Cittadinanza e convivenza civile nella scuola

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Cittadinanza e convivenza civile nella scuola
I PROBLEMI DELL’EDUCAZIONE
a cura di Bianca Spadolini
Sandra Chistolini
(a cura di)
CITTADINANZA E
CONVIVENZA CIVILE
NELLA SCUOLA EUROPEA
Saggi in onore di Luciano Corradini
ARMANDO
EDITORE
CHISTOLINI, Sandra (a cura di)
Cittadinanza e convivenza civile nella scuola europea. Saggi in onore di Luciano Corradini;
Pres. di S. Chistolini; Pref. di R. Cipriani
Roma : Armando, © 2006
480 pp. ; 24 cm. (I problemi dell’educazione)
ISBN 88-8358-928-9
I Dalla Torre, Giuseppe II Chistolini, Sandra III Santerini, Michela (et al.)
1. Cittadinanza/Convivenza/Insegnamento
2. Riforma italiana/Scuola europea
3. Educazione civica/Società
CDD 370
© 2006 Armando Armando s.r.l.
Viale Trastevere, 236 - 00153 Roma
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23-01-098
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(compresi i microfilm e le copie fotostatiche), in lingua italiana, sono riservati per tutti i Paesi.
L’editore potrà concedere a pagamento l’autorizzazione a riprodurre una porzione non superiore a un decimo del presente volume. Le richieste di riproduzione vanno inoltrate a:
Associazione Italiana per i Diritti di Riproduzione delle Opere dell’ingegno (AIDRO); [email protected]
Sommario
Presentazione di Sandra Chistolini
Prefazione di Roberto Cipriani
7
11
PARTE PRIMA
CONVIVENZA CIVILE E CITTADINANZA:
VALORI DA CONOSCERE E DA VIVERE
13
1. Confini. Pensieri di un giurista su una tematica di frontiera Giuseppe
Dalla Torre
2. Albori di convivenza nella società dei talenti Sandra Chistolini
3. Educazione civica, educazione alla cittadinanza, educazione alla convivenza civile Milena Santerini
4. L’educazione alla “cittadinanza” nella scuola. Una riflessione pedagogica fra utopia e possibilità Maria Teresa Moscato
5. I saperi della cittadinanza Emilio Lastrucci
6. Tradizione cristiana e cittadinanza di pace Emilio Butturini
7. L’educazione dei giovani alla cittadinanza attiva Carlo Nanni
PARTE SECONDA
EDUCARE ALLA CITTADINANZA EUROPEA
NELLE SCUOLE DELL’EUROPA
1. L’educazione alla politica per la costruzione dell’Europa Piero Bertolini
2. L’educazione alla cittadinanza in alcuni curricula europei François
Audigier
3. L’insegnamento per la cittadinanza europea Elisa Gavari Starkie e José Luis García Garrido
4. Educare alla cittadinanza, educare all’Europa nell’era della globalizzazione Rosetta Finazzi Sartor
5. Scuola, convivenza civile e interculturalità Luisa Santelli Beccegato
6. Quando la scuola europea elabora cultura religiosa: tra ruolo identitario e educazione alla convivenza Flavio Pajer
7. Cittadinanza e convivenza civile nella scuola pubblica europea: prospettiva pedagogico-sociale e strategie della “modularità” Giuditta
Alessandrini
15
25
33
43
54
61
75
93
95
100
122
131
140
152
168
5
PARTE TERZA
LA CONVIVENZA TRA FATTI E VALORI
NELLA SCUOLA DELLA RIFORMA
1. La dimensione europea e internazionale nei documenti della riforma
della scuola italiana Giuseppe Bertagna
2. La convivenza civile e l’educazione Luciano Amatucci
3. Educazione e cittadinanza sostenibile Roberto Albarea
4. Educazione alla convivenza civile: modelli e prospettive didattiche
Paolo Calidoni
5. Educazione alla convivenza civile e percorsi formativi Pasquale Moliterni
6. La convivenza degli insegnanti e il mobbing nella scuola Isabella
Poggi e Lara Boschetti
7. Conoscere e convivere: le nozioni infantili sulla realtà sociale Merete Amann
8. La formazione degli insegnanti per lo sviluppo delle nuove generazioni Lucia Chiappetta Cajola
PARTE QUARTA
ORIZZONTI DI SENSO TRA PASSATO E PRESENTE
1. La “Città interiore”di Platone e la nuova cittadinanza Mario Ferracuti
2. Jacques Maritain e L’Europa: il pluralismo come metodologia Piero
Viotto
3. Per educare alla democrazia… il messaggio di Augusto Baroni Sira
Serenella Macchietti
4. Lo straniero e l’educazione. Spunti per una riflessione storiografica
Carmela Covato
5. L’educazione alla convivenza civile in Giorgio La Pira Marco Paolino
PARTE QUINTA
PROFILO DI LUCIANO CORRADINI
183
185
206
211
219
223
237
245
255
269
271
276
289
297
304
311
1. Educare la persona, il cittadino, il lavoratore. Linee per un’educazione alla convivenza civile nella pedagogia di Luciano Corradini Andrea Porcarelli
313
2. Luciano Corradini sottosegretario alla Pubblica Istruzione e l’educazione degli adulti Sofia Corradi
334
3. Appendice bio-bibliografica
343
6
Tabula gratulatoria
Abozzi Angela
Acone Giuseppe
ADI
Agazzi Evandro
AGe
Agosti Alberto
Aguzzoli Sergio
Albarea Roberto
Alessandri Luisa
Alessandrini Giuditta
Alici Luigi
Allulli Giorgio
Amann Merete
Amatucci Luciano
Ancarani Giovanni
Angori Sergio
Antiseri Dario
Antonopoulos Panagiotis
Aprea on. Valentina
Ardizzone Maria Rosa
Arena Angela
Arioli M. Geltrude Maria Luisa
Associazione Athenaeum
Audigier François
Augenti Antonio
Auxilium Pontificia
Facoltà di Scienze dell’Educazione
Baccile Gennaro
Badini Gino
Dirigente scolastico, Roma
Università di Salerno
Associazione docenti italiani, Bologna
Università di Genova
Associazione genitori, Rovigo
Università di Verona
Medico primario, Reggio Emilia
Università di Udine
Presidente UCIIM, Schio, Vicenza
Università Roma Tre
Università di Macerata, Presidente
dell’Azione Cattolica Italiana
Dirigente di Ricerca ISFOL
Università Roma Tre
Università di Urbino
Università Cattolica di Milano
Università di Siena, sede di Arezzo
Università LUISS, Roma
Università di Ioannina, Grecia
Sottosegretario MIUR, Roma
Supervisore del Tirocinio, Università Roma
Tre
Dirigente scolastico
Monastero benedettino, Milano
Roma
Università di Ginevra
Presidente Università S. Pio V, Roma
Roma
Consulente Finanziario, Ortona, Chieti
Presidente Stampa Reggiana “G. Bedeschi”
I
Baice Maria Maddalena
Balboni Enzo
Baldelli Vinicio
Balduzzi Renato
Barducci Alberto
Barigelli Calcari Rosalen Paola
Barozzi Giulio Cesare
Basile Vittorio
Bassani Siro
Bassotto Italo
Battelli Giuseppe
Belardinelli Mario
Bellingreri Antonio
Benvenuto Alfonso
Bergamaschi Aldo
Bergantino Elio
Berlinguer Luigi
Bernardini Angelo
Bertagna Giuseppe
Bertellotti Carlo
Bertini Mario
Bertolini Maria Gloria
Bertolini Piero
Biagini Transerici M.Pia
Bianco Gerardo
Biblioteca di Area Umanistica
Biblioteca Panizzi
Bignardi Paola
Binanti Luigino
Biondi Giovanni
Biraghi Graziano
Bisazza Madeo Anna
Bisleri Carla
Bocca Giorgio
II
Già Presidente Regionale UCIIM, Veneto
Università Cattolica, Milano
Già deputato e Vice Presidente UCIIM,
Gubbio
Università di Genova, Presidente MEIC
Dirigente Industriale
Presidente sezione UCIIM, Pordenone
Università di Bologna
Dirigente scolastico, Manduria, Taranto
Esperto in Risorse Umane, Milano
Ispettore MIUR, Mantova
Università di Bologna
Università Roma Tre, già Preside di Facoltà
Università di Palermo
Dirigente scolastico Istituto Panzini di Senigallia
Università di Verona
Ricercatore, Matera
Membro CSM, già Rettore, Deputato e Ministro P. I. 1996-2000
Dirigente scolastico, Avezzano
Direttore di Dipartimento, Università di
Bergamo
Dirigente scolastico e presidente UCIIM,
Pesaro
Università di Roma “La Sapienza”
Docente, Caravaggio, Bergamo
Università di Bologna
Università Telematica G. Marconi, Roma
Deputato e Ministro P. I. 1990-1991
Dipartimento di Scienze dell’Educazione,
Università Roma Tre
Reggio Emilia
Direttore “Scuola Italiana Moderna”, Brescia
Università di Lecce
Direttore INDIRE, Firenze
Presidente Regionale AIMC, Lombardia
Consigliere centrale UCIIM, Cosenza
Assessore Istruzione Comune di Brescia
Università di Bolzano
Boda Giovanna
Bodrato Guido
Böhm Winfried
Bombardelli Olga
Bonacini Luciano
Bonelli Giuseppe Alfredo
Bonomelli Valeria
Bonomo Dionisio
Borgatti Giacomo
Borrelli Michele
Boschetti Lara
Boschi Mario
Bottazzi Luigi
Bracaloni Marisa
Brambilla Franco
Brilli Barbara
Brocca Beniamino
Bruni Nicola
Bucchioni Maria Pia
Bucci Sante
Bucciarelli Claudio
Busedra Suliman
Butturini Emilio
Butturini Francesco
Caimi Luciano
Cajola Chiappetta Lucia
Caldin Roberta
Calidoni Paolo
Calvaruso Paolo Francesco
Cambi Franco
Camponeschi Augusto
Cananzi Raffaele
Candela Rosalba
Canevaro Andrea
Psicologa, Roma
Già Deputato Italiano e Europeo, Ministro P.
