amore e disincanto - Cineforum del Circolo

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amore e disincanto - Cineforum del Circolo
i quaderni del cineforum
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MAX OPHÜLS
amore e disincanto
DI
GIORGIO DE GIORGIO
CIRCOLO FAMILIARE DI UNITÀ PROLETARIA
MAX OPHÜLS
amore e disincanto
DI
G IORGIO D E G IORGIO
marzo - aprile 2013
CIRCOLO FAMILIARE DI UNITÀ PROLETARIA
viale Monza, 140 - Milano
www.cineforumdelcircolo.it
[email protected]
INTRODUZIONE
M
U N MAESTRO DA RICORDARE
ax Ophüls è un grande regista che molti cineasti hanno eletto a loro maestro. Però quasi dimenticato.
Il rilancio della sua opera, che si sviluppa dagli anni Trenta fino alla metà dei Cinquanta, venne propiziato in Francia da François Truffaut che così scriveva a conclusione di un articolo concepito al
momento della scomparsa: “Max Ophüls era per alcuni di noi il miglior cineasta francese assieme a Jean Renoir”. In questo elogio funebre destinato a diventare celebre, quel “noi” prolungava come una sorta di eco la
lettera aperta indirizzata a un quotidiano francese in difesa dello scorticato ultimo film di Ophüls, Lola Montès,
da altri grandi: Jean Cocteau, Roberto Rossellini, Jacques Becker, Christian-Jacque, Jacques Tati, Pierre Kast,
Alexandr Astruc. Potrebbe bastare questo elenco a sottolineare il rilievo di Ophüls nella storia del cinema. Al
giudizio proposto da Truffaut, ne seguirono molti altri da parte della critica che vide nella sua opera echi, segni,
tracce che si ritrovano in quelle di Welles, Fellini, Visconti, Kubrick. Quest’ultimo ha perfino dichiarato: “Mi
sono molto ispirato al lavoro di Max Ophüls. Ho sempre adorato i suoi stravaganti movimenti di una cinepresa
che possedeva il segreto di avanzare senza posa in quelle scenografie da labirinto, accompagnata da una musica
meravigliosa. Io credo che Max Ophüls non abbia mai ricevuto gli elogi che meritava”. Eppure, nonostante
questa dichiarata influenza esercitata e riconosciuta da un gran numero di autori e critici, Ophüls e i suoi film
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Max Ophüls
sono a tutt’oggi ancora poco conosciuti. E, in Italia, non sono riuscite a sottrarli a questa dimenticanza tre importanti iniziative pubbliche: la retrospettiva di Monticelli Terme del 1982 curata da Giovanni Spagnoletti,
l’ampio omaggio reso a Firenze nel 1993 da AldoTassone nell’ambito di “France Cinéma” e la rassegna televisiva curata un anno dopo da Vieri Razzini per Rai Tre. Come si vede ben poca cosa per non occuparsene ai
giorni nostri…
L A NOSTRA RASSEGNA
Per la nostra attività, chissà se questa rassegna non incominciò a nascere addirittura prima, quando, imbattendomi in uno scritto su La Stampa di Ugo Buzzolan avevo letto: “Forse aver riproposto I gioielli di Madame
de… isolato è stato un errore: si poteva, con le pellicole che abbiamo nominato, formare un bel ciclo dal quale
il bizzarro talento di Ophüls avrebbe avuto una completa e convincente illustrazione. Sparato fuori così bruscamente, il regista può aver dato l’idea a chi non lo conosceva di un autore in ritardo di parecchi lustri,
malato di preziosa calligrafia”. Allora capivo benissimo come l’idea fosse irrealizzabile. I film che avrebbero
potuto rappresentare il ciclo immaginato da Buzzolan non erano per nulla disponibili a livello individuale. Col
tempo la situazione è cambiata. Ma se anche ritrovati ad uno ad uno i cinque titoli della presente rassegna, la
stessa auspicata dal critico Ugo Buzzolan nel 1973, forse non sarebbe successo nulla se non mi fosse capitato
di incappare di recente in un ritratto tra i tantissimi che decorano le belle sale del castello di Luigi I re di Baviera
a Monaco. La didascalia era chiara. Mi trovavo davanti alle effigie di Lola Montès, l’‘eroina’ dell’omonimo
ultimo film di Ophüls. Ero davanti, dunque, alla materializzazione di una storia che al cinema poteva sembrare
irreale. E al ricordo del giudizio premonitore di Ugo Buzzolan. Ecco allora il materializzarsi della giusta idea
suggerita quasi quarant’anni fa.
I GRANDI TEMI DI M AX O PHÜLS
Ophüls, uno dei più colti, cosmopoliti, sofisticati e brillanti ma anche amari e malinconici registi della storia
del cinema, in grado di nascondere nelle sue opere i sentimenti più trasgressivi dentro il flusso narrativo tradizionale, unendo i generi classici (principalmente melodramma e commedia) con la sperimentazione più moderna e la ricerca di effetti di vera e propria avanguardia. Il suo cinema, complesso e ricco di indimenticabili
figure femminili (soprattutto quelle della nostra rassegna), si presenta anche come riflessione sulla messa in
scena e sulla finzione, le quali assumono sovente un significato molto più vasto, fino a divenire vere e proprie
metafore del mondo e della vita stessa. Soprattutto dal suo ritorno a Parigi nel 1950, Ophüls potè finalmente
realizzare in piena libertà i suoi ultimi film, tutti e densi di quelle quattro caratteristiche: pessimismo ironico,
nostalgia per il passato, sentimentalismo, scenografia barocca. Il sentimentalismo in particolare scaturiva dal
contrasto fra l’amore e la morte. La scenografia avvertiva influssi (teatrali) espressionisti e (pittorici) impressionisti. Il pessimismo di Ophüls, legato alla metafora del passato, è dato dalla ineluttabilità della morte. Questi
Lola Montès, ritratto di Joseph Karl Stieler
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quattro elementi si combinano in un unico “meccanismo”, un romanticismo decadente che esplora la corruzione
della bellezza e il piacere effimero che se ne può godere. Nella sezione Piccolo Glossario sono ricordati gli autori letterari da cui sono tratti i film e le attrici che più furono presenti nelle ultime opere della sua carriera.
U NA VITA INTENSA , TORMENTATA E BREVE (1902-1957)
Max Ophüls nasce il 6 maggio del 1902 a Saarbrücken, Germania, in una famiglia di industriali del settore
tessile di origini ebraiche. Inizia la sua carriera come giornalista, ma abbandona la carta stampata per il teatro
quando ha solo 19 anni. In questo stesso periodo cambia il suo nome per non creare imbarazzi alla sua famiglia,
il cui lavoro avrebbe potuto essere danneggiato dalla sua carriera artistica. Il suo vero cognome è infatti Oppenheimer: sceglie così il cognome Ophüls. Fate attenzione all’Umlaut. E’ proprio questa simpatica coppia di
puntini sulla ‘u’ che ci dice la sua vera origine.
Nel periodo compreso tra il 1921 e il 1924 lavora prevalentemente come attore sia in Germania che in Austria,
poi dal 1924 si concentra sull’attività di regista. In questo stesso periodo comincia a cimentarsi anche nel
settore della produzione teatrale assumendo la direzione del Burgtheater di Vienna. Il suo lavoro lo porta a
viaggiare molto, e si sposta da Berlino a Francoforte, da Stoccarda a Dortmund.
Alla fine degli anni Venti, il suo interesse si concentra maggiormente sul cinema e comincia a lavorare in Germania presso la UFA film, i modernissimi studi appena realizzati a Babelsberg, l’elegante quartiere di Postdam
limitrofi Berlino. Dopo un breve apprendistato come assistente alla regia di Antole Litvak, debutta come regista
nel 1930. Intanto la permanenza in Germania diventa molto difficile, a causa del sempre più insistente clima
antisemita. Prima di emigrare, Max Ophüls gira il film Liebelei (1933) tratto da un’opera teatrale di Arthur
Schnitzler. Proprio mentre sta ultimando le riprese del film, i nazisti arrivano al potere, e i censori del regime
cancellano il suo nome dal film. Max decide allora di partire per la Francia insieme alla moglie, l’attrice Hilde
Wall, e al figlio Marcel (che diventerà un apprezzato documentarista, premiato nel 1989 con l’Oscar per The
Life and Times of Klaus Barbie).
Il primo film che dirige in Francia è una sorta di rifacimento di Liebelei dal titolo Una storia d’amore (1933).
Nello stesso periodo lavora anche in Italia dove gira il film La signora di tutti (1934) e in Olanda dove gira Gli
scherzi del denaro (1936). Nel 1938 gli viene attribuita la cittadinanza francese, trasformando così il suo cognome in Ophuls, senza dieresi (cioè senza Umlaut, perché in francese non ce n’è bisogno per poter pronunciare
la ‘u’ come in tedesco) e, nello stesso anno, gira la sua versione cinematografica del romanzo di Goethe I
dolori del giovane Werther.
Allo scoppio della seconda guerra mondiale, Max Ophüls è chiamato alle armi. Dopo un breve periodo di addestramento, viene inviato alla divisione radio della propaganda ministeriale. Per circa cinque mesi si occupa
di una trasmissione radiofonica anti-nazista in lingua tedesca. La supremazia militare tedesca lo mette, però,
nuovamente in pericolo. È costretto ancora a fuggire con la sua famiglia prima nel sud della Francia e poi in
Svizzera, dove dirige due rappresentazioni teatrali: Romeo e Giulietta ed Enrico VIII e la sua sesta moglie.
Alla fine, però, per potersi garantire una tranquillità duratura emigra negli Stati Uniti, precisamente ad Hollywood, dove sbarca nel 1941. Ma l’America non lo attende a braccia aperte: sia per il suo stile di regia che non
è molto utilizzato da quelle parti (troppo colto e poco diretto), sia per la presenza ormai consistente di registi europei rifugiatisi negli Stati Uniti allo scoppio delle guerre
mondiali.
Max rimane senza lavoro per diversi anni, fino a quando,
grazie all’intercessione dell’amico e ammiratore Preston
Sturges, riesce a lavorare come regista nel film Vendetta
(1946), prodotto dal magnate Howard Hughes. Purtroppo
le riprese del film vengono interrotte a causa del crac finanziario di Hughes, e Vendetta vedrà la luce solo nel
1949.
La partecipazione al progetto consente tuttavia a Max
Ophüls di cominciare la sua carriera americana. Gira così
il film L’esilio (1947) che non avrà un grande successo:
la critica, infatti, pur applaudendo la sua regia, accoglie La lapide sulla tomba di Max Ophüls e della
piuttosto tiepidamente il film.
moglie al cimitero del Père Lachaise a Parigi.
