La Formazione Esperienziale

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La Formazione Esperienziale

LA
FORMAZIONE
ESPERIENZIALE
E
LA
METODOLOGIA
OUTDOOR
A
cura
di:
dott.
Flavio
Chikhani
dott.
Giuseppe
Rolli
1
INDICE
1‐
La
Formazione
Esperienziale
1.1
Metodologie
di
apprendimento
dell’adulto
1.2
L’aspetto
psicologico
dell’apprendimento
degli
adulti
1.3
La
responsabilizzazione
individuale
e
la
facilitazione
nel
processo
di
apprendimento
1.4
La
motivazione
ad
apprendere
1.5
La
valorizzazione
delle
esperienze
personali
e
professionali
1.6
La
trasferibilità
della
formazione
alle
prestazioni
lavorative
1.7
Il
modello
andragogico
e
le
metodologie
esperienziali
2­
Elementi
Caratteristici
di
un
Intervento
Outdoor
2.1
Metaphoric
Experiential
Learning
2.2
Scelta
e
costruzione
della
metafora
formativa
2.3
La
scelta
della
location
2.4
Il
grado
di
stress
2.5
La
natura
e
la
sequenza
dei
compiti
2.6
Briefing,
Playing
e
processi
di
Debriefing
2.7
Metodologie
e
tecniche
di
debriefing
3
­
La
metodologia
Outdoor
3.1
Outdoor
Small
Techniques
–
OST
3.2
Campi
Outdoor
Preimpostati
–
COP
3.3
Outdoor
Training
–
OT
3.4
Outdoor
Management
Training
–
OMT
2
1
La
formazione
esperienziale
Nella
formazione
degli
adulti,
il
detto
che
“s’impara
a
fare,
facendo”,
è
alla
base
delle
Experiential
Learning.
Gli
interventi
di
formazione
esperienziale,
quindi
di
apprendimento
tramite
esperienza,
consentono
di
osservare
le
attitudini,
di
sviluppare
le
capacità
e
di
acquisire
o
modificare
gli
atteggiamenti
individuali,
presi
sia
singolarmente,
sia
in
contesti
di
gruppo.
Fare
formazione
esperienziale
vuol
dire,
progettare
e
gestire
un
ambiente
fisico
ed
uno
spazio
mentale
in
cui
le
persone
possono
interagire
liberamente
e
condividere
delle
esperienze
cognitive,
emotive
e
fisiche,
direttamente
o
analogicamente
correlate
all’apprendimento
di
conoscenze,
capacità
e
atteggiamenti
utili
per
il
miglioramento
delle
prestazioni
lavorative.
La
formazione
esperienziale
spinge
il
discente
ad
una
riflessione
critica
sui
propri
assunti,
sulle
idee,
sulle
prospettive
e
sui
valori
culturali
che
tradizionalmente
influenzano
la
sua
visione
del
mondo,
il
suo
atteggiamento
e
quindi,
il
suo
comportamento,
aiutandolo
ad
“apprendere
ad
apprendere”.
Le
persone
sono
stimolate
a
fronteggiare
l’incertezza
dell’ambiente
esterno
mediante
la
propria
creatività,
tenacia
e
perseveranza
mantenendo
sempre
la
concentrazione
sugli
obiettivi
da
perseguire.
Il
ruolo
del
formatore,
in
questo
contesto,
è
quello
del
facilitatore
di
apprendimento;
affiancare
il
discente
nella
ricostruzione
delle
esperienze
vissute,
condividere
gli
elementi
postivi
e
negativi
delle
dinamiche
del
processo
esperienziale,
formalizzare,
infine,
i
comportamenti
vincenti
e
quelli
da
migliorare.
La
formazione
esperienziale
mette
al
centro
del
processo
di
apprendimento
l’esperienza
reale
dell’individuo,
stimolando
la
riflessione,
la
validazione
e
l’interiorizzazione
dei
modelli
cognitivi
e
dei
comportamenti
efficaci.
Nel
realizzare
attività
didattiche
rivolte
agli
adulti,
lo
strumento
ed
il
modello
esperienziale
risulta
essere
particolarmente
efficace
in
quanto
in
linea
con
quelle
che
sono
le
necessità
e
le
peculiarità
del
soggetto
adulto
che
apprende
messe
in
luce
dal
modello
andragogico.
1.1
Metodologia
di
apprendimento
dell’adulto
Le
particolari
esigenze
dell’adulto
che
apprende,
hanno
portato
allo
sviluppo
ed
alla
adozione
di
un
modello
definito
andragogico,
articolato
su
alcune
variabili:
• L’aspetto
psicologico
dell’apprendimento
degli
adulti;
• La
responsabilizzazione
individuale
e
la
facilitazione
nel
processo
di
apprendimento;
• Le
motivazioni
ad
apprendere;
• La
valorizzazione
delle
esperienze
personali
e
professionali;
• La
trasferibilità
della
formazione
alle
prestazioni
lavorative.
1.2
L’aspetto
psicologico
dell’apprendimento
degli
adulti
L’adulto
è
una
persona
con
una
consolidata
struttura
dell’esperienza,
della
conoscenza
e
degli
schemi
mentali;
ogni
processo
di
apprendimento
passa
attraverso
la
condizione
dell’errore,
e
gli
adulti,
caratterizzati
da
notevole
orgoglio
individuale,
generalmente
subiscono
questa
condizione
in
modo
personale
con
ripercussioni
negative
sull’autostima
e
sulla
fiducia
nelle
proprie
possibilità.
È
compito
del
docente
supportare
la
partecipazione
degli
adulti,
sia
mediante
l’adozione
di
uno
stile
facilitativo
e
avalutativo,
che
attraverso
la
gestione
delle
relazioni
interpersonali
e
del
clima
dell’aula.
Ciò
che
emerge
è
che
l’adulto
deve
sentirsi
psicologicamente
al
sicuro
e
libero
di
pensare
e
di
sbagliare
senza
il
timore
di
essere
ridicolizzato
o
valutato
negativamente.
3
1.3
La
responsabilizzazione
individuale
e
la
facilitazione
nel
processo
di
apprendimento
Gli
adulti
sono
essenzialmente
persone
autonome
ed,
in
quanto
tali,
dovrebbero
essere
in
grado
di
regolare,
più
o
meno
autonomamente,
le
modalità
ed
i
tempi
del
loro
apprendimento;
questo
perché,
tendenzialmente,
dotati
di
maggiore
autodisciplina
rispetto
ai
bambini.
Per
i
motivi
appena
esposti,
l’adulto
dovrebbe
essere
lasciato
libero
di
determinare
autonomamente
intensità
e
ritmo
dell’apprendimento,
ciò
è
possibile
destrutturando
l’articolazione
dei
contenuti
formativi,
favorendo,
facilitando
ed
affiancando
il
discente
adulto
nell’orientamento
verso
il
proprio
percorso.
Il
coinvolgimento
attivo
del
discente
adulto
si
ottiene
inizialmente
con
la
presa
di
coscienza,
da
parte
dello
stesso,
del
proprio
fabbisogno
formativo;
ciò
che
il
soggetto
deve
razionalizzare
è
perché
ha
bisogno
di
sapere.
Un
primo
passo
che
il
formatore/facilitatore
può
compiere
in
questa
direzione,
è
somministrare
un
test
all’aula
in
cui
sono
raccolte
le
aspettative,
le
attese
e
gli
obiettivi
di
apprendimento.
Il
massimo
della
partecipazione
attiva
dell’adulto
avverrebbe
se
fosse
messo
in
grado
di
partecipare
alla
progettazione
ed
alla
pianificazione
del
proprio
processo
formativo;
il
coinvolgimento
del
discente
potrebbe
essere
richiesto
anche
in
merito
alla
scelta
delle
metodologie
di
erogazione
e
degli
strumenti
di
valutazione
della
propria
attività
didattica.
È
evidente
che
le
teorie
dell’apprendimento
degli
adulti
spostano
il
baricentro
del
processo
di
apprendimento
dal
docente
al
discente,
trasformando
il
primo
in
un
“facilitatore
di
processo”
oltre
che
ovviamente,
esperto
nei
contenuti
formativi.
1.4
Le
motivazioni
ad
apprendere
L’apprendimento
degli
adulti
si
basa
sulla
motivazione
dell’individuo
nella
partecipazione
al
processo
formativo
e
risiede
nell’interesse
e
nel
beneficio
individuale
che
la
persona
si
aspetta
di
trarre
dal
corso.
Fondamentale
per
il
docente
è
individuare
immediatamente,
sia
le
attese
che
gli
adulti
manifestano
nella
partecipazione
al
corso,
sia
ciò
che
è
rilevante
e
significativo
rispetto
a
bisogni
e
desideri
di
apprendimento;
così
facendo
riesce
prontamente
a
ridefinire
e
riallineare
le
attese
dei
partecipanti
con
gli
obiettivi
della
formazione.
1.5
La
valorizzazione
delle
esperienze
personali
e
professionali
Gli
adulti
sono
persone
in
possesso
di
un
ricco
bagaglio
di
esperienze
e
conoscenze,
alimentato
negli
anni;
il
docente
deve
essere
in
grado
di
riconoscere
un
simile
background
e
di
saperlo
valorizzare
ed
utilizzare
ai
fini
dell’apprendimento.
Essendo
presente
questo
importante
bagaglio
di
conoscenze
ed
esperienze
pregresse,
le
nuove
informazioni
sono
costantemente
relazionate
con
le
esperienze
passate;
il
docente
per
facilitare
l’apprendimento
deve
prestare
attenzione
a
tempi
e
modalità
di
questo
processo
di
affiancamento
e
integrazione
delle
conoscenze,
aiutando
il
discente
a
focalizzare
i
punti
di
connessione,
riepilogando
costantemente
i
nuovi
“passi
conoscitivi”,
valorizzando
la
valenza
applicativa
e
risolutiva
nei
contesti
di
lavoro.
1.6
La
trasferibilità
della
formazione
alle
prestazioni
lavorative
Gli
adulti
sono
persone
pragmatiche,
per
questo
nella
progettazione
occorre
progettare
ed
orientare
l’attività
didattica
ad
obiettivi
di
apprendimento
strettamente
correlati
al
miglioramento
della
prestazione
lavorativa.
4
L’apprendimento
degli
adulti
deve
esaltare
continuamente
la
valenza
applicativa
e
la
trasferibilità
dei
contenuti
teorici
alla
pratica
professionale.
Per
soddisfare
il
bisogno
di
immediata
applicazione
delle
conoscenze
alla
prassi
reale,
il
docente
deve:
• Valorizzare
gli
aspetti
applicativi
delle
nuove
conoscenze,
mettendole
in
relazione
alle
esperienze
dei
discenti;
• Affiancare
il
discente
nella
realizzazione
di
un
piano
di
azione
relativo
all’applicazione
in
azienda
delle
conoscenze
acquisite;
• Condividere
i
progetti
personali
di
sviluppo
attraverso
lavori
di
gruppo;
Al
termine
del
corso,
supportare
il
discente
nell’applicazione
delle
conoscenze
acquisite
attraverso
programmi
di
tutorship,
coaching,
follow­up.
Il
trasferimento
dell’apprendimento
al
contesto
lavorativo
e/o
personale,
è
il
primo
successo
dell’attività
formativa.
1.7
Il
modello
andragogico
e
le
metodologie
esperienziali
Il
modello
andragogico,
dunque,
pone
al
centro
del
processo
di
apprendimento
dell’adulto
l’esperienza,
non
solo
il
recupero
di
quella
passata,
ma
anche
la
realizzazione
di
nuove.
La
prospettiva
di
M.
Knowles
evidenzia
come
l’apprendimento
degli
adulti
richieda
un
approccio
metodologico
orientato
a
massimizzare
il
coinvolgimento
dell’individuo
nell’esperienza
formativa.
Il
discente
apprende
meglio
se
stimolato
in
tutte
le
dimensioni
in
cui
può
esprimere
la
propria
soggettività:
intellettuale,
emotiva
e
fisica.
Apprendere
“da”
e
“attraverso”
l’esperienza
vuol
dire
ancorare
a
vissuti
psico/emotivi
l’acquisizione
di
nuova
conoscenza,
mediante
un’attività
di
riflessione
critica.
In
termini
metodologici,
si
pone
grande
enfasi
sulle
modalità
attive,
sul
bilanciamento
tra
le
logiche
induttive
e
deduttive
del
processo
di
apprendimento.
Lavora
con
le
esperienze
pertanto
richiede
di
alternare:
• Momenti
“induttivi”,
di
riflessione
e
valutazione
delle
esperienze
e
delle
realtà
aziendali,
alla
ricerca
di
principi
di
elaborazione,
d’ipotesi
interpretative
e
di
concettualizzazione
dell’esperienza;
• Momenti
“deduttivi”,
di
utilizzo
delle
logiche
e
delle
regole
trovate,
per
interpretare
le
esperienze
passate
e
per
sperimentare
e
pianificare
comportamenti
futuri;
innescando
così
il
passaggio
dalla
teoria
alla
pratica.
Il
lavoro
sulle
esperienze
aiuta
a
sviluppare
alcune
competenze
trasversali
di
osservazione
di
ascolto,
di
analisi,
di
pensiero
critico,
di
pianificazione
ed
implementazione
dell’azione;
tutte
capacità
diffusamente
richieste
nell’attuale
contesto
manageriale.
