas e Derrida e
alla critica della governamentalità di M. Foucault. Lʼesito di questa
impostazione, che ritroviamo nella corrente dei cosiddetti studi culturali e postcoloniali (S. Hall, P. Gilroy, H. K. Bhabba, P. Chatterjee,
ecc.), è una versione della critica dellʼideologia che, come osserva
Benhabib, “rifiuta lʼinterazione tra le sfere pubbliche ufficiali della
legge e dellʼamministrazione da un lato, e la sfera pubblica non ufficiale delle azioni dei cittadini e dei movimenti sociali dallʼaltro, che
informano le iterazioni democratiche e la politica giusgenerativa” (p.
163). Il rischio di questo approccio al multiculturalismo è, dunque,
sul piano pratico-politico un atteggiamento anti-istituzionale del tutto
sterile e sul piano teorico un deficit di analisi delle trasformazioni
dello Stato nazionale, della sua sovranità nei rapporti con formazioni
sopranazionali come lʼUnione Europea, delle relazioni che possono
essere articolate tra cittadinanza nazionale e cittadinanza cosmopolitica, della dialettica tra “ethnos” e “demos” nel loro intreccio con le
dinamiche di classe e con le rivendicazioni del diritto alla cultura da
parte dei gruppi di immigrati. Di qui lʼimportanza degli interrogativi
di Kymlicka su che cosa è da intendere per concezione multiculturale della nazionalità liberale, se è possibile dissociare i diritti dalla
cittadinanza, su come costruire un legame stabile tra cittadinanza e
nazionalità e così via. Kymlicka è convinto che le società occidentali
si muovono verso una concezione più multiculturale della cittadinanza e che il diritto di voto locale agli immigrati va inteso come un
Introduzione
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diritto di “protocittadinanza”, cioè come “una forma di socializzazione politica nel sistema politico nazionale, che consente agli immigrati di sviluppare vincoli di fiducia e di lealtà verso le istituzioni nazionali, e di qui come un passo verso la piena cittadinanza nazionale”
(p. 139). Senza dubbio, la prospettiva dellʼintegrazione multiculturale di Kymlicka appare troppo armonicistica e poca attenta non solo
alla porosità delle culture, ma anche alle diseguaglianze economiche
e sociali. Ma se vogliamo sciogliere quello che Gerd Baumann chiama lʼ“enigma multiculturale”, è su questo terreno concreto che dʼora
in avanti la riflessione filosofica e il lavoro delle scienze sociali dovrà
sempre più impegnarsi, come si evince anche dal recente dibattito
che su questi stessi temi si va da tempo sviluppando in Francia. Sullʼultimo numero della rivista «Mouvements» (jan./feb. 2007) intellettuali come E. Balibar, A. Caillé, M. Chemillier-Gendreau e P. Magnette si interrogano su alcune questioni-chiave: come superare la
“distorsione” di una cittadinanza vincolata alla nazionalità, su quale
identità lʼEuropa dovrà costruire – se unʼEuropa-potenza in senso
“schmittiano” (in cui prevarrebbe unʼidea di politica edificata sul rapporto amico/nemico) o in senso “habermasiano” (una potenza giuridico-normativa che guarda ad un sistema nel quale una comunità politica più larga si combina con comunità politiche più ristrette). In
questo numero, che da oggi inizia ad ospitare saggi ed articoli in lingua originale per rendere la rivista più accessibile ad un pubblico
cosmopolitico, offriamo alcuni materiali sul multiculturalismo che riteniamo introducano nel dibattito italiano punti di vista ancora non
adeguatamente considerati come quelli di S. Benhabib, J. Raz, W.
Kymlicka e, infine, S. M. Okin, che tratta un tema decisivo come
quello del rapporto tra multiculturalismo e autodeterminazione delle
donne.
Francesco Fistetti
MARCEL MAUSS
LA NAZIONE E LʼINTERNAZIONALISMO*
Alla questione astratta delle nazionalità proponiamo di sostituire
la questione del tutto concreta delle nazioni, del loro posto nella storia umana, del loro attuale ruolo morale, dei loro rapporti, e dei princìpi opposti del cosmopolitismo. Così avremo modo di parlare di
realtà, poiché le nazioni sono delle entità considerevoli e recenti, che
sono ben lungi dallʼaver portato a termine la propria evoluzione. Il
nostro metodo, cosiddetto sociologico, in tal modo risulterà rigorosamente pragmatico.
1. Le nazioni
Chiederemo anzitutto che ci vengano concesse due definizioni:
quella di nazione e quella di società. La società è un gruppo di uomini che vivono insieme su un determinato territorio, indipendente, e
che segue una determinata costituzione.
Tuttavia, non tutte le società sono delle nazioni. Attualmente, nellʼumanità, vi sono tutti i tipi di società, dalle più primitive, come le
australiane, alle più evolute, come le nostre democrazie occidentali.
Vale la pena di utilizzare la distinzione classica di Durkheim tra società «polisegmentarie» a base clanica, le società tribali, da un lato, e
dallʼaltro le società «non segmentarie» o integrate. Tra queste ultime,
* Comunicazione in francese al Convegno Internazionale di Filosofia di Oxford del 1920, intitolata “The Problem of Nationality”, in Proceedings of the Aristotelian Society, 20, Londres
1920, pp. 242-51. Il testo è stato ripubblicato in M. Mauss, Oeuvres, vol. III, Les Éditions de
Minuit, Paris 1969, pp. 626-34.
Traduzione di Francesco Fistetti.
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Marcel Mauss
sotto il nome di nazione, sono state confuse (Durkheim e noi stessi
abbiamo commesso questʼerrore) due specie di società che vanno,
invece, distinte. Nelle prime, il potere centrale è estrinseco, sovrapposto, spesso con la violenza quando è monarchico, oppure è instabile e temporaneo quando è democratico. Quelle a loro volta meritano
il nome di Stati o di Imperi, ecc. Nelle seconde, il potere centrale è
stabile e permanente; cʼè un sistema di legislazione e di amministrazione; la concezione dei diritti e dei doveri del cittadino e quella dei
diritti e dei doveri della patria si contrappongono e si completano a
vicenda. Chiediamo di riservare il nome di nazioni a queste società.
Aristotele distingueva nettamente da un lato i popoli, ethné, e dallʼaltro le città, poleis, dal grado di coscienza che avevano di se stessi1.
Se si accetta questa definizione, il numero delle nazioni diviene
singolarmente ristretto. Esse appaiono, soprattutto le grandi, come
bei fiori, ma ancora rari e fragili, della civiltà e del progresso umano.
Le prime furono piccole, le città greche; la prima grande fu Roma; da
allora, conto solo sette o otto grandi nazioni e una dozzina di piccole
in tutta la storia.
Per offrire un quadro esaustivo delle nazioni occorrerebbe anche
farne una classificazione. Infatti, esse sono diseguali quanto a grandezza, forza, ricchezza, civiltà, età, maturità politica. In realtà, occorre
avvertire la grandezza e la dignità di quelle opere degli uomini e dei
tempi che sono le grandi e vecchie nazioni. Queste furono anche le
più forti: hanno vinto la guerra o cʼè mancato poco che non la vincessero. Dʼaltronde, questa diseguaglianza viene riconosciuta dalla pratica, di ciò che un tempo si chiamava il Concerto europeo, oggi di ciò
che è il Consiglio di amministrazione della Società delle Nazioni.
Questa è la descrizione che si può fare dello stato sociologico a
cui è giunta lʼumanità. Le nazioni sono le ultime e più perfette forme
di vita in società. Economicamente, giuridicamente, moralmente e
politicamente sono le società più elevate, e meglio di tutte le altre
forme precedenti assicurano il diritto, la vita e la felicità degli individui che le compongono. Inoltre, poiché sono tra loro diseguali e molto diverse lʼuna dallʼaltra, bisogna capire che la loro evoluzione è
ancora ben lungi dallʼessersi esaurita.
Da queste semplici considerazioni empiriche possiamo ricavare
una prima serie di conclusioni pratiche.
Innanzitutto quelle di diritto pubblico internazionale. Ciò che in
primo luogo bisognerebbe fare è aiutare le società che non sono an1
Aristotele, Politica, 1276, 28 a, passim.
Marcel Mauss
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cora delle nazioni a diventarlo. Ora, queste società sono di due tipi:
le une sono state un tempo delle nazioni o sono sul punto di diventarlo. Per la maggior parte di esse, la guerra e il Trattato di pace hanno
realizzato la loro indipendenza, e il problema delle nazionalità ha
perduto in Europa una parte della sua drammaticità grazie alla scomparsa delle tirannie tedesca, austriaca, ungherese e turca: si trattò di
un gran bene che scaturì da un gran male. Vi sono, poi, altre società
che non sono mai state nazioni ed alcune sono lontanissime da questo
stadio. È a queste ultime che le nazioni devono prestare il loro aiuto.
Ma si fa strada una nuova concezione giuridica: la teoria dei mandati, delle tutele destinate a guidare le società arretrate verso la libertà
e la civiltà. Esiste una grande differenza tra queste dottrine e le antiche pratiche dellʼannessione, della colonizzazione violenta, della
Raubwirtschaft, come dicono i tedeschi. Purtroppo, la politica delle
zone dʼinfluenza viene ancora praticata nel Medio Oriente dalle grandi potenze e dalla Grecia.
Dal punto di vista del diritto pubblico e privato, ci sarebbero da
fare alcune constatazioni e ricavarne qualche regola.
Non solo le nazioni sono tra loro diseguali, ma nessuna nazione
moderna ha raggiunto un livello di perfezionamento tale da poter dire che la sua vita pubblica non può più progredire in una forma nuova e superiore. Le nazioni più elevate, quelle che si sono comportate
meglio durante la guerra, la Gran Bretagna, la Francia, la Germania
(mi riferisco a quelle che hanno sviluppato di più e meglio le loro
forze nazionali), non sono ancora nazioni perfette né, nella stessa misura, perfezionate sotto tutti gli aspetti. Hanno ancora molta strada da
fare prima di giungere ad un equilibrio felice tra centralizzazione e
decentramento paragonabile a quello al quale sono pervenute alcune
piccole nazioni che si potrebbero prendere a modello, come la Svizzera o la Norvegia.
Infine, negli ultimi tempi, soprattutto in Inghilterra, si è affermata
lʼidea della nazionalizzazione, cioè di una forma di amministrazione,
da parte della nazione, delle cose economiche che appartengono alla
nazione. È questa la forma più recente di socialismo, che probabilmente ha un promettente avvenire. Infatti, essa non viene dedotta da
un ideale o da una critica dialettica della società borghese, bensì da
unʼosservazione dei fatti e dallʼidea che lʼamministrazione migliore
delle cose è quella degli interessati. Ora, la nazionalizzazione presuppone lʼabbandono della nozione di Stato sovrano, che, in quanto irresponsabile, sarebbe evidentemente un cattivo amministratore dei beni
economici. Al contrario, essa sottintende il concetto che la nazione è
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Marcel Mauss
un gruppo naturale di utenti, di interessati, una vasta cooperativa di
consumatori, che affida i propri interessi ad amministratori responsabili, e non a corpi politici reclutati, per lo più, su questioni di opinione, e, in fin dei conti, incompetenti.
Tutta la vita economica delle nazioni, dunque, tende a delinearsi
faticosamente. Ma il fatto è che tutti i processi della vita nazionale
sono lontani dallʼaver raggiunto ovunque i loro ultimi sviluppi, anche
in nazioni molto vecchie e molto grandi. Il senso del sociale e del
nazionale ha cominciato appena ora a svegliarsi.
Il principio delle nazionalità o, per meglio dire, la vita delle nazioni, dunque, hanno ancora una lunga carriera da percorrere in materia
di diritto internazionale, di diritto pubblico e privato. Le nazioni hanno davanti a sé un lontano e grande ideale: economico, estetico e
soprattutto morale. Prima che lʼinternazionale, bisogna tradurre nei
fatti la Città ideale, e da qui ad allora le nazioni non smetteranno di
essere fonti e fini del diritto, origine delle leggi e scopi ultimi dei più
numerosi ed eroici sacrifici.
2. Lʼinternazionalismo
Tuttavia, vi sono idee e sentimenti comuni, diffusi in masse considerevoli, che sono in antitesi con questa vita nazionale. Si è soliti
definire queste idee con il nome di internazionalismo. Ma il linguaggio corrente è viziato, perché confonde due tipi ben distinti di atteggiamenti morali.
Proponiamo di riservare il nome di cosmopolitismo al primo di
essi. È una corrente di idee e anche di fatti che mirano realmente alla
distruzione delle nazioni, alla creazione di una morale in cui queste
ultime non sarebbero più le autorità sovrane, creatrici della legge, né
i fini supremi degni di sacrifici, dʼora in poi consacrati ad una miglior
causa: quella dellʼumanità. Non bisogna sottovalutare questo movimento.
A voler essere precisi, però, non bisogna tuttavia attribuirgli unʼeccessiva importanza. La dinamica che ha è quella di una setta, rafforzata dallʼesistenza di uno Stato comunista in Russia, ed è destinata ad
esaurirsi insieme con le sue cause. Dʼaltra parte, le stesse classi operaie sono sempre più affezionate alle loro nazioni. In materia di lavoro e di industria, sono sempre più consapevoli degli interessi economici nazionali; spesso sono protezioniste, come in Australia e in
Nuova Zelanda.
Rispetto a tutte le utopie queste idee non hanno né maggiori né
minori probabilità di diventare delle idee-forza. Infatti, non sono che
Marcel Mauss
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unʼutopia. Non corrispondono a nessuna realtà del tempo presente;
non appartengono ad alcun gruppo naturale di uomini; non sono
espressione di un interesse determinato. Non sono, perciò, che lʼultimo esito dellʼindividualismo puro, religioso e cristiano, o metafisico.
Questa politica dellʼ«uomo cittadino del mondo» è la conseguenza di
una teoria eterea dellʼuomo-monade dappertutto identico, agente di
una morale che trascende le realtà della vita sociale, vale a dire di
una morale che non concepisce altra patria allʼinfuori dellʼumanità,
altre leggi se non quelle naturali2. Tutte idee che, sebbene tendenzialmente vere, non costituiscono dei motivi per lʼazione né per lʼimmensa maggioranza degli uomini, né per nessuna società esistente.
La seconda corrente di idee ha tuttʼaltra forza, tuttʼaltra razionalità
e tuttʼaltra realtà. Dʼaltronde, cominciano a chiarirsi gli elementi avventizi che le provengono dalla vicinanza con il cosmopolitismo e
con le utopie dalle quali ha tratto origine. Proponiamo di mantenere
per essa la denominazione di internazionalismo.
Lʼinternazionalismo degno di questo nome è lʼopposto del cosmopolitismo. Non nega la nazione. La situa. Inter-nazione è il contrario
di a-nazione. Di conseguenza, è anche il contrario del nazionalismo,
che isola la nazione. Se mi si lascia passare questa definizione, lʼinternazionalismo è lʼinsieme delle idee, dei sentimenti e delle regole,
oltre che dei raggruppamenti collettivi, il cui scopo è di pensare e
dirigere i rapporti tra le nazioni e tra le società in generale. Qui non
siamo più nel dominio dellʼutopia, ma sul terreno dei fatti, almeno
quello delle anticipazioni dellʼimmediato futuro. In realtà, cʼè tutto
un movimento di forze sociali che mirano a regolare praticamente e
moralmente la vita di relazione tra le società.
Queste forze procedono in modo analogo a quello in cui un tempo, allʼinterno delle società su base clanica, venivano regolati progressivamente i rapporti tra questi clan: la tribù, ad esempio, eliminò
le guerre private tra di essi; o procedono in modo analogo al modo in
cui, allʼinizio delle grandi formazioni degli Stati, i poteri centrali perseguirono il compito fondamentale di limitare drasticamente la sovranità di tribù, città, province, ecc. Non cʼè dubbio che ai giorni
nostri tutta la morale e la pratica tendono a non considerare più gli
Stati come esseri assolutamente sovrani, dotati, come il “principe” di
Machiavelli, del diritto naturale di fare a chiunque qualsiasi cosa,
compreso ciò che è ingiusto e orribile, purché ciò risulti a suo vantaggio. Attualmente esiste una morale internazionale.
2
Socrate, secondo Plutarco, De Exilio, V.
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Marcel Mauss
Questa morale riesce ad esprimersi a malapena, ancora più difficilmente giunge a infliggere delle sanzioni, se non molto vaghe, e
con ulteriori difficoltà giunge ad incarnarsi in istituzioni che sole
consentiranno allʼinternazione di diventare una realtà. Ma, secondo
noi, non cʼè nessuna ragione per disperare. Al contrario, ci sono alcuni fatti importanti e nuovi che dominano attualmente lʼintera vita di
relazione delle società e che non potranno fare a meno di inscriversi
nella pratica e nel diritto.
La guerra e la pace che lʼha seguita hanno avuto, infatti, due conseguenze che sono solo apparentemente contraddittorie. Da una parte, hanno consacrato il principio dellʼindipendenza nazionale, dallʼaltra hanno messo in luce un fatto che, ormai, domina tutta la vita di
relazione delle società: quello della loro crescente interdipendenza.
Le rovine della guerra e la natura della pace hanno anche accresciuto
enormemente questa interdipendenza. Ciò che è ancora più importante, politicamente e moralmente, è che questa interdipendenza è conosciuta, sentita, voluta dai popoli stessi. Questi ultimi desiderano molto intensamente che essa venga solennemente scolpita nelle leggi, in
un vero e proprio diritto internazionale, pubblico e privato, codificato
e sanzionato. Qui i popoli sono in anticipo sui loro governanti, alcuni
dei quali, vecchi scettici, accordano troppo poco credito a coloro che
rappresentano. Ma non è possibile che un così forte movimento di
opinione pubblica non sia fondato sulla realtà e non giunga ad imporsi sul terreno del diritto. Tanto che, là dove questa opzione era robusta e illuminata, e corrispondeva ad interessi consapevoli e di gruppo,
la Società delle Nazioni comincia ad essere una realtà: ci riferiamo a
quella parte del «Covenant» (1919) riguardante la legislazione internazionale del lavoro e facciamo notare che i due punti, di cui i senatori americani, nonostante tutto, non hanno potuto disinteressarsi,
sono: lʼOrganizzazione Internazionale del Lavoro e la Corte Permanente di Arbitrato e di Giustizia.
A rigore, potremmo accontentarci di questa prova, ma preferiamo
elencare i fatti principali dellʼinterdipendenza delle società moderne
e mostrare come esse li intendono.
1) La guerra lascia le società in uno stato di assoluta interdipendenza
economica. Il mercato mondiale, soprattutto quello dellʼoro, non
ha mai dominato tanto i mercati locali. La divisione del lavoro tra
società detentrici di materie prime e società manifatturiere non è
mai stata realizzata con tanta efficacia. Dellʼapprovvigionamento
dei paesi stremati, nonché della ricostruzione dei paesi devastati si
fanno carico le organizzazioni internazionali. Lʼopinione pubblica
Marcel Mauss
2)
3)
4)
5)
3
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e i governi – cosa impensabile fino a sei anni fa – parlano di monete e di crediti internazionali. Gli scambi di merci vengono regolati da contratti stipulati tra le nazioni. Viene riconosciuto il diritto
delle nazioni povere di essere aiutate dalle nazioni ricche.
Interdipendenza morale notevolmente aumentata. I movimenti
dʼopinione dellʼumanità acquistano una risonanza che non hanno
mai avuto. LʼEuropa, e successivamente il mondo intero, si ribellarono prima contro le guerre dinastiche, poi contro certi modi di
condurre la guerra nel disprezzo totale del diritto delle genti.
Lʼopinione pubblica, anche quella delle potenze centrali, ripudia la
diplomazia machiavellica, quella dei trattati segreti, della violazione dei trattati. Tutto ciò si trova enunciato nei famosi quattordici
punti del presidente Wilson, ai quali nessuno Stato ha ancora avuto il coraggio di negare lʼadesione: a tal punto il filosofo che li
formulò ha espresso sicuramente la volontà dei popoli.
Volontà dei popoli di non fare più guerre. È stato necessario smobilitare molto rapidamente.
Volontà dei popoli di ottenere la pace, quella vera. La «Pace armata», il principio cretese della pace che è una guerra non proclamata3 ha fatto il suo tempo. I popoli vogliono che si disarmi. A
torto o a ragione. Ma è evidente che essi sono disposti a rinunciare ai loro interessi più grandi piuttosto che restare in guerra, come
in questo momento stiamo vedendo in Medio Oriente, dove la
Francia e il Regno Unito stanno rinunciando a molte delle loro
ambizioni.
Limitazione delle sovranità nazionali. È questo, a mio avviso, il
più eclatante fatto morale e politico della Pace, per quanto vacillante questa sia. Il Patto della Società delle Nazioni, anche se resta
inapplicato, ha consacrato un principio giuridico nuovo: è il carattere permanente, assoluto e incondizionato del principio di arbitrato da esso proclamato. Non contiene più quelle riserve sullʼonore
e sugli interessi vitali degli Stati contenuti nei trattati stipulati secondo i princìpi dellʼanteguerra. Cosa altrettanto nuova e importante, si prevede che la Società delle Nazioni sarà essa stessa un
organo di registrazione e di applicazione dei trattati; di fatto, essa
funziona già in questa veste. Ha organizzato e ratificato i plebisciti; si è già sostituita a molte istituzioni che venivano ritenute indispensabili; ha già stabilito numerosi precedenti come fonti del diritto. Infine, cosa non ben conosciuta, ha già cominciato a cercare
Platone, Leggi, 626 a.
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Marcel Mauss
di sanzionare il diritto scritto e non scritto di cui è lo strumento.
Queste sanzioni non sono ancora quelle della forza. Spesse volte
ha agito per una sorta di obbligo morale come quello che essa
esercita nelle regioni a plebiscito, dove, in fin dei conti, è stato il
suo intervento ad evitare il ricorso alla violenza. In questo momento, essa impedisce la violazione dei diritti delle minoranze.
Ricordiamo, inoltre, le sanzioni previste in materia di diritto operaio. Ci auguriamo, altresì, che la Commissione di Fondazione
della Corte di Giustizia, che è in funzione allʼAia, trovi le regole,
le procedure e le forze che assicurino il carattere esecutivo dei
decreti sovrani da essa stessa emessi.
Questo è, nel nostro mondo moderno, lo stato del movimento dellʼinternazionalismo, il quale non tende verso una sovranazione che
assorbirebbe le altre nazioni. Esso è un poʼ più evoluto di quello della Grecia antica, allorquando, per instaurare la pace tra le città, essa
fondava le Anfizionie; è quasi equivalente a quello in cui Socrate
avrebbe voluto vedere impegnati i greci, quando, di fronte agli orrori
della guerra del Peloponneso, si augurava che essi si considerassero
tutti elleni e che le loro guerre venissero considerate come sollevazioni e rivolte punite o sedate da tutti gli altri. Lʼumanità vuol essere
popolata di nazioni «dolci, sagge e filantrope»; vuole che la guerra
non sia nientʼaltro che una lezione di «amici prudenti che non vogliono né la schiavitù né la rovina» del peccatore.
3. Conclusione
Queste tendenze dei popoli devono trovare nei filosofi un sostegno
incondizionato. Non cʼè niente di contrario ai princìpi dellʼindipendenza nazionale, né allo sviluppo dei caratteri nazionali. Questo è
provato in linea di fatto e di ragione. La solidarietà organica, consapevole, tra le nazioni, la divisione del lavoro tra queste ultime, secondo i territori, i climi e le popolazioni, finiranno per creare attorno ad
esse unʼatmosfera di pace, in cui potranno dare il meglio di sé. Così,
sulle individualità collettive avranno lʼeffetto che hanno avuto le personalità allʼinterno delle nazioni: saranno alla base della loro libertà,
della loro dignità, della loro singolarità e della loro grandezza.
E poi perché i filosofi dovrebbero disperare? Già una tappa è stata
superata. Se non esiste ancora un diritto umano, esiste però una morale umana, della quale anche i più cinici devono tener conto. Esistono già cose, gruppi e interessi umani; e dietro ciò può esserci lʼintera
massa dellʼumanità, capace di sanzioni ben più dure della semplice
disapprovazione. Lo si è già visto.
Marcel Mauss
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Infine, perché i filosofi non dovrebbero assumere una posizione
dʼavanguardia in questo cammino? Dʼaltronde, lʼhanno assunta quando si è trattato di fondare la dottrina delle democrazie e quella delle
nazionalità. Inglesi e francesi furono in anticipo sul loro tempo, e non
bisogna dimenticare né Kant, né Fichte. Perché dovrebbero scegliere
di restare nella retroguardia, al servizio degli interessi costituiti?
La loro voce non ha mai avuto più possibilità di essere ascoltata, se
è sincera e trova le formule sagge e necessarie. Proprio come al tempo
della guerra del Peloponneso o nellʼepoca delle prime dinastie cinesi,
ai tempi di Confucio e di Socrate, i popoli si rivolgono a coloro che
essi chiamano «saggi» e che i reazionari chiamano «sofisti».
FRANCESCO FISTETTI
DAL TEMPO DELLE NAZIONI
ALLA CIVILTÀ PLANETARIA
DELLʼINTER-NAZIONE.
LA LEZIONE DI MARCEL MAUSS
1. In apertura di questo numero di «Post-filosofie» dedicato al multiculturalismo pubblichiamo in traduzione italiana il testo dellʼintervento, “The Problem of Nationality”, che Marcel Mauss (1872-1950)
tenne nellʼautunno del 1920 al Convegno Internazionale di Filosofia
di Oxford. Non contenuto nel volume antologico curato da Riccardo
Di Donato1, esso offre una sintesi molto efficace della molteplicità
dei temi che Mauss affronta nel suo magnum opus, “La Nation”, rimasta purtroppo incompiuta e i cui frammenti furono editati sotto
lʼomonimo titolo da Henri Lévy-Bruhl nel 1956 nella rivista LʼAnnée
sociologique2. Sulla travagliata vicenda di questʼopera, la cui redazione iniziata nel 1919/20, immediatamente dopo la fine della Grande Guerra, proseguì fino alla metà degli anni Trenta, sappiamo ormai
quasi tutto grazie alle ricerche di Marcel Fournier3.
Negli anni convulsi del dopoguerra, in cui lo sconcerto intellettuale e morale in tutti i paesi dellʼEuropa occidentale in bilico tra restaurazione e rivoluzione è allʼapice, Mauss si propone di studiare i “fenomeni morfologici” che contraddistinguono le società contemporanee, e in particolare i due grandi movimenti che le scuotono fin dalle
più intime fibre come il nazionalismo e il socialismo. Per Mauss tra
la problematica della nazione e quella del socialismo – soprattutto la
1 M. Mauss, I fondamenti di unʼantropologia storica, trad. it. e Introduzione di R. Di Donato,
Einaudi, Torino 1998.
2 Di H. Lévy-Bruhl si veda lʼAvertissement a M. Mauss, “La nation”, in Id., Oeuvres, t. 3,
Editions de Minuit, Paris 1969.
3 M. Fournier, Marcel Mauss, Fayard, Paris 1994, e M. Mauss, Écrits politiques, testi raccolti
e presentati da M. Fournier, Fayard, Paris 1997.
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prassi politica concreta di un socialismo alieno dai dottrinarismi e
dalle ortodossie teoriche come quello delle Trade-Unions, del Labour
Party, dei Fabiani, dei socialisti della Gilda in Inghilterra4 – cʼè un
rapporto organico dal punto di vista storico. Non a caso il testo scoperto da Fournier intitolato “Le phenomènes morphologiques” – che
può essere considerato la continuazione di quello su “La Nation” –
avrebbe potuto, secondo Mauss, intitolarsi anche “La Nation et le
sens du social. Le socialisme”5. Segno che il socialismo o, meglio, le
nuove forme del socialismo vanno considerate come elemento costitutivo della definizione storica ed epistemologica di nazione.
Anzitutto, la domanda «che cosa è la nazione?» è imposta drammaticamente dagli eventi, poiché la Grande Guerra, con la dissoluzione dellʼimpero austro-ungarico, è stata in primo luogo una «guerra
delle nazionalità»6, dove questʼultimo termine è sinonimo non di
«nazioni libere e democratiche»7, le quali hanno alle spalle una lunga
storia di formazione e di maturazione politica, morale e civile, ma
per lo più di minoranze oppresse da regimi dispotici, come quello
turco, e che scelgono perciò la strada del nazionalismo. E il nazionalismo, fonte di «malanni» per le coscienze nazionali, è «solo lʼespressione di due reazioni, una contro lo straniero, e lʼaltra contro il sedicente progresso, che mina la tradizione nazionale»8. Pertanto, compito «urgente»9 della teoria politica è di evacuare lʼ«ascesso» del nazionalismo e di recuperare il significato autentico di nazione. La posta
in gioco di buona parte del lavoro di Mauss di questi anni è di ripensare lʼidea di nazione – il «loro posto nella storia umana», il «loro
attuale ruolo morale», e i loro «rapporti» reciproci – in un orizzonte
carico di risentimenti, ma anche di speranze in una nuova era di prosperità e di pace nelle relazioni internazionali che i 14 punti di Wilson fanno intravvedere ai popoli stremati dal conflitto.
Al culmine di questa parabola, quando vedrà lʼEuropa stretta nella
morsa del fascismo e del bolscevismo, Mauss parlerà di un «ritorno
al primitivo» come di una fase regressiva di dissoluzione delle nazioni, nel senso che lʼidolatria dello Stato ha condotto non solo alla giustificazione dei «peggiori crimini», ma anche alla disgregazione e
4 Basti vedere, in proposito, M. Mauss, “Le idee socialiste. Il principio della nazionalizzazione”, in Id., I fondamenti di unʼantropologia storica, cit., pp. 97-112.
5 M. Fournier, Présentation: la nation. “Les phénomènes morphologiques” de Marcel Mauss,
in «Socio-Anthropologie», n. 4, 2003.
6 M. Mauss, “La nazione”, in Id., I fondamenti di unʼantropologia storica, cit., p. 8.
7 Ibid.
8 Ivi, p. 9.
9 Ibid.
Francesco Fistetti
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talvolta alla «scomparsa» delle nazioni10. Intanto, di fronte alle macerie della guerra, di fronte alla rivoluzione bolscevica che ha vinto
in Russia attraversando lʼinferno della guerra civile e del comunismo
di guerra e instaurando un socialismo di Stato autoritario; di fronte
alle istanze di un nuovo ordine sociale, morale e politico provenienti
dalle masse popolari dei paesi usciti dalla guerra, Mauss avverte potente il bisogno di una svolta di civiltà. Da questʼesigenza ad un tempo scientifica, politica e morale prende le mosse la sua riflessione
sullʼidea di nazione, sulla questione «della guerra e della pace tra le
nazioni», sul progetto di una pace tra le nazioni che non sia lʼingannevole pace «armata» di cui parla Platone nelle Leggi, e sulle possibilità di realizzare una concreta solidarietà internazionale11. A suo
avviso, una svolta di civiltà può venire congiuntamente da un recupero di una concezione autentica di nazione e dal rafforzamento delle
tendenze verso lʼinterdipendenza della vita di relazione tra le nazioni
(di ordine economico, morale, culturale, ecc.) che la fine della Grande Guerra ha evidenziato. Mauss elenca puntigliosamente i «fatti»
salienti che documentano quella che noi oggi con un termine-concetto abusato chiameremmo globalizzazione e che egli chiama «interdipendenza delle società moderne». Ma perché nessuno pensi che questi processi spontanei di mondializzazione economica, culturale, sociale, ecc., che sono sotto gli occhi di tutti, debbano essere lasciati a
se stessi, Mauss segnala subito la necessità di costruire macroistituzioni politiche, capaci di governare «i rapporti tra le nazioni e tra le
società in generale». Ecco perché allʼutopia del cosmopolitismo, che
sogna di un astratto «cittadino del mondo», contrappone la visione
dellʼinternazionalismo, che si appoggia su quelle forze sociali che
allʼinterno delle società nazionali mirano a realizzare istituzioni inedite, tali da non cancellare le nazioni, ma in grado di risituarle nello
spazio dellʼinternazione, limitando così la sovranità degli Stati nazionali, i quali finora si sono considerati titolari «del diritto naturale di
10 Lettera di Mauss a «Monsieur le President», datata 18 luglio 1939, in M. Fournier, Marcel
Mauss, cit., p. 690.
11 Ciò che colpisce negli scritti di Mauss degli anni Venti è lʼintreccio tra il piano dellʼanalisi
scientifica e il piano della passione politica. Il nipote e lʼallievo di Émile Durkheim, che nel 1928
pubblica il libro del fondatore della sociologia francese, Le socialisme (frutto delle lezioni tenute
allʼUniversità di Bordeaux dal novembre 1895 al maggio del 1896), nella sua Introduzione rivendica lʼapproccio «puramente scientifico» del maestro, lo difende dallʼaccusa di collettivismo e gli
attribuisce il merito di aver fatto intendere già nel 1885-86 lʼimportanza di Saint-Simon a Jean
Jaurès strappandolo al «formalismo politico» e alla «sterile filosofia dei radicali»: quel Saint-Simon, osserva Mauss, che nel dopoguerra era ritornato in auge negli ambienti del socialismo francese. Cfr. E. Durkheim, Le socialisme: sa definition – ses debuts – la doctrine saint-simonienne,
Alcan, Paris 1928, pp. 7-8.
22
Francesco Fistetti
fare qualsiasi cosa». Ora, a spingere in questa direzione cʼè in primo
luogo unʼ«assoluta interdipendenza economica», attestata dal dato di
fatto innegabile che il mercato è divenuto ormai un «mercato mondiale» e che la divisione internazionale del lavoro tra società che posseggono le materie prime e società manifatturiere si è notevolmente
accentuata. In questo contesto ben si comprende la critica inappellabile che Mauss non si stancherà di muovere al bolscevismo: nellʼURSS è stato instaurato un «assurdo» comunismo del consumo, che
ha richiesto la distruzione di «quello che costituisce lʼeconomia stessa, e cioè: il mercato»12.
Prima di Braudel, Mauss sa perfettamente che non possono esistere e «non si concepiscono società senza mercato»13. Inoltre, proprio
perché il mercato collega tutte le nazioni in un unico grande spazio
di transazioni e di scambi, è necessario che nascano organizzazioni
internazionali che si preoccupino di applicare alcuni elementari princìpi di giustizia distributiva a livello internazionale o, quanto meno,
di solidarietà internazionale, come lʼassistenza ai paesi devastati dalla guerra e il rifornimento dei beni di prima necessità. Mauss parla
esplicitamente di un «diritto delle nazioni povere di essere aiutate
dalle nazioni ricche». Così pure, la guerra ha messo in luce lʼesistenza di unʼ«interdipendenza morale» tra i movimenti di opinione dei
vari paesi, che prefigura quella che ai giorni nostri siamo soliti chiamare «società civile mondiale», la quale vigila contro le violazioni
dei «diritti delle genti», contro la «diplomazia machiavellica», le sopraffazioni e gli abusi di ogni genere commessi dalle grandi potenze.
Infine, cʼè il «fatto morale e politico» che davvero fa epoca, vale a
dire il Patto della Società delle Nazioni («Covenant»), che, per quanto molto spesso non rispettato, contiene una novità straordinaria sul
piano giuridico, vale a dire «il carattere permanente, assoluto ed incondizionato del principio di arbitrato».
2. È evidente che la fiducia nutrita da Mauss nel wilsonismo rasenti
lʼidealismo giuridico, ma è altrettanto innegabile che lʼesigenza di
intaccare lʼassolutezza del principio di sovranità degli Stati nazionali e di progettare istituzioni di governo sovranazionali – che non
12 Mauss, “Lʼapprezzamento sociologico del bolscevismo”, in Id., I fondamenti di unʼantropologia storica, cit., p. 117.
13 Ibid. Poiché «la libertà del mercato è la soluzione assolutamente necessaria della vita economica», la conclusione di Mauss, nella stessa pagina, è chiarissima: «Momentaneamente e per
quanto sia possibile prevedere, è nellʼorganizzazione e non nella soppressione del mercato che
bisogna che il socialismo – il comunismo – cerchi la sua via».
Francesco Fistetti
23
implica, beninteso, la soppressione delle nazioni – è uno stato dʼanimo allʼepoca molto diffuso, comune a numerosi intellettuali, tra i
quali il grande giurista Hans Kelsen. Si tratta per Mauss di un movimento storico quasi ineluttabile, paragonabile alle Anfizionie dellʼantica Grecia o a quella confederazione tra le città greche auspicata da Socrate di fronte agli orrori della guerra del Peloponneso al
fine di scongiurare le guerre. Senza dubbio, è una prospettiva di filosofia della storia, per molti aspetti analoga a quella di Comte e di
Durkheim, che conduce Mauss a interpretare il passaggio dallʼetà
delle nazioni a quella dellʼinternazionalismo come una transizione
che sarà avvertita come necessaria quanto più consapevole sarà la
«solidarietà organica» tra le nazioni e la «divisione del lavoro» tra di
esse. È una vera e propria legge storico-sociologica che Mauss ricava dallʼosservazione empirica e dallʼanalisi storica ed etnologica
delle società e delle civiltà europee ed extra-europee: la tendenza
alla formazione di gruppi sociali sempre più vasti che assorbono un
numero crescente di nazioni grandi e piccole, alimentata dal fatto
che le società non sono delle «individualità irriducibili, e i sinecismi
[…] sono la regola»14. Come dire: la traduzione tra culture, il métissage, la creolizzazione possono considerarsi la norma dei rapporti
tra i popoli e le civiltà.
Tuttavia, questa visione da parte di Mauss di un progresso verso
uno spazio politico e culturale da lui definito dellʼ«inter-nazione»,
per quanto inficiata da un lato da un ingenuo wilsonismo15 e dallʼaltro dallʼideologia evoluzionistica di Spencer, mantiene elementi di
grande interesse scientifico e filosofico-politico. Soprattutto perché
trasferisce sul piano della storia delle nazioni e dei loro reciproci
rapporti il processo che ha interessato la formazione delle nazioni
moderne quando si è verificato, per usare la terminologia di Durkheim, il passaggio dalle società «polisegmentarie» – a base di clan,
successivamente organizzatesi in tribù –, la cui caratteristica è quella di un «amorfismo» strutturale, alle società in cui scompaiono i
«gruppi politico-familiari» e subentrano società politiche stabili, dotate di un potere centrale permanente, come gli imperi, le quali sono
delle società relativamente «integrate» (un termine che Mauss mu-
14
M. Mauss, “La nazione”, in Id., I fondamenti di unʼantropologia storica, cit., p. 38.
Su questo punto rinvio al saggio di F. Ramel, Marcel Mauss et lʼétude des relations internationales: un héritage oublié, in «Sociologie et sociétés», 2, 2004, pp. 227-45. Lʼautore sostiene la
tesi, suggestiva ma opinabile, che Mauss ha gettato le basi metodologiche di una sociologia positiva delle relazioni internazionali, rispetto a cui lʼadesione maussiana al wilsonismo avrebbe operato come una sorta di ostacolo epistemologico.
15
24
Francesco Fistetti
tua da Spencer)16. In un primo tempo Mauss, insieme con Durkheim,
aveva proposto di attribuire il nome di nazioni a questo tipo di società relativamente integrate. Ma si avvede che è un errore concettuale, oltre che di nomenclatura, dal momento che sotto questa denominazione vengono confuse formazioni sociali «molto diverse per
livello dʼintegrazione» e, per chiarire questo punto, egli ricorre alla
distinzione, formulata da Aristotele in un passaggio della Politica,
tra ethnos e polis. Lʼ«ethnos» è un popolo, come dice Mauss, «amorfo», paragonabile ad una massa «inorganica» o ad un «agglomerato»
di popoli, ad un coacervo di «classi, caste, tribù, nazioni mescolate»17, privo di qualsiasi unità interna e soprattutto privo di «leggi
politiche» autentiche, cioè di una costituzione che regoli il comportamento dei suoi componenti. Aristotele riporta come esempio di
«ethnos» Babilonia, che ha «la configurazione di un popolo (éthnous) più che di una città (pόleωs); tanto che si dice che quando
Babilonia fu conquistata, nel terzo giorno una parte di essa non se ne
era ancora accorta»18. Al contrario, «la città (polis) è una certa comunanza (koinonia) e comunanza di cittadini che hanno una costituzione (koinonia politώn politéias)» (1276, 1 b).
Mauss, sulla base di questa distinzione analitica, differenzia tra le
società non segmentarie, a seconda della loro forma di organizzazione, quelle che, come i popoli o gli imperi, «sono a integrazione diffusa e a potere centrale estrinseco»19, che per un complesso di fattori
(persistenza dei clan o delle antiche tribù, importanza dei diritti locali, indipendenza delle province, fluidità delle frontiere, instabilità degli apparati burocratici, ecc.) non possono essere denominate nazioni.
Per nazione, invece, è da intendersi «una società materialmente e
moralmente integrata, con un potere centrale stabile, permanente, con
frontiere determinate, con relativa unità morale, mentale e culturale
degli abitanti che aderiscono consapevolmente allo Stato e alle sue
16 «Lʼorganizzazione stabile della società politica segnata dalla presenza, la forza e la costanza
di un potere centrale, è quel che Spencer chiamava integrazione e che si può continuare a chiamare così, distinguendo le società non integrate, che sono le società a base di clan; per esempio, la
Cina più antica, lʼEgitto più antico, le tribù più primitive della Grecia sono delle società relativamente integrate. E si può dire che tutti gli indoeuropei, al momento della loro entrata nella storia,
sono già società di questʼordine. Cʼera tra loro, se non ovunque la realtà, almeno la possibilità di
un potere centrale, arkhé, imperium. LʼAmerica precolombiana su certi punti, lʼAmerica centrale
e andina hanno conosciuto Stati di tale genere»(M. Mauss, “La nazione”, in Id., I fondamenti di
unʼantropologia storica, cit., p. 13). Sul tema si veda anche il saggio, “La coesione sociale nelle
società polisegmentarie” (1932), ivi, pp. 162-74.
17 M. Mauss, “La nazione”, in Id., I fondamenti di unʼantropologia storica, cit., pp. 13-15.
18 Aristotele, Politica, 1276, 28 a, ed. it. con testo greco a fronte a cura di A. Viano, Rizzoli,
Milano 2002, p. 237 (traduzione leggermente modificata).
19 M. Mauss, “La nazione”, in Id., I fondamenti di unʼantropologia storica, cit., p. 16.
Francesco Fistetti
25
leggi»20. In questa definizione vale la pena sottolineare lʼalto grado
di integrazione sociale e di inclusività che Mauss assegna al concetto
di nazione, lʼessere cioè la nazione il risultato di un lungo processo
storico che ha abolito «tutte le segmentazioni in clan, città, tribù, regni, domini feudali»21, al punto tale che nelle società moderne la dissoluzione di ogni gruppo intermedio ha creato lʼeffetto perverso,
dʼaltronde già segnalato da Durkheim, dellʼ«onnipotenza dellʼindividuo nella società e della società sullʼindividuo» riproponendo così
lʼurgenza di una coesione sociale di tipo nuovo. Qui egli fa valere la
dimensione del consenso nella costruzione della nazione moderna
(«la Nazione sono i cittadini animati da consensus»22), di cui le moderne teorie del contratto non sono che la «traduzione filosofica», e,
sulla scia della tradizione del repubblicanesimo civico, associa allʼidea di nazione il concetto di patria («la totalità dei doveri che i
cittadini hanno verso la nazione e il suo suolo»23) e quello di cittadinanza («la totalità dei diritti […] che il membro di tale nazione ha, in
correlazione con i doveri che deve soddisfare»24). E, a ben guardare,
è in questo quadro che Mauss colloca il rapporto tra la nazione e le
«forme nuove» del socialismo come la nazionalizzazione e le cooperative. Poiché la nazione è anche unʼunità economica, lʼidea di nazionalizzazione, nella versione di un certo socialismo inglese, è sinonimo di partecipazione dei cittadini in qualità di utenti e di consumatori alla gestione di determinati beni economici. Ma al concetto di nazione come comunità di cittadini Mauss associa anche quella della
specificità culturale. «Una nazione degna di tale nome – egli afferma
– ha la sua civiltà, estetica, morale e materiale, e quasi sempre la sua
lingua. Ha la sua mentalità, la sua sensibilità, la sua moralità, la sua
forma di progresso, e tutti i cittadini che la compongono partecipano
insomma allʼIdea che la guida»25. Egli è sempre più convinto che se
le società e le nazioni vivono «tuffate in un bagno di civiltà»26 e non
20
Ibid.
Ivi, p. 20. Gerd Baumann ha osservato che nella formazione dei moderni Stati nazionali la nazione è «sia postetnica, in quanto nega la salienza delle vecchie distinzioni etniche e le considera come
appartenenti ad un oscuro e remoto passato prestatuale, sia superetnica, in quanto delinea la nazione
come una specie di etnia nuova e più grande. La maggior parte degli Stati-nazione, tuttavia, non sono
riusciti a completare questo progetto, in quanto essi inclusero alcuni gruppi etnici e ne esclusero altri,
o ne privilegiarono alcuni e ne marginalizzarono altri» (G. Baumann, Lʼenigma multiculturale. Stati,
etnie, religioni, trad. it. di U. Livini, il Mulino, Bologna 2003, p. 39; il corsivo è mio).
22 M. Mauss, “La nazione”, in Id., I fondamenti di unʼantropologia storica, cit., p. 25.
23 Ivi, p. 24.
24 Ibid.
25 Ivi, p. 23.
26 Ivi, p. 41.
21
26
Francesco Fistetti
isolatamente, sicché quello delle mutuazioni, della permeabilità, degli incroci è un fatto «fisiologico», è altrettanto indubitabile che sul
fondo del sorgere di una «civiltà umana mondiale»27 e di «fenomeni
internazionali»28 sempre più massicci si stagliano le società e le nazioni nella loro individualità peculiare. Le civiltà si stratificano temporalmente e geograficamente e formano un «fondo comune»29 delle
nazioni, composto di acquisizioni scientifiche, tecniche, artistiche,
economiche, ecc., destinato ad accrescersi sempre di più e a diventare patrimonio comune, una sorta di «capitale dellʼumanità»30. In altri
termini, Mauss è perfettamente consapevole che esiste una ibridizzazione strutturale delle culture e delle civiltà, e che, come oggi sottolinea Stuart Hall, ibridità è «semplicemente un altro termine per definire la logica culturale della traduzione»31. Tuttavia, egli non si illude
sul fatto che le nazioni non ricadano nel nazionalismo, nel colonialismo e nellʼimperialismo che hanno portato alla carneficina della
Grande Guerra. Ma lʼautore del Saggio sul dono sa bene che le nazioni oggi non hanno altra scelta se non quella di favorire lʼalleanza,
la pace, gli scambi reciproci al fine di attingere un livello di civiltà
superiore, così come è avvenuto con il passaggio, faticoso e tormentato, dalle società segmentarie alle nazioni moderne, peraltro tra loro
diseguali sotto molti punti di vista. Lʼappello ai filosofi che chiude
«The Problem of Nationality» perché trovino le «formule sagge e
necessarie» capaci di aiutare le nazioni a progettare e realizzare la
transizione verso una civiltà superiore, è già tutto implicito nel richiamo finale del Saggio sul dono che solo il libero obbligo di donare, ricevere e ricambiare ha consentito finora allʼumanità di deporre
le armi, di «contrapporsi senza massacrarsi», cioè di riconoscersi reciprocamente, e di «donarsi» rinunciando volta per volta ad assurde
clausole sacrificali e ad illegittime pretese di dominio. Lʼepoca dellʼ«internazionalismo» ha posto allʼordine del giorno la concreta rea27
Ivi, p. 42.
M. Mauss, “Le civiltà. Elementi e forme” (1929), in Id., I fondamenti di unʼantropologia
storica, cit., p. 63.
29 Ivi, p. 75.
30 Ibid.
31 S. Hall, “La questione multi-culturale”, in Id., Il soggetto e la differenza. Per unʼarcheologia degli studi culturali e postcoloniali, trad. it. a cura di M. Mellino, Meltemi, Roma 2006, p.
304. «Questa logica – prosegue Hall – è sempre più evidente nelle diaspore multiculturali e in
altre comunità miste e di minoranza del mondo postcoloniale. Vecchie e nuove diaspore governate da questa posizione ambivalente dentro/fuori si trovano dappertutto. Una posizione che definisce la logica culturale combinatoria e asimmetrica del modo attraverso cui la cosiddetta “modernità” occidentale si è espansa nel mondo, fin dallʼavvio del progetto globalizzante dellʼEuropa»(ivi,
pp. 304-05).
28
Francesco Fistetti
27
lizzazione di questo ideale: creare uno spazio di riconoscimento tra
le nazioni, che sostituisca il vecchio Jus Publicum Europaeum, ormai
entrato in crisi32, e tale anche che renda possibile una solidarietà tra
le nazioni che passi attraverso una redistribuzione della ricchezza accumulata. Mauss sembra delineare tra le righe una concezione della
nazione sganciata dal dogma della sovranità nazionale e rideclinata
nella prospettiva di una civiltà che potremmo definire multiculturale
e interculturale, nella quale il valore delle nazioni si può misurare
non più solo dalla ricchezza da loro prodotta, ma anche dalla loro
capacità di «donare» in vista della «felicità» di tutte le altre o, meglio, in vista di una soluzione condivisa dei problemi concernenti la
sopravvivenza e il benessere del genere umano. «I popoli, le classi, le
famiglie, gli individui – egli aggiunge – potranno arricchirsi, ma saranno felici solo quando sapranno sedersi, come cavalieri, intorno
alla ricchezza comune. È inutile cercare molto lontano quale sia il
bene e la felicità. Essi risiedono nella imposizione della pace, nel
ritmo ordinato del lavoro, volta a volta comune o individuale, nella
ricchezza accumulata e poi redistribuita, nel rispetto e nella generosità reciproca che lʼeducazione insegna»33.
Nella congiuntura storica odierna, in cui gli studi postcoloniali
stanno ripensando le categorie fondamentali dellʼOccidente moderno,
le quali si sono saldate tutte attorno al concetto di nazione (Stato,
società civile, cittadinanza, identità religiose e culturali, compresa
lʼidea stessa di democrazia nelle sue diverse forme storiche di attuazione)34, la riflessione di Mauss ha ancora molto da dire.
32 Il riferimento è a C. Schmitt, Il nomos della terra, trad. it. e postfazione di E. Castrucci, a
cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1991.
33 M. Mauss, “Saggio sul dono”, in Id., Teoria generale della magia e altri saggi, Introduzione di C. Lévi-Strauss, trad. it. di F. Zanino, Einaudi, Torino 1965, pp. 291-92. Sulla problematica
del “dono” si veda lʼimportante libro di A. Caillé-J. T. Godbout, Lo spirito del dono, trad. it. di A.
Salsano, Bollati Boringhieri, Torino 2002.
34 Basterà qui rinviare solo a due testi: H. Bhabha (a cura di), Nazione e narrazione, Introduzione di M. Pandolfi, Meltemi, Roma 1997, e P. Chatterjee, Oltre la cittadinanza, trad. it. di M.
Bortolini, a cura di S. Mezzadra, Meltemi, Roma 2006. Per una sintetica ed efficace ricostruzione
storica dellʼidea di nazione, cfr. A. Campi, Nazione, il Mulino, Bologna 2004.
JOSEPH RAZ
MULTICULTURALISM:
A LIBERAL PERSPECTIVE*
Multiculturalism is a problem today and for the foreseeable future
– a problem for politics and the ethics of politics. In this essay I want
to explore the implications of the liberal political philosophy. I have
faith in for the way contemporary democracies should deal with this
problem.
Political philosophy does not provide us with eternally valid theories for the government of all human societies. To my mind political
philosophy is time-bound. It is valid – if it is valid at all – for the
conditions prevailing here and now. Its conclusions, apply also to
similar situations elsewhere. But we cannot set the precise boundaries for their application. There are two reasons for this limitation.
First, it is impossible to articulate comprehensively all the relevant
moral considerations we are aware of, and impossible to state in general how much they weigh against each other in situations of conflict.