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Il film successivo, però, Lettere da una sconosciuta (1948) lo consacra, diventando nel tempo uno dei suoi
film più celebri. Nel 1950 ritorna in Francia dove continua la sua carriera di regista. Gira La ronde, Il piacere
e I gioielli di Madame de…. In questi film affina il suo pensiero, basato su una visione tragica e malinconica
della vita presentata al pubblico in maniera leggera e apparentemente frivola. Si fa inoltre sempre più evidente
la particolare maniera di girare con inusuali carrellate circolari che conferiscono ai suoi film un andamento
quasi musicale.
Nel 1955 gira il film Lola Montès, poi in parte rimaneggiato dalla casa di produzione e fatto uscire in tre lingue
diverse. È l’ultima opera. Alla fine il bilancio è presto fatto; cinque straordinari film, cinque straordinarie
storie moderne. Coraggiosamente lontane dalle storie sentimentali di Hollywood e dall’Happy End. Cinque
mature riflessioni sui rapporti tra donna e uomo. Un affresco che fotografa con grazia e leggerezza l’alternarsi
degli accadimenti umani tra due sentimenti principali: l’amore e il suo disincanto.
Max Ophüls muore in Germania, ad Amburgo, a seguito di un attacco cardiaco il 25 marzo del 1957. Non
viene sepolto in suolo tedesco: riposa nel celebre cimitero parigino di Père Lachaise. E il suo nome è senza
l’Umlaut.
F ILMOGRAFIA
È meglio l’olio di fegato di merluzzo (Dann schon lieber Lebertran) (1931)
La ditta innamorata (Die verliebte Firma) (1931)
Amore in gabbia o La sposa venduta (Die verkaufte Braut) (1932)
Liebelei (1933)
Lachende Erben (1933)
Amanti folli (Une histoire d’amour) (1933)
Hanno rubato un uomo (On a volé un homme) (1934)
La signora di tutti (1934)
Divine (1935)
La nostra compagna (La Tendre ennemie) (1936)
Ave Maria (1936)
Cinephonie (Valse brillante de Chopin) (1936)
Gli scherzi del denaro (Komedie om geld) (1936)
Yoshiwara, Il quartiere delle geishe (Yoshiwara) (1937)
Werther (Le Roman de Werther) (1938)
L’École des femmes (1940)
I sogni finiscono all’alba (Sans lendemain) (1940)
Da Mayerling a Sarajevo (De Mayerling à Sarajevo) (1940)
La vendicatrice (Vendetta), regia attribuita a Mel Ferrer (1950)
Re in esilio (The Exile) ( 1947)
Lettera da una sconosciuta (Letter from a Unknown Woman) (1948)
Presi nella morsa (Caught) (1949)
Sgomento (The Recless Moment) (1949)
Il piacere e l’amore (La Ronde) (1950)
Il piacere (Le Plaisir) (1952)
I gioielli di madame de... (Madame de...) (1953)
Lola Montès (1955)
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I FILM
LETTERA DA UNA SCONOSCIUTA
I
IL FILM SCENA PER SCENA
Usa, 1948, 90 min.
Titolo originale:Letter fron an Unknown
Woman
Produzione:John Houseman
Sceneggiatura:Howard Koch, Stefan
Zweig, dal romanzo Lettera di una sconosciuta, di Stefan Zweig
Fotografia: Franz Planer
Colonna sonora:Daniele Amfitheatros
Con Joan Fontaine (Lisa Berndle), Louis
Jourdan (Stefan Brand), Mady Christians
(madre di Lisa), Marcel Journet (Johann
Stauffer), John Good (Leopold von Kaltnegger)
l film è ambientato prevalentemente nella Vienna dei primi del Novecento. Il pianista
Stefan arriva a casa poche ore prima del suo appuntamento per un duello alla pistola con un ottimo tiratore; una sfida che ha intenzione di evitare lasciando la città.
Prima di partire, Stefan legge una lettera ricevuta quella sera, e che inizia con le parole:
“Quando leggerai questa lettera io forse sarò morta”. A questo punto il film diventa
una narrazione soggettiva dell’autrice della lettera, Lisa, che torna indietro nel tempo,
a quando, adolescente, viveva in un caseggiato viennese. La ragazzina rimane affascinata da un nuovo inquilino, il pianista Stefan, un giovane bello e di indubbio talento,
che gode già di un certo successo. Lisa resta spesso sveglia fino a tardi per ascoltarlo
suonare, lo ammira da lontano, ma Stefan non si accorge di lei. Un giorno la madre Nel 1992 il film è stato scelto per la condi Lisa, una vedova, annuncia che sta per sposarsi di nuovo, con un uomo benestante servazione nel National Film Registry
che gestisce una sartoria militare a Linz, e che pertanto entrambe dovranno trasferirsi della Biblioteca del Congresso degli
in questa città. Lisa inizialmente si oppone, angosciata all’idea di allontanarsi da Stefan, Stati Uniti
ma poi cede. Giunta alla stazione, però, fugge e torna al caseggiato. Il portiere la fa
entrare, e lei sale a bussare alla porta di Stefan, ma questi non è in casa. Lisa rimane
sulle scale ad aspettarlo. All’alba egli rientra in compagnia di una donna, e Lisa, sconvolta, va via e raggiunge la madre e il patrigno a Linz. In pochi anni Lisa diventa una
signorina bella e beneducata, e riceve una proposta di matrimonio da parte di Leopold
von Kaltnegger, un ufficiale dell’esercito. Lei però respinge questa proposta, dicendosi
innamorata di un altro uomo. Passano alcuni anni. Lisa ha lasciato la casa dei genitori
ed è tornata a Vienna, dove si guadagna da vivere lavorando come indossatrice in
una sartoria. A differenza delle sue colleghe, lei respinge i corteggiatori. Ogni sera
torna al vecchio caseggiato e resta ore sotto la finestra di Stefan, ormai famoso concertista, sperando che lui si accorga di lei. Una sera finalmente lui la nota, e pur non
ricordando di averla già incontrata, si sente attratto da lei. Trascorrono insieme una
serata deliziosamente romantica, e infine lui la porta nel suo appartamento. Sebbene
Lisa non gli abbia detto quasi nulla di se stessa, Stefan riesce a scoprire dove lavora,
e va a trovarla nella sartoria per informarla che sta per partire per Milano dove darà
un concerto al Teatro alla Scala. Le dà appuntamento quel pomeriggio alla stazione,
e qui le promette di tornare dopo due settimane. Ma Stefan non torna. Lisa aspetta un
bambino da lui, ma l’orgoglio le impone di non cercarlo perché non vuole chiedergli
nulla. Quando viene ricoverata per il parto, una suora cerca di convincerla a rivelare il
nome del padre del bambino, ma Lisa si rifiuta di farlo. Dà al bimbo il nome Stefan, e
per alcuni anni lo mantiene con le sue sole forze, a costo di qualunque sacrificio. Passano dieci anni. Lisa ha sposato un aristocratico di mezza età di nome Johann Stauffer,
cui ha raccontato tutto, e che mantiene nel lusso lei e suo figlio; il maestro di musica
del bambino dice che questi ha un innato talento musicale. Un sera a teatro Lisa scorge Stefan, che non è più il pianista
ammirato di un tempo, e suona ormai raramente. Sentendosi a disagio, Lisa lascia il teatro, ma mentre aspetta la carrozza incontra Stefan, il quale ancora una volta non la riconosce, ma si sente attratto da lei e la corteggia. Lisa sale sulla carrozza e qui
trova ad attenderla il marito. Questi la prega di non lasciarsi nuovamente travolgere dalla passione per Stefan, perché questo
distruggerebbe il loro matrimonio, e farebbe anche soffrire suo figlio. Ma Lisa non può liberarsi di questa ossessione amorosa.
Pur di stare con Stefan, Lisa rimette sul treno il figlio che era tornato a casa per una vacanza e lo rimanda in collegio, promettendogli di raggiungerlo dopo due settimane. Su quel treno ha precedentemente viaggiato un uomo malato di tifo, e così madre
e figlio rimangono infettati. Lisa raggiunge Stefan nel suo appartamento, ma sebbene egli si mostri lieto di vederla, lei si rende
finalmente conto della fatuità di quest’uomo, e fugge via. Cammina a lungo per le strade, senza meta, e quando finalmente
torna in sé va a raggiungere suo figlio. Ma è troppo tardi. Il bambino è ricoverato in ospedale e muore di tifo. Anche Lisa si ammala, e prima di morire scrive a Stefan la lettera che lui adesso ha tra le mani, e che gli è stata inviata dalle suore dell’ospedale
dopo la sua morte. L’uomo che lo ha sfidato a duello per quella sera è il marito di Lisa. Ora Stefan sa di non potere fuggire
questo impegno, e si reca all’appuntamento col suo destino.
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IL LORO PARERE
Max Ophüls lasciò l’Europa nei primi anni Quaranta, rifugiandosi in America. Ma se in Europa il nome di Ophüls
era più che conosciuto, per le regie teatrali e cinematografiche, in America doveva ricominciare da zero. Grazie a
Douglas Fairbanks Jr. realizzò nel 1947 The Exile (Re in esilio); dell’anno successivo è invece Lettera da una sconosciuta, tratto da un racconto di Stefan Zweig. In una Vienna invernale, ricostruita fedelmente in studio, Ophüls
realizza un film di estrema crudeltà, un “cristallo temporale” (G. Deleuze) interamente basato sul meccanismo innescato dalla lettura di una lettera. Attraverso una serie di salti temporali incatenati come un diadema, Ophüls costruisce la storia di una “svista amorosa”, e lo fa servendosi di procedimenti formali tipicamente hollywoodiani,
l’uso della voce fuori campo unito a quello del flashback. La lettera da questa sconosciuta, che giunge al pianista
Stefan Brand, non ricompone solo i ricordi di una vita segnata dallo scacco dell’invisibilità, della solitudine, ma si
palesa dunque come racconto, narrazione. La storia ci viene narrata, audacemente, dalla voce di una sconosciuta,
ormai defunta, svanita, simile a quella macchia informe sulla carta, che interrompe la fluida grafia della missiva.
Ophüls riesce ad aprire una breccia all’interno della rigida struttura produttiva hollywoodiana: Lettera da una sconosciuta risulta autentico film d’autore, come ben testimoniano la sua struttura circolare o di vera e propria spirale,
i lunghi carrelli fluidi a seguire i personaggi, gli ampi movimenti del dolly. La messa in scena di Ophüls s’avvicina
a un passo di danza, di quei valzer che spesso compaiono nei suoi film e che nella loro figura sinuosa e circolare
arrivano ad esplicitare uno stato di ebbrezza e di vertigine. Così i movimenti, le traiettorie circoscritte dalla macchina
da presa compongono qui una partitura visiva di estremo virtuosismo, come certe volute barocche. Una vera hybris
sembra accompagnare i movimenti di macchina, a segnare il tragitto ascendente dei personaggi: le scale sono soluzione scenografica che si fa figura, e trova un pertinente correlativo nei dialoghi del film. Lisa chiede a Stefan:
“Si scala una montagna, e poi?”, e Stefan risponde: “E poi si scende”. Qui il film esplicita la sua figura principe,
quella di un’ascesa a cui corrisponde l’inevitabile caduta. Meglio, l’ascesa rende emozionante (e sconcertante) la
vista di ciò che cade. Questione di gravità.