In
sostanza,
nella
formazione
manageriale,
non
bisogna
tanto
lavorare
sulla
modellazione
deduttiva
del
comportamento
individuale,
quanto
sulla
riproduzione
analogica
della
complessità
degli
ambienti
aziendali,
con
attività
di
formazione
che
rispecchino
le
caratteristiche
del
lavoro
e
le
competenze
ad
esso
associate;
il
tutto
con
approccio
induttivo.
2
Elementi
Caratteristici
di
un
Intervento
Outdoor
Prima
di
illustrare
alcune
delle
tecniche
con
cui
è
possibile
realizzare
interventi
di
formazione
esperienziale
outdoor,
è
opportuno
un
chiarimento
prettamente
linguistico.
Per
attività
outdoor
s’intendono
tutte
quegli
interventi
di
formazione
che
applicano
modelli
di
apprendimento
esperienziale
e
che
sono
realizzati
fuori
dall’aula,
all’aria
aperta.
5
Questo
capitolo
indaga
quelli
che
possono
essere
definiti
gli
elementi
imprescindibili
di
un
efficace
intervento
di
formazione
esperienziale
outdoor.
L’elemento
che
coinvolge
tutta
la
progettazione
dell’esperienza
è
la
metafora
utilizzata.
Da
ciò
deriva
la
scelta
della
location,
del
livello
di
stress
da
conferire
alle
singole
attività
e
la
natura
e
sequenza
dei
compiti.
Successivamente
potranno
essere
illustrate
le
metodologie
relative
al
briefing,
al
playing
ad
al
debriefing.
2.1
Metaphoric
Experiential
Learning
La
metafora
è
una
figura
linguistica
retorica
per
la
quale
si
attribuisce
ad
un
vocabolo
un
significato
diverso
da
quello
per
cui
è
convenzionalmente
inteso,
in
base
ad
un
rapporto
di
similitudine.
La
metafora
lavora
sulle
analogie,
sulla
sovrapposizione
tra
la
fonte
di
comparazione
e
l’oggetto
analogo,
tenendo
presente
però
che
un’attività
immaginativa
è
efficace
se
i
termini
comparati
non
siano
totalmente
vicini
o
distanti
nel
significato
figurato.
L’utilizzo
della
metafora
nei
processi
formativi
è
un
potente
strumento
di
strutturazione
e
potenziamento
dell’apprendimento,
in
quanto,
riconosce
e
valorizza
il
funzionamento
del
cervello
che
costruisce
continuamente
connessioni
e
associazioni,
percependo
e
ricordando
meglio
eventi
nuovi
ed
inusuali.
L’apprendimento
per
metafora
può
realizzarsi,
sia
trovandone
e
sostenendone
una
in
grado
di
contenere
e
veicolare
al
meglio
i
contenuti
della
formazione,
sia
facendo
vivere
un’esperienza
reale
in
un
contesto
simbolico
che
riproduca
le
stesse
dinamiche
comportamentali
dell’ambiente
lavorativo.
Nelle
metafore
esperienziali,
il
lavoro
analogico
si
basa
sul
rapporto
di
somiglianza
tra
gli
elementi
costitutivi
degli
oggetti
della
comparazione
e
sulla
capacità
intuitiva
ed
immaginativa
dei
soggetti
coinvolti,
di
interpretare
il
suddetto
rapporto.
La
sovrapposizione
parziale
tra
i
due
ambiti,
quello
metaforico
e
quello
reale,
organizzativo,
è
in
grado
di
produrre
e
stimolare
significati
ed
emozioni
figurate
fortemente
impresse
nella
mente
degli
individui.
Infatti,
l’apprendimento
veicolato
dall’attività
metaforica
è
in
grado
di:
• Rinforzare
il
ragionamento
analogico
dei
partecipanti,
avvicinando
contesti
apparentemente
distinti
e
stimolando
nuovi
modi
di
pensare;
• Creare
un
significato
contestuale
e
sociale
dell’identità
del
gruppo;
• Stimolare
in
termini
cognitivi
la
creatività
e
l’immaginazione
sociale;
• Facilitare
il
cambiamento
cognitivo,
orientando
e
guidando
il
comportamento
organizzativo
nelle
fasi
di
transizione
e
di
sviluppo;
• Raccogliere,
elaborare,
rinforzare,
spiegare
e
diffondere
la
conoscenza
esistente.
Per
quanto
riguarda
gli
interventi
di
formazione
esperienziale
che
utilizzano
la
metodologia
dell’outdoor
e
che
sono
progettati,
quindi,
in
termini
metaforici,
si
individua
come
obiettivo
di
apprendimento,
principalmente,
lo
sviluppo
degli
individui
e
dei
gruppi.
Le
metafore
esperienziali
stimolano:
• La
socializzazione
ed
il
miglioramento
del
clima
aziendale;
• Lo
sviluppo
della
fiducia,
sia
al
livello
intrafunzionale,
che
interfunzionale;
• La
consapevolezza
di
sé
ed
il
cambiamento
comportamentale;
• La
collaborazione
e
le
comunicazioni
interpersonali;
• Le
capacità
di
action
planning,
goal
setting,
problem
solving
e
decision
making;
• La
creazione,
la
gestione
e
lo
sviluppo
dei
gruppi
di
lavoro;
• Gli
stili
di
leadership
nelle
organizzazioni;
• La
gestione
dell’incertezza
e
del
cambiamento;
• La
gestione
dello
stress;
• Lo
sviluppo
della
creatività
e
dell’innovazione;
6
• La
propensione
la
capacità
di
assunzione
del
rischio.
Le
potenzialità
formative
del
sistema
appena
esposto
sono
un
risultato
comunemente
raggiunto
dalle
attività
incentrate
sul
metaphoric
experiential
learning
in
quanto
le
persone
sono
calate
in
un
contesto
nuovo,
con
compiti
originali
e
competenze
inusuali
da
mettere
in
campo.
Essendo
attività
incentrate
su
diverse
dimensioni
(fisica,
psicologica,
intellettuale,
sociale,
ecc.),
gli
interventi
esperienziali
producono
stimoli
diversi
e
complementari
sulle
intelligenze
multiple
degli
individui,
creando
le
miglior
condizioni
per
l’apprendimento
individuale,
ognuno
in
funzione
del
proprio
stile.
La
formazione
esperienziale
metaforica
supporta
l’apprendimento
in
tutte
e
tre
le
dimensioni
in
cui
è
tradizionalmente
disaggregato,
ossia,
cognitivo,
affettivo
e
psicologico.
Le
attività
consentono
lo
sviluppo
delle
capacità
cognitive,
in
quanto,
esercitano
le
operazioni
di
conoscenza
e
comprensione
del
compito
da
svolgere,
facilitando
le
attività
di
analisi,
sintesi,
valutazione
ed
autovalutazione
del
lavoro
svolto
e
del
processo
realizzato.
In
termini
cognitivi,
le
attività
esperienziali
sviluppano
prevalentemente
la
conoscenza
procedurale
e
tacita
sulle
modalità,
opportunità
e
circostanze
di
utilizzo
delle
capacità
possedute.
Dal
punto
di
vista
affettivo,
l’apprendimento
sollecitato
riguarda
la
consapevolezza
delle
proprie
emozioni
e
delle
dinamiche
psicologiche
delle
attività
svolte;
la
capacità
di
discriminare
le
diverse
possibili
cause.
Nelle
esperienze
metaforiche,
viene
evocata
un’ampia
serie
di
emozioni:
paura
o
ansia
di
affrontare
una
sfida,
un
compito
percepito
come
rischioso
o
pericoloso;
frustrazione
o
rabbia
di
non
essere
ascoltati
dal
gruppo
o
di
non
poter
chiedere
autonomia
decisionale;
entusiasmo
o
soddisfazione
per
il
raggiungimento
degli
obiettivi.
Nella
progettazione
delle
attività
esperienziali
occorre
tener
presente
che
la
vulnerabilità
e
l’intensità
emotiva,
sono
direttamente
correlate
al
livello
di
stress,
per
cui
è
necessario
contenerle
per
evitare
demotivazione
e
non
partecipazione
alle
attività.
Da
un
altro
punto
di
vista,
non
bisogno
dimenticare
che,
la
dimensione
emotiva
aiuta
a
mantenere
alta
l’attenzione
ed
a
far
permanere
l’apprendimento
nel
lungo
termine.
Di
seguito
sono
illustrati
i
momenti
che
caratterizzano
la
progettazione
e
la
realizzazione
di
un
intervento
esperienziale
metaforico:
• La
scelta
e
la
costruzione
della
metafora;
• La
scelta
della
location;
• Il
grado
di
stress;
• La
natura
e
la
sequenza
dei
compiti.
2.2
Scelta
e
costruzione
della
metafora
formativa
Nella
scelta
e
nella
costruzione
della
metafora
esperienziale
occorre
progettare
un’iniziativa
in
grado
di
riprodurre
le
necessarie
analogie
con
l’ambiente
lavorativo,
con
le
regole,
lo
stile
di
leadership,
l’atmosfera,
il
clima
e
la
cultura
aziendale.
Per
poter
far
ciò
è
necessario
predisporre
ed
effettuare
un’accurata
analisi
dei
fabbisogni
di
apprendimento;
la
metafora
ha,
infatti,
il
compito
di
costruire
connessioni
e
associazioni
tra
le
attività
esperenziali
e
gli
obiettivi
di
apprendimento.
Per
creare
una
metafora
formativa
occorre
focalizzarsi
sui
contenuti
dell’iniziativa
didattica.
Il
progettista
può,
inizialmente,
individuare
una
serie
di
diverse
metafore
sulle
quali
sia
possibile
sviluppare
il
contenuto,
globale
o
parziale,
dell’intervento
formativo.
Successivamente
deciderà
quale
metafora
implementare
e
quale
escludere.
Sviluppata
l’idea
metaforica,
occorre
disaggregare
anche
questa
nei
suoi
elementi
costitutivi
per
confrontarli
con
quelli
degli
obiettivi
formativi
che
si
vogliono
perseguire;
questo
7
accostamento
ha
lo
scopo
di
creare,
individuare
e
rafforzare
eventuali
associazioni,
similitudini
connessioni
da
utilizzare
in
termini
esperienziali.
Per
meglio
intendere
quali
siano
i
passaggi
concreti
che
il
progettista
di
formazione
deve
percorrere
al
fine
di
creare
la
metafora
adatta
alla
specifica
problematica,
è
opportuno
introdurre
il
caso
di
una
ipotetica
azienda
Y.
Ciò
su
cui
l’azienda
Y
deve
intervenire
sono
quattro
elementi:
il
cambiamento,
la
diversità,
l’antagonismo
e
la
scarsa
comunicazione
interfunzionale.
Sintetizzati
questi
parametri,
si
affronta
un
“brain
storming
metaforico”
con
il
seguente
risultato:
1. Cambiamento:
passaggio,
percorso,
trasformazione,
modificazione,
sviluppo,
elaborazione,
mutazione,
paura
dell’ignoto,…
2. Diversità:
sesso,
sociale,
aziendale,
identità
e
storia
aziendale,
modi
di
dire,
di
lavorare,
di
comunicare
gergo
tecnico,
diversità
di
potere,
di
reddito
di
status,…
3. Antagonismo:
non
collaborazione,
competizione,
avversità,
inimicizia,
non
comunicazione,
antipatia,
critiche
distruttive,
lotte
di
potere…
4. Scarsa
comunicazione:
disinteresse,
deresponsabilizzazione,
ostruzionismo,
opportunismo,
diversità,
adverse
selection.
Obiettivi
ipotetici
del
processo
di
sviluppo:
miglioramento
del
clima
e
della
comunicazione.
La
metafora
che
deve
essere
creata
ha
lo
scopo
quindi
di
far
apprendere
e
percepire
il
processo
di
cambiamento
e
integrazione
senza
far
rinnegare
il
passato
e
le
identità
pregresse.
Dal
brain
storming
supponiamo
derivi
lo
spunto
per
sintetizzare
un
insieme
di
parole
e
concetti
rappresentativi
della
metafora
che
si
deve
creare:
diversità,
percorso,
paura
dell’ignoto,
identità,
storia,
collaborazione.
Con
queste
parole
in
mente
si
tenta
di
progettare
un
intervento
che
unisca
metaforicamente
la
valorizzazione
dell’identità
e
della
diversità
con
la
necessità
della
collaborazione.
Inoltre,
l’intervento,
dovrebbe
essere
in
grado
di
far
vivere
un
percorso,
che
procedesse
dalle
storie,
dalle
esperienze
aziendali,
attraverso
la
paura
dell’ignoto
ed
arrivasse
ad
un
approdo
sicuro.
Formalizzato
il
contenuto
metaforico
del
processo
esperenziale,
attraverso
la
tecnica
delle
associazioni
libere,
si
procede
per
associare
le
parole
chiave
sopra
individuate
ad
altrettante
idee;
il
risultato
potrebbe
essere
il
seguente:
DIVERSITA’:
“…
ogni
azienda
parte
da
una
storia
diversa
per
arrivare
la
gruppo
aziendale;
bagaglio
culturale,
identità
storia;
nella
cultura
fluiscono
le
storie;
simboli,
miti
e
valori
producono
cultura…”.
PERCORSO
“…
è
un
cammino,
fatto
insieme,
con
qualcuno
o
da
soli;
un
percorso
conduce
ad
una
meta;
un
percorso
è
la
strada
di
un
progetto;
passo
dopo
passo;
strada,
sentiero…”.
PAURA
DELL’IGNOTO
“…
ignoto
è
ciò
che
non
si
conosce,
che
non
si
capisce,
che
sfugge
dai
nostri
senti;
qualcosa
in
cui
i
sensi
sono
limitati
a
percepire
a
comprendere;
qualcosa
che
ti
avvolge
come
il
buio,
l’oscurità…”.