Moral knowledge is practical in a special sense: it is embodied in our
practices and acquired by habituation. We often know what to do
when faced with the situation in which action is called for, when we
could not have known what to do ahead of time. Everything we know
can be articulated, can be expressed in words. But it cannot be exhaustively expressed in general abstract formulae. The situation is
* This article is adapted from a talk given at a conference on Multiculturalism and the Law
organized by Max Brod in Leiden in July 1992. More detailed arguments for the views sketched
here can be found in the following works by the author: The Morality of Freedom, Oxford University Press, Oxford 1986; J. Raz-A. Margalit National Self-Determination, «The Journal of
Philosophy», 87, 1990, pp. 439-61; and J. Raz, Free Expression and Personal Identification, «Oxford Journal of Legal Studies», 11, 1991, p. 303. The author wishes to thank P. A. Bulloch for
helpful comments on an earlier version.
30
Joseph Raz
analogous with that of a person who embarks on a journey to a distant destination. Ask him ahead of time to describe the route and he
will be unable to do so. Yet as he progresses along the road, he
recalls at every stage how to proceed at that point. Not everything we
know can we exhaustively state in the abstract. Moral knowledge
escapes such formulation, and that means that moral theories are to
be taken as mere approximations. Those who apply them inflexibly
are fanatics heading for disaster.
The second reason for the fact that political morality is bound to
the here and now is that there are limitations to our ability to conceive how society will develop. The problem is not merely due to the
complexity of the social conditions that may prevail in the future, a
complexity that defeats our ability to apply our principles to those
conditions. The problem extends further. Social situations can change
in such a way that the concepts we employ to understand them become inapplicable.
I start my reflections with these remarks for two reasons. First, my
belief in the contextuality of political theory presupposes value pluralism, which lies at the heart of the problem of multiculturalism.
Second, contextuality highlights the complicated relations of contemporary liberalism to its classical ancestry. That relationship is not one
of identity. Seventeenth and Eighteenth-century liberalism was, by
and large, right for its time and place. Those of us who adhere today
to liberalism should do so not by following the theories of Locke or
Kant, but by looking for contemporary theories, valid for our own
conditions, which descend in spirit from the classical texts. This is
important for a reflection on the importance of community for individual wellbeing.
The migration of labor familiar since the rise of capitalism, and
accelerated to undreamt of proportions by the combined effect of
contemporary mass media, rapid communication, and easy transportation, has led to unprecedented levels of communal disintegration
and individual alienation. The Nineteenth – century bourgeoisie
reacted to the migrations from the country to the cities by developing
a rich urban culture, a culture of anonymity and bureaucratic impartiality. This is the culture we are all children of, a culture in which
people resent charity and insist on entitlements to social services and
benefits financed by strangers whom they never meet, and administered by faceless officials. Ours is a culture in which we feel more
comfortable on a beach, in a park, a restaurant, or in a concert hall
bustling with strangers, observing them as they observe us, than on a
Joseph Raz
31
lonely beach or an empty restaurant. We feel at ease in an apartment
building served by elevators that keep its residents unseen by each
other, and we feel stifled in a closely knit local community where
everyone knows us, and where every deviation from our daily routine
and every one of our visitors is closely observed by our neighbors.
The advantages of the culture of urban anonymity are many. But
such anonymity is inadequate to cope with the multiculturalism that
first emerged in many countries as a by-product of the decolonization
movement and is gathering pace all the time. The culture of urban
anonymity could absorb individual migrants escaping oppressive or
disintegrating societies. It is tempting to exaggerate and say that it
was made for such people. But this culture cannot adequately cope
with the conditions of today. The threatening results of this failure
are subcultures of anomie, alienation from society and its institutions,
and the emergence of a growing underclass.
Liberalism has responded to the phenomenon of diversity in three
ways. First was the attitude that I will call “toleration”1. It consists in
letting minorities conduct themselves as they wish without being
criminalized, so long as they do not interfere with the culture of the
majority. To a considerable degree this meant restriction of the use of
public spaces and public media by the minority. It also usually meant
that all its activities were to be financed out of the resources of the
minority community – in addition to its contribution through taxation
to the maintenance of the general culture.
Two types of argument are commonly advanced to support toleration. First, principled reasons for restricting the use of coercion: the
Harm Principle, for example, prescribes that people may not be
coerced except in order to restrain them from causing harm to others
or to punish them for causing harm to others. Arguments of the second type, appeal to considerations of public peace, social harmony,
and the legitimation of the system of government, all of which may
be jeopardized by the resentment of minorities that are not allowed to
continue with their religious and cultural activities.
Toleration was eventually supplemented, perhaps even supplanted,
by a second liberal policy toward minorities-one based on the
assertion of an individual right against discrimination on national,
racial, ethnic, or religious grounds, or on grounds of gender or sexual orientation. Nondiscrimination rights are a natural extension of
1 I do not mean to suggest that the concept of toleration cannot be applied to other policies. I
have offered a more comprehensive analysis of toleration in The Morality of Freedom, cit. Here I
use the term to capture the spirit of one fairly familiar attitude toward minorities.
32
Joseph Raz
the classical liberal conception of constitutional civil and political
rights. They also fit that strand of liberalism made popular by the
writings of John Rawls, according to which the principles used to
justify political action should make no reference to any specific conception of the good life.
Nondiscrimination rights go well beyond toleration. They have
far-reaching consequences that affect the way the majority community leads its own life. Most obviously, it is no longer free to exclude
members of the minority from its schools, places of employment,
residential neighborhoods, and so on. Usually nondiscrimination
rights are interpreted to allow each community control over certain
institutions. They also normally tolerate a measure of discrimination
in oneʼs private dealings. But under a regime of scrupulous nondiscrimination a countryʼs public services, its educational system, and
its economic and political arenas are no longer the preserve of the
majority, but common to all its members as individuals.
The third liberal approach to the problem of minorities is the
affirmation of multiculturalism. It is advanced as suitable in those societies in which there are several stable cultural communities both
wishing and able to perpetuate themselves. It does not apply to countries that receive many immigrants from diverse cultures, but where
those from each culture are few in number or, even if numerous, do
not wish to keep their separate identity. Perhaps even their very migration to the host country is an expression of their rejection of the
culture or group from which they emigrated. Finally, multiculturalism should not be-pursued regarding cultural groups that have lost
their ability to perpetuate themselves. This could happen where the
ossification of their culture and the allure of the surrounding cultures
mean that the vast majority of their young people wish to assimilate
into the majority culture.
In the rest of this essay, I will use “multiculturalism” to refer to
a society in which the conditions set out in the previous paragraph
obtain, and also to a policy of saying yes to this situation. It is
important to distinguish two types of multicultural societies. In
one, the different communities live mainly in separate geographical regions (for example, the Inuits in Canada and the Scots in
Britain). In the other, there is in the main no geographical separateness. For the most part the different communities share the
same public places and common services, and they mix in workplaces and in leisure facilities. It is this second condition that
characterizes societies whose multiculturalism is relatively recent,
Joseph Raz
33
resulting from the ever-growing migrations of the modern era.
This essay focuses on the second type, that of multiculturalism
without territorial separation.
The policy of multiculturalism differs from that which relies exclusively on nondiscrimination rights in rejecting the individualistic
bias of the latter. While endorsing nondiscrimination rights, multiculturalism emphasizes the importance to political action of two evaluative judgments. First, the belief that individual freedom and prosperity depend on full and unimpeded membership in a respected and
flourishing cultural group. Second, a belief in value pluralism, and in
particular in the validity of the diverse values embodied in the practices of different societies.
Given those beliefs, multiculturalism requires a political society to
recognize the equal standing of all the stable and viable cultural communities existing in that society. This implies the need for multicultural political societies to reconceive themselves. There is no room
for talk of a minority problem or of a majority tolerating the minorities. A political society, a state, consists – if it is multicultural – of
diverse communities and belongs to none of them. Although the relative size of the different communities affects the solutions to conflicts
over resources and public spaces among them, none of them should
be allowed to see the state as its own, or to think that the others enjoy
their standing on sufferance.
The purpose of my remaining discussion is to elaborate and defend this brief description of multiculturalism. I will do so from a
liberal perspective. Not everyone in the liberal camp – if I may call
it that – will agree to these views. Liberal doubts about multiculturalism stem from three main sources: first, there is the view of liberalism as the bastion of individual, freedom, and correspondingly a fear
that multiculturalism supports the power of communities to hold on
to reluctant members against their will. Second, there is the view of
the superiority of the secular, democratic, European culture, and a
reluctance to admit equal rights to inferior oppressive religious cultures, or ones whose cultural values are seen as limited and less
developed. Why should liberals give succor to cultures based on the
repudiation of liberal values? Finally, there is the fear that a common
culture is the cement of society and that without it society will fall
apart. I will first state briefly the liberal case for multiculturalism and
then deal with these three objections.
The brief argument is that denial of multiculturalism in todayʼs
Western societies, far from keeping liberal ideals pure, leads to their
34
Joseph Raz
degeneration into what might be called “supermarket liberalism”. Before I venture a brief explanation, I would like to clarify the spirit
underlying my observations. It is not one of utopian hope. It is not
one of a vision of the great future liberalism holds the key to, a future
in which the noblest human hopes will come to fruition. It is the
spirit of pessimism nourished by perception of conflict as inevitable,
and its resolution as less than ideal, regardless of who wins.
1. The Case for Multiculturalism
Liberalism is a political morality that arises out of a view of the
good of people, a view that emphasizes the value of freedom to individual well-being. Liberalism upholds the value of being in charge of
oneʼs life, charting its course by oneʼs own successive choices. Much
liberal thought has explored the ways in which restrictions on individual choices, whether legal or social, can be removed and obstacles
to choice – due to poverty, lack of education, or other limitations on
access to goods – overcome. It was also common once, though not
now, to distinguish freedom and license. Freedom, said Spinoza,
Kant, and others, is conduct in accord with rational laws. License is
arbitrary choice, in disregard of reason. The slogan that freedom is
not license was often abused, and abused to impose unreasonable
restrictions on freedom. I believe, however, that when correctly understood, this view is right. Moreover, once it is reinstated and its
implications understood, the justification of multiculturalism becomes
obvious.
The claim that freedom is action in accordance with reason is a
consequence of the fact that freedom presupposes the availability of
options to choose from, and that options – all except the very elementary ones – have an internal structure, an inner logic with witch we
must comply in order to exercise our freedom. A simple illustration
will make the point. One cannot play chess by doing what one wants,
that is, by moving the rook diagonally. One can only play chess by
following the rules of chess. Having to do so may look like a limitation of freedom to a child. But that is the tempting illusion of license.
In fact, complying with the rules of chess and of other options is a
precondition of freedom, an inescapable part of its realization.
Of course, games are unlike the practice of medicine or law, the
profession of teaching, or the role of parents, spouses, friends, and so
on. Relative to the options that make up the core of our lives they are
simple and tend to be governed by explicit rules. The options that
make up the core of our lives are complex and multidimensional,
Joseph Raz
35
rely on complex unstated conventions, and allow extensive room for
variation and improvisation. One doctorʼs bedside manner is not like
anotherʼs. But there are things which every doctor should do, one
way or another, and others no doctor may do. And so on.
Freedom depends on options that depend on rules that constitute
those options. The next stage in the argument shows that options presuppose a culture. They presuppose shared meanings and common
practices. Why so? – the child may ask – why must I play chess as it
is known to our culture, rather than invent my own game? Indeed,
the wise parent will answer, there is nothing to stop you from inventing your own game. But this is only possible because inventing oneʼs
own games is an activity recognized by our culture with its own form
and meaning. What you cannot do is invent everything in your life.
Why not? the child will persist, as children do. The answer is essentially that we cannot be children all the time. It is impossible to conduct oneʼs life on the basis of explicit and articulated rules. The density of our activities, their multiplicity of dimensions make it impossible to consider and decide deliberately on all of them. A lot has to
be done, so to speak, automatically. But to fit into a pattern that automatic aspect of behavior has to be guided, to be directed and channeled into a coherent meaningful whole. Here then is the argument.
The core options that give meaning to our lives – the different occupations we can pursue, the friendships and relationships we can
have, the loyalties and commitments that we attract and develop, the
cultural, sporting, or other interests we develop – are all dense webs
of complex actions and interactions. They are open only to those who
master them, but their complexity and the density of their details defy explicit learning or comprehensive articulation. They are available
only to those who have or can acquire practical knowledge of them,
that is, knowledge embodied in social practices and transmitted by
habituation.
So far I have been talking of social practices that constitute
options as if they come one by one. The reality is different. Social practices are interlaced with each other. The practices of parenting intersect with those of other social relationships. Not only do many people
move naturally from one role to another, but even where such transitions are not expected the different family roles are, at least, in part
defined by analogy and contrast to each other. Similarly with occupations. Our common ways of distinguishing groups of them, such as
the professions, clerical jobs, those belonging to trade and commerce,
the caring professions, and so on, are each marked by common and
36
Joseph Raz
overlapping practices. This commonality of interlocking, practices
making up the range of life options open to anyone socialized into
them is what cultures are. Small wonder, then, that membership in
cultural groups is of vital importance to individuals.
Only through being socialized in a culture can one tap the options
that give life a meaning. By and large, oneʼs cultural membership
determines the horizon of oneʼs opportunities, of what one may become, or (if one is older) what one might have been. Little surprise
that it is in the interest of every person to be fully integrated in a
cultural group. Equally plain is the importance to its members of the
prosperity, cultural and material, of that group. Its prosperity contributes to the richness and variety of the opportunities they have access
to. This is the first of three ways in which membership in a cultural
group affects oneʼs prospects in life.
The second is the fact that a common culture facilitates social
relations and is a condition of rich and comprehensive personal relationships2. One particular relationship is especially sensitive to this
point. Erotic attraction, economic, or certain raw emotional needs
can often help overcome even the greatest cultural gaps. But in oneʼs
relations with oneʼs children and with oneʼs parents, a common culture is an essential condition for the tight bonding we expect and
desire. A policy that forcibly detaches children from the culture of
their parents not only undermines the stability of society by undermining peopleʼs ability to sustain long-term intimate relations, it also
threatens one of the deepest desires of most parents, the desire to
understand their children, share their world, and to remain close to
them.
Finally, being a member of a prosperous cultural community
affects individual wellbeing because, for most people, membership is a
major determinant of their sense of who they are; it contributes to
what we have come to call their sense of identity. This is not really
surprising given that oneʼs culture sets the horizon of oneʼs opportunities. I am what I am, but equally I am what I can become or could
have been. To understand a person we need to know how that person
came to be what he or she is, that is, to understand what she might
have been and why she is some of those things and not others. In this
way culture constitutes identity. Slighting my culture, holding it up
for ridicule, denying its value, and so on, hurts me and offends my
2 This point does not suggest that people belonging to two nations, or two social classes, say
a French or a Dutch person, cannot be friends. What I am suggesting is that there is a considerable
common cultural background to people from diverse but culturally neighboring groups.
Joseph Raz
37
dignity. It is particularly offensive if the slight bears the imprimatur
of my state or of the majority or official culture of my country.
So this is the case for multiculturalism. It is a case that recognizes
that cultural groups are not susceptible to reductive analysis in terms
of individual actions or states of mind. Cultural, and other, groups
have a life of their own. But their moral claim to respect and to prosperity rests entirely on their importance to the prosperity of individual human beings. This case is a liberal case for it emphasizes culture
as a factor that gives shape and content to individual freedom. Because individual freedom and well-being depend on unimpeded membership in a respected and prosperous cultural group, there is little
wonder that multiculturalism emerges as a central element in any decent liberal political program for societies inhabited by a number of
viable cultural groups.
2. The Dialectics of Pluralism
One of the difficulties in making multiculturalism politically acceptable stems from the enmity between members of different cultural groups, especially when they inhabit one and the same country.
Such enmity is quite universal. Even when relations between two
communities are at their most amicable, they are accompanied by
disapproval of the other culture for its decadence or vulgarity, for
lack of a sense of humor, for its treatment of women, or something
else. It would be comforting to think that such enmity is sometimes
justified, and in the other cases it is due to ignorance and bigotry that
can be eradicated. I believe, however, that this optimism is unwarranted, and that conflict is endemic to multiculturalism.
It is, in fact, endemic to value pluralism in all its forms. Value
pluralism is the view that many different activities and incompatible
forms of life are valuable. Two values are incompatible if they cannot
be realized or pursued to the fullest degree in a single life. In this
sense value pluralism is a familiar mundane phenomenon. One cannot be both a sprinter and a long-distance runner, far they require the
development of different physical abilities and also tend to suit different psychological types. Philosophers do not make good generals,
and generals do not make good philosophers. One cannot pursue both
the contemplative and the active life, and so on.
The mutual exclusivity of valuable activities and ways of life is a
commonplace. It becomes philosophically significant the moment
one rejects the belief in the reducibility of all values to one value that
serves as a common denominator to all the valuable ways of life. In
38
Joseph Raz
our day and age, the reduction is most commonly to the value of feeling happy, or having oneʼs desires satisfied. Value pluralism is the
doctrine that denies that such a reduction is possible. It takes the plurality of valuable activities and ways of life to be ultimate and ineliminable. This radically changes our understanding of pluralism. On
a reductive-monistic view, when one trades the pleasures (and anxieties) of family life for a career as a sailor one is hoping to get the
same thing one is giving up, be it happiness, pleasure, or something
else. So long as one plans correctly and succeeds in carrying out
oneʼs plans, there is no loss of any kind. One gives up the lesser
pleasure one would derive from a family for the greater pleasure of
life at sea. If value pluralism is correct, this view is totally wrong.
What one loses is of a different kind from what one gains. Even in
success there is a loss, and quite commonly there is no meaning to
the judgment that one gains more than one loses. When one was
faced with valuable options and successfully chose one of them, then
one simply chose one way of life rather than another, both being
good and not susceptible to comparison of degree.
Theoretically, this plurality of valuable ways of life need not manifest itself in the same society. We may value the culture of the classical Greeks without its opportunities being options for us. But typically in our day and age, pluralism exists within every society, indeed,
within every culture. That generates conflict among incompatible activities and ways of life. When valuable alternatives are remote and
unavailable, they do not threaten our commitment to and confidence
in the values manifested in our own life. But when they are available
to us and pursued by others in our vicinity, they tend to be felt as a
threat. I chose A over B, but was I right? Skills and character traits
cherished by my way of life are a handicap for those pursuing one or
another of its alternatives. I value long contemplation and patient examination: these are the qualities I require in my chosen course. Their
life, by contrast, requires impetuosity, swift responses, and decisive
action, and they despise the slow contemplative types as indecisive.
They almost have to. To succeed in their chosen way, they have to be
committed to it and to believe that the virtues it requires should be
cultivated. They therefore cannot regard those others as virtues for
them. By the same token it is only natural that they will value in others what they choose to emulate themselves. Hence, we have a variety
of dismissive attitudes to the virtues of the competing ways of life.
Conflict is endemic. Of course, pluralists can step back from their
personal commitments and appreciate in the abstract the value of oth-
Joseph Raz
39
er ways of life. But this acknowledgment coexists with, and cannot
replace, the feelings of rejection and dismissiveness. Tension is an
inevitable concomitant of value pluralism. And it is a tension without
stability, without the prospect of a reconciliation of the two perspectives, the one. recognizing the validity of competing values and the
one hostile to them. One is forever moving from one to the other.
3. The Transforming Effect
The inescapable tension between acceptance of and rivalry with
competing valuable ways of life, which forever threatens to destabilize it, is common to all forms of value pluralism, where incompatible
options coexist in the same society. This tension exists in homogeneous as well as in multicultural societies. Admittedly the latter tend to
generate a heightened awareness of the tension because they polarize
it along cultural-ethnic divides. But it is equally acute in societies
with strong class divisions, for example. The next form of the dialectics of pluralism I want to focus on is specific to multiculturalism.
Multiculturalism arises from a break in a relatively homogeneous
society. It is a result of the conquest of a territory and the subjugation
of its indigenous population, or of large-scale migrations such as the
migration of East African Indians to Britain or Turks to the Netherlands. Sometimes it arises as a consequence of political union of people from neighboring, but culturally distinct, countries. In all these
cases the constituent cultures face great pressures to change as a result of their interaction with the other groups. Naturally, they wish to
resist the pressure. The desire to resist is particularly felt by small
communities facing the challenge of coexistence with much larger
groups whose cultures dominate the public arena.
The view that I advocate may be expected to be sympathetic to
such conservationist trends. After all, the whole idea of multiculturalism is to encourage communities to sustain their own diverse cultures. But although this is so, and although it is of the essence of
multiculturalism that different communities should enjoy their fair
share of opportunities and resources to maintain and develop their
cultures in their own way, multiculturalism, as I see it, is not inherently opposed to change, not even to change induced by coexistence
with other cultural groups. On the contrary, multiculturalism insists
that members of the different groups should appreciate and respect
the other cultures in their society. This in itself leads to inevitable
developments in the constituent cultures, especially those that developed in relative isolation.
40
Joseph Raz
Furthermore, multiculturalism calls on all the constituent communities in a society to tolerate each other. Some of these communities
have cultures that are themselves intolerant. Such cultures will face
great pressure for change in a multicultural society.
Finally, multiculturalism insists on a right of exit, the right of individuals to abandon their cultural group. Many cultures do all they
can to stop their members from drifting away. On this front, again,
they will find themselves under pressure to change in a liberal multicultural society3.
This tension in multiculturalism between a policy of protecting a
plurality of cultures and encouraging change in them may surprise
some. But it should not. Liberal multiculturalism does not arise out
of conservative nostalgia for pure exotic cultures. It is not a policy of
conserving or fossilizing cultures in their pristine state. Nor is it a
policy fostering variety for its own sake. It recognizes that change is
inevitable in todayʼs world. It recognizes that fossilized cultures cannot serve their members well in contemporary societies with their
fast rate of social and economic change. Liberal multiculturalism
stems from a concern for the well-being of the members of society.
That well-being presupposes respect for oneʼs cultural group and its
prosperity. But none of this is opposed to change.
Change is resisted most when it comes as a result of the hostility
of the dominant culture. It is also resisted when it arouses fear that
oneʼs culture will disappear altogether – diluted and then assimilated
by others. In a country where multiculturalism is practiced by the
government and accepted by the population the first fear should not
arise. The second is less easily laid to rest. Nor is liberal multiculturalism opposed in principle to the assimilation of one cultural group
by others. In some countries some of the constituent cultures may
lose their vitality and be gradually absorbed. So long as the process
is not coerced, does not arise out of lack of respect for people and
their communities, and is sufficiently gradual, there is nothing wrong
in it. The dying of old cultures is as much part of normal life as the
birth of new ones. But the process is much slower and rarer than
those who trumpet their fears of the death of their cultures suggest.
What they commonly intend is resistance to change, masquerading,
innocently or otherwise, as a fight for survival.
3 It is important to recall that this discussion is confined to multicultural societies where the
different communities are not geographically segregated.
Joseph Raz
41
In these last remarks, I display again the non-utopian character of
the liberal multiculturalism that I advocate. It rejects any ideal that
commits us to arrest the course of time, the pressures for change, at
some moment of perfection. Indeed, it refuses to have any truck with
notions of perfection. Furthermore, it is non-utopian in seeing, conflict between and within cultures as endemic.
4. Why respect Cultures?
The earlier discussion has already brought into the open the most
fundamental dialectical element in liberal multiculturalism. While it
respects a variety of cultures it refuses to take them at their own estimation. It has its own reasons for respecting cultures, reasons like
those expressed in the first part of this essay. These are likely to vary
from the reasons provided in most cultures for their value. For example, religious cultures will justify themselves in theological terms.
The justification of those very same cultures in the eyes of liberal
multiculturalism is humanistic, not theological. In particular, multiculturalism urges respect for cultures that are not themselves liberal
cultures – very few are. But it does so while imposing liberal protections for individual freedom on those cultures. This in itself brings it
into conflict with the cultures it urges governments to respect. The
conflict is inevitable because liberal multiculturalism recognizes and
respects those cultures only to the extent that they serve true values.
Since its respect of cultures is conditional and granted from a point
of view outside many of them, it finds itself in uneasy alliance with
supporters of those cultures, sometimes joining them in a common
front while at other times turning against them to impose ideals of
toleration and mutual respect or to protect the members of those very
cultures against oppression by their own group.
5. Objections to Multiculturalism
It is time to turn to the objections to multiculturalism. The one I
can do least justice to is that which says: «Some cultures are inferior
to others. By encouraging their prosperity, one is acting against the
interests of their members. To serve their interests best one should
discourage those cultures and encourage rapid assimilation of their
members into our superior culture». I believe that very often judgments about the inferiority of other cultures are based on bigotry and
ignorance, and that in truth many cultures cannot be compared in
those terms. Each of them is valuable. Each of them can be improved
42
Joseph Raz
in a way consistent with its own spirit and out of its own resources.
But none of them can be judged superior to the others. However,
these views can only be justified by plunging into a discussion of the
foundations of ethics, which we are mercifully absolved from here.
Instead I will address three subsidiary points.
First, some people fear, consciously or unconsciously, that if our
culture is not superior to others, we are not entitled to love it as much
as we do. If it is not the best, they feel, then it is irrational to be so
dedicated to its preservation and cultivation. Moreover, if it is not the
best then our ignorance of other cultures is inexcusable. If they are
all good and none is superior, we should be equally knowledgeable
and interested in all of them.
It is not my wish to discourage people from taking an interest in
other cultures, and one should certainly be acquainted with the cultures
that inhabit oneʼs country – this is so whether or not they are the equal
of oneʼs own. That is one of the duties of citizenship and has nothing
to do with the merits of any culture. Putting these considerations aside
for the moment, let it be said that oneʼs devotion to and love of oneʼs
culture in no way depends on believing it to be better than others. It is
rational and valid whether or not it is better than others, so long as one
loves oneʼs own culture for what is truly good in it.
Compare oneʼs attitude to oneʼs culture with oneʼs love of oneʼs
children. We rightly ridicule parents who feel that their devotion to
their children requires holding them to be little geniuses, much better
than other children. One loves oneʼs children because they are oneʼs
children4. The same is true with all personal attachments. The people
one loves need not be better than others to make oneʼs love rational. So
long as one loves them for the right reasons, and admires in them their
virtues rather than their vices, oneʼs love and friendship are sound.
Nor need one feel obliged to become acquainted with all valuable
cultures. To do so is the desire of some people, and it is a worthy
desire. But it is not one that all people must share. There is no reason
to know about or share in everything that is valuable. This too is an
aspect of value pluralism. There are many valuable things in the
world, and we have no reason to, nor any real possibility of, pursuing
all of them.
Second, I would not wish to deny that some cultures or aspects of
some cultures are unacceptable and should not benefit from the posi4 And I do not mean genetically oneʼs own. I mean that they are children one brought up and
is attached to.
Joseph Raz
43
tive attitude that multiculturalism stands for. Some cultures, for example, repress groups of their own members or of outsiders. Slave
cultures, racially discriminatory cultures, and homophobic cultures,
are obvious examples. These can be supported only to the degree that
it is possible to neutralize their oppressive aspects, or compensate for
them (for example by providing a convenient exit to members of the
group discriminated against).
The test of oppression should be carefully considered. One needs
to distinguish between it and the occasional failure of socialization
that leaves an individual member of a cultural group alienated from
the culture and unable to find fulfillment within it. Occasional failures of socialization are endemic to all cultures. Oppression differs
from them in being the result of a structural feature of a culture that
systematically prevents people from giving expression to an important aspect of their nature. Not all people will be affected, many will
not belong to the oppressed group, where the oppression is based on
racial, religious, or some such grounds. Others will not have a great
need to express the repressed aspect of their personality, or they will
find ways of making do with alternatives. In all sexually oppressive
societies many people learn to do without much sex. In societies that
repress free inquiry or creativity, many find that their need to engage
in these is limited. Adjustability is never complete, and repression
invariably leads to much suffering. Even those who adjust suffer.
Their lives and personalities become stunted and do not reach full
expression. When this is a result of a systematic feature of their culture, the fault is with the culture. In serious cases; it may justify suppressing oppressive cultures. In others, it will call for reform and for
mitigating actions in the larger, multicultural society.
Third, even when cultures are at fault, we have reason for supportive toleration. People bred and socialized within such cultures often
know no better, and have no choice. Moreover, by the time they are
grown up their ability to transplant themselves and become a part of
another culture is limited. The limits differ from case to case and are
a matter of degree. It is easier to acquire a home in a new cultural
community when it does not differ too much from oneʼs own and
when one has self-generated motives to do so. It is more difficult
when the distance between the cultures is great and the reason for the
transition is externally imposed. Given that even oppressive cultures
can give people quite a lot, it follows that one should be particularly
wary of organized campaigns of assimilation and discrimination
against “inferior” and oppressive cultures. They provide many of
their members with all that they can have.
44
Joseph Raz
In saying this I am not retreating from my earlier view that oppression should not be tolerated. I am merely urging restraint and consideration in thinking of the means by which it is to be countered.
Oppression of members of the cultural group was the second objection to multiculturalism introduced at the outset. We have already
considered it, and conceded its force. It is worth adding here that
existence in a multicultural society often makes cultural groups more
repressive than they would be were they to exist in relative isolation.
The insecurity of existence, especially where there is real or perceived discrimination, tends to encourage conservative elements in
cultural groups. It also tends to increase pressure on members of the
group to turn inward and reduce their contact with the external world
– as the only guarantee against defection from the group. Such conservative and repressive pressures can lead to bitter intergenerational
conflicts.
Furthermore, the significance of various social practices may
change in the new context of a multicultural society. The status of
women is a case in point. Probably all cultures known to us, even
those that did not repress women, distinguished between men and
women – in that a large array of social relationships, occupations,
leisure activities, and educational and cultural opportunities, were
gender specific. If such separation does not carry with it the implication of an inferior status, and if the opportunities available to both
men and women are adequate for their full development and self-expression, there is nothing wrong with such gender-sensitive cultures
– so long as they succeed in socializing the young to a willing acceptance of their ways. But once such a cultural group is transplanted to a
different environment in which the dominant cultures accept gender
determination of opportunities only in exceptional cases, the transplanted group is transformed into an oppressive one. In the new environment it is bound to fail in socializing its young to accept its ways
and reject the ideas prevalent in the general culture. In contemporary
liberal societies, the prevailing notions of gender nondiscrimination
and the debate about feminism are bound to filter across cultural barriers. They will affect the self-understanding of the young (and not
only the young). They will inform their perceptions of their own native cultural practices. When this happens the meaning of the genderbased practices changes. It is understood by many of its own members
as consigning women to an inferior status. Protestations that that is a
perversion of the true meaning of those practices are to no avail. The
true meaning of social practices is their social meaning.
Joseph Raz
45
A positive attitude to multiculturalism can be thought to lend support to the conservative strands in various communities. But to my
mind this is a mistake. Cultures are bound to undergo changes within
a multicultural society. The fact that members of cultural groups intermix to a considerable degree is bound to have its impact on the
different groups in the society. The preservation of their culture is
justified only in terms of its contribution to well-being. This requires
an adjustment of each, of the groups to the conditions of a relatively
harmonious coexistence within one political society.
Peaceful coexistence in one political society requires men and
women to acquaint themselves with the customs of all the people and
ethnic groups in their country. Hence they will have opportunities,
sometimes temptations, to drift out of their native cultural group into
another. Attempts to prevent people from seizing these opportunities
undermine the possibility of mutual peaceful existence.
Moreover, the opportunity to exit from a group is a vital protection
for those members of it who are oppressed by its culture. The opportunity of exit is a counter to the worry that multiculturalism encourages oppressive cultures to perpetuate their ways. I have already indicated that political societies are entitled, indeed required to discourage
oppressive practices in their constituent cultural groups. The groups
should be encouraged to change such practices. But this is a very slow
process. Opportunities of exit should be encouraged as a safeguard,
however imperfect, for members who cannot develop and find adequate avenues for self-expression within their native culture.
6. Solidarity
The final objection to multiculturalism is that it undermines social
solidarity, which is invariably built on the possession of a common
culture. Without a deep feeling of solidarity, a political society will
disintegrate into quarreling factions. Solidarity is required if people
are to feel concerned about each otherʼs fortunes, and to be willing to
make sacrifices for other people. Without such willingness the possibility of a peaceful political society disappears.
There is a lot of truth in this argument. Civic solidarity is essential
to the existence of a well-ordered political society. But the argument
is too quick in asserting that a common culture is essential to solidarity, and that multiculturalism is inconsistent with the existence of a
common culture.
Let me take the last point first. The truth is that multiculturalism,
while endorsing the perpetuation of several cultural groups in a sin-
46
Joseph Raz
gle political society, also requires the existence of a common culture.
First, coexistence calls for the cultivation of mutual toleration and
respect. This affects the education of the young in all the constituent
groups in the society. All of them will enjoy education in the cultural
traditions of their own communities, but all of them will also be educated to understand and respect the traditions of the other groups in
the society. This will apply to the majority group, where such a group
exists, as well. Its young will learn the minority traditions of their
society. Cultivation of mutual respect and tolerance, knowledge of
the history and traditions of oneʼs country with all its communities,
will provide one element of a common culture.
A second element will result from the fact that members of all
communities will interact in the same economic environment. They
will share in tapping the same job market, the same market for services and for goods. This means that they will have to possess the
same mathematical, literary, and other skills required for effective
participation in the economy.
Finally, members of all cultural groups will belong to the same
political society. They will enjoy roughly equal access to the sources
of political power and to decision-making positions. They will have
to acquire a common political language and conventions of conduct
to be able to participate effectively in the competition for resources
and the protection of group as well as individual interests in a shared
political arena.
The emergence of such a common culture is still an aspiration, for
while elements of it are already evident in some multicultural societies,
none has reached the level of development of a common culture, that is
evident in some culturally homogeneous societies. Whether the sort of
common culture I have outlined is capable of forming a basis for social
solidarity sufficient to secure the cohesion and stability of modern
political, societies remains a moot point. But I think that it may serve
this purpose successfully, and should be given a chance to do so.
But, while the liberal common culture of pluralistic societies remains to be developed, a swift social change toward multiculturalism
may severely test the existing bonds of solidarity in a society and
threaten disintegration or a backlash of rabid nationalism: this, while
it does not pose an objection of principle to liberal multiculturalism,
requires great caution in the method and speed with which multicultural policies are implemented.
Multiculturalism, in the sense of the existence within the same
political society of a number of sizable cultural groups wishing and
Joseph Raz
47
able to maintain their distinct identity, is with us to stay. It is likely to
grow in size and importance. Liberal multiculturalism, as I call it,
affirms that in the circumstances of contemporary industrial or postindustrial societies, a political attitude of fostering and encouraging the
prosperity, cultural and material, of cultural groups within a society,
and respecting their identity is justified by considerations of freedom
and human dignity. These considerations call on governments to take
action that goes beyond that required by policies of toleration and
nondiscrimination. While incorporating policies of nondiscrimination, liberal multiculturalism transcends the individualistic approach
and recognizes the importance of unimpeded membership in a
respected and flourishing cultural group for individual well-being.
This doctrine has far-reaching ramifications. It calls on us to reconceive society, changing its self-image. We should learn to think of
our societies as consisting not of a majority and minorities, but of a
plurality of cultural groups. Naturally, such developments take a long
period to come to fruition, and they cannot be secured through government action alone, as they require a widespread change in attitude.
The current attitude of the population at large, and the speed with
which it accepts the precepts of multiculturalism, set limits on the
practicability and good sense of proceeding with various concrete
policies to advance and implement liberal multiculturalism. But we
must think of the long term to set short-term policies within a sensible context. The size of cultural groups and their viability also affect
the way various concrete measures should be pursued. There is no
point in trying to prop up by public action cultures that have become
moribund and whose communities – usually their young members –
drift away from them. Of course multiculturalism changes the prospects of survival for cultures it supports. That is its aim. But it recognizes that public policies can only serve to facilitate developments
desired by the population, not to force cultural activities down the
throats of an indifferent population.
The more concrete policies, which become appropriate gradually
as developments justify them, include measures like the following:
1) The young of all cultural groups should be educated, if their parents so desire, in the culture of their own groups. But all of them
should also be educated to be familiar with and cultivate an attitude of respect for the history and traditions of all the cultures in
the country.
2) The customs and practices of the different groups should, within
the limits of toleration we have explored earlier, be recognized in
48
Joseph Raz
law and by all public bodies in society, as well as by private companies and organizations that serve the public. At the moment,
petty intolerance is rife in many countries. In Britain people still
have to fight to be allowed to wear traditional dress to school or to
work, to give one example.
3) It is crucial to break the link between poverty, under-education,
and ethnicity. So long as certain ethnic groups are so overwhelmingly over-represented among poor, ill-educated, unskilled, and
semiskilled workers, the possibilities of cultivating respect for
their cultural identity, even the possibilities of self-respect, are
greatly undermined.
4) There should be generous public support for autonomous cultural
institutions, such as communal charities, voluntary organizations,
libraries, museums, and artistic groups. In the competition for
public resources the size of the groups concerned is an important
factor. It works in two ways. By and large, it favors the larger
groups with a more committed membership. But it also calls for
disproportionate support for small groups that are strong enough
to pass the viability test. Given that the overheads are significant,
the per capita cost of support for small groups is greater than for
large ones.
5) Public space (as well as air space on television) should accommodate all the cultural groups. Where they differ in their aesthetic
sense, in their preferences for colors, patterns, smells, music, noise
and speed, some public spaces may be divided between them, as
often happens without direction in ethnic neighborhoods, while
preserving others as common to all.
Of course, all such measures are designed to lead to relatively
harmonious coexistence of non-oppressive and tolerant communities.
They, therefore, have their limits. But it is important not to use false
standards as tests of the limits of toleration. The fact that the Turkish
government, say, does not tolerate certain practices of the Kurds in
Turkey, is no reason why Kurds from Turkey should not be allowed
to resume the practices when they settle in Europe. Similarly, the fact
that tolerating certain immigrant practices will lead to changes in the
character of some neighborhoods or public spaces in oneʼs country is
no reason for suppressing them. Toleration is limited only in denying
communities the right to repress their own members, in discouraging
intolerant attitudes to outsiders, in insisting on making exit from the
community a viable option for its members. Beyond that, liberal multiculturalism will also require all groups to allow their members
Joseph Raz
49
access to adequate opportunities for self-expression and full participation in the economic life and the political culture of the community.
The combined effect of such policies is that liberal multiculturalism leads not to the abandonment of a common culture, but to the
emergence of a new common culture that is respectful toward all the
groups of the country, and hospitable to their prosperity.
WILL KYMLICKA
LIBERAL THEORIES
OF MULTICULTURALISM
The last ten years has seen a remarkable upsurge in interest
amongst political philosophers in the rights of ethnocultural groups
within Western democracies. Joseph Razʼs writings, particularly his
article on Multiculturalism: A Liberal Perspective, have played an
important role in this debate. My aim in this paper is to give a (very)
condensed overview of the philosophical debate so far, and to suggest how Razʼs theory fits into the larger debate.
1. The First Stage: Multiculturalism as Communitarianism
I think we can distinguish three broad positions in the debate over
multiculturalism or minority rights1. The first position to emerge, and
the one that dominated in the debate in the 1970s and 1980s, viewed
multiculturalism as a form of, or application of, communitarianism.
It was assumed that the debate over multiculturalism was therefore
essentially equivalent to the debate between “liberals” and “commu1 I will use the term “minority rights” and “multiculturalism” interchangeably, to refer to a
wide range of public policies, legal rights and constitutional provisions that relate to the accommodation of ethnocultural minorities. Common examples of such policies and laws in Western
democracies include language rights and self-government powers for national minorities, multicultural educational reforms and religious exemptions for immigrant groups, treaty rights and land
claims for indigenous peoples. This is obviously a heterogeneous category, but the various measures have two important features in common: (a) they go beyond the familiar set of common civil
and political rights of individual citizenship which are protected in all liberal democracies; (b)
they are adopted with the intention of recognizing and accommodating the distinctive identities
and needs of ethnocultural groups. For a helpful typology, see J. Levy, “Classifying Cultural
Rights”, in I. Shapiro-W. Kymlicka (eds.), Ethnicity and Group Rights, New York University
Press, New York 1997, pp. 22-66. I should emphasize that many of the measures that I am describing as “minority rights” are not “rights” in Razʼs technical sense.
52
Will Kymlicka
nitarians” (or between “individualists” and “collectivists”). Confronted with an unexplored topic like multiculturalism, it was natural, and
perhaps inevitable, that political theorists would look for analogies
with other, more familiar, topics, and the liberal-communitarian debate seemed the most relevant and applicable.
The liberal-communitarian debate is an old and venerable one
within political philosophy, going back several centuries, so I wonʼt
try to rehearse it in its entirety. But to dramatically oversimplify, one
strand of the debate revolves around the priority of individual freedom. Liberals insist that individuals should be free to decide on their
own conception of the good life, and applaud the liberation of individuals from any ascribed or inherited status. Liberal individualists
argue that the individual is morally prior to the community: the community matters only because it contributes to the well-being of the
individuals who compose it. If those individuals no longer find it
worthwhile to maintain existing cultural practices, then the community has no independent interest in preserving those practices, and no
right to prevent individuals from modifying or rejecting them.
Communitarians dispute this conception of the “autonomous individual”. They view individuals as “embedded” in particular social
roles and relationships, rather than as agents capable of forming and
revising their own conception of the good life. Rather than viewing
group practices as the product of individual choices, they tend to
view individuals as the product of social practices. Moreover, they
often deny that the interests of communities can be reduced to the
interests of their individual members. Privileging individual autonomy is therefore seen as destructive of communities. A healthy community maintains a balance between individual choice and protection
for the communal way of life, and seeks to limit the extent to which
the former can erode the latter.
In this first stage of the debate, the assumption was that oneʼs
position on minority rights was dependent on, and derivative of,
oneʼs position on the liberal-communitarian debate. That is, if one is
a liberal who cherishes individual autonomy, then one will oppose
minority rights as an unnecessary and dangerous departure from the
proper emphasis on the individual. Communitarians, by contrast,
view minority rights as an appropriate way of protecting communities from the eroding effects of individual autonomy, and of affirming the value of community. Ethnocultural minorities in particular
are worthy of such protection, partly because they are most at risk,
but also because they still have a communal way of life to be pro-
Will Kymlicka
53
tected. Unlike the majority, ethnocultural minorities have not yet
succumbed to liberal individualism, and so have maintained a coherent collective way of life.
This debate over the priority and reducibility of community interests to individual interests dominated the early literature on minority
rights2. This interpretation of the debate was shared by both defenders and critics of minority rights. Both sides agreed that in order to
evaluate minority rights we needed to first resolve these ontological
and metaphysical questions about the relative priority of individuals
and groups. Defenders of minority rights agreed that they were inconsistent with liberalismʼs commitment to moral individualism and
individual autonomy, but argued that this just pointed out the inherent flaws of liberalism.
In short, defending minority rights involved endorsing the communitarian critique of liberalism, and viewing minority rights as defending cohesive and communally-minded minority groups against
the encroachment of liberal individualism.
2. The Second Stage: Multiculturalism Within a Liberal Framework
Partly as a result of Razʼs influential contributions, it has been
increasingly recognized that this first stage represented an unhelpful
way to conceptualize most minority rights claims in western democracies. Equating minority rights with communitarianism seemed
sensible at the time, but assumptions about the «striking parallel between the communitarian attack of philosophical liberalism and the
notion of collective rights» have been increasingly questioned3.
There are two problems with this approach: first, it misinterprets
the nature of ethnocultural minorities; and second, it misinterprets
the nature of liberalism.
2 For “communitarian” defenders of minority rights, see V. van Dyke, The Individual, the State,
and Ethnic Communities in Political Theory, «World Politics», 29/3, 1977, pp. 343-69; R. Garet,
Communality and Existence: The Rights of Groups, «Southern California Law Review», 56/5, 1983,
pp. 1001-75; M. McDonald Should Communities Have Rights? Reflections on Liberal Individualism, «Canadian Journal of Law and Jurisprudence», 4/2, 1991, pp. 217-37; D. Johnston, Native
Rights as Collective Rights: A Question of Group Self-Preservation, «Canadian Journal of Law and
Jurisprudence», 2/1, 1989, pp. 19-34; A. Addis, Individualism, Communitarianism and the Rights of
Ethnic Minorities, «Notre Dame Law Review», 67/3, 1992, pp. 615-76; D. Karmis, Cultures autochtones et libéralisme au Canada: les vertus mediatrices du communautarisme libéral de Charles
Taylor, «Canadian Journal of Political Science», 26/1, 1993, pp. 69-96; F. Svensson, Liberal Democracy and Group Rights: The Legacy of Individualism and its Impact on American Indian Tribes,
«Political Studies», 27/3, 1979, pp. 421-39. For “individualist” critics, see J. Narveson, Collective
Rights?, «Canadian Journal of Law and Jurisprudence», 4/2: 3, 1991, pp. 29-45.
3 M. Galenkamp, Individualism and Collectivism: the concept of collective rights, Rotterdamse Filosofische Studies, Rotterdam 1993, pp. 20-25.
54
Will Kymlicka
In reality, most ethnocultural groups within Western democracies
do not want to be protected from the forces of modernity unleashed
in liberal societies. On the contrary, they want to be full and equal
participants in modern liberal societies. This is true of most immigrant groups, which seek inclusion and full participation in the mainstream of liberal-democratic societies, with access to its education,
technology, literacy, mass communications, etc. It is equally true of
most non-immigrant national minorities, like the Québécois, Flemish
or Catalans4. Some of their members may seek to secede from a liberal democracy, but if they do, it is not in order to create an illiberal
communitarian society, but rather to create their own modern liberal
democratic society. The Québécois wish to create a “distinct society”,
but it is a modern, liberal society – with an urbanized, secular, pluralistic, industrialized, bureaucratized, consumerist mass culture.
Indeed, far from opposing liberal principles, public opinion polls
show there are no statistical differences between national minorities
and majorities in their adherence to liberal principles. And immigrants also quickly absorb the basic liberal-democratic consensus,
even when they came from countries with little or no experience of
liberal democracy5.
As Raz rightly emphasizes, the commitment to individual autonomy is deep and wide in modern societies, crossing ethnic, linguistic
and religious lines. To be sure, there are some important – and visible
– exceptions to this rule. For example, there are a few ethnoreligious
sects that voluntarily distance themselves from the larger world – the
Hutterites, Amish, Hasidic Jews. And perhaps some of the more isolated or traditionalist indigenous communities fit this description as
“communitarian” groups. The question of how liberal states should
4 By “national minorities”, I mean groups that formed complete and functioning societies on
their historic homeland prior to being incorporated into a larger state. The incorporation of such
national minorities has typically been involuntary, due to colonization, conquest, or the ceding of
territory from one imperial power to another, but may also arise voluntarily, as a result of federation.
5 On the political values of Canadian immigrants, see J. Frideres, “Edging into the Mainstream: Immigrant Adult and their Children”, in S. Isajiw (ed.), Comparative Perspectives on Interethnic Relations and Social Incorporation in Europe and North America, Canadian Scholarʼs
Press, Toronto 1997, pp. 537-62; for American immigrants, J. Harles, Politics in the Lifeboat:
Immigrants and the American Democratic Order, Westview Press, Boulder 1993. On the convergence in political values between anglophones and francophones in Canada, see S. Dion, “Le
Nationalisme dans la Convergence Culturelle”, in R. Hudon-R. Pelletier (eds.), LʼEngagement Intellectuel: Melanges en lʼhonneur de Léon Dion, Les Presses de lʼUniversité Laval, Sainte-Foy 1991. In
fact, on many issues, national minorities tend to be more liberal than the majority. For example,
Scots, Québécois and Catalans tend to be more liberal than their majority counterparts on issues
regarding gay rights, gender equality or foreign aid. See W. Kymlicka, Politics in the Vernacular:
Nationalism, Multiculturalism, Citizenship, chaps. 10-15, Oxford University Press, Oxford 2001.
Will Kymlicka
55
respond to such non-liberal groups is an important one, to which I
will return.
But the overwhelming majority of debates about minority rights
within Western democracies are not debates between a liberal majority and communitarian minorities, but debates amongst liberals about
the meaning of liberalism. They are debates between individuals and
groups who endorse the basic liberal-democratic consensus, but who
disagree about the interpretation of these principles in multiethnic
societies – in particular, they disagree about the proper role of language, nationality, and ethnic identities within liberal-democratic societies and institutions. Groups claiming minority rights insist that
certain forms of public recognition for their language, practices and
identities are not only consistent with basic liberal-democratic principles, including the importance of individual autonomy, but may
indeed be required by them.
This leads to the second problem with the pre-1989 debate – namely, the assumption that liberal principles are inherently opposed to
minority rights claims. We now know that things are much more
complicated, particularly under modern conditions of ethnocultural
pluralism. We have inherited a set of assumptions about what liberal
principles require, but these assumptions first emerged in Eighteenthcentury United States, or Nineteenth-century England, where there
was very little ethnocultural heterogeneity. Virtually all citizens
shared the same language, ethnic descent, national identity, and
Christian faith. It is increasingly clear that we cannot rely on the interpretation of liberalism developed in those earlier times. We need to
judge for ourselves what liberalism requires under our own conditions of ethnocultural pluralism.
This then has led to the second stage of the debate, in which the
question becomes: what is the possible scope for minority rights
within liberal theory? Framing the debate this way does not resolve
the issues. On the contrary, the place of minority rights within liberal
theory remains very controversial. But it changes the terms of the
debate. The issue is no longer how to protect communitarian minorities from liberalism, but whether minorities that share basic liberal
principles nonetheless need minority rights. If groups are indeed liberal, why do they want minority rights? Why arenʼt they satisfied with
the traditional common rights of citizenship?
Razʼs 1990 article on national self-determination (co-authored with
Avishai Margalit) and his 1994 article on multiculturalism are paradigm
examples of this new approach, and both played a pivotal step in mov-
56
Will Kymlicka
ing the debate forward. Drawing on the account of autonomy developed
in The Morality of Freedom, Raz insisted that the autonomy of individuals – their ability to make good choices amongst good lives – is
intimately tied up with access to their culture, with the prosperity and
flourishing of their culture, and with the respect accorded their culture
by others. Other liberal writers like David Miller, Yael Tamir and Jeff
Spinner and myself have developed and elaborated this theme6.
The details of the argument vary, but each of us, in our own way,
argues that there are compelling interests related to cultural membership and cultural identity, which are fully consistent with liberal principles of freedom and equality, and which justify adopting measures
for «fostering and encouraging the prosperity, cultural and material,
of cultural groups, and respecting their identity»7. We can call this
the “liberal culturalist” position, and I think it has quickly become
the dominant position amongst liberals working in this field8.
Critics of liberal culturalism have raised many objections to this
entire line of argument: some deny that we can intelligibly distinguish or individuate “cultures” or “cultural groups”; others deny that
we can make sense of the claim that individuals are “members” of
cultures; yet others say that even if can make sense of the claim that
individuals are members of distinct cultures, we have no reason to
assume that the wellbeing of the individual is tied in any way with
the flourishing of the culture9. These are important objections that
must be answered if liberal culturalism is to properly defended.
However, since I am sympathetic to Razʼs line of argument, I will
set these objections aside, and assume that there is indeed an impor6 Y. Tamir, Liberal Nationalism, Princeton University Press, Princeton 1993; J. Spinner, The
Boundaries of Citizenship: Race, Ethnicity and Nationality in the Liberal State, Johns Hopkins
University Press, Baltimore 1994; D. Miller, On Nationality, Oxford University Press, Oxford
1995; W. Kymlicka, Multicultural Citizenship, Oxford University Press, Oxford 1995.
7 See J. Raz, Multiculturalism, «Ratio Juris», 11/3, 1998, p. 197. Even Charles Taylorʼs account of the «politics of recognition», which is often described as a “communitarian” position,
can be seen as a form of “liberal culturalism”, since he too argues that people demand recognition
of their differences, not instead of individual freedom, but rather as a support and precondition for
freedom. Cfr. C. Taylor, “The Politics of Recognition”, in A. Gutmann (ed.), Multiculturalism and
the «Politics of Recognition», Princeton University Press, Princeton 1992, pp. 25-73. However,
Taylor mixes this liberal argument for multiculturalism with another more communitarian argument about the intrinsic value of group survival, and his policy recommendations reflect this hybrid mixture of liberal and communitarian reasoning.