Rinaldo Censi, Enciclopedia del Cinema, 2004
… Stefan Zweig non gode di molta considerazione fra gli storici della letteratura. Lo si ricorda, quando lo si ricorda,
per quell’autobiografico “Die Welt von Gestern” (Il mondo di ieri) in cui evoca l’atmosfera della fine dell’impero
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asburgico. Eppure, un racconto come “Lettera da una sconosciuta” deve possedere un sapore autentico se Max
Ophüls, al suo terzo film hollywoodiano, accetta con entusiasmo la proposta del produttore indipendente William
Doziers e di sua moglie Joan Fontaine, che gli sottopongono il progetto, persuasi che solo lui – il non dimenticato
autore di Liebelei (Amanti folli, 1932) – potrebbe ricreare quelle atmosfere così lontane negli studi della Universal.
Il tema è, infatti perfettamente ophülsiano: l’amore indicibile e infelice di una donna che d’amore muore, come
soffocata dall’indifferenza del mondo. Joan Fontaine, esile e smarrita, sguardo fondo, è una lisa intensa come il
personaggio vuole (con qualche sovratono patetico di troppo), mentre Louis Jourdan, cui tocca il personaggio del
fatuo pianista innamorato di sé, non sa ricavare da un fisico appropriato le vibrazioni necessarie per essere convincente. La Vienna di Ophüls è, come sempre, una città sognata, morbidissima, cupa e brillante insieme: una immagine
della fantasia, la quale si sposa al tono della storia e giustifica il procedere per flashback (sul filo della voce di una
morta) che costituisce il fascino del film.
Guido De Falco, Dizionario del cinema americano, 1996
Davvero affascinante riduzione di uno splendido racconto letterario in quello che ancor oggi si può definire il film
più europeo girato a Hollywood. Struggente e spesso geniale, malinconica e colta, forse un po’ inverosimile, è una
pellicola che spesso sfiora il capolavoro.
Mario Guidorizzi, Hollywood 1930-1959, 1986
… Ophüls costruisce un lavoro perfettamente equilibrato: mentre ci incoraggia a identificarci con Lisa, e con i
sogni di un’intera società nutriti dalla cultura popolare (un diorama che anticipa l’era del cinema), il film fornisce
una critica acuta e devastante del mito e dell’ideologia dell’amore romantico. La comprensione del racconto dipende
dai delicati mutamenti di umore e prospettiva . Con lentezza ipnotica, la regia di Ophüls strappa il velo dell’illusione
che copre Lisa. L’allestimento rivela le banali condizioni della realtà che sostengono i voli della fantasia, e la macchina da presa suggerisce – attraverso posizioni e movimenti appena distaccati dal mondo della stria – una prospettiva di onniscienza che esclude i personaggi. Il film non è solo un trionfo di stile significativo ed espressivo,
ma quello di una struttura narrativa finalizzata. Grazie alla narrazione della voce fuori campo di Lisa, si attraversano
decenni e gli anni importanti vengono saltati ad arte, modellando i dettagli significativi e presentandoli come motivi
concentrati in gesti ripetuti (come il dono di un fiore), battute dei dialoghi (il riferimenti al passare del tempo sono
ovunque), e oggetti-chiave (la scala che conduce all’appartamento di Stefan). Quando Ophüls giunge al pezzo forte
hollywoodiano – l’apparizione fantasma di Lisa che solo alla fine ritorna alla mente di Stefan – il cliché è gloriosamente trasceso, e persino gli spettatori che normalmente resistono a queste soap opera vecchio stile, non possono
evitare le lacrime. Lettera da una sconosciuta è un film infinitamente complesso, che ha portato miriadi di cinefili
a cercare di studiare i suoi temi, i sui modelli e la sua ironia. Tuttavia, nessuna analisi ravvicinata potrà mai estinguere l’emozione ricca e commovente che suscita questo capolavoro.
Adrian Martin, 1001 film da non perdere, 2004
La storia, non particolarmente originale, di una donna che, poco prima di morire di tifo, invia una lettera all’uomo
che aveva amato in gioventù e da cui aveva avuto un figlio, nella visione del regista diventa una metafora totale
dell’amore romantico come massima espressione positiva dell’essere, ma anche come limitazione, come frontiera
invalicabile dalla quale non è possibile fuggire, né andando oltre né tornando indietro. O. riesce a trarre il massimo
dalle tecnologie che gli studi hollywoodiani gli mettono a disposizione, cosicché il melodrammatico contenuto
narrativo, sentimentale, enfatico e strappalacrime fino al parossismo, incontra la forma linguistica più adeguata nei
sapienti flashback con cui il regista centellina il racconto del passato e negli eleganti, anche se un po’ barocchi,
piani-sequenza (ante litteram) che realizza utilizzando il dolly come una sorta di deltaplano che insegue dall’alto
i personaggi, avvolgendoli nelle sue spire.
Gianni Canova, Garzantina del Cinema, 2002
Adattamento del racconto di S. Zweig, in cui si condensa la sua concezione dell’amore, un amore che solo nella
donna, nella sua grazia e nella sua forza morale, trova pieno compimento. Il musicista Stefan Brand, ragazzo prodigio ridotto a squallido seduttore, riceve una lettera in cui una sconosciuta, in punto di morte, gli racconta di avergli
passato quasi tutta la vita accanto, presa d’ammirazione per la sua musica, e di avere avuto da lui anche un figlio
nell’unica notte d’amore trascorsa insieme, un bambino da poco morto di tifo. Ma tutto questo è accaduto senza
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che Stefan sia mai riuscito a distinguerla dalla massa informe delle sue ammiratrici. Di fronte a questa improvvisa,
ma discreta e amorosa rivelazione della sua nullità, travolto dalla scoperta di avere gettato via tutta la vita e di non
aver mai visto altri che sé stesso, Stefan accetta un duello che avrebbe invece voluto evitare, e con esso il suo
destino. Anche qui Ophüls dissemina nella tragedia momenti di delicatezza infinita, come la scena di un finto
viaggio in treno al Prater, con un operaio che, pedalando, fa scorrere il paesaggio dipinto davanti ai finestrini.
Sandro Bernardi, Enciclopedia del Cinema, 2004
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LA RONDE - IL PIACERE E L’AMORE
U
I L FILM SCENA PER SCENA
na prostituta fa l’amore al Prater con un soldato, il quale poi seduce una
cameriera, che è l’amante del suo padroncino, il quale fa l’amore a casa
sua con una donna di mondo, il cui marito s’incontra con una sartina, che
ama un poeta, il quale è l’amante di un’attrice che conquista il tenentino, il quale
trova conforto nella cameretta buia della prostituta. Il girotondo è commentato da
un ironico e amaro maestro di cerimonie, che mette in risalto di quanto fugace sia
il piacere.
I L LORO PARERE
Dalla commedia (1897) di A. Schnitzler: a Vienna all’inizio del ‘900 una
ragazza di strada si dà a un soldato che seduce una soubrette. La quale si
lascia corteggiare da un ragazzo di buona famiglia che poi si prende per
amante una donna sposata. Il marito fa una scappatella con un’ingenua sartina, ispiratrice di uno scrittore di successo che ama un’attrice. La quale
gli preferisce un giovane conte che si ritrova nella camera della ragazza di
strada. Inizio della 2ª carriera francese del tedesco M. Ophüls, è un film di
squisita eleganza in cui il geometrico meccanismo narrativo è esibito in
modo tale che diventa il soggetto stesso di una narrazione senza intrigo né
personaggi, fatta di assenza e di vuoti come il cuore dei suoi protagonisti.
Bello come una bolla di sapone attraverso la quale s’intravede una concezione desolata dell’esistenza. Nel 1989 in Francia fu distribuita una copia
restaurata di 110 minuti. Dimenticabile remake di R. Vadim nel 1964.
Luisa, Laura e Morando Morandini, Dizionario dei Film, 2004
Francia, 1950, 97 min.
Titolo originale:La ronde
Produzione: Ralph Baum, Sacha Gordine
Sceneggiatura: Jacques Natanson, Max
Ophuls, dalla commedia Reigen, di Arthur
Schnitzler
Fotografia:Christian Matras
Colonna sonora:Oscar Straus
Con Anton Walbrook (maestro di cerimonie), Simone Signoret (Léocardie, la
prostituta), Serge Reggiani (Franz, il
soldato), Simone Simon (Marie, la
cameriera), Jean Clarieux (sergente),
Daniel Gélin (Alfred, il giovane), Robert
Vattier (il prof. Schuller), Danielle Darrieux
(Emma Breitkopf), Fernand Gravey
(Charles), Odette Joyeux (la sartina), Marcel Meroveo (Toni), Jean-Louis Barrault
(Robert Kühlenkampf), Isa Miranda (Charlotte, l'attrice comica), Charles Vissiere (direttore di Teatro), Gérard Philipe (il conte).