IDENTITA’,
DIVERSITA’
E
COLLABORAZIONE:
“…
sebbene
diversi,
si
può
collaborare,
ma
la
diversità
non
aiuta
la
collaborazione.
L’identità
produce
diversità;
la
collaborazione
vuol
dire
lavorare
con
qualcuno,
ma
è
possibile
lavorare
con
qualcuno
con
cui
non
si
ha
quasi
nulla
in
comune?
Cosa
può
unire
due
diversità?”
Le
libere
associazioni
così
create,
costituiscono
la
base
sulla
quale
iniziare
a
sviluppare
una
serie
di
metafore
da
porre
a
tema
dell’intervento.
Ovviamente
tutte
le
proposte
metaforiche
dovevano
risultare
analoghe
alle
idee
chiave
ed
alle
disgregazioni
proposte.
8
La
prima
metafora
proposta
è
quella
del
“fiume”.
Il
concetto
del
fiume
richiama
qualcosa
che
proviene
da
lontano,
che
trova
arricchimento
dal
suo
percorso,
nutrendosi
di
notevoli
affluenti,
di
tante
acque
provenienti
da
posti
diversi,
da
terre
diverse,
mantiene
una
sua
identità
e
si
trasforma
in
mare.
Un
seconda
proposta
è
il
“puzzle”.
Il
puzzle
è
composto
da
tanti
pezzi,
ognuno
diverso
per
forma
e
colore,
ma
ognuno
necessario
per
completare
il
tutto.
Il
tutto
non
è
niente
anche
senza
solo
uno
degli
elementi;
ogni
pezzo
ha
un
posto
giusto
dove
essere
collocato”.
Il
“patchwork”,
un
composto
di
tanti
pezzi,
diversi
e
ben
distinguibili,
di
natura
colore
e
forma
diversa.
A
seconda
del
gusto
di
chi
lo
compone,
diventa
un’unica
opera.
Un’altra
metafora
è
la
“casa”,
questo
perché
per
costruirla
è
necessario
un
progetto,
delle
fondamenta,
del
lavoro,
dei
collaudi.
L’integrazione
pianificata
di
tutti
i
contributi
serve
ad
erigere
la
costruzione.
L’ultima
proposta
metaforica
è
“l’arcobaleno”,
in
quanto,
composto
da
tante
strisce
colorate,
diverse,
ma
che
camminano
nella
stessa
direzione,
con
un
inizio
ed
una
fine.
Indica
un
punto
di
arrivo.
Dal
punto
di
vista
formativo,
strutturare
un’unica
attività
che
comprende
tutte
le
metafore
proposte,
renderebbe
molto
complesse
le
fasi
di
debriefing.
Per
questo
motivo
si
preferisce
costituire
un
progetto
formato
da
tante
piccole
attività,
integrando
più
metafore,
ognuna
delle
quali
potrebbe
intervenire
su
di
uno
specifico
aspetto
relativo
agli
obiettivi.
Ed
è
in
base
alle
motivazioni
metodologiche
appena
esposte
che,
in
relazione
al
caso
dell’ipotetica
azienda
Y,
si
potrebbe
decidere
di
utilizzare
la
metafora
dell’orienteering
in
campagna
per
poter
lavorare
sul
concetto
di
strada,
di
percorso
di
orientamento,
di
nuovo
sentiero
da
trovare
all’interno
del
contesto
che
cambia.
Proprio
perché
il
concetto
di
cambiamento
è
fondamentale
in
questo
caso
reale,
potrebbe
essere
efficace,
far
intraprendere
il
percorso
di
notte,
in
quanto,
il
buio
simboleggia
la
paura
dell’ignoto.
I
gruppi
partecipanti
all’orienteering
avrebbero
tutti
punti
di
partenza
diversi,
questo
serve
a
valorizzare
la
storia
di
ogni
azienda
prima
della
partenza.
Si
potrebbe
inoltre
proporre
di
far
portare
nello
zaino,
degli
oggetti
rappresentanti
la
propria
identità
organizzativa.
Quest’ultimo
punto
ha
sia
lo
scopo
di
far
vivere
il
peso
della
storia
passata
nel
processo
di
cambiamento,
processo
che
nell’outdoor
è
rappresentato
dalla
camminata
notturna,
sia
l’intento
di
far
rielaborare
al
termine
dell’intervento,
una
analisi
dei
valori
delle
persone
mediante
una
rappresentazione,
una
composizione,
nello
specifico
il
patchwork,
che
unisce
le
diversità
(i.e.
gli
oggetti
portati
nello
zaino),
in
un’opera
comune.
Per
rinforzare
e
richiamare
continuamente
le
ideologie
alla
base
dell’intervento,
si
potrebbero
far
intersecare
più
volte
compiti
e
gruppi,
allo
scopo
di
mettere
in
atto
un
rimescolamento
dei
gruppi
nelle
diverse
attività
rendendo
così
necessaria,
ai
fini
dei
giochi,
l’aggregazione
e
l’integrazione
delle
diverse
prospettive.
Al
termine
dell’intervento
si
potrebbe
far
scrivere
e
mettere
in
scena,
con
l’ausilio
di
attori
professionisti,
la
storia
dell’azienda,
dell’avventura
formativa,
e
degli
avvenimenti
goliardici
avvenuti
durante
i
tre
giorni
di
formazione.
L’attività
è
volta
al
rafforzamento
ed
al
consolidamento
delle
esperienze
effettuate
e
della
loro
valenza
trasformativa.
Il
progetto
non
si
conclude
con
il
rientro
in
sede
dei
partecipanti,
ma
un
mese
dopo
l’outdoor
si
prevede
una
sessione
di
follow
up
arricchita
oltre
che
dalla
raccolta
dei
feedback,
da
una
lezione
frontale
sulla
comunicazione
interpersonali
e
sulle
relazioni
interfunzionali;
la
sessione
prevede
ovviamente
le
restituzione
dei
feedback
alla
committenza.
2.3
La
scelta
della
location
Nella
scelta
della
location
occorre
distinguere
quelle
metafore
che
richiedono
necessariamente
un’ambientazione
outdoor
perché
basate
su
attività
sportive
(rafting,
9
canoing,
orienteering,
ecc.),
o
su
giochi
all’aperto
(caccia
al
tesoro
o
soft
air),
da
quelle
che
possono
essere
svolte
anche
in
un
ambiente
interno
sufficientemente
spazioso.
Appare
evidente
che
la
scelta
di
una
specifica
metafora
vincola
la
scelta
della
location;
è
una
perdita
di
tempo
progettare
un’attività
centrata
su
una
metafora
che
necessariamente
richiede
una
location
esterna
quando
si
è
consapevoli
di
non
poterla
individuare
in
breve
tempo
o
quando
la
distanza,
ad
esempio,
la
rende
non
idonea
ai
vincoli
di
budget
disponibili.
Allo
scopo
di
orientare
la
decisione
sulla
tipologia
di
intervento
e
di
location,
si
prendono
in
considerazione
vantaggi
e
svantaggi
dell’outdoor
experiential
training
e
dell’indoor
adventure
training.
La
scelta
di
un
sito
esterno,
fuori
dalle
mura
dell’aula,
presenta
alcuni
svantaggi:
• L’incontrollabilità
del
clima;
• La
possibile
discriminazione
nell’attività
a
maggior
richiesta
fisica,
delle
persone
meno
allenate;
• Il
maggior
rischio
di
danno
fisico;
• Il
rischio
di
spiazzamento
delle
finalità
formative,
dovuto
al
prevaricare
della
dimensione
di
avventura.
Per
contro,
le
suddette
attività
esterne:
• Promuovono
la
creazione
di
memorie
permanenti,
promuovendo
l’apprendimento
ed
il
richiamo
successivo
delle
esperienze.
• Valorizzano
la
dimensione
reale
dell’apprendimento,
attribuendo
un
sostanziale
elemento
di
novità
all’attività
formativa.
• Se
l’ambientazione
avviene
in
mezzo
alla
natura,
producono
benefici
psicologici
e
spirituali
contribuendo
al
raggiungimento
degli
obiettivi
formativi.
Gli
studi
di
Thomashow
sottolineano
che,
confrontarsi
con
l’ambiente
naturale
aiuta
ad
avere
dei
punti
fermi
in
un
mondo
in
continuo
cambiamento,
calmando
così
molte
ansie
e
meccanismi
di
difesa.
Un’esperienza
a
contatto
stretto
con
la
natura
è
in
grado
di
indurre
un
forte
senso
di
spiritualità
che,
sostituendo
il
contatto
con
la
divinità,
calma
le
paure
dell’impermanenza
del
genere
umano.
La
maestosità,
l’immensità
di
uno
spettacolo
naturale,
ricorda
all’uomo
la
sua
intrinseca
debolezza
e
vulnerabilità,
risveglia
un
senso
di
umiltà,
ridimensionando
manie,
ambizioni,
sete
di
fama
e
fortuna.
Le
frustrazioni
ed
i
fallimenti
della
vita
quotidiana
sembrano
in
questo
modo,
meno
importanti;
tutto
ciò
predispone
meglio
le
persone
alle
attività
esperienziali
permettendogli
di
aprirsi
alla
socializzazione
ed
alla’apprendimento.
In
questi
termini
sembra
che
la
metodologia
outdoor
sia
l’unica
soluzione
accettabile
per
un
determinato
tipo
di
contenuti
formativi
anche
se
la
configurazione
indoor,
non
comporta
necessariamente
la
perdita
della
componente
“avventura”,
elemento
privilegiato
dell’outdoor
experiential
learning.
Gli
interventi
di
indoor
adventure
training
consentono
una
progettazione
ed
uno
stretto
controllo
dei
livelli
di
stress
e
della
percezione
del
rischio
psicologico;
inoltre
vi
è
un
abbattimento
del
rischio
derivante
dalle
condizioni
climatiche
e
dalle
possibili
discriminazioni
fisiche
dei
singoli
partecipanti.
Ciò
che
l’indoor
mantiene
in
comune
con
la
tipologia
outdoor
è
la
novità
del
contesto
in
cui
avviene
la
formazione,
le
sfide
individuali
e
di
gruppo
a
cui
si
è
sottoposti,
la
partecipazione
attiva
all’attività
di
sviluppo
ed
alla
risoluzione
dei
problemi.
2.4
Il
grado
di
stress
Nella
progettazione
delle
attività
esperenziali
occorre
valutare
il
grado
di
stress
che
i
diversi
interventi
potrebbero
arrecare
ai
partecipanti.
Un
giusto
livello
di
stress
produce
stimoli
10
appropriati,
fattori
che
facilitano
l’apprendimento
ed
un
adeguato
reclutamento
nella
partecipazione
delle
persone;
si
tratta
in
quest’accezione
positiva
di
eustress.
Le
metafore
esperienziali
devono
aiutare
ad
uscire
dalla
routine,
dalla
monotonia
formativa
senza
suscitare
paura
o
livelli
elevati
di
ansia.
Le
paure
più
frequenti
durante
un
evento
di
formazione,
sono
relative
alla
perdita
di
immagine
di
fronte
al
gruppo
a
causa
di
eventuali
fallimenti
nello
svolgimento
del
compito;
contestualmente
potrebbe
insorgere
la
paura
di
perdere
il
controllo
davanti
ai
propri
colleghi
e
rivelare
troppe
cose
di
sé.
In
questo
caso
si
verificherebbe
un
distress,
ossia
uno
stress
negativo
che
andrebbe
a
destabilizzare
il
processo
di
apprendimento.
Le
metafore
devono
servire
per
creare
un’esperienza
piacevole
ed
accattivante,
non
minacciosa
o
imposta.
L’adulto
apprende
veramente
solo
quando
le
cose
che
percepisce
sono
viste
come
un
miglioramento
o
un
rafforzamento
della
struttura
di
sé.
Qualora
subentrasse
il
rischio
di
una
minaccia,
la
struttura
psicologica
si
irrigidirebbe,
attivando
dei
meccanismi
di
difesa
che
minerebbero
l’apprendimento.
Nonostante
il
rischio
di
creare
attività
eccessivamente
stressanti,
un
minimo
livello
di
ansia
è
necessario
per
animare,
risvegliare
il
senso
di
sfida
e
di
superamento
dell’ostacolo,
un
evento
problematico,
ma
non
insormontabile.
Quando
si
progetta
un
intervento
esperienziale,
che
sia
indoor
o
outdoor,
non
bisogna
esporre
i
partecipanti
a
rischi
reali,
ne
fisici,
ne
tantomeno
psicologici.
Questo
perché
non
è
assolutamente
ammissibile
in
un
contesto
formativo,
per
dei
progettisti,
prendersi
la
libertà
di
esporre
le
persone
a
rischi,
inoltre,
non
tutte
e
persone
hanno
le
conoscenze
e
le
capacità
per
affrontare
determinate
attività
fisiche
che
richiederebbero
un
periodo
di
pre
training.
Ciò
che
rende
la
gestione
del
rischio
un
elemento
particolarmente
critico
in
fase
progettuale,
è
decidere
se
sia
funzionale,
o
meno,
all’apprendimento
indurre
la
percezione
di
un
rischio
reale
o
comunicarne
onestamente
l’assenza.
Generalmente,
la
prassi
che
si
assume
in
fase
di
progettazione
della
metafora
è
quella
di
generare
un
rischio
immaginario,
percepito,
che
riesca
a
sfidare
le
paure
e
le
ansie,
senza
invade
e
suscitare
resistenze.