8 It is an interesting question why this liberal culturalist view – which is a clear departure from
the dominant liberal view for several decades – has become so popular so quickly. For some
speculations, see W. Kymlicka, Politics in the Vernacular, chap. 2.
9 For a pithy statement of these points, see J. Waldron, “Minority Cultures and the Cosmopolitan Alternative” in W. Kymlicka (ed.), The Rights of Minority Cultures, Oxford University
Press, Oxford 1995, pp. 93-121.
Will Kymlicka
57
tant sense in which the wellbeing and autonomy of individuals is tied
to their cultural membership. This still leaves some difficult issues
even for those who accept the liberal culturalist position. The first
relates to illiberal minorities. As I noted earlier, there is a small subset of minority groups within Western democracies which seek to
suppress the autonomy of their members, and such illiberal groups
would presumably use minority rights almost exclusively for this
purpose. Second, there are illiberal strands in every culture, even the
most liberal and democratic, and this raises the worry that some
forms of minority rights could be misused, even within generally liberal-minded groups, to undermine, rather then support, individual autonomy. Indeed, many liberals have supposed that “group rights” are
inherently a threat to individual rights. This raises two fundamental
problems for any liberal theory of minority rights:
a) how should the state respond to the claims of groups which are
illiberal? Should they be entitled to claim minority rights, or
should these rights be restricted to groups that have embraced the
liberal consensus? This is a question about the kinds of groups
entitled to minority rights;
b) what sort of restrictions or conditions must be set on minority
rights to ensure that they serve to supplement or strengthen individual rights and individual liberty, rather than restrict individual
rights? This is a question about the kinds of rights that should be
accorded to groups.
Any liberal theory must address these two questions, and of course
Raz has done so. To oversimplify, he answers them as follows:
a) Illiberal groups have no claim to support: only groups that respect
and enable the autonomy of their members deserve support. If illiberal groups desire support, they must abandon or neutralize
their illiberal practices;
b) The key restriction on minority rights is that they must allow for a
right of exit. Granting rights to (generally liberal) groups is not a
threat to individual liberty so long as individuals have an effective
right of exit (which includes knowledge of the options available in
the larger society, and the general skills needed to succeed in it).
These two answers are controversial, even amongst “liberal culturalists” who are otherwise sympathetic to Razʼs view. Regarding
the first question, many liberal culturalists would be more generous
to nonliberal groups, particularly if they are either ethnoreligious
sects (like the Amish) or indigenous peoples (like the Inuit). In the
case of groups like the Amish, some authors argue that religious to-
58
Will Kymlicka
leration is a distinct liberal value which may sometimes conflict with,
and take precedence over, autonomy10. In the case of groups like the
Inuit, some authors argue that, as conquered or colonized peoples,
indigenous groups have rights to self-government which predate the
rise of the state established by colonizing settlers, and that the state
therefore has not acquired the right to impose liberal norms on them11.
While Raz implicitly assumes that states have the right to impose
liberal norms on the indigenous peoples that they have colonized, he
does not explicitly address the question of how or why this assertion
of state authority over colonized peoples is legitimate 12.
Regarding the second question of restrictions on minority rights,
virtually all liberal culturalists would agree that a right of exit is crucial to any liberal theory of minority rights. However, there remain
disputes about the meaning and preconditions of such a right. Chandran Kukathas, for example, argues that it only requires a formal legal right of exit, and he therefore objects to Razʼs requirement that
the children of minority groups must learn a core curriculum, national language or set of general skills 13.
Okin, on the other hand, insists that a truly effective right of exit,
particularly for women, requires not only formal rights and minimal
education, but also active state intervention to eliminate sexist cultural practices and stereotypes which make it difficult or impossible
for women to leave a community, even when they are oppressed
within it14. She argues that Razʼs account of a right of exit is therefore too weak.
Much more could be said about these two questions. I have quibbles with Razʼs answers to these questions, but I will not pursue them
here. Instead, I want to raise a more general concern about the frame10 J. Spinner, The Boundaries of Citizenship: Race, Ethnicity and Nationality in the Liberal
State, Johns Hopkins University Press, Baltimore 1994; W. Galston, Two Concepts of Liberalism,
«Ethics», 105/3, 1995, pp. 516-34. This is particularly likely to be the view of those who endorse
a more “political” conception of liberalism, in Rawlsʼs sense, rather than the more “comprehensive” conception that Raz adopts (and I share).
11 J. Tully, Strange Multiplicity: Constitutionalism in an Age of Diversity, Cambridge University Press, Cambridge 1995. Note that neither of these arguments applies to the (non-religious)
practices of voluntary immigrants. In such cases, most liberal culturalists agree with Raz that it is
appropriate for the state to insist on respect for liberal norms. This would apply to many controversial issues regarding immigrant groups, such as female circumcision or forced arranged marriages.
12 J. Raz, The Morality of Freedom, Oxford University Press, Oxford 1986, pp. 423-24.
13 C. Kukathas, Cultural Toleration, in I. Shapiro-W. Kymlicka (eds.) «Ethnicity and Group
Rights: NOMOS», 39, NYU Press, New York 1997, pp. 69-104.
14 S. Okin, Mistresses of their own Destiny? Group Rights, Gender, and Realistic Rights of Exit,
presented at the annual meeting of the “American Political Science Association”, Sept. 1998.
Will Kymlicka
59
work underlying this second stage of the debate, including Razʼs contributions. To recap, in this second stage, the question of minority
rights is reformulated as a question within liberal theory, and the aim
is to show that some (but not all) minority rights claims actually enhance liberal values. In my opinion, this second stage reflects genuine progress. We now have a better understanding of the claims being
made by ethnocultural groups, and of the normative issues they raise.
We have moved beyond the sterile and misleading debate about individualism and collectivism.
However, I think this second stage also needs to be questioned.
While it incorporates a more accurate understanding of the nature of
most ethnocultural groups, and the demands they place on the liberal
state, it misinterprets the nature of the liberal state, and the demands
it places on minorities.
3. A Third Stage? Minority Rights as a Response to Nation-Building
Let me explain. The assumption – generally shared by both defenders and critics of minority rights, though not by Raz himself – is
that the liberal state, in its normal operation, abides by a principle of
ethnocultural neutrality. That is, the state is “neutral” with respect to
the ethnocultural identities of its citizens, and indifferent to the ability of ethnocultural groups to reproduce themselves over time. On this
view, liberal states treat culture in the same way as religion - i.e., as
something which people should be free to pursue in their private
lives, but which is not the concern of the state (so long as they respect the rights of others). Just as liberalism precludes the establishment of an official religion, so too there cannot be official cultures
that have preferred status over other possible cultural allegiances15.
Indeed, some theorists argue that this is precisely what distinguishes liberal “civic nations” from illiberal “ethnic nations”16. Ethnic nations take the reproduction of a particular ethnonational culture
and identity as one of their most important goals. Civic nations, by
contrast, are “neutral” with respect to the ethnocultural identities of
their citizens, and define national membership purely in terms of adherence to certain principles of democracy and justice. For minorities
to seek special rights, on this view, is a departure from the traditional
15 M. Walzer, “Comment”, in A. Gutmann (ed.), Multiculturalism and the «Politics of Recognition», pp. 100-01.
16 M. Ignatieff, Blood and Belonging: Journeys into the New Nationalism, Farrar, Straus and
Giroux (eds.), New York 1993.
60
Will Kymlicka
operation of the liberal state. Therefore, the burden of proof lies on
anyone who would wish to endorse such minority rights.
This is the burden of proof which liberal culturalists try to meet
with their account of the importance of cultural membership in securing individual autonomy and self-respect. Liberal culturalists try to
show that minority rights supplement, rather than diminish, individual freedom and equality, and help to meet legitimate interests that
would otherwise go unmet in a state that clung rigidly to ethnocultural neutrality.
The presumption in the second stage of the debate has been that
advocates of minority rights must demonstrate compelling reasons to
depart from the norm of ethnocultural neutrality. This is not the way
Raz himself describes the issue – he has never accepted that liberal
states are or can be ethnoculturally neutral – but even he seems to
accept that the burden of proof falls on those who seek to deviate
from “difference-blind” institutions or procedures17.
I would argue, however, that the idea that liberal-democratic states
(or “civic nations”) are ethnoculturally neutral is manifestly false,
both historically and conceptually. The religion model is altogether
misleading as an account of the relationship between the liberal-democratic state and ethnocultural groups. Once we abandon this model,
and adopt a more accurate conception of the liberal state, we will
also have to rethink our theory of minority rights, and address a range
of issues not present in Razʼs theory.
Why is the ethnocultural neutrality model inaccurate? Consider
the actual policies of the United States, which is often cited as the
prototypically “neutral” state. Historically, decisions about the boundaries of state governments, and the timing of their admission into the
federation, were deliberately made to ensure that anglophones would
be a majority within each of the fifty states of the American federation. This helped establish the dominance of English throughout the
territory of the United States. And the continuing dominance of English is ensured by several ongoing policies. For example, it is a legal
requirement for children to learn the English language in schools; it
is a legal requirement for immigrants (under the age of 50) to learn
the English language to acquire American citizenship; and it is a de
facto requirement for government employment that the applicant
speak English.
17 See his discussion of the “why multiculturalism?” question in J. Raz, Multiculturalism, cit.,
p. 200.
Will Kymlicka
61
These decisions about the drawing of internal boundaries, the language of education and government employment, and the requirements of citizenship are profoundly important. They are not isolated
exceptions to some norm of ethnocultural neutrality. On the contrary,
they have shaped the very structure of the American state and of
American society.
These policies have been pursued with the intention of promoting
the integration of American citizens into what I call a “societal culture”. By a societal culture, I mean a territorially-concentrated culture, centred on a shared language which is used in a wide range of
societal institutions, in both public and private life (schools, media,
law, economy, government, etc.). I call it a “societal” culture to emphasize that it involves a common language and social institutions,
rather than common religious beliefs, family customs or personal
lifestyles. Societal cultures within a modern liberal democracy are
inevitably pluralistic, containing Christians as well as Muslims, Jews
and atheists; heterosexuals as well as gays; urban professionals as
well as rural farmers; conservatives as well as socialists. Such diversity is the inevitable result of the rights and freedoms guaranteed to
liberal citizens – including freedom of conscience, association,
speech, political dissent and rights to privacy – particularly when
combined with an ethnically diverse population. This diversity, however, is balanced and constrained by linguistic and institutional cohesion; cohesion that has not emerged on its own, but rather is the result of deliberate state policies.
The American government has deliberately created and sustained
such a societal culture: it has systematically promoted a common language, and a sense of common membership in, and equal access to, the
social institutions operating in that language. It has encouraged citizens
to view their life-chances as tied up with participation in common societal institutions that operate in the English language, and nurtured a
national identity defined in part by this common membership in a societal culture. Nor is the Unites States unique in this respect. Promoting integration of citizens into a societal culture is part of a “nationbuilding” project that all liberal democracies have engaged in.
Obviously, the sense in which English-speaking Americans share
a common “culture” is a very thin one, since it does not preclude differences in religion, personal values, family relationships or lifestyle
choices. But it is far from trivial. On the contrary, as I discuss below,
attempts to integrate people into such a common societal culture have
often faced serious resistance. Although integration in this sense
62
Will Kymlicka
leaves a great deal of room for both the public and private expression
of individual and collective differences, some groups have nonetheless rejected the idea that they should integrate into a common societal culture, and view their life-chances as tied up with the societal
institutions conducted in the majorityʼs language.
So we need to replace the idea of an “ethnoculturally neutral” state
with a new model of a liberal democratic state – what I call the “nation-building” model. To say that states are nation-building is not to
say that governments can only promote one societal culture. It is possible for government policies to encourage the sustaining of two or
more societal cultures within a single country – indeed, as I discuss
below, this is precisely what characterizes multination states like
Switzerland, Belgium, Spain or Canada.
However, historically, virtually all liberal democracies have, at one
point or another, attempted to diffuse a single societal culture throughout all of its territory18. Nor should this be seen purely as a matter of
cultural imperialism or ethnocentric prejudice. Nation-building serves
a number of important liberal-democratic goals. For example, a modern economy requires a mobile, educated and literate workforce.
Standardized public education in a common language has often been
seen as essential if all citizens are to have equal opportunity to work
in this modern economy. Also, participation in a common societal culture has often been seen as essential for generating the sort of solidarity required by a welfare state, since it promotes a sense of common
national identity and membership. Moreover, a common language has
been seen as essential to democracy – how can “the people” govern
together if they cannot understand one another? In short, promoting
integration into a common societal culture has been seen as essential
to promoting social equality and political cohesion in modern states.
Indeed, one could argue that the only sort of liberal democracy
that exists in the world has arisen through efforts to create liberalized
societal cultures. Liberal reformers have generally, if implicitly, accepted that the relevant unit or context within which to pursue liberal
principles of freedom and equality is societal cultures consolidated
by state nation-building policies. In this sense, as Tamir puts it, «most
liberals are liberal nationalists»19.
18 To my knowledge, Switzerland is perhaps the only exception: it never made any serious
attempt to pressure its French- and Italian-speaking minorities to integrate into the German majority. All of the other contemporary Western multination states have at one time or another made a
concerted effort to assimilate their minorities, and only reluctantly gave up this ideal.
19 Y. Tamir, Liberal Nationalism, p.139.
Will Kymlicka
63
Of course, nation-building can also be used to promote illiberal
goals. As Margaret Canovan puts it, nationhood is like a «battery»
which makes states run – the existence of a common national identity motivates and mobilizes citizens to act for common political
goals – and these goals can be liberal or illiberal20.
The «battery» of nationalism can be used to promote liberal goals
(such as social justice, democratization, equality of opportunity, economic development) or illiberal goals (chauvinism, xenophobia, militarism, and unjust conquest). The fact that the «battery» of nationalism
can be used for so many functions helps to explain why it has been so
ubiquitous. Liberal reformers invoke nationhood to mobilize citizens
behind projects of democratization and social justice (e.g., comprehensive health care or public schooling); illiberal authoritarians invoke nationhood to mobilize citizens behind attacks on alleged enemies of the
nation, be they foreign countries or internal dissidents. This is why nation-building is just as common in authoritarian regimes in the West as
in democracies. Consider Spain under Franco, or Greece or Latin
America under the military dictators. Authoritarian regimes also need
a «battery» to help achieve public objectives in complex modern societies. What distinguishes liberal from illiberal states is not the presence
or absence of nation-building, but rather the ends to which nationbuilding is put, and the means used in pursuit of nation-building.
So states have engaged in this process of “nation-building”21. Decisions regarding official languages, core curriculum in education,
and the requirements for acquiring citizenship, all have been made
with the express intention of diffusing a particular societal culture
throughout the territory of the state, and of promoting a national
identity based on participation in that societal culture.
If this nation-building model provides a more accurate account of
the nature of modern liberal democratic states than the ethnocultural
neutrality model, how does this affect the issue of minority rights? I
believe it gives us a very different perspective on the debate. In particular, it changes the burden of proof. As I noted earlier, during the
second stage of the debate both advocates and critics of minority
rights tended to assume that the onus was on advocates to show compelling reasons why states should deviate from ethnocultural neutrality. Once we recognize that states are not ethnoculturally neutral, but
20
M. Canovan, Nationhood and Political Theory, Edward Elgar, Cheltenham 1996.
For the ubiquity of this process, see E. Gellner, Nations and Nationalism, Blackwell, Oxford 1983; B. Anderson, Imagined Communities: Reflections on the Origin and Spread of Nationalism, New Left Books, London 1983.
21
64
Will Kymlicka
rather engage in the promotion and diffusion of a dominant societal
culture, then we must ask whether these nation-building policies create injustices for minorities. The burden of proof falls on the state to
show that minority rights are not required to remedy or counteract
injustices which arise from state nation-building.
This would be a new approach to the debate, which I am trying to
develop in my own recent work. I cannot explore all of its implications, but let me give two examples of how this new model of the
liberal state may affect the debate over minority rights. I will first try
to develop this new model in my own terms (section 4), and then
consider the extent to which this new model requires revising or expanding Razʼs account (section 5).
4. Two Examples
How does nation-building affect minorities? As Charles Taylor
notes, the process of nation-building inescapably privileges members
of the majority culture:
If a modern society has an “official” language, in the fullest sense of the term,
that is, a state-sponsored, – inculcated and defined – language and culture, in which
both economy and state function, then it is obviously an immense advantage to
people if this language and culture are theirs. Speakers of other languages are at a
distinct disadvantage22.
This means that the members of minority cultures face a choice. If
all public institutions are being run in another language, minorities
face the danger of being marginalized from the major economic, academic, and political institutions of the society. Faced with this dilemma, minorities have (to oversimplify) three basic options:
I) they can accept integration into the majority culture, although
perhaps attempt to renegotiate the terms of integration;
II) they can seek the sorts of rights and powers of self-government
needed to maintain their own societal culture – i.e., to create
their own economic, political and educational institutions in their
own language;
III) they can accept permanent marginalization.
We can find some ethnocultural groups that fit each of these categories (and other groups that are caught between them). For example,
22 C. Taylor, “Nationalism and Modernity”, in J. McMahan-R. McKim (eds.), The Ethics of
Nationalism, Oxford University Press, Oxford 1997, p. 34.
Will Kymlicka
65
some immigrant groups choose permanent marginalization. This is
true, for example, of the Hutterites in Canada, or the Amish in the
United States. But the option of accepting marginalization is only likely to be attractive to ethnoreligious groups whose theology requires
them to avoid all contact with the modern world. The Hutterites and
Amish are unconcerned about their marginalization from universities
or legislatures, since they view such “worldly” institutions as corrupt.
Virtually all other ethnocultural minorities, however, seek to participate in the modern world, and to do so, they must either integrate
or seek the self-government needed to create and sustain their own
modern institutions. Faced with this choice, ethnocultural groups
have responded in different ways.
National Minorities: National minorities have typically responded
to majority nation-building by engaging in their own competing nation-building. Indeed, they often use the same tools that the majority
uses to promote this nation-building – e.g., control over the language
and curriculum of schooling, the language of government employment, the requirements of immigration and naturalization, and the
drawing of internal boundaries. We can see this clearly in the case of
Québécois nationalism, which has largely been concerned with gaining and exercising these nation-building powers. The same is true of
Flemish or Catalan nationalism. But it is also increasingly true of
indigenous peoples in various parts of the world, who have adopted
the language of “nationhood” and “nation-building”23.
Intuitively, the adoption of such minority nation-building projects
seems fair. If the majority can engage in legitimate nation-building,
why not national minorities, particularly those which have been involuntarily incorporated into a larger state? To be sure, liberal principles set limits on how national groups, whether majority or minority,
go about nation-building. Liberal principles preclude any attempts at
ethnic cleansing, or stripping people of their citizenship, or the violation of human rights. These principles will also insist that any national group engaged in a project of nation-building must respect the
right of other nations within its jurisdiction to protect and build their
own national institutions. For example, the Québécois are entitled to
assert national rights vis-a-vis the rest of Canada, but only if they
respect the rights of Aboriginals within Quebec to assert national
rights vis-a-vis the rest of Quebec.
23 G. Alfred, Heeding the Voices of our Ancestors: Kahnawake Mohawk Politics and the Rise of
Native Nationalism, Oxford University Press, Toronto 1995.
66
Will Kymlicka
These limits are important, but they still leave significant room, I
believe, for legitimate forms of minority nationalism. Moreover, these
limits are likely to be similar for both majority and minority nations.
All else being equal, national minorities should have the same tools
of nation-building available to them as the majority nation, subject to
the same liberal limitations.
What we need, in other words, is a consistent theory of permissible forms of nation-building within liberal democracies. I do not
think that political theorists have yet developed such a theory. One of
the many unfortunate side-effects of the dominance of the “ethnocultural neutrality” model of the liberal state is that liberal theorists have
never explicitly confronted this question.
I do not have a fully developed theory about the permissible forms
of nation-building24. My aim here is not to promote any particular
theory of permissible nation-building, but simply to insist that this is
the relevant question we need to address. That is, the question is not
“have national minorities given us a compelling reason to abandon
the norm of ethnocultural neutrality?”, but rather “why should national minorities not have the same powers of nation-building as the
majority?”. This is the context within which minority nationalism
must be evaluated – i.e., as a response to majority nation-building,
using the same tools of nation-building. And the burden of proof
surely rests on those who would deny to national minorities the powers of nation-building which the national majority takes for granted.
Immigrants: Historically, nation-building has not neither desirable
nor feasible for immigrant groups. Instead, they have traditionally
accepted the expectation that they will integrate into the larger societal culture. Indeed, few immigrant groups in any Western democracy
have objected to the requirement that they must learn an official language as a condition of citizenship, or that their children must learn
the official language in school. They have accepted the assumption
that their life-chances, and even more the life-chances of their children, will be bound up with participation in mainstream institutions
operating in the majority language.
However, this is not to say that immigrants do not suffer injustices
as a result of nation-building policies. After all, the state is not neutral with respect to the language and culture of immigrants: it im24 I offer guidelines for distinguishing liberal and illiberal forms of nation-building in W.
Kymlicka-M. Opalski Can Liberal Pluralism be Exported? Western Political Theory and Ethnic
Relations in Eastern Europe, Oxford University Press, Oxford 2001.
Will Kymlicka
67
poses a range of de jure and de facto requirements for immigrants to
integrate in order to succeed. These requirements are often difficult
and costly for immigrants to meet. Since immigrants cannot respond
to this by adopting their own nation-building programs, but rather
must attempt to integrate as best they can, it is only fair that the state
minimize the costs involved in this state-demanded integration.
Put another way, immigrants can demand fairer terms of integration. If a country is going to pressure immigrants to integrate into
common institutions operating in the majority language, then it must
ensure that the terms of integration are fair. To my mind, this demand
has two basic elements:
a) we need to recognize that integration does not occur overnight,
but is a difficult and long-term process which operates inter-generationally. This means that special accommodations are often required for immigrants on a transitional basis. For example, certain
services should be available in the immigrantsʼ mother tongue,
and support should be provided for those organizations and groups
within immigrant communities which assist in the settlement and
integration process;
b) we need to ensure that the common institutions into which immigrants are pressured to integrate provide the same degree of respect, recognition and accommodation of the identities and practices of immigrants as they traditionally have of the identities of
the majority group.
This requires a systematic exploration of our social institutions to
see whether their rules, structures and symbols disadvantage immigrants. For example, we need to examine dress-codes, public holidays, or even height and weight restrictions to see whether they are
biased against certain immigrant groups. We also need to examine
the portrayal of minorities in school curricula or the media to see if
they are stereotypical, or fail to recognize the contributions of ethnocultural groups to national history or world culture. And so on. These
measures are needed to ensure that liberal states are offering immigrants fair terms of integration25.
Others may disagree with the fairness of some of these policies.
The requirements of fairness are not obvious, particularly in the context of people who have chosen to enter a country, and political theorists have done little to illuminate the issue. Here again, the domi25 W. Kymlicka, Finding Our Way: Rethinking Ethnocultural Relations in Canada, Oxford
University Press, Toronto 1998, chap. 3.
68
Will Kymlicka
nance of the “ethnocultural neutrality” model of the liberal state has
blinded liberal theorists to the importance of the question. My aim
here is not to promote a particular theory of fair terms of integration,
but rather to insist that this is the relevant question we need to address. The question is not whether immigrants have given us a compelling reason to diverge from the norm of ethnocultural neutrality,
but rather how can we ensure that state policies aimed at pressuring
immigrants to integrate are fair?
I believe that we could extend this method to look at other types
of ethnocultural groups that are neither national minorities nor immigrants, such as African-Americans, the Roma in Central Europe,
or Russian settlers in the Baltics. In each case, I think it is possible
– and indeed essential – to view their claims to minority rights as a
response to perceived injustices that arise out of nation-building policies26. Each groupʼs claims can be seen as specifying the injustices
that majority nation-building has imposed on them, and as identifying the conditions under which majority nation-building would cease
to be unjust.
If we combine these different demands into a larger conception of
ethnocultural justice, we can say that majority nation-building in a
liberal-democracy is legitimate under the following conditions:
a) nation-building is inclusive: i.e., no groups of long-term residents
are permanently excluded from membership in the nation. Everyone living on the territory must be able to gain citizenship, and
become an equal member of the nation if they wish to do so. This
condition responds to and remedies the injustice which groups
such as metics or racial caste have faced as a result of nationbuilding in many Western democracies;
b) the concept of national identity and integration must be pluralistic
and tolerant: i.e., the sort of sociocultural integration which is required for membership in the nation should be understood in a
“thin” sense, primarily involving institutional and linguistic integration, not the adoption of any particular set of customs, religious
beliefs, or lifestyles. Integration into common institutions operating in a common language should still leave maximal room for the
expression of individual and collective differences, both in public
and private, and public institutions should be adapted to accommodate the identity and practices of ethnocultural minorities. This
26 I explore the claims of these other types of groups in W. Kymlicka-M. Opalski, Can Liberal Pluralism be Exported? Western Political Theory and Ethnic Relations in Eastern Europe.
Will Kymlicka
69
condition responds to and remedies the injustice that many immigrant groups have faced as a result of nation-building;
c) all national groups within a state, not just the majority nation, are
allowed to engage in their own nation-building, to enable them to
maintain themselves as distinct societal cultures. This condition
responds to and remedies the injustice that many national minorities have faced as a result of nation-building.
These three conditions have rarely been met within Western democracies, but we can see a clear trend within most democracies towards greater acceptance of them. And I think that the major task
facing any liberal theory of multiculturalism is to better understand
these conditions of ethnocultural justice, by showing how particular
minority rights claims are related to, and a response to, state nationbuilding policies.
5. Raz on Nationalism and Nation-Building
How does this relate to Razʼs theory? At one level, I think that
there is no inherent conflict between Razʼs approach and the one that
I have just sketched. Indeed, his account of appropriate multiculturalism policies for immigrant groups27, and his account of the rights of
national groups to self-determination, can easily be (re)described in
the terms I have just outlined.
For examine, consider his list of multicultural policies which immigrant groups can rightly seek:
– While children should be educated to be familiar with the history and traditions of
the dominant culture of the country, they should also be educated in the culture
of their group, if their parents so desire;
– The customs and practices of different groups, within the limits of permissible
toleration, should be recognized;
– The link between poverty, under-education and ethnicity should be dissolved;
– There should be generous public support for cultural institutions (museums,
theatre etc.);
– Public space should accommodate all cultural groups.28
Each of these policies can be redescribed, I believe, as helping to
ensure fairer terms of integration into the dominant societal culture
of a new country.
27
28
J. Raz, Multiculturalism.
Ivi, pp. 198-99.
70
Will Kymlicka
Similarly, Razʼs account of the right of self-determination for national groups can be seen as a defense of the right of national minorities to engage in a range of nation-building policies so as to
maintain their distinct societal cultures, with their own public institutions operating in their own language29.
So most or all of what Raz says regarding the substantive rights of
immigrants and national minorities is consistent with the sort of model
I am advancing. His account can be seen as putting flesh on the skeletal framework that I have outlined; conversely, my framework can be
seen as providing further support for his substantive claims about the
legitimate claims of immigrants and national minorities.
However, at another level, Razʼs account is in some tension with
mine. For he insists that his conception of multiculturalism requires
not only this or that substantive policy for this or that group, but also
a complete revision in our very understanding of the nation-state. In
particular, he argues that multiculturalism «calls on us to radically to
reconceive society, changing its self-image», in two respects:
a) it requires that «we should learn to think of our societies as consisting not of a majority and minorities, but as constituted by a
plurality of cultural groups»30. Indeed, he says that multiculturalism is primarily a matter of such a change in self-image, rather
than of specific policies31.
b) it also calls on us to «replace the ideology of nationalism», and
«reject common nationality as the common bond on which political units must be based»32.
Itʼs important to note that my conception of minority rights does
not involve either of these two claims, and in a certain sense rejects
both. First, the whole point of my approach is precisely to emphasize
the extent to which most liberal democratic societies do consist of a
majority, which uses state power to engage in nation-building, and
various minorities, who then have to decide how to respond to these
nation-building policies. If there were no majority, and hence no majority nation-building, we could not think of minority rights as a response to the potential injustices of majority nation-building.
Indeed, I would argue that the major advances in thinking about
multiculturalism and minority rights in the past decade have arisen
29 A. Margalit-J. Raz, National Self-Determination, «Journal of Philosophy», 87/9, 1990, pp.
439-61.
30 J. Raz, Multiculturalism, p. 197.
31 Ivi, p. 200.
32 Ivi, p. 196 and p. 202.
Will Kymlicka
71
precisely out of an awareness of the pervasiveness and significance
of majority/minority relations – i.e., an awareness of the benefits accrued by majorities in majoritarian, nation-building states, and the
subsequent pressures and disadvantages faced by minorities. It is often the critics of multiculturalism, at least in the North American
context, who say that we donʼt have a (privileged) majority and (disadvantaged) minorities, and therefore donʼt need multiculturalism
policies.
Perhaps Raz would agree that contemporary societies can only be
understood through the lens of majority/minority dynamics, but
would insist that the point of multiculturalism would be to eliminate
these dynamics. This then leads us to Razʼs second claim: namely,
that multiculturalism challenges nationalism, and the privileging of
national identities as the locus of political community. Iʼm not sure
what precisely Raz means by this, but one obvious interpretation
would be to say that multiculturalism challenges the very legitimacy
of state nation-building policies, and seeks to prevent majorities from
using state power to promote the integration of citizens into common
societal cultures.
If this is what Raz means (and Iʼm not sure it is), then I think it is
problematic, both empirically and normatively. Empirically, I see no
evidence that either immigrants or national minorities are challenging the basic legitimacy of nation-building policies, or the legitimacy
of states trying to integrate citizens into societal cultures. It is obvious that national minorities are not challenging this, since the whole
aim of minority nationalism is precisely to gain these nation-building
powers for themselves, and to use these same powers to consolidate
their own societal culture in their own region of the country. They are
insisting that they live in multination states, in which two or more
national groups are able to exercise nation-building powers on a regional basis. This insistence that they live in a multination state is, in
one sense, a challenge to the traditional ideal of a (mono-national)
“nation-state”. But a multination state is not a postnational state: it is
still organized along national lines, and still asserts that national
groups have the right to self-government – i.e., to form their own
autonomous political communities within the larger state. It therefore
accepts the legitimacy of nationalism as an ideology, and accepts that
nations form a basic context of liberal political community33.
33 For evidence that the claims of national minorities are indeed driven by nationalism, see M.
Keating-J. McGarry Minority Nationalism and the Changing International Order, Oxford University Press, Oxford 2001.
72
Will Kymlicka
It might seem that the claims of immigrants are more of a challenge to the legitimacy of nation-building. But in fact the vast majority of immigrants also accept the validity of nation-building. For example, as I noted earlier, few immigrant groups in any Western democracy have objected to the requirement that they must learn an
official language as a condition of citizenship, or that their children
must learn the official language in school. They have accepted the
assumption that their life-chances, and even more the life-chances of
their children, will be bound up with participation in mainstream institutions operating in the majority language. What they are seeking
is fair terms of integration into the dominant societal culture.
So far as I can tell, therefore, neither immigrants nor national minorities are challenging the centrality of national cultures and national
identities to political life, or the legitimacy of using state power to
consolidate these national cultures and identities.
Iʼm not sure whether Raz really disagrees with any of this. After
all, he agrees that immigrants should learn a «common culture», in
part through a «common education»34 which includes knowledge of
the basic skills required to have equal opportunity in the economy
and to participate in mainstream political life. It is difficult to see
what this could possibly mean other than the sort of linguistic and
institutional integration into a common societal culture that has been
the aim of traditional nation-building policies. How else could immigrants achieve economic equality of opportunity except by knowing the dominant language, and participating in integrated institutions
of higher education conducted in the dominant language? Indeed,
how would we measure equality of opportunity except by seeing
whether immigrants are succeeding in such institutions? And how
else can they participate in politics?
Given Razʼs call for a common culture and a common education,
and for equality of opportunity in economics and politics, it is quite
possible that he endorses much if not all of what I have been calling
“nation-building” policies. Perhaps we simply disagree about whether
to use the terms “nationalism” and “nation-building”. Perhaps he
thinks that if liberal states allow national minorities to be self-governing, and allow immigrants to integrate rather than assimilate,
then they have distanced themselves so far from traditional forms of
nationalism that it is tantamount to «rejecting the ideology of nationalism».
34
J. Raz, Multiculturalism, p. 202 and p. 203.
Will Kymlicka
73
If this is his view, then our dispute is merely semantic. In my
view, if liberal states accord rights of self-government to national
groups, and pressure immigrants to integrate linguistically and institutionally into the societal culture of host nation, then liberal states
are still very much imbued with the ideology of nationalism. To be
sure, this is a distinctive form of nationalism: it is, in fact, a distinctively liberal form of nationalism. Indeed, one way to define liberal
nationalism is precisely that it accepts the legitimacy of minority nationalism and of immigrant multiculturalism. But this is still nationalism, and it still involves nation-building, both by the state and by
national minorities.
But our dispute may not be purely semantic. Perhaps Iʼve put too
much weight on Razʼs brief references to «common culture» and
«common education». Perhaps he only means by this that the state
can require minimal levels of knowledge (e.g., of oneʼs rights, or of
mathematics) but not any sort of linguistic or institutional integration. Perhaps he really does think that it is impermissible for the state
(or national minorities) to engage in nation-building, or to seek to
integrate immigrants linguistically and institutionally into a societal
culture. If so, then I think he is going far beyond the actual demands
of most minorities in Western democracies. Moreover, Iʼm not sure
what sorts of rights minorities would have in such a non-national or
post-national state. Imagine that the liberal state rejected nationbuilding policies, and abandoned the goal of the linguistic or institutional integration of citizens. Would national minorities still have
rights to self-determination? Would immigrants still have the right to
inclusion and representation in public media or school curriculum?
Or would it be enough to simply ensure that minorities have rights of
non-discrimination in the distribution of public funds?
Raz insists that multiculturalism isnʼt simply a matter of non-discrimination, and I agree. But on my view, part of the reason why
justice requires more than non-discrimination is that liberal states are
nation-building states. For example, it is because states are nationbuilding that justice requires granting comparable nation-building
powers to national minorities. If majorities never used state power to
pressure national minorities into integrating into majority institutions,
then national minorities wouldnʼt have the same need to control their
own levers of state power. Whether national minorities need rights of
regional self-government depends, in least in part, on the prior question of whether the majority is prone to using centralized power to
promote nation-building.
74
Will Kymlicka
Similarly, it is at least partly because states pressure immigrants to
integrate linguistically and institutionally that immigrants have a right
to respect and accommodation within the institutions that they are
being pressured to integrate into. If majorities werenʼt pressuring immigrants to integrate into common public institutions in the dominant
language – if, for example, immigrants didnʼt have to learn the dominant language to become citizens, or to have their professional
qualifications recognized – then they would have a weaker claim to
accommodation within majority institutions.
To be sure, both immigrants and national minorities would have
certain claims to respect and accommodation even in such a non-national state. But it is likely, I believe, that in a world where majorities
renounced their nation-building projects, minorities would also have
to give up many of their claims to multiculturalism and minority
rights. In my view, these are two sides of the same coin: the legitimacy of minority rights depends, at least in part, on the legitimacy of
nation-building. I would defend a robust set of minority rights, not
because nation-building is illegitimate, but precisely because it is legitimate. I believe it is legitimate for states to engage in robust forms
of nation-building – nation-building is necessary to achieve liberal
values of freedom and equality in complex modern societies – and
just for that reason, we must also defend a robust set of minority
rights, in order to remedy any inequalities which might arise as a
result of (legitimate) nation-building policies.
Razʼs claim that liberal multiculturalism involves «learning to
think of our societies as consisting not of a majority and minorities,
but as constituted by a plurality of cultural groups»35 sounds attractive at first glance, but I think it is actually a more accurate description of preliberal and premodern societies than of liberal democracies. In the past, multiethnic empires were often content to simply let
a plurality of groups alone, so long as they paid their taxes or tributes, obeyed the laws, and co-existed peacefully with other ethnic
groups. No one group tried to use state power to consolidate or diffuse its language and culture as the societal culture for all citizens.
Today, however, few states around the world are content with this
sort of co-existence. They want groups to exhibit a stronger sense of
identification or loyalty with the state, so that they will actively participate and cooperate in the projects of the state, be they militaristic
wars, economic modernization, or social justice. And to gain the ac35
Ivi, p. 197.
Will Kymlicka
75
tive support of citizens, states around the world have adopted nationbuilding programs which aim to turn co-subjects, bound only loosely
to each other by certain common laws and taxes, into co-nationals,
who share a strong bond in virtue of a common national identity and
a common commitment to national projects.
I suspect that this historical shift from multiethnic empires to nation-building states was necessary for liberalization and democratization. The consolidation of liberal democracy required shifting from
the earlier model of society as a loose plurality of cultural groups to
a modern model of a nation-building state in which the majority attempts to diffuse its national language and culture throughout the
state. And in my view, current demands for self-government by national minorities and for multiculturalism by immigrant groups do
not represent a rejection of that basic shift, but rather an attempt to
remedy the injustices which accompanied it. Far from rejecting or
repudiating the legitimacy of nation-building, they are intended precisely to create the qualifications and conditions under which it is
legitimate. As I said earlier, these conditions can be summarized as:
a) there are no groups of long-term residents which are permanently
excluded from membership in the nation, such as metics or racial
caste groups;
b) the sort of sociocultural integration which is required for membership in the nation should be understood in a “thin” sense, primarily
involving institutional and linguistic integration, not the adoption
of any particular set of customs, religious beliefs, or lifestyles;
c) national minorities are allowed to engage in their own nationbuilding, to enable them to maintain themselves as distinct societal cultures.
So far as I can tell, none of these claims repudiate the necessity or
legitimacy of majority nation-building. Rather, they presuppose the
historical shift away from the model of society as a loose plurality of
groups towards a model of a nation-building state, and seek only to
ensure that this shift is not unfair to minorities.
Perhaps Raz thinks that nation-building was not needed to secure
democratization, mass participation and equality of opportunity. Or
perhaps he thinks that while it was needed in the past, it is no longer
necessary, and that we can give up nation-building without reverting
to this older predemocratic model of the (mere) coexistence of a plurality of groups. Or perhaps he only rejects the term, rather than the
substance, of nation-building. Clarifying these issues will help determine the extent to which Razʼs theory differs from other emerging
theories of liberal multiculturalism.
SEYLA BENHABIB
THE STRUGGLE OVER CULTURE:
EQUALITY AND DIVERSITY
IN THE EUROPEAN PUBLIC SPHERE.
In this lecture I would like to examine the role of discourses of
cultural and religious difference and of the fluid boundaries between
culture and religion, as they mark contemporary political conflicts. In
particular, I want to investigate how the integration of so-called “Islamic” cultural and religious differences is defining the dialectic of
inclusion and exclusion within the European public sphere. While the
actuality of these concerns can hardly be debated – they confront us
everyday as news about bombings in Madrid or London, car burnings
and violent confrontations with the police on the streets of Paris –
their philosophical import have not been properly examined1.
Increasingly in todayʼs world, we are experiencing the growing
antagonism between religious and ethno-cultural differences and the
sphere of the political in ways that are painfully reminiscent of Europeʼs “Wars of Religion”. The representation of cultural and religious difference in the public sphere has become a central political
struggle in all western democracies. The «clash of civilizations», a
term which Samuel Huntington has made so popular, is not only outside state boundaries; it is within them as well. In particular, womenʼs bodies have become the site of symbolic confrontations between
a re-essentialized understanding of religious and cultural difference
1 This lecture draws on my work from recent years, during which I have examined citizenship,
multiculturalism, migration, and womenʼs issues within the context of the global developments
and with specific reference to the European Union. See my Transformation of Citizenship. Dilemmas of the Nation-State in an Era of Globalization. The Spinoza Lectures, Van Gorcum, Amsterdam 2001; Ead., The Claims of Culture. Equality and Diversity in the Global Era, Princeton
University Press, Princeton 2002; Ead., The Rights of Others. Aliens, Citizens and Residents. The
John Seeley Memorial Lectures, Cambridge University Press, Cambridge 2004.
78
Seyla Benhabib
and the forces of state power – whether in its civic-republican, liberal-democratic or multicultural-communitarian form. “The scarf affair”, or “lʼaffaire du foulard”, or sometimes as it is referred to as “la
voile”, in France, Germany and Turkey, will constitute my reference
point here.
I begin by examining the new discourse concerning religion in the
public square in the context of the secularization hypothesis. Then I
turn to contemporary ideologies of cultural difference, and examine,
as a next step, the position of discourses about women and their
prominence in intercultural evaluations. The “scarf affair” in France
and the case of the German-Afghani teacher, Farashda Ludin, constitute my concrete reference points. I conclude with a theoretical political framework, which I call democratic iterations, to conceptualize the new forms of contestation around equality and diversity.
1. The End of the Secularization Hypothesis
Since Max Weberʼs essay Wissenschaft als Beruf (1919), it has
been axiomatic that modernity is characterized by Entzauberung, by
the loss of magic in everyday world and the rationalized differentiation (Ausdifferenzierung) from one another of the spheres of science,
religion, law, aesthetics and philosophy. Max Weber was giving expression thereby to a widely held view since the Enlightenment, that
the spread of knowledge and science would mean not only «holding
religion within the bounds of reason», as Kant thought, but dispensing with religion altogether in the name of modern reason, as Feuerbach, Marx and Nietzsche postulated. Modernization would mean
secularization, whether in the form of an ideology critique which began with the critique of religion as the chief hindrance on the way to
an emancipated society, or as secularization in the form of “loss of
magic” in a scientific-technological rationalized everyday world.
Karl Löwith and Hans Blumenberg have already reminded us of
the theological sources of Enlightenmentʼs own belief in the secularization hypothesis: the idea of a united mankind, capable of cumulative learning and progressing toward a common Enlightenment,
has its sources in religiously inspired salvation myths2. The Enlightenment was not beyond theology but based on theological premises
2 K. Löwith, Meaning in History: The Theological Implications of the Philosophy of History,
The University of Chicago Press, Chicago 1949; H. Blumenberg, The Legitimacy of the Modern
Age. Studies in Contemporary German Social Thought, trans. by R. M. Wallace, MIT Press, Boston 1983.
Seyla Benhabib
79
of a Heilsgeschichte. And even early sociological students of modern societies, such as Alexis de Tocqueville, pointed out in midnineteenth-century that the great modern experiment with democracy
required religious foundations. Tocqueville noted that the most egalitarian of modern societies of his time, the United States, remained
deeply religious. The secularization hypothesis always had its detractors.
Today we are experiencing the world-wide growth of religious
fundamentalisms and the intense challenge to one crucial aspect of
the modernization process, in particular the separation between religion and politics; or between theological truths and political certitudes. The ever fragile walls of separation between religion and the
public square have become increasingly porous. Certainly, this phenomenon is most strikingly observed with the rise of political Islam,
which challenges not only the separation of religion and politics but
threatens the very boundaries of Islamic nation-states altogether in
the name of “Dar-ul-Islam” (the domain of Islam) to prevail over
“Dar-ul-Harb” (the domain of the infidels); however, since the Nineteen-seventies Jewish and Christian fundamentalisms have gained
more and more adherents as well. What is remarkable about these
movements is their poverty in terms of doctrinal and theological innovations when contrasted to their attractiveness for their followers
in terms of securing collective identities. I would dare say that, since
the Liberation Theology movements of Latin America, half a century
ago, we have not seen an authentic theological renovation of core
religious doctrines; instead, what we see are the manifestations of
religiosity as an identity project and the increasingly blurred lines
between religious concerns of faith and ethno-cultural preoccupations
with identity. It is this blurring of the line between religion and culture, and the difficulty of differentiating among them, which concerns
me in this lecture.
Differentiating the religious from the cultural is significant because of the commitment of liberal democracies to uphold the fundamental rights of freedom of conscience, expression and association.
Recall some contemporary controversies was Salman Rushdieʼs Satanic Verses an expression of religious apostasy, as devout Muslim
communities claimed, or was it an expression of artistic freedom and
cultural irony, as many liberals and democrats argued? Could it have
been both? Is wearing the “hijab” by observant Muslim women a
religiously mandated duty or a cultural dress code which shows great
variation in different Islamic traditions? Is polygamy religiously
80
Seyla Benhabib
sanctified by the Koran? And what about female genital mutilation?
What religious basis, if any, is there for this practice?
A principal reason for this blurring of the lines is a sociological
one which I have characterized in other works as “reverse globalization”3. The distinction between the cultural and the religious as well
as the identification of actions and customs as being one or the other
is occurring against the background of the history and experience of
colonialism and of the Westʼs encounter with the rest. Whereas at one
time it was the historical experience of western colonialism in facing
its cultural and religious “others” that forced European political
thought to clarify and solidify the line between the religious and the
cultural, today it is mass migration from Africa, Asia, and the Middle
East to the shores of resource-rich liberal democracies such as the
EU, the USA, Canada and Australia that is leading to the reframing
of the distinction between the cultural and the religious. Under conditions of immigration, a destabilization of identities and traditions is
taking place and tradition is being “reinvented”.
A historical example may illustrate for us what Eric Hobsbawm
has presciently named «the invention of tradition». The history of the
Indian custom of “widow burning” – sati – is instructive here. According to sati, a widowed wife emolates herself by ascending the
burning funeral pyre of her husband. In her analysis of the politics of
tradition formation, the Indian feminist philosopher, Uma Narayan,
puzzles over «how and why this particular practice, marginal to many
Hindu communities let alone Indian ones, came to be regarded as a
central Indian tradition»4. Her answer, based on recent historiography
of colonial India, is that the meaning as well as status of sati as a
tradition, emerged out of negotiations between British colonials and
local Indian elites. British colonial administrators who were driven,
on the one hand, by their own moral and civilizational revulsion
when confronted with this practice, were, on the other hand, equally
concerned that their intervention in outlawing this practice should not
lead to political unrest. British colonial officials investigated the status of sati as a «religious practice», assuming that if it had religious
sanction, it would be unwise to abolish it; if it did not, then the abolition could be approved of by the local elites themselves5. To determine whether a practice had a religious basis, in turn, meant finding
3
Cfr. S. Benhabib, The Claims of Culture. Equality and Diversity in the Global Era, chap. 1.
U. Narayan, Dislocating Cultures: Identities, Traditions, and Third-World Feminism,
Routledge, New York 1997, p. 61.
5 Ivi, p. 62.
4
Seyla Benhabib
81
a justification for it in religious scripture. Reasoning analogically that
in Hinduism the relationship of scripture to practice was like that in
Christianity, British colonial powers then trusted accounts of documents produced by Indian pundits (religious scholars) codifying in
effect the interpretation of tradition. Given that Hinduism, unlike
Christianity, does not have a core spiritual text, «[…] the question of
where to look for such scriptural evidence was hardly self-evident.
The interpretative task was not made any easier by the fact that there
seemed to be few, if any, clear and unambiguous textual endorsement
of sati»6. What emerged at the end of a long historical process of
cultural interventions and negotiations was the ironing out of inconsistencies in the account of local elites about the various myths surrounding the figure of sati, the quasi-codification of religious stories
in relation to existing practices, and above all the homogenization of
discrepancies in local Hindu traditions which varied not only from
region to region but among the various castes as well.
Cooked in the cauldron of the religious wars in Europe, which pitted Protestants against Catholics, Anglicans against both, sectarian
and millenarian movements against all for several centuries, members of the British colonial administration sought to apply the lessons
of religious tolerance as practiced in the modern secular state to the
Indian case. As long as a practice was considered central to oneʼs
religion, a certain amount of tolerance was to be shown toward it.
But what if the practice at hand was not religious but merely cultural,
in the sense that members of the same religion felt free to engage in
it or not, depending on other factors? The presumption of the colonial administrators was that culture as opposed to religion needed to
be protected less against intervention and legislation, particularly if
the practices at hand were considered odious and offensive to human
dignity, in accordance with the self-understanding of the majority.
Most liberal democracies down to our own days operate with some
version of this distinction between cultural and religious practices,
and between central and subsidiary practices of a religion. My point
is not to challenge these distinctions; what I want to stress is an insights which derives from Ludwig Wittgensteinʼs epistemology but
which I want to use in the current context: very often we do not
know what type of a practice the practice at hand is for we do not
share a common meaning of the disputed practice itself. Is it religion,
is it culture, or is it morality? What if it is all of these and may be
6
Ivi, p. 200.
82
Seyla Benhabib
none and what if its meaning shifts and changes as a result of social
and cultural interactions across time and within shared space? I will
argue that this is precisely what is taking place around the practice of
“veiling” in different communities of Muslim women who engage in
this practice in countries of immigration as well as in their own societies. In other words, the practice itself is being resignified.
2. Contemporary Ideologies of Cultural Difference
Contemporary ideologies of cultural difference ignore both the
contested boundaries between religious and cultural practices, as well
as the fluid resignifications currently taking place among migrant,
third-world communities in Europe and elsewhere. Instead, a re-essentialized discourse of the cultural cum religious cum anthropological difference is dominating the public-political vocabulary: thus, it is
not contemporary Turkeyʼs failure to live up to the Copenhagen criteria in its search for candidacy to enter the EU that is lamented but
whether the EU can accommodate a majority Muslim country with
70 million inhabitants. Thus, it is not the deplorable marginalization,
degradation and social exclusion of immigrant youth of Islamic and
African origin by French society that is lamented but the fact that
these youths come from families which are supposed to “practice
polygamy”, and are therefore not “normal” in the sense that the
French bourgeoisie recognizes. As the banlieues of Paris were burning, the question of Islamic polygamy, certainly which should be of
concern to all of us, was paraded as the proximate cause of events
which could have been explained much more simply and truthfully
by examining inner city riots in the USA in the late Nineteen-sixties
among urban, marginalized, mostly African-American youth. The
suggestion that polygamic family practices of these youth accounted
for their actions pointed the finger not at socio-economic factors but
rather at cultural difference as the explainans for all social conflict.
What was once the romantic multicultural discourse of “difference”,
common to the western Left, is now deployed by the European right.
I want to briefly analyze the philosophical as well as social-scientific
presuppositions of this language of cultural difference.
Whether conservative or progressive, such attempts share a number
of faulty epistemic premises: 1) that cultures are clearly delineable
wholes; 2) that there are smooth overlaps between cultures and
groups, in the sense that a non-controversial description of the culture of a human group is possible; and 3) even if cultures and groups
do not stand in a one-to-one correspondence with one another, and
Seyla Benhabib
83
even if there is more than one culture within a human group, and
more than one human group which may possess the same cultural
traits, this does not pose problems for politics or policy. Taken together these assumptions form what I will call the “reductionist sociology of culture”. In the words of Terence Turner, this view «risks
essentializing the idea of culture as the property of an ethnic group or
race; it risks reifying cultures as separate entities by overemphasizing
their boundedness and distinctness; it risks overemphasizing the internal homogeneity of cultures in terms that potentially legitimize
repressive demands for communal conformity; and by treating cultures as badges of group identity, it tends to fetishize them in ways
that put them beyond the reach of critical analysis»7.
For the participants of the culture, by contrast, their traditions and
stories, rituals as well as tools, material living conditions as well as
symbols, are experienced through contested and contestable narrative
accounts. From within the culture itself, a culture does not and need
not appear as a whole; rather it forms a horizon, which recedes further and further each time one approaches it.
Why does culture present itself through narratively contested accounts? For two principal reasons. First, human actions and relations
are formed through a double hermeneutic. We identify what we do
through an account of what we do; words and deeds are equiprimordial, in the sense that almost all socially significant human action –
beyond scratching oneʼs nose – is identified as a certain type of doing through the accounts which agents as well as others give of that
doing. This is true even when, and especially when, there is disagreement between the doer and the observer. Second, human actions
and interactions are not only constituted through narratives which
together form a «web of narratives» (Hannah Arendt), but human
beings always also have an evaluative stance toward their doings.
There are second-order narratives that entail a certain normative attitude toward the first-order narrative accounts of human deeds. Human beings live in an evaluative universe. What we call culture is
the horizon formed by these evaluative stances through which the
infinite chain of space-time sequences is demarcated into “good”
and “bad”, “holy” and “profane”, “pure” and “impure”. Cultures are
formed through binarisms.