Oscar 1951:Nomination Miglior sceneggiatura non originale
Nomination Miglior scenografia
Con La Ronde, Max Ophüls torna a casa, in Francia, suo paese di adozione,
e nei soggetti a Vienna, la sua casa spirituale. Dopo nove anni di esilio e
disagio in America, il film segna l'apertura della più bella fase della sua
carriera di viaggiatore forzato. Il suo stato d'animo è subito chiaro dalla
prima sequenza. In una lunga, ininterrotta scena riprende Anton Walbrook,
vestito come un elegante uomo di mondo, passeggiare in un teatro di posa
completo di apparecchi d’illuminazione, sfondi, e altri accessori. Egli conversa urbanamente alla camera mentre, appende il cappello, sciarpa e mantello, si aggira nel set di una piazza illuminata da una piccola lampada, in
cui spicca una giostra, ed ecco che la prostituta Simone Signoret emerge
dalle ombre e avvia il meccanismo. La giostra dell’amore è in corso. "La
passione senza amore, il piacere senza amore, amore senza reciprocità": questi, secondo Truffaut e Rivette,
sono i temi impegnati da Ophüls, e certamente riassumono bene La Ronde. Ciascuno della sua catena di personaggi insegue o è inseguito, sfrutta o è sfruttato, ama o non è amato, come la giostra gira, e ad ogni incontro
si svolge l'atto, o la recitazione, dell’amore. La commedia di Schnitzler Reigen ha fornito la base del film, ma
il suo cinismo desolante si trasmuta in Ophüls in un agrodolce ironia, vista attraverso un velo di nostalgia
poetica. Schnitzler intese il suo gioco come metafora per la trasmissione di malattie veneree; il film si presta
a malapena se stesso ad ogni lettura del genere. Il film è ambientato nella Vienna del 1900: realtà presente per
Schnitzler (anche se la prima esecuzione pubblica del dramma è avvenuta soltanto nel 1921), ma per un romantico Ophüls, città fiaba, stilizzata e affascinante irreale. Con i valzer insidiosi di Oscar Straus, la camera
infinitamente fluida che Ophuls porta in un mondo opulento di boudoir, caffè, strade nebbiose e chambres privées, ogni personaggio ripete come un burattino le stesse parole, gli stessi gesti, con diversi partner, in una
sola volta ingannatore di altri e di se stesso. Solo al maestro di cerimonie, il regista alter ego, è concessa
libertà, è in grado di spaziare nel tempo e identità, appare come cameriere o cocchiere per spostare l'azione
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sulla sua strada, o condividere un epigramma con il pubblico. Walbrook è sottile e delicato, con grazia evita
il minimo accenno di pretenziosità, tiene il centro del film, mentre intorno a lui gira un emozionante caleidoscopio dei migliori talenti del cinema del periodo: Signoret, Serge Reggiani, Simone Simon, Danielle Darrieux,
Jean- Louis Barrault, Gérard Philipe (gli ultimi due, è vero, non del tutto al meglio).
Jacques Lourcelles, Dictionnaire des films, 1992
La Ronde è stato il maggior successo di Ophüls. Per il pubblico in tutto il mondo, in particolare in Gran Bretagna e in Nord America, ha rappresentato la quintessenza di tutto ciò che spiritoso, sofisticato ed elegante: tipicamente francese e viennese in una sola volta. Da alcuni anni il film non era disponibile, a causa di
complicazioni legali, e remake di Vadim del 1964 ha offerto un sostituto decisamente povero. La versione
Ophüls riemerse prima nel 1980, la sua reputazione rafforzata dalla sua lunga assenza, e si è dimostrato tanto
elegante e convincente come sempre nella sua esposizione del tema perenne del regista: il divario tra l’ideale
di amore e la sua imperfetta, realtà transitoria.
Philip Kemp, Film Reference
Adattamento di una pièce di Schnitzler, è un incubo d’infinita solitudine celato dietro un elegante e piacevole
girotondo. La giostra degli amori conta dieci quadri, in cui sempre un uomo e una donna si usano reciprocamente senza mai guardarsi, solo per alimentare il teatrino dell’immaginazione dentro il quale sono irrevocabilmente chiusi. O. non si limita a mettere in scena un testo famoso, ma introduce una figura brechtiana
sostanziale che manca nell’opera teatrale, quella del direttore di gioco (Anton Walbrook), un narratore senza
nome, che apertamente dichiara di essere l’autore, il commento, ma al tempo stesso anche un passante, colui
che rappresenta il desiderio dei personaggi (e degli spettatori) di ‘vedere’ e facendo girare la giostra li accompagna, rivelandosi la più affascinante incarnazione del narrare e del guardare.
Sandro Bernardi, Enciclopedia del Cinema, 2004
Analogamente al girotondo da cui prende il titolo e che ne rappresenta il leitmotiv, la pellicola che nel 1950
Max Ophüls trae da Reigen di Arthur Schnitzler passa nel nostro paese attraverso una ronde di divieti, tagli e
rimaneggiamenti censori che dura ben otto anni. Un carosello che, nei passaggi di mano e nei rimpalli di responsabilità, nel succedersi dei volti e nomi (commissari, sottosegretari, ministri e governi), all’interno di una
più generale immutabilità, rispecchia tanto il quadro politico dell’epoca, quanto uno spaccato di costume al
cui centro non vi sono solo gli orientamenti e le idiosincrasie della censura cinematografica nell’Italia del do-
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poguerra, ma più in generale l’immagine di una società ancora profondamente legata al passato fascista da un
lato, e gravata dal peso delle influenze del mondo cattolico dall’altro. Ne risulta una giostra tutta italiana che
non ha per oggetto, come in Schnitzler e Ophüls, l’eros e la seduzione, ma il potere, il suo esercizio e i suoi
meccanismi. Il che è poi, forse, lo stesso. Girato in quarantatre giorni tra il gennaio e il marzo del 1950, La
Ronde è accolto entusiasticamente alla Biennale di Venezia dello stesso anno, ottenendo due premi (miglior
soggetto e dialoghi e miglior scenografia): nel 1951 sarà la volta dell’Oscar come miglior film straniero. Ma
si fanno sentire anche le voci dissenzienti, le proteste della stampa cattolica, le accuse di oscenità. A Münster
il film non viene proiettato dopo che l’episcopato ne ha stigmatizzato il contenuto immorale. Quando La Ronde
è presentato a Venezia, Giulio Andreotti è sottosegretario della presidenza del Consiglio con delega allo spettacolo da tre anni e tre mesi. Lo ha nominato -su esortazione del futuro pontefice Giovanni Battista MontiniAlcide De Gasperi il 4 giugno 1947, in uno dei primi atti del suo quarto governo appena insediato. Nei suoi
sei anni di reggenza allo Spettacolo, Andreotti avrà un ruolo di primo piano nell’ideazione e applicazione delle
leggi sul cinema, e la sua scrivania è tappa obbligata per tutte le pellicole prodotte o distribuite in Italia in
quegli anni. Se, come proclama l’art. 1 del decreto luogotenenziale n. 678 del 5 ottobre 1945, primo provvedimento legislativo sul cinema dopo la liberazione, emanato sotto il governo Parri, «l’esercizio dell’attività di
produzione di film è libero», di fatto lo stesso d.l. 678, reintroduce dalla finestra l’azione della censura. Lo fa
– pur abrogando tutte le altre norme in materia emanate tra il 1923 e il 1943, tra cui quelle sulla censura preventiva dei soggetti – con l’art. 11, che rimanda al regio decreto n. 3287 del 24 settembre 1923, e alle fattispecie
previste nel regolamento annesso, in presenza delle quali il nulla osta di proiezione in pubblico non può essere
rilasciato: una formulazione assai generica, che – come di fatto avverrà – può essere utilizzata per una casistica
ampia e variegata. La cooptazione della normativa fascista dice molto sull’orientamento immobilista sul tema
della censura all’interno una legge che in altri punti non esita a innovare. «L’Italia non si stanca mai di essere
un paese arretrato» scriverà Vitaliano Brancati. «Fa qualunque sacrificio, perfino delle rivoluzioni, pur di rimanere vecchio». Se ufficialmente essa è limitata all’atto finale della lavorazione, di fatto la censura inizia a
monte, con la pratica della revisione delle sceneggiature, sottoposte a plurimi esami, ritocchi, chiose, “suggerimenti”, e grazie all’apparato normativo messo in piedi nell’immediato dopoguerra. Dopo le elezioni del 1948,
che sanciscono l’affermazione della Democrazia Cristiana escludendo comunisti e socialisti dal potere, in un
clima di radicalizzazione della lotta politica, Andreotti consegna al cinema italiano due leggi che danno linfa
all’industria e tamponano l’invasione di pellicole statunitensi sul mercato. Alla «leggina» del 26 luglio 1949,
n. 448, che istituisce il credito cinematografico presso la Banca Nazionale del Lavoro fa seguito la l. 958 del
29 dicembre 1949, che – oltre a inaugurare ulteriori incentivi all’attività e di risultato – consolida l’impalcatura
del sistema censorio agendo sul piano economico…
Roberto Curti, CineCritica, n.68, 1950
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LE PLAISIR - IL PIACERE
N
I L FILM SCENA PER SCENA
el primo episodio (Le Masque) un medico soccorre un ballerino che si è
sentito male e scopre trattarsi di un vecchio truccato da giovane. Nel secondo episodio (La Maison Tellier), il più stilizzato nella fotografia dei paesaggi, il gruppo delle prostitute della Maison passa una domenica in campagna
perché la padrona del bordello deve far da madrina alla figlia del fratello. Nel terzo
episodio (Le Modèl) si rievoca sulla spiaggia il contrastato amore di un vecchio e
un’invalida quando lei fu spinta a tentare di suicidarsi.
I L LORO PARERE
Francia, 1951, 93 min
Titolo originale: Le plaisir
Produzione: Edouard Harispuru, M. Kieffer, Max Ophuls
Sceneggiatura: Jacques Natanson, Max
Ophuls, da tre racconti di Guy de Maupassant
Fotografia: Christian Matras
Colonna sonora: Edmon Audran, Joe
Hajos, Jacques Offenbach, Robert Planquette, Maurice Yvain
Con Ep. Le Masque: Gaby Morlay (moglie
di Ambroise), Claude Dauphin (il dottore),
Jean Galland (Ambroise il ballerino).
Ep. La Maison Tellier: Madeleine Renaud
(Madame Tellier), Ginette Leclerc (Balançoire), Mila Parély (Mila), Danielle Darrieux
(Rosa), Pierre Brasseur (commesso viaggiatore), Jean Gabin (Joseph Rivet).
Ep. Le Modèl: Daniel Gélin (il pittore), Jean
Servais (l’amico), Simone Simon (la modella).
Nel ’64 andai a Cannes a “La Semaine de la Critique” con Prima della rivoluzione. Il film ebbe una serie di, per me e la famiglia, una serie di storiche stroncature dalla critica italiana. Piacque molto invece ai francesi a
partire dai Cahiers du Cinéma ed ebbe qualche premio tra cui un Prix Max
Ophüls. E quindi il premio Max Ophuls era legato a questo grande regista,
mitico,, io avevo 23 anni, di cui avevo visto soltanto Lola Montès. Sapevo
che era un regista mitico. Però per qualche motivo strano c’è voluto un Oscar 1954: Nomination Miglior scenograpremio per costringermi a guardare i film di Max Ophüls per capire perché fia per film in bianco e nero.
qualcuno aveva pensato di dare questo premio a Prima della Rivoluzione.