I. 1980-82
Emerito, Università di Würzburg, Germania
Università di Trento
Dirigente scolastico, Reggio Emilia
Dirigente scolastico, Monza
Docente, Darfo, Brescia
Segretario Nazionale CISL Scuola
Università di Reggio Emilia
Università della Calabria
Università Roma Tre
Dirigente CISL, Roma
Dirigente Camera Commercio, Reggio Emilia
Coordinatrice Rete Telematica Istituti Comprensivi, Pisa
Coordinatore Formazione Permanente, Università Cattolica di Milano
Laureanda Università Roma Tre
Università di Bolzano
Giornalista, già docente, Roma
Dirigente scolastico MIUR, Roma
Istituto Universitario Scienze Motorie, Roma
Università Pontificia Salesiana, Roma
Diplomatico, studente Master Università
Roma Tre
Preside della Facoltà di Scienze della Formazione, Università di Verona
Dirigente scolastico, Verona
Università Cattolica di Milano
Università Roma Tre
Università di Padova
Università di Sassari
Docente, Palermo
Università di Firenze
Dirigente scolastico a riposo, Roma
Avvocato generale dello Stato, Roma
Presidente UCIIM Sicilia, Trapani
Università di Bologna
III
Capaldo Pellegrino
Capitini Maria Cristina
Capodanno Francesco
Caporale Vittoriano
Cappello Giancarlo
Capputi Rosetta
Carastro Giandiego
Cardarello Roberta
Carlino Franco Emilio
Casaburi Aminta
Casarano Giovanni
Casarin Diana
Casavola Francesco Paolo
Caselli Emanuela
Castagnetti on. Pierluigi
Castoldi Mario
Castronuovo Francesco
Casula Carlo Felice
Catarsi Enzo
Catarzi Marzio
Catellani Ileana
Caterina Perta
Cattaneo Augusta e Mario
Cattaneo Piero
Cattin Giulio
Cavallari Maria Vittoria
Cavallera Hervé A.
Cenerini Alessandra
Cerchiaro Fernando
Cerini Piera
Checcacci Cesarina
Chesi Sandro
Chiaranda Mirella
Chiesa Domenico
Chiosso Giorgio
IV
Università di Roma “La Sapienza”
Già Presidente UCIIM Montefiascone, Viterbo
Presidente onorario UCIIM Sicilia
Università di Bari
Dirigente scolastico, Rovigo
Istituto Salesiano CIOSF
Segreteria Nazionale MSAC
Università di Reggio Emilia
Presidente UCIIM, Mirto-Rossano
Docente, già Segretaria centrale UCIIM,
Roma
Presidente UCIIM, Galatina, Lecce
Presidente MCE
Presidente emerito Corte Costituzionale
Presidente Azione Cattolica, Reggio Emilia
Parlamentare, Reggio Emilia
Università di Torino
Dirigente scolastico e consigliere centrale
UCIIM Taranto
Università Roma Tre
Università di Firenze
Vice Presidente ARDEP, Collegno, Torino
Bibliotecaria, Reggio Emilia
Dirigente scolastico, Potenza
Pedagogisti, Brescia
Università Cattolica di Piacenza
Università di Padova
Vice Presidente Nazionale UCIIM, Roma
Università di Lecce
Presidente ADI, Bologna
Dirigente scolastico, Treviso
Supervisore del Tirocinio, Università Roma
Tre
Presidente onoraria UCIIM e SIESC, Roma
Già docente e Presidente FISM, Reggio
Emilia
Università di Padova
Presidente del CIDI
Università di Torino
Chistolini Sandra
Cicatelli Sergio
Cilloni Andrea
Cinà Salvatore
Cipriani Roberto
Clerici Sora Arria
Cogliati Dezza Vittorio
Colasanto Michele
Coletta Patrizia
Coletti Mons. Diego
Colombo Giovanni
Colosio Giuseppe
Coltelli Pierangelo
Conti Andorno Franco
Corduas Gigliola
Corradi Sofia
Corsi Michele
Corsini Alessandro
Corsini Paolo
Cosentino Giuseppe
Costa Massimiliano
Costa Silvia
Covato Carmela
Criscione Maria Grazia
Cristanini Dino
Crivelli Angela
Dal Covolo Enrico
Dal Lago Olinto
Dal Toso Paola
Dalla Torre Giuseppe
Università Roma Tre
Dirigente scolastico, esperto UCIIM, Roma
Esperto in cooperazione allo sviluppo, Reggio Emilia
Università Pontificia Santa Croce
Direttore del Dipartimento di Scienze dell’Educazione, Università Roma Tre
Già Presidente UCIIM, Brescia
Presidente di Legambiente Scuola e formazione
Università Cattolica, Milano, già Prorettore
e Presidente ISFOL
Laureanda, Università Roma Tre
Vescovo di Livorno, Presidente Commissione Episcopale Educazione, Scuola, Università
Presidente “Rosa Bianca Italia”, Milano
Dirigente CSA, Brescia
Dirigente scolastico, già Presidente UCIIM,
Massa, Toscana
Socio UCIIM
Presidente FNISM, Roma
Università Roma Tre
Preside di Facoltà Università di Macerata
Docente, Reggio Emilia
Sindaco di Brescia, già deputato al Parlamento italiano
Dirigente Generale MIUR
Assessore e Vice Presidente Regione Liguria
Assessore regionale istruzione Lazio, già
sottosegretario MIUR
Università Roma Tre
Socio UCIIM, Ragusa
Ispettore MIUR, Verona
Presidente onoraria AGe
Università Pontificia Salesiana di Roma,
consulente AIDU
Presidente UCIIM Piemonte-Val D’Aosta
Università di Verona
Rettore Magnifico LUMSA, Roma
V
Dalle Fratte Gino
Dallera Ovidio
Damiano Elio
Danisi Angela
Danuvola Paolo e Eugenia
De Carli Sergio
De Fina Luigi
De Mauro Tullio
De Munari Bortoli Bice
De Natale Maria Luisa
De Rita Giuseppe
De Santis Anna Eugenia
Del Rio Graziano
Desinan Claudio
Di Gregorio Anna
Di Iorio Maria Donata
Di Maggio Domenico
Di Pol Redi Sante
Di Raimondo Gabriella
Di Vuono Maria
Dini Lamberto
Dominici Anna Maria
D’Onofrio Francesco
Dossetti don Giuseppe
Ducci Edda
Durand Jean Dominique
Dutto Mario
Elia Giuseppe
Esposito Gabriella
Eusebi Luciano
Fabiani Guido
Facoltà di Scienze della Formazione
Falcucci Franca
VI
Università di Trieste
Ispettore MIUR, Milano
Università di Parma
Università di Bari
Dirigenti scolastici, Milano
Presidente ANIR, Milano
Dirigente scolastico, Presidente UCIIM Matera
Università di Roma “La Sapienza”, Ministro
P. I. 2000-2001
Socia UCIIM, Schio, Vicenza
Prorettore Università Cattolica di Milano
Segretario generale CENSIS, già Presidente
CNEL
Docente a riposo, Milano
Sindaco di Reggio Emilia
Università di Trieste
Consigliere centrale e Presidente provinciale UCIIM, Roma
Docente, Isernia
Preside a riposo, già Vice Presidente nazionale UCIIM, Napoli
Università di Torino e Presidente FISM
Università LUMSA, Roma
Docente, Palermo
Vicepresidente del Senato, già Presidente
del Consiglio 1995-96
Dirigente generale USR MIUR, Piemonte
Senatore, già Ministro P. I. 1994-95
Parroco, Reggio Emilia
Università Roma Tre
Università di Lione
Dirigente generale USR MIUR per la Lombardia
Università di Bari
Università di Teramo e Presidente UCIIM,
Teramo
Università Cattolica di Piacenza
Rettore Magnifico, Università Roma Tre
Reggio Emilia
Già Senatrice e Ministro della P. I. 1982-87
Fassin Ivan
Fava Marina
Fenizia Anna
Fenizia Esther
Fenizia Gennaro
Feola Marcello
Ferracuti Mario
Ferrara Virginio
Ferraroni Angela
Ferri Giorgio
Fiasconaro Michele
Filippi Natale
Filipponi Marina
Finazzi Sartor Rosetta
Fiorin Italo
Fondazione G. Tovini
Formentini Carmen
Fotiou Evangelia
Frabboni Franco
Franzoni Vittorio
Frauenfelder Eliana
Furini Gino
Fusco Girard Luigi
Fusconi Agostino
Gagliardi Pasquale
Galati Gino
Galli Norberto
Galloni Giovanni
Gambino Alberto
Gandini Emilio
Già dirigente scolastico e Presidente BDP
Sondrio
Dirigente scolastico e segreteria nazionale
UCIIM Roma
Docente, Roma
Storica dell’arte, Roma
Dirigente Presidenza del Consiglio Ministri,
Roma
Dirigente MIUR Roma
Università Cattolica di Piacenza
Dirigente scolastico e Presidente UCIIM,
Napoli
Già formatrice OPPI, Piacenza
Dirigente di azienda, Milano
Formatore, già dirigente scolastico, Mantova
Università di Padova
Presidente IRRE Marche e Presidente regionale UCIIM, Marche
Università di Padova
Università LUMSA, Roma
Brescia
Docente, Bagnolo in Piano, Reggio Emilia
Studente Master Università Roma Tre
Preside Facoltà di Scienze della Formazione
e Presidente IRRE Emilia Romagna, Bologna
Già dirigente scolastico e Presidente
UCIIM, Reggio Emilia
Università di Napoli
Presidente AGe Rovigo
Università “Federico II” di Napoli
Direttore Dipartimento Economia Università Cattolica di Milano
Segretario generale Fondazione Cini, Venezia
Segretario generale SNALS, Roma