7 T. Turner, Anthropology and Multiculturalism: What is Anthropology that Multiculturalism
should be Mindful of it?, «Cultural Anthropology», vol. 8, n. 4, 1993, A. S. Anagnost (ed.), Published for “The Society for Cultural Anthropology”, University of California Press, Oakland
(CA), p. 412.
84
Seyla Benhabib
We should view human cultures as the constant creation, recreation, and negotiation of imaginary boundaries between “us” and
“them”, “we” and the “other(s)”. The other is always also within us
and is one of us. The self is a self only because it distinguishes itself
from an imaginary “other”. Struggles for recognition, among individuals and groups, are struggles to negate this status of “otherness”,
insofar as otherness is taken to involve disrespect, contempt, domination and inequality. Individuals and groups struggle to attain respect
and self-worth, freedom and equality while also retaining some sense
of selfhood. Whether in the psyche of the individual or in the life of
nations, to let the other be in his or her difference while recognizing
his/her fundamental human equality and dignity, is one of the most
difficult achievements of human interaction – a task at which, more
often than not, one fails.
3. Sexual Difference and Cultural Diversity
Why is it then that sexual difference plays such an important role
in the demarcation of cultural differences? Why is it that cultural diversity is often inscribed within the language of sexual difference?
The sphere of sexual and reproductive lives is a central focus of
most human cultures8. The regulation of these functions forms the
dividing line between nature and culture: all animal species need to
mate and reproduce in order to survive, but the regulation of mating,
sexuality, and reproduction in accordance with «kinship patterns» is,
as Claude Levi-Strauss argued in The Elementary Structures of Kinship, the line that separates fusis from nomos. Women and their bodies are the symbolic-cultural site upon which human societies inscript their moral order. In virtue of their capacity for sexual reproduction, women mediate between nature and culture, between the
animal species to whom we all belong and the symbolic orders which
make us into cultured beings.
Since Simone de Beauvoirʼs The Second Sex feminist theory has
dissected why this function of women as mediators between nature
and culture also makes them the object of longing and fear, desire
and flight. The passages in and out of human life are usually marked
by the presence of the female: always and inevitably in the case of
birth, usually, but not necessarily in the case of death, since male
8 S. Okin, “Is Multiculturalism Bad for Women?”, in J. Cohen-M. Howard-M. C. Nussbaum
(eds.), Is multiculturalism Bad for Women?, Princeton University Press, Princeton (NJ) 1999, pp.
12-13. Si veda la trad. it. di questo saggio in questo numero di «Post-filosofie», pp. 97-113.
Seyla Benhabib
85
magicians, priests and shamans can also play a significant role in the
death ceremony. The female of the species who presides over these
functions thereby controls moments of greatest vulnerability in human life: when we enter life we are helpless as infants and when we
leave it, we are equally helpless in the face of death. Intercultural
conflicts, which challenge the symbolic order of these spheres, because they delve into the earliest and deepest recesses of the psyche,
are likely to generate the most intense emotional responses. Thus the
loss of oneʼs culture, cultural uprooting and the mixture of cultures
are often presented in sexualized terms: oneʼs culture has been
«raped», say primordialists, by the new and foreign customs and
habits which have been imposed upon one; cultural intermixture is
very often described as mongrolization or mestizaje. The use of these
metaphors is not accidental: fundamentalist movements know very
well the deep recesses of psychic vulnerability into which they tap
in doing so.
These interconnections between psychic identity, the practices of
the private sphere and cultural difference, assume a new configuration in modern liberal-democracies. These societies demarcate the
private from the public along the following lines. In the genealogy of
liberal political thought the distinction between the “public” and “private” spheres has referred to at least four domains. Down to our own
days, the status of cultural and religious differences and the articulation of sexual difference in the public sphere of liberal democracies
take place within this conceptual horizon.
In its most prominent sense, “the private” refers to the domain of
the household and family life. The autonomy of the liberal subject is
deciding upon whom to marry; the inner psychic life of the family;
the regulation of sexuality within it are considered “private” matters.
Of course, matters are never that simple, and the line between the
public and the private is always contested. From the standpoint of the
liberal state, the family is a public institution in which practices governing marriage and divorce are defined and regulated by political
as well as legal norms. The state confers fiscal and economic status upon
the family in that it defines the tax status of those who are considered
family members; in not recognizing same sex unions as marriages,
the state also upholds a specific conception of the family. Viewed as
an institution within the modern state then, there is nothing “private”
about the family.
The second most important sense of the “private” sphere is the
right of citizens to their liberty of conscience. In the words of John
86
Seyla Benhabib
Rawls, the liberal state is based on the assumption that citizens are
moral persons who can form their own sense of the good and also
engage in cooperative public activities of justice in pursuing their
various life-projects, whether these are characterized by religion, aesthetics, science, or culture. In this domain as well lines separating
religion from the state; aesthetics from politics have always hotly
contested.
The third sense of the “private” refers to the “civil space”: certain
forms of association, such as clubs, religious institutions, educational
facilities, cultural and scientific organizations are considered “private”, in the sense that they pursue shared goals of citizens, understood as individuals with diverse conflicting interests in an active
civil society. The state ought not dictate the content of these activities
nor regulate the internal constitutions of these organizations. Here as
well, the line between the “civil” and “the political”, the “private
organizations” and “public interests” is subject to constant negotiation and rearticulation.
The fourth meaning of the private is that of the economic sphere,
or to use Hegelian language, of «the system of needs». The modern
capitalist commodity economy is based upon the so-called free exchange of goods among legally equal property owners in the market
place. Since the Nineteenth-century most social movements for justice have contested, in this domain as well, the “privacy” of market
relations and of the consequences of economic laws.
The “public/private” distinction is both pivotal yet highly controversial in all liberal-democracies. Many political disagreements
among citizens are about the limits of state interference in all these
private spheres or again, about the desirability of state interference
and state regulation within them.
It is possible to distinguish broadly between a “civic republican”,
a “liberal-democratic” and “multicultural-communitarian” manner of
conceptualizing the relationship between religious difference and the
political community and the further articulations of the public and
private spheres. With the “civic republican” model I mean the French
principle of “laïcité” and the Turkish principle of “laiklik”, which
was modeled on the French one. In this model the public sphere is to
maintain a strict removal from all religious and ethnic symbols, relegating them to the private sphere. With the “liberal-democratic”
model I have in mind a plethora of institutional arrangements, principally characteristic of Anglo-American and Protestant countries, in
which the boundaries between the public and the private articulation
Seyla Benhabib
87
of difference, as well as that between religion and politics is porous,
pragmatically defined and always contested. With the “multi-cultural
and communitarian” model, I mean in the first place countries such
as Israel and India, in which civil-personal rights, such as marriage,
divorce, alimony, and inheritance, are distinct for each religious cum
ethno-cultural group and in which the public sphere is segmented for
each group and reflects the core differences without absorbing them
in a common public political identity.
The “struggle over cultural identities” and the position of women
within different religious and cultural communities are pushing the
limits of established legal, political, cultural and discursive lines separating the public from the private and signaling new rearticulations.
I want to look at the ongoing controversy in France, Turkey and Germany about “lʼaffaire du foulard” – the so-called “scarf affair”– in
this context.
4. “LʼAffaire du Foulard”
“Lʼaffaire du foulard” refers to a long and drawn out set of public
confrontations which began in France in 1989 with the expulsion
from their school in Creil (Oise) of three scarf-wearing Muslim girls
and continued to the mass exclusion of 23 Muslim girls from their
schools in November 1996 upon the decision of the Conseil dʼEtat9.
Finally, after nearly a decade of confrontations, the French National
Assembly passed a law in March 2004 with a great majority banning
not only the wearing of the “scarf”, now interestingly referred to no
longer as “le foulard”, but instead as “la voile”, but the bearing of all
«ostentation signs of religious belonging in the public sphere». The
Commision headed by Bernard Stasi and presented to the President
of the Republic, considers the wearing of the scarf as part of a growing political threat of Islam to the values of “laïcité”.
Let me introduce another note of terminological clarification first:
the practice of veiling among Muslim women is a complex institution that exhibits great variety across many Muslim countries. The
terms chador, hijab, niqab, foulard refer to distinct items of clothing
which are worn by Muslim women coming from different Muslim
communities: for example, the chador is essentially Iranian and re9 My discussion of these incidents relies primarily upon two sources: F. Gaspard-F. Khosrokhavar, Le Foulard et la Republique, Decouverte, Paris 1995, and an excellent seminar paper by
M. Brun-Rovet, A perspective on the multiculturalism debate: «lʼaffaire foulard» and laïcité in
France, 1989-1999, submitted to Benhabibʼs seminar on “Nations, States and Citizens”, Harvard
University, Department of Government 2000.
88
Seyla Benhabib
fers to the long black robe and head scarf worn in a rectangular manner around the face; the niqab is a veil that covers the eyes and the
mouth and only leaves the nose exposed; it may or may not be worn
in conjunction with the chador. Most Muslim women from Turkey
are likely to wear either long overcoats and a foulard (a head scarf)
or a carsaf (a black garment which most resembles the chador).
These items of clothing have a symbolic function within the Muslim
community itself: women coming from different countries signal to
one another their ethnic and national origins through their clothing,
as well as signifying their distance or proximity to tradition in doing
so. The brighter the colors of their overcoats and scarves – bright
blue, green, beige, lilac as opposed to brown, grey, navy and of
course, black – and the more fashionable their cuts and material by
western standards, all the more can we assume the distance from Islamic orthodoxy of the women who wear them. Seen from the outside, however, this complex semiotic of dress codes gets reduced to
one or two items of clothing which then assume the function of crucial symbols of complex negotiations among Muslim religious and
cultural identities and western cultures.
The French sociologists Gaspard and Khosrokhavar capture these
set of complex symbolic negotiations as follows: «[The veil] mirrors
in the eyes of the parents and the grandparents the illusions of continuity whereas it is a factor of discontinuity; it makes possible the
transition to otherness (modernity), under the pretext of identity (tradition); it creates the sentiment of identity with the society of origin
whereas its meaning is inscribed within the dynamic of relations with
the receiving society, […] it is the vehicle of the passage to modernity
within a promiscuity which confounds traditional distinctions, of an
access to the public sphere which was forbidden to traditional women
as a space of action and the constitution of individual autonomy»10.
“Lʼaffaire du foulard” eventually came to stand for all dilemmas of
French national identity in the age of globalization and multiculturalism: how to retain French traditions of laïcité, republican equality and
democratic citizenship in view of Franceʼs integration into the European Union on the one hand and the pressures of multiculturalism generated through the presence of second and third generation immigrants
from Muslim countries on French soil on the other hand? Would the
practices and institutions of French citizenship be flexible and generous enough to encompass multicultural differences within an ideal of
10
Cfr. F. Gaspard-F. Khosrokhavar, Le Foulard et la Republique, pp. 44-45. My translation.
Seyla Benhabib
89
republican equality? Among the organizations opposing the 2004
legislation to ban the wearing of the head scarf in public schools were
the League for Human Rights, the Movement against Racism and for
Friendship Among Peoples (MRAP), as well as the United Syndical
Federation (FSU) and the Federation of Parents Councils (FCPE).
But what exactly was the meaning of the girlsʼ actions? Was theirs
an act of religious observance and subversion, or one of cultural defiance, or of adolescent acting out to gain attention and prominence?
Were the girls acting out of fear, out of conviction or out of narcissism? It is not hard to imagine that their actions may involve all these
elements and motives. The girlsʼ voices were not heard in this heated
debate; although there was a genuine public discourse in the French
public sphere and a soul-searching on the questions of democracy
and difference in a multicultural society, as the sociologists Gaspard
and Khosrokhavar pointed out, until they carried out their interviews
and until the publication of Des Filles comme les Autres: Entretiens
avec Alma et Lila Levy11 in 2004, the girlsʼown perspectives were
hardly listened to. Even if the girls involved were not adults and in
the eyes of the law and were still under the tutelage of their families,
it is reasonable to assume that at the ages of 15 and 16, they could
account for themselves and their actions. Had their voices been heard
and listened to, it would have become clear that the meaning of wearing the scarf itself was changing from being a religious act to one of
cultural defiance, increasing politicization and a vindication of cultural otherness in a monochrome public space which wanted to ban
difference to the private sphere.
There is growing evidence in the sociological literature that in
many other parts of the world as well Muslim women are using the
veil as well as the chador to cover up the paradoxes of their own
emancipation from tradition12. Turkish law likewise forbids female
students to attend universities and other institutions of higher learning with the scarf; but not only schools, other public spaces such as
the National Assembly, must respect the principles of laiklik. Yet the
observance of these principles can be taken to such an extreme, that
some civil servants and municipal doctors in neighborhood clinics –
called “dispensers” – have refused to serve women with headscarves.
Thus, making them into the “others” of the republic in all senses of
11 V. Giraud-Y. Sintomer, Alma et Lila Levy: Des Filles Comme les Autres, La Decouverte,
Paris 2004. Also, A. Renaut-A. Touraine, Un Débat sur la Laïcité, Editions Stock, Paris 2005.
12 N. Gole, The Forbidden Modern: Civilization and Veiling, University of Michigan Press,
Ann Arbor 1996.
90
Seyla Benhabib
the term. Yet sociologists report that among girls and young women
wearing the “foulard” in Turkey, there is conscious opposition to the
Shariʼa in regulating private-family matters. A majority of those interviewed refuse to have marriage, divorce and inheritance matters to
be regulated by religious Islamic law and wish to preserve the Turkish civil code instead. To assume, therefore, that the meaning of these
girlsʼ actions is purely one of religious defiance of the secular state,
constrains these womenʼs own capacity to write the meaning of their
own actions, and ironically, reimprisons them within the walls of patriarchal meaning from which they are trying to escape.
Learning processes would have to take place and are taking place
on the part of the Muslim girls as well: while French and Turkish
societies would have to learn not to stigmatize and stereotype as
“backward and oppressed creatures” all those who accept to wear
what appears at first glance to be a religiously mandated piece of
clothing, the girls themselves and their supporters, in the Muslim
community and elsewhere, have to learn to give a justification of
their actions with “good reasons in the public sphere”. In claiming
respect and equal treatment for their religious beliefs, they have to
clarify how they intend to treat the beliefs of others from different
religions, and how, in effect, they would institutionalize the separation of religion and the state within Islamic tradition.
In todayʼs Europe, the “scarf affair” is being debated within the
context of two fundamental principles: the equal right to freedom of
expression, guaranteed equally to all citizens and residents on the one
hand, and the “interests of the state” in maintaining peace, security,
public order, etc., on the other. The clause of the separation of religion and state, while being a cornerstone of liberal democracies, also
permits significant democratic variations. Thus the United Kingdom
has a Church of England, while Germany subsidizes the three officially recognized denominations – Protestant, Catholic and Jewish –
through an indirect “church tax” known as “Kirchensteuer”.
The case of the German-Afghani teacher, Fereshta Ludin, also illustrates some of these dilemmas. An elementary school teacher in
Baden-Württemberg, Fereshta Ludin, of Afghani origin and German
citizenship, insisted on being able to teach her classes with her head
covered13. The school authorities refused to permit her to do so. The
case ascended all the way to the German Supreme Court (BVerfGe)
13 C. Emcke, Kollektive Identitäten. Sozialphilosophische Grundlagen, Campus, FrankfurtNew York 2000, pp. 280-85.
Seyla Benhabib
91
and on September 30, 2003 the Court decided as follows. «Wearing a
headscarf, in the context presented to the Court, expresses that the
claimant belongs to the “Muslim community of faith” (die islamische
Religionsgemeinschaft)». The court concluded that to «describe such
behavior as lack of qualification (Eignungsmangel) for the position of
a teacher in elementary and middle schools, clashed with the right of
the claimant to equal access to all public offices in accordance with
article 33, paragraph 2 of the Basic Law (Grundgesetz), and also
clashed with her right to freedom of conscience, as protected by article
4, paragraphs 1 and 2 of the Basic Law, without, however, providing
the required and sufficient lawful reasons for doing so»14. While acknowledging the fundamental rights of Ms. Fereshta Ludin, the Court
nevertheless ruled against the claimant and transferred the final say on
the matter to the democratic legislatures. «The responsible provincial
legislature is nevertheless free to create the legal basis [to refuse to
permit her to teach with her head covered], by determining anew within the framework set by the constitution, the extent of religious articles
to be permitted in the schools. In this process, the provincial legislature
must take into consideration the freedom of conscience of the teacher
as well as of the students involved, and also the right to educate their
children on the part of parents as well as the obligation of the state to
retain neutrality in matters of world-view and religion»15.
While acknowledging the fundamental nature of the rights involved – that of freedom of conscience and equal access of all to
public offices – the German Supreme Court, much like the French
Conseil dʼEtat – refused to protect these against the will of the democratic legislatures. Yet by not delegating the case to the exclusive
jurisdiction of the school authorities, and by stressing the necessity
for the State to maintain religious and world – view neutrality in the
matter, it signaled to democratic law-makers the importance of respecting the legitimate pluralism of world-views in a liberal democracy. Nevertheless, the Court did not see itself justified in positively
intervening to shield such pluralism, but considered this to be the
domain of provincial legislation16. Such reticence may surprise some;
undoubtedly, the fact that teachers in Germany are also “Beamten”,
14
Cfr. German Supreme Court (BVerfGe), 2BvR, 1436/02, IVB 1 and 2. My translation.
Cfr. German Supreme Court (BverfGe), 2BvR, 1436/02, 6. My translation.
16 The German legislators responded to the mandate of the Court rather speedily and after
Baden-Württemberg (Bavaria), as well passed a bill banning the wearing of headscarves in the
schools. Christian and Jewish symbols were not included in this ban. Civil rights organizations
and groups representing Muslims living in Germany (estimates at 3.2 million) have criticized the
proposed ban.
15
92
Seyla Benhabib
i.e. civil servants of the state who stand under the special jurisdiction
of various civil service acts, may have played a role in the German
Supreme Courtʼs not wanting to intervene in the regulatory jurisdictional domain of legislators. Nevertheless, it is hard to avoid the impression that the real worry of the Court was more the substantive
rather than the procedural question, as to whether a woman who ostensibly wore an object representing her belonging to «the traditions
of her community of origin» could carry out the duties and tasks of a
functionary of the German state.
Despite the fact that Ms. Ludin was a German citizen of Afghani
origin who had successfully completed the requisite qualifications to
become a teacher according to German law, the cultural and religious
significance of her wearing the scarf clashed with widely held beliefs
about the public face of a teacher in German society. The two dimensions of her citizenship rights – the entitlement to the full protection
of the law and her cultural identity as an observant Muslim woman
– clashed with one another. By leaving it up to the provincial legislatures to decide the extent to which articles of religious clothing and
other items could be worn or brought into the schools, the German
Supreme Court underlined the cultural and moral expectations of the
parents as well as children involved. The right to freedom of conscience, despite all acknowledgment of the stateʼs neutrality toward
religious and other world-views, was thereby subordinated to the interests of the democratic people in maintaining their specific cultural
identities and traditions. The Court failed to present a robust constitutional defense of pluralism. This would have involved differentiating more sharply between the status of German citizenship versus the
cultural, ethnic and religious identity of individuals involved. Of
course, insofar as in Germany as well as in many other liberal democracies discrimination on the basis of race, gender, ethnicity, and
religion, is unconstitutional, this formal separation is to some extent
encoded in the law. Nevertheless, in the context of being a civil servant of the German state, a thicker and more substantive understanding of citizenship-identity was invoked, and this apparently precluded
the teacherʼs public manifestation of her belonging, not just to any
religion, but to Islam17.
17 Emcke points out that in an earlier decision concerning the presence of crucifixes in the
classroom, what the German Supreme Court declared to be unconstitutional was not the existence
of religious symbols in public spaces or public schools, but rather the obligation to display the
crucifix regularly. «In this sense – she concludes – there are no constitutional grounds against
religious symbols as such» (cfr. C. Emcke, Kollektive Identitäten. Sozialphilosophische Grundlagen, p. 284).
Seyla Benhabib
93
In clear recognition of protections provided by the European Charter of Human Rights as well as the European Convention on Human
Rights and Fundamental Freedoms, many women from European
countries as well as Turkey have taken this matter to the European
Court of Human Rights. Repeatedly, the Court so far has not seen fit
to see the wearing of the scarf as a matter of liberty of conscience
and has accepted that states and political bodies may have other considerations in mind, such as security, in banning the wearing of the
foulard. This is truly unfortunate.
I think the worst political mistake which can be made today in
Europe and in many other parts of the globe is to freeze the process
of the profound resignification occurring in the lives of Muslim girls
and women and instead to force a criminalization of their actions,
also thereby freezing the dialectic of rights and identities which must
be constitutive of liberal political and constitutional traditions everywhere. In conclusion, I want to return to theoretical questions again
and introduce a framework for considering the interaction between
rights and identities, law and democratic politics.
5. Democratic Iterations
I want to name “democratic iterations” processes in which meanings, religious as well as cultural, legal as well as political, are renegotiated in the public sphere of liberal democracies. These renegotiations are also learning processes. “Iteration” is a term which was introduced into the philosophy of language through Jacques Derridaʼs
work. In the process of repeating a term or a concept, we never simply produce a replica of the original usage and its intended meaning:
rather, every repetition is a form of variation. Every iteration transforms meaning, adds to it, enriches it in ever-so-subtle ways. In fact,
there really is no “originary” source of meaning, or an “original” to
which all subsequent forms must conform. It is obvious in the case of
language that an act of original meaning-giving makes no sense,
since, as Wittgenstein famously reminded us, to recognize an act of
meaning-giving as precisely this act, we would need to possess language itself. A patently circular notion!
Nevertheless, even if the concept of “original meaning” makes no
sense when applied to language as such, it may not be so ill-placed
in conjunction with documents such as laws and other institutional
norms. Thus, every act of iteration might be assumed to refer to an
antecedent which is taken to be authoritative. The iteration and interpretation of norms, and of every aspect of the universe of value,
94
Seyla Benhabib
however, is never merely an act of repetition. Every iteration involves
making sense of an authoritative original in a new and different context. The antecedent thereby is reposited and resignified via subsequent usages and references. Meaning is enhanced and transformed;
conversely, when the creative appropriation of that authoritative original ceases or stops making sense, then the original loses its authority upon us as well. Iteration is the reappropriation of the “origin”; it
is at the same time its dissolution as the original and its preservation
through its continuous deployment.
Democratic iterations are linguistic, legal, cultural and political
repetitions-in-transformation, invocations which are also revocations.
They not only change established understandings but also transform
what passes as the valid or established view of an authoritative precedent.
Robert Cover and following him Frank Michelman have made
these observations fruitful in the domain of legal interpretation. In
Nomos and Narrative Robert Cover writes:
[...] there is a radical dichotomy between the social organization of law as power
and the organization of law as meaning. This dichotomy, manifest in folk and
underground cultures in even the most authoritarian societies, is particularly open
to view in a liberal society that disclaims control over narrative. The uncontrolled
character of meaning exercises a destabilizing influence upon power. Precepts must
“have meaning”, but they necessarily borrow it from materials created by social
activity that is not subject to the structures of provenance that characterize what
we call formal lawmaking. Even when authoritative institutions try to create
meaning for the precepts they articulate, they act, in that respect, in an unprivileged
fashion18.
The disjunction between law as power and law as meaning can be
rendered fruitful and creative in politics through “jurisgenerative
processes”. In such processes a democratic people, who considers
itself bound by certain guiding norms and principles, engages in iterative acts by reappropriating and reinterpreting these, thereby showing itself to be not only the subject but also the author of the laws
(Michelman). Natural right philosophies assume that the principles
which undergird democratic politics are impervious to transformative
acts of popular collective will. Legal positivism identifies democratic
legitimacy with the correctly generated legal norms of a sovereign
18 R. M. Cover, Nomos and Narrative, «Harvard Law Review», 1, 1983, pp. 4-68. See F.
Michelman, Lawʼs Republic, «Yale Law Journal», 8, July 1988, p. 18. Emphasis added.
Seyla Benhabib
95
legislature; by contrast, jurisgenerative politics is a model that permits us to think of creative interventions that mediate between universal norms and the will of democratic majorities. The rights claims
which frame democratic politics, on the one hand must be viewed as
transcending the specific enactments of democratic majorities under
specific circumstances; on the other hand, such democratic majorities
re-iterate these principles and incorporate them into democratic willformation processes through argument, contestation, revision and rejection.
The dialectic of rights and identities are mobilized in such
processes of democratic iteration. Rights, and other principles of the
liberal democratic state, need to be periodically challenged and rearticulated in the public sphere in order to retain and enrich their original meaning. It is only when new groups claim that they belong within the circles of addressees of a right from which they have been
excluded in its initial articulation that we come to understand the
fundamental limitedness of every right claim within a constitutional
tradition as well as its context-transcending validity. The democratic
dialogue, and also the legal hermeneutic one, are enhanced through
the repositioning and rearticulation of rights in the public spheres of
liberal democracies. The law sometimes can guide this process, in
that legal reform may run ahead of popular consciousness and may
raise popular consciousness to the level of the constitution; the law
may also lag behind popular consciousness and may need to be prodded along to adjust itself to it. In a vibrant liberal multicultural democracy, cultural-political conflict and learning through conflict
should not be stifled through legal maneuvers. The democratic citizens themselves have to learn the art of separation by testing the
limits of their overlapping consensus.
Sterile, legalistic or populistic jurisgenerative processes are conceivable. We may use Robert Coverʼs term «jurispathic» to refer to
such processes. In some cases, no normative learning may take place
at all, but only a strategic bargaining among the parties may result; in
other cases, the political process may simply run into the sandbanks
of legalism or the majority of the demos may trample upon the rights
of the minority in the name of some totalizing discourse of fear and
war. Violence may ensue. Jurisgenerative politics is not a politics of
teleology or theodicy. Rather, it permits us to conceptualize those
moments when a space emerges in the public sphere, when principles
and norms which undergird democratic will formation become permeable and fluid to receive new semantic contexts; and this enables
96
Seyla Benhabib
the augmentation of the meaning of rights. I have suggested that we
are traversing such a moment in history when “jurisgenerative” and
“jurispathic” politics face each other around controversies over cultural difference.
SUSAN MOLLER OKIN
MULTICULTURALISMO E FEMMINISMO.
IL MULTICULTURALISMO
DANNEGGIA LE DONNE?*
Fino a pochi decenni fa, ci si aspettava come reazione tipica da
parte dei gruppi minoritari che si assimilassero alle culture di maggioranza. Ora, questa attesa di assimilazione è spesso considerata oppressiva e molti paesi occidentali cercano di escogitare nuove linee
di condotta politica, più sensibili alla persistenza delle differenze culturali. Paesi che, come lʼInghilterra, hanno chiese nazionali o unʼeducazione religiosa patrocinata dallo Stato, trovano difficile resistere
alla richiesta di estendere il sostegno statale alle scuole religiose minoritarie; paesi che, come la Francia, hanno una tradizione di istruzione pubblica laica, sono lacerati da dispute sul permesso di vestire,
nelle scuole pubbliche, gli abiti richiesti da religioni minoritarie. Ma
una questione è ricorrente in tutti i contesti, sebbene non sia quasi
stata notata nel dibattito attuale: che fare quando le pretese di culture
o religioni minoritarie collidono col principio dellʼuguaglianza di genere che è per lo meno formalmente sottoscritta dagli Stati liberaldemocratici – per quanto continuino a violarla nella pratica?
Ad esempio, nella seconda metà degli anni Ottanta, scoppiò in
Francia unʼaspra controversia sul permesso, per le ragazze maghrebine, di frequentare la scuola portando il velo tradizionale delle giovani
donne musulmane uscite dalla pubertà. I difensori dellʼeducazione
laica si schierarono con alcune femministe e con i nazionalisti dellʼestrema destra, e gran parte della sinistra tradizionale sostenne le
* Edizione originale Is Multiculturalism Bad for Women?, «Boston Review», October/November 1997.
Traduzione dallʼinglese di Maria Chiara Pievatolo.
98
Susan Moller Okin
richieste multiculturaliste di flessibilità e rispetto per la diversità, accusando gli avversari di razzismo o imperialismo culturale. Nello
stesso tempo, però, lʼopinione pubblica rimase praticamente in silenzio su un problema di gran lunga più importante per molte immigrate
francesi di origine araba o africana: la poligamia.
Nel corso degli anni Ottanta, il governo francese consentì tacitamente agli immigranti di condurre più di una moglie nel paese, tanto
che, secondo le stime, 200.000 famiglie parigine sono ora poligamiche. Il sospetto che lʼinteresse delle istituzioni riguardo al velo fosse
motivato da un desiderio di uguaglianza fra i generi è messo fuori
gioco da questa facile adozione di una linea di condotta permissiva
sulla poligamia, nonostante lʼoppressione che questa pratica impone
alle donne e gli avvertimenti fatti dalle donne delle culture interessate1. Su tale questione, non si levò unʼopposizione politica reale. Ma
quando i cronisti finalmente riuscirono a intervistare le mogli, scoprirono qualcosa che il governo avrebbe potuto imparare qualche anno
prima: che le donne che subivano la poligamia la consideravano
unʼistituzione inevitabile e a malapena sopportabile nei loro paesi
africani dʼorigine, e unʼinsopportabile imposizione nel contesto francese. Gli appartamenti sovraffollati e la mancanza di spazio privato
provocavano enorme ostilità, risentimento e addirittura violenza sia
fra le mogli, sia contro i figli dellʼuna o dellʼaltra. Anche per la tensione sul welfare provocata da famiglie di venti o trenta membri, il governo francese ha recentemente deciso di riconoscere solo una moglie
e considerare nulli tutti gli altri matrimoni. Ma che cosa succede a
tutte le altre mogli e ai lori figli? Dopo aver trascurato per tanto tempo
il punto di vista delle donne sulla poligamia, il governo sembra ora
abdicare alle sue responsabilità riguardo alla vulnerabilità delle donne
e dei bambini determinata dalla sua condotta politica sconsiderata.
Lʼaccomodamento francese della questione della poligamia illustra una tensione profonda e crescente fra il femminismo e lʼansia
multiculturalista di proteggere la diversità culturale. Penso che noi –
soprattutto quelle fra noi che si considerano politicamente progressiste e contrarie a tutte le forme di oppressione – siamo state troppo
rapide nellʼassumere che femminismo e multiculturalismo siano entrambi cose buone e facilmente conciliabili. Io sosterrò, invece, che
sono molto probabili delle tensioni – tensioni, per esseri più precisi,
fra il femminismo e un impegno multiculturalista per i diritti di gruppo delle minoranze culturali.
1
«International Herald Tribune», 2 February 1996, News section.
Susan Moller Okin
99
Qualche parola per spiegare la prospettiva e i termini del mio
argomento. Per “femminismo” intendo la convinzione che le donne
non debbano essere svantaggiate dal loro sesso, che debba essere
loro riconosciuta una pari dignità rispetto agli uomini, e la stessa
possibilità degli uomini di vivere una vita soddisfacente e liberamente scelta. Il “multiculturalismo” è più difficile da definire, ma il
suo aspetto che in questa sede mi interessa è la pretesa, in contesti
di democrazie fondamentalmente liberali, che le culture o gli stili di
vita minoritari non siano protetti a sufficienza, assicurando i diritti
individuali ai loro membri. Perciò le culture devono essere protette
per mezzo di speciali diritti di gruppo o privilegi. Nel caso francese,
ad esempio, il diritto a concludere matrimoni poligamici è chiaramente un diritto di gruppo, indisponibile al resto della popolazione.
In altri casi, i gruppi richiedono diritti per autogovernarsi, per avere
rappresentanze politiche garantite, o lʼesenzione da leggi che si applicano in generale.
Le richieste di simili diritti di gruppo sono crescenti – dalle popolazioni indigene, ai gruppi minoritari etnici o religiosi, ai popoli excoloniali (almeno quando questi ultimi immigrano nello Stato che li
colonizzava). Questi gruppi, si sostiene, hanno le loro «culture sociali» che – come dice Will Kymlicka, il principale difensore contemporaneo dei diritti dei gruppi culturali – danno «ai loro membri abitudini dotate di significato nellʼintero ambito delle attività umane: nella
vita sociale, educativa, religiosa, ricreativa ed economica, e nella sfera pubblica e privata»2. Poiché le culture sociali hanno un ruolo così
diffuso e fondamentale nelle vite dei loro membri, e poiché queste
culture sono minacciate di estinzione, le culture minoritarie devono
essere protette da diritti speciali. A questo si riduce, in sostanza, lʼargomento a favore dei diritti di gruppo.
Alcuni fautori dei diritti di gruppo affermano che anche le minoranze culturali le quali «si fanno beffe dei diritti [dei loro singoli
membri] in una società liberale»3 dovrebbero ricevere diritti di gruppo o privilegi se la loro condizione minoritaria mette a repentaglio la
continuità dellʼesistenza della cultura. Altri non pretendono che tutti
i gruppi culturali minoritari abbiano diritti speciali, ma che tali grup-
2 W. Kymlicka, La cittadinanza multiculturale, trad. it. di G. Gasperoni, Il Mulino, Bologna
2002 pp. 147, 134. Si veda anche dello stesso autore Liberalism, Community, and Culture, The
Clarendon Press, Oxford 1989. Va notato che Kymlicka stesso non argomenta a favore di diritti
di gruppo esaustivi, o diritti di gruppo permanenti per gli immigrati volontari.
3 A. Margalit-M. Halbertal, Liberalism and the Right to Culture, «Social Research», 61, 3,
1994, p. 491.
100
Susan Moller Okin
pi – anche quelli illiberali, che violano i diritti dei loro singoli membri, chiedendo loro di conformarsi a norme o credenze di gruppo –
abbiano il diritto ad essere «lasciati in pace» in una società liberale4.
Entrambe le pretese appaiono in contraddizione con il valore liberale
fondamentale della libertà individuale, il quale comporta che i diritti
di gruppo non debbano sopravanzare quelli individuali; perciò non
considererò, qui, i problemi che essi presentano alle femministe5. Ma
alcuni difensori del multiculturalismo limitano, per lo più, la difesa
dei diritti di gruppo a gruppi che sono liberali al loro interno6. Anche
con queste restrizioni le femministe – cioè chiunque sostenga lʼuguaglianza morale di uomini e donne – dovrebbero restare scettiche.
Questa è la tesi che cercherò di mostrare.
1. Genere e cultura
La maggior parte delle culture sono imbevute di pratiche e ideologie che hanno a che fare col genere. Poniamo, allora, che una cultura
approvi e faciliti il controllo sulle donne da parte degli uomini in
vari modi (anche se informalmente, nella sfera privata della vita domestica). Immaginiamo anche che ci siano differenze di potere abbastanza chiare fra i sessi, tali che gli appartenenti al sesso più forte, i
maschi, siano in genere anche coloro che si trovano nella posizione
di determinare e articolare le credenze, le pratiche e gli interessi del
gruppo. In tali condizioni, i diritti di gruppo sono potenzialmente e,
in molti casi, effettivamente antifemministi. Essi limitano in maniera
significativa la capacità delle donne e delle ragazze di quella cultura
di vivere con una dignità umana pari a quella degli uomini e dei ragazzi e con una pari libertà di scelta.
I fautori dei diritti di gruppo per le minoranze allʼinterno degli
Stati liberali non hanno affrontato in modo adeguato questa critica
elementare ai diritti di gruppo, per almeno due ragioni. In primo luogo, essi tendono a trattare i gruppi culturali come monolitici – a prestare più attenzione alle differenze fra i gruppi che a quelle entro i
gruppi. E in particolare, essi danno un riconoscimento scarso o nullo
al fatto che i gruppi culturali minoritari, come le società in cui essi
4 Ad esempio, C. Kukathas, Are There any Cultural Rights?, «Political Theory», 20, 1, Sage,
London 1992, pp. 105-39.
5 S. M. Okin, Feminism and Multiculturalism: Some Tensions, «Ethics», 108, 1998, pp. 661-84.
6 Cfr. ad esempio, W. Kymlicka, Liberalism, Community, and Culture, cit., e Id., La cittadinanza multiculturale, cit., specialmente il Capitolo VIII. Kymlicka non applica il suo requisito
secondo cui il gruppo deve essere liberale al suo interno a quelle che egli chiama «minoranze
nazionali», ma qui non tratterò questo aspetto della sua teoria.
Susan Moller Okin
101
esistono (sebbene in misura maggiore o minore), hanno al loro interno una struttura di genere, con significative differenze di potere e di
opportunità fra uomini e donne. In secondo luogo, i difensori dei diritti di gruppo prestano unʼattenzione scarsa o nulla alla sfera privata.
Alcune delle migliori difese liberali dei diritti di gruppo insistono sul
fatto che gli individui hanno bisogno di “una cultura tutta loro”, e che
solo entro una simile cultura è possibile sviluppare autostima o rispetto per se stessi, o la capacita di decidere quale tipo di vita è preferibile per loro. Ma tali argomentazioni tendono a trascurare i differenti ruoli che i gruppi culturali impongono ai loro membri e il contesto nel quale si formano originariamente il senso del sé e le capacità delle persone e in cui ha luogo per la prima volta la trasmissione
di cultura – lʼambito della vita familiare o domestica.
Quando correggiamo queste manchevolezze prestando attenzione
alle differenze interne ai gruppi e allʼambito privato, diventano nettamente evidenti due nessi particolarmente importanti fra cultura e genere, che sottolineano la forza della critica elementare ai diritti di
gruppo. In primo luogo, la sfera della vita personale, sessuale e riproduttiva è un punto di riferimento centrale nella maggioranza delle
culture e un tema dominante nelle pratiche e nelle regole culturali.
Spesso i gruppi religiosi o culturali si preoccupano particolarmente
del “diritto personale” – delle leggi sul matrimonio, sul divorzio, sulla custodia dei figli, sulla divisione e il controllo della proprietà familiare e sullʼeredità7. Di regola, perciò, la difesa delle “pratiche culturali” può avere un impatto di gran lunga maggiore sulla vita delle
donne e delle ragazze piuttosto che su quella di uomini e ragazzi,
perché una parte di gran lunga maggiore del tempo e dellʼenergia
delle donne finisce nella difesa e nel mantenimento dellʼaspetto personale, familiare e riproduttivo della vita. Evidentemente, la cultura
non riguarda solo le organizzazioni domestiche, ma esse offrono effettivamente uno dei punti di riferimento principali di molte culture
contemporanee. La casa, dopo tutto, è il luogo ove gran parte della
cultura è praticata, conservata e trasmessa ai giovani. A sua volta, la
distribuzione delle responsabilità e del potere in casa ha un impatto
importante su chi può partecipare e influenzare gli aspetti più pubblici della vita culturale, nella quale si costituiscono leggi e regole relative alla vita sia pubblica che privata.
7 Vedi ad esempio K. Singh, “Obstacles to Womenʼs Rights in India”, in R. J. Cook (ed.),
Human Rights of Women: National and International Perspectives, University of Pennsylvania
Press, Philadephia 1994, pp. 375-96, soprattutto le pp. 378-89.
102
Susan Moller Okin
In secondo luogo, uno degli scopi principali della maggior parte
delle culture è il controllo delle donne da parte degli uomini8. Si considerino, ad esempio, i miti di fondazione dellʼantichità greca e romana, oltre che del giudaismo, del cristianesimo e dellʼIslam: sono tutti
prevalentemente tentativi di giustificare il controllo e la subordinazione
delle donne. Questi miti consistono in una combinazione della negazione del ruolo femminile nella riproduzione, dellʼappropriazione da
parte degli uomini del potere di riprodursi da sé, della caratterizzazione
delle donne come eccessivamente emotive, infide, malvagie o sessualmente pericolose, nonché del rifiuto di riconoscere i diritti della madre
sui suoi figli. Si pensi ad Atena, scaturita dalla testa di Zeus, o a Romolo e Remo, allevati senza una madre umana. O ad Adamo, creato da un
Dio maschio, il quale poi (almeno secondo una delle due versioni bibliche della storia) plasma Eva a partire da una parte di Adamo. Si
consideri Eva, la cui debolezza traviò Adamo. Si pensi agli infiniti «generò» della Genesi, ove il ruolo primario delle donne nella riproduzione è completamente ignorato, o alle giustificazioni testuali della poligamia, praticata in passato in seno al giudaismo, e ancora diffusa in
molte parti del mondo islamico e in alcune zone degli USA (sebbene
illegalmente) fra i Mormoni. Si consideri anche il racconto di Abramo,
punto di svolta fondamentale nello sviluppo del monoteismo9. Dio comanda ad Abramo di sacrificare il «di lui» amatissimo figlio Isacco.
Abramo si prepara a fare di lui esattamente ciò che Dio gli domanda,
senza dire, né tanto meno chiedere nulla alla madre di Isacco, Sara.
Lʼubbidienza assoluta di Abramo a Dio lo rende il modello di fede
centrale e fondamentale per i tre monoteismi.
La tendenza a controllare le donne – e a biasimarle e punirle per
le difficoltà degli uomini a controllare i propri impulsi sessuali – si è
molto attenuata nelle versione più progressive e riformate del giudaismo, del cristianesimo e dellʼIslam, ma rimane forte nelle loro versioni più ortodosse o fondamentaliste. Per di più, questa tendenza
non si limita affatto alle culture occidentali o monoteistiche. Sono,
piuttosto, chiaramente patriarcali molte delle tradizioni e culture del
8 Non sono in grado di trattare qui delle radici di questa preoccupazione maschile, se non per
dire (seguendo le teoriche femministe Dorothy Dinnerstein, Nancy Chodorow, Jessica Benjamin
e, prima di loro, lʼantropologo gesuita Walter Ong) che sembra avere molto a che fare col ruolo
genitoriale primario femminile. È anche chiaramente connessa allʼincertezza della paternità, che
la tecnologia ha ora eliminato. Se simili questioni sono la sua radice, allora la preoccupazione
culturale di controllare le donne non è un fatto inevitabile della vita umana, ma un fattore contingente, che le femministe hanno un notevole interesse a cambiare.
9 Vedi C. Delaney, Abraham on Trial: the Social Legacy of Biblical Myth, Princeton University Press, Princeton 1998. Si noti che nella versione coranica Abramo non prepara Isacco per il
sacrificio, bensì Ismaele.
Susan Moller Okin
103
mondo, comprese quelle praticate negli Stati in passato conquistati o
colonizzati dagli europei – che comprendono sicuramente la maggior
parte dei popoli dellʼAfrica, del Medio Oriente, dellʼAmerica Latina
e dellʼAsia. Anchʼesse possiedono elaborati modelli di socializzazione, rituali, costumi matrimoniali e altre pratiche culturali (compresi i
sistemi di proprietà e di controllo dei beni) volti a mettere sotto il
controllo maschile la sessualità e la capacità riproduttiva delle donne.
Molte di tali pratiche rendono loro quasi impossibile scegliere di vivere indipendentemente dai maschi, di essere nubili o lesbiche, o di
non avere figli.
Coloro che praticano alcune delle usanze più discusse – la clitoridectomia, il matrimonio dei bambini o matrimoni altrimenti imposti,
o la poligamia – talvolta le difendono esplicitamente come necessarie
al controllo delle donne, e riconoscono apertamente che simili usanze
perdurano per via dellʼinsistenza degli uomini. In unʼintervista con la
giornalista del «New York Times», Celia Dugger, coloro che praticano la clitoridectomia in Costa dʼAvorio e in Togo spiegavano che
questa usanza «contribuisce ad assicurare la verginità delle ragazze
prima del matrimonio e la loro fedeltà dopo, riducendo il sesso ad un
obbligo coniugale». Come diceva una levatrice, «il ruolo di una donna nella vita è curare i suoi bambini, amministrare la casa e cucinare.
Se non venisse escissa, potrebbe pensare al suo piacere sessuale»10.
In Egitto, ove una legge che proibiva la mutilazione genitale femminile è stata di recente annullata da un tribunale, i fautori della pratica
dicono che essa «tiene a freno lʼappetito sessuale delle ragazze, e le
rende più adatte per il matrimonio»11. Per di più, in tali contesti, molte donne non hanno nessuna alternativa al matrimonio che sia economicamente accessibile. Anche gli uomini di culture poligamiche riconoscono prontamente che la poligamia favorisce il loro interesse personale ed è un mezzo per controllare le donne. Come diceva un immigrato francese originario del Mali in unʼintervista recente: «Se mia
moglie è malata e io non ne ho unʼaltra, chi si prenderà cura di me?
[...] Una moglie da sola è un guaio. Se ce ne sono molte, sono costrette ad essere educate e a comportarsi bene. Se si comportano male, si può minacciarle di prendere unʼaltra moglie». Le donne, evidentemente, vedono la poligamia in modo molto diverso. Le africane
immigrate in Francia negano di apprezzare la poligamia, e dicono
che non solo non è data loro nessuna scelta, ma che neppure le loro
10 «New York Times», 5 October 1996, A4. Il ruolo che le donne anziane assumono nel perpetuare tali culture è importante ma complesso, e non può essere trattato qui.
11 «New York Times», 26 June 1997, A9.
104
Susan Moller Okin
ave in Africa la gradivano12. A proposito dei matrimoni delle bambine, o comunque imposti: questa usanza è chiaramente un modo per
controllare non solo le scelte matrimoniali delle ragazze o delle giovani donne, ma anche per assicurarsi che siano vergini al momento
del matrimonio, e, spesso, per accrescere il potere del marito creando
una differenza di età significativa fra coniugi.
Si consideri anche la pratica – comune in gran parte dellʼAmerica
Latina e delle campagne dellʼIndocina, oltre che di aree dellʼAfrica
occidentale – di incoraggiare o addirittura di pretendere che la vittima di uno stupro sposi lo stupratore. In molte di queste culture –
compresi quattordici paesi dellʼAmerica Latina – gli stupratori sono
esonerati da ogni responsabilità giuridica se sposano, o, in qualche
caso, semplicemente si offrono di sposare le loro vittime. In queste
culture, lo stupro non è visto come una aggressione violenta alla ragazza o alla donna stessa, bensì come una grave offesa alla sua famiglia e al suo onore. Sposando la sua vittima, lo stupratore può contribuire a restaurare lʼonore della famiglia e a liberarla da una figlia
che, come una “merce danneggiata” è diventata inadatta al matrimonio. In Perù, questa legge barbarica è stata peggiorata nel 1991: coloro che sono accusati in solido di uno stupro di gruppo sono liberati
dai carichi penali se uno di loro si offre di sposare la vittima (le femministe stanno lottando per lʼabrogazione di questa legge). Come
spiegava un tassista peruviano: «Il matrimonio è la cosa giusta e conveniente da fare dopo uno stupro. Una donna stuprata è un articolo
usato. Nessuno la vuole. Almeno con questa legge la donna avrà un
marito»13. È difficile immaginare una sorte peggiore, per una donna,
di quella di essere indotta a sposare lʼuomo che lʼha stuprata. Ma in
alcune culture esistono sorti peggiori – segnatamente in Pakistan e in
parte del Medio Oriente arabo, ove le donne che presentano una denuncia di stupro sono di frequente accusate del grave delitto musulmano della zina, o sesso fuori dal matrimonio. Il diritto permette di
frustare o imprigionare una donna in questo stato, e la cultura perdona lʼomicidio o lʼinduzione al suicidio di una donna stuprata da parte
di parenti interessati a restaurare lʼonore della famiglia14.
In conclusione, molte abitudini culturalmente fondate sono finalizzate a controllare le donne e ad asservirle, specialmente sul piano
sessuale e riproduttivo, ai desideri e agli interessi degli uomini. Per di
12
«International Herald Tribune», 2 February 1997, News section.
«New York Times», 12 March 1997, A8.
14 Questa pratica è trattata in H. S. Richardson, Practical Reasoning About Final Ends, Cambridge University Press, Cambridge 1994, soprattutto le pp. 240-43, 262-63, 282-84.
13
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105
più, talvolta, la “cultura” o le “tradizioni” sono così strettamente legate al controllo delle donne quasi al punto da equivalere ad esso. In
un reportage recente su una piccola comunità di ebrei ortodossi delle
montagne dello Yemen – ironicamente, da un punto di vista femminista, il titolo dellʼarticolo era “Le piccole comunità ebraiche yemenite fioriscono in una mescolanza di tradizioni”–, lʼanziano capo di
questa piccola setta poligamica afferma: «Siamo ebrei ortodossi,
molto attaccati alle nostre tradizioni. Se andassimo in Israele, ci lasceremmo sfuggire di mano le nostre figlie, mogli e sorelle». E un
suo figlio aggiunge: «Noi siamo come i musulmani, non permettiamo
alle nostre donne di scoprirsi la faccia»15. Dunque, lʼasservimento
delle donne è presentato come una specie di sinonimo delle «nostre
tradizioni». (Solo la cecità allʼasservimento sessuale può spiegare il
titolo dellʼarticolo: un titolo del genere sarebbe inimmaginabile per
un articolo su una comunità praticante una schiavitù diversa da quella sessuale.)
Mentre quasi tutte le culture del mondo hanno un passato chiaramente patriarcale, alcune – per lo più, ma non esclusivamente, le
culture occidentali liberali – si sono distaccate da questo passato più
di altre. Le culture occidentali, certo, praticano ancora molte forme
di discriminazione sessuale. Esse danno più importanza alla bellezza, alla magrezza e alla gioventù per le donne, e al successo intellettuale, alla capacità e alla forza per i maschi; si attendono che le
donne facciano, senza remunerazione economica, ben più della metà
del lavoro non pagato allʼinterno della famiglia, a prescindere dal
fatto che abbiamo o no un lavoro stipendiato; sia per questo, sia per
la discriminazione sessuale sul posto di lavoro, la povertà è un destino molto più probabile per le donne che per gli uomini; e donne e
ragazze sono esposte ad una grande quantità di violenza (illegale),
anche sessuale. Ma, nello stesso tempo, in numerose culture liberali
alle donne sono giuridicamente garantite molte delle libertà e delle
possibilità degli uomini. In più, molte famiglie allʼinterno di tali culture, con lʼeccezione di alcuni religiosi fondamentalisti, non trasmettono alle figlie lʼidea che esse siano di valore inferiore rispetto ai
ragazzi, che la loro vita debba essere confinata alla sfera domestica
e al servizio degli uomini e dei figli, e che il solo valore positivo
della loro sessualità debba venire rigorosamente limitato al matrimonio, al servizio degli uomini e a scopi riproduttivi. Ciò, come
abbiamo visto, è assai diverso dalla condizione femminile in altre
15
«Agence France Presse», 18 May 1997, International News section.
106
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culture del mondo, comprese quelle da cui provengono molti immigrati in Europa e nel Nordamerica.
2. Diritti di gruppo?
La maggior parte delle culture sono patriarcali e molte delle comunità culturali – per quanto non tutte – che reclamano diritti di
gruppo sono più patriarcali delle culture circostanti. Perciò non è sorprendente che lʼimportanza culturale di conservare il controllo sulle
donne emerga con stridente evidenza negli esempi forniti dalla letteratura sulla diversità culturale e i diritti di gruppo entro Stati liberali.
Tuttavia, sebbene lʼevidenza sia stridente, questo tema viene di rado
affrontato in modo esplicito16.
Un saggio del 1986 sui diritti giuridici e sulle rivendicazioni culturalmente fondate da parte di vari gruppi di immigrati e zingari in
Gran Bretagna ricorda il ruolo e lo status delle donne come un «esempio chiarissimo» del «contrasto fra culture»17. In questo testo, Sebastian Poulter discute le istanze relative a trattamenti giuridici speciali
avanzate dai membri di tali gruppi sulla base delle loro differenze
culturali. Alcune di queste istanze non sono connesse al genere: un
insegnante musulmano chiede il permesso di restare assente dal lavoro per la preghiera una parte del venerdì pomeriggio, e i bambini
zingari di avere un obbligo scolastico meno rigoroso a causa della
loro vita nomade. Ma la grande maggioranza degli esempi riguardano disuguaglianze di genere: matrimoni precoci o imposti, regolamenti di divorzio pregiudicati contro le donne, poligamia e clitoridectomia. Quasi tutte le cause giuridiche affrontate derivano da istanze di donne o ragazze secondo le quali le pratiche dei loro gruppi
culturali hanno ristretto o violato i loro diritti individuali. In un articolo recente della filosofa politica Amy Gutmann, The Challenge of
Multiculturalism in Political Ethics, una buona metà degli esempi ha
a che vedere con questioni di genere – poligamia, aborto, molestie
sessuali, clitoridectomia e purdah [segregazione sessuale; n.d.T.]18.