La cosa è andata avanti abbastanza lentamente finché negli anni ’70 Claire,
mia moglie, un giorno – eravamo a Parigi – ‘ecco ti faccio un regalo meraviglioso’. Aveva scoperto che davano in un cinemino del quartier Le Plaisir. Siamo andati, io con una certa trepidazione, e Claire ripetendomi che
secondo lei io ero stato molto influenzato nel mio cinema da Max Ophüls
… E’ successo qualcosa di molte molto forte in qualche modo. Il film incomincia, sono tre episodi tratti da Maupassant, Le Masque, Maison Tellier
e Le Model. Il primo episodio passa. Io entro in uno stato di trepidazione,
dall’agitazione all’eccitazione, a una forma quasi di, oserei dire, di orgasmo
cinefiliaco, di piacere assoluto, totale. Sento che mi è venuta la febbre e
dico a Claire che non ce la faccio più. Abbiamo visto il primo episodio e i
prossimi li vedremo un’altra volta e siamo usciti. Io non la smettevo più di
parlare camminando per Parigi. Ed era vero, non era un trucco, non era
qualcosa di gonfiato, ecco. Era una sensazione fortissima, qualcosa forse
di mai provato. Comunque entrai dentro, tutto, in immersione completa nel
primo episodio de Le Plaisir e dopo di che non cela facevo a vedere il resto.
Mi era piaciuto troppo. Qualcosa, devo dire, che non mi è più successo in
questo modo. Poi il film era stato tolto… La seconda volta andammo a vedere Le Plaisir a Londra e lo stesso fenomeno avvenne col secondo episodio La Maison Tellier. Rivedo il
primo, perla prima volta il secondo. Di nuovo una specie di parossismo, di tachicardia, diciamo pure di rapimento estetico totale. E qui un pochino giocando, per ripetere la prima esperienza dico a Claire, non ce la
faccio più, andiamocene, vedremo un’altra volta il terzo episodio. Il terzo episodio, quello in fondo più drammatico e forse anche il più moderno, la storia d’amore di un pittore e della sua modella. Mi ricordo lo vedemmo
al Filmstudio qui a Roma. E così in un giro notevole di anni e in tre volte sono riuscito a vedere tutto Le Plaisir.
Voglio dire, è il caso di qualcuno, cioè me, che non sono più in controllo di quella che è la mia risposta non
solo emotiva ma quasi fisiologica. Ogni volta dopo un nuovo episodio mi veniva la febbre, non era la febbre
vera forse, se l’avessi misurata avrei avuto solo 37 e 1, però sentivo che il cuore andava veloce, in agitazione…
Io ho capito o ho creduto di capire che cosa aveva spinto la giuria del Premio Max Ophüls a darmi un premio
con quel nome. A questo punto quel nome era diventato per me una specie di feticcio…
Bernardo Bertolucci
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Secondo film francese di Max Ophüls dopo il suo rientro da Hollywood (1946-49), tratto da tre racconti di
Guy de Maupassant, narrati dallo scrittore (voce originale di Jean Servais). Il piacere è confrontato con la vecchiaia (La maschera), la purezza (La casa Tellier), il matrimonio (La modella). “La felicità? La felicità non è
allegra” è la battuta finale che ne riassume il senso. La maschera è un esercizio di regia d’alta classe, ricco di
temi e risvolti. La casa Tellier è una vetta nel cinema di Ophüls: una trasposizione di Maupassant eguagliata
soltanto dal Renoir di Une partie de campagne. Raramente una intera e complessa storia d’amore era stata
condensata così felicemente in 20 minuti come nel terzo episodio. Accolto freddamente e senza successo
quando uscì (attaccato dai benpensanti per il secondo episodio “scandaloso”), fu rivalutato negli anni ‘60.
Raffinato sino al virtuosismo, l’inconfondibile stile di Ophüls consegue “l’ideale conciliazione tra l’impressionismo francese e il barocco germanico”. Scene di Jean d’Eaubonne e Jacques Guth; costumi del russo Georges Annenkov; musiche su temi di Offenbach. La fotografia è di C. Matras nel primo e terzo episodio, di Ph.
Agostini nel secondo.
Luisa, Laura e Morando Morandini, Dizionario dei Film, 2004
Ispirato da tre racconti di Guy de Maupassant, Le Plaisir appartiene ad un genere che era ancora nuovo nel
1952. Il film antologico era stato inventato nel 1948 in Inghilterra dal produttore della Gainsborough Sydney
Box, quando raccogliendo quattro racconti di W. Somerset Maugham, realizzò “Quartet” (Passioni, di Ken
Annekin, Arthur Crabtree, Harold French, Ralph Smart). Il film ebbe un tale successo che fu seguito da “Trio”
(1950) e “Encore” (Gigolo e Gigolette, 1952).
Con Le Plaisir si inverte il peso della presentazione tra autore letterario e regista. Tanto nei tre film inglesi era
Maugham in primo piano, quanto nel film francese Maupassant resta in seconda fila…
Al suo apparire in Francia, Le Plaisir fu tacciato come una parodia tedesca di un grande scrittore nazionale.
André Bazin fu particolarmente avverso. Preferendo la competenza al genio, ribadì la sua disapprovazione per
la complessità dell’approccio stravagante di Ophüls. Apprezzamenti più sensibili vennero in seguito da Claude
Baylie, François Truffaut, e più in particolare da Jean-Luc Godard che non mai mancato di lodare Le Plaisir
come il “migliore film francese dopo la Liberazione”….
Victor F. Perkins, Film Quartely, autunno 2008
Questi tre occasioni di confrontare il piacere con
l’amore, la purezza con la morte, per
richiamare gli stessi termini
del narratore, costituiscono
uno dei film più brillanti di
Ophüls, e uno di quelli in
cui si è così vicini alla perfezione come per Lettera
da una sconosciuta e I
gioielli di Madame de….
Interpretando
liberamente
Maupassant,
Ophüls dà a ciascuna
delle tre storie un tono maggiore che riappare minore nelle altre due: melanconia nella prima, ironia e giubilo nella seconda, morbida
tristezza nella terza. Le tre sfumature insieme portano a questa gravità. Nell’universo di Ophüls l’uomo non può scappare anche se passa tutta la sua esistenza a fuggire.
Sul piano dello stile Le Plaisir rappresenta “l’ideale conciliazione dell’impressionismo francese con il barocco
tedesco” (Claude Baylie).
Jacques Lourcelles, Dictionnaire des films, 1992
… Maupassant, in Francia e per i francesi, è comunque ben altro. Di qui la ferocia sciovinista con cui Le
Plaisir, realizzato da un « viennese » (?) con i costumi di un russo (Annenkov) e le musiche di un ungherese
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(Joe Hajos), sarà accolto a Parigi. A parte la rozzezza di certi attacchi che, letti ora, possono apparire risibili
(ad esempio : “ Il fatto che Max Ophüls metta in scena Maupassant è quasi bizzarro, così contro natura come
se Freud ci spiegasse La Fontaine. Si direbbe a Freud: ci lasci in pace; vada a circolare altrove! Si ha voglia di
dire la stessa cosa a Ophüls”, Michel Braspart, Opera, 1951, lo stesso Sadoul non è poi tanto lontano da quei
sentimenti (Les Lettres Françaises, 1951). E Bazin, ammiratore peraltro di Lola Montès, qui sembra infastidito
dalla scenografia e particolarmente dalla fila di angeli sospesi al soffitto della chiesa normanna di La Maison
Tellier: “Max Ophüls ha schiacciato Maupassant sotto il lusso fallace dei dettagli, la finezza del décor, la sontuosità della fotografia, il brio dell’interpretazione… Le origini viennesi (?) del regista sono evidenti in una
certa tendenza espressionista che appesantisce l’immagine, e nei dettagli incongrui, come l’interno della chiesetta, piena di angeli e di volute, direttamente sfuggiti da qualche cappella bavarese” (L’Observateur, n. 95,
1956). Gli stessi Cahiers du Cinéma attenderanno sei anni (e la morte di Ophüls) prima che Godard possa scrivere: “Le Plaisir è il romanticismo tedesco in una porcellana di Limoges. Ed è anche l’impressionismo francese
in uno specchio di Vienna” (Cahiers du Cinéma, n. 81, 1958)…
Michele Mancini, Max Ophüls, luglio-agosto 1978
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I GIOIELLI DI MADAME DE...
Francia/Italia 1953, 101min. b/n
Titolo originale: Madame de...
Produzione: Ralph Baum
Sceneggiatura: Marcel Achar, Max
Ophuls, Annette Wademant, dal romanzo
Madame de di Louise de Vilmorin
Fotografia: Christian Matras
Colonna sonora: Oscar Straus, Georges
Van Parys
Con Danielle Darrieux (Louise, contessa
de…), Charles Boyer (generale André),
Vittorio De Sica (Fabrizio Donati), Jean
Dubucourt (Rémy il gioielliere), Lia Di Leo
(Lola).
A
I L FILM SCENA PER SCENA
vendo bisogno di denaro, Louise vende due orecchini a forma di cuore, dono
nuziale del marito, al gioielliere M.Rémy, da cui erano stati acquistati. Giacché, per riuscire nel suo intento, la donna ha dovuto simulare lo smarrimento
dei preziosi, l'alta società parigina è messa a scompiglio dalla notizia di un probabile
furto. Spaventato dalle dimensioni assunte dall'evento, il gioielliere mette al corrente
della verità il generale André de..., il marito, che, per amor di discrezione, gli ricompra i gioielli, facendone dono, subito dopo, ad una sua protetta in partenza per
Costantinopoli.
Ed è in una bottega di questa città che divengono proprietà del diplomatico italiano,
barone Fabrizio Donati, dopo che la dama, complice la sua passione per la roulette,
se ne è dovuta liberare ben presto. Di ritorno a Parigi, sede della sua missione, il
barone conosce Louise e la simpatia tra i due è immediata. E, di ballo in ballo,
l'amicizia tra i due diviene un fatto di pubblico dominio, alla cui evidenza neppure
il generale, per quanto distratto dalle sue occupazioni militari, può sottrarsi. Per
sfuggire all'umiliazione, Louise parte per un lungo soggiorno in Italia. Porta con sé
due orecchini a forma di cuore, che il diplomatico le ha donato in uno dei pochi
momenti di intimità concessi loro. Il distacco produce il solo effetto di rafforzare la
passione e al ritorno in Francia la situazione precipita.
All'ennesimo ricevimento, spinta dal desiderio di esibire i gioielli, pegno del loro
amore, Madame de...mette in scena un loro improvviso ritrovamento all'interno di
un guanto. Ma il marito sa che così non può essere ed è certo di conoscere la loro
provenienza, una certezza che, messo alle strette, il barone Donati conferma, accettando anche di rivendere gli orecchini al gioielliere, da cui André li comprerà
per la terza volta, per regalarli ad una cugina in difficoltà.
L'ormai anziano diplomatico, forse alla sua ultima avventura, desideroso di pace
e anche irritato dalla leggerezza e dalle bugie di Louise, ha deciso di porre fine
alla loro relazione. Non è questa, tuttavia, la convinzione del generale, soprattutto
allorché il gioielliere gli riferisce che la moglie ha ricomprato i due diamanti, impegnando gran parte dei propri averi. Minacciato nella sua immagine di rispettabilità borghese, sfida allora a duello, con futili pretesti di onor militare, il barone Donati.