Università Cattolica di Milano
Già Presidente del CSM, Deputato e Ministro P. I. 1987-89
Università “Parthenope” di Napoli
Presidente di Forma, Venezia
VII
Garavaglia Maria Pia
Garavaldi Giovanni
Garcia Garrido José Luis
Garzulli Roberto
Gasparini Duilio
Gavari Starkie Elisa
Gecchele Mario
Genesio Ugo
Gennari Mario
Gentili Claudio
Ghirardelli Paola
Giacomini Alida
Giammancheri Mons. Enzo
Giammarini Carmine
Giavini Mons. Giovanni
Giugni Guido
Giunta La Spada Antonio
Granata Angela
Greco Donato
Grimaldi Anna
Guagenti Concetta
Guasti Lucio
Guazzi Stefani Luisa
Guzzi Vincenzina
I. T. C. Scaruffi-Levi
Iacolino Federico
Iannaccone Gregorio
Ignatiou Christos
Iori Aurelio
Iori Vanna
IPRASE Trentino
IPSSAR Paolo Borsellino
IRRE Lombardia
Isolani Pieraldo
VIII
Vice Sindaco di Roma, già Ministro della
Sanità
Già dirigente scolastico, Reggio Emilia
Universidad Nacional de Educación a Distancia, Madrid
Presidente UCIIM, Vibo Valentia
Università di Genova
Universidad Nacional de Educación a Distancia, Madrid
Università di Verona
Presidente aggiunto onorario suprema Corte
di Cassazione, Sanremo
Università di Genova
Dirigente settore Scuola Confindustria, Roma
Docente, Verona
Dirigente scolastico, CSA, Lodi
Segretario di Scholé, Editrice La Scuola,
Brescia
Dirigente scolastico MIUR, Roma
Dirigente Servizio IRC Curia di Milano
Università di Perugia
Dirigente generale MIUR
Direzione generale MIUR Potenza
Dirigente generale Ministero della Salute
Già Provveditore agli studi di Cremona
Dirigente scolastico, Palermo
Università Cattolica di Piacenza
Docente, Reggio Emilia
Dirigente ITSOS, Cernusco sul Naviglio,
Milano
Reggio Emilia
Presidente UCIIM di Biella
Presidente A.N.D.I.S., Roma
Studente Master Università Roma Tre
Ricercatore sociale e formatore, Roma
Università Cattolica di Piacenza
Trento
Palermo
Milano
Dirigente ADICONSUM, Roma
Istituto Canossiano Audiofonetica
Istituto Comprensivo Montecchio
Istituto Comprensivo Scuola
Materna e Media “G. Verdi”
Istituto Magistrale
“Matilde di Canossa”
Istituto Professionale Statale
“Filippo Re”
Istituto Sorelle della Misericordia
Istituto Tecnico Statale Einaudi
Jervolino Russo Rosetta
La Rosa Salvatore
Lalli Tedeschini Bosco A. Maria
Lanciarotta don Edmondo
Laneve Cosimo
Larocca Franco
Lastrucci Emilio
Letter Livia
Liceo Scientifico “Dante Alighieri”
Limina Marcello
Lizzola Ivo
Lombardi Giancarlo
Loré Biagio
Loro Daniele
Luciani Carla
Lupidi Sciolla Maria Teresa
Macchia Giovanni
Macchietti Sira Serenella
Magno Giuseppe
Mainardi Vanda
Malavasi Pierluigi
Malizia Guglielmo
Manzini Giovanni
Marchi Corrado
Mari Giuseppe
Mariani Alessandro
Brescia
Reggio Emilia
Arezzo
Reggio Emilia
Reggio Emilia
Verona
Correggio, Reggio Emilia
Sindaco di Napoli, già Ministro P.I. 19921994
Presidente Corso di Laurea Scienze Statistiche, Università di Palermo
Già Rettore Università Roma Tre e IUSM
Responsabile pastorale scolastica, Treviso
Preside di Facoltà e Presidente SIPED
Università di Verona
Università della Basilicata
Docente, Vicenza
Matera
Rappresentante permanente dell’Italia presso l’Unione Europea
Università di Bergamo
Già Deputato e Ministro della P. I.1995-96
Università Roma Tre
Università di Verona
Presidente UCIIM, Viterbo
Vice Presidente nazionale UCIIM, Torino
Dirigente MIUR e consigliere centrale
UCIIM, Lucca
Università di Siena, Arezzo
Magistrato, Ministero Giustizia, Roma
Supervisore di Tirocinio, Università Cattolica di Brescia
Università Cattolica Milano, sede di Brescia
Università Pontificia Salesiana di Roma
Dirigente politico, già Senatore, Modena
Socio UCIIM, Bergamo
Università Cattolica di Milano
Università di Firenze
IX
Marigliano Vincenzo
Marino R. Ignazio
Marsura Mariateresa
Martirani Giuliana
Marzano Ferruccio
Marziani Spartaco
Mascioli Antonio
Massenti Achille
Mattarella on. Sergio
Mattei Francesco
Mazzanti Paolo
Mazzaperlini Mario
Merler Silvia
Merlin Clotilde
Messina Nicola
Messori Cecilia
Miceli Erasmo
Milan Giuseppe
Milani Lorena
Minelli Albertini M. Teresa
Mirabelli Cesare
Miselli Valerio
Moliterni Pasquale
Mollo Gaetano
Mongelli Domenico A.
Morandin Adriano
Moratti Letizia
Morgagni Enzo
Morselli Giovanni
Moscato Maria Teresa
Murano Dino
Musu Ignazio
X
Università di Roma “La Sapienza” e Vice
Presidente AIDU
Director Division of Transplantation Jefferson University of Philadelphia, USA
Docente, Latina
Università “Federico II” di Napoli
Università di Roma “La Sapienza”
Già Presidente consiglio regionale Trentino
Alto Adige, Trento
Presidente UCIIM, Abruzzo, Pescara
Vicesegretario generale SNALS CONFSAL,
Brescia
Deputato e già Ministro P. I. 1989-90
Università Roma Tre
Direttore Assotelecomunicazioni, Vice Presidente ARDEP, Roma
Università di Parma
Studente Master Università Roma Tre
Presidente UCIIM, Sardegna, Nuoro
Presidente Associazione Antichi Studenti
Augustinianum, Milano
Dirigente scolastico, Reggio Emilia
Presidente UCIIM Castelvetrano, Trapani
Università di Padova
Università di Torino
Socia UCIIM, Brescia
Presidente emerito Corte Costituzionale
Primario medico di Scandiano, Reggio Emilia
Istituto Universitario Scienze Motorie, Roma
Università di Perugia
Presidente Associazione “Kirner”, Roma
Presidente UCIIM Triveneto, Treviso
Ministro MIUR
Università di Bologna
Socio UCIIM di Reggio Emilia
Università di Bologna
Ispettore MIUR
Accademico Lincei Università “Ca’ Foscari”, Venezia
Nanni Carlo
Nardiello M. Grazia
Nari Mazzili Milena
Nobile Angelo
Novara Daniele
Olofredi Giorgio
Orfei Ruggero
Orlando Cian Diega
Orlarei Paola
Ornaghi Lorenzo
Paggetti Marcella
Paglietti Nicola
Pajer Flavio
Pajno Sandro
Palmieri Daniela
Palumbo Franco
Panini Enrico
Paolino Marco
Pasotti Pietro
Pasquazi Anna
Passuello Luigina
Pastori Giorgio
Pati Luigi
Pazzaglia Luciano
Pellegatta Roberto
Pellegrini Rosetta
Pellegrino Rocco
Pellicciari Gioia Adele
Pellini Rodolfo
Pepe Filomena
Perrone Maria
Persi Paris
Persi Rossella
Persico Roberto
Vice Rettore Università Pontificia Salesiana
di Roma, consulente centrale UCIIM
Direttore generale MIUR
Docente, Roma
Università di Torino
Dirigente, Centro Psicopedagogico per la
Pace, Piacenza
Milano
Politologo e pubblicista, Roma
Università di Padova
Esperto IRRE Piemonte, Torino
Rettore Magnifico Università Cattolica del
Sacro Cuore
Consigliere centrale UCIIM Volterra, Pisa
Avvocato Internazionalista, Roma
Presidente Forum europeo per l’insegnamento della religione, Roma
Consigliere di Stato e docente LUISS, Roma
Correggio, Reggio Emilia
Docente Formatore, Reggio Calabria
Segretario generale FLC CGIL, Roma
Università della Tuscia, Viterbo
Dirigente scolastico, Mantova
Università “Tor Vergata”, Roma, Vice Presidente vicaria AIDU
Università di Verona
Preside Facoltà Giurisprudenza Università
Cattolica, Milano
Università Cattolica di Brescia
Università Cattolica di Milano
Presidente DISAL, Milano
Esperta in cooperazione internazionale, Roma
Dottore
Già dirigente scolastico, Fabriano, Ancona
Docente, Reggio Emilia
Laureanda, Università Roma Tre
Socia UCIIM Reggio Emilia
Università di Urbino
Università di Urbino
Presidente DIESSE, Milano
XI
Pescia Livio
Petracca Carlo
Pierantoni Stefano
Pieretti Antonio
Poggi Isabella
Poli Sergio
Pollini Giorgio
Pollo Mario
Polverini Leandro
Pontificia Facoltà Scienze
Educazione Auxilium
Porcarelli Andrea
Portera Agostino
Presilla Franco e Gabriella
Prioreschi Mariangela
Prodi Dentella Silvia
Prodi Giovanni
Prodi Romano
Rapisarda Vincenzo
Rattazzi Giulio Cesare
Ravaglioli Fabrizio
Reale Giovanni
Regina Umberto
Reguzzoni Mario
Ribaudo Liliana
Ribolzi Luisa
Richiedei Giuseppe
Riggio Aldo
Ripamonti Ermanno
Riva Lamberto
Rizzato Rosa
Rizzi Felice
XII
Esperto europeo di istruzione e formazione,