Questo è caratteristico nella letteratura su questioni multiculturali intrastatuali. E lo stesso fenomeno si verifica in ambito internazionale,
16 Si veda, tuttavia, B. Parekh, Minority Practices and Principles of Toleration, «International
Migration Review», 30, 1, 1996, pp. 251-84, nel quale affronta direttamente e critica una serie di
pratiche culturali che svalutano le donne.
17 S. Poulter, Ethnic Minority Customs, English Law, and Human Rights, «International and
Comparative Law Quarterly», 36, 3, 1987, pp. 589-615.
18 A. Gutmann, The Challenge of Multiculturalism in Political Ethics, «Philosophy and Public
Affairs», 22, 3, 1993, pp. 171-204.
Susan Moller Okin
107
ove i diritti umani delle donne sono spesso respinti come incompatibili con la propria cultura dai governanti di alcuni paesi o gruppi di
paesi19.
Analogamente, una schiacciante maggioranza delle “difese culturali” adottate con sempre maggior frequenza nei processi penali americani, coinvolgenti membri di minoranze culturali, sono connesse al
genere, e in particolare al controllo maschile su donne e bambini20.
Talvolta le difese culturali entrano in gioco per spiegare la violenza
prevedibile fra uomini o il sacrificio rituale di animali. Tuttavia, è
molto più comune lʼargomento secondo cui, nel gruppo culturale dellʼimputato, le donne non sono esseri umani di uguale valore, ma subordinati, la cui funzione primaria (se non esclusiva) è servire i maschi sessualmente e nella cura domestica. Perciò, i quattro tipi di casi
in cui le difese culturali sono state impiegate con più successo sono:
1) rapimento e stupro commessi da uomini Hmong [un gruppo tribale del Laos; n.d.T.], che sostengono che queste azioni sono parte della pratica culturale del zij poj niam o matrimonio per ratto; 2) uxoricidio commesso da immigrati asiatici e mediorientali, le cui mogli
hanno commesso adulterio o sottomesso il proprio marito; 3) madri
che hanno ucciso i propri figli e tentato il suicidio, e affermano che
la vergogna dellʼinfedeltà dello sposo le ha spinte, a causa delle loro
radici cinesi o giapponesi, alla pratica culturalmente ammissibile del
suicidio di madre e figli; 4) e la clitoridectomia – in Francia, sebbene
non ancora negli USA, dove la pratica è divenuta reato penale solo
nel 1996. In una serie di casi di questo genere, la testimonianza dellʼesperto sul retroscena culturale dellʼimputato o del querelato ha
condotto alla riduzione o alla caduta di capi dʼaccusa, alla valutazione della mens rea su base culturale, o a significative riduzioni delle
pene. In una famosa causa recente, un immigrato dellʼIraq rurale ha
fatto sposare le sue due figlie, di tredici e quattordici anni, a due amici di ventotto e trentaquattro anni. In seguito, quando la figlia maggiore è fuggita col fidanzato ventenne, il padre ha chiesto aiuto alla
polizia per ritrovarla. E quando la polizia lʼha trovata, ha accusato il
padre di maltrattamento delle figlie, e i mariti e il fidanzato di stupro
19 M. Afkhami (ed.), Faith and Freedom: Womenʼs Human Rights in the Muslim World, Syracuse University Press, Syracuse (NY) 1995; V. M. Moghadam (ed.), Identity Politics and Women:
Cultural Reassertions and Feminisms in International Perspective, Westview Press, Boulder
(CO.) 1994; S. M. Okin, Culture, Religion, and Female Identity Formation, manoscritto inedito,
1997.
20 Vedi, fra le trattazioni migliori e più recenti di questo, nonché per lʼenumerazione giuridica
dei casi menzionati, D. Lambelet Coleman, Individualizing Justice Through Multiculturalism:
The Liberalsʼ Dilemma, «Columbia Law Review» 96, 5, 1996, pp. 1093-167.
108
Susan Moller Okin
di minore. La difesa degli iracheni è fondata, almeno in parte, sulle
usanze matrimoniali della loro cultura21.
Come mostrano questi esempi, gli imputati non sono sempre maschi, né le vittime sempre femmine. Sia un immigrato cinese a New
York che aveva percosso a morte la moglie adultera, sia unʼimmigrata giapponese in California che aveva annegato i figli e tentato ella
stessa di annegarsi perché lʼadulterio del marito aveva disonorato la
famiglia, hanno invocato difese culturali per ottenere attenuanti dei
capi dʼaccusa (da omicidio volontario a omicidio colposo). Potrebbe
sembrare, dunque, che la difesa culturale nel primo caso rappresentasse un pregiudizio a favore dellʼuomo, e della donna nel secondo.
Ma non esiste una tale asimmetria. In entrambi i casi, il messaggio
culturale è influenzato in modo analogo dal genere: le donne (e i
bambini, nel secondo caso) sono in una posizione ancillare rispetto
allʼuomo, e devono sopportare la colpa e la vergogna di ogni allontanamento dalla monogamia. Chiunque sia lʼinfedele, è la moglie a
soffrirne le conseguenze. Nel primo caso, venendo brutalmente uccisa per la furia del marito a causa della sua vergognosa infedeltà, e nel
secondo caso perché lʼinfedeltà dello sposo è una vergogna e un marchio di fallimento tale da spingerla a sopprimere se stessa e i propri
figli. Di nuovo, lʼidea che le donne e le ragazze siano principalmente
e innanzitutto schiave sessuali degli uomini, le cui virtù fondamentali sono la verginità prima del matrimonio e la fedeltà nel matrimonio,
emerge in molte affermazioni in difesa delle pratiche culturali.
Le culture occidentali maggioritarie, soprattutto in seguito allʼinsistenza delle femministe, hanno di recente compiuto sforzi significativi allo scopo di eliminare o limitare i pretesti per trattare brutalmente
le donne. Fino a non molto tempo fa, nel caso degli americani, la
responsabilità dellʼuxoricidio veniva di norma attenuata se essi spiegavano la loro condotta come un delitto passionale, dettato dalla gelosia per lʼinfedeltà della moglie. E le donne che avevano subito uno
stupro venivano sistematicamente incolpate, se non avevano un passato completamente illibato, o se non avevano opposto resistenza fino a mettere in pericolo se stesse. Ora le cose sono in qualche misura
cambiate, e i sospetti relativi alla svolta in favore delle difese culturali derivano parzialmente, senza dubbio, dalla preoccupazione di
conservare i progressi recenti. Ma forse la preoccupazione principale
è che, astenendosi dal proteggere le donne e talora i bambini delle
culture minoritarie dalla violenza maschile e a volte materna, le dife21
«New York Times», 2 December 1996, A6.
Susan Moller Okin
109
se culturali violino il loro diritto di uguale protezione da parte della
legge22. Quando una donna appartenente ad una cultura più patriarcale giunge negli USA o in qualche altro Stato occidentale fondamentalmente liberale, perché dovrebbe essere meno protetta dalla violenza maschile rispetto ad altre donne? Molte donne di culture minoritarie hanno protestato proprio perché viene applicata, a favore dei loro
aggressori, una unità di misura differente, meno severa rispetto agli
altri23.
3. Difese liberali
Nonostante tutte queste prove di pratiche culturali che controllano
e subordinano le donne, nessuno dei più importanti difensori dei diritti multiculturali di gruppo ha affrontato adeguatamente o semplicemente tematizzato in maniera diretta le imbarazzanti connessioni fra
genere e cultura, o i conflitti che sorgono così comunemente fra multiculturalismo e femminismo. La trattazione di Will Kymlicka è, a
questo proposito, rappresentativa.
Le argomentazioni di Kymlicka a favore dei diritti di gruppo si
basano sui diritti individuali, e limitano tali privilegi e protezioni a
gruppi che sono liberali al loro interno. Seguendo John Rawls, Kymlicka mette lʼaccento sullʼimportanza fondamentale del rispetto di sé
nella vita di una persona. Egli afferma che lʼappartenenza a una «ricca e stabile struttura culturale»24 con la sua lingua e la sua storia, è
essenziale sia per lo sviluppo del rispetto di sé, sia di un contesto
entro il quale le persone possano coltivare la capacità di fare scelte
relativamente alla condotta della propria esistenza. Perciò, le minoranze culturali hanno bisogno di diritti speciali, perché, altrimenti, le
loro culture potrebbero essere minacciate di estinzione; lʼestinzione
culturale probabilmente metterebbe a repentaglio il rispetto per se
stessi e la libertà dei membri del gruppo. In breve, i diritti speciali
pongono le minoranze su un livello di parità con la maggioranza.
Il valore della libertà ha un ruolo importante nellʼargomentazione
di Kymlicka. Perciò, con lʼeccezione di rari casi di vulnerabilità culturale, un gruppo che reclama diritti speciali deve autogovernarsi secondo princìpi chiaramente liberali, senza ledere le libertà fondamen-
22
Vedi D. Lambelet Coleman, Individualizing Justice Through Multiculturalism, cit.
Vedi ad esempio N. Rimonte, A Question of Culture: Cultural Approval of Violence Against
Women in the Asian-Pacific Community and the Cultural Defense, «Stanford Law Review», 43,
1991, pp. 1311-326.
24 W. Kymlicka, Liberalism, Community, and Culture, cit., p. 165.
23
110
Susan Moller Okin
tali dei suoi membri con restrizioni interne, né discriminarli sulla
base del sesso, della razza o delle preferenze sessuali25. Questo requisito è di grande importanza per una coerente giustificazione liberale
dei diritti di gruppo, perché una cultura “chiusa” o discriminatoria
non può fornire il contesto dello sviluppo individuale voluto dal liberalismo e perché altrimenti i diritti collettivi potrebbero produrre una
subcultura oppressiva allʼinterno delle società liberali e per di più
con il loro appoggio. Come dice Kymlicka: «Impedire alle persone di
mettere in discussione i ruoli sociali che hanno ereditato può anche
voler dire condannarle a condurre una vita non gratificante e persino
oppressiva»26.
Come riconosce Kymlicka, il requisito del liberalismo interno
esclude la giustificazione dei diritti di gruppo per i «molti fondamentalisti, di tutti i colori religiosi e politici, che pensano che la migliore
comunità sia quella in cui sono messe fuori legge tutte le pratiche
religiose, sessuali o estetiche, tranne quelle da loro preferite». Infatti,
la promozione e il sostegno di queste culture «mette a repentaglio la
ragione stessa per cui ci preoccupiamo dellʼappartenenza culturale,
– vale a dire, essa rende possibili scelte individuali dotate di significato»27. Ma gli esempi sopra citati suggeriscono che un numero assai
inferiore di culture minoritarie rispetto a quante Kymlicka sembra
pensare, sarà in grado di rivendicare diritti di gruppo a partire dalla
giustificazione liberale da lui proposta. Sebbene sia possibile che esse non impongano le proprie credenze o abitudini agli altri e diano
lʼimpressione di rispettare le libertà fondamentali, politiche e civili di
donne e ragazze, molte culture le trattano, specialmente nella sfera
privata, con nulla di simile allʼinteresse e al rispetto goduto da uomini e ragazzi, né permettono loro di godere della stessa libertà. La discriminazione e il controllo della libertà femminile vengono praticati,
in grado maggiore o minore, quasi da tutte le culture, del passato e
del presente, ma soprattutto da quelle religiose e da quelle che cercano nel passato – in testi antichi o in una tradizione venerabile – principi e norme su come vivere nel mondo contemporaneo. Talvolta,
culture minoritarie più patriarcali esistono nel contesto di culture di
maggioranza meno patriarcali, talaltra vale il contrario. In entrambi i
casi, il grado in cui ciascuna cultura è patriarcale e la sua disposizione ad esserlo meno dovrebbero essere fattori cruciali per prendere in
25
26
27
Ivi, pp. 168-72, e pp. 195-98.
W. Kymlicka, La cittadinanza multiculturale, cit., p. 161.
W. Kymlicka, Liberalism, Community, and Culture, cit., pp. 171-72.
Susan Moller Okin
111
considerazione le giustificazioni dei diritti di gruppo – se prendiamo
sul serio lʼuguaglianza delle donne.
Kymlicka, senza dubbio, ritiene che le culture che discriminano le
donne in modo manifesto e formale – negando loro lʼistruzione, o
lʼelettorato attivo e passivo – non meritino diritti speciali28. Ma la
discriminazione sessuale è spesso assai meno manifesta. In molte
culture un severo controllo delle donne è imposto, nella sfera privata,
dallʼautorità di un padre effettivo o simbolico, che agisce spesso tramite le donne più anziane o con la loro complicità. In altre culture in
cui le libertà e i diritti femminili sono formalmente garantiti, la discriminazione contro le donne nella famiglia non solo limita gravemente le loro scelte, ma minaccia seriamente il loro benessere e anche la loro vita29. E una simile discriminazione sessuale – dura o
blanda che sia – spesso ha potentissime radici culturali.
Sebbene Kymlicka si opponga giustamente alla concessione di diritti di gruppo alle culture minoritarie che praticano una discriminazione sessuale manifesta, le sue argomentazioni a favore del multiculturalismo trascurano qualcosa che pur egli riconosce altrove: che
la subordinazione delle donne è spesso informale e privata, e che
quasi nessuna cultura oggi esistente – minoritaria o maggioritaria –
potrebbe risultare conforme al criterio dellʼ“assenza di discriminazioni sessuali”, da lui ritenuto essenziale, se questo fosse applicato alla
sfera privata30. Coloro che propugnano i diritti di gruppo valendosi di
fondazioni liberali devono prendere in considerazione questa discriminazione privatissima e culturalmente rafforzata. Perché sicuramente il rispetto di sé e lʼautostima hanno bisogno di qualcosa di più
della semplice appartenenza ad una cultura vitale. Di sicuro, non basta che la sua cultura sia protetta perché chiunque sia in grado di
«mettere in questione i propri ruoli sociali ereditari» e possieda la
capacità di fare scelte significative. Almeno altrettanto importante per
lo sviluppo del rispetto di sé e dellʼautostima è il nostro posto nella
nostra cultura. E almeno altrettanto importante per la nostra capacità
di mettere in discussione i ruoli sociali è il fatto che la nostra cultura
ci imponga, oppure no, ruoli sociali particolari. Nella misura in cui
la loro cultura è patriarcale, un sano sviluppo delle ragazze è messo
a repentaglio sotto entrambi gli aspetti.
28
W. Kymlicka, La cittadinanza multiculturale, cit., p. 252, e p. 272.
Si veda, ad esempio, A. Sen, More than One Hundred Million Women Are Missing, «New
York Review of Books», 20 December 1990.
30 W. Kymlicka, Contemporary Political Philosophy: An Introduction, The Clarendon Press,
Oxford 1990, pp. 239-62.
29
112
Susan Moller Okin
4. Parte della soluzione?
Non è affatto chiaro, dunque, da un punto di vista femminista, che
i diritti delle minoranze siano “parte della soluzione”. Essi possono
addirittura aggravare il problema. Nel caso di una minoranza culturale più patriarcale entro una cultura maggioritaria meno patriarcale,
non si può argomentare in base al rispetto di sé o alla libertà che i
membri femminili di quella cultura hanno tutto lʼinteresse a preservare. Anzi, la loro condizione potrebbe migliorare molto se la loro cultura di nascita dovesse estinguersi, lasciando integrare i suoi membri
nella cultura circostante meno sessista, o, ancor meglio, se venisse
incoraggiata a cambiare in modo da rafforzare lʼuguaglianza delle
donne – almeno fino al livello della cultura maggioritaria. Naturalmente, si dovrebbe tenere conto di altre considerazioni, come ad
esempio la circostanza che la minoranza culturale parli unʼaltra lingua, che richiede protezione, o che il gruppo subisca pregiudizi come
la discriminazione razziale. Ma occorrono fattori contrari molto significativi per bilanciare la circostanza che una cultura restringa in
modo rigido le scelte delle donne o metta altrimenti a repentaglio il
loro benessere.
Ciò che mostrano alcuni degli esempi affrontati è come delle pratiche culturalmente consolidate che sono oppressive per le donne
possono spesso restare nascoste nella sfera privata o domestica. Nel
caso del matrimonio delle bambine irachene, se il padre stesso non si
fosse rivolto a funzionari statali, la situazione delle figlie probabilmente non sarebbe mai divenuta pubblica. E quando, nel 1996, il
Congresso ha approvato una legge che trasformava la clitoridectomia
in reato penale, alcuni dottori americani hanno obiettato che una simile legge era ingiustificata, perché riguardava una questione privata
che, come disse qualcuno, «dovrebbe essere decisa da un medico,
dalla famiglia e dalla bambina»31. Ci vogliono circostanze più o meno straordinarie perché simili abusi sulle ragazze e sulle donne diventino pubblici o perché lo Stato riesca a intervenire in maniera
protettiva.
Perciò è chiaro che molti esempi di discriminazione delle donne
per motivi culturali non riusciranno mai ad emergere in pubblico,
laddove i tribunali possono rendere effettivi i loro diritti e i teorici
politici possono etichettare tali pratiche come violazioni illiberali, e
perciò ingiustificate, dellʼintegrità fisica e mentale delle donne. Istituire diritti di gruppo per mettere alcune minoranze culturali in grado
31
New York Times, 12 October 1996, A6. Idee simili sono state esposte alla radio pubblica.
Susan Moller Okin
113
di conservarsi può non coincidere con lʼinteresse prioritario delle ragazze e delle donne di quella cultura, anche se ne avvantaggia gli
uomini.
Quando si producono argomentazioni liberali a favore dei diritti di
gruppo, occorre unʼattenzione particolare per le disuguaglianze interne al gruppo. È particolarmente importante considerare le disuguaglianze fra i sessi, perché esse sono meno soggette ad essere rese
pubbliche, e meno facilmente discernibili. Inoltre, le politiche che
intendono dare una risposta ai bisogni e alle istanze delle minoranze
culturali devono prendere sul serio la necessità di dare una rappresentanza adeguata ai membri meno potenti di tali gruppi. Poiché lʼattenzione ai diritti delle minoranze culturali deve essere coerente con
i princìpi fondamentali del liberalismo, deve avere come fine ultimo
la promozione del benessere dei membri di questi gruppi, e perciò è
ingiustificato assumere che i sedicenti capi di quei gruppi – invariabilmente, per lo più, i membri anziani e maschi – rappresentino gli
interessi di tutti i membri del gruppo. A meno che le donne – e più
precisamente le donne giovani, perché le anziane spesso vengono
cooptate nel rafforzamento della disuguaglianza di genere – non siano pienamente rappresentate nei negoziati sui diritti del gruppo, i loro interessi possono essere lesi, piuttosto che promossi, dalla concessione di tali diritti.
MARIA CHIARA PIEVATOLO
NOTA DELLA TRADUTTRICE
DEL SAGGIO DI SUSAN MOLLER OKIN
Nel 1998 scelsi di tradurre lʼallora recentissimo Is Multiculturalism
Bad for Women? di Susan Moller Okin per due motivi. In primo luogo, mi premeva presentare una voce femminista, alternativa al pensiero della differenza egemonico in Italia. In secondo luogo, mi interessava illustrare il più generale rischio a cui si espone una filosofia
politica che rinunci allʼimpegno di parlare a tutti e si metta al servizio di identità corporative constatate antropologicamente e assunte
come date. Un rischio ben mostrato dalla sorte delle donne in un
multiculturalismo che si faccia portatore di diritti di gruppo e rinunci
al compito difficile di fondare diritti umani universali – diritti i quali
non dovrebbero necessariamente essere identici a ciò che i cosiddetti
“occidentali” hanno inteso come tali.
In seguito Susan Moller Okin1, morta prematuramente nel 2004,
ha conquistato maggior notorietà in Italia, quasi sempre come filosofa politica femminista. La sua prospettiva, tuttavia, ha un respiro teorico più ampio, come si può evincere sia dalla sua biografia accademica, sia dalla sua opera più importante, Women in Western Political
Thought2.
Susan Moller Okin era titolare di una cattedra di Political Science
alla Stanford University, in quanto si occupava di filosofia politica e
1
Di S. M. Okin ho anche tradotto Justice, Gender and the Family (1989), ed.it.: Le donne e
la giustizia. La famiglia come problema politico, Dedalo, Bari 1999, trad. it. di G. Palombella,
M. C. Pievatolo, Presentazione di G. Palombella, Postfazione di M. C. Pievatolo; la mia postfazione è disponibile on-line allʼURL <http://www.sp.unipi.it/files/52-postfazione.rtf>.
2
S. M. Okin, Women in Western Political Thought (1979), Princeton University Press, Princeton 19922.
116
Maria Chiara Pievatolo
non di filosofia politica femminile, al punto da considerare, si legge
nellʼAfterword del 1992 a Women in Western Political Thought, i cosiddetti Womenʼs Studies come una forma di marginalizzazione culturale. Lʼistituzione di una cattedra di Filosofia Politica o di Storia delle donne è un alibi che permette che le cattedre di Filosofia Politica
o di Storia senza specificazioni continuino ad occuparsi solo di una
metà dellʼumanità, mentre lʼaltra rimane emarginata in un ghetto al
cui ingresso sta scritto, per liberare la coscienza, “valorizzazione”.
Enfatizzare la differenza sessuale, senza chiedersi se la sua rilevanza
al di là degli ambiti biologici non sia dovuta ad ingiustificate differenziazioni sociali e politiche, produce delle armi a doppio taglio –
soprattutto se messe in mano a forze conservatrici.
Women in Western Political Thought è un libro di filosofia politica, con una solida impostazione storica e uno stile chiaro e rigoroso.
Un testo che, sebbene ispirato da una tesi “militante”, potrebbe essere adottato senza imbarazzo, sia per la sua erudizione, sia per il suo
rigore, come manuale in un corso istituzionale.
Lʼintento di Women in Western Political Thought è capire in che
modo il pensiero filosofico-politico occidentale ha visto le donne.
Non è una questione marginale. Si tratta di considerare le tesi fondamentali dei pensatori che formano la nostra tradizione (Platone, Aristotele, Hobbes, Locke, Rousseau, John Stuart Mill) nella loro applicazione a una metà di ciò che è comunemente inteso come umanità.
S. M. Okin usa un grimaldello critico che può essere suddiviso in una
parte filosofica e in una parte politica. Sul piano filosofico, ove per
gli esseri umani di sesso maschile si è sempre distinto fra natura e
cultura e ci si è interrogati sulle loro potenzialità, mentre per gli esseri umani di sesso femminile si è preferita una visione funzionalistica e naturalistica: “a che cosa servono le donne?”. Questa domanda
si fonda, a sua volta, sullʼassunzione istituzionale della famiglia, con
la sua disuguale divisione del lavoro fra i sessi, come qualcosa di
naturale e di non soggetto alla giustizia in quanto costruzione filosofica e politica.
Platone si era reso conto che lo sviluppo delle potenzialità di ciascuno dipende dallʼeducazione. Che dunque, perfino nel mondo funzionalistico della Repubblica, non cʼera motivo di discriminare fra
uomini e donne. E che la radice della discriminazione era nella sfera
privata della famiglia col suo finalismo naturalistico. Contro noti interpreti di Platone (Strauss, Grote, Bloom), Okin sottolinea che, nella
Repubblica, lʼeliminazione della famiglia e gli accoppiamenti programmati eugeneticamente non possono essere visti come sintomi di
Maria Chiara Pievatolo
117
totalitarismo. Nel mondo greco la famiglia era unʼimpresa economica
e sociale e gli uomini trovavano amore e affetto nelle relazioni omosessuali. Gli obblighi imposti agli uomini nella Repubblica non sarebbero stati molto differenti dai loro normali doveri sociali e familiari; le donne, di contro, nellʼottima polis sarebbero state molto più
libere, avendo accesso alla vita pubblica e allʼistruzione. Questa è
unʼosservazione banale. Eppure fini grecisti hanno criticato Platone
assumendo senza riserve il punto di vista del capo-famiglia maschio
della tradizionale famiglia borghese occidentale, intesa come sede di
una vita affettiva che i contemporanei di Platone trovavano altrove. E
hanno compiuto questa scelta perché non hanno trattato la questione
delle potenzialità e del ruolo delle donne come una questione filosofica, ma come un elemento già risolto, naturalisticamente, in una famiglia che la filosofia ha accettato come data.
In questa prospettiva, è stato più comodo accogliere, nel pensiero
politico occidentale, il funzionalismo conservatore e naturalistico di
Aristotele, che è una prospettiva coerente in una visione teleologica e
gerarchica del mondo, ma che – se inserito entro un paradigma contrattualista o democratico – produce gravi contraddizioni. Tuttavia,
questa visione delle donne è stata mantenuta sia dai contrattualisti,
sia da Rousseau, sia da John Stuart Mill – che pure è lʼunico liberale
femminista. I contrattualisti hanno assunto come naturale la famiglia
sottoposta al comando del maschio, escludendola senza giustificazione dal contratto; Rousseau ha conservato, solo per le donne, la legittimità della servitù e del diritto del più forte, con la paradossale conseguenza che la famiglia è nello stesso tempo la cellula fondamentale della società e la sua principale fonte di corruzione: lʼangelo del
focolare è una donna che è stata educata non come una libera cittadina, bensì come finalizzata e asservita al piacere del marito, nonché
alle vezzosità viziose e alle ipocrisie del costume. John Stuart Mill
rivendica, da liberale, pari diritti civili e politici per le donne, ma,
assumendo la famiglia nucleare borghese e lʼistinto materno come
naturali, non ha gli strumenti per affrontare il problema della divisione sessuale del lavoro entro la famiglia stessa, e dellʼaccettazione
acritica di questa divisione entro la società.
Come si vede, la tesi filosofica e quella politica della Okin trascendono il dibattito sul multiculturalismo: la sua tesi di fondo è che,
invece di compiacersi di differenze la cui origine è dubbia, si dovrebbe criticare, sul piano filosofico, il funzionalismo, e porre, sul piano
politico, il problema della giustizia e dellʼuguaglianza nella sede al
cui interno questo funzionalismo è stato gelosamente e acriticamente
118
Maria Chiara Pievatolo
conservato: non solo, dunque, nei gruppi culturali, ma innanzitutto
nella famiglia, i cui confini non possono essere detti privati, perché
sono ritagliati e riconosciuti dal “pubblico”, socialmente, giuridicamente e politicamente.
GIUSEPPE CACCIATORE
IMMAGINAZIONE, IDENTITÀ
E INTERCULTURALITÀ
1. Immaginazione ed etica
Forse è bene chiarire, preliminarmente, in che senso si possa parlare di una relazione tra etica e immaginazione, ma anche tra etica e
immagini. E questa esigenza è ancor più evidente dinanzi a ciò che,
da più parti, dalla filosofia come dalla sociologia, dallʼantropologia
come dalla letteratura, dalla psicologia come dallʼestetica e dalla storia dellʼarte, viene definita, descritta ed analizzata come ipertrofia
delle immagini e della stessa facoltà immaginativa, come uso ed abuso, fino quasi alla consumazione istantanea, delle immagini e, analogamente, di ogni produzione che sia riconducibile ad una attività immaginativa1. Sembrerebbe, dunque, che oggi alla riflessione filosofica
sia, per così dire, assegnato un compito che non è specificamente
suo, ma tuttʼal più della sociologia dellʼarte e della conoscenza e,
forsʼanche, di alcuni ambiti disciplinari raggruppati nel contesto dei
cosiddetti Cultural Studies; o ancora un ulteriore ambito, che, più che
riferirsi allʼanalisi filosofica, appartiene piuttosto alle scienze biologiche e neurobiologiche quando studiano le attività cerebrali connesse
ai fenomeni ottici e alle percezioni visive. Tuttavia, vi è uno spazio
residuo per un discorso filosofico sulle immagini e sulla immaginazione, purché esso riprenda ad utilizzare alcuni paradigmi concettuali che appartengono a momenti emblematici della tradizione filosofica classica. Si potrebbe partire dalla ricerca platonica del «terzo genere», individuato nei prodotti della phantasia e posto a mediare tra
1 Valga per tutti lʼimportante libro di S. Gruzinski, La guerra delle immagini: da Cristoforo
Colombo a “Blade Runner” (1492-2019), Sugarco, Milano 1991.
120
Giuseppe Cacciatore
le idee e le cose reali2, per passare poi al perfezionamento aristotelico
di questa indicazione, rinvenibile nella distinzione dellʼimmaginazione sia dallʼopinione che dalla sensazione e alla sua funzione di anticipazione di possibili contenuti futuri dellʼanima. Ma, come è ben
noto, è con alcuni grandi filosofi della modernità, da Bacone a Cartesio, da Spinoza a Vico, che lʼimmaginazione diviene una delle facoltà fondamentali, da collocare accanto alla ragione, fino alle imprescindibili teorie kantiane sulla distinzione tra immaginazione produttiva e riproduttiva. Ma qui, naturalmente non intendo fare una storia
in sedicesimo dellʼimmaginazione. E, tuttavia, utilizzo un pezzo della
storia del concetto e del termine immaginazione (con i correlati concetti di fantasia e ingegno), cioè le idee di Giambattista Vico, per
avvalorare unʼipotesi di riflessione critica sullʼetica contemporanea
basata sullʼimmaginazione e sulla ragione poetico-narrativa.
Ho già in altre occasioni e in altri luoghi sostenuto3 che il pieno
maturarsi e dispiegarsi della filosofia moderna non è individuabile
solo a partire dalla fondazione cartesiana della soggettività, epistemicamente ed ontologicamente intesa, né solo nellʼetica spinoziana o
nella mathesis leibniziana. Ciò che introduce alla modernità e ne segna, anzi, uno dei decisivi passaggi, è anche la straordinaria riflessione di Giambattista Vico, al tempo stesso, storico-ricostruttiva e filosofico-concettuale, sullʼingegno e sulla fantasia. Non si tratta solo,
come ormai concordemente ammettono gli studiosi di Vico, della
centralità assunta dalla fantasia nella sfera specifica della poesia e
delle attività umane legate allʼimmaginazione. Lʼingegno è concepito
come lʼinsieme di quelle forme mentali e, al tempo stesso, di quelle
condotte pratiche e atti volontari che appartengono anchʼessi alla generale struttura della conoscenza umana. In tal modo, anzi, lʼingegno
accresce di gran lunga la sua presa sullʼesperienza dellʼuomo. È, infatti, a partire dalle produzioni della fantasia, dai suoi procedimenti
2 Ecco alcune essenziali informazioni bibliografiche: G. Carchia, Estetica ed erotica. Saggio
sullʼimmaginazione, Celuc, Milano 1981; E. T. H. Brann, The World of Imagination, RowmanLittlefeld, London 1991; M. Ferraris, Lʼimmaginazione, Il Mulino, Bologna 1996. Per quanto riguarda il tema specifico delle immagini, cfr. J. J. Wunenburger, Filosofia delle immagini, trad. it.
di S. Arecco, Einaudi, Torino 1999.
3 Mi permetto di segnalare alcuni miei studi: G. Cacciatore, Metaphysik, Poesie und Geschichte. Über die Philosophie von Giambattista Vico, Berlin Akademie Verlag, Berlin 2002 (si veda
in particolare il capitolo “Poesie und Geschichte”, pp. 109 e sgg.); Id., Simbolo e segno in Vico.
La storia tra fantasia e razionalità, in «Il Pensiero», 1, 2002, pp. 77-89; Id., “Vico: narrazione
storica e narrazione fantastica”, in G. Cacciatore-V. Gessa Kurotschka-E. Nuzzo-M. Sanna (a
cura di), Il sapere poetico e gli universali fantastici. La presenza di Vico nella riflessione filosofica contemporanea, Guida, Napoli 2004, pp. 117-39; Id., La ingeniosa ratio de Vico entre sabiduria y prudencia, in «Cuadernos sobre Vico», 17-18, 2004-2005, pp. 37-45; Id., Forme e figure
dellʼingegno in Cervantes e Vico, di prossima pubblicazione.
Giuseppe Cacciatore
121
immaginativi e narrativi, ad esempio, dalla sua capacità di sintesi
attraverso simboli, immagini, icone, metafore, miti e massime, che
lʼuomo appare in grado di riconoscere ed esprimere (quasi con un
atto di originaria ermeneutica ontologica) i segni dei linguaggi e i
sensi delle cose. Lʼimmaginazione, in questo senso, non è solo, per
così dire, materia di rappresentazione fantastica, ma è anche, da un
punto di vista ontogenetico, la forma espressiva originaria che sta a
fondamento dellʼagire storico e morale dellʼindividuo.
Il riferimento alla filosofia di Vico è, per così dire, di tipo strumentale, giacché, come tutti ben sanno, lʼatto del vedere e lʼesperienza dellʼimmagine si trovano alle origini della cultura dellʼuomo
e delle sue formazioni, quandʼanche primitive e materiali. Il riferimento alla dimensione “culturale” è a maglie larghe, tanto da legittimare il nesso immaginazione-etica (ma si potrebbe dire anche immaginazione-politica, immaginazione-arte, immaginazione-linguaggio, ecc.). Ciò che sta prima di ogni operazione cognitiva, ma anche
di ogni valutazione morale e di ogni deliberazione politica, e che
fonda, si potrebbe dire, la possibilità stessa dei diversi saperi sullʼuomo, è lʼimmagine che un uomo ha dellʼaltro, che un popolo o
una etnia hanno di altri popoli e altre etnie. È a partire da questa
impronta di tipo fenomenologico che alcune delle più grandi riflessioni contemporanee hanno ricollocato al centro il tema dellʼimmagine: dallʼintenzionalità husserliana alla reinterpretazione heideggeriana dellʼimmaginazione trascendentale di Kant, dallʼidea sartriana
di immagine come condizione della coscienza al concetto di traccia
in Derrida come indistinzione tra rappresentazione reale e rappresentazione fittizia4.
Ancora di recente e, non a caso, un libro sullʼetica5, una riflessione filosofica sui nessi tra immaginazione poetica e vita umana, assume, tra gli altri, proprio il modello vichiano come uno dei luoghi
teorici che rendono possibile la riconsiderazione di alcuni profili dellʼetica contemporanea a partire dal problema della fantasia e della
creatività. È il percorso, ad esempio, che, già da qualche anno ha
tracciato una delle più interessanti e originali filosofe contemporanee
dellʼetica e della politica, come Martha Nussbaum. In lei troviamo
uno dei più convincenti argomenti filosofici a sostegno della relazione non soltanto tra immaginazione ed etica, ma anche del rapporto
4 Una utile sintesi, ricca di molteplici spunti interpretativi, di questi esiti contemporanei di una
filosofia e unʼestetica dellʼimmaginazione è quella di M. Ferraris, Lʼimmaginazione, cit., pp. 135
e sgg.
5 Mi riferisco a V. Gessa Kurotschka, Etica, Guida, Napoli 2006, pp. 192 e sgg.
122
Giuseppe Cacciatore
tra immaginazione e interculturalità, vero centro di questo mio intervento. Nussbaum non cade nella fin troppo scoperta trappola dellʼastratta (e a volte ideologica) contrapposizione tra sfera dellʼimmaginario e del creativo e sfera del reale e del normativo. Ciò che resta
in posizione dominante è una idea ben visibile e coerente di razionalità pubblica, della quale, però, parte fondamentale e ineludibile è
lʼimmaginazione6.
Si risponde, così, in modo decisamente negativo allʼantico e continuamente ricorrente quesito filosofico: bisogna sempre ricondurre i
valori morali e gli strumenti pratici della loro attuazione a strategie
unicamente razionali? In un libro utile e interessante sulla filosofia
delle immagini, Philosophie des images7 vi è una importante ricognizione del ruolo dellʼimmagine nella vita morale. In essa si ricostruisce e si analizza non solo la consistente schiera di filosofi e filosofie
che, in nome dellʼimmaginazione, hanno contestato il ruolo predominante della ragione, ma anche il posto non secondario che essa ha in
filosofi idealisti, normativisti e formalisti (con Platone e Kant in testa). Tra lʼaltro, proprio ai fini della costituzione del giudizio morale,
la rappresentazione immaginativa e simbolica del bene e del male
diventa essenziale: un significativo esempio addotto è quello di Ricoeur che parla dellʼinesplicabilità del male a livello razionale e della sua necessaria forma di riduzione ad una ermeneutica mitica8.
«Lʼimmagine interviene nella vita morale – scrive Wunenburger –
quando si tratta di definire le attitudini morali più compiute e di facilitare la pratica delle buone azioni. Parecchie concezioni filosofiche
hanno pertanto descritto modelli di vita morale a cui lʼimmaginazio6 Una interessante posizione che tenta il recupero – nella filosofia politica come nellʼetica,
nellʼermeneutica come nellʼestetica e nella storia dellʼarte – dellʼimmaginazione intesa come “altra razionalità” è stata sviluppata in anni recenti da alcuni filosofi messicani che hanno dato vita
a un progetto di ripensamento teorico e storiografico del barocco. Il problema filosofico è quello
di «uscire dal circuito della razionalità formale, strumentale, e recuperare le possibilità ermeneutiche, simboliche, analogiche, poetiche soggiacenti ai valori del meticciato culturale latinoamericano. Contro lo spirito serio, neopositivista, analitico, neoliberale, crediamo che è indispensabile
ripensare la filosofia del barocco come altra razionalità, cioè come una filosofia del gioco, dellʼimmaginazione creatrice e della libertà»; cfr. S. Arriarán-M. Beuchot, Introducción a Id., Filosofía,
neobarroco y multiculturalismo, Editorial Itaca, Colonia del mar 1999, p. 11.
7 Cfr. J. J. Wunenburger, Philosophie des images, cit., pp. 366 e sgg. Qui lʼimmaginazione
sembra «trovare un posto nuovo quando si tratta di fondare, nellʼetà contemporanea, un senso
della responsabilità che impegna la specie nella sua interezza». Occorre a questo fine una straordinaria e vigile capacità immaginativa delle conseguenze future dei comportamenti attuali dellʼumanità. «Cosicché la vita morale non potrà mai essere ristretta alla sola sfera della razionalità,
dal momento che la buona azione necessita dei sostegni e delle mediazioni che passano inevitabilmente attraverso le immagini».
8 Il testo di riferimento è P. Ricoeur, Finitudine e colpa II. La simbolica del male, Introduzione di V. Melchiorre, trad. it. di M. Girardet, Il Mulino, Bologna 1971.
Giuseppe Cacciatore
123
ne ispira un dinamismo, uno slancio, unʼefficacia che nessuna precettistica verbale potrebbe ispirare»9. Un altro riferimento importante e
pertinente, nelle analisi storiografiche di Wunenburger, portato a
esempio di riflessione etico-filosofica che mette in relazione significativa lʼazione morale e lʼimmaginazione, è quello a Jonas10. Qui
lʼimmaginazione sembra «trovare un posto nuovo quando si tratta di
fondare, nellʼetà contemporanea, un senso della responsabilità che
impegna la specie nella sua interezza». Occorre a questo fine una
straordinaria e vigile capacità immaginativa delle conseguenze future
dei comportamenti attuali dellʼumanità. «Cosicché la vita morale non
potrà mai essere ristretta alla sola sfera della razionalità, dal momento che la buona azione necessita dei sostegni e delle mediazioni che
passano inevitabilmente attraverso le immagini»11.
Ma torniamo a uno dei più interessanti e originali tentativi contemporanei di far giocare in modo anche concettualmente innovativo
la relazione tra regole morali e immaginazione. Questʼultima in modo particolare quella letteraria, è, come scrive Nussbaum, una «componente essenziale di una posizione etica che ci chiede di preoccuparci del bene di altre persone le cui vite sono lontane dalla nostra»12.
Naturalmente, non può non porsi per ognuno di noi, o almeno per
quelli che vogliono filosoficamente e criticamente misurarsi con il
mondo a partire da una ragione e da unʼetica poetica e immaginativa,
lo stesso inquietante quesito da cui muove la filosofa nordamericana
e cioè se abbia senso e se abbia utilità “raccontare storie” al cospetto
di una vita quotidiana sempre più segnata da drammatiche forme di
esclusione e oppressione. Certo, se si volesse porre riparo ai guasti
della società contemporanea, alle storture della politica e dellʼeconomia, ai danni del razzismo e del fondamentalismo solo con lʼarma
della fantasia, si finirebbe col contribuire ad una schiacciante vittoria
della realistica durezza del mondo sui sentimenti di partecipazione e
solidarietà. E, tuttavia, non si tratta di mettere da parte lʼimmaginazione, ma solo di praticarla maggiormente e con convinzione. Non
bisogna «sostituire allʼimmaginazione strutture istituzionali impersonali, ma costruire istituzioni e attori istituzionali che diano forma più
concreta, e offrano la protezione della stabilità istituzionale alle intui9
Cfr. J. J. Wunenburger, Philosophie des images, cit., p. 372.
La citazione dʼobbligo è naturalmente quella del H. Jonas, Il principio responsabilità:
unʼetica per la civiltà tecnologica, a cura di P. P. Portinaro, trad. it. di P. Rinaudo, Einaudi, Torino
1993.
11 Cfr. J. J. Wunenburger, Philosophie des images, cit., p. 374.
12 Cfr. M. C. Nussbaum, Il giudizio del poeta. Immaginazione letteraria e vita civile, trad. it.
di G. Bettini, Feltrinelli, Milano 1996, p. 16.
10
124
Giuseppe Cacciatore
zioni dellʼimmaginazione compassionevole […] Se non coltiviamo
lʼimmaginazione in questo modo, perdiamo, credo, un collegamento
essenziale con la giustizia sociale. Se rinunciamo alla “fantasia”, rinunciamo a noi stessi»13.
Riprendiamo, dunque, il discorso su Vico. È specialmente nella
sua opera maggiore che diventa plausibile una relazione tra etica ed
estetica, tra immaginazione ed epistemologia, tra topica e critica (per
usare i termini vichiani) che restituisca centralità alla inventio rationis, non solo e non tanto come via alternativa al deduttivismo razionalista, ma anche come ampliamento di esso grazie alla funzione che
può essere svolta, sul piano speculativo come su quello storico e letterario, dagli inediti strumenti categoriali e metodologici del verosimile, del senso comune e della narrazione. La ragione storica si fa
poetica e narrativa sulla base del convincimento, che era di Vico e
che ricompare, come già si è detto, anche in alcune etiche filosofiche
contemporanee più note e problematicamente discusse, secondo il
quale «la narrazione e lʼimmaginazione letteraria non siano lʼopposto
dellʼargomentazione razionale, bensì possano costituirne delle componenti essenziali»14.
Ho già avvertito, in altre pagine15, che il tentativo di utilizzare filosoficamente Vico nellʼattuale discussione sui problemi dellʼetica e,
in generale, della filosofia, può dare alle argomentazioni che si intendono proporre una dimensione generica e pericolosamente avulsa
dalle reali connessioni storiche e temporali. La possibilità di utilizzare il pensiero di Vico per comprendere fondamentali questioni che
riguardano la struttura della soggettività contemporanea, è legata al
convincimento che, dinanzi al radicale modificarsi delle sue stesse
basi biologiche e psicologiche, etiche e epistemologiche, lʼumanità di
buona volontà e di ragionevole pensiero, non può smarrire lʼobiettivo
di un nuovo progetto di integrazione di ragione, vita e storia. Lo storicismo critico non può accontentarsi di fissare le coordinate storiche
e vitali del pensiero, ma tenta di delinearne una nuova dimensione
problematica, a partire dallʼindividuazione e dallʼuso di inedite categorie tese a ridefinire la nuova consistenza dellʼindividualità, dispersa e plurale, frantumata negli specchi infiniti della sua essenza biologica e psicologica, articolata e disarticolata nella pluralità delle forme
13
Ivi, p. 18.
Ivi, p. 13.
15 Cfr. G. Cacciatore, La filosofia dello storicismo come narrazione della storia pensata e
della storia vissuta, di prossima pubblicazione.
14
Giuseppe Cacciatore
125
discorsive del suo stare nel mondo della vita. La nuova problematicità della ragione storica non è più pensabile soltanto come costitutiva
apertura del pensiero al mondo, cioè come mero disporsi problematico della ratio allʼinfinita e multiversa realtà del tempo storico. Né la
definizione di problematicità può esaurirsi nel pur obbligato punto di
partenza dellʼantisostanzialismo e dellʼantitotalismo. È, piuttosto, divenuto necessario un modello di ragione che si affida a un paradigma
di diretta comprensione delle sue stesse produzioni. Da questo punto
di vista, allora, la ragione problematica della storia non può che essere “narrativa” e dunque anche immaginativa.
In un tale ambito di riflessioni, si può sostenere – senza che ciò
costituisca una forzata e infondata attualizzazione – come abbia ancora un ruolo significativo lʼipotesi storico-narrativa di Vico, tesa sostanzialmente a liberare la storia (lʼesperienza storica dellʼuomo) sia
dalla cosalità data dellʼevento e dei suoi effetti, sia dagli schemi
aprioristici del pensiero. In questo senso la mia analisi esibisce punti
di convergenza con quella di Vanna Gessa Kurotschka16, la cui critica
al logocentrismo non sfocia nellʼesaltazione della pura fantasia immaginativa, ma in una idea complessa e articolata di pratica della
vita che non mette in ombra il concorso della conoscenza e della
progettualità. Qui sembra risuonare il motivo di preoccupazione
espresso da Nussbaum, ma anche di Vico, sul pericolo che lʼimmaginazione produca pericolose e illusorie chimere. Innestandosi su una
tradizione di pensiero che dalla relazione vichiana corpo-mente giunge sino allʼidea diltheyana di ganzer Mensch (inestricabile intreccio
di razionalità, sensibilità e volontà), questa interpretazione della capacità etica di immaginare la vita si basa su un esplicito tentativo di
tenere insieme, grazie a una idea della vita umana come oggetto complesso ad un tempo fisico, ideale e sociale, princìpi ontologici e immaginazione. Insomma qualsiasi tipo di riduzionismo (fisico, idealistico, ideologico, metafisico, biologico e persino culturalistico, ecc.)
è incapace «di dare conto della specificità della vita umana nella quale invece il fisico, lʼideale e il sociale si complicano in una ontolo-
16 Cfr. V. Gessa Kurotschka, La capacità di immaginare la vita e i vincoli del suo buon esercizio. Il corpo, la mente, le culture, in questo numero di «Post-filosofie», pp. 135-55. Sulla centralità delle categorie filosofiche vichiane per la riflessione etica contemporanea si veda anche:
Ead., “La morale poetica. Vico, Aristotele e le qualità sensibili della mente”, in G. Cacciatore-V.
Gessa Kurotschka-M. Sanna-A. Scognamiglio (a cura di), Il corpo e le sue facoltà. Giambattista
Vico, (pubblicato sul sito internet dellʼ“Istituto per lo Studio del Pensiero Filosofico e Scientifico
Moderno” del CNR); e Ead., Il carattere singolare e comune della facoltà di immaginare. Giambattista Vico, in «Psiche», 1, 2005, pp. 189-201.
126
Giuseppe Cacciatore
gia» in cui lʼimmaginazione in quanto capacità fisica, mentale e sociale, ha una funzione costitutiva17.
Ancora una volta il richiamo a Vico non è improprio. Lʼelemento
creativo-fantastico e la storicità del mondo, colta a partire dalle infinite storie degli infiniti Sé individuali, costituiscono il vero punto di
mediazione tra lʼontologia del pensiero e la vita storica, tra le strutture della mente e le realtà determinate contenute nelle biografie degli
individui e dei popoli.
Appare ora, almeno credo, del tutto chiaro perché, per Vico, la teoria degli universali fantastici non metta capo solo a una filosofia della
ragione fantastica, ma anche a una filosofia del linguaggio fantastico.
Ed ambedue concorrono – nel grande disegno vichiano della nuova
scienza – alla fondazione di un metodo e di una teoria che non si applichino dallʼesterno, come schemi conoscitivi o come strutture concettuali predefinite, al mondo reale, ma nascano e restino sul terreno
della infinita e irriducibile molteplicità dellʼempiria. Così, la ricerca di
una sintesi semantica ed ermeneutica affidata alle «allegorie poetiche»
lascia nella loro singolare autonomia i dati particolari e si affida a un
linguaggio che è costitutivamente un «diversiloquium», un parlare,
cioè, che riesce a riassumere, senza alterarne la specificità individuale,
«in un general concetto diverse spezie di uomini o fatti o cose»18.
Parafrasando ancora Nussbaum, che elabora sulla scia di Whitman
e della sua filosofia democratica unʼidea di giustizia poetica, si potrebbe pensare a un tentativo di riflessione e rielaborazione concettuale dellʼimmaginazione come elemento costitutivo (anche se non lʼunico per non ricadere in una forma di riduzionismo) di unʼetica poetica
che non si affidi alla sola, sia pur importante, creatività e infinita producibilità della fantasia. La capacità di immaginare una vita buona,
una vita soddisfacente per tutti, una vita che alla primordiale e necessaria sopravvivenza affianchi sempre la massima possibilità di rispetto
ed espansione delle capacità di ogni individuo, ha bisogno non solo di
immaginazione, ma anche di conoscenze tecniche, di conoscenze storiche e giuridiche. Nussbaum si riferisce ai giudici, ma ben si può
estendere la sua argomentazione agli esseri umani come attori e produttori di giudizio morale (ma anche e soprattutto di azione politica).
«Per essere pienamente razionali, i giudici devono anche essere capaci di fantasia e di simpatia. Devono migliorare non solo le loro capacità tecniche, ma anche la loro capacità di essere umani […]. Se man17
Ivi, p. 140.
Cfr. G. Vico, Scienza nuova (1744), in Id., Opere, a cura di A. Battistini, 2 voll., Mondadori, Milano 1990, p. 514.
18
Giuseppe Cacciatore
127
ca questa capacità, le voci “a lungo silenti” che cercano di farsi sentire per mezzo della loro giustizia rimarranno silenti e lʼ“alba” del giudizio democratico rimarrà velata. Se manca questa capacità,
lʼ“interminabile generazione di prigionieri e di schiavi” continuerà a
soffrire intorno a noi e avrà minori speranze di libertà»19.
2. Immaginazione, identità e interculturalità
Ho sostenuto in un saggio recente20 che riportare al centro del
capolavoro cervantino lʼimmaginazione e la fantasia significa inserire
anche Cervantes nel solco di una tradizione di scrittori che hanno
contribuito a modificare radicalmente (specialmente nella prospettiva
di lungo periodo della rilevante funzione assunta dal romanzo nella
costituzione del moderno) il rapporto di subordinazione, prima metafisica poi anche logica e gnoseologica, della realtà (di tutta la realtà,
anche quella segnata dal fantastico e dal verosimile) rispetto al pensiero. Vi è, dunque, in Cervantes, come in Vico, una ingeniosa ratio
che non rinuncia tuttavia al riconoscimento e alla comprensione dellʼuniversale conoscitivo e, ancor più, di quello storico e poetico, solo
che al suo attingimento non concorrono lʼastrazione intellettuale e la
riflessione, bensì le procedure della narrazione e dellʼespressione immaginativa, le metafore e le favole, i miti e i racconti, attivando in tal
modo non identità e coerenze logico-razionali, ma analogie e comparazioni, differenze e relazioni.
Siamo ancora, dunque, in un ambito problematico che ancora una
volta consente, alla luce di uno dei passaggi fondamentali della modernità non solo filosofica, ma anche letteraria, di ripensare a una diversa fondazione etica tanto delle individualità, quanto delle identità e
delle differenze culturali. Mi piace utilizzare, provocatoriamente,
unʼespressione che appartiene alla teoria della storia come logica narrativa, cioè allʼesito di una posizione che, sia pur autonomamente, si
colloca nella scia delle filosofie analitiche. Mi riferisco alla «radica19 Cfr. M. C. Nussbaum, Il giudizio del poeta. Immaginazione letteraria e vita civile, cit., p.