La disperata corsa di Louise, prima all'altare della Madonna per implorare, con l'offerta dei due orecchini, il suo aiuto, poi
sul luogo dello scontro, non varrà a salvare la vita dell'amato e farà scoppiare il suo cuore malato.
I L LORO PARERE
I gioielli di Madame de… (1953), che senz’essere una grande cosa è tuttavia fortemente indicativa. Anche rapportato al suo tempo, tutto il film risulta – come dire? – anacronistico. La storia è d’altri tempi, i personaggi
sembrano usciti da una stampa della bella époque, lo stile è di una raffinatezza quasi barocca. Contribuisce all’impressione la presenza di tre illustri attori un po’ appassiti dagli anni. Danielle Darrieux, Charles Boyer e
Vittorio De Sica. Tenuto conto che siamo nel 1953. I gioelli di Madame de… può essere considerato un film
sorpassato e persino inutile. D’altra parte sta lì a confermare una linea da cui Ophüls non si è mai staccato: rievocazione di ambienti fastosi o decorativi di principio secolo, messa a fuoco di una società galante, futile e cinica non immune da amarezze e da tragedie dove comunque il tema dominante è l’amore con tutte le sue
complicazioni e le sue sfumature, completo distacco dalla realtà contemporanea, cura formale ispirata ad
un’estrema eleganza. A proposito di distacco dalla realtà, è da osservare che il regista ebbe molte e tristi esperienze. Fu perseguitato, in quanto ebreo, dal nazismo e dovette fuggire dalla Germania in Francia, invasa la
Francia dai tedeschi, fu costretto a riparare in America dove per l’intera durata della guerra non riuscì a lavorare.
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Eppure di tutto questo non esiste traccia
nell’opera. La sua tendenza costante è
quella di evitare i problemi e gli aspetti dell’oggi per rifugiarsi nella descrizione compiaciuta e affettuosa, a volte sarcastica, a
volte maliziosa, a volte profondamente
desolata e malinconica, di un mondo
lontano, romantico, ritratto non secondo
un metodo di rigore storico ma attraverso l’ottica deformante del misto
nostalgico: ricordiamo, tra le sue pellicole più note Lettera da una sconosciuta, La ronde (che ebbe qui in Italia grosse noie
con la censura), Il piacere, da tre racconti di Maupassant, e nel
1955, due anni prima di morire, Lola Montes, originale biografia della celebre
danzatrice e mantenuta, un film sfortunato che fu poi rimaneggiato dalla produzione. Forse aver
riproposto I gioielli di Madame de… isolato è stato un errore: si poteva, con le pellicole che abbiamo nominato,
formare un bel ciclo dal quale il bizzarro talento di Ophüls avrebbe avuto una completa e convincente illustrazione. Sparato fuori così bruscamente, il regista può aver dato l’idea a chi non lo conosceva di un autore in ritardo di parecchi lustri, malato di preziosa calligrafia.
Ugo Buzzolan, La Stampa, 7 agosto 1973
… L’alta società francese di mezzo secolo fa, inamidata, amabile e ipocrita, alla quale l’etichetta impone di reprimere i sentimenti e proibisce di dare il “tu” a chicchessia, s’impiglia ne I gioielli di Madame de… in un viluppo di intrighi. Stavolta il circolo chiuso è luccicante e prezioso, nasce da due orecchini a forma di cuore
che il generale de… (Charles Boyer) regala a sua moglie (Danielle Darrieux); e che si allontanano in più riprese
dallo scrigno della signora e in più riprese vi tornano. Ella li vende per pagare certi suoi debiti; suo marito li
riacquista, per offrirli a sua volta a una sua amante (Lia Di Leo), all’atto del congedo, anche questa amante li
vende, e stavolta li compera l’ambasciatore italiano Donati (Vittorio De Sica), il quale li donerà ancora a Madame de…, ch’egli ama, riamato. Il marito generale, scoperto l’adulterio costringe la moglie a sbarazzarsene;
poi li acquista una terza volta, per regalarli a una parente povera. Di nuovo, Madame de… li recupera, ma non
le porteranno fortuna: il mal di cuore la uccide, mentre suo marito e l’ambasciatore si battono in duello. Gli
orecchini che vanno e tornano sono solo un sorridente pretesto al romanzo sul triangolo d’amore, due uomini
e una donna… E’ un romanzo raccontato talvolta con mano leggera quanto è massiccia l’invenzione. I bei dialoghi di Auchard fanno schiuma, coprendo di vaporosi, delicati e piccanti nulla la compatta a abusata materia… Fantasiosamente costruito, splendidamente interpretato da tre attori di classe, esso conferma, in buona
parte, che la narrativa cinematografica francese ha trovato nell’austriaco Ophüls un dotato illustratore, quando
l’intreccio gli offra possibilità di rifarsi, con nostalgica evocazione, alle malizie dell’epoca galante della quale,
dicono, i nostri padri godettero. Se Ophüls non fa quadro, sa fare bozzetto. E spesso ingegnosamente: si pensi
alla strana soluzione del duello, che ha esito mortale, ma non è certo che muoia un duellante, almeno non
risulta. Muore, uccisa da uno sparo che rimbomba nel bosco, colei contro la quale la pistola non era puntata.
E si pensi alla disinvoltura con cui è superato il disagio dell’anagrafe: questi ardenti amori di donne e uomini
con i capelli bianchi, in equilibrio sul filo rosso teso tra due abissi paurosi, il sublime da un lato e dall’altro il
ridicolo.
Arturo Lanocita, Il Corriere della Sera, 25 novembre 1953
Pochi film sono costruiti su così tanti livelli e con un’economia di mezzi tanto sorprendente, quanto il sublime
I gioielli di Madame de… di Max Ophüls. Louise (Danielle Darrieux) si fa chiamare “Madame de….” Per
mantenere l’anonimato come si addice al suo ceto sociale: gli orecchini da impegnare che vediamo nei primi
fotogrammi, la faranno precipitare nel dramma. La macchina da presa segue gli orecchini, rivelando infine
Louise in uno specchio, circondata da tutti i suoi beni. Da quel momento in poi, Ophüls non ci permetterà più
di trascurare le basi di quel mondo opulento: il fluire dei soldi e dei debiti, i servitori onnipresenti, il rito prima
dell’apparizione pubblica. Dopo la casa e il banco di pegni, c’è la chiesa (luogo d’ipocrisia borghese) e l’Opera,
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dove tutto viene ostentato: lì incontreremo il marito di Louise, André (Charles Boyer), felice finché può controllare gli affari che stanno alla base del suo “sofisticato” matrimonio. Quando gli orecchini ritornano nelle
mani di André per la terza volta – e Louise si è pericolosamente innamorata di Donati (Vittorio De Sica) –
quella che avrebbe potuto essere solo una bella idea (gli orecchini che collegano tutti i personaggi richiamandosi
al precedente film di Ophüls (La ronde, 1950) arriva infine ad articolare tutte le distinzioni cruciali tra trama
e tema. Per Louise, che vive in uno stato di negazione delle condizioni che permettono la sua libertà, gli orecchini sono un pegno del suo amore per Donati; per André, essi rapprendano un simbolo di possesso, di quel
potere patriarcale, militare e aristocratico che esercita sul destino delle persone. I gioielli di Madame de… è,
al tempo stesso, freddo, brutale, compassionevole e commovente. Ophüls tratteggia questo mondo con precisione brechtiana, senza mai simulare la forza e il significato dei desideri individuali repressi. Anche quando i
personaggi si dibattono nelle loro metaforiche prigioni o si mettono in trappola l’un l’altro, la loro passione ci
commuove: in maniera totale, quando, come un carceriere, André chiude le finestre per Louise dicendo, come
sussurrasse un segreto: “Ti amo”.
(Adrian Martin: 1001 film da non perdere, 2004)
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LOLA MONTES
I L FILM SCENA PER SCENA
A conclusione di una rumorosa parabola, minata nel fisico e nello spirito, Lola Montès, al secolo Maria Dolores Porriz y Montès, è divenuta attrazione circense, in
uno spettacolo gestito da un avido e spregiudicato impresario. In dodici quadri viventi, tra numeri equestri ed evoluzioni di equilibrismo, è essa stessa a interpretare
gli avvenimenti di cui fu protagonista, introdotti e accompagnati dalla voce narrante
del presentatore-impresario. Il famelico pubblico viene così accompagnato attraverso i primi passi della vita della famosa danzatrice; dal rientro dalle Indie, a seguito della morte del padre, sino al primo disastroso matrimonio con un ufficiale
scozzese, uomo violento e dedito al bere, sottratto alle attenzioni della madre, che
avrebbe voluto darla in sposa a un ricco, quanto anziano, banchiere. Di qui, per le
capitali di tutto il mondo, prende il via la sua carriera di mantenuta di teste coronate,
artisti e uomini d'affari. È in affettuosa intimità con Franz Liszt. A causa sua si sfiora
una crisi diplomatica internazionale. Entra nelle grazie di Ludovico I di Baviera, divenendone la favorita. Il comportamento del sovrano, ritenuto offensivo della dignità dello Stato, è all'origine di moti di piazza. Nottetempo, Lola fugge
accompagnata da uno studente nazionalista, che le giura eterna fedeltà. Ma la
donna ha ormai smesso di sognare e accetta la proposta, rivoltale tempo addietro
dall'impresario circense. Nonostante il parere contrario del medico, Lola conclude
lo spettacolo, con un volo dall'alto, senza rete di protezione, per poi offrirsi, nel
serraglio delle belve feroci, in pasto allo sguardo ravvicinato del pubblico, per la
modica spesa di un dollaro.
Francia/Germania ovest, 1953, 110 min.