Roma
Ispettore MIUR e consigliere centrale
UCIIM, Pescara
Dirigente scolastico e consigliere centrale
UCIIM, Milano
Università di Perugia, già Preside Facoltà di
Lettere
Università Roma Tre
Dirigente scolastico, MIUR, Roma
Dirigente scolastico, Verbania
Università LUMSA, Roma
Università Roma Tre
Roma
Presidente sezione UCIIM di Bologna
Università di Verona
Dirigente scolastico e dirigente UCIIM, Foligno, Perugia
Presidente AIMC, Roma
Presidente UCIIM di Pisa
Università di Pisa
Già Presidente del Consiglio e della Commissione Europea, Bologna
Università di Catania
Dirigente scolastico ITIS Avogadro
Università Roma Tre
Università San Raffaele, Milano
Università di Verona
Esperto europeo di problemi educativo-scolastici, Milano
Dirigente MIUR Roma
Università di Genova
Dirigente scolastico già Presidente Nazionale AGe, Brescia
Ingegnere e docente, socio UCIIM, Roma
Pedagogista, Milano
Già dirigente scolastico e deputato al Parlamento italiano, Lecco
Presidente sezione UCIIM di Este
Università di Bergamo
Rollo Mino
Romagnoli Gian Cesare
Romano Caterina
Rosati Lanfranco
Rossi Bruno
Rossi Commend. Camillo
Rossi Gabriele
Rossi Giuseppe Adriano
Rossi Paolo e Boiardi Emanuela
Rota Enrico
Roverselli Carla
Rubinacci Alfonso
Saccani Cesare
Sacchi Giancarlo
Salmaso Toderini Rosanna
Salvarani Francesco
Salvati Sandro
Salvi Maurizio
Salvucci Luciana
Sani Roberto
Sanna Sandro
Santelli Beccegato Luisa
Santerini Milena
Santilli Nino
Santonocito Carlo
Sarracino Vincenzo
Saulle Maria Rita
Savva Costantino
Scaglioso Cosimo
Scala Sergio
Scalfaro Oscar Luigi
Scordia Sonia
Scrima Francesco
Scurati Cesare
Serafini Giuseppe
Presidente UCCIM Lecce
Università Roma Tre, Consigliere AIDU
Vice Presidente nazionale UCIIM, Trapani
Università di Perugia
Università di Siena, sede di Arezzo
Fondatore sezione UCIIM di Reggio Emilia
Presidente AGe provinciale, Reggio Emilia
Presidente UCIIM, Reggio Emilia
Docenti, Reggio Emilia
Ingegnere docente, socio UCIIM, Reggio
Emilia
Università “Tor Vergata”, Roma
Esperto, Senato della Repubblica, Roma
Università di Bologna
Già Vice Presidente UCIIM, Piacenza
Già Presidente UCIIM, Padova
Seminario interdiocesano, Reggio Emilia
Dirigente scolastico e Presidente UCIIM,
Rieti
Presidente Nazionale AGe, Bergamo
Docente e saggista, Assessore Provincia di
Macerata
Magnifico Rettore Università di Macerata
Presidente sezione UCIIM di Milano
Università di Bari
Università Cattolica di Milano
Dirigente generale MIUR Abruzzo
Dirigente scolastico a riposo, Roma
Università di Napoli
Università di Roma “La Sapienza”, giudice
costituzionale
Studente Master Università Roma Tre
Università per stranieri, Siena
Vice Dirigente generale MIUR, Roma
Senatore a vita e Presidente emerito della
Repubblica
Docente, Messina
Segretario generale CISL Scuola, Roma
Università Cattolica Milano
Università di Siena, Arezzo
XIII
Serio Giuseppe
Serravalle Ethel Porzio
Sgobino Luciano
Signorelli Francesco
Silvestri Daniela
Sima Concetta
Simeoni Domenico
Simeoni Egidio
Sitari Rosario
Smiraglia Pasquale
Società Italiana di Ricerca Educativa
Spadolini Bianca
Spaggiari Giuliano
Spreafico Sandro
Stenco Mons. Bruno
Stocco Albertino
Susi Francesco
Talone Franca
Tantucci Paola
Tartaglia Antonetta
Tinelli Luisa
Tognon Giuseppe
Tomaselli Carlo
Tonelli Rodolfo
Tonna Paola
Torreggiani Odetta
Tortora Raffaele
Toschi Roberto
Trainito Giovanni
Trombetta Carlo
Troncatti Pierluigi
XIV
Direttore Qualeducazione, Presidente Fondazione G. Serio, Praja a Mare, Cosenza
Docente, già sottosegretario P. I., Roma
Consigliere, già Presidente nazionale AGe,
Roma
Ingegnere, Reggio Emilia
Università Pontificia Lateranense, Roma
Università di Messina
Università di Macerata
Presidente UCIIM Lombardia, Milano
Università LUMSA, Roma
Università Roma Tre
Roma
Università Roma Tre
Dirigente scolastico, Reggio Emilia
Docente e storico, Reggio Emilia
Direttore UNESU, CEI, Roma
Presidente UCIIM, Rovigo
Preside della Facoltà di Scienze della Formazione, Università Roma Tre
Presidente regionale UCIIM Lazio, Roma
Presidente “Ecole Instrument de Paix Italia”, Roma
Ispettore MIUR, Roma
Presidente UCIIM, Cremona
Università LUMSA, già sottosegretario
MIUR, Roma
Dottore commercialista, Figino Serenza,
Como
Dirigente scolastico e consigliere UCIIM,
Pesaro
Presidente APEF, Roma
Presidente UCIIM, Correggio, Reggio Emilia
Dirigente generale P.A., Roma
Presidente regionale UCIIM, Toscana
Già dirigente generale e capo Gabinetto Ministero P. I.
Presidente emerito Società di Psicologia
dell’Educazione e Formazione, Roma
Manager aziendale, Brescia
UCIIM Sezione Reggio Emilia
UCIIM Sezione Giorgio Berzero
UCIIM Sezione di Torino
Valentini Alberto
Vanzan Piersandro S. J.
Venturino Giovanna
Verga Novati Teresa
Viazzo Carla
Vico Giuseppe
Viganò Renata
Vigna Carmelo
Villanova Matteo
Villarossa Giovanni
Vimercati Marilena
Vinetti Lucio
Viotto Piero
Volpini Domenico
Xodo Cegolon Carla
Zani Mons. Vincenzo
Zanniello Giuseppe
Zini Angela
Reggio Emilia
Vercelli
Torino
Esperto di “Rete Camere”, Roma
Docente, scrittore “La Civiltà Cattolica”,
Roma
Socio UCIIM, Lodi, Milano
Presidente UCIIM Mariano Comense, Como
Già Presidente UCIIM, Vercelli
Università Cattolica di Milano, già Preside
di Facoltà
Università Cattolica Milano
Università di Venezia “Ca’ Foscari”
Università Roma Tre
Vice Presidente Nazionale UCIIM, Caserta
Docente ITSOS, Cernusco sul Naviglio, Milano
Dirigente scolastico, Brescia
Università Cattolica di Milano
Vice Presidente Commissione Cultura della
Camera
Università di Padova
Sottosegretario Congregazione Educazione
Cattolica Città del Vaticano, Roma
Università di Palermo, Presidente ASPEI e
IRRE Sicilia
Vice Sindaco Scandiano, Reggio Emilia
XV
Presentazione
SANDRA CHISTOLINI
Il “libro festoso” che un gruppo di colleghi pubblica in onore di Luciano
Corradini, al termine della sua carriera accademica, trae l’origine dall’ultimo
convegno internazionale da lui organizzato, il 12 dicembre 2003, come ordinario di pedagogia generale, nell’ambito della Facoltà di Scienze della formazione e del Dipartimento di scienze dell’educazione dell’Università di Roma
Tre. Titolo del convegno, come del volume qui presentato: “Cittadinanza e
convivenza civile nella scuola europea”.
Era da poco uscita la legge 28.03.2003 n. 53, che impegna la scuola italiana a “educare ai principi fondamentali della convivenza civile”. Si era al termine del semestre di presidenza italiana dell’UE. L’iniziativa aveva ottenuto il
patrocinio e un contributo del MIUR e l’adesione di tre associazioni professionali, l’UCIIM, l’AIMC e l’AIDU, oltre all’ARDeP.
Ecco perché è parso opportuno partire dalla pubblicazione degli atti del
convegno citato, per arricchire il volume con altri apporti che si collocassero
in un filone di ricerca che Corradini ha coltivato fin dagli anni giovanili e in
cui ha lasciato una traccia, in particolare nell’azione svolta come presidente
dell’IRRSAE Lombardia, come vicepresidente del CNPI e come sottosegretario di stato alla PI.
All’insegnamento universitario alla Statale di Milano Corradini è giunto
dopo tredici anni di insegnamento nella scuola secondaria e sulla base di esigenze maturate nella prassi di ricerca e di vita associativa, con gruppi di docenti, di studenti, di genitori, nella nativa Reggio Emilia.
Partecipazione, innovazione, sperimentazione, formazione in servizio, sono stati i problemi da lui affrontati anche nella presidenza dell’IRRSAE Lombardia, nuova e complessa creazione dei Decreti delegati del 1974, dotata di
grandi idee e di deboli strumenti che, negli anni ’80, si trattava di portare alla
emersione istituzionale e di far funzionare al meglio.