Ciò
che
la
metafore
deve
fare,
è
emozionare,
senza
stravolgere
e
destabilizzare
le
persone,
deve
catturare
l’attenzione
e
a
concentrazione
durante
l’esercizio
fisico
senza
far
temére
lesioni
o
danni
alla
propria
persona.
Per
minimizzare
e
presidiare
meglio
i
rischi
formativi
è
necessario
prestare
attenzione
ad
alcune
linee
guida
di
progettazione
degli
interventi
esperienziali:
• Definire
un
livello
di
esperienza
minima
o
qualifica
tecnica
richiesta
ai
trainer
od
ai
facilitatori;
• Stabilire
la
dimensione,
minima
e
massima,
dei
sottogruppi
di
partecipanti,
per
non
trovarsi
nella
situazione
di
dover
gestire
un
numero
elevato
di
persone;
• Stabilire
se
è
richiesta
un’esperienza
pregressa
specifica
ai
partecipanti,
altrimenti
formarli
con
un
pre
training;
• Definire
gli
standard
di
sicurezza
delle
attrezzature;
• Ottenere
l’approvazione
specifica,
da
parte
della
committenza,
per
eventuali
attività
con
rischio
percepito.
2.5
La
natura
e
la
sequenza
dei
compiti
In
molti
casi,
è
importante
per
il
raggiungimento
degli
obiettivi
formativi
che
ci
sia
un
elemento
di
novità
relativo
ai
compiti
ed
al
contesto
ambientale.
La
novità
attrae
la
percezione,
l’attenzione
e
la
concentrazione
individuale,
sconvolgendo
la
ripetitività
della
struttura
mentale
delle
persone
indicendole
al
pensiero
laterale.
Analizzare
le
attività
ed
i
processi
aziendali,
quando
si
affronta
progettualmente
questo
tema,
è
fondamentale
per
trarre
importanti
spunti
di
riflessione
per
meglio
definire
la
proposta
formativa.
11
Per
quanto
riguarda
la
natura
delle
attività,
ad
esempio,
proporre
in
forma
metaforica
un’attività
familiare
in
un
ambiente
noto,
può
comportare
il
rischio
di
riprodurre
le
dinamiche
e
gli
atteggiamenti
esistenti,
contribuendo
al
loro
consolidamento.
Diversamente,
invece,
proponendo
una
situazione
nuova,
con
attività
apparentemente
dissimili
e
metaforicamente
allineate
alla
cultura
ed
ai
processi
aziendali,
consente
una
sfida
più
efficace
alla
mentalità
esistente.
L’elemento
di
novità
deve
avere
anche
altre
caratteristiche
per
essere
efficace;
la
dimensione
dell’avventura,
ad
esempio,
esprime
un
ulteriore
criterio
di
progettazione.
Questo
elemento
porta
con
se
il
giusto
grado
di
stress,
di
ingaggio
emotivo
e
di
ansia
da
prestazione
che
facilita
e
rinforza
il
processo
di
apprendimento.
Un
altro
elemento
di
progettazione
delle
attività
riguarda
il
loro
grado
di
complessità,
la
difficoltà
di
svolgimento.
Richiamando
il
concetto
dell’isomorfismo
delle
attività
formative
ai
contesti
aziendali,
la
complessità
del
compito
deve
essere
progettata
per
riflettere
le
strutture
manageriali
e
le
modalità
di
comunicazione
che
contraddistinguono
l’organizzazione.
Fondamentale
è
creare
un
bilanciamento
tra
le
capacità
possedute
dai
discenti
e
la
difficoltà
delle
task
presentate
dalla
metafora
esperienziale.
Questo
è
un
bilanciamento
che
deve
essere
trovato
necessariamente
dal
progettista
di
formazione,
in
quanto,
le
attività
troppo
complesse
o
per
le
quali
non
si
posseggono
le
competenze
necessarie,
risultano
essere
solo
demotivanti
e
non
promuovono
lo
sviluppo
personale.
Ai
gradi
di
complessità
delle
attività
si
vincola
anche
la
sequenza
delle
stesso;
all’inizio
dell’esperienza
saranno,
infatti,
proposti
compiti
più
semplici
per
poi
arrivare
a
problemi
di
maggior
complessità
con
il
progredire
dell’intervento
formativo.
Poiché
l’apprendimento
avviene
con
la
pratica,
rivedendo
gli
errori
commessi,
è
importante
che
la
sequenza
delle
attività
progettate,
oltre
ad
avere
complessità
crescente,
lavori
a
rinforzo
delle
capacità
che
si
vogliono
stimolare
ed
allenare.
A
questo
punto
dell’analisi
e
dello
studio
delle
attività
metaforiche,
è
possibile
introdurre
ulteriori
dimensioni
classificatorie.
È
possibile,
infatti,
distinguere
i
compiti
in
virtù
del
grado
di
“strutturazione”
con
cui
vengono
presentati.
La
formazione
esperienziale
è
particolarmente
efficace
per
problemi
poco
strutturati,
aperti
a
molteplici
soluzioni
e
metodi
risolutivi,
con
restituzione
di
un
feedback
approfondito.
La
destrutturazione
di
un
problema
riproduce
metaforicamente
la
non
familiarità
del
compito,
una
situazione
di
incertezza
ambientale
e
la
necessità
di
una
efficace
comunicazione
di
gruppo
per
poterlo
risolvere.
La
progettazione
di
interventi
aperti,
consente
di
osservare
e
raggiungere
una
molteplicità
di
obiettivi
di
apprendimento.
Nel
momento
in
cui
i
formatori
e
di
trainer
cogliessero,
nell’evolversi
dell’esperienza
outdoor,
uno
o
più
spunti
per
rilanciare
un
dibattito
volto
ad
indagare
aspetti
comportamentali
non
previsti
in
fase
progettuale,
hanno
la
possibilità
di
indirizzare,
durante
i
briefing
intermedi
e
nel
debriefing
finale,
la
rielaborazione
verso
ciò
che
la
platea
dei
discenti
sente
come
un
argomento
rilevante.
Un
maggior
approfondimento
all’argomento
è
offerto
dall’accostamento
del
grado
di
destrutturazione
del
compito
con
il
grado
di
intensità
del
feedback;
questo
sistema
offre
un
importante
spunto
di
riflessione
sulle
potenzialità
degli
interventi
esperienziali.
Un
intervento
esperienziale
con
compiti
destrutturati
e
feedback
a
bassa
intensità
rischia
di
non
avere
nessuna
valenza
formativa,
un
intervento
di
questo
tipo
ha
un
approccio
principalmente
ludico
e
resta
solo
un
contesto
per
socializzare.
La
progettazione
di
attività
con
compiti
strutturati,
con
un
numero
di
soluzioni
limitato,
focalizzati
su
alcune
competenze
specifiche,
ha
risvolti
differenti
in
funzione
dell’intensità
del
feedback.
12
2.6
Briefing,
Playing
e
Processi
di
Debriefing
Ogni
intervento
esperienziale
che
utilizza
la
metodologia
metaforica
richiede
una
attenta
progettazione
delle
fasi
di
briefing,
il
momento
che
precede
l’intervento,
il
playing,
ossia
lo
svolgimento
dei
compiti
ed
infine
il
debriefing,
ossia
la
rielaborazione
finale.
Briefing:
è
il
momento
in
cui
le
persone
sono
istruite
e
preparate
allo
svolgimento
dell’attività.
Coerentemente
con
quanto
teorizzato
dal
modello
andragogico,
il
briefing
serve
ad
inquadrare
ed
a
spiegare
il
senso
delle
attività
rispetto
agli
obiettivi
di
apprendimento.
Durante
questo
incontro
sono
comunicati
gli
obiettivi
delle
attività,
le
regole
del
gioco
e
della
sicurezza
e
le
eventuali
informazioni
da
conoscere
prima
di
intraprendere
gli
esercizi.
Il
ruolo
del
formatore,
in
questo
momento,
è
quello
di
fornire
le
istruzioni
dell’attività,
renderla
chiara
e
fruibile
da
tutti
i
partecipanti.
Durante
il
briefing
possono
essere
anche
attivati
dei
piccoli
esercizi
(small
techniques),
per
facilitare
la
socializzazione
ed
iniziare
a
preparare
i
discenti
a
quello
che
sarà
il
tipo
di
“linguaggio”
utilizzato
dalla
formazione
esperienziale
metaforica.
Playing:
immersi
nell’ambiente
che
è
stato
creato
e
preparato
per
la
formazione,
i
discenti
partecipano,
realizzano
e
vivono
l’esperienza.
In
questa
fase
il
ruolo
del
trainer
o
del
formatore
è
quello
del
facilitatore
che,
supportato
eventualmente
da
uno
psicologo,
assiste
allo
svolgimento
dell’intervento.
Il
trainer
deve
raccogliere
osservazioni
dirette
sulle
dinamiche
interpersonali,
sugli
atteggiamenti
e
sui
ruoli
emergenti
nel
gruppo.
La
raccolta
delle
osservazioni
può
avvenire
tramite
apposite
griglie
di
analisi
sviluppate
dai
formatori
o
tramite
videoriprese
o
fotografie.
La
corretta
rilevazione
delle
osservazioni
costituirà
la
base
sulla
quale
incentrare
il
debriefing
finale.
Il
ruolo
del
trainer
in
questa
fase
è
anche
quello
di
supervisore
delle
sicurezza
durante
le
attività;
ha
ovviamente
anche
il
potere
e
la
responsabilità
di
intervenire
di
persona
ed
interrompere
l’esercitazione
in
caso
di
rischi
gravi
o
pericoli
per
i
partecipanti.
Debriefing:
è
il
momento
in
cui
si
ripercorre
il
processo
per
evidenziare
le
dinamiche
interpersonali,
i
momenti
critici,
gli
errori
e
le
inefficienze
nel
coordinamento
dei
diversi
operatori;
tutto
per
rielaborare
le
azioni
in
punti
di
apprendimento,
opportunità
di
sviluppo
personale
e
di
gruppo.
Il
questa
fase
il
ruolo
del
trainer
è
quello
del
facilitatore
che
supporta
i
discenti
al
fine
di
permettergli
di
riflettere
sull’esperienza,
sollecitare
il
confronto
delle
sensazioni
e
delle
opinioni,
dirigere
e
condurre
alla
conclusione
gli
eventuali
conflitti.
Il
trainer
deve
condurre
la
discussione
in
modo
da
far
emergere
ai
discenti
ciò
che
è
stato
osservato
durante
le
esercitazioni.
Facendo
riferimento
alle
osservazioni
dirette
raccolte
durante
il
playing,
il
trainer
deve
restituire
il
feedback
sulle
osservazioni,
facendolo
emergere
in
modo
maieutico;
sono
i
discenti
che
esprimono
un
feedback
su
loro
stessi,
il
trainer
li
accompagna
in
questo
processo
di
estrazione.
Lo
stile
dell’osservazione
e
del
debriefing
dovrebbe
essere
neutro,
avalutativo,
orientato
all’ascolto
ed
al
rispecchiamento
delle
dinamiche
osservate.
È
opportuno
dedicare
un
approfondimento
a
quelle
che
sono
le
tecniche
e
le
dinamiche
che
subentrano
durante
una
sessione
di
debriefing
al
termine
di
un
intervento
esperienziale.
2.7
Metodologie
e
tecniche
di
debriefing
Il
debriefing
è
il
momento
qualificante
e
sostanziale
di
ogni
intervento
esperienziale
metaforico;
come
le
altre
fasi,
dovrebbe
essere
ben
progettato
e
gestito.
È
in
questo
momento
che
il
messaggio,
la
parabola
metaforica,
trova
riscontro
esplicito
con
la
realtà
professionale
e
personale
dei
discenti
che
hanno
preso
parte
all’intervento.
13
Non
esiste
una
letteratura
consolidata
sulle
metodologie
da
applicare
od
alle
quali
ispirarsi
per
progettare
e
condurre
un
incontro
di
debriefing.
Si
impara
a
condurli
osservando
e
collaborando
al
fianco
di
formatori
esperiti.
Tuttavia
l’improvvisazione,
anche
in
questo
contesto,
non
è
sempre
una
soluzione
da
poter
vagliare
troppo
alla
leggera,
in
quanto,
un
approccio
troppo
empirico
lascia
spazio
ad
improvvisazioni
di
ruolo
non
funzionali
all’apprendimento.
Per
i
motivi
appena
esposti,
bisogna
far
riferimento
ad
alcuni
criteri
di
buon
senso
che
partono
dalle
finalità
per
cui
sono
comparsi
gli
incontri
di
debriefing.
Le
prime
esperienze
si
fanno
risalire
a
quei
momenti,
al
termine
delle
campagne
militari,
in
cui
i
partecipanti
erano
convocati
in
una
riunione
al
termine
della
missione
per
descrivere
e
dar
conto
delle
attività,
con
lo
scopo
di
valutare
le
responsabilità
di
ognuno
e
di
stabilire
nuove
strategie
per
il
futuro.
Le
finalità
del
debriefing
si
possono
così
riassumere:
• Raccogliere
e
trasmettere
informazioni;
• Verificare
le
metodologie
usate
durante
le
attività;
• Processare
ed
eliminare
le
conseguenze
negative
delle
dinamiche
interpersonali;
• Restituire
il
feedback
ai
partecipanti;
• Indurre
i
partecipanti
a
sperimentare
le
metodologie
apprese.
Il
debriefing
deve
essere
progettato
tenendo
presente
il
format,
le
formulazione
delle
domande
ed
allocando
il
giusto
tempo
alle
interazioni
con
i
partecipanti.