143. La fortissima intenzionalità etica che Nussbaum esprime nella sua idea di immaginazione è
visibile anche nel voluminoso libro sullʼintelligenza delle emozioni. Lʼimmaginazione diventa
elemento fondamentale nellʼintelligenza delle emozioni. Nellʼamore e nella compassione, ad
esempio, lʼimmaginazione sembra «aiutarci a portare un individuo lontano entro la sfera dei nostri
scopi e progetti, umanizzando la persona e creando la possibilità di un legame […]; lʼimmaginazione è il ponte che permette allʼaltro di divenire oggetto della nostra compassione»; cfr. M. C.
Nussbaum, Lʼintelligenza delle emozioni, trad. it. di R. Scognamiglio, ed. it. a cura di G. Giorgini,
Il Mulino, Bologna 2004, pp. 91-92.
20 G. Cacciatore, Forme e figure dellʼingegno in Cervantes e Vico, di prossima pubblicazione.
128
Giuseppe Cacciatore
lizzazione dello storicismo» di cui parla Ankersmit che non è quella
forma di storicismo assoluto e “antistorico” perché sovrastorico (alla
Hegel, per intenderci) o di uno storicismo che resta positivisticamente
attaccato ai fatti di una realtà statica e apparentemente indipendente,
ma uno storicismo che, appunto, accetta la radicale storicizzazione dei
punti di osservazione21, che non è ovviamente da confondersi con il
piatto relativismo, ma è da intendere, piuttosto come capacità di dislocare la prospettiva storicistica anche sul piano etico-pratico, il piano
dello sforzo di comprensione e narrazione delle differenze e delle eterogeneità. Come ha opportunamente sostenuto Benhabib è proprio la
struttura narrativa del Sé che ci consente di vedere e riconoscere la
rete di interlocuzioni entro cui si danno e si articolano le narrazioni
familiari, quelle di genere, quelle linguistiche e culturali. La possibilità stessa – come si dirà meglio più innanzi – del paradigma interculturale è data dal fatto che la consapevolezza della propria identità culturale (al di fuori comunque della rigida opposizione tra relativismo e
universalismo) costituisce la condizione dellʼinterlocuzione, cioè della
pratica interculturale. Cito Benhabib perché il suo mi sembra uno dei
più seri tentativi di declinare unʼidea di interculturalità che sappia tenere insieme una principialità offerta dal nucleo forte dellʼidentità del
singolo, o anche del gruppo, e una storicità relativa esibita dai processi di socializzazione culturale. «Proprio come le regole grammaticali
di una lingua, una volta apprese, non esauriscono la nostra capacità di
formare in quella lingua un numero infinito di frasi ben costruite, così
la socializzazione e lʼacculturazione non decidono della biografia di
un individuo o della sua capacità di intraprendere nuove azioni e di
formulare nuove frasi in una conversazione»22. Lʼeccesso di socializzazione o, allʼopposto, quello del particolarismo individualistico, non
consente di costruire un modello dinamico di «negoziazione dei dialoghi culturali», che è tra lʼaltro il «nostro stesso destino»23, pena la
vittoria della frammentazione relativistica e dei fondamentalismi religiosi ed etnocentrici. Il parametro narrativo-immaginativo, da questo
punto di vista, insieme naturalmente a opzioni di tipo politico imperniate su un modello di democrazia deliberativa e partecipativa, permette di considerare le fenomenologie culturali, pur rispettandone le
genealogie identitarie, come «complesse pratiche umane di significa21 Cfr. F. R. Ankersmit, History and Tropology. The Rise and Fall of Metaphor, University of
California Press, Berkeley 1994, pp. 220 e sgg.
22 Cfr. S. Benhabib, La rivendicazione dellʼidentità culturale. Eguaglianza e diversità nellʼera
globale, trad. it. di A. R. Dicuonzo, Il Mulino, Bologna 2005, p. 37.
23 Ivi, p. 239.
Giuseppe Cacciatore
129
zione e rappresentazione, organizzazione e attribuzione, frazionate al
proprio interno da narrazioni in conflitto. Le culture si costituiscono
attraverso complessi dialoghi con altre culture e, nella maggior parte
di quelle che sono pervenute a un certo grado di differenziazione interna, il dialogo con lʼaltro è intrinseco piuttosto che estrinseco alla
cultura stessa»24. Insomma, la centralità dellʼelemento narrativo (le
culture come narrazioni in conflitto e competizione) non deve entrare
in opposizione con paradigmi etico-politici di tipo democratico-pluralista, né con le norme e i princìpi di una plausibile legislazione cosmopolitica dei diritti di ogni identità culturale.
Questa rivalutazione, in termini etici e politico-filosofici, dellʼelemento biografico e narrativo delle culture, si ritrova in modi abbastanza simili in alcune formulazioni contemporanee della filosofia
dellʼinterculturalità. «Nelle culture – ha scritto Fornet-Betancourt –
per quanto coerenti possano presentarsi, cʼè sempre uno spazio pratico per sviluppare quello che normalmente chiamiamo biografia personale quale storia di una vita irripetibile e irrappresentabile, che è
alla ricerca della sua realizzazione»25. Il ricorso alle forme narrative
e immaginative, dunque, non è certo, almeno in questa versione, un
espediente retorico-ideologico, ma può fungere da possibile ausilio in
una operazione di smantellamento dellʼimmagine ricorrente dello
scontro e del conflitto delle culture. Narrare, ma anche immaginare,
le storie di vita degli appartenenti a differenti culture in una situazione di apertura al dialogo e alla comunicazione, può contribuire a riconoscere le diversità delle matrici culturali, senza che il giusto riconoscimento dellʼautonomia di ognuna si traduca in un mondo chiuso
e impenetrabile alla prassi delle culture altre.
Non sono certo totalmente dissolti – almeno a parere di chi come
me è poco disposto a revisionismi ignoranti e radicalmente dissolventi – i modelli teorici e forse anche ideologici, di comprensione, analisi
e soluzione dei conflitti sociali ed economici della contemporaneità.
Essi, nellʼepoca del post-moderno, si sono forse trasfigurati, assumendo configurazioni frammentarie, sempre più occultate da nuove forme
di conflitto, che al luogo classico del campo e della fabbrica, hanno
aggiunto e/o sostituito quelli dellʼidentità culturale, della comunicazione, dellʼambiente, della manipolazione e mercificazione del corpo
e delle sue parti, dellʼeconomia virtuale, dei diritti e delle capacità
individuali. È una situazione radicalmente mutata rispetto al passato,
24
Ivi, p. 9.
Cfr. R. Fernet-Betancourt, Trasformazione interculturale della filosofia, trad. it. a cura e con
una presentazione di G. Coccolini, Dehoniana, Bologna 2006, p. 92.
25
130
Giuseppe Cacciatore
tanto da far dire a Bhabha, dinanzi al difficile raccordo tra la ricerca
dellʼidentità e la possibilità di spazi interculturali, che oggi la dimora
dellʼuomo è da ricercare più che nei classici spazi della territorialità
della politica, piuttosto in quelli del segno e della sua comunicabilità26
(e tra questi naturalmente assumono un valore rilevante i prodotti dellʼimmaginazione e i luoghi della loro creazione e fruizione). Si tratta,
così, di una rivalutazione non retorica (e neanche archeologica) del
dialogo, della comunità del dialogo, che ora coinvolge, insieme alle
individualità singolari, quei complessi fenomeni che sono le culture.
Ed è significativo che uno dei tratti distintivi della filosofia dellʼinterculturalità27 sia proprio quello della ricerca (e della lotta) di libere
forme di narrazione delle storie e delle Weltanschauungen di ogni cultura. La narrazione, da questo punto di vista, non è più solo discorso
o genere letterario e neanche è più solo una delle possibili forme della
storiografia. Essa può divenire forma di azione etico-politica, giacché
induce alla reciproca conoscenza delle proprie storie, al reciproco racconto delle proprie autobiografie.
Il discorso filosofico, qualsiasi discorso per quanto convincente
possa sembrare, corre il rischio di trasformarsi in vana enunciazione
di principi intenzionati dallʼottimismo della volontà buona, drammaticamente destinati ad infrangersi dinanzi, direbbe Vico, alla barbarie
sempre ritornante delle guerre, delle violenze e delle oppressioni. Ma
questo non deve distogliere il filosofo, che oggi voglia riformulare le
categorie di diritto e riconoscimento, alterità e interculturalità, tolleranza e identità, dal tentativo di ripensare la possibilità del dialogo,
prima ancora di ogni fatalistico confidare (e affidarsi) nel progetto e
nel fare sociologico e politico, utilizzando, insieme agli altri possibili
strumenti dellʼanalisi linguistica e della decostruzione concettuale,
dellʼanalogia e della comparazione, anche quello della narrazione, con
26 Cfr. H. K. Bhabha, “Il diritto alla scrittura”, in N. Chomsky-V. Shiva-J. E. Stiglitz e altri, La
debolezza del più forte. Globalizzazione e diritti umani, a cura di M. J. Gibney, trad. it. di G.
Amadasi, Mondadori, Milano 2004, p. 204.
27 Rimando ancora ai miei saggi citati alla nota 3. Ad essi mi permetto di aggiungere G. Cacciatore, “Capire il racconto degli altri”, in «Reset», 97, settembre-ottobre 2006, pp. 16-19. Qui ho
tracciato un ben determinato profilo teorico ed epistemologico dellʼetica interculturale. Esso «si
fonda sul convincimento che nessun dialogo tra le culture e le civiltà (ammesso che oggi si possa
parlare di esse e specialmente delle seconde come di compatti ed olistici insiemi) può oltrepassare la soglia della buona intenzione se non si affida, al tempo stesso, almeno a tre concomitanti
processi, lo storico-narrativo, il filosofico e il politico: 1) quello della tecnica e del metodo della
narrazione (la narrazione si rivela come il percorso più adatto ad una reciproca conoscenza storica
che non sia inficiata da pregiudizi ideologici e da premesse dogmatiche); 2) quello di una ermeneutica pluralistica capace di comprendere, ascoltare e dialogare; 3) quello infine di una politica
che non riduca il suo fare alla “potenza”, ma finalizzi i suoi contenuti alla effettività dei diritti
umani e alla realizzazione di una nuova cittadinanza di individui e popoli».
Giuseppe Cacciatore
131
la consapevolezza che proprio a partire dalla discontinuità narrativa28
di storie e realtà pratiche, si possono attivare quei necessari meccanismi di disoccultamento e affermazione di differenze oppresse e misconosciute, di individualità singolari, come di comunità culturali, dei
loro bisogni materiali e dei loro stili di vita. Avere consapevolezza del
ruolo che le narrazioni (nel loro lato positivo come in quello negativo)
hanno nella formazione delle immagini e dei simboli della politica,
significa, ad esempio, penetrare, molto di più di quanto possa consentire lʼuso di tradizionali paradigmi delle scienze sociali e antropologiche, nella costitutiva ambiguità dei fenomeni contemporanei, solo apparentemente contradditori, della deterritorializzazione e del nuovo
nazionalismo. «Se lʼimmagine ambivalente della nazione trae origine
dalla sua storia in continua transizione, dal suo oscillare tra differenti
vocabolari, è importante capire quale ne sia lʼeffetto sulle narrazioni e
sui discorsi che esprimono un senso di “nazionalità”: sulle heimlich
gioie del cuore e sul terrore unheimlich che ci suscita lo spazio o la
razza dellʼAltro; sulla sicurezza dellʼappartenenza sociale e sui latenti
scontri di classe; sulle pratiche del gusto e sui poteri dellʼaffiliazione
politica; sul senso di ordine sociale e sullʼespressione della sessualità;
sulla cecità della burocrazia e sullʼacuta intuitività delle istituzioni;
sulla bontà della giustizia e sulla comune sensazione di ingiustizia;
sulla langue della legge e sulla parole del popolo»29. In questa direzione possono dare un contributo importante i Cultural Studies30, per
gli strumenti di indagine e di comprensione che riescono ad approntare per affrontare la non facile complessità dei simboli, dei significati e
delle immagini prodotte dai luoghi contemporanei della politica e delle culture. Anche lo stesso concetto (e le pratiche conseguenti) di
ideologia ha ricevuto, nellʼambito degli studi culturali, una torsione,
per così dire, «discorsiva». Ancora Bhabha, richiamandosi agli studi e
alle ricerche di Stuart Hall31, ha sostenuto, non infondatamente, che
una delle forme forse più concettualizzanti dellʼimmaginazione, cioè
28 Anche a tal proposito cfr. H. K. Bhabha, I luoghi della cultura, trad. it. di A. Perri, Meltemi,
Roma 2001, pp. 16 e sgg.
29 Cfr. H. K. Bhabha (a cura di), Nazione e narrazione, Introduzione allʼed. it. di M. Pandolfi,
trad. it. di A. Perri, Meltemi, Roma 1997, p. 35.
30 Un importante strumento di sintesi storiografica e di ricognizione problematica degli aspetti teorici, conoscitivi e metodologici degli studi culturali è ora disponibile grazie a M. Cometa,
Dizionario degli studi culturali, a cura di R. Coglitore e F. Mazzara, Meltemi, Roma 2004.
31 Di Stuart Hall, uno dei più noti rappresentanti inglesi dei Cultural Studies è ora uscita in
italiano unʼantologia di testi: cfr. Id., Politiche del quotidiano. Culture, identità e senso comune,
Introduzione e cura di G. Leghis, Il Saggiatore, Milano 2006. Ma tra le fonti di Bhabha bisogna
certamente citare Gramsci e Said. Di questʼultimo si veda Id., The World. The Text and The
Critic, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1983.
132
Giuseppe Cacciatore
la costruzione di paradigmi ideologici, può, grazie ai metodi degli studi culturali, essere reinterpretata nella sua costitutiva ambivalenza e
nella plurale articolazione dei significati e delle direzioni del processo
di mutamento storico. Tutto questo, ovviamente, ha unʼevidente ricaduta non soltanto in termini di riscrittura dei modelli etici e degli stessi princìpi morali, ma anche di rielaborazione di teorie e pratiche politiche. Il passaggio dal «letterale» al «metaforico», lʼuso sempre più
ampio del comparativismo e del giudizio estetico, hanno messo in discussione alcuni parametri tradizionali del nazionalismo culturale e
hanno offerto materia e metodi alla filosofia, alla sociologia e allʼetica
interculturale. «Le grandi narrazioni connettive del capitalismo o delle
classi ancora alla guida del motore della riproduzione sociale non sono più in grado in sé di accogliere un contesto che fondi quelle modalità di identificazione culturale e di affiliazione politica formatesi attorno a problemi come la sessualità, la razza, il femminismo, il mondo
dei rifugiati o dei migranti o il destino sociale prodotto dallʼAIDS. I
miei esempi – scrive Bhabha – testimoniano una revisione radicale
del concetto stesso di comunità umana: questo spazio geopolitico infatti, come realtà locale o transnazionale, può soltanto essere interrogato per suscitare un suo nuovo inizio»32. Ma tutto questo non certo
per riaffermare o conquistare univocità e assolutismi antagonisti a
quelli imposti dalla storia del mondo, dalle sue storiografie partigiane
e dalle sue filosofie assolutizzanti, ma per liberare visioni della vita,
immagini appunto, capacità del fare e bisogni che hanno reclamato e
continuano a reclamare un uguale diritto al dialogo, alla ricerca di
comunanze e, più di ogni altra cosa, al loro possibile realizzarsi, dunque, al loro futuro.
Faccio, in conclusione, ancora ricorso a un convincente argomento
di Nussbaum: «Unʼetica del rispetto imparziale per la dignità umana
non riuscirebbe a coinvolgere gli esseri umani reali se non mettendoli
in grado di entrare con lʼimmaginazione nelle vite di persone lontane
e di provare emozioni connesse con tale partecipazione»33. Da questo
punto di vista si comprende ciò che Nussbaum intende dire parlando
di immaginazione «sovversiva». Grazie ad essa, infatti, specialmente
quando si esprime attraverso la letteratura e il romanzo, si possono
limitare alcuni eccessi di riduzionismo manifestati dallʼeconomia politica e dalla sociologia contemporanee e si può persino dare consistenza di realtà (questo è il senso del sovversivismo dellʼimmagina32
33
16.
Cfr. H. K. Bhabha, I luoghi della cultura, cit., p. 17.
Cfr. M. C. Nussbaum, Il giudizio del poeta. Immaginazione letteraria e vita civile, cit., p.
Giuseppe Cacciatore
133
zione) alle «attività non economiche del fantasticare e del sentire».
Come la letteratura – allargo in tal modo la prospettiva di Nussbaum
– così anche lʼimmaginazione può arrivare ad esprimere «un senso
normativo della vita, può indicare percorsi e suggerire scelte, attivare
emozioni e provocare atteggiamenti mentali. La filosofa americana
fonda il suo ragionamento su una rilettura di Tempi difficili di Dickens. Nel racconto il signor Gradgrind, economista e politico, appare
molto preoccupato per lʼimprovvisa sovrabbondanza di fantasia e immaginazione di cui, da qualche tempo, sono “affetti” i figli. Vuoi vedere, è il primo pensiero che viene in mente a Gradgrind, che qualche
«sciocco libro di racconti» è stato fraudolentemente introdotto in casa? Ma se i prodotti dellʼimmaginazione riescono a difendere la loro
causa, è il commento di Nussbaum, può darsi che abbiamo «ragioni
convincenti per invitarli a rimanere non solo nelle nostre case e scuole, a foggiare le percezioni dei nostri figli, ma anche nelle nostre facoltà economiche e politiche, nei nostri ministeri e nei nostri tribunali,
e anche nelle nostre facoltà di legge – ovunque lʼimmaginazione pubblica venga foggiata e nutrita – in quanto parte essenziale di unʼeducazione alla razionalità pubblica»34.
Non desti, allora, meraviglia che io concluda queste riflessioni con
una citazione di un grande romanziere contemporaneo: Carlos Fuentes. In un saggio su Cervantes egli scrive che a dare il senso e il segno alla modernità non basta la scoperta della terra (Colombo), né
quella degli astri (Copernico) e neanche quella della stampa (Gutenberg). A questi momenti e a questi eventi bisogna aggiungerne un
altro, altrettanto essenziale, «che è lʼimmaginazione della modernità,
poiché – come ci dice il grande scrittore cubano Josè Lezama Lima
– se una cultura non riesce a dar vita ad unʼimmaginazione del mondo, risulterà storicamente indecifrabile»35.
34
Ivi, p. 20.
Cfr. C. Fuentes, Lʼingegnoso Don Chisciotte. Cervantes o la critica della lettura, a cura di
M. R. Alfani, Donzelli, Roma 2005, p. 5. La citazione è tratta dallʼIntroduzione di Fuentes allʼedizione italiana: Lo spazio di una nuova lettura, il tempo di un nuovo lettore. Più avanti così prosegue lo scrittore messicano: «Come scrittore latinoamericano, non posso concepire la scoperta
dellʼAmerica senza lʼimmaginazione dellʼAmerica. Ma come scrittore puro e semplice non posso
concepire la modernità senza lʼimmaginazione della modernità».
35
VANNA GESSA KUROTSCHKA
LA CAPACITÀ DI IMMAGINARE LA VITA
E I VINCOLI DEL SUO BUON ESERCIZIO.
IL CORPO, LA MENTE, LE CULTURE
1. Introduzione
Nellʼambito della riflessione etica la questione del rapporto della
razionalità pratica e della poesia e, dunque, del rapporto fra pensiero e
immaginazione, ha avuto fin dalle origini una grande rilevanza. A partire dalla risposta che i filosofi in epoche diverse hanno trovato per tale
questione si può, io ritengo, costruire unʼutile tassonomia delle teorie
etiche1. Per distinguere bene paradigmi etici differenti non è, però, rilevante solamente che in essi si faccia uso dellʼimmaginazione o che si
critichi tale uso. Altrettanto rilevante è, altresì, il modo in cui lʼimmaginazione viene utilizzata allʼinterno di uno specifico paradigma etico.
La capacità immaginativa che dobbiamo affinare per essere in grado di
applicare ad un caso particolare una regola generale è, infatti, differente da quella capacità che ci è utile se, invece, dobbiamo fare scelte
eticamente rilevanti in una situazione particolare e siamo in possesso
solamente di esempi che eventualmente dobbiamo essere in grado di
seguire in maniera autonoma e, dunque, creativa. Quando, a chi si
chiedeva come agire saggiamente, Aristotele suggeriva di seguire
lʼesempio del phronimos, il filosofo contava su una capacità di immaginare diversa da quella necessaria al soggetto morale kantiano che
nella scelta delle sue massime morali è, invece, in possesso di un criterio ben conosciuto e certo. Il giudizio morale, pur essendo, infatti, soggettivo, è per Kant un giudizio oggettivamente universale2. Ciò signifi1
V. Gessa Kurotschka, Etica, Guida, Napoli 2006.
I. Kant, Critica del giudizio, traduzione di A. Gargiulo, Introduzione di P. DʼAngelo, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 95.
2
136
Vanna Gessa Kurotschka
ca, così ritiene Kant, che se un giudizio vale per tutto ciò che è compreso in un dato concetto, esso vale anche per ognuno che si rappresenti lʼoggetto secondo quel concetto. I giudizi oggettivamente universali sono, dunque, giudizi nel formulare i quali il soggetto deve usare
lʼimmaginazione per trovare i casi particolari da sottomettere alla regola. Esso deve farlo però nel rispetto del vincolo necessario dellʼestensione del concetto che utilizza. Oggettivamente universali non sono per
Kant solo i giudizi morali. Sia i giudizi conoscitivi che quelli tecnicopratici sottostanno al vincolo della regola sotto la quale il particolare
deve essere sussunto. Kant considera lʼambito delle scelte che riguardano il problema della realizzazione della vita come regolato da un tipo di razionalità che il filosofo definisce non propriamente pratica, ma
tecnico-pratica, da una razionalità che, dunque, pur non essendo quella
che è utile a formulare giudizi morali, ci obbliga tuttavia al rispetto del
vincolo concettuale necessario ad assicurare la validità dei suoi risultati conoscitivi3. Ora, la razionalità tecnico-pratica è certo utile a chi si
pone il problema di realizzare se stesso nella maniera migliore, ma non
è sufficiente. Tale forma di razionalità non è, infatti, utilizzabile per
individuare sia gli scopi sia i mezzi eticamente validi dellʼagire volto
alla realizzazione della vita umanamente migliore. Chi pone la questione della realizzazione del bene umano è invece interessato proprio a
definire gli scopi che una vita fiorente e buona deve perseguire e i mezzi eticamente adeguati a raggiungerli. Né il giudizio morale, né quello
tecnico-pratico ci aiutano però in tale ricerca.
Nella seconda metà del secolo appena trascorso lʼermeneutica gadameriana aveva proposto una soluzione della questione iscrivendo di nuovo il problema etico di definire i caratteri della vita umana fiorente e
buona nellʼambito di una forma di razionalità fronetica. Nellʼesercizio di
tale forma di razionalità lʼimmaginazione gioca, notoriamente, un ruolo
determinante4. La vita umana buona è per Gadamer lʼoggetto di una
forma di sapere particolare. La vita infatti non è un oggetto del tipo di
quelli che la scienza ci fa conoscere con i suoi metodi oggettivanti ben
definiti fra il Seicento e il Settecento. La vita è, piuttosto, per Gadamer
un oggetto che si costituisce attraverso lʼinterpretazione situata dei valori intorno ai quali si definisce la comunità, nella quale gli individui costruiscono la loro particolare identità. Gran parte dellʼetica filosofica del
secondo Novecento si è confrontata implicitamente o esplicitamente con
i problemi aperti dallʼermeneutica gadameriana. Chi condivideva la dia3
Ivi, pp. 11-15.
H.-G. Gadamer, Verità e metodo, trad. it. a cura e con Introduzione di G. Vattimo, Bompiani,
Milano 1983.
4
Vanna Gessa Kurotschka
137
gnosi di Gadamer e riteneva che la questione della vita umana buona,
della sua fioritura, non fosse iscrivibile nellʼambito di una ragione tecnico-pratica, non necessariamente condivideva infatti la cura che Gadamer
aveva prospettato per la malattia della quale lʼetica della modernità era
affetta. Il relativismo a cui lʼermeneutica gadameriana approdava è stato
rilevato e criticato in particolare da coloro che filosoficamente facevano
riferimento in termini positivi al Kant della Critica della ragion pratica
e tentavano di aggiornarne le categorie5. Contro il relativismo etico dellʼermenutica gadameriana non è stata utilizzata però solo la filosofia pratica di Kant. Un Aristotele diverso da quello interpretato da Gadamer, il
Kant della Critica del giudizio e il vichiano sapere poetico sono stati
recuperati filosoficamente per pensare una terapia filosofica per lʼetica,
una terapia che dovrebbe servire per affrontare la questione di definire
sia i caratteri della vita umana buona, sia i caratteri della comunità nellʼambito della quale la realizzazione della fioritura umana è possibile6.
5 Si veda in particolare: J. Habermas, “Über Moralität und Sittlichkeit. Was macht eine Lebensform rational”, in H. Schnädelbach (a cura di), Rationalität, Frankfurt a. M. 1984, pp. 218-33 e
A. Wellmer, “Zur Kritik der hermeneutischer Vernunft”, in Ch. Demmerling-G. Gabriel-Th. Rentsch (eds.), Vernunft und Lebenspraxis, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1995, pp. 123-57.
6 Devo qui limitarmi a riferimenti bibliografici essenziali. Per quanto riguarda Aristotele si
veda: M. C. Nussbaum, La fragilità del bene. Fortuna ed etica nella tragedia e nella filosofia
greca, a cura di G. Zanetti, trad. it. di M. Scattola, Il Mulino, Bologna 1996; Ead., Il giudizio del
poeta. Immaginazione letteraria e vita civile, trad. it di G. Betti Feltrinelli, Milano 1996; Ead.,
Diventare persone. Donne e universalità dei diritti, Il Mulino, Bologna 2002; Ead., Capacità
personale e democrazia sociale, a cura di G. Zanetti, Introduzione e trad. it. di S. Bertea, Diabasis, Reggio Emilia 2003. Sulla rilevanza etico-politica del giudizio estetico si veda almeno: H.
Arendt, Teoria del giudizio politico, trad. it. di P. P. Portinaro, Il Melangolo, Genova 1990; Ead.,
Tra passato e futuro, Introduzione di A. Dal Lago, Garzanti, Milano 1991; Ead., Responsabilità e
giudizio, a cura di J. Kohn, trad. it. di D. Tarizzo, Einaudi, Torino 2004. Si veda anche: R. BeinerJ. Nedelsky, Judgment, Imagination and Politics, Rowman & Littlefield, New York 2001. In Italia
si veda: A. Ferrara, Giustizia e giudizio, Laterza, Bari-Roma 2000. Sullʼuso in sede di filosofia
pratica del sapere poetico si vedano le raccolte di saggi: G. Cacciatore-V. Gessa Kurotschka-H.
Poser-M. Sanna (a cura di), La filosofia pratica tra metafisica e antropologia nellʼetà di Wolff e
Vico, Guida, Napoli 1999; G. Cacciatore-V. Gessa Kurotschka-E. Nuzzo-M. Sanna (a cura di), Il
sapere poetico e gli universali fantastici. La presenza di Vico nella riflessione filosofica contemporanea, Guida, Napoli 2004; G. Cacciatore-V. Gessa Kurotschka-E. Nuzzo-M. Sanna -A. Scognamiglio (a cura di), Il corpo e le sue facoltà. Giambattista Vico, (pubblicato in rete sulla rivista
dellʼIstituto per lo studio del pensiero filosofico e scientifico del CNR 2005). Si vedano inoltre:
G. Cacciatore, Metaphysik, Poesie und Geschichte, Akademie Verlag, Berlin 2002; Id., Simbolo e
segno in Vico. La storia tra fantasia e razionalità, in «Il Pensiero», XLI, 1, 2002, pp.77-89; Id.,
“Vico: narrazione storica e narrazione fantastica”, in G. Cacciatore-V. Gessa Kurotschka-E. Nuzzo-M. Sanna (a cura di), Il sapere poetico e gli universali fantastici. La presenza di Vico nella
riflessione filosofica contemporanea, cit., pp. 117-39; Id., La ingeniosa ratio de Vico entre sabiduria y prudencia, in «Cuadernos sobre Vico», 17-18, 2004-2005, pp. 37-45; V. Gessa Kurotschka, “Autocomprensione e logica poetica del linguaggio”, in A. Ferrara-V. Gessa-Kurotschka-S.
Maffettone (a cura di), Etica individuale e giustizia, Liguori, Napoli 2000, pp. 269-95; Id., “Il
carattere singolare e comune della facoltà di immaginare. Giambattista Vico”, in «Psiche», 1,
2005, pp. 189-201; Id., “La morale poetica. Vico, Aristotele e le qualità sensibili della mente”, in
G. Cacciatore-V. Gessa Kurotschka-E. Nuzzo-M. Sanna-A. Scognamiglio (a cura di), Il corpo e
le sue facoltà. Giambattista Vico, cit.
138
Vanna Gessa Kurotschka
Lʼinteresse comune a tali forme di riflessione filosofica è quello di evitare sia un certo tipo di universalismo che nelle scelte mette da parte tutto
ciò che è specificamente individuale, riducendo la prestazione del soggetto nel giudizio e nella scelta allʼesercizio di una funzione logica, sia il
relativismo etico. Ciò che esse, dunque, hanno in comune è la preoccupazione di fornire allʼesercizio del giudizio etico soggettivo e singolare,
sulla base del quale vengono fatte le scelte che definiscono i caratteri
della vita umana buona e della comunità nella quale essa è realizzabile,
vincoli tali da assicurarne la validità intersoggettiva. La prestazione di un
individuo che giudica senza possedere un criterio universale da applicare, è, infatti, ben più complessa di quella richiesta a chi formula giudizi
oggettivamente universali. Lʼuniversalità possibile per tali giudizi soggettivi e singolari è quella così detta esemplare che, come lucidamente
dice Kant, non ha fondamento in alcun concetto. Ma, aggiunge Kant,
poiché tale forma soggettiva di universalità non ha fondamento in un
concetto, da essa non si può concludere alla universalità logica. Ciò significa, però, che tale forma di giudizio non soggiace a vincoli necessari.
Chi, dunque, formula giudizi senza essere in possesso di criteri universali sotto i quali sottendere il particolare, deve usare una forma rischiosa di
immaginazione che, non essendo vincolata dallʼestensione di un concetto, può indurre a pericolosi errori. Quando la questione che ci sta a cuore è quella della forma dei giudizi che permettono di progettare la vita
umana in quanto fiorente e buona, e di definire i caratteri della comunità
nella quale la vita può essere vissuta in quanto vita umana fiorente e
buona, il rischio è quello di produrre il fallimento umano piuttosto che la
fioritura della vita, la vita buona. NellʼEtica di Aristotele, nella Critica
del Giudizio e nella Scienza Nuova la questione viene approfonditamente affrontata7. Lʼorizzonte normativo allʼinterno del quale le scelte etiche
vengono iscritte è quello segnato da una concezione filosofica dellʼumano, quasi una implicita e nuova ontologia, alla quale il giudizio e la
scelta devono rimanere coerenti8. Io ritengo che tale strategia filosofica
sia ancora validamente perseguibile e che la concezione filosofica dellʼumano – la nuova ontologia – entro la quale le scelte etiche individuali
si devono iscrivere coerentemente debba essere oggi riarticolata attraverso un confronto filosoficamente serrato con gli esiti conoscitivi delle
scienze empiriche della vita, delle scienze cognitive e delle scienze della
cultura.
7
Su tale questione non si può qui entrare nel merito. Si veda la bibliografia alla nota 6.
Sia in Aristotele che in Vico e Kant il senso comune umano gioca, notoriamente, un ruolo
fondamentale. Anche per lʼinterpretazione di tale riferimento normativo, che nei tre filosofi non
approda nel relativismo etico, si deve rinviare alla bibliografia indicata alla nota 6.
8
Vanna Gessa Kurotschka
139
In Italia è stato soprattutto Maurizio Ferraris il filosofo che si è
impegnato in un tentativo di rinnovare lʼontologia, quella che sembrava una invecchiata disciplina in via di estinzione. Rilevante nel
contesto della riflessione che qui si sta sviluppando è la critica formulata da Ferraris nei confronti di quello che lui provocatoriamente
definisce logocentrismo9. La critica di Ferraris vuole colpire uno statement filosofico che può essere così sinteticamente articolato: non ci
sono oggetti ma solo interpretazioni. A voler essere investita dalla
critica di Ferraris è, dunque, soprattutto lʼermeneutica per la quale
cʼè un solo tipo di oggetti, oggetti che in fondo non sono nemmeno
propriamente tali, ma sono, piuttosto, una semplice proiezione dei
soggetti. Di contro a tale statement filosofico Ferraris propone una
rinnovata ontologia che distingue oggetti di tre tipi: 1) oggetti fisici
– esistono nello spazio e nel tempo indipendentemente dai soggetti
che li conoscono; 2) oggetti ideali – esistono fuori dello spazio e del
tempo indipendentemente dai soggetti che li conoscono; 3) oggetti
sociali – non esistono come tali nello spazio, ma possiedono una durata nel tempo, e dipendono, per la loro esistenza, dai soggetti che li
conoscono o quantomeno li sanno usare e che in taluni casi li hanno
costituiti. Ora, secondo Ferraris, se, esercitando la forza della nostra
immaginazione, trattiamo gli oggetti fisici (montagne, sedie, ecc.) e
gli oggetti ideali (teoremi, numeri, ecc.) come proiezioni dei soggetti,
non abbiamo modo di illuderci; essi sono infatti pronti a deluderci,
assolvendo in tal modo a una salutare funzione educativa contro le
tentazioni logocentrico-interpretative. Non sembra che le cose stiano
diversamente per gli oggetti sociali. Su tali oggetti – matrimoni, lauree, elezioni, promesse – da noi stessi costituiti, lʼuso dellʼimmaginazione pare non solo legittimo, ma necessario. Però Ferraris aggiunge,
allʼambito degli oggetti sociali, le delusioni, e delusioni quasi sempre
ben più cocenti e dolorose di quelle che ci provengono dagli oggetti
fisici e da quelli ideali, peraltro esperienza di tutti i giorni. Anche qui,
dunque, il buon uso dellʼimmaginazione deve rispettare vincoli e regole per evitare che il prodotto della nostra immaginazione si riveli
unʼillusione a cui necessariamente seguirà una delusione.
9 Ferraris distingue forme diverse di logocentrismo. Vi è un logocentrismo che egli definisce
medium – quello alla Hume; un altro che definisce large – quello alla Kant; e, quello, per Ferraris
il peggiore, extra-large – alla Nietzsche. Si veda: M. Ferraris, Goodbye Kant! Cosa resta oggi
della Critica della ragion pura, Milano, Bompiani 2001; Id., Dove sei? Ontologia del telefonino,
Milano, Bompiani 2005. E, da ultimo, Id., Perché la sintesi è meglio che sia passiva, dattiloscritto in corso di stampa, pp. 1-18. Per una discussione della critica di Ferraris a Kant si veda A.
Ferrarin, Congedarsi da Kant? Interventi sul Goodbye Kant di Ferraris, a cura di A. Ferrarin,
ETS, Pisa 2006.
140
Vanna Gessa Kurotschka
Riflettere sulla possibilità di ancorare anche la conoscenza pratica
della vita a vincoli e a regole che ne assicurino la validità attraverso
un riferimento ontologico, un riferimento ontologico che deve essere
però appropriatamente pensato, sembra consigliabile. Come deve essere usata la capacità di immaginare affinché la conoscenza pratica
della vita, svincolata da qualsiasi riferimento ontologico e affidata
allʼarbitraria capacità di costituirla del soggetto che la pensa, non
produca illusioni che in quanto tali di necessità verranno deluse o
che, addirittura, non produca chimere o, forsʼanche, mostri? La distinzione, proposta da Ferraris, fra tre differenti tipi di oggetti – fisici,
ideali e sociali –, facendo riferimento ai quali i pericoli del logocentrismo possono essere sventati, può essere utilizzata nellʼambito della
conoscenza pratica della vita? Io ritengo che la risposta a tale domanda sia positiva. Ritengo che la vita umana debba essere pensata come
un oggetto complesso, un oggetto complesso in quanto al contempo
oggetto fisico, ideale e sociale, e che, pertanto, la forma di immaginazione che entra in gioco con la conoscenza pratica della vita non
sia una attività che possa essere bene esercitata senza un riferimento
allʼontologia della vita. Per pensare la vita come tale oggetto complesso si deve però assolvere un compito prioritario. Nel corso dello
sviluppo della riflessione filosofica la vita è stata sottoposta a tre forme di riduzione e trattata come un oggetto o solo fisico, o solo ideale,
o solo sociale. Oggi, ancora, il riduzionismo è una tentazione rassicurante dalla quale si lasciano catturare soprattutto coloro che con
decisione vogliono sfuggire allʼillusione di considerare la vita come
un oggetto che non è propriamente tale e che, per questo, può essere
arbitrariamente e pericolosamente immaginato, sono coloro che hanno paura dei mostri. Le tre forme di riduzione che hanno trattato la
vita come oggetto o solo fisico, o solo ideale, o solo sociale non permettono – questa la mia tesi – di dare conto della specificità della
vita umana nella quale invece il fisico, lʼideale e il sociale si complicano in unʼontologia che si costituisce attraverso un uso dellʼimmaginazione vincolato e regolato dai caratteri di quellʼoggetto complesso che è la vita. Perché tale funzione costitutiva della capacità di
immaginare possa essere ben definita, tenendo conto dei vincoli precisi e delle regole specifiche che al suo esercizio provengono dal fatto che lʼumano è un oggetto fisico, ideale e sociale insieme, è, dunque, prima di tutto necessario criticare la forma che nella riflessione
filosofica contemporanea hanno assunto i tre tipi di riduzione a cui
sopra ho fatto riferimento. A tale compito sono dedicate le riflessioni
che seguono.
Vanna Gessa Kurotschka
141
2. La prima riduzione, ovvero la vita è un oggetto fisico
Il riduzionismo del primo tipo tratta la vita umana come un oggetto che esiste nello spazio e nel tempo indipendentemente da chi lo
conosce, e, cioè, come un oggetto fisico. Ogni epoca ha avuto la sua
forma propria e specifica di riduzionismo biologico. Una delle prime
formulazioni della critica filosofica al riduzionismo fisicalista la dobbiamo a Socrate. Per giustificare la sua decisione di non sfuggire alla
morte, e di rimanere in carcere per subire la pena che i suoi concittadini avevano decretato di infliggergli, Socrate, notoriamente, negò
che a prendere la decisione fossero chiamati i suoi nervi e le sue ossa. In tal caso, dice il filosofo, essi avrebbero infatti certamente scelto la fuga. La forma di riduzionismo che a noi oggi interessa discutere in particolare è quella che compare nellʼambito della ricerca neurobiologica. Il riduzionismo genetico, di grande attualità negli ultimi
decenni del secolo appena trascorso, è infatti diventato obsoleto, trasformandosi in uno spiacevole ricordo (anche se i libri fortunatissimi
di Richard Dowkins vengono continuamente rieditati in Italia per ricordarci una triste fase del rapporto fra scienza e filosofia10). Noi non
siamo – o perlomeno non siamo solo o essenzialmente – i nostri geni11. Ciò è oramai divenuto senso comune. Lʼinteresse è oggi concentrato piuttosto sulla neurobiologia che davvero è la scienza del momento, la scienza che sembra poterci mettere in grado di spiegare
ogni aspetto della vita umana, da quello più “materiale” (accrescimento, sonno, veglia, movimento), a quello più “spirituale” (amore,
speranza, aspirazione religiosa). Sono convinta del fatto che con la
neurobiologia, oltre che con la biologia molecolare, i filosofi debbano
mantenere un cantiere aperto. E, tuttavia, in tale cantiere, già da molti anni aperto, non sempre il lavoro procede senza incomprensioni. I
problemi sorgono – io credo – quando i neurobiologi, invadendo un
campo che non è il loro, credono di poter fare i filosofi. Un esempio
di tale impropria invasione lo si trova in un recentissimo libro di Michael Gazzaniga. Già il titolo del libro – La mente etica (The Ethical
Brain, Brain è tradotto in italiano non per caso con mente) – è significativo del programma che in esso viene realizzato12. Il libro, pubblicato in USA nel 2005 e subito tradotto e dibattuto in italiano, espone
10 R. Dawkins, Il gene egoista: la parte immortale di ogni essere vivente, trad. it. di G. Corte
e A. Serra, Mondadori, Milano 1992.
11 S. Rose, Linee di vita. La biologia oltre il determinismo, trad. it. di L. Montixi Comoglio,
Garzanti, Milano 2001; R. Lewontin, La diversità umana, trad. it. di L. Maldacea, Zanichelli,
Bologna 1987.
12 M. Gazzaniga, La mente etica, Edizioni di Comunità, Milano 2006.
142
Vanna Gessa Kurotschka
e difende in maniera paradigmatica la forma up to date di riduzionismo del primo tipo.
Così Gazzaniga:
Oggi sappiamo che è il cervello ad alimentare, gestire e generare il nostro senso
di identità, della persona, del prossimo e della nostra umanità. Il cervello è un organo complesso, come lo sono il cuore, i reni e il fegato. Tuttavia, quando consideriamo questi ultimi non diventiamo sentimentali, né ci preoccupiamo di loro in
quanto entità a sé. Quando tali organi si ammalano, ne vogliamo di nuovi e inseriamo il nostro nome sulla lista dei trapianti. Ammettiamo che non sia impossibile:
vorremo mai il trapianto del cervello per salvarne uno vittima della demenza, destinato a deteriorarsi?
Non credo proprio. Il cervello trapiantato – immaginiamo che appartenga a un
giovane ucciso in battaglia da un proiettile al cuore – sarebbe suo, e non sareste voi
rimessi clinicamente a nuovo. Questo semplice fatto evidenzia che voi siete il vostro cervello; che siete i neuroni che si interconnettono nella sua vasta rete, che si
attivano obbedendo a pattern modulati da neurotrasmettitori, controllati da migliaia
di reti a feedback. E, affinché voi siate voi, questi sistemi devono funzionare adeguatamente.13
Il compito di definire ciò che noi siamo non è però propriamente
quello delle scienze empiriche della vita, ma di una disciplina filosofica, lʼontologia. Dallʼaffermazione filosofica che noi siamo il nostro
cervello, Gazzaniga trae poi rilevanti conclusioni sul piano di unʼaltra disciplina filosofica, lʼetica. E, infatti, Gazzaniga è, assieme a pochi altri pionieri, lʼideatore di una nuova disciplina, la neuroetica,
che dovrebbe sostituirsi alla vecchia disciplina filosofica, lʼetica, rendendola obsoleta. La neuroetica sarebbe quella disciplina il cui compito è rendere esplicite le regole morali universali incapsulate nel
nostro cervello e deve sostituirsi allʼetica che è quella disciplina confusa il cui compito è giustificare i nostri comportamenti in base a
verità assolute. Ancora Gazzaniga:
Quando formuliamo un giudizio morale, facciamo riferimento a verità esterne o
esprimiamo semplicemente attitudini interne? Gli esperimenti condotti con le nuove tecniche di imaging cerebrale mostrano che il nostro cervello risponde alle questioni morali fondamentali. È come se tutti i dati sociali di cui disponiamo, lʼistinto alla sopravvivenza personale che possediamo, le esperienze culturali che abbiamo vissuto e il carattere generale della nostra specie, si introducessero nei meccanismi dellʼinconscio per indurre una risposta, uno stimolo o meno a compiere una
determinata azione. [...]
13
Ivi, p. 30.
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143
In breve sembra evidente che vi siano comuni meccanismi inconsci, che si attivano in ogni membro della nostra specie in risposta a compiti morali.
[...] la maggior parte dei giudizi morali è intuitiva. Reagiamo istintivamente a una
situazione, o a unʼopinione, e solo dopo costruiamo una teoria sul motivo per
cui ci sentiamo come di fatto ci sentiamo. In breve produciamo una reazione automatica a una determinata situazione, una risposta che deriva immediatamente dal
nostro cervello.14
Cosa cʼè di sbagliato in tutto ciò? Gazzaniga prende le mosse nel
suo ragionamento da esiti consolidati delle ricerche neurobiologiche15. Il cervello è un organo individuale e plastico, un organo che si
sviluppa per selezione in relazione allʼesperienza16. La neurobiologia, utilizzando le nuove tecniche che permettono di vedere cosa accade nel cervello quando abbiamo determinate esperienze, è in grado,
e questo è certamente un compito rilevante, di descrivere il cervello
in ogni momento del suo plastico sviluppo. Le ricerche neurobiologiche sui correlati neurali dellʼesperienza, oggi fiorenti anche in Italia,
rivestono grande interesse in quel cantiere che filosofi e neuroscienziati dovrebbero praticare con profitto. Questo significa forse che la
individuazione dei correlati neurali dellʼesperienza individuale, lʼindividuazione della topografia e della configurazione neurale dellʼesperienza, la prestazione conoscitiva specifica della neurobiologia,
sia sufficiente a dire tutto ciò che abbiamo da dire intorno allʼesperienza in generale e, in ultima analisi, a dire tutto ciò che vi è da dire
sulla vita umana e su ciò che noi siamo? Se è vero, come dice Gazzaniga, che, affinché noi siamo noi, i neuroni che si interconnettono,
che si attivano obbedendo a pattern modulati da neurotrasmettitori e
controllati da migliaia di reti a feedback, devono funzionare adeguatamente, affermare che la descrizione di tali configurazioni neurali
sia giudicata sufficiente a soddisfare tutte le nostre esigenze conoscitive su ciò che noi siamo senza ulteriori apporti di altre discipline,
non pare condivisibile. È un sapere più complesso quello che può
soddisfare la nostra esigenza di conoscere noi stessi, un sapere che,
dopo la descrizione della topografia delle reti neurali che si attivano
in correlazione ad una particolare esperienza, articoli perlomeno ciò
che noi proviamo quando abbiamo quella particolare esperienza.
14
Ivi, p. 167.
V. Gessa Kurotschka, La non riducibilità della coscienza fra Philosophy of Mind e neurobiologia, in «Iride», 40, 2003, pp. 467-93.
16 G. Edelman, Sulla materia della mente, trad. it. di S. Freudiani, Adelphi, Milano 1993.
Sulla neurobiologia della coscienza possediamo una larga bibliografia per la quale faccio riferimento al mio saggio citato alla nota 15.
15
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Le conseguenze che dalla proposizione errata “voi siete il vostro cervello” Gazzaniga trae, la definizione della nuova disciplina, la neuroetica, che dovrebbe sostituire quella invecchiata disciplina filosofica che
noi pratichiamo, lʼetica, non sono meno errate del loro presupposto. È
certamente vero che il nostro cervello è un organo nel quale sono depositati criteri di scelta ereditati dallʼesperienza evolutiva della nostra specie, oltre che dallʼesperienza accumulata nel corso della nostra vita individuale. Lʼutilità di tali criteri per la nostra sopravvivenza come specie, e anche per la nostra vita individuale, è indubbia. Possiamo anche
chiamare tali criteri in un certo senso valori. Quando ci chiediamo quale sia il modo migliore di vivere la vita, in quanto una vita pienamente
umana, oltre che una fiorente e buona vita umana, sia quando ci poniamo tale domanda individualmente in prima persona, sia quando ce la
poniamo nel tentativo di trovare una risposta valida per gli esseri umani
in generale, dobbiamo certamente tenere conto di tali valori. Se non
tenessimo conto del fatto che lʼessere che pone la domanda non è una
pietra, ma è un essere fornito di sensibilità e che non è solo sensibile ma
anche razionale, e, dunque, non è un animale, certo la risposta che troveremo non sarebbe una buona risposta. Tale risposta infatti non sarebbe adeguata a permettere agli umani di vivere nella maniera migliore il
loro essere specificamente umano. Dimenticare, dunque, che la vita è
anche un oggetto fisico produrrebbe pericolose illusioni e sofferte disillusioni. Non tenere conto del fatto che la vita umana non è solo un oggetto fisico, ci condurrebbe però a progettare la nostra sopravvivenza e
non la nostra vita. E ognuno di noi sa bene che sopravvivere per gli
umani non è sufficiente in quanto è una vita che possiamo definire fiorente e buona quella che vogliamo immaginare praticamente.
Sgombrato il terreno da quella forma di riduzionismo che risolve
lʼantropologia filosofica nella genetica e/o nella neurobiologia, i vincoli che alla nostra capacità di immaginare la vita vengono dalla conoscenza di quale tipo di oggetto fisico è lʼessere umano devono essere negoziati in quel cantiere aperto a cui ho fatto riferimento e nel
quale devono essere praticati i rapporti fra neurobiologia e filosofia,
ma anche fra biologia molecolare e filosofia. La condizione di essere
un essere che per vivere necessita di un corpo organico e di un cervello conformato nel modo in cui la neurobiologia sapientemente ci
dice, senza pretendere di essere lʼunica condizione di cui tenere conto per immaginare come deve essere costituita la vita umana per poter essere esperita come una vita fiorente e buona, deve potersi trasformare in una condizione positiva di cui nellʼimmaginare la vita
teniamo conto, una condizione che contribuisce sia in negativo sia in
positivo a definire il bene umano.
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145
3. La seconda riduzione, ovvero la vita è un oggetto ideale
Come il fisicalismo o biologismo, anche il mentalismo ha una tradizione antica. Ciò che a me qui interessa prendere in esame e discutere è
la sua versione più nuova, quella, dunque, con la quale è necessario confrontarsi oggi se si riflette sulla vita umana considerata non solo un oggetto del tipo degli oggetti fisici, ma anche un oggetto del tipo degli oggetti ideali, oggetti cioè che esistono fuori dello spazio e del tempo indipendentemente dai soggetti che li conoscono. La versione contemporanea
più diffusa del riduzionismo del secondo tipo si trova incapsulata nella
tradizione mentalistica della Philosophy of Mind analitica. Coloro che
operano con questa seconda forma di riduzionismo considerano – perlopiù implicitamente – la vita umana essenzialmente caratterizzata dal fatto
che gli esseri umani posseggono una mente e considerano la mente come
un oggetto ideale, un oggetto conoscibile senza tener conto di ciò per cui
essa è anche un oggetto fisico e contemporaneamente un oggetto sociale.
Lʼantropologia incapsulata nel mentalismo enfatizza, dunque, la separazione della vita umana non solo dagli oggetti fisici privi di sensibilità,
quali le pietre, ma anche la separazione da ogni altra specie animale e, in
generale, dalla sensibilità. In quanto considera la vita umana caratterizzata solamente dal possesso di una mente intesa come oggetto ideale, per
definire il quale né la sensibilità né lʼesperienza intersoggettiva sono necessarie, lʼantropologia incapsulata nel mentalismo riduzionista è antisensualista (dove è il corpo?) e solipsista (dove sono gli altri?)17.
17 Per comprendere il carattere solipsistico del mentalismo riduzionista incapsulato nella Philosophy of Mind sarebbe rilevante approfondire le questioni filosofiche collegate allʼevoluzione
della teoria del linguaggio sviluppata in ambito analitico. Si veda: S. Pinker, The Language Instinct. The New Science of Language and Mind, Morrow, New York 1994. Steven Pinker trova negli
studi biologici sul linguaggio prove empiriche che dimostrano la correttezza della teoria di
Chomsky. Corregge però il maestro, che pensava la grammatica universale come una capacità
emergente del tutto staccata dalla biologia, in quanto individua lʼorigine biologico-evolutiva dellʼistinto del linguaggio. Per una critica del riduzionismo mentalistico della teoria del linguaggio
di Pinker si veda J. Trabant, Artikulationen. Historische Anthropologie der Sprache, Suhrkamp,
Frankfurt a. M. 1998. Da una parte, Trabant accusa la teoria del linguaggio di Pinker di tornare
alle idee innate di Cartesio. «Wenn Geist-Sprache – Mind-Linguage – angeboren ist, ist der restliche Körper nicht mehr fuer allzu grosser Bedeutung. Wenn Sprache eine ausschliesslich dem
Menschen gegebene kognitive Faehigkeit ist, [...] so ist der Abgrund zwischen Mensch und Tier
unüberbrückbar» (Trabant, Artikulationen. Historische Anthropologie der Sprache, cit., p. 174). Il
legame del linguaggio con il corpo assicura, dunque, lʼattenzione al carattere individuale e sensibile del parlante. Dʼaltra parte, Trabant critica la disattenzione nei confronti dellʼaspetto intersoggettivo e comunicatico del linguaggio e chiede a Pinker «Wo ist der Andere? Oder: Wo ist die
Kommunikation?» (ivi, p. 176). La Anthropologie der Sprache che Trabant propone contra
Chomsky/Pinker si assegna il compito di pensare il linguaggio come «Raum des Zusammenspiels
zwischen dem Angeborenem und dem Historischen zu verstehen» (ivi, p. 180). Il mentalismo
biologistico di Pinker non tiene conto dellʼelemento sociale e culturale del linguaggio e, dunque,
di ciò che è specificamente individuale. E Trabant ancora sottolinea che il mentalismo biologistico di Pinker, assieme al rapporto del linguaggio con la cultura, fa scomparire anche il rapporto del
linguaggio con lʼelemento sensibile (sinnlich).