Una convenzione a costo zero fra il Ministero e l’Università di Milano, gli
consentì di lavorare presso l’Ufficio Studi e Programmazione e di promuovere e sostenere iniziative che sono entrate nella storia della scuola italiana con i
progetti Giovani ‘93 e Ragazzi 2000. In essi si misero in luce i nessi fra curricolo scolastico, educazione alla salute e diritti-doveri di cittadinanza.
7
Alla vicepresidenza del Consiglio nazionale della pubblica istruzione giunse nel 1989, su designazione del mondo associativo e sindacale, sulla base dell’esperienza condotta nell’IRRSAE. Si rese così possibile quello che Corradini ha definito in un saggio “Un sogno a Viale Trastevere”, sogno facilitato dalla chiamata dei colleghi del Magistero all’Università di Roma La Sapienza, all’inizio degli anni ’90, sulla cattedra fino ad allora tenuta da Mauro Laeng.
I risultati di queste iniziative istituzionali sono stati portati a sintesi nel
“curricolo continuo di educazione civica e cultura costituzionale”, elaborato
dalla commissione ministeriale da lui presieduta nel 1995-96, come sottosegretario di stato nel governo Dini, col ministro Lombardi, e successivamente
sono filtrati nello statuto degli studenti e negli obiettivi di apprendimento relativi all’educazione alla convivenza civile.
Fra i molti problemi affrontati, egli ha continuato ad esplorare da diversi
punti di vista, in rapporto ai soggetti scolastici, quella “difficile convivenza”
che un consistente filone della pedagogia contemporanea e recenti leggi dello
Stato si propongono di fare evolvere e di trasformare in comunità educativa.
Nelle sue opere l’educazione è teoria e pratica dell’impegno di qualificazione personale e di partecipazione al fine di rendere le istituzioni più umane,
più accoglienti e più efficienti, a cominciare dalla famiglia e dalla scuola,
proiettate sullo sfondo di un’ipotetica società educativa. Assi della sua riflessione pedagogica sono i valori costituzionali della persona, del cittadino, del
lavoratore. Il confronto costante tra ipotesi e verifiche lo conduce a mantenere
fra loro in tensione permanente l’esigenza di legittimazione etica e l’esigenza
di realizzazione tecnica, attraverso una mediazione pedagogica e politica, che
rendano possibile l’incontro fra mondi vitali e mondi istituzionali.
Frattanto, nel nuovo secolo, la situazione scolastica e quella politico-istituzionale, dal livello locale a quello nazionale, europeo e mondiale, si sono fatte più complesse e aggrovigliate. Si pensi alle difficoltà della riforma dello stato e del sistema educativo di istruzione e formazione, alla crisi economica e
produttiva del nostro Paese, all’allargamento e alla crisi della costruzione europea, alla crisi dell’ONU, alle emergenze ecologiche, terroristiche in un contesto demografico, intergenerazionale e interculturale, che presenta notevoli
difficoltà di “registro” fra le diverse tavole di valori oggi disponibili. Preoccupa in particolare la debolezza del “capitale sociale”, più profondamente “civico” e “morale” che non da oggi caratterizza il nostro Paese.
L’espressione forte “cittadinanza” e l’espressione più mite e pedagogicamente affrontabile “educazione alla convivenza civile”, che caratterizzano questo volume, debbono ora misurarsi con problematiche riferite ad ambiti territoriali, culturali, istituzionali che sono come altrettanti cantieri percorsi da tensioni fra demolizione e costruzione, fra barbarie e solidarietà, fra disperazione
e speranza. La sfida della convivenza civile comporta la continua riflessione
sulla realtà in movimento e la continua elaborazione di schemi e di proposte
che consentano di capire, di sentire e di volere la “buona società” che la nostra
epoca deve impegnarsi a costruire con rinnovata energia.
8
È a questa costruzione che forniscono importanti saggi i colleghi italiani ed
europei che hanno generosamente accettato di far parte del “gruppo di lavoro”
che ha dato vita a questo volume. Esso intende fare il punto e offrire orientamenti sugli aspetti teorici, culturali e didattici relativi alla scuola italiana e alla formazione dei docenti, nel contesto della scuola europea e dell’educazione
a vivere in Europa.
Si spera in tal modo di fornire un contributo utile a tutti coloro che, da diversi settori di ricerca, di educazione e d’intervento sociale e politico, si sentono chiamati in causa dalla situazione drammatica e stimolante che caratterizza la convivenza civile del nostro tempo.
9
10
Prefazione
ROBERTO CIPRIANI*
Chi ha conosciuto Luciano Corradini ha difficoltà a stabilire in quale ambito la sua personalità spiccata abbia il carattere di un’eccellenza preminente
rispetto agli altri settori in cui il Nostro si è cimentato. Verrebbe da pensare subito al suo impegno politico e alla sua avventura governativa come sottosegretario di stato. Ma altri sottolineerebbero la sua dedizione all’associazionismo
di ispirazione cattolica. A qualcuno invece piacerebbe enfatizzare la sua
straordinaria capacità di inventare soluzioni a carattere partecipativo-sociale
per aiutare a risolvere i problemi del Paese. Ma forse l’aspetto più avvincente
e convincente è quello della sua relazionalità interpersonale, talora coltivata sino allo spasimo, cioè sino a mantenere rapporti anche con chi magari lo costringe a confrontarsi in un’aula di tribunale. Il che può avvenire per un incidente di percorso, senza colpa, lungo le impervie vie di tante tornate concorsuali sia universitarie che scolastiche. Da ciò si capisce peraltro che Corradini
ha attraversato tutta una serie di vicende, piuttosto faticose ed anche controverse, che lo hanno visto protagonista ed interlocutore dal tavolo di una presidenza istituzionale o da una cattedra universitaria (soprattutto a Milano e poi,
da ultimo, a Roma). E che dire poi della sua diuturna attività di conferenziere
in ogni parte d’Italia, senza mai risparmiarsi, quasi lo facesse a dispetto della
sua salute? Anche in situazioni estreme ha voluto essere presente e dare il suo
apporto, magari con l’ausilio prezioso e fedele di sua moglie, Bona. Tutto questo, last but not least, è da collocarsi in un quadro familiare copioso di presenze multigenerazionali e persino con qualche posto aggiunto per un ospite
ulteriore, metafora esplicita e significato pregno di una presenza Altra, che traspare da un’intera vita costellata di gesti e parole dalle connotazioni profondamente religiose. E così – visto che siamo in tema – si è completato un ideale
decalogo comportamentale implementato nella quotidianità del Nostro.
Il presente volume, invero, è un omaggio specifico del mondo dell’accademia universitaria, cui Luciano Corradini ha dato tanto, in termini di presenza,
ricerca e magistero, insieme con una lunga lista di pubblicazioni scientifiche,
* Direttore del Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università Roma Tre. Presidente Nazionale dell’Associazione Italiana di Sociologia.
11
cui si accompagnano numerosi interventi contingenti ed istantanei per stare
sulla notizia, sull’avvenimento, mostrando dunque di non restare relegato nella realtà astratta delle riflessioni teoriche ma di affrontare direttamente l’agone del confronto pubblico esplicito e motivato. Da qui le sue lettere ai quotidiani, le sue prese di posizione sulle riviste, le sue riflessioni talora amare ma
sempre fondate sulla realtà.
Ci si potrebbe chiedere se il Corradini abbia fatto scuola. La risposta non
può essere univoca. Ha da essere sì ma anche no. Il sì concerne il fatto che in
effetti anche grazie a lui molti hanno raggiunto il traguardo dell’insegnamento sia scolastico che universitario. Il no concerne il fatto che pur continuando
a far tesoro della sua lezione e delle sue lezioni i molti suoi “allievi” non sono
rimasti pedissequi ripetitori del Maestro ma hanno allargato i loro orizzonti
verso altre strade, anche diversificate rispetto a quelle suggerite dal caposcuola.
Come ha scritto di recente Luciano Galliani (a pagina 15, nel volume da lui
curato con Ettore Felisatti, Maestri all’Università, Pensa MultiMedia, Lecce,
2005), “nel nostro paese sarebbe necessaria una ‘normalizzazione’ della professione docente, nel senso di renderla ‘trasparente’ attraverso una descrizione
condivisa delle tre dimensioni in cui si sviluppano tutte le professioni nella società post-industriale: produttivo-lavorativa, istituzionale-sociale, individualeprogettuale”. Orbene Luciano Corradini non si è limitato ad una “descrizione”
ma attraverso il suo solerte operare ha reso “trasparente” il suo stesso impegno
in chiave “produttivo-lavorativa, istituzionale-sociale, individuale-progettuale”. Di questo dobbiamo essergli davvero molto grati ed augurarci che egli possa continuare a darci prova ancora a lungo.
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PARTE PRIMA
CONVIVENZA CIVILE E CITTADINANZA:
VALORI DA CONOSCERE E DA VIVERE
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Confini. Pensieri di un giurista su una tematica di frontiera
GIUSEPPE DALLA TORRE
Convivenza e cittadinanza alla prova
Convivenza e cittadinanza sono, oggi, messi alla prova dai grandi mutamenti in atto nella società: in quella nazionale così come in quella planetaria.
Sono mutamenti che attengono non solo a fattori materiali ma anche a fattori
culturali. Termini che in passato avevano un significato ben preciso vengono a
mutare di senso; talora vengono addirittura ad avere una polisemia che rischia
di far perdere la capacità di dialogo e di comprensione.
Fra questi il termine “confine”, che sin qui aveva un significato ben preciso e del tutto eterogeneo rispetto alle radici etimologiche, nella misura in cui
queste mettevano in evidenza la meta comune, mentre quello aveva nel tempo
marcato la diversità, la distinzione, la separazione. Il confine, infatti, ha segnato nella modernità la demarcazione, a livello fisico, della distinzione giuridica tra cittadino e straniero, a sua volta riflettente la distinzione politica tra
amico e nemico.