Relativamente
al
format
del
debriefing
si
può
decidere
di:
• Discutere
le
situazioni
lavorative
in
cui
è
possibile
applicare
ciò
che
si
è
appreso.
Durante
la
rielaborazione
dovranno
emergere
limiti
e
agevolazioni
che
si
prevede
saranno
incontrati
nell’ambiente
reale
organizzativo;
• Discutere
in
modo
collaborativo,
neutrale
ed
avalutativo
sulla
base
delle
domande
poste
dal
facilitatore;
• Elaborare
e
discutere
gli
approcci
alternativi
allo
svolgimento
delle
attività,
valutandone
vantaggi
e
svantaggi;
• Scrivere
in
un
giornale
o
in
un
diario
collettivo
le
esperienze
vissute,
le
teorie
di
riferimento
e
le
applicazioni
aziendali;
Per
quanto
riguarda
la
giusta
formulazione
e
successione
delle
domande,
occorre
innanzitutto
conoscere
le
caratteristiche
delle
attività;
la
sequenza
delle
domande
dipende
molto
dalla
tipologia
di
metafora
utilizzata.
In
secondo
luogo,
le
domande
possono
essere
orientate
e
collegate
ai
quattro
stadi
dell’apprendimento
teorizzati
e
sintetizzati
da
Kolb;
ad
ogni
stadio
sarà
possibile
associare
diverse
tipologie
di
domande.
Nella
fase
dell’esperienza
concreta,
le
domande
saranno
volte
ad
indagare
ed
a
far
descrivere
l’esperienza
vissuta,
nella
fase
dell’osservazione
riflessiva,
le
domande,
invece,
indagheranno
l’osservazione
dei
comportamenti
altrui
da
parte
dei
singoli
discenti,
l’osservazione
delle
dinamiche
di
azione/reazione
ed
il
confronto
avalutativo
delle
riflessione.
Nella
terza
fase
del
modello
di
Kolb,
la
concettualizzazione
astratta,
il
formatore/facilitatore
orienterà
la
discussione
al
fine
di
permettere
ai
discenti
di
sviluppare
ed
astrarre
dall’esperienza,
un
sistema
di
regole
generalizzabili
ed
applicabili
alle
situazioni
lavorative.
Nell’ultima
fase,
la
sperimentazione
attiva,
il
facilitatore
segue
i
discenti
nel
mettere
in
pratica
i
contenuti
dell’apprendimento
nelle
esercitazioni
successive.
La
variabile
tempo,
per
quanto
riguarda
i
debriefing,
non
può
essere
prevista
e
gestita
con
eccessiva
rigidità
da
parte
dei
progettisti.
La
pratica
e
l’esperienza
dei
formatori
aiuta
a
prevedere
un
tempo
adeguato
alle
necessità
delle
singole
esperienze;
ciò
che
deve
essere
14
tenuto
da
conto
quando
si
definisce
il
tempo
da
destinare
alla
rielaborazione
è
sicuramente
la
complessità
dell’esercizio,
l’intensità
dell’attività,
la
risposta
ed
il
coinvolgimento
dei
partecipanti
ed
infine
il
tipo
ed
il
format
di
debriefing
scelto.
Illustrati
gli
elementi
che
caratterizzano
il
debriefing,
è
opportuno
individuare
quei
criteri
di
facilitazione
che
rendono
efficace
e
valido
il
processo
di
rielaborazione.
In
primo
luogo,
dovrebbero
emergere
dalla
discussione,
le
analogie
e
le
similitudini
poste
alla
base
della
costruzione
metaforica.
È
a
partire
da
ciò,
che
subentra
l’abilità
del
facilitatore
nell’avviare
il
processo
di
trasferimento
delle
esperienze
formative
alle
applicazioni
lavorative.
Come
anticipato
in
apertura
di
paragrafo,
non
esiste
una
letteratura
di
riferimento
che
possa
supportare
il
formatore
in
questa
attività
maieutica.
La
forza
degli
interventi
formativi
esperienziali,
quindi
anche
quelli
realizzati
con
metodologie
outdoor,
è
che
il
discente,
a
seguito
dell’esperienza,
coglie
autonomamente
quello
che
è
il
messaggio
formativo
alla
base
dell’attività.
La
funzione
del
formatore
è
quella
del
facilitatore,
colui
che,
con
domande
mirate,
guida
il
discente
fino
a
far
emergere
dal
profondo
del
vissuto
personale
i
contenuti
dell’apprendimento
che
in
fase
progettuale
sono
stati
posti
alla
base
della
metafora
utilizzata.
È
nella
fase
di
debriefing
che
si
nota
come
la
metodologia
esperienziale
metaforica
sembra
essere
costruita
intorno
a
quelli
che
sono
i
dettami
del
modello
andragogico.
In
secondo
luogo,
il
debriefing
dovrebbe
avviare
il
processo
di
restituzione
del
feedback
sulle
dinamiche
osservate.
Supportato
da
sistemi
di
raccolta
ed
analisi
dei
dati,
il
feedback
indica
al
gruppo
le
aree
di
sviluppo
sui
principali
processi
di
decisione,
comunicazione,
collaborazione,
pianificazione
delle
attività
e
brain
storming.
Esiste
una
serie
di
indicazioni
progettuali
e
gestionali
che
potenzia
l’uso
del
debriefing
nelle
attività
esperienziali:
• Ogni
attività
proposta
dovrebbe
essere
conclusa
con
una
sessione
di
debriefing;
• Il
progredire
della
complessità
delle
attività
dovrebbe
essere
seguito
da
debriefing
sempre
più
approfonditi,
puntuali
e
personalizzati;
• Al
termine
di
ogni
attività
dovrebbe
emergere
dalla
rielaborazione
il
modello
teorico
cognitivo
sottostante
alla
progettazione
dell’intervento;
• Al
procedere
delle
attività
e
dei
debriefing,
il
facilitatore
dovrebbe
stimolare
una
capacità
di
auto
riflessione
ed
autoapprendimento
nel
gruppo,
limitando
il
suo
intervento
alle
sessioni
collettive;
• La
rielaborazione
è
opportuno
che
sia
svolta
in
momenti
della
giornata
in
cui
i
discenti
non
siano
stanchi
o
demotivati;
• La
riflessione
e
la
revisione
dell’esperienza
è
maggiormente
efficace
se
si
focalizza
sul
processo
di
gruppo,
sui
comportamenti
funzionali
alla
risoluzione
dei
problemi
e
non
direttamente
sul
miglioramento
delle
prestazioni.
Riassumendo,
nella
gestione
del
debriefing,
lo
stile
anagogico
è
preferibile
a
quello
pedagogico.
La
riflessione
sull’esperienza
è
maggiormente
efficace
se
supportata
da
metodi
strutturati
di
raccolta
delle
riflessioni
individuali
e
di
gruppo.
Tra
i
diversi
metodi
possibili
ci
sono
i
questionari,
le
griglie
di
osservazione
ed
i
diari
di
bordo.
La
difficoltà
che
spesso
si
riscontra
quando
si
realizzano
interventi
formativi
esperienziali,
è
che,
ciò
che
viene
appreso,
non
trova
applicazione
nel
contesto
aziendale;
questo
perché
la
committenza
o
comunque
la
dirigenza,
non
credendo
al
valore
reale
degli
interventi
svolti
con
questa
metodologia,
non
prende
parte
alla
progettazione
del
piano
di
sviluppo
del
personale
del
quel
l’intervento
esperienziale
dovrebbe
far
parte.
L’atmosfera
avalutativa
e
neutrale
in
cui
si
dovrebbe
svolgere
il
debriefing
è
il
momento
ideale
in
cui
tentare
di
superare
quegli
ostacoli
che
per
cultura
aziendale
e
nazionale,
o
per
15
attitudine,
limitano,
ad
esempio,
la
condivisione
delle
informazioni,
la
collaborazione
tra
colleghi,
la
condivisione
delle
risorse
e
degli
obiettivi.
3
La
metodologia
Outdoor
Seguono
alcune
fra
le
diverse
modalità
con
cui
può
essere
progettata
ed
erogata
la
formazione
esperienziale
outdoor.
3.1
Outdoor
Small
Techniques
–
OST
Con
questa
dicitura
si
intendono
tutte
quelle
esercitazioni
brevi,
di
15‐30
minuti
circa,
condotte
all’aperto,
con
l’obiettivo
di
favorire
la
consapevolezza
e
lo
sviluppo
di
determinati
comportamenti
organizzativi.
I
principali
vantaggi
dell’OST
sono:
• l’assenza
di
attrezzature
complesse
per
l’erogazione;
• il
basso
livello
di
organizzazione
e
preparazione;
• l’alta
flessibilità.
L’assenza
di
attrezzature
complesse
da
gestire
fa
si
che
queste
attività
possano
essere
erogate
dai
trainer
senza
la
supervisione
di
tecnici.
Lo
svolgimento
dell’esercizio
è
seguito
dalla
rielaborazione
di
quanto
accaduto,
questi
momenti
sono
seguiti
e
gestiti
dai
formatori
che
hanno
assistito
all’esercitazione;
può
capitare
di
dover
“congelare”
momentaneamente
l’esercizio
in
corso
per
svolgere
un
breve
momento
di
riflessione
al
fine
di
cogliere
a
pieno
il
potenziale
formativo
presente
nell’attività.
Data
la
semplicità
dello
strumento
OST,
la
struttura
semplice
e
le
regole
precise
che
le
caratterizzano,
i
comportamenti
che
i
partecipanti
metto
in
atto
spesso
sono
facilmente
prevedibili
entro
un
limite
di
possibilità;
questo,
facilità
sicuramente
l’osservazione,
ma
allo
stesso
tempo
limita
gli
apprendimenti
possibili.
Sono
talvolta
ricompresi
nelle
OST
anche
quegli
esercizi
definiti
energizers,
possono
essere
usati
dai
trainer
in
contesti
di
outdoor,
anche
se
non
hanno
obiettivi
didattici
specifici.
Queste
attività
hanno
lo
scopo
di
creare
l’atmosfera
giusta
tra
i
presenti
e
farli
socializzare.
Innegabile
è
la
loro
applicazione
efficace
in
ambienti
di
apprendimento
a
patto
però
che
non
diventino
l’elemento
caratteristico
della
formazione.
Le
OST
rappresentano
il
tipo
di
formazione
outdoor
più
diffuso,
questo
è
dovuto:
• al
basso
impatto
organizzativo
ed
economico;
• alla
facilità
di
preparazione
e
conduzione;
• alla
flessibilità
organizzativa
ed
alla
possibilità
in
caso
di
mal
tempo
di
traslare
le
attività
in
indoor;
• la
facilità
di
osservazione
(i
trainer
sanno
cosa
e
dove
guardare
durante
l’esercitazione);
• la
possibilità
di
inserire
attività
di
OST
all’interno
di
fiere,
congressi
o
momenti
formativi
tradizionali.
Gli
obiettivi
didattici
che
possono
essere
perseguiti
attraverso
questa
semplice
tecnica
sono:
• Lavoro
di
gruppo;
• Processi
comunicativi;
• Relazioni
interpersonali;
• Problem
solving;
• Sviluppo
dell’attenzione
verso
l’altro.
16
• Leadership;
• Dare/ricevere
fiducia;
• Membership.
Ciò
che
rende
possibile
ed
efficace
l’utilizzo
di
questa
metodologia
in
un
contesto
finalizzato
all’apprendimento
è
il
debriefing.
In
questa
fase
si
gioca
un
momento
cruciale
per
l’apprendimento,
in
quanto,
è
qui
che
avviene
“la
ristrutturazione
cognitiva
dell’agire
ludico”.
Alcuni
esempi
di
OST
Il
tuffo
negli
altri:
a
turno
i
partecipanti
sono
invitati
a
salire
su
un
tavolo
o
una
pedana
a
uno
o
due
metri
d’altezza
e
dando
le
spalle
al
gruppo
si
lasciano
cadere
nelle
braccia
dei
compagni
disposti
a
formare
un
tappeto
di
mani
per
accoglierlo.
Prima
di
questo
momento
il
gruppo
viene
preparato
a
disporsi
in
modo
tale
da
garantire
accoglienza
e
sicurezza.
Il
tuffatore
può
essere
libero
o
bendato.
Le
implicazioni
più
evidenti
di
questo
esercizio
sono
il
dare
ed
il
ricevere
fiducia,
il
tuffatore
si
lascia
cadere
di
spalle
tra
le
braccia
di
persone
con
cui
ha
probabilmente
solo
rapporti
professionali;
c’è
un
affidamento
totale
del
tuffatore
alle
persone
che
lo
accolgono.
Di
converso
il
gruppo
inizia
a
costituirsi
in
quanto
sente
di
ricevere
fiducia
dal
parte
di
chi
si
lancia.
Oltre
a
questa
prima
implicazione
s’inizia
a
creare
attenzione
verso
l’atro
e
si
abbattono
le
barriere
che
bloccano
le
relazioni
interpersonali,
in
quanto,
il
contatto
fisico
tra
le
persone
è
forte
e
d’impatto;
probabilmente
i
partecipanti
all’attività
non
si
erano
scambiati
più
di
una
stretta
di
mano.
La
ragnatela:
con
delle
corde
si
forma
una
ragnatela
verticale
tra
due
alberi
o
due
pali
ben
piantati
nel
terreno.
Il
gruppo
è
disposto
tutto
sullo
stesso
lato
del
reticolo,
ha
l’obiettivo
di
passare
dall’altro
lato.
