Carl Orff – Carmina Burana - Associazione Amici della Musica

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Carl Orff – Carmina Burana - Associazione Amici della Musica
Carl Orff – Carmina Burana
«Se debbo venire etichettato in qualche modo, avrei un suggerimento: si dica che Orff si è occupato
in maniera particolare della parola». Il significato dell’intera produzione orffiana potrebbe essere
condensato in questa paradigmatica dichiarazione rilasciata nel 1970 dal musicista tedesco (18951982) al musicologo Wolfgang Seifert. Di certo i suoi Carmina Burana, il lavoro che di gran lunga
più degli altri lo ha reso famoso – diciamo pure popolare – nel mondo occidentale, possono leggersi
come dimostrazione concreta di quell’affermazione. Dalla parola innanzi tutto, dalla suggestione
che essa ha prodotto sul compositore, è scaturito l’impulso che ha ridato nuova vitalità sonora ai
versi raccolti nel cosiddetto Codex Buranus, codice miniato del sec. XIII proveniente dall’antica
Bura Sancti Benedicti e contenente circa trecento componimenti poetici, perlopiù in latino
medioevale (ma vi compaiono anche testi in antico tedesco, in provenzale e in una mescolanza dei
due), straordinario documento della poesia goliardica del secolo precedente.
A tradurre in atto creativo l’interesse di Orff per questo imponente corpus poetico contribuì in
maniera decisiva l’edizione del codice curata nel 1847 dal filologo Johann Andeas Schmeller, di cui
il musicista ricevette una copia, restandone come folgorato, il Giovedì Santo del 1934, quando
aveva già alle spalle la composizione del Sirmio – Tria Catulli Carmina (1931) e coltivava da tempo
un crescente interesse per le lingue antiche. La ricorrenza religiosa – è bene precisare – non è da
interpretarsi come un indicatore di direzione dei motivi ispiratori che hanno portato alla nascita dei
Carmina Burana; questi motivi rimandano viceversa a una dimensione scopertamente profana (pur
senza sottovalutare le frequenti contaminazioni tra sacro e profano riscontrabili all’epoca dei clerici
vagantes) in linea piuttosto, forse non casualmente, con certe manifestazioni di marca
paganeggiante ricorrenti nella cultura germanica durante gli anni del nazionalsocialismo. Il regime,
a dire il vero, non mostrò di approvare i richiami di natura erotica contenuti nel lavoro quando
questo venne eseguito la prima volta alla Staatsoper di Francoforte nel 1937, a un anno dalla sua
stesura, sotto forma di «cantata scenica». Si trattava in ogni caso del primo passo compiuto dal
musicista nel campo del teatro e fu un esordio, stando alle cronache, fortunatissimo, che equivalse
per l’autore a una sorta di rinascita artistica, tanto da fargli scrivere al suo editore: «Può mandare al
macero tutto quanto ho scritto sinora. La mia produzione ha inizio con i Carmina Burana».
Si è detto del ruolo fondamentale assegnato alla parola, nel nostro caso soprattutto a quella latina: fu
in particolare leggendo alcuni esametri leonini contenuti nel codice suddetto che Orff rimase
affascinato «dalla trascinante forza ritmica, dalla ricchezza immaginifica, dalla musicalità, ricca di
vocali, e dalla stringatezza» del latino, caratteri che, a dispetto dello status di lingua morta conferito
all’idioma che fu di Cicerone e di Virgilio, si sono rivelati per lui portatori di straordinaria forza
vitale, una forza tale da tradursi, con la complicità del canto e dell’apparato strumentale, in
autentico potenziale scenico, anche se non strettamente drammatico. Non c’è in effetti una vera e
propria trama a legare tra loro la ventina di brani scelti dai trecento del corpus e distribuiti dal
musicista lungo il prologo e le tre parti - quasi elementi di un polittico - in cui si articola la cantata
(sottotitolata Cantiones profanae cantoribus et choris cantandae comitantibus instrumentis atque
imaginibus magicis). Sono pagine attraverso le quali si dipana la matassa della vita, un excursus
sulle gioie concesse all’umanità: il godimento della natura al suo risveglio primaverile (tema della
prima parte), il piacere della tavola e del vino (argomento della seconda, che racchiude il grande
inno corale «In taberna quando sumus»), l’abbandono libero e gioioso alla sensualità e alle dolcezze
amorose (al centro della terza e ultima). Significativamente, però, questo excursus di impronta
edonistica viene inserito dall’autore in una cornice che ha come protagonista la fortuna e la sua
instabilità. Quasi a voler suggerire una struttura circolare, infatti, i Carmina Burana si aprono e si
chiudono con la celebrazione, in un brano corale celeberrimo, della «Fortuna imperatrix mundi», di
colei che può indistintamente dare o togliere, può elevare il debole e far capitolare il potente: un
memento mori a metà tra il carpe diem oraziano e la meditazione biblica sulla vanità e la caducità
del mondo.
Per quanto riguarda le soluzioni adottate da Orff nel far rivivere le suggestioni promananti dalla
poesia goliardica medievale, è stato rilevato da più parti il tentativo di rinnovare tecniche e
linguaggi senza tuttavia spingersi oltre i confini di una moderata modernità. Sergio Sablich, in
particolare, ha felicemente individuato l’esito di questa operazione nella «rifondazione di un
linguaggio barbarico e primitivo, eloquente e immediatamente comunicativo, nel quale la forza
elementare del ritmo e la continua segmentazione del canto, sullo sfondo di una modalità ora
arcaica ora popolare […] divengono invenzione prodigiosamente novecentesca, insieme giocosa e
leggendaria, stupefatta e terrificante».
Marco GRATTAROLA
Supervisione: Gustavo MALVEZZI

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