Diversi fattori oggi tendono a superare queste configurazioni, ad aprire gli
orizzonti, ad arricchire di una molteplicità incredibile di significati un termine
antico.
In una società, come quella europea, che è tesa ad educare alla comune cittadinanza ed alla convivenza, superando gli storici steccati che segnavano – appunto – i confini, è del tutto evidente che riflettere sul senso che oggi questo
termine può avere non è impresa inutile, anzi. Soprattutto se si vuol iniziare la
riflessione da uno dei terreni su cui i mutamenti di significato sono potenzialmente più evidenti: quello politico-istituzionale.
Una prospettiva giuridico-politica
È necessario, dunque, renderci conto che parlare di confine significa nella
realtà di oggi aprire una molteplicità di prospettive diverse.
E tuttavia dobbiamo riconoscere che, da uomini del nostro tempo, abbiamo
ancora nella nostra cultura, nella nostra mentalità, nel nostro immaginario col15
lettivo, un’idea dominante di confine: quella legata allo Stato, alle istituzioni
politiche. Legare il confine allo Stato è un modo in cui il passato incombe sulla nostra cultura, sul nostro modo di essere.
In realtà non è sempre stato così. Il diritto romano non pensava il confine
nel modo in cui lo intendiamo noi; pensava il confine in termini strettamente
privatistici: il confine del proprio terreno, il confine del proprio orto, il confine della propria abitazione. Il termine aveva un senso nell’ambito del diritto
privato, non del diritto pubblico; esso aveva una valenza nei rapporti tra individui, non nelle relazioni politiche.
Quest’idea di confine è durata per molto tempo: dall’antichità romana si è
prolungata per tutto il lungo periodo dell’età medievale, fino agli albori dell’età moderna. In sostanza la nozione romanistica di confine è durata fin tanto che il diritto romano è stato il diritto comune a tutti gli europei.
È solo con l’età moderna, con il nascere dello Stato moderno, che si ha un
passaggio dell’idea di confine dal diritto privato al diritto pubblico, dalla sfera
di ciò che attiene alla persona, alla proiezione della persona sulle sue cose, sul
suo ambito di vita e di lavoro, alla rilevanza politica: il confine diventa il muro, ma talora anche il ferro spinato; il confine viene ad assumere un significato forte di delimitazione, di difesa. Il confine, dunque, come fattore di chiusura e non di apertura, come punto semmai di conquista e non come punto di dialogo.
Nella età moderna il confine viene in sostanza ad avere come referente l’idea di potere politico: un potere che si organizza in maniera autoreferenziale,
che chiude i confini, che distingue tra cittadino e straniero e, quindi, tra amico
e nemico. Il nemico è fuori dai confini ed ha un proprio diritto; non c’è più un
diritto comune per tutti. Il confine è legato alla realtà di uno Stato che ha un
proprio diritto: un diritto territoriale, un diritto nazionale, un diritto scritto non
più in una lingua universale, il latino, ma nelle lingue nazionali. L’ideale e la
realtà di un diritto comune a tutti gli europei sono ormai tramontate: passare il
confine significa cambiare completamente il diritto.
Questo è il contesto, lo scenario, su cui vorrei svolgere qualche breve osservazione sulle provocazioni che il tema del confine suscita nella mente del
giurista.
La prima osservazione attiene al confine inteso in una prospettiva territoriale o, meglio, geopolitica.
Non c’è dubbio che i fenomeni di globalizzazione, che non sono solo economici (la globalizzazione è un fenomeno molto complesso, investe tutte le dimensioni della vita delle società), comportano una messa in crisi della concezione territoriale di confine, come fattore di chiusura, di distinzione, di separazione. Il processo che noi europei stiamo vivendo nella costruzione dell’Europa Unita, segnato recentissimamente dall’allargamento dell’Unione Europea, è un caso esemplare da questo punto di vista. In sostanza si demoliscono
i confini che precedentemente erano stati posti. E ciò non solo perché tutti gli
europei avvertono la necessità di un dialogo più ampio, ma anche perché av16
vertono la necessità di controllare fenomeni che ormai trascendono i limiti territoriali del singolo Stato. Si tratta di fenomeni che hanno una portata molto
più vasta, che gli Stati, da soli, non sono più in grado di governare.
Il processo di unificazione europea porta con sé due diversi problemi: innanzitutto un problema di individuazione e creazione dei nuovi confini esterni, non più tra Stato e Stato, ma tra Unione Europea e gli altri; ma prima ancora tale processo comporta un problema di consapevolezza, cosa che peraltro
non è ancora emersa a sufficienza, dei nuovi “confini interni”, vale a dire delle distinzioni che si pongono all’interno di una nuova realtà politica espressione di una società multietnica, multireligiosa, multinazionale, se vogliamo usare il termine nazione nel senso antico e proprio.
È necessario, all’interno di questa grande esperienza che è il processo di
formazione dell’Unione Europea, coniugare unità e diversità (perché è chiaro
che gli italiani resteranno italiani e i tedeschi, tedeschi, con tutte le loro differenze); è necessario trovare non solo modelli culturali, ma anche strumenti,
strutture, norme attraverso la quali coniugare la convivenza delle differenze
senza più confini: differenze che in qualche modo e per certi aspetti si possono e si debbono proteggere, per salvaguardare le diverse identità che, come tali, sono una ricchezza.
Da questo punto di vista il modello tradizionale di organizzazione politicogiuridica costituito dallo Stato, quantomeno così come lo si è ricevuto dal passato, appare ormai assolutamente insufficiente. Nelle nuove dimensioni geopolitiche dell’Europa unita non è più possibile riproporre il modello tradizionale dello Stato, sia come Stato unitario, sia nelle forme Stato federale o confederale. L’Europa non è una federazione, non è una confederazione: che cosa
è? Al momento non si sa: i costituzionalisti non sono ancora in grado di dare
una risposta. Ma certamente il processo di unificazione europea elabora e sviluppa un modello nuovo, diverso da quelli tradizionali.
Il vero problema sarà quello di saper coniugare unità e diversità.
Certo c’è il grande modello statunitense in cui unità e diversità, l’appartenenza allo Stato e il senso dell’appartenenza alla propria “nazione” (l’italiana,
l’irlandese, la cinese, la filippina, l’ispanica e via dicendo) convivono. Gli
americani hanno forte questo senso della doppia appartenenza e della duplice
fedeltà: la loro esperienza potrebbe dire qualcosa a noi europei. Ma è un’esperienza troppo diversa e troppo lontana dalla nostra da poter essere, a mio avviso, assunta a modello.
In Europa dunque c’è un problema di nuovi confini, non in senso politicostatale (le barriere sono state tolte), ma nel senso della definizione al suo interno di modi e di regole atte a fare da cerniera fra unità e diversità, fra garanzia dell’eguaglianza formale di tutti gli europei e la garanzia dell’eguaglianza
sostanziale, che legittima regole diverse e trattamenti differenziati. Perché,
com’è noto, il principio di eguaglianza non è assoluto ma relativo: viola l’eguaglianza trattare in maniera diversa situazioni eguali, ma lo viola egualmente trattare in maniera eguale situazioni differenti.
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Ci sarebbero, in realtà, dei modelli storici più vicini alla tradizione europea:
si pensi all’esperienza dei grandi imperi tramontati con il primo conflitto mondiale, primo fra tutti l’impero austro-ungarico. Grandi imperi che seppero durare nei secoli, accomunando e governando popoli di lingua, cultura, razza, religione diverse; che seppero mantenere una pace interna garantendo al contempo la sopravvivenza delle relative identità nazionali. Questi modelli ci possono insegnare ancora qualcosa, per esempio sul piano del riconoscimento di
– seppure limitati e saggi – spazi di diritto personale alle singole identità nazionali all’interno dell’unico ordinamento che le contiene. Ma è evidente che
tali esperienze sono per altro verso inimitabili, se non altro per le nostre esigenze di garantire valori inderogabili, come quelli della dignità della persona
umana, della libertà, dell’eguaglianza senza distinzione di sesso, razza, lingua,
condizioni personali e sociali.
Una nuova geopolitica
C’è poi un altro aspetto dei nuovi confini. L’Unione europea si allarga, ma
evidentemente questo comporta al tempo stesso un abbattimento dei confini
nazionali ed un allargarsi dei confini interni: non più nel senso geo-politico,
ma nel senso sociologico e culturale. La grande comunità di popoli che vive
nell’Unione viene oggi a conoscere, al proprio interno, il problema della convivenza delle differenze: etniche, culturali, religiose.
Si deve riconoscere che l’Europa ha un’attitudine “genetica” alla apertura
verso l’esterno, ma tale apertura porta con sé una certa ambiguità. Nel senso
che l’Europa, dal punto di vista culturale, ha sempre avuto l’idea del superamento dei confini (le “colonne d’Ercole”), ma nella storia quest’idea si è
estrinsecata in esperienze completamente diverse: dalle vicende di Ulisse, paradigmatiche dell’inesausta sollecitazione alla esplorazione, alle crociate; dall’espansione coloniale, all’attività missionaria. L’Europa, dunque, ha questa attitudine genetica all’apertura, che dovrebbe essere valorizzata nei suoi referenti positivi e non nei suoi referenti negativi.
La sottolineatura dell’attitudine europea all’apertura nasce dal fatto che
questa mi pare essere un elemento distintivo dell’Europa rispetto agli Stati
Uniti d’America, i quali sembrano piuttosto avere, nella loro breve storia e nella loro peculiare cultura, elementi di chiusura e di autoreferenzialità.
L’isolazionismo è una tentazione che ancora esiste negli Stati Uniti e la reazione così forte degli americani all’11 settembre si spiega proprio in questi termini. Come mai è potuta accadere una così grave lesione alla vita civile americana? Come si possono permettere degli stranieri di ledere in tal modo la sovranità nazionale? Sono gli interrogativi sottesi alla reazione americana.