146
Vanna Gessa Kurotschka
La questione filosofica di elaborare un modello della mente deve
risolvere il problema di spiegare esaurientemente il comportamento
umano, in quanto comportamento di un agente razionale. Nella tradizione della Philosophy of Mind è stata la metafora mente/computer
quella che meglio di ogni altra è servita ad esplicitare cosa sia la
mente umana considerata come un oggetto ideale. Ciò su cui i filosofi della mente si concentrano non è lʼhardware – la materia della
mente –, ma il software – lʼoggetto ideale, i cui meccanismi di funzionamento seguono regole del tutto indipendenti sia dalla struttura
della materia che le implementa, sia dai soggetti che, forniti di sensibilità e comunicativamente in rapporto con altri soggetti, tali regole
conoscono o usano18. Che tale modello della mente non fosse in grado di dare ragione di tutti gli aspetti rilevanti della mente umana è
stato messo in evidenza quasi contemporaneamente allo strutturarsi
del progetto di ricerca sullʼintelligenza artificiale. Ciò che la considerazione della mente in quanto oggetto ideale lascia fuori di sé, così
Thomas Nagel19, è la qualità sensibile, individuale e cosciente dellʼesperienza umana, ciò che si prova ad essere quello che si è. Per i
funzionalisti in generale, ma anche per quelli fra loro che, evidenziando quali aspetti della mente tale metafora non includeva, per primi hanno individuato i limiti della metafora mente/computer, la distinzione fra coscienza psicologica e coscienza fenomenica non inficiava certo il modello della mente del funzionalismo20. Ad esercitare
le funzioni della mente, a spiegare, dunque, il comportamento di un
agente razionale, veniva considerata, infatti, sufficiente la coscienza
psicologica, la quale non si lascia disturbare nella sua funzione motivazionale nei confronti del comportamento razionale degli agenti dal
fatto che essi hanno una coscienza fenomenica, dal fatto cioè che
essi provano soggettivamente qualcosa ad essere quegli esseri che
sono21. La discussione filosofica sui qualia, sviluppatasi nel corso di
tutti gli anni Ottanta e, soprattutto, Novanta del secolo appena trascorso, non è rimasta però dentro i confini tracciati negli anni Settanta da Thomas Nagel e da Ned Block, confini che permettevano di
18 D. R. Hohstadter-D. Dennet, Lʼio della mente, a cura di G. Trautteur, trad. it di G. Longo,
Adelphi, Milano 1985.
19 Th. Nagel, What is it like to be a Bat?, in «Philosophical Rewieu», 83, 1974, pp. 434-50.
20 N. Block, “Truble with Functionalism”, in C. Wade Savage (a cura di), Perception and
Cognition, University of Minnesota Press, Minneapolis 1978.
21 E non è certo un caso che Thomas Nagel, il filosofo che già nel lontano 1972 ha inaugurato la discussione sui qualia, sia un influente filosofo politico kantiano. Non era forse stato Kant a
definire la morale come quellʼagire che si lascia motivare da principi razionali che si costituiscono facendo uso della ragione pura e non inficiata dal fenomeno?
Vanna Gessa Kurotschka
147
affrontare il problema senza mettere in pericolo la strumentazione
teorica del funzionalismo e il progetto di ricerca dellʼintelligenza artificiale. Certo i qualia ci sono, così i funzionalisti, la coscienza fenomenica non influenza però la spiegazione del comportamento di un
agente razionale. Per spiegare il comportamento è la coscienza psicologica quella che deve essere presa in considerazione. Questa la sistemazione teorica che ha permesso la convivenza nellʼambito della
Philosophy of Mind del modello della mente esplicitato dalla metafora mente/computer e la ricerca sui qualia.
Più insidiosa la questione diviene quando da una parte è stato affrontato il problema della conoscibilità scientifica della coscienza fenomenica e dallʼaltra ci si è chiesti se essa sia un veicolo, un tramite
per ottenere conoscenze valide intorno al mondo22. Entrambe le questioni insidiano il modello della mente elaborato dai funzionalisti. La
questione intorno alla conoscibilità scientifica della coscienza fenomenica mette in gioco la materia della mente e, dunque, quella distinzione fra hardware e software che permetteva al funzionalismo di considerare la mente solo in quanto oggetto ideale. La seconda questione
insidiava la convinzione che per spiegare il comportamento degli
agenti razionali fosse sufficiente far riferimento alla coscienza psicologica. In tale contesto teorico sono state le ricerche neurobiologiche
sulla mente ad esercitare una grande influenza sullo sviluppo della
Philosophy of Mind. Soprattutto i lavori di Antonio Damasio, dopo
quelli pionieristici di Gerald Edelman, hanno sottolineato la rilevanza
della coscienza fenomenica nel modello teorico che deve esplicitare il
funzionamento della mente e, dunque, spiegare il comportamento degli agenti razionali23. Tali ricerche hanno messo in chiaro come la
materia della mente – il materiale organico che essa implementa – faccia la differenza fra la mente e un computer. Le sensazioni, le emozioni, i sentimenti, le passioni e la coscienza di averli, da una parte sono
conoscibili scientificamente in quanto sono correlati a particolari modulatori chimici e hanno una base neurale; dallʼaltra essi ci forniscono
rilevanti conoscenze intorno al mondo e indicazioni altrettanto rilevanti su come è meglio agire in determinate circostanze per compiere
le scelte utili alla nostra sopravvivenza. La storia evolutiva della specie e lʼesperienza della vita individuale – come sopra già si è detto – ci
mettono a disposizione criteri di scelta o valori senza il possesso dei
quali la vita sarebbe certamente più povera di qualità e più pericolosa
22
23
D. Chalmers, The Conscious Mind, Oxford University Press, Oxford 1996.
A. Damasio, Emozione e coscienza, trad. it. di S. Frediani, Mondolibri, Milano 2001.
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Vanna Gessa Kurotschka
per la nostra fragilità di esseri che per vivere utilizzano un corpo fisico. Essere privi di coscienza fenomenica, o della capacità cosciente di
sentire, perché la parte del cervello correlata a tale capacità ha subito
una lesione, è causa di gravi disturbi del comportamento per un essere
quale è lʼessere umano che si muove e agisce in un mondo fatto di
cose e altri esseri umani. Ciò che proviamo, la qualità soggettiva degli
stati mentali, è ineliminabilmente un fattore rilevante per conoscere
aspetti della realtà dei quali un agente razionale non può non tenere
conto nel suo comportamento. Che, nonostante i decenni di discussioni e di argomentate critiche, il mentalismo riduzionista sia ancora vivo
e polemicamente agguerrito è attestato dallʼultimo libro di Daniel
Dennett, illustre rappresentante del funzionalismo computazionale. Il
libro di Dennett è intitolato Sweet Dreams. Illusioni filosofiche sulla
coscienza. Pubblicato lo scorso anno in USA, è appena uscito in Italia24. In Sweet Dreams, Dennett afferma che una «libera federazione
di reazionari si è fatta strada fra i filosofi, in opposizione al naturalismo meccanicistico ed evoluzionistico»25. Fra essi Dennett cita in particolare le teorie di Thomas Nagel e di David Chalmers alle quali mi
sono precedentemente ricollegata. Accusa i neurobiologi, che paiono
dare ragione alle critiche filosofiche nei confronti del mentalismo riduzionista, di essere incapaci di intendere il significato profondo di
tali critiche al funzionalismo formulate dai reazionari. Difende e formula di nuovo la sua eterofenomenologia – già esposta nel libro del
1991 sulla coscienza26. Il comportamento umano, anche quello intenzionale, è, così Dennett, «comportamentistico nel senso che si limita
al “comportamento” intersoggettivamente osservabile di tutti i soggetti e di tutte le loro parti, interne ed esterne»27.
Sugli aspetti sensibili ed emozionali della mente ha attratto lʼattenzione anche quel filone di ricerca che in Italia è stato inaugurato e
coltivato da Remo Bodei, aiutandoci a capire il limite del riduzionismo mentalistico per la definizione del modello della mente umana.
Ragionare mettendo da parte sensazioni, emozioni, sentimenti e passioni non ci fa andare umanamente molto lontano; tale modo di ragionare da parte di umani che non sono né pietre, né animali, è più
un delirare che un ragionare28. Il vincolo della consequenzialità del
24 D. C. Dennett, Sweet Dreams. Illusioni filosofiche sulla coscienza, trad. it. di A. Cilluffo,
Cortina Editore, Milano 2006.
25 Ivi, p. 7.
26 D. C. Dennett, Coscienza. Che cosa è?, trad. it. di L. Colasanti, Rizzoli, Milano 1993.
27 D. C. Dennett, Sweet Dreams. Illusioni filosofiche sulla coscienza, cit., p. 35.
28 R. Bodei, Le logiche del delirio. Ragione, affetti, follia, Laterza, Roma-Bari 2000.
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pensare, vincolo che deriva dal fatto che la mente è un oggetto ideale e che, dunque, le sue regole non dipendono dai soggetti che le
usano, deve essere non dimenticato ma, piuttosto, ridefinito tenendo
conto del fatto che la mente è anche un oggetto fisico.
Cito un passo di Hillman che illustra bene e sinteticamente i problemi pratici che nascono quando si fa lʼerrore di ridurre la mente a
un oggetto solo ideale.
Mi piace pensare che ci stiamo anche occupando di politica dellʼimmaginazione. I due peggiori crimini del nostro tempo sono di ordine politico. Mi riferisco
alla guerra impetuosa e al disinteresse per lʼambiente. Entrambi tradiscono un impoverimento dellʼimmaginazione nel pensiero politico, nelle teste dei potenti che
governano gli Stati. Soprattutto gli Stati Uniti. Robert McNamara, segretario della
difesa durante la gran parte della guerra in Vietnam, ripensando a quegli anni scrive: «Possiamo ora intendere quelle catastrofi per ciò che sono state: essenzialmente il frutto di una mancanza di immaginazione».[...]
Proviamo a essere più precisi: quale è esattamente la natura di tale mancanza? In
fondo, organizzare unʼinvasione militare dallʼaltra parte del pianeta richiede unʼimmaginazione formidabile, così come pure le dichiarazioni deliranti sul possibile rinnovamento di tutto il Medio Oriente. Il fatto è che Wolwowitz, Rumsfeld, Cheney e
Rice sono stati accecati dalla realtà apollinea: la loro ammirazione per lo strapotere
americano si è confrontata con la nozione di straordinario fanatismo del pensiero
musulmano che, a loro dire, non ha conosciuto né la riforma né lʼilluminismo.[...]
Wolwowitz, Rumsfeld, Cheney e Rice non [...] hanno saputo immaginare il
reale: gli spettri ancestrali, le forze ctonie della xenofobia, lʼamore per la propria
casa, il territorio, il paese; il degrado della povertà; la poesia ispiratrice della lingua
araba (in contrasto con il pentagonese militare computerizzato); lʼimportanza di
storia e cultura. [...] Le profezie di Wolwowitz, Rumsfeld, Cheney e Rice si sono
rivelate troppo razionali e troppo poco fantasiose per riuscire a prevedere gli orrori
della guerra e le sue conseguenze incontrollabili.29
Nellʼimmaginare la vita dobbiamo, dunque, tenere conto dei vincoli che ci vengono dalle regole di una mente che è un oggetto ideale fuori dello spazio e del tempo, le cui regole esistono indipendentemente da noi – se non tenessimo conto di tale vincolo le delusioni
sarebbero davvero cocenti –, ma non di tali vincoli concepiti riduzionisticamente come lʼunica e astorica risorsa della mente. Se la mente
deve servire da strumento per spiegare il comportamento degli agenti razionali, dobbiamo ospitare accanto alle regole della mente concepita come oggetto ideale anche quelle che fornisce la coscienza feno29 J. Hillman, Sogno e realtà, Lectio magistralis tenuta al meeting “Torino spiritualità”, Settembre 2006.
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menica. Se non lo facessimo, questo il triste insegnamento che Bush
dovrebbe accettare dalle conseguenze delle sue scelte politiche, la
consequenzialità logica potrebbe trasformare la realtà apollinea in
delirio. Il modello che spiega la mente come un oggetto ideale e progetta lʼazione razionale senza tenere conto del fatto che gli agenti
razionali umani hanno anche una coscienza fenomenica strettamente
collegata alla materia della mente, al corpo e alla natura, e che tale
materia della mente influenza il loro agire nel mondo, è la condizione
per la formulazione di strategie dʼazione che ci espongono a pericolose delusioni. Quelle che Dennett definisce le illusioni filosofiche
sulla coscienza, i dolci sogni dei filosofi reazionari, sono forse i veicoli che impediranno i consequentissimi deliri di chi pensa senza tenere conto della corposità dei sogni.
Quel cantiere aperto nel quale biologi molecolari e neurobiologi
sono ospiti graditi dei filosofi deve, dunque, aprirsi anche a quei filosofi della mente e del linguaggio in grado di andare oltre il mentalismo riduzionista e definire i vincoli necessari allʼimmaginazione, affinché essa eviti illusioni e delusioni, tenendo conto della complessità ontologica della vita umana30. Come immagina le conseguenze
delle sue decisioni, come giudica, dunque, un essere che ragiona con
una mente incorporata e che nellʼimmaginare conseguenti strategie
dʼazione mette in gioco anche le sue sensazioni, emozioni, sentimenti e passioni, oltre che le fredde ragioni?
4. La terza riduzione, ovvero la vita è un oggetto sociale
Nel passo che abbiamo letto, Hillmann definisce le decisioni politiche che hanno indotto alla scelta di fare la guerra allʼIraq deliranti
soprattutto perché coloro che hanno scelto di scendere in guerra contro quel paese non hanno tenuto conto di un aspetto della vita umana
che non può essere dedotto dalla mente considerata riduzionisticamente come un oggetto ideale e, cioè, la storia e la cultura. Gli esiti
nefasti della politica di aggressione decisa da Wolwowitz, Rumsfeld,
Cheney e Rice, esiti che dimostrano il carattere di delirio apollineo
delle loro scelte troppo consequenziali, scelte formulate senza ricorrere a una forma di immaginazione capace di fare tesoro dei vincoli
che al suo buon uso sono necessari, non sono molto diversi dagli
30 A. Clark, Being There: Putting Brain, Body and World Together Again, MIT Press, Cambridge-London 1997. Le conseguenze teoriche in ambito pratico di una concezione della mente
pensata anche come oggetto fisico sono state tratte in un bel libro di Mark Johnson, Moral Imagination. Implications of Cognitive Science for Ethics, The University of Chicago Press, Chicago
1993.
Vanna Gessa Kurotschka
151
esiti nefasti delle decisioni politiche di Creonte raccontate dalla tragedia. Il suicidio delle due persone a lui più care era stato la conseguenza delle sue decisioni politiche, decisioni scellerate perché nel
prenderle Creonte non aveva tenuto conto della forza motivazionale
che i legami familiari, la religione dei penati, avevano per Antigone.
Creonte aveva certamente mancato di immaginazione quando aveva
pensato che per ottenere obbedienza sarebbe stato sufficiente giustificare la sua decisione di impedire la sepoltura di Polinice con la necessità che la difesa della sicurezza dello Stato divenisse il valore
ordinatore di ogni altro valore per i suoi cittadini. Utilizzare la mente
come se essa fosse solo un oggetto ideale è però estremamente pericoloso per esseri che come gli umani sono anche oggetti sociali, oltre
che oggetti ideali e oggetti fisici. Il mentalismo che considera riduzionisticamente la mente un oggetto ideale, e gli umani altrettanto
riduzionisticamente in quanto agenti razionali il cui comportamento è
guidato da una mente intesa solo come oggetto ideale, trascura, dunque, sia il fatto che la vita umana è un oggetto fisico, e che pertanto
gli individui vivono nella loro separatezza di individui singoli forniti
di un corpo organico e di una singolare sensibilità, sia il fatto che la
vita umana è un oggetto sociale, e che pertanto gli individui, oltre
che esistere nella loro separatezza di individui singoli, condividono
con altri individui uno spazio sociale che è soprattutto uno spazio di
senso comune.
La considerazione della vita umana in quanto oggetto sociale, se
viene articolata riduzionisticamente, può però essere altrettanto foriera di illusioni e cocenti disillusioni quanto quella che riduce la vita o
a oggetto fisico o a oggetto ideale. Quali sono i problemi del riduzionismo che considera la vita umana univocamente un oggetto sociale?
Tale forma di riduzionismo, che possiamo anche definire culturalistico, è stato articolato in modi molteplici. La forma più nuova di riduzionismo culturalistico, una forma certamente rilevante e particolarmente pericolosa nel dibattito politico contemporaneo, è quella incapsulata nella teoria politica neoconservatrice di Samuel Huntington31. Huntington, un politologo che non utilizza strumenti di analisi teorico-filosofica particolarmente articolati, non è però il solo ad
operare con il riduzionismo culturalistico. Negli anni Ottanta – con
un segno politico intenzionalmente meno conservatore – il comunitarismo in USA aveva articolato una critica al razionalismo critico e
31 S. P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, trad. it. di S. Minacci,
Garzanti, Milano 2000.
152
Vanna Gessa Kurotschka
illuministico che si basava su una concezione riduzionistica della vita
umana32. Ma anche in ambito liberale forme di relativismo culturale,
quale quella difesa da Richard Rorty, sono state alla base di teorie
politiche riduzionistiche. Si pensi alla forma estrema di multiculturalismo che Amartya Sen di recente ha criticamente definito «monoculturalismo plurale» e che pensa la coesistenza delle culture differenti
senza che fra esse si creino intrecci inquinanti33.
Cosa vi è di errato in tale modo di ridurre la vita umana a oggetto
sociale? Il logocentrismo extra large, che preoccupava Ferraris, è qui
pienamente in azione con i suoi esiti pericolosi e inaccettabili. Lʼidentità è pensata come il risultato di una acquisizione passiva, di un assorbimento involontario di valori o disvalori socialmente dati. In gioco è qui unʼermeneutica conservatrice che, nonostante il riferimento
filosofico ad Aristotele chiamato in causa da tale ermeneutica contro
il razionalismo illuministico e critico, ha più a che fare con la filoso-
32 Basti ricordare qui quello che è stato il più famoso dei teorici del riduzionismo culturalista e, cioè, Alasdair MacIntyre. Nel suo celeberrimo testo Dopo la virtù, trad. it. di P. Capriolo,
Feltrinelli, Milano 1988, egli sostiene la tesi che il tentativo moderno di trovare un fondamento
alla morale o nelle passioni (Hume) o nella ragione (illuminismo e Kant) è fallito e che lʼesito
di tale fallimento è visibile nella centralità assunta nella teoria morale contemporanea dallʼindividuo che sceglie privo di qualsiasi criterio fondato o in qualche modo giustificato. La cura che
MacIntyre propone per guarire la morale dal relativismo, dallʼesito della malattia di cui soffre
la teoria morale della modernità, è un ritorno ad Aristotele, un Aristotele da lui trasformato
però in un comunitarista, in un filosofo che riduce gli individui a membri di una comunità, i cui
valori oggettivi definiscono la loro identità, senza che a tale occupazione comunitaria della loro
identità essi possano opporre resistenza alcuna. Per MacIntyre, infatti, gli agenti sociali non
hanno né una sensibilità né una razionalità autonoma e non hanno, pertanto, alcuna risorsa alla
quale attingere per opporre resistenza ai valori che regolano la vita della comunità e che immediatamente sono pensati come loro propri. Gli esiti ulteriori a cui conduce tale riduzione degli
individui a membri indifesi di una tradizione culturale, per riflettere sulla quale essi non posseggono alcuno strumento critico, possono essere letti in un altro libro di MacIntyre, Whose
Justice? Which Rationality?, University of Notre Dame Press, Notre Dame (Ind.) 1988. In esso
egli individua quattro concezioni della giustizia intorno alle quali si sono costituite teorie morali differenti che fanno riferimento a concezioni diverse della razionalità pratica, incapsulate in
tradizioni autoreferenziali, incompatibili e prive della possibilità di dialogare fra loro. Anche
per Huntington sembra che lʼumanità possa essere classificata in civiltà ben distinte e separate
fra loro. Il criterio della classificazione di Huntington è diverso da quello utilizzato da MacIntyre. Mentre per MacIntyre sono i differenti tipi di razionalità pratica a caratterizzare tradizioni
culturali e identità differenti, per Huntington il criterio di classificazione è la religione. Gli individui sono ridotti a funzioni della civiltà autoreferenziale e idiosincratica a cui appartengono.
Per MacIntyre essi sono definiti dalla particolare forma di razionalità pratica e dalla conseguente concezione della giustizia; per Huntington dalle forme di religiosità che caratterizzano la
loro tradizione. Di MacIntyre si veda anche Giustizia e razionalità, trad. it. di C. Calabi, Anabasi, Milano 1995. Sul comunitarismo si veda: A. Ferrara (a cura di), Comunitarismo e liberalismo, Editori Riuniti, Roma 1992; O. Höffe, Il comunitarismo come alternativa, trad. it. in
«Filosofi e questioni pubbliche», 1, 1998, pp. 19-31. Sul neoaristotelismo, cfr. F. Volpi, “La
rinascita della filosofia pratica in Germania”, in Filosofia pratica e scienza politica, a cura di C.
Pacchiani, Abano 1980, pp. 11-97.
33 A. Sen, Identità e violenza, trad. it. di F. Galimberti, Laterza, Bari-Roma 2006, pp. 151 e
sgg.
Vanna Gessa Kurotschka
153
fia di Heidegger che con il pensiero dellʼantico filosofo34. Che gli
individui assorbano passivamente senza bisogno di atti di volontà
unʼidentità socialmente predeterminata è, però, palesemente falso.
Gli individui, in quanto sensibili e, insieme, razionali, si inseriscono
allʼinterno di rapporti intersoggettivi che essi stessi creativamente
contribuiscono a costituire con le loro scelte. Un bel libro appena
pubblicato di Amartya Sen, significativamente intitolato Identità e
violenza, mette bene in evidenza la funzione centrale che la capacità
di scegliere ha nel costituirsi dellʼidentità umana e la violenza che si
esercita sugli individui quando li si costringe a ridurre la loro identità
ad una sola fedeltà che deve dominare su tutte le altre appartenenze.
Appartenenze diverse, e non sempre fra loro in armonia, costituiscono lʼidentità degli individui che non la ricevono, dunque, né come un
destino né come qualcosa che, pur dato da sempre, viene da loro
stessi soltanto trovato e interpretato. È piuttosto la capacità individuale di scegliere, di attribuire priorità anche diverse nelle diverse
situazioni di vita e di tenere insieme appartenenze sociali differenti e
spesso fra loro conflittuali a costituire la nostra identità. In tale attività lʼimmaginazione gioca un ruolo centrale. Lʼapproccio di Sen alla
questione dellʼidentità ha il merito di enfatizzare il ruolo costitutivo
della scelta critica degli individui in aperta polemica con il riduzionismo culturalistico; lascia però inesplorate questioni che devono essere affrontate con una strumentazione teorica più articolata di quella
da lui utilizzata35. Quale ruolo gioca in positivo il senso comune o,
per usare una terminologia più attraente, quale ruolo gioca lʼimmaginario sociale nella formazione dellʼidentità degli individui, se essa si
costituisce come una circostanziata scelta di un insieme di appartenenze diverse e a volte non facilmente armonizzabili e mobili nel
tempo? Se il senso comune non viene passivamente assorbito, la
creatività individuale, presupposto della scelta, è un dispositivo che
deve essere fornito dallʼimmaginario sociale per instaurarsi come
comportamento individuale o permette di pensare anche la trasformazione delle culture tradizionali, di quelle culture che non apprezzano
il ruolo di rottura creativa della trasmissione dei valori comuni, ruolo
34 E. Berti, “Lʼinfluenza di Heidegger sulla «riabilitazione della filosofia pratica»”, in P. Di
Giovanni (a cura di), Heidegger e la filosofia pratica, Flaccovio, Palermo 1994, pp. 307-33. Una
lucida analisi critica dellʼermeneutica conservatrice, rilevante in quanto tiene conto della complessa vicenda storica della filosofia del linguaggio, può leggersi in A. Wellmer, “Zur Kritik der
hermeneutischer Vernunft”, in Ch. Demmerling-G. Gabriel-Th. Rentsch (eds.), Vernunft und Lebenspraxis, cit.
35 Per unʼulteriore elaborazione della questione rinvio a G. Cacciatore, Immaginazione, identità, interculturalità, in questo numero di «Post-filosofie», pp. 119-133.
154
Vanna Gessa Kurotschka
valorizzato invece nelle società moderne36? Di fronte alle sistematiche violazioni dei diritti umani, di cui troppo spesso nelle società
tradizionali subiscono gli effetti soprattutto le donne, dobbiamo pensare che gli individui non hanno e non possono avere risorse immaginative a cui fare appello e a partire dalle quali scegliere di rinunciare alla rassicurazione identitaria che ricevono in cambio della supina
accettazione delle violenze?
5. Brevissima considerazione conclusiva
Il compito che mi sono proposta è quello di criticare tre forme
particolarmente perniciose di riduzionismo, il fisicalismo, il mentalismo e il culturalismo. Lʼho fatto tenendo conto delle teorie che nella
discussione filosofica sono oggi le più accreditate e riconosciute. Da
tale critica giungono indicazioni positive per pensare al modo in cui
deve essere costituita la capacità di immaginare la vita umana, se
essa deve produrre una conoscenza pratica della vita che non abbia
come esito la fabbricazione di illusioni, di chimere, di mostri. La critica al fisicalismo permette alla riflessione filosofica di recuperare un
rapporto positivo con la scienza empirica della vita e di pensare la
capacità di immaginare come ancorata al corpo fisico e alla sensibilità irriducibilmente individuale. La critica al mentalismo è la condizione che permette di vincolare lʼimmaginazione ad una modalità del
pensare ospitale perché intimamente connessa con le emozioni, i sentimenti e le passioni, legati al corpo fisico ma, anche, alla relazione
comunicativa con gli altri esseri umani. La critica al culturalismo
permette di pensare al rapporto comunicativo con gli altri esseri umani come un vincolo per il buon uso della capacità di immaginare, ma
non come una coercizione che la costituisce senza residui di creatività. In ognuna delle tre forme di riduzionismo che ho criticato è incapsulata, dunque, una forma di obiettivismo particolarmente insidiosa.
Mentre il fisicalismo, il mentalismo e il culturalismo sono inequivocabilmente forme di obiettivismo, i vincoli che allʼimmaginazione
derivano dal fatto che la vita umana è pensata come un oggetto complesso permettono di pensare al buon esercizio di una capacità individuale che costituisce il suo oggetto attraverso lʼuso di una libertà
vincolata, ma senza coercizioni obiettivistiche. Che la vita umana sia
stata definita come un oggetto complesso – in quanto ad un tempo
36 Su ciò si veda L. Preta, Lʼimmaginario sociale, in «Psiche», 1, 2005. Tutto il numero è dedicato alla questione e raccoglie interventi di Barcellona, Urribarri, Assmann, Magris, Vigneri, Accati,
Pozzi, Raniolo, Stochita, Rossi, Garella, Gessa Kurotschka, Zagrebelsky, Castriota, Ciaramelli.
Vanna Gessa Kurotschka
155
oggetto fisico, ideale e sociale – non deve pertanto far pensare che si
voglia qui proporre un rinnovato obiettivismo. È, piuttosto, il fatto
che la vita umana venga definita come oggetto complesso a permettere che essa, pur immaginata nel rispetto di precisi vincoli, non venga conosciuta obiettivisticamente.
MARIA LAURA LANZILLO
STRATEGIE MULTICULTURALI.
APORIE E CONTRADDIZIONI
DI UNʼIDEOLOGIA
«LʼUnione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà,
della democrazia, dellʼuguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti
umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a una minoranza. Questi valori
sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla
non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità
tra donne e uomini»1.
Queste righe, tratte dallʼarticolo 2 della prima parte del Trattato
costituzionale europeo, rivelano con evidenza le difficoltà in cui versano oggi tanto la teoria giuridica quanto quella politica (e con esse
le pratiche costituzionali e le politiche che da queste teorie sono informate) di fronte al mutamento, alla tensione o meglio ancora alla
turbolenza, a cui sono sottoposti alcuni dei principali concetti prodotti dalla riflessione politica occidentale, quali la democrazia, lʼuguaglianza, i diritti, i diritti umani, i diritti delle minoranze, la libertà. Vi
troviamo, infatti, enunciato tutto e il contrario di tutto: si dichiarano
i princìpi universali della nostra civiltà giuridica e politica (diritti
umani, libertà, uguaglianza, dignità della persona), i quali proprio
perché universali e così affermati da tutte le principali dichiarazioni
– da quella rivoluzionaria francese del 1789 alla Carta di San Francisco del 1948, al Trattato di Nizza del 2000 – non dovrebbero avere
necessità di ulteriore specificazione; ma si sente al tempo stesso il
bisogno di precisare che nel rispetto dei diritti umani sono «compresi
i diritti delle persone appartenenti a una minoranza». E già a questo
1 Trattato che adotta una Costituzione per lʼEuropa, parte Ia, art. 2, disponibile sul sito web
http://ue.eu.int.
158
Maria Laura Lanzillo
punto si palesa una difficoltà per lo meno teorica: se è necessario
scrivere che lʼUnione considera i diritti delle minoranze parte dei diritti umani, ciò significa forse che senza questa sottolineatura i diritti
delle minoranze rischiano di non essere compresi nei diritti umani?
Proseguiamo nella lettura. Due righe sotto lʼaffermazione dei diritti
umani compare lʼaffermazione della tolleranza. Unʼaltra difficoltà teorica, perché «se tutti i diritti che stanno iscritti nelle dichiarazioni internazionali sono diritti (a parte le difficoltà di interpretazione e di realizzazione) rispettarli non ha nulla a che fare con la tolleranza, perché è
semplicemente un esercizio di giustizia»2. Ma se i membri della Convenzione europea, nel redigere il testo del Trattato, hanno sentito il bisogno di aggiungere la specificazione che i diritti delle minoranze fanno
parte dei diritti umani, così come la necessità di aggiungere allʼaffermazione dei diritti e della giustizia anche quella della tolleranza, allora le
parole di questo articolo ci segnalano non solamente una difficoltà della
Convenzione nel trovare una mediazione sui valori ai quali ancorare la
carta costituzionale, ma soprattutto la difficoltà teorica e pratica in cui
oggi si trova il paradigma giuridico e politico della modernità. Quel
paradigma, cioè, che dal Sedicesimo secolo e fino agli ultimi decenni
del Ventesimo secolo, pur attraverso aggiustamenti, implementazioni,
contraddizioni aspre e conflitti violenti, aveva sostanzialmente informato la pratica giuridica e politica di quella parte di mondo che per convenzione e tradizione identifichiamo con il termine di Occidente e di cui
la democrazia rappresentativa vorrebbe essere lʼesito compiuto.
Perché quel paradigma oggi è in crisi? Tante sono le risposte che si
possono fornire a questa domanda: i processi di globalizzazione, la
crisi degli ordinamenti democratici tradizionali, lo sfaldamento delle
istituzioni del Welfare State, la crisi delle forme della rappresentanza,
la crisi del meccanismo inclusivo della cittadinanza, i flussi migratori,
le nuove forme di povertà, il revival delle religioni, ecc. Risposte variamente intrecciate tra di loro e le cui cause risiedono in fenomeni
sociali complessi e contraddittori, ma che in qualche modo trovano un
collettore comune (e anche, secondo alcune letture, una possibile soluzione) nella teoria, o meglio nellʼideologia del multiculturalismo.
Una delle novità centrali per le società occidentali della nostra epoca
è che ci troviamo a vivere, riflettere e agire in quelle che appaiono come
nuove configurazioni sociali che vengono definite “multiculturali”. Con
questo termine, si indica non tanto il fatto che le nostre società sono
2 F. Baroncelli, Come scrivere sulla tolleranza. Michael Walzer e lʼintolleranza delle teorie,
in «Materiali per una storia della cultura giuridica», 1, 1998, p. 54.
Maria Laura Lanzillo
159
fortemente diversificate al loro interno (essendo questa una costante),
quanto il fatto che non riescono più ad essere rappresentate, e di conseguenza vissute, come se fossero abitate da individui tutti uguali, così
come, invece, lʼideologia della modernità politica le aveva immaginate,
attraverso le forme di costituzione e disciplinamento del soggetto, privato di tutte le sue differenze nella sfera pubblica, secondo lʼantropologia politica che sorregge il paradigma della statualità moderna3, e identificantesi nel corpo culturalmente omogeneo della nazione.
La quotidianità dellʼesistenza negli Stati europei, invece, ci ricorda
costantemente che questa forma di autorappresentazione non funziona
più, che il cristallo dello Stato moderno, che quella rappresentazione
giustificava, se non infranto è per lo meno incrinato. Basta ricordare,
tra i tanti esempi possibili, le proteste dellʼinverno 2006 innescate dalla pubblicazione su alcuni quotidiani delle vignette su Maometto; gli
omicidi Fortuyn e Van Gogh in Olanda, tra il 2002 e il 2004; “il caso
del velo” in Francia, vicenda che si è trascinata dal 1989 fino al 10
febbraio 2004, allʼapprovazione, cioè, di una legge specifica da parte
dellʼAssemblea Nazionale; lʼattentato alla metropolitana di Londra del
7 luglio 2005; la polemica sul crocifisso e la cosiddetta infibulazione
dolce in Italia; lo scoppio delle rivolte nelle banlieues parigine dellʼautunno 2005; le proteste e il rischio di crisi diplomatica innescate dal
discorso del Papa a Ratisbona lo scorso 12 settembre; lʼaprirsi di un
nuovo “caso del velo” in Inghilterra dopo le dichiarazioni del ministro
Straw lo scorso ottobre. E la lista potrebbe continuare ancora. Dopo
avere attraversato il dibattito teorico-politico nord-americano negli anni Novanta del Ventesimo secolo, la cosiddetta questione del multiculturalismo, dunque, esplode anche in Europa e si complica ulteriormente rispetto allo scenario nordamericano, perché si innesta su altri processi che hanno coinvolto lʼEuropa a partire dallʼʻ89: il crescere dei
flussi migratori, lo scoppio di nuove guerre, la crisi degli Stati nazionali, lʼistituzione dellʼUnione Europea, il passato coloniale con cui gli
Stati europei continuano a fatica a fare i conti4.
3 Come primo riferimento sullʼantropologia politica moderna cfr. S. Mezzadra, “Immagini
della cittadinanza nella crisi dellʼantropologia politica moderna. Gli studi postcoloniali”, in R.
Gherardi (a cura di), Politica, consenso, legittimazione. Trasformazioni e prospettive, Carocci,
Roma 2002, pp. 85-100, in particolare le pp. 88 e sgg.
4 Lo si potrebbe definire una sorta di “passato che non passa”, come sta a dimostrare il coprifuoco francese decretato, grazie al recupero di una legge in vigore durante la guerra dʼAlgeria, per
sedare la rivolta nelle banlieues parigine o la controversa legge – del 23 febbraio 2005 – sullʼimportanza del ruolo coloniale della Francia, che allʼarticolo 4 recitava: «I programmi scolastici riconoscono il ruolo positivo della presenza francese oltremare, in particolare nellʼAfrica del Nord»,
approvata dal Parlamento francese e velocemente ritirata dal presidente Chirac davanti allʼesplodere della contestazione.
160
Maria Laura Lanzillo
Di fronte al riemergere e alla visibilità di ciò che la modernità
aveva cercato di cancellare – i particolarismi, la dimensione comunitaria, le differenze – il pensiero politico sembra allora aggrapparsi a
quelle che definisce “teorie multiculturaliste”, intese quali risposte
normative, cioè risposte dʼordine di fronte alla rivendicazione, nella
sfera pubblica, della diversità culturale. Nelle prossime pagine cercheremo di delineare una sorta di mappatura dei modelli di multiculturalismo che sono stati proposti, nel tentativo di comprendere qual è
la reale posta in gioco che si cela dietro lʼaffermazione e il successo
di questa ideologia.
1. Teorie e politiche multiculturali
Poiché il dibattito di cui ci occupiamo in queste pagine ha ormai
più di due decenni sulle spalle e poiché è opinione degli studiosi più
attenti che «il “multiculturalismo” non è una dottrina esclusiva, non
caratterizza unʼunica strategia politica e non rappresenta uno stato di
cose ben definite»5, è ormai possibile costruire una tipologia delle
diverse posizioni in campo. Seguendo lʼanalisi di Stuart Hall, possiamo distinguere un multiculturalismo conservatore, un multiculturalismo liberale, un multiculturalismo pluralista, un multiculturalismo
commerciale, un multiculturalismo delle corporations, un multiculturalismo critico6. A questi diversi multiculturalismi corrispondono
diversi modelli di regime politico: dal multiculturalismo a mosaico di
Taylor, alla politica in dialetto di Kymlicka, al multiculturalismo
americano di Walzer; dal modello francese dellʼintegrazione-assimilazione delle diverse culture nella cittadinanza repubblicana, alla politica multiculturale posta in essere dalla Gran Bretagna dopo la perdita dellʼimpero; dal sistema di tolleranza “autoritaria” che vige in
Olanda (costruito su una divisione della comunità nazionale in tre
pilastri: cattolico, protestante e islamico), al modello di istituzionalizzazione della precarietà, che tratta gli immigrati di cultura diversa da
quella nazionale come ospiti, proprio delle politiche sullʼimmigrazione tedesche e anche, per certi versi, italiane. Tutti, però, di fatto offrono «una gestione politica e liberale della differenza, più presentabile, ma totalmente astratta»7. Una gestione che ha portato Amartya
5 S. Hall, “La questione multiculturale”, in Id., Il soggetto e la differenza. Per unʼarcheologia
degli studi culturali e postcoloniali, Introduzione e trad. it. a cura di M. Mellino, Meltemi, Roma
2006, p. 280.
6 Ivi, p. 281.
7 A. Semprini, Le multiculturalisme, PUF, Paris 2000, p. 104.
Maria Laura Lanzillo
161
Sen a sostenere di recente che si dovrebbe più correttamente parlare
di «monoculturalismo plurale»8 più che di multiculturalismo.
Dal punto di vista filosofico-politico, si può riconoscere che le teorie multiculturali, sia negli Stati Uniti, sia in Europa, vengono tutte
elaborate allʼinterno di un pensiero che appartiene alla tradizione liberale della politica, come è dimostrato, per esempio, dal fatto che la
gran parte della discussione è centrata sulla questione dei diritti e
sulla loro rivendicazione, che è appunto il cuore della teoria politica
liberale9.
Nelle pagine dei suoi principali teorici, da Charles Taylor a Will
Kymlicka, da Michael Walzer a John Rawls, da Jürgen Habermas a
Joseph Raz, il multiculturalismo appare come un pensiero che argomenta, nonostante le critiche che rivolge al liberalismo classico, secondo una strategia di neutralizzazione astratta (delle differenze fra
gli individui, delle differenze fra i gruppi o delle differenze allʼinterno dei gruppi), di esclusione di tutto ciò che appare come diverso
(dallʼimmagine dellʼindividuo o del gruppo), di costruzione di spazi
confinati (lo spazio dello Stato o lo spazio della comunità), di gestione verticale del potere (attraverso la decisione di un “noi” che si ripercuote su tutti gli altri).
Due sono essenzialmente le posizioni che si fronteggiano: da un
lato, lʼargomentazione comunitaria, secondo la quale il soggetto viene riconosciuto come tale – cioè pienamente uomo e cittadino capace
di compiere scelte significative – solo perché parte di una comunità
che gli permette di realizzare il proprio progetto. In ragione di ciò, il
tutto (la comunità o il gruppo etnico di appartenenza) viene riconosciuto superiore alle parti (gli individui singoli), ed è affermato come
il reale titolare dei diritti e lʼarena politica diventa terreno di lotta per
il riconoscimento delle diverse identità collettive. Dallʼaltro lato, i
cosiddetti liberali “perfezionisti” – secondo lʼaggettivo che John
Rawls ha usato per definire il liberalismo di Joseph Raz –, i quali, pur
in contrasto con il liberalismo neutralista (accusato di eccessivo individualismo, ovvero di una neutralità insostenibile e di cecità nei confronti delle differenze fra culture, gruppi, stili di vita), pongono, in
ogni caso, a fondamento della loro proposta multiculturale lʼidea che
8
A. Sen, Identità e violenza, trad. it. di F. Galimberti, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 159.
Ho argomentato tale questione più distesamente nel mio Il multiculturalismo, Laterza, Roma-Bari 2005, a cui rimando per unʼanalisi più approfondita delle teorie di quei filosofi politici a
cui in queste pagine, per ragioni di spazio, non posso che accennare. Sul tema cfr. anche E. Vitale, Liberalismo e multiculturalismo. Una sfida per il pensiero democratico, Laterza, Roma-Bari
2000.
9
162
Maria Laura Lanzillo
allʼorigine di ogni riflessione sui rapporti fra le culture vi sia sempre
e comunque lʼindividuo, vale a dire il soggetto libero e autonomo,
così come lʼha pensato la modernità liberale, e che, perciò, ha propri
diritti che devono essere riconosciuti e praticati in quanto tali. Questa
seconda posizione, dunque, anche se supera il liberalismo pluralista à
la Rawls o à la Dworkin – affermando che è necessario complicare
la visione dei diritti individuali attraverso il riconoscimento dellʼesistenza e della legittimità anche dei diritti collettivi, culturali o di
gruppo –, sostiene, però, che bisogna stabilire dei confini allo spazio
di questi diritti, confini che sono determinati dalle libertà individuali
e dai diritti ad esse associati.
Interessante, ai fini del discorso che tenterò di sviluppare in queste
pagine, è la posizione di Will Kymlicka, che ha cercato di intrecciare
la riflessione filosofico-politica con lʼanalisi delle politiche pubbliche
che ineriscono ai sistemi multiculturali, provando a superare le aporie presenti in entrambe le posizioni teoriche sul multiculturalismo,
dal momento che la proposta da lui avanzata con il concetto di cittadinanza multiculturale, è proprio quella di un multiculturalismo “ibrido o pluralizzante”10. Proposta che Kymlicka ha ripreso e approfondito alcuni anni dopo lʼuscita del volume sulla cittadinanza multiculturale, pubblicando nel 2001 Politics in the Vernacular, una raccolta
di saggi in cui il filosofo canadese fa reagire la questione multiculturale mettendola a confronto con alcuni dei temi centrali del discorso
politico moderno, quali la nazione, i diritti e i diritti delle minoranze,
la cittadinanza. Il tentativo di Kymlicka è quello di dimostrare che il
multiculturalismo non può essere assunto come la soluzione della
questione oggi al centro delle politiche istituzionali, e cioè la domanda circa il posto che spetta nelle democrazie occidentali ai gruppi
etnici immigrati, ma «è soltanto una componente modesta di un complesso ben più vasto: molti aspetti della condotta pubblica influenzano questi gruppi, comprese le strategie politiche concernenti la naturalizzazione, lʼistruzione, la formazione e lʼaccreditamento professionali, i diritti umani e le leggi anti-discriminazione, il pubblico impiego, la salute e la sicurezza, nonché la difesa del Paese»11.
Attraverso unʼattenta analisi, che prende in esame le diverse riforme proposte nelle democrazie occidentali al fine di migliorare lʼinte10 Cfr. W. Kymlicka, La cittadinanza multiculturale, trad. it. di G. Gasperoni, Il Mulino, Bologna 1999.
11 W. Kymlicka., “Teoria e pratica del multiculturalismo dʼimmigrazione”, in Id., Multiculturalismo o comunitarismo?, ed. it. a cura di E. Caniglia e A. Spreafico, Luiss University Press,
Roma 2003, p. 127.
Maria Laura Lanzillo
163
grazione degli immigrati (dai programmi di affirmative action alla
revisione dei curricula di storia e letteratura, dalla revisione delle
festività a quella dei codici di abbigliamento, dal finanziamento di
festival culturali e programmi di studio etnici allʼofferta di programmi di studio bilingue per i figli degli immigrati o di servizi agli immigrati adulti nella loro lingua madre, ecc.), lʼobiettivo di Kymlicka
è quello di pensare un multiculturalismo che eviti i rischi di balcanizzazione o di separatismo che sono stati imputati al multiculturalismo
à la Taylor, proponendo una forma di multiculturalismo appunto
«pluralizzante o ibrida»12, tesa ad allargare la sfera delle libertà individuali. Politiche orientate in questo senso – in cui si salvaguardano
sia i princìpi liberali dei diritti degli individui, attraverso il riconoscimento della libertà dellʼindividuo allʼinterno del gruppo minoritario,
garantendogli il diritto individuale di exit dal gruppo, sia lʼeguaglianza tra gruppo minoritario e gruppo maggioritario, e in cui si sottraggono i gruppi e le minoranze alla omogeneizzazione della maggioranza, riconoscendo oltre ai diritti degli individui anche quelli dei
gruppi – determinerebbero, in ultima analisi, uno spegnimento dei
conflitti fra le culture senza rinunciare alla salvaguardia dellʼautonomia individuale e del pluralismo sociale.
La logica del multiculturalismo di Kymlicka si propone in definitiva «lʼaccettazione del principio di integrazione prescritto dallo Stato, ma anche la rinegoziazione delle condizioni per lʼintegrazione»,
cosa che «i gruppi immigrati riconoscono in pieno e accettano»13. La
politica che tiene maggiormente conto delle aspirazioni e dei bisogni
dei singoli risulta, allora, quella che si pratica in “dialetto”, politics in
the vernacular appunto, che riconosce la dualità dellʼidentità delle
persone e integra nei diritti individuali quei diritti collettivi che permettono la piena attuazione delle libertà. Solo in questʼottica, ed è
qui che sta la differenza rispetto alla posizione comunitaria di Taylor,
i gruppi devono essere tutelati attivamente dallo Stato, in quanto funzionali alla realizzazione del bene del singolo. Il regime politico che
agli occhi del filosofo canadese meglio potrebbe realizzare questa
forma di multiculturalismo “vernacolare” è ciò che egli definisce «federalismo multinazionale», frutto di unʼelaborazione dottrinale dei
sistemi federali canadese e spagnolo, che prevede la divisione dei
poteri fra un governo centrale e due o più sub-unità definite su base
territoriale, disegnate in modo che suddivisione territoriale e riparti12
13
Ivi, p. 145.
Ivi, pp. 146-47.
164
Maria Laura Lanzillo
zione dei poteri possano rispecchiare i bisogni e le aspirazioni dei
gruppi minoritari che vivono allʼinterno dello Stato federale14. Il sistema federale, unito allʼimplementazione di politiche pubbliche che,
come abbiamo visto sopra, abbiano come obiettivo lʼintegrazione dei
diversi gruppi, dovrebbe, in definitiva, condurre alla realizzazione di
uno degli obiettivi di tutte le teorie multiculturaliste: lʼuguaglianza
tra gruppo di maggioranza e gruppi di minoranze, quellʼuguaglianza
che il costituzionalismo colour-blind dei modelli liberali classici, pur
affermandola in teoria, non avrebbe, invece, mai saputo garantire nella pratica. Kymlicka, insomma, tenta in qualche modo la quadratura
del cerchio: una nuova forma di giustizia, che in Politics in the Vernacular definisce «etnoculturale», capace di conciliare i princìpi individualistici universali del liberalismo con lʼevidenza della pluralità
delle società e delle richieste di riconoscimento che provengono dai
diversi gruppi minoritari che compongono le odierne società occidentali, evitando al tempo stesso i rischi di conflittualità endemica
della società o, peggio ancora, di secessione15.
Ma Kymlicka, però, non ci spiega quali misure si dovrebbero
adottare di fronte a gruppi “non liberali” (ciò che Rawls, in Il diritto
dei popoli, ha definito le società non ancora «decenti»), e nemmeno
come lo Stato dovrebbe comportarsi di fronte a richieste di secessione, nel momento in cui lʼaccordo fra gruppi risultasse impossibile.
Già in Multicultural Citizenship, egli aveva riconosciuto che «pratiche illiberali esistono e rappresentano una sfida per la teoria liberale
dei diritti delle minoranze. Ma la sfida non riguarda soltanto le culture minoritarie. […] I liberali devono dedicare maggiori energie alla
promozione della liberalizzazione delle culture sociali e alla comprensione del ruolo degli interventi coercitivi e non coercitivi da parte di terzi. E il problema certo non scompare se si nega lʼautogoverno
alle minoranze nazionali»16. Anche in Politics in the Vernacular,
Kymlicka affronta lo stesso problema: la proposta di un federalismo
di tipo nuovo, multinazionale appunto, si può infatti leggere quale
ulteriore tentativo, dopo la cittadinanza multiculturale, di garantire
uguale rappresentanza formale e sostanziale ai diversi gruppi presenti allʼinterno dello Stato. E, tuttavia, di fronte alle difficoltà che la sua
costruzione presenta, egli si arresta e non le affronta nella radicalità
dei quesiti che esse pongono alla filosofia politica. Se da una parte
14 Cfr. W. Kymlicka, Politics in the Vernacular: nationalism, multiculturalism and citizenship,
Oxford University Press, Oxford 2001, pp. 91 e sgg.
15 Ivi, pp. 112 e sgg.
16 W. Kymlicka, La cittadinanza multiculturale, cit., p. 300.
Maria Laura Lanzillo
165
riconosce fin dalle prime pagine di Politics in the Vernacular che il
problema dei limiti, del confinamento dello spazio politico è problema più ampio del dibattito multiculturale, dallʼaltra non può che, date le premesse liberali del suo discorso che su quei confini si costruisce, arrestare il riconoscimento dei diritti dei gruppi e delle minoranze di fronte a tutto ciò che il discorso liberale non riconosce come
parte dei propri valori, facendo precipitare, ancora una volta, la propria teoria multiculturale in unʼaporia priva di uscita.
Unʼaporia questa che ritroviamo anche in quella parte di pensiero
femminile, anchʼesso di matrice liberale (e mi riferisco ai contributi,
per esempio, di Susan Moller Okin o di Seyla Benhabib), che pure ha
denunciato i rischi di esclusione e di danno, soprattutto per le donne,
che da queste forme di multiculturalismo derivano. E che, tuttavia, rischia, continuando ad argomentare secondo una logica binaria che contrappone a un “noi” (variamente identificato) sempre e comunque un
“loro”, di produrre lʼeffetto opposto di quello che a parole si vuole
sostenere, vale a dire la riproposizione della disuguaglianza fra chi oggi concede democrazia, uguaglianza o diritti, come nei secoli passati
concedeva tolleranza, e chi deve accettare di buon grado la concessione; o il connotare tutti quelli che appaiono diversi da noi come esseri
da tollerare o, alla stregua di vegetali, da far fiorire alle nostre forme di
civiltà. La riproposizione, cioè, di modelli gerarchici, che mettono ordine solo a patto che ci sia qualcuno a garantirlo (il “noi” che tale si
autoproclama) e a cui tutti gli altri (i “loro”) devono piegarsi.