Si
dice
al
gruppo
che
le
corde
della
ragnatela
sono
percorse
dall’elettricità
per
cui
è
impossibile
toccarle;
qualora
ciò
accadesse,
il
gruppo
riceverebbe
una
penalità.
Ogni
volta
che
una
persona
passa
per
un
passaggio
della
ragnatela,
questo
diventa
interdetto,
ossia
non
può
più
essere
usato
per
l’attraversamento.
La
squadra
dovrà
quindi
decidere
e
gestire
come,
e
in
che
sequenza,
far
attraversare
la
rete
ai
diversi
membri
del
team.
Ad
esempio,
dato
che
le
persone
più
pesanti
saranno
difficili
da
sorreggere
durante
l’attraversamento,
il
team
dovrà
riservare
loro
i
passaggi
più
in
basso;
lo
stesso,
dovranno
prevedere
di
lasciare
un
passaggio
semplice
per
l’ultimo
che
passerà
la
rete.
Inoltre,
durante
l’attraversata
dovranno
bilanciare
la
squadra
in
modo
da
avere
una
parte
del
gruppo
da
entrambi
i
lati
del
muro
di
corde
in
modo,
ad
esempio
da
poter
far
passare
i
più
leggeri
per
i
passaggi
più
alti.
Questa
semplice
attività
insinua
immediatamente
il
bisogno
del
lavoro
in
gruppo,
la
risoluzione
dei
problemi,
evidenzia
l’importanza
di
una
comunicazione
efficace
(proprio
perché
il
team
deve
trovare
una
strategia
condivisa
per
attraversare
la
ragnatela),
e
promuove
il
superamento
delle
barriere
interpersonali
grazie
alla
forte
interazione
fisica,
di
contatto,
tra
i
partecipanti.
La
figura
cieca:
si
fanno
disporre
i
partecipanti
in
cerchio
e
vi
si
mette
nel
mezzo
una
corda;
il
gruppo
ha
il
compito
di
organizzarsi
in
modo
da
disporsi
lungo
la
corda
secondo
una
qualsiasi
forma
geometrica.
I
partecipanti
devono
inizialmente
decidere
la
figura
che
vogliono
rappresentare,
poi
prima
di
iniziare,
vengono
tutti
bendati.
Quando
pensano
di
aver
completato
la
figura
possono
posare
la
corda
per
terra,
si
tolgono
le
bende
e
guardano
il
risultato
del
loro
lavoro.
L’attività
pone
l’accento
sull’importanza
del
lavoro
di
team,
sulla
comunicazione
efficace
e
sulla
capacità
di
organizzare
e
gestire
le
operazioni;
si
sviluppa
inoltre
un
forte
senso
di
membership.
17
3.2
Campi
Outdoor
Preimpostati
­
COP
I
Capi
Preimpostati
possono
raggruppare
alcuni
diversi
tipi
di
esercitazioni
e,
come
le
OST,
hanno
l’obiettivo
di
stimolare
e
sviluppare
determinati
comportamenti
organizzativi.
Le
differenze
che
sussistono
tra
i
Campi
e
le
Small
Techniques
sono
che,
le
attività
svolte
nei
primi
hanno
una
durata
ben
superiore
ai
secondi,
in
genere
30‐60
minuti,
inoltre
i
campi
hanno
bisogno
di
attrezzature
complesse
e
strumentazioni
di
supporto
che
devono
essere
necessariamente
predisposte
in
anticipo.
Per
questo
motivo
spesso
sono
svolti
in
campi
attrezzati,
dove
le
strumentazioni
e
le
attrezzature
sono
già
disponibili.
Sono
attività
in
genere
più
sfidanti
rispetto
alle
OST:
introducono
o
rafforzano,
rispetto
a
queste
ultime,
il
concetto
che
per
apprendere
occorre
uscire
dalla
sicurezza
delle
proprie
abitudini
consolidate,
la
“zona
di
confort”
ed
entrare
in
un
terreno
nuovo
o
“challenge
zone”.
Il
limite
più
evidente
di
questa
metodologia
specifica
di
outdoor,
è
la
forte
standardizzazione,
la
quale,
se
da
un
lato
riduce
la
personalizzazione
limitando
la
gamma
degli
obiettivi
didattici
perseguibili,
di
converso
permette
un’elevata
replicabilità.
Lo
svolgimento
di
ogni
esercizio
è
seguito
da
uno
spazio
dedicato
alla
riflessione
su
quanto
accaduto
ed
alla
rielaborazione
delle
emozioni
che,
dato
il
tipo
di
esercitazioni,
spesso
possono
anche
essere
forti;
le
riflessioni
sono
seguite
dai
formatori
che
hanno
assistito
all’esercizio.
Gli
obiettivi
didattici
che
possono
essere
perseguiti
utilizzando
le
esercitazioni
in
COP
sono
riconducibili
ai
temi
di:
• Lavoro
di
gruppo;
• Processi
comunicativi;
• Relazioni
interpersonali;
• Problem
solving;
• Sviluppo
dell’attenzione
verso
l’altro.
• Leadership;
• Dare/ricevere
fiducia;
• Membership;
• Incoraggiare
e
sostenere
l’altro;
• Fiducia
in
se
stessi,
• Andare
oltre
i
limiti
apparenti;
• Raccogliere/gestire
le
sfide;
• Consapevolezza
di
poter
fare
di
più
del
previsto.
Alcuni
esempi
di
COP
Convergenti
basse:
i
partecipanti
sono
divisi
in
coppie,
ogni
coppia
si
arrampica
su
due
pali
e
parte
camminando
in
equilibrio
su
una
corda
tesa.
Per
aiutarsi
a
rimanere
in
equilibrio
possono
ancorarsi
ad
un’altra
corda
tesa
come
corrimano.
Le
funi
legate
ai
due
pali
dai
quali
partono
i
due
partecipanti,
sono
posizionate
a
circa
due
metri
d’altezza
e
costituiscono
le
due
braccia
di
una
grande
“Y”.
Dopo
aver
percorso
in
equilibrio
un
tratto
della
fune
da
soli,
si
incontrano
al
centro
della
“Y”.
Qui
devono
decidere
come
organizzarsi
per
percorrere
il
tratto
di
strada
che
manca,
rimanendo
tutti
e
due
in
equilibrio
fino
alla
piattaforma
di
arrivo.
Scoprono
così
come
riusciranno
a
muoversi
in
equilibrio
reciproco.
La
sicurezza
è
garantita
da
una
corda
sospesa
alla
quale
sono
ancorate
le
imbragature.
Convergenti
alte:
l’esercizio
è
lo
stesso
delle
convergenti
basse,
soltanto
che
in
questa
modalità
le
corde
sono
fissate
ad
un’altezza
di
circa
sette
metri
facendo
apparire
tutto
più
complesso.
18
Muro:
i
partecipanti
sono
divisi
in
piccoli
gruppi
da
tre
o
quattro
persone,
ogni
gruppo,
a
turno,
deve
superare
un
muro
di
legno
appositamente
costruito.
L’ostacolo
può
essere
alto
dai
due,
a
dieci
metri
ed
essere
ad
inclinazione
regolabile
così
da
rendere
più
o
meno
difficile
la
scalata.
Il
muro
è
sufficientemente
largo
da
permettere
una
scalata
in
parallelo
di
due
persone.
Se
il
muro
è
troppo
alto
rispetto
alla
statura
dei
partecipanti,
questi
possono
aiutarsi
con
degli
appositi
appigli
presenti
sulla
parete.
Una
variante
alla
scalate
prevede
che
la
coppia
che
approccia
all’ostacolo
sia
legata
così
da
doversi
coordinare
continuamente
per
ottimizzare
la
scelta
degli
appigli
presenti
sulla
parete.
Durante
l’esercizio
sarà
evidente
ai
partecipanti
che
nelle
loro
mani
ci
sono
gli
strumenti
per
aiutarsi
o
ostacolarsi.
Spetta
a
loro
decidere
come
comportarsi.
Il
palo:
è
un’esercitazione
utile
per
far
fare
l’esperienza
di
come
un
gruppo
può
favorire
l’espansione
delle
proprie
capacità
individuali
ed
il
superamento
dei
propri
limiti.
L’esercizio
consiste
nell’arrampicarsi
a
turno
su
di
un
palo
alto
circa
dieci
metri,
giunti
sulla
cima,
salgono
su
una
piccola
piattaforma
presente
sulla
sommità
del
palo.
A
questo
punto
devono
lanciarsi
giù,
attaccati
a
delle
corde
che
sono
rette
dei
trainer
e
dagli
altri
partecipanti.
La
sicurezza
è
garantita
dall’imbrago
e
dal
casco.
3.3
Outdoor
Training
­
OT
Per
Outdoor
Training
si
intendono
quei
programmi
di
formazione,
professionale
o
personale,
che
si
articolano
in
percorsi
strutturati
di
esperienze
coinvolgenti,
nelle
quali
le
persone
sono
completamente
immerse.
Queste
esperienze
utilizzano
il
supporto
di
situazioni
reali,
concrete
ed
emotivamente
dense,
in
sessioni
prolungate
nella
natura
e
mettono
i
partecipanti
di
fronte
a
problemi
nuovi
e
complessi
per
sviluppare
determinate
competenze
attraverso
la
capacità
di
apprendere
dall’esperienza.
Le
esperienze
di
OT
sono
più
lunghe
e
coinvolgenti
rispetto
alle
attività
di
small
techniques
o
di
campi
preimpostati.
Dopo
lo
svolgimento
di
ogni
attività
i
partecipanti
confrontano
i
propri
vissuti
fra
loro
e
con
i
feedback
forniti
dai
trainer,
che
ha
vissuto
e
osservato
l’esperienza.
Le
rielaborazioni
sono
più
lunghe
e
complesse
di
quelle
presentate
nelle
pagine
precedenti,
durano
mediamene
anche
due
ore;
sono
dei
veri
e
propri
debriefing
piuttosto
che
delle
rielaborazioni.
I
conduttori
di
questi
programmi
sono
dei
formatori
esperti
in
comportamento
organizzativo
che
generalmente
provengono
dalla
formazione
tradizionale
in
aula
ed
hanno
cercato
strumenti
innovativi
per
poter
incidere
meglio
sul
comportamento
dei
discenti;
per
questi
motivi
hanno
creato
ed
attivato
una
rete
di
relazioni
con
tecnici
di
altri
settori,
tradizionalmente
molto
lontani
dalla
formazione.
Gli
obiettivi
didattici
che
possono
essere
perseguiti
con
attività
ed
esperienze
di
OT
sono
principalmente:
• Attivazione
di
nuove
energie
individuali
e
di
gruppo;
• Sviluppo
dell’iniziativa,
dell’autonomia
e
della
fiducia
in
se
stessi;
• Aumento
della
fiducia
nel
gruppo,
della
solidarietà
e
della
collaborazione;
• Sviluppo
delle
competenze
di
leadership
e
del
senso
di
responsabilità;
• Scoperta
o
rafforzo
dell’importanza
dell’apporto
degli
altri,
del
loro
feedback,
della
loro
cooperazione,
della
coesione
di
gruppo;
• Sviluppo
del
coraggio
di
affrontare
cambiamenti,
situazioni
nuove
e
poco
conosciute;
• Attivazione
di
un
processo
di
riflessione
e
vaglio
delle
proprie
esperienze
e
dei
risultati
raggiunti;
• Accrescimento
dell’autoconsapevolezza
e
delle
capacità
di
leggere
il
proprio
comportamento;
19
• Sviluppo
delle
capacità
di
ascolto,
del
senso
di
osservazione
e
della
curiosità;
• Miglioramento
delle
competenza
di
comunicazione
e
relazionali;
• Aumento
della
tolleranza,
della
comprensione
e
della
capacità
di
gestione
della
diversità;
• Sviluppo
dell’intelligenza
emotiva.
Programma
di
un
percorso
di
OT
Un
programma
do
outdoor
training
dura,
in
genere,
dai
due
a
cinque
giorni,
la
partecipazione
è
full
time
e
spesso
sono
usate
anche
le
ore
serali
per
continuare
a
lavorare
al
fine
di
mantenere
la
sensazione
di
essere
immersi
un
contesto
totalizzante
e
non
in
un’esperienza
caratterizzata
da
eventi
spot,
saltuari.
Un
programma
minimo,
tipico,
di
un
percorso
di
OT
dura
tre
giorni,
per
un
totale
di
circa
24
ore
di
lavoro
ed
è
composto
da:
• Una
sessione
d’apertura;
• Tre
o
quattro
esperienze
di
outdoor,
ognuna
composta
dalle
sessioni
di
azione
rielaborazione
e
modelli
mentali;
• Una
sessione
di
chiusura.
Il
programma
inizia
generalmente
la
sera
del
primo
giorno
dopo
la
cena
d’accoglienza
con
una
sessione
plenaria
d‘apertura
in
cui
in
genere
sono
illustrate
e
condivise
le
finalità
del
programma
con
i
relativi
obiettivi
didattici;
è
inoltre
esposta
ed
illustrata
la
metodologia
di
OT
al
fine
che
i
discenti
ne
comprendano
l’utilità.
Si
presentano
lo
staff
di
conduzione
e
gli
aspetti
logistici;
a
questo
punto
è
possibile
richiedere
le
aspettative
dei
partecipanti,
non
sono
cosa
si
aspettano
dall’esperienza,
ma
anche
sensazioni,
pensieri
e
perplessità.
Nella
sessione
d’apertura
si
formano
i
gruppi
e
si
condivide
la
modalità
di
partecipazione
alle
esperienze
outdoor,
le
regole,
su
cosa
le
esperienze
andranno
a
lavorare
e
su
cosa
invece
no;
si
illustra
lo
strumento
del
debriefing
in
termini
di
valore,
modalità
ed
uso.