In effetti non era mai successo che sul territorio nazionale accadesse qualche fatto che, dall’esterno, venisse a compromettere la stabilità, la convivenza
e la pace della comunità americana. Questo ci può illuminare molto sull’atteg18
giamento di politica estera degli Stati Uniti e sulle vicende più recenti della
guerra irachena; vicende che noi europei giudichiamo con altri occhi, perché
abbiamo una diversa storia e una diversa esperienza.
Alla luce delle considerazioni fatte sin qui, può dirsi che l’allargarsi dei
confini dell’Europa è fatto potenzialmente in grado di aprire una prospettiva di
speranza, non solo per il nostro continente, che potrebbe finalmente uscire dalle condizioni di instabilità in cui versa ormai da molti secoli, ma anche perché
l’Unione Europea potrebbe divenire un modello nuovo di “governance” a livello di grandi realtà territoriali, superando quello schema in declino della forma di organizzazione della comunità politica che abbiamo ereditato dal passato, e cioè lo Stato sovrano.
E ancora: l’Europa potrebbe avere un ruolo importante, di contropotere all’unico potere che oggi vi sia a livello planetario.
Potremmo dire che oggi ci troviamo in una situazione per molti aspetti simile a quella dell’Europa medievale, con i due poteri per eccellenza che si incontravano o si scontravano: il Papato e l’Impero. Chi, infatti, ha potuto resistere alle imprese guerresche in Iraq del nuovo potere imperiale? L’unico che
ha potuto avere sostanzialmente una forza di contrapposizione, non solo morale ma anche politica, è stato il Papato.
Ma se è vero che, dopo la caduta dei muri e la fine della summa divisio del
mondo operata a Yalta, il dualismo di potenze politiche è venuto meno, e si è
affermata un’unica, grande potenza, gli Stati Uniti, allora è necessario che
l’Europa assuma, in questi “nuovi confini”, un ruolo di bilanciamento e di contrapposizione. Perché nell’interesse di tutti, compresi gli Stati Uniti, non è bene lasciare ad uno solo la responsabilità del governo planetario.
Lo Stato e i confini dei “nuovi poteri”
In relazione allo Stato, invece, si possono considerare i confini dei nuovi
poteri.
La forma Stato, o se si vuole il potere politico così come si è incarnato storicamente negli ultimi secoli, è in declino, mentre sono in ascesa i nuovi poteri: il potere scientifico-tecnologico, il potere economico, il potere informatico,
il potere mass-mediale. Si tratta di poteri non controllabili, o quantomeno non
pienamente controllabili, da parte dello Stato, a causa della globalizzazione.
In un contesto di tal genere insorge inevitabilmente un problema, che attiene alla salvaguardia della democrazia. A ben vedere, infatti, negli ultimi due
secoli l’Europa ha forgiato gli strumenti della democrazia pensando a quello
che era l’unico, vero potere: il potere politico. I diritti inviolabili, la rappresentanza politica, i parlamenti, gli strumenti di democrazia diretta, le istituzioni pubbliche come case di vetro ecc.: sono tutte acquisizioni che, dalla fine del
Settecento in poi, hanno modellato lo Stato di diritto in funzione della tutela
della persona rispetto al potere politico.
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Ma tali acquisizioni sono come armi spuntate dinnanzi ai nuovi poteri
emergenti, i quali sono autoreferenziali, intolleranti di ogni controllo e sfuggenti ad ogni controllo. E d’altra parte il bene della persona ed il bene comune richiedono un superamento di questa situazione di fatto, di questa realtà caratterizzata da un alto tasso di anomia. La democrazia, come fascio di valori
inderogabili, deve essere comunque affermata.
Si pone di conseguenza un dilemma di fondo: o riportare di nuovo tutti gli
“altri poteri”, cioè i poteri emergenti, sotto quello politico; o pensare istituti e
norme originali, attraverso cui veicolare la democrazia nei “nuovi poteri” giacché questi, svolgendosi ormai a livello planetario, sfuggono inevitabilmente al
controllo degli Stati sovrani.
Naturalmente nell’un caso come nell’altro occorrerà comunque un grande
sforzo di immaginazione, per individuare i modi idonei ad evitare che la democrazia finisca per essere una rappresentazione formale di un potere ormai
svuotato di contenuti effettivi, mentre i poteri veri sono altrove e si esplicitano
senza controllo alcuno.
Personalmente credo che la soluzione debba passare attraverso la riconduzione dei “nuovi poteri” alla soggezione al potere politico che, in quanto politico, è naturalmente orientato alla ricerca del bene di ciascuno e di tutti attraverso l’armonizzazione delle diverse realtà esistenti. Ma ciò deve avvenire ovviamente in forme diverse e nuove rispetto al passato, attraverso strutture e paradigmi innovatori. Sotto questo profilo l’Unione Europea può costituire un’utile esperienza, nella misura in cui esprime un processo che tende al superamento del modello tradizionale di organizzazione del potere politico, cioè nel
modello dello Stato sovrano.
I confini “altri”
In conclusione vorrei accennare ad una terza prospettiva: i confini che chiamerei “altri”.
Si tratta di confini non geopolitici, né di confini dati dai “nuovi poteri”
emergenti. Sono i confini che, almeno tradizionalmente, hanno segnato l’esperienza dell’esercizio del potere politico e, quindi, delle istituzioni statali.
Un tempo, per esempio, è stata la religione a costituire, sia in senso positivo sia in senso negativo, il confine rispetto alla politica. Almeno nella tradizione europea il cristianesimo, distinguendo tra Cesare e Dio, tra potere politico e potere religioso, tra foro esterno e foro interno, ha costituito un confine
certo ed invalicabile.
Tra ’800 e ’900 un ruolo importante in tal senso, con forti accenti di chiusura e di limite, è stato svolto dalle ideologie. Dopo Yalta l’ideologia aveva diviso in due il mondo, imponendo dei confini non solo politici e non necessariamente coincidenti con i confini in senso territoriale dello Stato. Da questo
punto di vista Yalta è stata nient’altro che la riproposizione, nell’età contem20
poranea, della regola affermata dalla Pace di Augusta e definitivamente sancita a Westfalia, secondo cui “cuius regio, eius religio”.
Confini “altri” sono stati segnati in passato anche dall’etica: un’etica un
tempo condivisa, come per esempio quella, propria della nostra realtà italiana,
animata dalla tradizione cristiano-cattolica.
Oggi tutto questo è venuto meno. L’Occidente ha conosciuto, dal ’500 in
poi, un processo continuo di frammentazione (se vogliamo giudicarlo negativamente), o di pluralizzazione (se vogliamo giudicarlo positivamente), che
partito dal terreno della religione comune si è poi propagato altrove: sul terreno dell’ideologia come su quello della etica. Come tutti i processi, anche questo ha aspetti positivi e negativi che si possono cogliere in quella società pluralista che è sotto i nostri occhi e che da esso ha tratto vita.
La nostra società non è solo pluralista – come oggi spesso si dà a credere –
per il fenomeno immigratorio, da cui spesso siamo allarmati; ma è pluralista
perché già da tempo si erano attivati al proprio interno fenomeni di frammentazione progressiva, spesso non avvertiti. Basti pensare che già agli inizi del
’900 un grande sociologo, Max Weber, aveva parlato del “politeismo etico” in
cui sarebbe finita la società europea.
Se dunque l’etica – per rimanere nell’esempio – in passato costituiva un limite, un confine al potere dello Stato, al suo legislatore così come ai suoi giudici ed ai suoi amministratori, oggi non è più così.
A fronte della questione bioetica è a tutti evidente come lo Stato si trovi ormai, sempre più spesso, nella difficoltà di legiferare, stante la pluralità di etiche e di tavole di valori presenti nel corpo sociale. Del resto, non illudiamoci:
il diritto positivo non è neutrale; non è un mero strumento tecnico, di per sé
neutro di fronte ai valori. Ogni norma giuridica è portatrice di valori, questo è
evidentissimo nelle norme penali: la norma che punisce l’omicidio immediatamente evoca in noi un determinato valore. Ma la natura valoriale del diritto
è evidente anche in tutte quelle norme che possono apparire più formali, più
distaccate dal terreno dei valori, più burocratiche: si pensi alle norme processuali, terribili nel loro formalismo talora esasperato (i termini, le scadenze, gli
adempimenti). Ma chi riterrebbe giusta una sentenza pronunciata nei confronti di chi, non sapendo di essere sotto processo, non si è costituito e quindi non
ha esercitato il diritto di difesa? Da questo punto di vista le minuziose norme
processuali sulle modalità di notifica degli atti giudiziari, con il loro intrinseco formalismo e con le nullità che derivano dal loro mancato rispetto, sono
però veicolo di valori inalienabili. Ed ancora: chi riterrebbe giusta la sentenza
pronunciata da un giudice non imparziale? Ciò significa che tutte le norme
processuali sulla ricusazione del giudice o sulla sua astensione, sotto un formalismo terribile, in realtà veicolano dei valori.
L’ultima grande frontiera da cercare nella prospettiva ora delineata è, dunque, quella di stabilire quali debbano essere i valori comuni in una società
frammentata quanto a valori, poiché il diritto non può essere neutrale. Quale
può essere questo minimo comune etico? Certamente vi sono degli elementi
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forti e condivisi, come ad esempio l’istanza alla pace, che è fondata nel riconoscimento della dignità umana. Ma se si va ad approfondire la questione vien
fatto di chiedersi: che cosa si intende per dignità umana? È un termine dato per
auto-evidente, ma ad approfondirne il significato ci si accorge che questo condiviso non è; si tratta di un termine di cui si dà per scontato il senso, ma poi si
è divisi su chi sia persona umana. Si è divisi anche sulle spettanze che da tale
dignità derivano: infatti non tutti condividono l’idea, propria della tradizione
classica e giudaico-cristiana, che i diritti umani siano le spettanze da riconoscersi sempre, dappertutto e per tutti.