In definitiva, nella maggior parte della letteratura che sostanzia
lʼideologia del multiculturalismo si riscontra una centralità acritica dei
cosiddetti “nostri” valori o princìpi – i princìpi del liberalismo – e uno
sguardo cieco su ciò che ci appare “altro” e che diventa così una sorta
di monolite, che prende il nome di cultura e che è considerato, nella
migliore delle ipotesi, uno stadio pre-moderno della civiltà o un qualcosa di esotico da conservare come in un museo; nella peggiore, qualcosa da rigettare perché intollerabile17. Malgrado le critiche e le decostruzioni a cui è stato sottoposto nel corso del Ventesimo secolo allʼinterno delle stesse società occidentali, e in virtù della grande influenza
del pensiero femminile, prima americano e poi europeo, ancora una
volta lʼuniversalismo di matrice liberale viene propagandato dagli
stessi teorici liberali del multiculturalismo come una forma di pensiero neutra e, quindi, giusta e buona in sé, poiché pensata come se fosse
17 Cfr. G. Mantovani, Lʼelefante invisibile. Tra negazione e affermazione della diversità: scontri e incontri multiculturali, Giunti, Firenze 1998; Id., Intercultura. È possibile evitare le guerre
culturali?, Il Mulino, Bologna 2004.
166
Maria Laura Lanzillo
senza cultura – un pensiero, dunque, privo di interessi materiali, di
pratiche di oppressione e sottomissione, alieno da qualsiasi forma di
discriminazione sessuale. Ragionamento, questo, che finisce per istituire una facile equazione che stabilisce che la cultura, tout court, è
qualcosa di non liberale, e dunque opprimente, discriminante18.
2. Strategie di conservazione
Come primo punto di approdo di questa rapida panoramica sulle
teorie politiche del multiculturalismo, si può constatare che ciò che
accomuna tali teorie è il loro carattere “conservativo” (dalle pagine di
Kymlicka emerge, infatti, che la cittadinanza multiculturale e il federalismo multinazionale sono tentativi di trovare soluzioni atte a mantenere sostanzialmente immutata la struttura delle democrazie rappresentative, attraverso lʼaccostamento del riconoscimento di alcuni diritti dei gruppi e di nuove forme di rappresentanza al modello costituzionale democratico). Non è un caso, infatti, che, spesso, nelle pagine di
questi autori la parola multiculturalismo venga usata in alternativa alla parola tolleranza (e lʼesempio più clamoroso è il volume di Michael
Walzer intitolato appunto On Toleration19), quasi a volerci dire che, di
fatto, la novità del multiculturalismo altro non è che la riproposizione
della “vecchia” soluzione della tolleranza, adattata ai nostri tempi e
trasformata, seguendo la proposta rawlsiana, in virtù politica propria
delle odierne società pluraliste20. Ma la tolleranza è concetto politico
che ha uno statuto negativo, difensivo21; e se nei secoli della prima
modernità la tolleranza fu affermata quale tentativo di arginare la crisi
di un intero paradigma ermeneutico-ordinativo, quello dellʼuniversalità medievale e dellʼantico regime, il ripresentarsi oggi nel dibattito
politico, filosofico e sociologico del tema della tolleranza non può che
essere indice (e, quindi, non soluzione) della crisi di un altro universalismo, quello dello Stato sovrano e dellʼideologia dei diritti, universali e particolaristici al tempo stesso, ad esso connessa. Se ciò è vero,
allora ne deriva che il multiculturalismo invece che essere la soluzione allʼaltezza dellʼepoca nuova postmoderna e globale, finisce per essere usato allo scopo di sostenere e rinvigorire proprio le categorie
18 Cfr. W. Brown, Regulating Aversion. Tolerance in the Age of Identity and Empire, Princeton
University Press, Princeton-Oxford 2006, pp. 176-205.
19 M. Walzer, Sulla tolleranza, trad. it. di R. Rini, Laterza, Roma-Bari 1998.
20 Cfr. J. Rawls, Liberalismo politico, trad. it. di G. Rigamonti, Edizioni di Comunità, Milano
1994. Si veda anche S. Veca, Dellʼincertezza. Tre meditazioni filosofiche, Feltrinelli, Milano 1997.
21 Sullo statuto epistemologico inerente al concetto politico di tolleranza mi permetto di rimandare al mio Tolleranza, Il Mulino, Bologna 2001.
Maria Laura Lanzillo
167
della modernità politica (dinamiche verticali di potere, diritti fondati
sulla necessità dellʼesclusione, riconoscimento di rappresentanza solo
a prezzo dellʼomogeneizzazione e dellʼassimilazione, neutralizzazione
dei conflitti, affermazione e difesa dei confini, ecc.), presentandosi
sotto il “velo” (come ogni ideologia che sia tale) del nuovo, della soluzione ai problemi politici posti dal “nuovo” ordine politico22.
Ma la realtà e lʼevidenza delle parole del multiculturalismo ci dimostrano che il problema che inquieta e interroga la politica è, ancora
una volta, il tentativo di controllare, imbrigliare, incatenare la capacità
di azione politica delle molte soggettività che abitano il mondo, incasellandole nel contenitore “cultura”. Al bipolarismo politico sembra si
sia sostituito una sorta di “bipolarismo culturale”, costituito per un
verso dai fondamentalismi islamici e, per altro verso, dal corrispondente fondamentalismo identitario statunitense ed europeo a partire
dal quale si determinano anche le relazioni internazionali; un bipolarismo che rischia di incanalare la riflessione politica, ma soprattutto la
pratica politica, verso lo sbocco tragico dello scontro di civiltà. Indice
di questa trasformazione e involuzione del discorso pubblico in senso
conservativo è il riemergere nella sfera pubblica di nuove paure23 (nei
confronti di chi appare diverso, straniero, inimicus e hostis) che alimentano sia nuove forme di razzismo, sia, per opposizione, costanti
rivendicazioni di identità24, e che contribuiscono non tanto a una teoria critica della realtà, quanto a uno svuotamento sostanziale dellʼuniversalismo occidentale dei diritti di libertà, che riguarda tutti e non
solo i presunti altri che giungono nelle società occidentali.
Se oggi stiamo assistendo, secondo lʼespressione di Susan Strange,
alla «ritirata dallo Stato»25; se si determina (o si è già determinato) il
passaggio, secondo Beck, dalla prima modernità (in cui lʼordine era
fondato sul rapporto fra diritto internazionale e Stati nazionali) alla
seconda modernità (in cui lʼordine è fondato sul rapporto fra diritti
umani e società mondiale)26, se, secondo Bauman, alla modernità «solida» si è sostituita una modernità «liquida», «deregolamentata»27, ciò
22 Cfr. S. Zizek, Multiculturalism, or the Cultural Logic of Multinational Capitalism, in «New
Left Review», 225, 1997, pp. 28-51.
23 Cfr. J. T. Levy, The Multiculturalism of Fear, Oxford University Press, Oxford 2000.
24 Cfr. R. Siebert, Il razzismo. Il riconoscimento negato, Carocci, Roma 2003 e A. Sen, Identità e violenza, cit.
25 Cfr. S. Strange, Chi governa lʼeconomia mondiale? Crisi dello Stato e dispersione del potere, ed. it. a cura di L. F. Signorini e M. Omiccioli, Il Mulino, Bologna 1998.
26 Cfr. U. Beck, Che cosʼè la globalizzazione. Rischi e prospettive della società planetaria, ed.
it. a cura di C. Albini, Carocci, Roma 1999.
27 Cfr. Z. Bauman, Modernità liquida, trad. it. di S. Minucci, Laterza, Roma-Bari 2002.
168
Maria Laura Lanzillo
sembra indicarci che, insieme alla crisi di tutto un paradigma concettuale, quello che si va frantumando è anche la soggettività politica che
quel paradigma confermava. Nel cosiddetto mondo globale, nella «società dello spettacolo» dominata dal primato della sfera mediatica e
comunicativa, ma anche dalla frammentazione del lavoro, dalla crisi
dellʼistituzione parlamentare, dal declino delle tradizionali forme di
governo, trovano il loro reciproco scacco sia lʼideologia universalistica
della ragione illuminista (che aveva propagandato, anche attraverso la
lotta per la tolleranza, unʼidea concreta di realizzazione di un senso e
di valori universali, sulla quale si sono costruite le forme storiche dello
Stato moderno), sia lʼideologia di una ragione, quella del mondo globale, priva di valori e senso universale (che propaganda unʼidea “vuota” di universale, ma che al tempo stesso pensa ad una precisa localizzazione di se stessa, nellʼOccidente, unico luogo di civiltà e dunque di
democrazia e per tale motivo caricato della “missione” di esportarle
ovunque sia necessario). Effetto di ciò sono la disaffezione, la sottrazione della moltitudine a ogni idea della rappresentanza come valore
identificante, «la rinuncia ai codici politici di interpretazione dei fatti
sociali»28.
3. Oltre il multiculturalismo: pratiche di decostruzione
Ritengo allora che agli inizi del Ventesimo secolo il proporsi della
questione multiculturale non ponga alla riflessione politica il problema
offrendole, al tempo stesso, la soluzione, ma ci interroghi più radicalmente attraverso una domanda inquietante; ci riveli, cioè, che lʼordine
del discorso politico è precipitato in unʼimpasse, in unʼafasia, che si sta
attorcigliando su se stesso (e ne abbiamo visto un esempio sopra nellʼarticolo 2 del Trattato costituzionale), che è caduto in trappola.
Compito allora di una filosofia politica che sia allʼaltezza della
sfida che la contingenza le impone è quello di provare a produrre una
nuova opera di immaginazione (così come lo sono state tutte le forme
politiche della nostra storia) attraverso uno spostamento radicale (filosofico appunto) del discorso.
E ciò significa, riguardo allʼoggetto di cui stiamo discutendo in
queste pagine, provare ad analizzare la questione del multiculturalismo da un altro punto di vista, che si serva del multiculturalismo non
quale spiegazione (talvolta assolutoria) del riemergere prepotente
della conflittualità e della violenza nello spazio politico e giustifica28 A. Dal Lago, Non-persone. Lʼesclusione dei migranti in una società globale, Feltrinelli,
Milano 1999, p. 79.
Maria Laura Lanzillo
169
zione ex-post della crisi in cui si dibatte la forma-Stato, ma come
presa in carico delle sfide rivolte allo Stato e alla democrazia nella
direzione di un pensiero attento al movimento, alla processualità, al
fine di pensare quelle sfide non solo e non più come foriere di conflitti e di guerre. Il fine è quello di proporre un “altro” multiculturalismo, che si serva degli strumenti posti in essere da alcune delle tradizioni filosofiche che più hanno connotato il Novecento, cioè dal
decostruzionismo della différance, come dal pensiero femminile della differenza e, per certi versi, dagli studi multidisciplinari postcoloniali, per uscire dallʼimpasse di un dibattito che, pur nelle sue molteplici varianti, riproduce sempre una visione essenzialista della cosiddetta identità etnica, quella che i multiculturalisti vorrebbero preservare e il paradigma liberale assimilazionista cercherebbe invece di
omologare in una sorta di pacifica omogeneità culturale.
Letto da questo punto di vista, parziale come ogni punto di vista
ma proprio per questo produttivo, perché consapevole della sua parzialità e, perciò, capace di aprirsi al dialogo e alla relazione con punti di vista altri, il multiculturalismo può, allora, assumere una più
forte capacità ermeneutica del reale; trasformarsi in lente negativa
che ci permette di vedere quel lato “oscuro” di noi, nascosto, occultato, ma che pure ci costituisce e che, se finalmente svelato, ci consente, almeno in parte, di riconoscere la fallacia di alcune delle premesse epistemiche che sostanziano il pensiero politico occidentale,
quali la necessità di etichettare, definire, separare le forme di vita e di
pensiero per riuscire a identificarci per opposizione.
Contro la cristallizzazione e la reificazione delle identità che abitano
il discorso occidentale sul multiculturalismo, si pongono i discorsi cosiddetti “ibridisti” o sul “meticciato”, che tendono a mostrare che i processi identitari, tutti i processi identitari, sono processi dinamici, processi di negoziazione costante tra il sé e gli altri, mentre la rappresentazione di tali processi come cristallizzati dentro determinati confini (la cultura del gruppo o dellʼindividuo) è determinata da rapporti di forza, da
esigenze materiali e da situazioni storiche29. Categoria quella di “ibri-
29 Come primi riferimenti sulla lettura del multiculturalismo da questo punto di vista cfr. E.
W. Said, Orientalismo, trad. it. di S. Galli, Feltrinelli, Milano 1999; B. Parek, Rethinking Multiculturalism. Cultural Diversity and Political Theory, Macmillan, Basingstoke-London 2000; B.
Hesse (a cura di), Un/settled Multiculturalism. Diasporas, Entanglements, Transruptions, Zed
Books, London-New York 2000; H. K. Bhabha, I luoghi della cultura, trad. it. di A. Perri, Meltemi, Roma 2001; D. Petrosino, Pluralismo culturale, identità, ibridismo, in «Rassegna italiana di
sociologia», 3, 2004, pp. 389-418; nonché M. L. Lanzillo, Il multiculturalismo, cit., in particolare
le pp. 89 e sgg. e Ead., “Noi o gli altri? Multiculturalismo, democrazia, riconoscimento”, in C.
Galli (a cura di), Multiculturalismo. Ideologie e sfide, Il Mulino, Bologna 2006, pp. 81-108.
170
Maria Laura Lanzillo
do” che può essere produttivamente usata anche per decostruire quel
concetto di nazione e di soggetto che allʼinizio di queste pagine abbiamo individuato come una delle radici delle questioni sollevate oggi dal
multiculturalismo e dal tema dellʼidentità. Seguendo le analisi di Bhabha, nella decostruzione dei rapporti di dominazione che costituiscono
la nazione, questʼultima rivela essa stessa unʼorigine multiculturale e
ibrida, che ha cercato di superare con un processo di narrazione e di
pratica politica dellʼazzeramento di ogni differenza e di omologazione30. Dunque una relazione, nonostante i processi di esclusione/inclusione messi in opera per negarla, sta alla base della costituzione della
nazione, che si rivela così meno “pura” e meno “naturale” di quanto
lʼideologia nazionalista e un certo multiculturalismo, votato alla difesa
della originarietà dei gruppi e delle culture, pretendono di affermare. La
proposta di Bhabha, così come della letteratura post-coloniale, è allora
di assumere “lʼibridità”, la posizione liminale come nuovo spazio in cui
porre in essere una nuova forma di pratica politica, che vada oltre il
conservatorismo del dibattito liberale sul pluralismo culturale o sul multiculturalismo. Lʼibridazione culturale si pone come luogo non confinato, definito, categorizzato, come luogo, cioè, di negoziazione antagonista, che non si propone, tuttavia, di superare lʼaltro per affermarsi o per
distinguersi, ma che vuole essere «né lʼUno (la classe lavoratrice nella
sua unità) né lʼAltro (la politica del genere) ma qualcosʼaltro accanto ad
essi»31. Lʼ«ibrido» di Bhabha ha molti punti di contatto con ciò che
Gilroy in Black Atlantic definisce la «doppia coscienza», riprendendo il
motivo della two-ness di Dubois, quale lezione «sullʼinstabilità e la mutabilità delle identità, sempre incompiute e in continuo rifacimento»32, e
che si avvicina alla figura della doppia assenza di Sayad33. Figure, metafore, tutte tese a evidenziare che «il soggetto e la sua identità si stanno
frantumando, stanno definitivamente perdendo la loro unitarietà»34.
La lettura che i concetti di “meticciato”, “ibridazione” o “creolismo” propongono viene centrata invece che sullʼunità e sul confinamento (degli individui, dei gruppi, delle culture), sulla molteplicità,
sullʼindeterminatezza, sul carattere processuale e contraddittorio di
30 Cfr. H. K. Bhabha (a cura di), Nazione e narrazione, Introduzione di M. Pandolfi e trad. it.
di A. Perri, Meltemi, Roma 1997, in particolare le pp. 484 e sgg.
31 H.K. Bhabha, I luoghi della cultura, cit., p. 46.
32 P. Gilroy, The Black Atlantic. Lʼidentità nera tra modernità e doppia coscienza, trad. it. M.
Mellino e L. Barberi, Meltemi, Roma 2003, p. 43; su Dubois cfr. in particolare ivi, pp. 207 e
sgg.
33 Cfr. A. Sayad, La doppia assenza. Dalle illusioni dellʼemigrato alle sofferenze dellʼimmigrato, ed. it. a cura di S. Palidda, Cortina, Milano 2002.
34 D. Petrosino, Pluralismo culturale, identità, ibridismo, cit., p. 405.
Maria Laura Lanzillo
171
tali processi, che hanno nel discorso coloniale la propria cartina di
tornasole35. Problemi che coinvolgono allo stesso tempo sia il nonOccidente ex-colonizzato, sia lʼOccidente ex-colonizzatore, proprio
perché – seguendo le analisi di Amselle36 – è stata lʼazione coloniale
a creare e indurre identità, costruite nella forma di identità differenti.
E questo non riguarda solo i popoli colonizzati che oggi ci sembrano
premere ai confini della “fortezza Occidente”, ma anche quelle che ci
vengono vendute come le società multiculturali occidentali. Non esiste una cultura originaria, ma ogni cultura è già il prodotto di interazioni e di incroci, dimenticati o negati, come ci ricorda la figura del
migrante, che «minaccia la pretesa che una cultura coincida con un
territorio (si può essere, con diversa intensità, islamici in Europa,
questo è lo scandalo religioso degli stranieri); […] lʼindividuo non è
il microcosmo rappresentativo della supposta cultura originaria, ma
qualcuno che ha operato un assemblaggio di culture diverse, insomma un ibrido, un meticcio»37. La necessità è, allora, quella di decostruire, svelare ciò che sta alla base dei processi di categorizzazione,
di definizione di molta letteratura multiculturale, per dimostrare che
quella naturalità, quella originarietà non è lʼorigine, ma, allʼopposto,
il frutto di un processo storico-politico. Che, in definitiva, cultura –
seguendo la lezione epistemologica che ci deriva da Weber, il quale
ci invita a evitare che una parola sia scambiata per la causa di azioni
– non è parola che spiega, ma parola da spiegare38.
Ciò che si propone da questo punto di vista è la decostruzione
paziente e quotidiana del “noi” e del “loro” (questione su cui si è
costruito tutto il pensiero politico europeo moderno), dei diritti e dei
poteri, della tolleranza e dellʼintolleranza, dellʼuniversalismo della
libertà e del relativismo della differenza. «Non possiamo semplicemente riaffermare la “democrazia”. Ma la questione multi-culturale
ci suggerisce anche che il momento della “differenza” è essenziale
alla definizione della democrazia come spazio autenticamente eterogeneo [per] tentare di costruire una varietà di sfere pubbliche nuove,
in cui ogni particolare verrà trasformato dallʼobbligo di negoziare allʼinterno di un orizzonte più ampio»39.
35
Cfr. S. Hall, La questione multiculturale, cit., pp. 284 e sgg.
J.-L. Amselle, Logiche meticce, presentazione e trad. it. a cura di M. Aime, Bollati Boringhieri, Torino 1999.
37 A. Dal Lago, “Esistono davvero i conflitti tra culture? Una riflessione storico-metodologica”, in C. Galli (a cura di), Multiculturalismo. Ideologie e sfide, cit., p. 78.
38 Ivi, pp. 60 e sgg.
39 S. Hall, La questione multiculturale, cit., p. 319.
36
172
Maria Laura Lanzillo
Un invito, in definitiva, ad operare un lavoro di decostruzione anche del nome “Europa”, quel nome che era stato pensato a partire dal
Trattato di Roma come “barriera” allo scontro di civiltà e alla guerra,
e che invece si è mostrato fragile, frammentato e perciò in balìa delle
lotte e dei conflitti per lʼidentità che informano i nostri tempi multiculturali40.
40 E lʼambiguità che abbiamo visto nellʼarticolo 2, così come la vicenda travagliata e per ora
in stallo del Trattato costituzionale, non sono che unʼulteriore conferma dellʼimpasse prima ancora che politica epistemica in cui la costruzione politica dellʼEuropa si dibatte. Devo la sollecitazione a riflettere sul nome “Europa” nellʼambito delle mie ricerche sul multiculturalismo a Ida
Dominijanni, a cui va il riconoscimento grato del mio debito.
BARBARA HENRY
CONFLITTI IDENTITARI E LAICITÀ.
UNA PREMESSA AL DIBATTITO
SUL MULTICULTURALISMO
Introduzione
Si dovrebbe affermare più di frequente, con assonanze immediate
rispetto al linguaggio disciplinare dellʼetnografia, che i concetti «puri» impazziscono, per opporsi al tabù della contaminazione fra universi simbolici, forme di vita, culture1. Far valere tale monito anche
rispetto ad alcuni concetti e rispettive famiglie disciplinari è il primo
obiettivo che ci si prefigge in questo lavoro.
Quando i concetti siano considerati come scatole chiuse e verità
autoevidenti, o assiomi intoccabili, essi possono influenzare in maniera tanto più pervasiva perché incontrollabile il linguaggio e la percezione diffusa in larghi strati delle società occidentali. Le parole, i
concetti sono armi sottili, soprattutto se vengono dati per essenze immutabili, o più semplicemente, per materia da specialisti2. Ciò può
dirsi a maggior ragione per le nozioni cariche di assonanze molteplici, e particolarmente rilevanti per la vita pratica. Una categoria che
rientra pienamente nella duplice fattispecie sopra descritta – Semantische Verflochtenheit/Soziale Relevanz – è quella di identità. Per
questʼultima, e a motivo del carico di significati che la grava, va data
una stipulazione preliminare, per sgombrare il campo da frequenti
equivalenze indebite, in particolare da quella di maggior successo e
dagli effetti più deleteri.
1 J. Clifford, The Predicament of Culture. Twentieth-Century Ethnography, Literature, Art,
Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1988.
2 La contaminazione fra concetti filosoficamente nobili e loro traduzioni nelle categorie delle
scienze sociali non deve essere considerato un problema nelle relazioni fra linguaggi disciplinari
maturi, giacché ritengo che non abbiano niente da temere gli uni dagli altri.
174
Barbara Henry
Con la definizione che seguirà si vuole contrastare la tesi per cui
si darebbe una necessaria e ineluttabile equiparazione fra la nozione
di identità e i più vari dispositivi pedagogici e sociali repressivi, totalizzanti e monopolistici rispetto alla varietà delle istanze psichiche e
sociali. Va al contrario affermato che: “identità” non significa ex
abrupto monoliticità, né struttura autoritaria, tanto meno disciplinamento monocratico delle istanze plurali del sé individuale e collettivo. Pertanto, è possibile escludere lʼesistenza di legami indissolubili
e cogenti fra le molteplici nozioni di “identità” e le strutturazioni
monolitiche sia della personalità individuale, che degli aggregati fra
individui. Ciò non significa negare che vi siano forme più autoritarie
di costruzioni dellʼidentità rispetto ad altre, soltanto rifiutare il paradigma naturalistico-essenzialistico, secondo cui alcune identità, perché presuntivamente date per semplici e integre, siano primordiali, di
rango e genere superiore, e capaci quindi di dettar legge quando si
tratti di stabilire il “vero” modello di identità. Come dire, invertiamo
lʼonere della prova a carico di chi accredita surrettiziamente lʼequiparazione fra identità e monoliticità.
Ad analogo destino, di essere al centro di un intreccio disciplinare
e semantico che permea i lemmi del linguaggio comune, non sfugge
neppure la nozione di laicità, i cui rapporti con la tematica identitaria
e multiculturale sono il secondo oggetto del presente lavoro. Anche
in questo caso, si impone una scelta definitoria preliminare. Il termine indica lʼestensione, di tipo modale, dellʼaggettivo “laico” = “non
chierico”, denotante chi, entro la comunità di fede cattolica, non appartiene al clero. Il termine è del linguaggio cristiano (europeo) preriformistico, prima di divenire uno dei nomi attribuiti al criterio liberale di separazione tra foro interno e foro esterno, fra fede e politica;
ciò si è verificato a partire dalle trasformazioni istituzionali e ideologiche dellʼInghilterra del Diciassettesimo secolo, il paese delle due
rivoluzioni (1642, 1688).
Se ciò è vero, come peraltro si tenterà di mostrare, la categoria
mantiene durante il proprio percorso, e in combinazioni diverse a
seconda dei contesti storici e istituzionali, la duplice connotazione
interreligiosa e intercomunitaria, in quanto essa condiziona la coesistenza fra una pluralità di comunità entro un unico corpo politico.
Lʼadagio: «Lo Stato nulla possa in materia puramente spirituale, e la
Chiesa nulla in materia temporale» è infatti saturo anchʼesso di stratificazioni storiche, socio-culturali, di segno assiologico opposto. Come esempi di tale varietà valgano il laicismo e la tolleranza; il primo
concetto reca il segno negativo, a differenza di una delle radici con-
Barbara Henry
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cettuali della laicità, la tolleranza; questa porta il segno positivo, non
da ultimo per la sua perdurante giovinezza che rinvigorisce le scienze
sociali e politiche.
Nel primo caso, con laicismo si rinvia ad una delle accezioni
peggiorative del concetto di laicità e di cultura laica. Il laicismo
indica il principio di neutralizzazione/secolarizzazione del fenomeno religioso e dei precipitati sociali relativi, legittimando da ultimo la rimozione dal discorso pratico e politico delle questioni
connesse al sacro. In tale configurazione, la laicità, da criterio regolativo connotato in senso egualitario delle relazioni fra aggregazioni umane sia interreligiose sia extrareligiose, diviene dogma
anti-religioso, specularmente atteggiato rispetto alle varie ortodossie. Con il secondo caso, il riferimento è alla nozione e alle pratiche istituzionali e proto-laiche della tolleranza (toleration). Con
tale nozione si intende: unʼinsieme di atteggiamenti morali e di
pratiche istituzionali della maggioranza di una popolazione, volte a
regolare, secondo gradi diversi di intensità e apertura “ricettiva”,
relazioni non bellicose con gruppi minoritari dalla cui vicinanza
non sia possibile prescindere, se non a rischio di destabilizzare
lʼordine sociale e politico. Tale definizione realistica non preclude
affatto lʼintroduzione di regole di reciprocità volte ad limitare gli
aspetti asimmetrici della relazione fra maggioranze (anche interne
ai gruppi) e minoranze.
Per connettere i due obiettivi, la fluidificazione di alcune rigidità
concettuali rispetto allʼidentità, e lʼimpiego di tale nozione per meglio favorire una coesistenza laica – improntata allʼeguaglianza di
trattamento – fra le molteplici comunità di fede entro le nostre democrazie, dobbiamo seguire la seguente via argomentativa: nella prima
parte saranno presentate le connessioni tra la tematica identitaria e i
conflitti fra gruppi minoritari nelle società “multiculturali”; saranno
approfonditi e disarticolati i gruppi coesi intorno a unʼidentità strutturalmente predisposta al conflitto non negoziabile, o negoziabile ad
alti costi (in termini simbolici, prima che materiali). Alcune identità
religiose rientrano in questa tipologia.
Nella seconda parte, saranno fatti emergere i nessi strutturali esistenti fra teoria dellʼidentità moderna, da un lato, e la nozione di laicità, dallʼaltro; ad essa sarà affiancata come già detto la categoria di
tolleranza, in quanto essa, come i suoi precipitati storico-sociali, hanno costituito un dispositivo storicamente e concettualmente preliminare rispetto alle successive soluzioni elargite dallo Stato liberale
prima, democratico poi. Tale dispositivo si è fondato su ciò che più
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recentemente autori contemporanei, inverando John Locke3, hanno
chiamato lʼarte sottile della distinzione/separazione, unʼarte rivelatasi
capace di coinvolgere oggi non più soltanto le due dimensioni “classicamente moderne” del vivere associato (privato/pubblico), bensì
anche le più numerose sfere dellʼappartenenza, intersecanti la dicotomia pubblico/privato.
1. Identità come costruzione narrativa, materiale, asimmetrica
Lʼidentità è il nome che indica un costrutto moderno, avendo dapprima simboleggiato i processi di liberazione dei singoli da strutture
autoritarie tradizionali, ed essendosi in seguito consolidata come categoria operativa in quelle scienze che della modernità sono le ultime
figlie. Il linguaggio dellʼidentità moderna è il linguaggio della dimensione del self, di pragmatistica memoria. La costruzione dellʼidentità
moderna pertanto segna lʼapertura di una dimensione dialogica costitutivamente legata allʼindividualità, ma costruita intersoggettivamente. Ancor più, tale costrutto è il criterio autoriflessivo e critico su cui
noi, cittadini e cittadine delle democrazie occidentali, abbiamo commisurato la buona riuscita del nostro percorso di autoformazione allʼinsegna di princìpi di libertà, intesa come affrancamento da vincoli
non autonomamente assunti, pur nelle reti di interlocuzione che ci
rendono soggetti comunicativi e attivi.
Il self indica tuttora il luogo dinamico di compensazione delle
molteplici appartenenze in cui ciascuno/a si riconosce: interseca, pur
non annullandola, la distinzione fa personalità individuale e fisionomia sociale di ciascuno/a. La novità di questo scorcio di millennio è
che tale luogo risulta attualmente sempre più saturo. Denota il “chi
sono” inscindibile dal “chi sono le mie, i miei”, dal “chi conta per
me”; funziona tuttora come struttura di compensazione fra lato soggettivo e intersoggettivo della personalità di ciascuno/a, è una costruzione a più livelli e a più tempi con forti effetti sulle nostre vite.
Funge da luogo, non solo mentale, ma anche corporeo, aperto alle
differenze multiple; da luogo simbolico, materiale e dinamico, entro
cui tuttavia oggi la prestazione sintetica appare vieppiù faticosa, e
stridente, di quanto non accadesse allʼinizio della riflessione dei pragmatisti e delle ricerche sociali ad essi ispirati. Le affermazioni e autoriconoscimenti molteplici di cui le personalità individuali sono intessute si rivelano dominate da situazioni asimmetriche e conflittuali,
3 Si veda J. Locke, Essay on Toleration [1667], trad. it. di C. A. Viano, “Saggio sulla tolleranza”, in Lettera sulla tolleranza, Laterza, Roma-Bari 19995.
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in cui lo sforzo di equilibrio fra le diverse istanze risulta maggiore,
perché le sfide e i rischi delle reazioni inadeguate ad esse sono cresciute esponenzialmente.
Ma per il fatto stesso di essere più vulnerabile, esposta maggiormente a rischi di manipolazione e strumentalizzazione, la corporeità “eccentrica” del sé mantiene il proprio ruolo di crocevia di relazioni contestuali e potestative, di vecchie e nuove «cartografie materialmente incarnate»4, in cui il peso della scelta a favore o contro
qualcosa e qualcuno aumenta, non decresce. Nonostante i segni di
cedimento, il self, configurazione ispessita da asimmetrie e dislivelli, e del pari centro di equilibrio fra personalità individuale e profilo
sociale di ciascuno/a, può ancora illuminarci sui modi in cui si
strutturano le identità di gruppo: il modello di una costruzione identitaria dinamica e situata in contesti pluralistici può selezionare le
condizioni secondo cui ciascuno, ciascuna di noi possa chiamarsi
identico ad un altro, venir “preso al posto” di un altro/a. Ciò, per le
qualità che ognuno accetti o riconosca – anche pagando enormi costi – di possedere in comune con determinati altri/e. In tal senso, il
self è un esempio di identità qualitativa, lʼidentità che rappresenta
lʼinsieme di caratteri in base a cui alcuni individui riconoscano di
essere identici.
Lʼidentità con cui si ha a che fare da questo punto in poi è un concetto familiare alle discipline sociali in quanto termine denotativo,
riferentesi ad un “noi”, che riflette sulle qualità che fanno di tale aggregato un gruppo, e per tanto è sinonimo di identità qualitativa di
gruppo; in tale assetto, il self, la struttura dinamica di bilanciamento
fra lato soggettivo e lato intersoggettivo dellʼidentità diviene dʼimportanza nevralgica per la tenuta del sistema delle appartenenze, delle diverse identità di gruppo. In tal senso si dovrebbe comprendere
lʼaffermazione, per cui la costruzione dellʼidentità moderna sia legata
allʼindividualità, ma del pari costruita intersoggettivamente. Conoscere noi stessi implica sì elaborare qualcosa di nuovo, ma anche situarci nella sfera già preesistente dellʼinterloquire con altri/e; perché
ciascuno/a possa scrivere il proprio originale «racconto di sé», deve
usare le strutture linguistiche, la grammatica comune. Paradigmatico
è lʼesempio non solo dei linguaggi naturali, ma anche della musica,
nella quale il concetto e la pratica dellʼimprovvisazione indicano la
possibilità amplissima di variazioni libere su un tema codificato.
4 R. Braidotti, Metamorphoses. Towards a Materialistic Theory of Becoming, Polity Press,
Cambridge 2002.
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Per tale obiettivo di individuazione regolata è prioritario il confronto, non necessariamente a-conflittuale né privo di opacità, sul
“chi siamo”. Addirittura, il “chi sono” presuppone il “chi siamo”.
Affermare ciò implica che nelle identità di gruppo, così come ci sono
date dalla modernità (occidentale) in avanti, i dialoganti siano riconosciuti in quanto tali, ovvero che siano considerati, almeno asintoticamente, tutti/e, con identico rispetto, per come sono e per come vogliono essere secondo un progetto di sé. Se così non avviene, è almeno imprescindibile condizione la possibilità che vi siano spiragli e
varchi interni, affinché lʼinclusione nello spazio del dialogo identitario sia aspirazione legittima e non velleitaria per tutti/e.
Si è in questo modo giunti alla tematica del riconoscimento e al
ruolo decisivo di tale impostazione rispetto alla dimensione politica
del vivere associato nelle società occidentali contemporanee. Per un
autore fondamentale rispetto alla tematica in questione come è Charles Taylor, il concetto di riconoscimento è un punto di intersezione
tra la competenza di identificazione – sul piano cognitivo – e le affermazioni di un soggetto agente – sul piano pratico5. Tale formulazione del concetto ci permette di superare la tradizionale partizione (giustamente criticata soprattutto dai gender studies) tra sfera privata e
sfera pubblica. La categoria attraversa e accomuna i differenti, ma
non divergenti, ambiti dei rapporti sociali, giuridici e interpersonali,
in quanto rivela in che misura e a quali condizioni da essi dipendano
le violazioni più sottili e pervasive, e perciò tanto più lesive della
dignità dei soggetti coinvolti. Tali ambiti sono così rilevanti perché
compongono la dimensione irriducibilmente intersoggettiva del vivere umano6. Le radici filosofiche del dibattito sul multiculturalismo
sono queste7. Sono anche le medesime radici della discussione sui
requisiti per una cornice istituzionale che renda possibile la coesistenza non violenta fra gruppi aggregati intorno a identità non disposte, se non a costi gravosi, a fare compromessi. Il riferimento è ai
conflitti identitari (di riconoscimento).
5
P. Ricoeur, Percorsi del riconoscimento, a cura di F. Polidori, Cortina, Milano 2005.
A. Honneth, Lotta per il riconoscimento, trad. it. di C. Sandrelli, il Saggiatore, Milano
2002; Id., Riconoscimento e obbligo morale, in «Filosofia e Questioni Pubbliche», IV, 1, 1998,
pp. 5-18. Si vedano i saggi di F. Fistetti, Il paradigma del riconoscimento: verso una nuova teoria
critica della società?, in «Post-filosofie», 1, 2005, pp. 95-120 e di Ch. Lazzeri-A. Caillé, Il riconoscimento oggi. Le poste in gioco di un concetto, ivi, pp. 45-76.
7 Rilevanti i debiti teorici di Taylor rispetto ai lavori di A. MacIntyre, Dopo la virtù. Saggio
di teoria morale, trad. it. di P. Capriolo, Feltrinelli, Milano 1988 e di P. Ricoeur, Sé come un altro,
a cura di D. Iannotta, Jaca Book, Milano 1993. Si veda A. Pirni, “La via identitaria al multiculturalismo” in B. Henry-A. Pirni, La via identitaria al multiculturalismo. Charles Taylor e oltre,
Rubbettino, Soveria Mannelli (Cz) 2006.
6
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2. Lʼequilibrio precario fra le identità e le vie di fuga
dalle appartenenze
Il conflitto di riconoscimento, altrimenti detto “identitario” rientra
nelle principali catalogazioni dei tipi di conflitto8. La categoria accoglie in sé i conflitti che non si dispongono alla negoziazione, al compromesso, al bargaining degli interessi, perché whatʼs at stake è il
senso più profondo di chi siamo, di cosa siamo, di chi e cosa vogliamo diventare: lʼidentità9. È il nucleo più profondo di un “qualcuno”,
che in esso si riconosce in via ultimativa, quando si tratti di scegliere
inderogabilmente o pro o contro, anche se di norma non è questo il
caso. La questione riguarda infatti la definizione del punto di rottura
dellʼequilibrio, precario ma di regola esistente, fra le diverse configurazioni delle identità, e le incombenze rispettive. Tutte quante le aggregazioni di cui abbiamo nozione – la comunità di fede in primis –
pretendono da parte dei loro componenti specifiche forme di lealtà
che spesso, ma non necessariamente, divengono preclusive rispetto
ad altre. Sotto questʼultimo profilo, è importante ribadire che lʼobbedienza ad un insieme di regole non impone di norma la disobbedienza ad un altro insieme, tuttavia sicuramente ciò avviene qualora si
creino situazioni estreme, in cui sono erosi completamente tanto i
margini di compromesso riflessivo, quanto lo spazio istituzionalizzato per la critica verso il proprio gruppo.
Sulla permanenza di tutti gli elementi – adesione volontaria e margine di fuga garantito rispetto alle proprie appartenenza – si fonda la
possibilità della coesistenza fra identità, sia a livello intra che a livello
extrapsichico nelle nostre democrazie liberali. Perché tale equilibrio di
mantenga nel rispetto delle istanze in gioco, individui e gruppi occorre
però la politica. Per orientarsi con sensibilità a capacità di intervento
politico fra la miriade di conflitti potenziali fra le identità, ed accrescere la sensibilità circa la raggiunta soglia di saturazione dei “self”, è
necessario riconoscere, e adoperare in misura appropriata, le diverse
tassonomie rispondenti ai diversi codici delle appartenenze e delle lealtà. Va notato come le forme di anti-liberalismo (secondo Judith Sklar)
siano forme di inflizione di crudeltà pubblica, cioè tipologie di oppressione, di svalutazione e annichilimento che colpiscono in via selettiva
8 Importante il contributo di A. Pizzorno, “Pensare il conflitto”, in D. Fiorot, Ordine e conflitto nella filosofia politica del nostro tempo, Giappichelli, Torino 1995.
9 In proposito, due testi fondamentali: E. Tugendhat, Selbstbewußtsein und Selbstbestimmung,
Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1979; J. Straub, Identitätstheorie im Übergang? Über Identitätsforschung, den Begriff der Identität und die zunehmende Beachtung des Nicht-Identischen in subjekttheoretischen Diskursen, in «Sozialwissenschaftliche Literatur Rundschau», 1991, 23, pp. 49-71.
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le identità, individuali e di gruppo. Non tutte le identità sono sensibili
alle stesse modalità di annichilimento, e aggressione. A ciascuna oppressione, corrisponde il tipo rispettivo di identità vulnerabile10. Lʼidentità di genere ad esempio è esposta a una rete di possibili svalutazioni
materiali e simboliche che interseca e complica lʼoppressione dellʼidentità nazionale, o etnica, dei medesimi soggetti femminili. Tanto più vero, in quanto ogni identità individuale e di gruppo, è un concetto dinamico e stratificato. Da un lato, prospera o si deprime a partire dalla
svalutazione o valutazione pubblica, esterna, politica, che ottiene11.
Dallʼaltro, le attribuzioni di significato dominanti entro le comunità
sovente non rispettano le aspirazioni al riconoscimento dei soggetti subalterni, i quali non hanno voce rispetto alle pretese identitarie che tali
comunità rivendicano pubblicamente come meritevoli di tutela entro la
cornice istituzionale del paese in cui tali gruppi vivono. Lʼalveo pubblico, trasparente e condiviso fra tutte le parti in contesa deve comprendere i dissenters interni alle comunità identitarie; in tal misura, esso
diviene lo spazio non soltanto della separazione fra privato e pubblico,
ma anche della distinzione/riconfigurazione delle sfere dellʼappartenenza, perché attribuisce e istituisce il margine di fuga, il diritto di
parola, e da ultimo, di exit, a favore dei dissidenti; tutti quei diritti sono
esercitabili dai singoli/e contro le identità, in particolare quelle religiose, anchʼesse autrici e non solo vittime di oppressioni.
Le identità, anche quelle religiose, non sono sostanze, non sono cose
che si possiedono, o entità da cui siamo posseduti/e; piuttosto sono routines, pratiche condivise, sfondo mobile e asimmetrico di riferimento
per le azioni dei soggetti coinvolti negli interscambi simbolici. Tuttavia
molte sono di norma sfavorevoli a “decostruzioni interne” promosse da
soggetti subalterni, i più deboli, le più deboli, entro di esse. Dar la parola ai soggetti subalterni significa offrir loro un terreno di confronto per
la valutazione riflessiva di preferenze che talvolta portano il segno dellʼinteriorizzazione del dominio, divenendo così “preferenze adattive”.
Si tratta di innescare un processo di decostruzione che non nasconde,
anzi rivela le difficoltà sottese ad un criterio di apprendimento che miri
a rimuovere le asimmetrie di posizione iniziali, esistenti sia fra le comunità, che entro le comunità, e senza il ricorso alla violenza.
In tal senso la politica liberale e democratica oggi amplia e articola
lo spazio della laicità dischiuso storicamente dalle pratiche e dagli
10 I. M. Young, Justice and the Politics of Difference, Princeton University Press, Princeton
1990; S. Wolf, Comment a Ch. Taylor, Multiculturalism and “the Politics of Recognition”, in A.
Gutmann (ed.), Princeton University Press, Princeton 1992.
11 Ch. Taylor, Multiculturalism and “the Politics of Recognition”, cit.
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atteggiamenti di tolleranza12. La laicità via toleration è stata resa necessaria dai conflitti interreligiosi in quanto conflitti comunitari. Con
quanto segue si è inteso ritradurre in termini vicini alla sensibilità contemporanea una riflessione teorico-politica sorta dallʼesigenza primaria di evitare i conflitti fra comunità entro un unico corpo politico.
3. Laicità via toleration
La situazione da cui è scaturito uno scritto minore, lʼEssay concerning Toleration di John Locke (la cui gestazione va collocata negli anni fra il 1661 e il 166713), può darci unʼidea, pur se approssimativa, di cosa abbiano significato i problemi di governo in una società
che voleva mantenersi pacifica, e in cui le condizioni per una vita
sicura, allʼinsegna di minimi livelli di libertà, non erano garantite in
forma generalizzata né agli individui né ai gruppi. NellʼInghilterra
del periodo in questione, i gruppi confessionali e dʼopinione si contendevano rabbiosamente il terreno, a livello di politica locale nelle
municipalità, e a livello di politica interna, nel Parlamento. La comune condizione in cui versavano le autorità e i gruppi era di latente
conflittualità; inoltre, lʼanimosità dei portavoce e dei membri di numerosi fra i gruppi confessionali era rivolta prevalentemente contro i
rappresentati dellʼordine costituito. I diritti allʼautonomia organizzativa e alla corresponsione di benefici economici, a cui si appellavano
le comunità si intersecavano molto spesso con il richiamo ad antiche
autonomie e guarentigie, godute dai governi locali, e fatte valere da
questi ultimi nelle fasi di conflitto con il potere centrale, fosse questo
12 Non si affronterà in questa sede, dandola per risolta altrove, la questione della intrinseca
viziosità della nozione stessa di tolleranza. Alcuni affermano che sia i presupposti teorici che la
fondano sia le pratiche che la realizzano sarebbero viziate da una asimmetria fortissima a favore
di chi la esercita, e a scapito di chi la subisce. E ciò in quanto storicamente inscindibile dalla
codificazione dogmatica della nozione monoteistica di verità. Ma non è questo il luogo per motivare il rifiuto di questa pur pericolosissima obiezione. Si rinvia a B. Henry, Mito e identità. Contesti di tolleranza, ETS, Pisa 2000.
13 J. Locke, Essay on Toleration, trad. it. cit. Questa temporalizzazione più estesa dimostra
quale rilevanza avessero i mutamenti della situazione politica per lʼopera stessa; la datazione è
coeva al periodo di stesura e di applicazione del Clarendon Code (lʼinsieme di norme volte a
riaffermare una rigida uniformità religiosa, nel senso dellʼortodossia anglicana), se teniamo conto
delle quattro versioni del Saggio a oggi disponibili. Di tale opera esistono appunto quattro manoscritti; uno è stato ritrovata tra le carte di Lord Ashley, conte di Shaftesbury nel Public Record
Office, e pubblicata a suo tempo da Henry Richard Fox Bourne (1876); una seconda versione è
stata rinvenuta in un quaderno (nel quale Locke scriveva a partire dal 1661, in seguito rinvenuto
in possesso di Mr. Arthur Houghton, negli Stati Uniti) con la dizione “sic cogitavit J. Locke” e
con la data del 1667. Un terzo manoscritto si trova presso la H. E. Huntington Library di San
Marino in California; il quarto – conservato nella Lovelace Collection con la segnatura Ms. Locke c. 28, foll. 21-32 – non è di mano dellʼautore, pur recando di questo aggiunte, correzioni,
cancellature, e la data del 1667.
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monarchico o repubblicano14. Il problema fondamentale recepito in forma teorica da Locke era di garantire la tenuta dellʼordinamento introducendo in esso principi anti-autoritari e liberali, capaci di evitare il ritorno
della guerra civile, fra i gruppi e lo stato, ed entro i gruppi medesimi.
Come via di uscita rispetto a tale situazione di conflittualità endemica appaiono le policies di toleration, ossia interventi che esulano programmaticamente dalle questioni connesse alle verità ultime, stabilendo
unicamente le modalità legalitarie di una migliore coesistenza sul terreno dellʼordine mondano. In tal senso si può parlare di pratiche istituzionali che la “maggioranza” di una popolazione, sceglie per regolare, secondo gradi diversi di intensità e apertura “ricettiva”, relazioni non bellicose con gruppi minoritari dalla cui vicinanza non possa prescindere,
se non minando lʼordine sociale e politico. Questo deve indurci a non
dimenticare che contesto di riferimento era di carattere marcatamente
interreligioso15 e insieme intercomunitario. La politica doveva quindi
regolare le relazioni fra gruppi secondo il linguaggio, la sensibilità, le
sfide alla coesistenza corrispondenti a quel particolare contesto. Il pericolo maggiore era costituito dalla possibile affermazione degli opposti
estremismi, dei fondamentalismi in particolare. Lʼelemento che avrebbe
innescato, se non opportunamente ostacolato, effetti destabilizzanti, era
la progressiva messa in atto e di una legislazione rivolta a riaffermare
una rigida uniformità religiosa, che inaspriva lʼortodossia anglicana.
Locke paventava che, se tale intransigente ortodossia si fosse realizzata
pienamente, si sarebbero diffusi e irrigiditi contro lʼautorità costituita
quei pericolosi focolai di ribellione politica territorialmente radicati e
connotati secondo differenze cultuali e comunitarie. Si può scorgere
nellʼesempio costituito dal Locke “minore”, che parla di interventi politici prudenziali e pragmatici ai fini di una coesistenza pacifica, una concezione di politica religiosa proto-laica e interconfessionale.
Non pare dunque accettabile il filone interpretativo, che riduce la teoria della tolleranza allʼintento di rendere politicamente irrilevanti le questioni religiose, e ciò in modo da neutralizzare i conflitti fra gruppi/appartenenze, riducendo i problemi della coabitazione fra le concezioni di fede
alla sola questione della libertà individuale di coscienza. Dal ridimensionamento di questa tesi deriva che: non ogni identità di gruppo la cui
qualità rilevante in via ultimativa sia la religiosità rende impraticabile la
laicità, ma lo fanno alcune forme di identità religiosa, e con più alta probabilità qualora esse siano lasciate svilupparsi senza il correttivo prag14 Si veda il saggio di A. Carpinella, Politica ecclesiastica e organizzazione della società
tollerante in John Locke, in «Rivista di storia e di letteratura religiosa», 1, 2001.
15 Cfr. il Clarendon Code.
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matico della contiguità rispetto a una effettiva pluralità di gruppi dissenzienti. Questi aspetti rilevano in misura ancora maggiore per chi si pone
oggi il problema dellʼintegrazione di molteplici comunità religiose e culturali minoritarie nella cornice giuridico-istituzionale delle odierne società liberali e democratiche. Tale considerazione poggia sulla prospettiva
(fin qui adottata) secondo cui la coesistenza fra identità è il nesso instabile fra le molteplici appartenenze comunitarie a cui i singoli fanno capo.
Come dire, gli elementi che favoriscono la permanenza di un sano
equilibrio fra identità religiose in società multiculturali vanno cercati
nelle condizioni simboliche, pragmatiche, politiche e giuridiche della
coesistenza fra comunità, e non esclusivamente nel rapporto fra libertà
individuale di coscienza e potere statale. La tolleranza pertanto può
venire reinterpretata come via propedeutica, come precondizione di
una laicità di rango costituzionale; questa, a sua volta, è da intendersi
come arte della distinzione/ridefinizione, in funzione di una coesistenza fondata sullʼeguaglianza di trattamento e dellʼeguale rispetto, riguardante sia le comunità che gli individui, in modo da garantire loro i
passaggi tra le dimensioni comunitarie di vita. Stabilire la tutela di
entrambe le istanze è la prima garanzia per la tenuta di società multiculturali in cui lʼappartenenza religiosa è tra le più rilevanti per lʼinnesco di conflitti. Non dobbiamo dimenticare, infatti, come già allʼinterno
del formato statal-nazionale i regimi liberaldemocratici nella loro successione abbiano modificato e “irrobustito” sia la nozione sia la messa
in esercizio costituzionale della laicità: con estreme generalizzazioni,
se guardiamo allo stato liberale classico, consolidatosi in Europa, si
può parlare di una laicità negativa, di non ingerenza e indifferenza, e di
una prospettiva rigidamente individualistica, in cui i soggetti sono i
singoli e lo Stato; rispetto ai regimi democratici si può parlare di laicità attiva, giacché in essi si promuove lʼeguaglianza di trattamento delle
diversi fedi e delle comunità religiose organizzate intorno a tali credenze, nonché la tutela delle dissidenze interne. Sostenere regimi costituzionali, come quelli democratici odierni, implica anche impegnarli sul
versante di una laicità attiva, contro chi ritiene che la società civile
debba risolvere da sola i propri eventuali deficit16, e vorrebbe limitare
16 Secondo alcuni, con i quali non concordo, la laicità riguarderebbe il terreno delle idee, e segnatamente delle convinzioni religiose, mentre il liberalismo è interessato al portatore di quelle idee, alle
leggi e istituzioni che meglio gli consentiranno di esprimerle in libertà. Non negano che lʼatteggiamento intellettuale laico abbia anche una ricaduta politica: il laico sosterrà sempre la neutralità dello
Stato in materia religiosa e difenderà sempre lʼuguaglianza di diritti per gli appartenenti a tutte le
sette religiose (e per i non credenti), rifiuterà sempre il fondamentalismo e lʼuso politico della religione: ma in conclusione queste due realtà si situano in ambiti differenti, la politica resterebbe nellʼambito dellʼincertezza e della mediazione, la religione in quello dellʼassoluto e della fede.
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drasticamente il rinvio a fonti e a soggetti costituzionali ogni qualvolta
si presentino sfide sociali e politiche che possano pregiudicare la tenuta laica dellʼordinamento. Il rafforzamento dellʼeffettività del principio
a livello costituzionale potrebbe al contrario dirsi necessaria per controbilanciare gli aspetti discrezionali – forse anche contingenti e a-sistematici – a cui si assesterebbero le mere policies ispirate alla laicità.
Se ancorassimo il principio ai soli livelli della politica, per quanto di
grandissima importanza e di profonda influenza, potrebbe venire a
mancare il contributo della riflessione teorica e dellʼesperienza giurisprudenziale più attenta alle dimensioni collettive dellʼidentità religiosa, e come tale maggiormente in linea con la fisionomia reale delle
società contemporanee. “Laicità”, da supremo principio regolativo delle policies, potrebbe divenire “guardiano di confine di rango costituzionale”, attivo in una pluralità di dimensioni politiche e giuridiche nelle
quali la dimensione identitaria e multiculturale è comunque realtà imprescindibile.
Finito di stampare nel mese di Marzo 2007
da Ragusa Grafica Moderna – Bari