Titolo originale: LolaMontès
Produzione: Albert Caaraco
Sceneggiatura: Max Ophuls, Annette Wademant, Jacques Natanson, dal romanzo
La vie extraordinaire de Lola Montès di Cécile Saint-Laurent
Fotografia: Christian Matras
Colonna sonora: Georges Auric
Con Martine Carol (Lola Montès), Peter
Ustinov (direttore del Circo), Walbrook
Anton (Luigi re di Baviera), Oskar Werner
(lo studente), Will Quadflieg (Franz Liszt)
I L LORO PARERE
… Ophüls è stato in più occasioni definito un “maestro” nel manovrare la
macchina da presa: in realtà la sua maestria è tutta esteriore, stucchevole,
e gli scorazzamenti della camera nove volte su dieci sono ingiustificati e
fastidiosi. Ciò accade anche in Lola Montes, dove il tecnicismo fine a se
stesso di Ophüls si riscatta in alcuni punti tramite l’impiego non sempre
volgare del cinemascope con funzioni ora psicologiche ora decorative. Ma anche a questo proposito si potrà
rilevare che Ophüls non ha detto una parola nuova nell’uso del cinemascope: non basta infatti circoscrivere
con dei mascherini le scene intime per fornire degli elementi validi a un più razionale impiego del nuovo
mezzo. L’azione “presente” si svolge in uno strano e stilizzato circo americano, sulla cui pista il direttore (Peter
Ustinov, un attore i cui mezzi sembrano fatti su misura per dar vita a personaggi da circo equestre) racconta i
vari episodi della vita di Lola Montes, interprete la stessa Lola Montes. Con arditi e talvolta indovinati “flashbacks”, si passa periodicamente agli episodi narrati: gli amori di Lola, la sua giovinezza, la sua passione per
Liszt, per uno studente tedesco, per il re di Baviera. Realtà e fantasia sono mescolate senza troppa intelligenza
(è noto che Ophüls si preoccupa poco del racconto cinematografico e della sua scorrevolezza, e molto più della
composizione interna delle inquadrature). La narrazione frammentaria ha come conseguenza l’impossibilità
di dare alla protagonista un carattere definito con chiarezza. E qui una parte della colpa va girata a Martine
Carol, che è assolutamente inadeguata nel personaggio della Montes…
Cinema Nuovo, 10 aprile 1956
… Ophüls ha immaginato che Lola Montes, la quale si esibì in un circo equestre, prima di spegnersi, in America,
a quarantadue anni, rievocasse davanti al pubblico la sua esistenza, idealizzata, di amatrice, una delle famose
amatrici che fecero scandalo nell’Ottocento. I suoi rapporti con Liszt, i suoi matrimoni, i suoi adulteri; ma spe25
cialmente la relazione con il vecchio re di Baviera, l’esaltato Luigi I: come nacque, come fiorì, come condusse
alla rivolta popolare. Nei capitoli del circo equestre la pellicola avverte l’influsso del cinema tedesco, e specie
di quello di Sternberg di Capriccio spagnolo: ne ha il bizantinismo e la pesantezza ornamentali, specie nelle
cortine, nei tendaggi, nei lampadari, nelle cancellate, che dominano i primo piani. Più levità e minore fumisteria,
invece, nel capitolo, ora arguto e drammatico, alla corte di Baviera, chiuso con la fuga notturna di Lola. I colori
sono di effetto discontinuo come l’intero film: suggestivi e miti talvolta, talaltra sfacciati e volgari. Il copione
ripete la sommaria psicologia di Cecil Saint Laurent (l’autore di Caroline Cherie), al quale è dovuto il romanzaccio che Ophüls ha adoperato. La musica di Georges Auric, che arieggia quella della Ronde, è facile fragorosa
ma spesso dilettevole. Martine Carol è la Lola Montes che ci voleva, lasciva e accorata come tutte le etere…
Un film strano, stentoreo, pletorico, contiene eccellenti e mediocre pagine assieme. Non racconta la vita di
una donna, ma di un “fenomeno”, al rullo del tamburo.
Arturo Lanocita, Il Corriere della Sera, 24 marzo 1956
… Il film di Ophüls, il suo ultimo (e unico a colori) non è una biografia convenzionale; egli costruisce un’opera
stravagante e assai barocca. In parte circo, in parte dramma, ricca di flashback, facendo vorticare la sua famosa
macchina da presa intorno a una elaborata scenografia. Martine Carol, nel ruolo della protagonista, regala
un’interpretazione cupa, emotivamente vitrea, e il re meditabondo di Anton Walbrook quasi le ruba la scena.
Proprio a causa di tutte le sue limitazioni, però, la Carol si adatta perfettamente all’idea di Ophüls. Come sempre, l’interesse del regista sta nell’abisso tra l’amore ideale e la sua disincantata e incrinata realtà. La sua Lola
è solo un vuoto su cui gli uomini proiettano le loro fantasie; il suo destino finale, come attrazione di un circo
dove vende baci per un dollaro, riduce la sua professione alla sua logica più cruda. Lola Montes, classico film
maudit, fu massacrato dalla distribuzione e per lungo tempo è stato disponibile in una versione accorciata; un
recente restauro, però, ci riconsegna il canto del cigno di Ophüls nella sua completezza e intensità:
Philip Kemp, 1001 film da non perdere, 2004
… E’ un segno inquietante che Lola Montes, abbia suscitato una controversia. Che il pubblico si stupisca delle
piccole audacie di Max Ophüls (flashback che non seguono l’ordine cronologico; giochi di maschere sullo
scomodo schermo del Cinemascope) la dice lunga sulla pigrizia intellettuale degli spettatori. Vent’anni di montaggio accademico hanno un effetto negativo. Ogni cosa che viola le abitudini percettive diventano ora oggetto
di scandalo.
Raymonde Borde, Les Temps Modernes, gennaio 1956
Dal romanzo La vie extraordinaire de Lola Montès di R. de Cecil
Saint-Laurent, adattato da Jacques Natanson, Annette Wademant
e Ophüls. Maria Dolorès Porriz y Montez, contessa di Lansfeld,
rievoca in 7 momenti i suoi prestigiosi amori (Liszt, Luigi I di
Baviera ecc.) e le sue pene. È il capolavoro (e una sorta di testamento) dello squisito, geniale Max Ophüls, l’opera dove - sullo
sfondo di una sfarzosa scenografia di teatro nel teatro - sono riassunti i suoi temi al cui centro campeggia la donna-spettacolo. In
un giuoco tragico e simultaneo di presente e passato, di finzione
e vicende reali, di esibizionismi scandalistici e doloroso martirio,
dietro il sontuoso apparato decorativo c’è la realtà di un personaggio, la sua verità interiore, come in ogni autentico spettacolo
barocco. Ha una debolezza di fondo: la scelta di M. Carol. Nel
dicembre 1955 a Parigi dà scandalo, spacca la critica in due fazioni, rischia di rovinare i produttori che ne riducono di 30’ la
durata. Ripreso nel 1968 e accolto, quasi all’unanimità, come un
trionfo. In originale girato in 3 lingue (francese, inglese, tedesco).
Fotografia (Cinemascope, Eastmancolor): Christian Matras. Restaurato dalla Cinémathèque di Parigi grazie al digitale, e ridistribuito in Francia nel dicembre 2008.
Laura, Luisa e Morando Morandini, Dizionario dei film
26
Ma è forse solo nel suo ultimo film, Lola Montès (1955), fortemente criticato oppure straordinariamente amato,
che O. getta la maschera e abbandona il sorriso. La storia della famosa ballerina che, dopo essere stata amante
del re di Baviera, Ludwig I di Wittelsbach, finisce in un circo americano a interpretare sé stessa, diviene metafora e analisi spietata del mondo dello spettacolo e dell’industria del falso. Il film è in primo luogo la crudele
descrizione dell’abbrutimento di una donna e del suo ‘domatore’ che, pur amandola teneramente, la offre ogni
sera in pasto al pubblico, insieme con le belve feroci; l’inquadratura finale, con la lunga coda di spettatori che
accorrono per baciare la mano della famosa femme fatale al modesto prezzo di un dollaro, diventa il più crudele
simbolo della società dello spettacolo che il cinema abbia mai prodotto. Tuttavia, forse proprio in questo completo degrado della protagonista e del domatore, meri relitti umani, affiora per la prima volta la possibilità dell’amore e della comprensione senza più alcuna simulazione. Disse di lui François Truffaut, un altro regista che
lo amò particolarmente: “Il gusto del lusso in Max Ophuls mascherava in realtà un grande pudore; ciò che cercava - un tempo, una curva - era così fragile e tuttavia così preciso che occorreva proteggerlo in un imballaggio sproporzionato come un gioiello prezioso che venga nascosto in quindici scrigni sempre più grandi,
rinserrati gli uni negli altri” (Les films de ma vie, 1975; trad. it. 1978, p. 186).
Sandro Bernardi, Enciclopedia del Cinema, 2004
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PICCOLO GLOSSARIO
N ATIONAL F ILM R EGISTRY . Il National Film Registry è un archivio di film scelti per la
loro conservazione nella Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti. E’ stato istituito
per preservare fino a 25 “film culturalmente, storicamente o esteticamente significativi” (“culturally, historically, or aesthetically significant films”) all’anno; per essere eleggibili, le pellicole devono avere almeno 10 anni, ma non devono essere
necessariamente dei lungometraggi o aver avuto un’uscita cinematografica.
Il National Film Registry vuole mostrare la diversità e la vasta gamma dell’eredità
cinematografica statunitense, e la missione primaria della fondazione è soprattutto quella di salvare i cosiddetti
“film orfani” (“orphan films”), ovvero pellicole ormai di pubblico dominio, senza quindi un proprietario interessato a pagare per la sua conservazione.
Gli archivi includono, quindi, non solo pellicole classiche di Hollywood, ma anche documentari, cinegiornali,
film muti, film sperimentali, film non più protetti da copyright, pellicole amatoriali significative, film realizzati
al di fuori del circuito commerciale mainstream e film indipendenti. Al 2008, il National Film Registry comprende nel suo archivio 500 film.
D ANIELLE D ARRIEUX . Nel 1935 sposò il regista e scenografo francese Henri Decoin
(1890 – 1969), incontrato a Hollywood. Ottenuto un contratto dalla Universal ,
recitò a fianco di Douglas Fairbanks Jr. nel film Allora la sposo io (1938).
Nel periodo dell’occupazione tedesca, durante la seconda guerra mondiale, continuò a recitare nella Francia occupata, decisione che le procurò numerose critiche da parte dei suoi compatrioti, ma che fu motivata dalla minaccia nazista di
arrestare suo fratello, se l’attrice avesse rifiutato di collaborare.
Sempre durante la guerra divorziò dal marito e si innamorò del diplomatico dominicano e noto play-boy Porfirio Rubirosa (1909 – 1969); i due si sposarono il
18 settembre 1942.
Successivamente, alcune dichiarazioni anti-naziste portarono Rubirosa alla residenza forzata in Germania. La Darrieux accettò di effettuare un viaggio promozionale a Berlino in cambio
della liberazione del marito. Ottenuto il suo rilascio, i due andarono a vivere in Svizzera fino alla fine del conflitto; si separarono nel 1947.
Successivamente, l’attrice sposò il regista George Mitsikides nel 1948, con il quale ha vissuto fino alla morte
di lui, avvenuta nel 1991.
Nel 1951 ricevette un’offerta dalla MGM per il film musicale Ricca, giovane e bella. Joseph L. Mankiewicz la
convinse a ritornare a Hollywood, dove recitò con James Mason nel film di spionaggio Operazione Cicero (1953).