La
sessione
si
conclude
con
le
domande
dei
partecipanti.
Se
c’è
tempo
e
si
ritiene
utile,
è
possibile
eseguire
una
o
più
small
techniques
per
permettere
la
conoscenza
fra
i
membri,
attivare
la
reciproca
fiducia
ed
avviare
processi
di
autovalutazione.
Il
secondo
giorno
si
svolgono
le
esperienze
di
OT
secondo
la
modalità
programmata,
generalmente
si
prevede
un
compito
fisico
che
prevede
il
superamento
di
qualche
ostacolo
o
di
qualche
difficoltà
in
un
ambiente
naturale
sufficientemente
isolato.
Ogni
esperienza
prevede
una
parte
di
rielaborazione
ed
una
parte
di
estrazione
dei
modelli
mentali.
La
sequenza
delle
esperienze
viene
scelta
seguendo
una
progressione
di
difficoltà
fisico/emotivo/cognitivo
e
secondo
gli
obiettivi
didattici
da
raggiungere.
Le
esperienze
sono
svolte
in
gruppi
da
6‐10
persone
condotta
da
un
trainer
che
vive
con
loro
l’esperienza
e
ne
conduce
la
rielaborazione.
L’esperienza
si
chiude
con
una
plenaria
di
chiusura
nella
quale
si
procede
con
una
rielaborazione
globale
del
percorso
effettuato.
In
questa
fase
avviene
l’incrocio
tra
gli
obiettivi
e
le
aspettative
espresse
nella
plenaria
d’apertura
e
quanto
si
è
verificati
durante
i
diversi
momenti
dell’esperienza
di
OT.
Compito
dei
trainer
è
anche
quello
di
concludere
il
lavoro
facendo
emergere
dai
partecipanti,
punti
di
forza
ed
aree
di
miglioramento,
sia
per
ciò
che
riguarda
l’esperienza
formativa,
sia
l’organizzazione,
la
logistica,
e
le
soluzioni
adottate
dalla
committenza
in
accordo
con
trainer
e
formatori.
Alla
chiusura
dei
lavori
sono
comunicati
gli
altri
incontri
eventualmente
previsti
per
continuare
a
sviluppare
l’attività
formativa.
Le
esperienze
di
OT
20
Il
punto
centrale
di
ogni
percorso
di
OT
sono
le
esperienze
svolte,
si
parla
infatti
di
esperienze
e
non
di
esercitazioni
o
esercizi
come
nelle
OST
o
nei
COP;
questo
per
sottolineare
il
fatto
che
le
attività
non
sono
giochi,
ma
esperienze
di
vita
“normale”.
Quello
che
le
esperienze
di
OT
sono
in
grado
di
fare,
è
abbattere
“l’effetto
bordo”.
Con
questo
termine
si
intende
il
distacco
consapevole
tra
il
soggetto
osservatore
e,
ad
esempio,
la
realtà
vista
attraverso
lo
schermo
di
un
televisore;
lo
spettatore
sa,
più
o
meno
consciamente,
che
ciò
che
sta
vedendo
è
lontano,
è
finzione.
Nelle
esperienze
OT,
i
partecipanti
non
incontrano
nessun
confine
tra
ciò
che
è
la
vita
reale
e
un’attività,
una
prova,
appositamente
costruita
per
fini
didattici.
La
dimensione
dell’aula
scompare
insieme
con
lo
spazio
fuori
dall’aula,
quei
momenti
di
vita
reale
che
permettono
al
discente
di
tornare
alla
normalità.
Perde
di
rilevanza
il
limite
temporale
scandito
ad
esempio
dai
coffee
break,
dove
questo
si
pone
come
una
cesura
temporanea
tra
la
formazione
e
la
non
formazione.
Oltre
ad
un
adeguato
ambiente
fisico,
è
importante,
promuovere
un
favorevole
ambiente
psicologico
costruendo
un
clima
di
coinvolgimento,
di
apertura
e
di
fiducia
tale
da
consentire
una
buona
sintonia
e
un’efficiente
comunicazione
fra
tutti
i
partecipanti.
Una
variabile
da
gestire
delicatamente
è
il
ritmo,
questo
deve
essere
intenso
e
ricco
di
stimoli,
una
serie
continua,
ma
non
stressante,
di
proposte
che
coinvolgano
i
partecipanti
nell’esperienza
di
OT
a
tutti
i
livelli:
fisico,
emotivo
ed
intellettuale.
I
ruoli
in
gioco
La
realizzazione
di
un
programma
OT
prevede
la
mobilitazione
di
personale
spesso
numeroso
e
fortemente
eterogeneo,
il
quale,
richiede
una
preparazione
ed
una
formazione
specifica
adeguatamente
programmata.
La
complessità
cresce
all’aumentare
del
numero
dei
partecipanti
all’esperienza.
Ipotizzando
un
progetto
di
OT
per
150
partecipanti
è
possibili
immaginare
lo
staff
che
sarà
necessario
mettere
in
campo
per
garantire
la
buona
riuscita
del
servizio
ed
un’elevata
qualità.
OT
Project
Manager:
ha
la
responsabilità
complessiva
della
riuscita
del
programma
di
OT.
Più
è
grande
il
progetto,
maggiore
sarà
la
dimensione
dello
staff
necessario
a
gestirlo,
maggiori
saranno
le
responsabilità,
quindi
il
potere,
di
questa
figura.
Il
Project
Manager
gestisce
i
rapporti
con
la
committenza,
con
lo
staff
di
tecnici
e
con
l’OT
Operation
Manager;
segue
globalmente
lo
svolgimento
del
programma,
dedicando
attenzione
a
tutti
gli
aspetti
del
progetto,
didattica,
logistica,
organizzazione
e
percorso
dei
partecipanti.
Outdoor
Trainer:
è
il
responsabile
della
conduzione
delle
esperienze
di
OT
e
costituisce
il
punto
di
riferimento
per
il
gruppo
che
gli
è
stato
affidato;
si
trova
ad
operare
a
contatto
ed
in
collaborazione
con
i
tecnici
per
garantire
la
sicurezza
nelle
esperienze
che
richiedono
maggio
presidio;
riceve
dal
Project
Manager
le
indicazioni
e
le
attrezzature
necessarie
allo
svolgimento
delle
attività;
è
il
responsabile
del
materiale
a
lui
consegnato.
Tra
gli
aspetti
critici
relativi
a
questa
figura
professionale
c’è
la
gestione
delle
relazioni
con
i
tecnici
di
OT.
Compito
del
Trainer
è
gestire
e
dividere
il
lavoro
con
i
tecnici
evitando
il
conflitto.
Relativamente
alla
logistica
dell’esperienza
OT,
il
Trainer
ha
il
compito
di
seguire
la
temporizzazione
prevista
per
l’esperienza
a
lui
affidata
in
modo
da
raccordarsi
senza
ritardi
con
i
lavori
degli
altri
gruppi.
Il
Trainer
ha
inoltre
il
compito
di
prestare
la
massima
attenzione
alle
esigenze
personali
dei
singoli
partecipanti
senza
perdere
però
la
prospettiva
del
gruppo,
gestire
gli
imprevisti
dei
gruppi,
ed
evitare
di
essere
distratti
dalla
committenza
che
cerca
di
carpire
informazioni
prima
del
termine
delle
attività.
OT
Operation
Manager:
ha
la
responsabilità
di
tutti
gli
aspetti
organizzativi
del
programma,
ha
un
rapporto
privilegiato
e
continuo
con
il
Project
Manager
e
supporta
il
lavoro
di
tutti
i
trainer
e
del
tecnici.
21
Tecnico
di
OT:
qualora
il
trainer
non
abbia
le
capacità
fisiche,
le
conoscenze,
specifiche
o
le
abilità
applicative
per
supportare
anche
tecnicamente
lo
svolgimento
delle
esperienze
di
outdoor,
diventa
indispensabile
la
presenza
di
uno
o
più
tecnici.
Il
tecnico
è
quindi
responsabile
della
sicurezza
e
della
progettazione
dell’esperienza
di
cui
è
il
gestore
tecnico.
Partecipanti
all’OT:
hanno
la
responsabilità
della
propria
sicurezza
e
del
proprio
apprendimento.
Operano
all’interno
di
gruppi
di
5‐10
persone
con
le
quali
interagiscono
profondamente,
sono
chiamati
a
svolgere
un
ruolo
di
attori
principali
nell’esperienza
e
nelle
successive
rielaborazioni.
Committenza.
Ha
la
responsabilità
della
definizione
delle
finalità
dell’intervento
di
OT
e
del
corretto
posizionamento
degli
obiettivi
formativi
da
raggiungere.
Stabilisce
con
il
Project
Manager
il
proprio
livello
di
coinvolgimento
e
dei
sistemi
di
feedback
sui
risultati
attesi.
Essendo
il
committente
promotore
delle
attività
formative,
sarà
innanzitutto
sua
la
responsabilità
in
merito
alla
qualità
del
servizio
reperito.
3.4
Outdoor
Management
Training
­
OMT
L’Outdoor
Management
Training
rappresenta
l’evoluzione
naturale
dell’OT,
in
cui
si
è
cercato
di
sfruttare
al
massimo
il
potenziale
di
apprendimento
che
questa
metodologia
consente,
innestandogli
una
strumentazione
sofisticata
delle
più
recenti
tecniche
della
formazione
manageriale
mirata
allo
sviluppo
delle
competenze
e
dei
comportamenti
organizzativi.
Questa
metodologia
è
stata
usata
la
prima
volta
nel
1996
per
definire
un
processo
formativo
molto
ambizioso
e
complesso
realizzato
da
una
multinazionale.
Il
progetto
ebbe
molto
successo
e
da
allora
è
stato
usato
per
descrivere
ed
indicare
le
applicazioni
evolute
dell’OT.
Quanto
esposto
sul
paragrafo
relativo
all’OT
resta
perfettamente
valido
in
merito
all’OMT,
soltanto
che
in
questo
caso
deve
essere
aggiunta
la
complessità
organizzativa
ed
un
elevato
livello
di
personalizzazione.
Questo
fa
si
che
l’OMT
diventi
un
vero
e
proprio
modello
per
processi
formativi
con
possibili
elementi
di
originalità
rispetto
al
ciclo
classico
di
formazione
tradizionale.
Le
fasi
del
processo
di
OMT
• Preanalisi;
• Progettazione;
• Outdoor;
• Elaborazione
dei
risultati;
• Workshop
di
follow
up;
• Piani
individuali
di
sviluppo.
Preanalisi:
la
fase
di
preanalisi
inizia
con
la
costituzione
di
un
Comitato
di
Progetto
che
riunisce
la
committenza
e
la
consulenza.
Questo
team
avrà
il
compito
innanzitutto
di
mettere
a
fuoco
le
competenze
(comportamenti
target)
che
si
vogliono
sviluppare
con
l’intervento
formativo
e
poi
di
definirle
meglio
attraverso
l’identificazione
dei
relativi
comportamenti
sentinella.
Dopo
aver
fissato
e
condiviso
con
l’azienda
gli
obiettivi
precisi
di
apprendimento
su
cui
si
vuole
lavorare,
si
definisce
il
volume
della
popolazione
che
prenderà
parte
all’iniziativa,
e
si
individuano
le
possibili
location.
Progettazione:
sono
recepiti
gli
input
dalla
fase
precedente,
cioè:
• I
risultati
dei
lavori
del
Comitato
di
Progetto;
• La
lista
delle
competenze
e
dei
comportamenti
target;
• Le
possibili
location
identificate.
22
In
base
a
questi
elementi
e
tenendo
conto
del
portfolio
di
esperienze
accumulate
dal
formatore
si
sviluppa
il
processo
di
progettazione.
Si
tratta
effettivamente
di
un
processo,
in
quanto,
la
progettazione
si
costituisce
di
una
serie
di
attività
sequenziali
che
si
susseguono
concatenandosi.
Il
primo
livello
di
progettazione
riguarda
l’identificazione
delle
possibili
tecniche
grezze
che
potrebbero
permettere
lo
sviluppo
delle
competenze
target
e
si
inizia
a
scegliere
quelle
che
meglio
si
prestano
allo
scopo;
inevitabilmente
questa
valutazione
si
fonda
sull’esperienza
dei
formatori
progettisti.
A
questo
punto
può
iniziare
la
progettazione
specifica
di
ogni
esperienza,
mirata
e
centrata
sugli
obiettivi
didattici
specifici
che
per
ogni
esperienza
sono
stati
identificati
attraverso
la
matrice
di
correlazione.
La
progettazione
delle
attività
segue
un
processo
specifico
e
dettagliato;
si
comincia
considerando
da
un
lato
gli
obiettivi
didattici
da
raggiungere
e
dall’altro
la
tecnica
grezza
individuata
dai
formatori
come
base
di
partenza.
Questo
processo
è
definito
“vestizione”
dell’esperienza
e
permette
di
calibrare
il
percorso
formativo
ad
hoc
per
ogni
cliente,
realizzando
un
adeguato
livello
di
personalizzazione
degli
obiettivi
didattici
raggiungibili.
Durante
il
processo
di
vestizione
dell’esperienza
si
cerca
di
arricchire
la
tecnica
grezza
scelta
facendola
diventare
un’esperienza
completa
al
fine
di
rendere
massima
la
possibilità
di
far
emergere,
agire
e
sviluppare
i
comportamenti
target
così
come
concordati
con
il
committente.
La
progettazione
di
dettaglio
prosegue
con
la
stesura
della
struttura
completa
del
programma
di
outdoor.
Qui
dovranno
essere
definite
le
metafore
che
saranno
utilizzate,
la
scaletta
della
sessione
di
apertura
e
di
chiusura
del
programma,
le
modalità
di
selezione
dei
trainer
in
funzione
delle
attività
da
realizzare,
le
istruzioni
da
fornirgli,
la
temporizzazione
complessiva
del
percorso
e
la
scelta
della
location
adatta.
Una
volta
pianificato
sulla
carta
tutto
il
necessario
per
realizzare
l’attività,
subentra
la
fase
della
preparazione,
l’OT
Operation
Manager
è
il
responsabile
di
questo
delicato
passaggio
della
progettazione.
Dovranno
essere
reperiti
ed
stoccati
tutti
materiali
occorrenti,
tenendo
conto
delle
specifiche
tecniche
e
di
sicurezza
richieste
dall’esperienza.
Acquistare
il
materiale
che
non
si
possiede
e
verificare
lo
stato
di
ciò
che
fa
parte
del
bagaglio
di
strumentazioni
a
disposizione;
verificarne
la
funzionalità
e
la
qualità.
Dovrà
essere
svolto
un
sopralluogo
della
location
prescelta
per
verificare
che
sia
effettivamente
compatibile
con
le
esperienze
progettate
in
modo
da
poterle
adattarle
anticipatamente
e
non
trovarsi
di
fronte
ad
un
imprevisto.
A
questo
punto
è
possibile
contattare
trainer
e
tecnici
e
realizzare
con
loro
una
riunione
generale,
durante
quest’incontro
sarà
effettuata
una
prova
generale
delle
attività
dove
i
trainer
assumono
il
ruolo
dei
partecipanti
ed
i
tecnici
svolgono
la
loro
funzione.
Facendo
esperienza
diretta
dell’esercizio,
il
trainer
è
in
grado,
di
individuare
eventuali
situazioni
di
pericolo
che
potrebbero
insorgere,
di
testare
le
capacità
dei
tecnici
di
gestire
eventuali
situazione
complesse,
di
prevedere
quali
saranno
i
momenti
dell’esperienza
che
dovranno
essere
osservati
con
maggior
attenzione
in
previsione
della
rielaborazione.
Prima
di
poter
passare
alla
fase
successiva
è
necessario
preparare
il
materiale
didattico
che
fornirà
supporto
ai
formatori
ed
ai
trainer
durante
l’outdoor.
Ad
esempio
dovranno
essere
preparate
le
schede
di
valutazione,
i
questionari
e
tutto
il
materiale
per
recepire
le
informazioni
dai
partecipanti
al
fine
di
poterle
poi
lavorare
al
termine
dell’esperienza.
Se
necessario,
si
calibra
il
programma
ed
il
materiale
sulle
eventuali
nuove
necessità
o
sopravvenuti
vincoli.
Outdoor:
la
fase
della
realizzazione
dell’esperienza
corrisponde
a
quanto
già
detto
relativamente
all’Outdoor
Training:
ciò
che
deve
essere
invece
approfondita,
è
la
gestione
di
tutte
le
attività
di
tipo
logistico,
organizzativo
e
di
animazione
e
conduzione
dello
staff.
23
Le
giornate
di
outdoor
sono
caratterizzate
da
pochi
e
brevi
momenti
di
pausa,
dove
non
si
svolge
alcuna
attività
con
i
partecipanti,
momenti
che
di
riposo
che
però
non
riguardano
i
trainer
e
lo
staff
di
supporto
all’outdoor.
I
momenti
in
cui
i
partecipanti
usufruiscono
delle
pause,
le
serate
o
la
mattina
prima
dell’apertura,
sono
dedicati
alle
riunioni
dello
staff
di
conduzione.
Gli
incontri
sono
fondamentali
per
gestire
le
dinamiche
complessive
di
tutto
il
gruppo,
per
discutere
e
prevedere
eventuali
imprevisti,
per
migliorare
gli
aspetti
organizzativi
e
la
sicurezza;
iniziare
a
focalizzare
e
personalizzare
le
osservazioni
e
gli
input
da
fornire
ai
singoli
partecipanti.
Da
questa
breve
descrizione
emerge
come,
caratteristica
del
trainer
è
proprio
l’elevata
resistenza
allo
stress
ed
una
buona
resistenza
fisica.
È
necessario
sottolineare
che
la
buona
riuscita
di
un’esperienza
di
OMT
è
fortemente
influenzata,
oltre
che
dalle
dinamiche
interne
dei
gruppi
e
dalle
caratteristiche
individuali,
dalla
metafora
scelta
per
la
specifica
esperienza
e
da
come
questa
è
presentata.
Caratteristica
fondamentale
della
metafora
è
che
per
essere
efficace
deve
essere
isomorfa
per
i
partecipanti,
deve
essere
cioè
di
struttura
simile
alle
situazioni
della
vita
lavorativa
reale,
ma
applicata
ad
un
oggetto
diverso.
Ad
esempio,
un’attività
di
outdoor
potrebbe
essere
richiesto
ai
partecipanti
di
decidere
l’organizzazione
dei
ruoli
dei
membri
dei
singoli
gruppi.
Questa
situazione
è
isomorfa
a
quella
della
prima
riunione
di
un
team
interfunzionale
che
deve
iniziare
una
nuova
commessa.
Elaborazione
dei
risultati:
tutto
il
materiale
raccolto
durante
lo
svolgimento
dell’outdoor
è
rielaborato
e
utilizzato
per
preparare
il
workshop
di
approfondimento
e
sintesi
del
percorso,
sessione
che
avverrà
a
1‐3
mesi
di
distanza.
Durante
la
rielaborazione
dei
risultati,
i
partecipanti
prendono
visione
del
materiale
video
ed
audio
registrato
durante
l’esperienza
al
fine
di
ripercorrere
tutte
le
tappe,
sia
logiche
che
emotive,
della
vita
del
gruppo
per
di
poter
estrarre
una
selezione
di
frammenti
da
analizzare
con
maggior
attenzione.
Questa
astrazione
e
riduzione
del
materiale
è
necessaria
per
poter
sottolineare
le
evoluzioni
già
raggiunte
e
le
questioni
ancora
aperte.
Spetta
ai
formatori
elaborare
tutti
i
moduli
di
raccolta
dei
feedback
compilati
dai
trainer
e
dai
partecipanti
dopo
ogni
esperienza.
Le
informazioni
dedotte
dai
formatori
in
base
al
materiale
raccolto
sono
sistematizzate
ed
inviate
ai
singoli
partecipanti
con
una
lettera,
riservata
e
personale,
al
fine
di
indurre
un
ulteriore
spunto
di
riflessione
sulle
esperienze
vissute
in
preparazione
del
workshop
di
follow
up.
Analogamente
al
lavoro
di
raccolta
ed
analisi
dei
feedback
messo
in
atto
per
ogni
singolo
partecipante,
è
possibile
improntare
un
sistema
simile
per
quanto
riguarda
i
gruppi
ed
i
sottogruppi
formatisi
durante
l’esperienza.
I
dati
così
raccolti
permettono
di
definire
un
profilo
caratteristico
del
gruppo
arricchendo
anche
le
informazioni
sui
singoli
membri.
Risulta
possibile,
a
questo
punto,
conoscere
quali
siano
stati
i
comportamenti
più
agiti,
sopra
la
media,
e
quelli
meno
agiti,
sotto
la
media.
Sulla
base
di
ciò,
individuare
le
competenze
più
sostenute
dai
comportamenti,
ossia
i
punti
di
forza,
e
quelle
meno
segnalate,
i
punti
deboli,
o
aree
di
miglioramento.
Saranno
visibili
in
questo
modo
i
comportamenti
ritenuti
critici.
Workshop
di
follow
up:
il
percorso
di
OMT
termina
con
una
riunione
d’aula
che
si
tiene
a
distanza
di
1‐3
mesi
dall’esperienza.
Durante
le
sessioni
di
workshop
viene
riesaminato
il
materiale
prodotto
durante
l’esperienza
di
outdoor,
si
procede
con
dibattiti
di
confronto
tra
i
partecipanti
supportando
la
discussione
con
la
rivisitazione
del
materiale
audio/video
registrato
durante
le
esercitazioni;
tutto
ciò
ha
il
fine
di
consolidare
e
capitalizzare,
si
auspica
definitivamente,
gli
apprendimenti
ottenuti
sul
campo.
I
formatori,
se
lo
ritengono
utile,
possono
stimolare
ulteriormente
i
presenti
somministrando
ad
esempio
questionari
o
test
per
indurre
ulteriori
riflessioni
in
modo
da
completare
la
riflessione
sull’efficacia
dei
propri
stili
e
modalità
di
apprendimento.
24
La
rivisitazione
dei
filmati,
la
discussione
a
mente
fredda
sugli
apprendimenti
acquisiti,
l’analisi
dell’esperienza
e
dei
feedback
sui
comportamenti
target
agiti
permette
di
poter
avviare
una
rielaborazione
profonda
su
quanto
verificatosi
durante
l’OMT.
Tornare
a
rielaborare
l’esperienza
passata
permette
ai
formatori
di
condurre
la
discussione
in
modo
da
presentare
più
approfonditamente
le
competenze
ed
i
comportamenti
target
con
il
riflesso
che
questi
hanno
sulla
vita
professionale
e
quindi
personale
dei
gruppi
coinvolti.
Il
workshop
serve
inoltre
per
far
emergere
le
difficoltà
esistenti
in
merito
all’applicazione
reale
dell’apprendimento
e
le
possibilità
di
superamento
di
queste
difficoltà.
L’apertura
del
workshop
avviene
chiedendo
ai
partecipanti
di
far
riemergere
ricordi,
sensazioni,
emozioni,
osservazioni
e
riflessioni
sul
percorso
fatto
nell’OMT
e
sul
successivo
ritorno
in
azienda.
Dopo
aver
riattivato
la
memoria
e
le
sensazioni
avvertite
durante
l’esperienza,
sono
presentati
e
discussi
approfonditamente
i
risultati
delle
rielaborazioni
dei
feedback,
da
ciò
si
elabora
ed
estrapola
il
profilo
caratteristico
del
gruppo
che
ha
preso
parte
all’outdoor.
Partendo
dai
comportamenti
messi
in
luce
dal
profilo,
si
cercano
di
individuare
le
situazioni
affini
alla
realtà
aziendale,
mettendone
in
luce
i
punti
di
maggiore
criticità.
In
questo
modo
si
delinea
una
lista
dei
principali
nodi
su
cui
lavorare
e
delle
attività
necessarie
per
superarli.
A
questo
punto,
dopo
aver
lavorato
sulle
dinamiche
emerse
a
livello
di
gruppo,
ci
si
concentra
sui
singoli
partecipanti;
possono
essere
forniti,
a
volte,
strumenti
di
auto
posizionamento
in
modo
da
poter
guidare
ogni
partecipante
in
una
riflessione
personale
sui
propri
stili
di
apprendimento
al
fine
di
connettere
i
comportamenti
di
gruppo
con
quelli
individuali.
Da
questo
lavoro
preliminare
emerge
una
sintesi
che
può
evolversi
in
un
Piano
Individuale
di
Sviluppo
di
una
Competenza,
con
il
quale
il
soggetto
progetta
un
suo
personale
percorso
di
ancoraggio
degli
apprendimenti
avvenuti
e
di
miglioramento
di
alcuni
propri
comportamenti.
Piani
Individuali
di
Sviluppo
di
una
Competenza:
i
partecipanti
all’outdoor
recepiscono
i
feedback,
le
osservazioni
dei
colleghi
e
dei
formatori,
gli
input
e
gli
strumenti
aggiuntivi
presentati
durante
le
sessioni
di
follow
up
e
ne
traggono
le
basi
per
costituire
un
personale
piano
di
sviluppo
delle
competenze.
Per
poter
progettare
un
proprio
piano
di
sviluppo,
è
necessaria
una
fase
di
diagnosi
del
proprio
profilo
al
fine
di
individuare
i
propri
punti
di
forza
e
le
aree
di
miglioramento
che
si
relazionano
che
le
competenze
target
individuate
dal
Comitato
di
Progetto.
Ciascun
soggetto
deve
individuare
i
comportamenti
target
sui
quali
intende
lavorare
e
definire
un
corrispondente
piano
d’azione
stabilendo
1‐3
obiettivi
di
miglioramento,
le
relative
azioni
concrete
necessarie
per
raggiungerli
e
la
tempistica
con
la
quale
prevede
di
procedere.
L’output
così
realizzato
deve
essere
condiviso
ed
analizzato
con
i
propri
colleghi
i
quali
assumono
quasi
i
ruoli
di
consulenti,
committenti,
giudici
e
facilitatori
di
quest’opera
di
accrescimento
personale.
La
collaborazione
delle
persone
con
le
quali
si
condivide
l’attività
professionale
è
fondamentale
perché
il
soggetto
che
intraprende
un
Piano
di
Sviluppo
Individuale
delle
Competenze
deve
poter
trovare
nel
proprio
ambiente
e
nei
propri
colleghi
le
condizioni
in
cui
l’apprendimento
è
possibile.
Il
contesto
organizzativo
sarà
l’ambiente
dove
il
discente
riporterà
la
propria
esperienza,
se
questo
non
si
ritiene
l’operato
del
soggetto
utile
per
la
persona
e
per
l’azienda,
non
sarà
possibile
applicarlo
e
la
formazione
risulterà
fallimentare.
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