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Tornata in Francia, apparve in L’uomo e il diavolo (1954) di Claude Autant-Lara, al fianco di Gérard Philipe.
L’anno successivo recitò in L’amante di Lady Chatterley (1955) di Marc Allégret, che venne censurato dalla
chiesa statunitense. Interpretò un ruolo di secondo piano nel film epico Alessandro il Grande (1956), con Richard Burton, che fu il suo ultimo film negli Stati Uniti. Lewis Gilbert la invitò in Inghilterra, con successo, a
partecipare al suo film Quell’estate meravigliosa (1961) con Kenneth More.
Nel 1963 recitò al teatro Chatelet a Parigi nella commedia romantica La Robe Mauve de Valentine. In seguito
sostituì Katharine Hepburn nel musical di Broadway Coco, basato sulla vita di Coco Chanel.
L OUISE L EVEQUE DE V ILMORIN . Louise Leveque de Vilmorin (1902-1969), nata nel castello
dei Vilmorin, celebre famiglia di botanici, si fidanzò nel 1923 con Antoine de SaintExupéry ma sposò nel 1925 uno statunitense, Henry Leigh Hunt, con cui andò ad
abitare a Las Vegas, in Nevada. Da questa unione nacquero tre figli: Jessie, Alexandra
e Éléna. Divorziato da Hunt, si risposò nel 1938 con il conte Paul Pálffy ab Erdöd
dal quale divorziò nel 1943. Questi anni sono per Louise « les plus belles de [sa] vie.
» Diviene a partire dal 1942 l’amante di Paul Esterházy de Galántha e poi di Duff
Cooper, ambasciatore della Gran Bretagna in Francia. Per ultimo, si legò ad un amore
di gioventù, André Malraux.
Louise de Vilmorin pubblicò il suo primo romanzo, Sainte-Unefois, nel 1934, su incoraggiamento di André
Malraux, a cui seguirono Fiançailles pour rire (1939), Julietta (1951) e Madame de…(1951).
G UY DE M AUPASSANT . Maupassant pubblicò nel 1881 il suo primo volume di racconti, La
Maison Tellier, che arrivò in due anni alla dodicesima edizione. I suoi racconti ed i suoi
romanzi presentano spesso una satira, ora feroce, ora bonaria, della piccola borghesia,
guardata con senso di superiorità. La stupidità, la cupidigia, la crudeltà e soprattutto la
meschinità sono nella sua opera un dato onnipresente, trasversale ad ogni ceto sociale,
e spesso l’amore fisico, a volte bestiale, è rappresentato come l’unica vera “consolazione”.Le sue novelle si contraddistinguono per lo stile breve e sintetico, e per l’ingegnosità con cui i singoli temi sono sviluppati. Eccelse nell’arte della costruzione
dell’intreccio, ma la sua narrazione non ha il carattere di indagine scientifica tipico del
Naturalismo, dal quale Maupassant prese le distanze.
Morì a 43 anni, dopo diciotto mesi di incoscienza, e venne sepolto nel cimitero di Montparnasse a Parigi.
Maupassant fu profondamente influenzato da Zola e Flaubert, nonché dalla filosofia di Schopenhauer. I suoi
racconti ed i suoi romanzi presentano spesso una satira, ora feroce, ora bonaria, della piccola borghesia, guardata
con senso di superiorità. La stupidità, la cupidigia, la crudeltà e soprattutto la meschinità sono nella sua opera
un dato onnipresente, trasversale ad ogni ceto sociale, e spesso l’amore fisico, a volte bestiale, è rappresentato
come l’unica vera “consolazione”.
Le sue novelle si contraddistinguono per lo stile breve e sintetico, e per l’ingegnosità con cui i singoli temi
sono sviluppati. Eccelse nell’arte della costruzione dell’intreccio, ma la sua narrazione non ha il carattere di
indagine scientifica tipico del Naturalismo, dal quale Maupassant prese le distanze.
J ACQUES L AURENT . Con lo pseudonimo Cécil Saint-Laurent (1919-2000) ha pubblicato
una serie di libri tra l’avventuroso e il piccante, la cui protagonista, Caroline, è divenuta famosa: Caroline chérie (1948), Un capriccio di Caroline (Un caprice de
Caroline, 1952) ecc.
Con lo pseudonimo di Albéric Varenne ha invece pubblicato vari saggi e con il proprio nome (Jacques Laurent) romanzi di maggior valore letterario: I corpi tranquilli
(Les corps tranquilles, 1948), Le sciocchezze (Les betises, 1971). Con quest’ultimo
titolo ottenne il premio Goncourt).
Ha inoltre usato gli pseudonimi: Dupont de Ména, Roland de Jarnèze, Roland de
Jarneze, Alain de Sudy, Gilles Bargy, Laurent Labattu, J.C Laurent.
Il 26 giugno 1986 succedette a Fernand Braudel nel seggio 35 dell’Académie française
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M ARTINE C AROL . Nata Marie-Louise-Jeanne Mourer, fu, tra la fine della seconda guerra
mondiale e l’avvento di Brigitte Bardot, la regina del sex appeal francese. Dopo aver
frequentato corsi di recitazione e svolto un regolare apprendistato teatrale, esordì sullo
schermo nel 1943, facendosi notare con Gli amanti di Verona (1948) di André Cayatte,
ma diventando una diva a tutti gli effetti con Caroline chérie (1951), tratto da un romanzo di Cécil Saint-Laurent: un sagace adattamento di Jean Anouilh e un seno generosamente scoperto conquistarono il pubblico. La sua bellezza sana, poco complicata,
simpatica a tutti, fu valorizzata in film in costume come Lucrezia Borgia (1953), Madame du Barry, Nanà (1955). Tuttavia la sua coquetterie d’esportazione, corrispondente
all’idea della donna francese che hanno gli stranieri, s’impose anche in parti moderne
come Adorabili creature (1952), diretto da suo marito Christian-Jaque Il carnet del maggiore Thompson (1955),
e la serie di Nathalie. Non mancano nella sua carriera le interpretazioni impegnative: Le belle della notte (1952)
di René Clair, La spiaggia (1954) di Alberto Lattuada, Vanina Vanini (1961) di Roberto Rossellini e soprattutto
Lola Montès (1955) di Max Ophüls, con cui s’è assicurata un posto nella storia del cinema come arte (in quella
del cinema come costume c’era già grazie a Caroline Chérie). Il suo ultimo film fu L’enfer est vide, uscito postumo. Venne trovata morta il 6 febbraio 1967, all’età di 45 anni, in una camera dell’Hotel de Paris di Montecarlo.
A RTHUR S CHNITZLER . Schnitzler nasce da famiglia ebraica a Vienna, dove frequenta
le scuole superiori. Successivamente si laurea in medicina. Già durante gli studi universitari emerge la sua inclinazione letteraria, ma la sua prima opera è del 1888: l’atto
unico L’avventura della sua vita. In essa compare per la prima volta il personaggio di
Anatol che darà il nome ad un ciclo di atti unici. Alla morte del padre lascia l’impiego
ospedaliero e apre uno studio medico privato. Nel 1895 viene rappresentato al Burgtheater di Vienna, Amoretto che dà subito notorietà e successo all’autore. Nel 1900
pubblica Sottotenente Gustl che provoca la sua radiazione da tenente medico dell’esercito, a seguito della impietosa rappresentazione della vita militare fatta nel romanzo.
Nel 1903. va in scena a Monaco di Baviera Girotondo, scritto tre anni prima e mai
pubblicato, provocando un notevole scandalo per il presunto cinismo con cui vengono
rappresentati i rapporti tra cinque uomini e altrettante donne che sono uniti da un filo
comune. Il testo teatrale viene pubblicato dopo pochi mesi dalla rappresentazione, riportando un successo di vendite strepitoso. Girotondo è tuttora un lavoro molto rappresentato
S IMONE S IMON . Attrice francese, di madre italiana, nata a Marsiglia il 23 aprile
1911. Bruna, minuta, caratterizzata dallo sguardo intenso e dalle labbra carnose, conobbe un immediato successo impersonando fanciulle dalla grazia
schietta e un poco acerba, ma è ricordata soprattutto per i ruoli che ne esaltarono l’insinuante e misteriosa sensualità: si pensi alle sue interpretazioni in
L’angelo del male (1938) di Jean Renoir o in Il bacio della pantera (1942)
diretto da Jacques Tourneur, un film, quest’ultimo, divenuto addirittura oggetto
di venerazione per gli appassionati del cinema horror.
A intuirne il talento fu il regista Marc Allégret che la portò al successo affiancandola a Jean-Pierre Aumont in Il lago delle vergini (1934), nel ruolo di una spigliata fanciulla alle prese con le
prime pene d’amore, e in Il sentiero della felicità (1935). A Hollywood su invito di Darryl Zanuck, la Simon apparve in due film in cui si trovò a recitare con un Tyrone Power alle prime armi. Sostenne poi il ruolo dell’orfana
Diane in Settimo cielo (1937) di Henry King, al fianco di James Stewart, ed ebbe la parte di una cantante in Josette
(1938) di Allan Dwan. Tornata in patria, fu scelta da Renoir per il personaggio di Séverine, torbida donna bambina,
che finisce strangolata da un ferroviere (Jean Gabin) in L’angelo del male, dal romanzo di É. Zola. Durante l’occupazione tedesca della Francia, fu di nuovo a Hollywood dove recitò in L’oro del demonio (1941) di William
Dieterle, e in Il bacio della pantera nel ruolo della stilista che vive nel terrore di trasformarsi, in preda alla passione,
in un sanguinario felino. Rientrata in Europa, apparve in due raffinate opere di Max Ophuls: La ronde - Il piacere
e l’amore (1950), in cui è una deliziosa servetta viennese, ne Il piacere (1952), dove è la modella che conquista
l’amore di un pittore dopo un tragico tentativo di suicidio. Recitò poi in altri film, tra cui I tre ladri (1954) di
Lionello De Felice, accanto a Totò, ma non incontrò più registi particolarmente dotati e si ritirò.
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SOMMARIO
INTRODUZIONE.............................................................................................................................................3
Un maestro da ricordare........................................................................................................................3
La nostra rassegna.................................................................................................................................4
I grandi temi di Max Ophüls.................................................................................................................4
Una vita intensa, tormentata e breve (1902-1957)................................................................................5
Filmografia............................................................................................................................................6
I FILM...............................................................................................................................................................7
lettera da una sconosciuta......................................................................................................................9
La ronde - Il piacere e l’amore.............................................................................................................13
Le plaisir - Il piacere............................................................................................................................17
I gioeielli di Madame de... ..................................................................................................................21
Lola Montes.........................................................................................................................................25
PICCOLO GLOSSARIO.................................................................................................................................29