A ben vedere qui si coglie, con tutto il suo potenziale di negatività, il confine più forte ed evidente che segna oggi la nostra società.
Eppure un confine ha da esserci. E per evocarlo vorrei concludere con un
esempio provocatorio: per mettere in evidenza come il limite ai poteri pubblici, al potere dello Stato, il limite dato da valori che sono insormontabili, è assolutamente un presupposto irrinunciabile.
Invero la società democratica che tutti vogliamo non è – mi si permetta
l’immagine – come un campo di boxe senza confini; dove le diverse posizioni
religiose, ideologiche, etiche, si confrontano. In quanto campo di boxe essa è
necessariamente circoscritta da un ring: il problema è quello del ring, cioè dei
confini valoriali oltre i quali non è possibile andare.
Ebbene l’esempio è questo: dopo le atrocità del ’900, che ci sono state svelate quando i veli posti dai totalitarismi si sono stracciati, e dopo il giusto
dramma di coscienza che ne è seguito, nessuno di noi, ma anche tutta la nostra
società, tollererebbe l’apologia dell’olocausto. Ciò significa quanto meno che,
a seguito degli insegnamenti della storia, riteniamo che ci debba essere un limite insormontabile alla manifestazione del pensiero.
Credo davvero che questo dei confini “altri” sia uno degli argomenti più
forti per chi intenda affrontare la tematica dei poteri pubblici e della nuova
configurazione dei poteri pubblici.
Tre riflessioni conclusive
Per concludere, tre brevi riflessioni a ripresa ed integrazione di quanto già
detto.
La prima nasce in particolare dalle suggestioni che possono derivare al giurista da una delle grandi tradizioni culturali che integrano la nostra identità europea: quella biblica. Questo non deve sorprendere: anche i giuristi, che coltivano studi apparentemente così lontani da quelli biblici, possono subire il fascino della Scrittura e possono essere sensibili alle suggestioni che da essa possono derivare per il loro lavoro.
Al riguardo giova osservare che mentre la formazione dei giuristi moderni
è fortemente legata a culture di tipo stanziale (il diritto moderno, infatti, è per
eccellenza territoriale e non personale), la società contemporanea sembra or22
mai rivolta nuovamente sui paradigmi del nomadismo: i popoli si sono rimessi in cammino, come bene dimostrano i fenomeni, che non esiterei a definire
epocali, delle emigrazioni e delle immigrazioni di massa.
Tutto il nostro mondo è modellato sui caratteri di una civiltà stanziale: il diritto positivo, le istituzioni, la stessa idea dei confini... Abbiamo, anzi, l’orgoglioso pensiero di ritenerci superiori, in quanto appartenenti ad una civiltà
stanziale, rispetto alle civiltà nomadi, che sono senza confini per eccellenza.
In questa prospettiva i riferimenti biblici possono essere di grande utilità
per riequilibrare, nel contesto di una realtà umana di nuovo in movimento, i
punti di riferimento essenziali; per cogliere gli elementi di superiorità – che pure ci sono – della civiltà nomade di cui il popolo ebraico è riuscito a farsi interprete e che si colgono nelle pagine dell’Antico Testamento; per superare in
particolare la contrapposizione amico-nemico costruita su un paradigma cittadino-straniero, che per secoli è stato strutturato a partire da confini intesi in
senso fisico e territoriale.
Vivere la realtà di oggi, realtà in movimento per eccellenza, comporta una
grande conversione culturale; e da questo punto di vista il recupero di una adeguata cultura biblica, la riscoperta di un patrimonio che – come detto – è parte della nostra identità, potrebbe rivelarsi di grande utilità anche sul terreno di
una diversa significanza dei confini.
La seconda considerazione attiene al tema della cittadinanza. Per noi la cittadinanza è una categoria forte, radicata nella nostra storia di Stati nazionali.
Ma dobbiamo renderci conto che, almeno nei termini in cui l’abbiamo ereditata dal passato e tuttora la intendiamo, è una categoria in via di superamento
e per molti aspetti già superata.
Dal punto di vista giuridico la cittadinanza nasce proprio dall’atteggiamento di chiusura tipico dello Stato sovrano, dello Stato nazione, in cui si è espressa negli ultimi secoli la società politica. È interessante osservare come, a livello giuridico, la più forte discriminazione tra cittadino e straniero nasca paradossalmente con la grande Dichiarazione del 1789, la Déclaration des droits
de l’homme et du citoyen della Rivoluzione, che se da un lato poneva le basi
per uno statuto giuridico comune a tutti gli uomini, a prescindere dalla loro cittadinanza, dall’altro lato però marcava fortemente la distinzione fra cittadini e
stranieri; distinzione poi accentuata dalle moderne codificazioni sul paradigma politico dell’amico-nemico e con la consacrazione del principio della reciprocità.
In effetti proprio le codificazioni tra ’800 e ’900 hanno esasperato non solo quel paradigma, per cui il cittadino equivale all’amico e lo straniero al nemico, ma hanno poi ridotto i pur affermati diritti fondamentali dell’uomo attraverso l’assunzione del pericolosissimo principio di reciprocità, secondo cui
allo straniero devono essere riconosciuti solo quei diritti che sono riconosciuti
(e nei limiti in cui sono riconosciuti) ai nostri concittadini nel suo Paese di provenienza. Il che vale a dire, tanto per fare un esempio, che nella misura in cui
in Arabia Saudita è proibito aprire chiese cristiane e addirittura svolgere atti di
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culto, con evidente lesione della libertà religiosa individuale e collettiva degli
stranieri cristiani che vi si trovino a vivere, noi dovremmo impedire ai sauditi
immigrati in Italia la costruzione di moschee e lo svolgimento di atti di culto.
L’esito di questo modo di pensare è, come facilmente intuibile, paradossale, perché il principio di reciprocità è in sostanza la negazione di qualsiasi idea
di diritto umano, il quale come detto è tale sempre, dappertutto e per tutti, a
prescindere dal fatto che in qualche parte del pianeta esso possa essere negato
o violato.
Terza ed ultima considerazione: il problema della tavola di valori comuni.
Al riguardo vorrei ribadire che una comunità politica si regge in quanto i
suoi componenti hanno dei valori condivisi, che danno il senso di identità, la
ragione dello stare insieme, il collante che tiene insieme. In passato il collante
è stato, di volta in volta, diverso: la religione, l’identità etnico-culturale (la nazione), l’ideologia ecc.
Oggi, a fronte del multiculturalismo, le esperienze ed i modelli sono diversi. C’è il modello francese, che è quello dell’assimilazione dell’“altro” nella
cultura ed identità nazionali, con conseguenze alle volte esilaranti, come la recente legge sul velo che in nome della libertà vieta, ed altre volte paradossali,
come la tentazione proselitistica di imporre a tutti l’idea tutta francese di laicità (la cosiddetta laïcité de combat). Lo si è visto esemplarmente nell’atteggiamento della Francia sulla questione controversa della menzione delle “radici cristiane” nella Costituzione europea.
C’è poi il modello tedesco, che è quello della compresenza della pluralità
di identità. Il modello tedesco, di grande suggestione culturale per tutto il centro Europa, presenta però il grave difetto di tendere a ghettizzare le identità minoritarie e non tradizionalmente radicate nel Paese, facendone in sostanza dei
corpi separati.
C’è anche il grande modello americano, in cui il pluralismo etnico-culturale si esprime nella singolarità della doppia fedeltà: allo Stato come cittadini, alla nazione (italiana, irlandese, cinese, ispanica ecc.) come appartenenza originaria (e si potrebbe parlare anche di una terza fedeltà: alle chiese e comunità
religiose, in quanto fedeli). Ma il modello americano è, per ragioni storiche
evidenti, del tutto particolare e non esportabile, anche perché le diversità etnico-sociali-culturali sono in realtà tenute insieme dalla attrazione verso il modello dominante, il modello whasp, cioè del gruppo bianco-protestante che costituisce il baricentro di tutto il sistema e che ha in mano sostanzialmente tutti
i luoghi di potere.
Nella nostra Europa il problema è da risolvere: e forse può risultare utile riprendere in mano la lezione di Maritain ne L’homme et l’ État, che individuava nella Costituzione, cioè nel patto di convivenza, il luogo dei valori comuni,
la tavola dei principi condivisi.
Certo anche qui siamo sui confini: dobbiamo avere il coraggio di superarli
e di andare ad esplorare la terra che è oltre e fuori di essi.
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Albori di convivenza nella società dei talenti
SANDRA CHISTOLINI
Parallelismi logici
La tradizionale educazione alla convivenza civile si arricchisce oggi di un
nuovo compito: quello dell’educazione alla cittadinanza. I nomi di convivenza
e di cittadinanza richiamano al contesto nel quale l’antica convivenza e la nuova cittadinanza possono essere messe in atto. Il senso dell’armonia, della non
divisione, della comprensione, dell’andare oltre, del procedere insieme, verso
il medesimo fine educativo, è anche il senso dell’appartenenza al mondo sconfinato, senza confini, per la convivenza, e confinato, delimitato dal confine,
per la cittadinanza. Se il primo termine indica la massima estensione al genere umano, il secondo termine indica un limite posto a colui e a colei che cittadini sono o non sono, rispetto al territorio che li ospita.
Sia la convivenza che la cittadinanza sono elementi costitutivi del vivere sociale che dalla forma più semplice, dello stare porta a porta, si organizza nella
forma più sofisticata della regolamentazione giuridica, dell’abitare un medesimo luogo nel quale sono state create leggi e norme di comportamento da conoscere, condividere, trasmettere. Ecco quindi che l’obiettivo della scuola è inteso a far sapere che donne e uomini convivono, secondo accordi stipulati prima sul piano morale generale, e poi sul piano formale specifico. Una scuola
nella quale si educa alla dimensione insieme nazionale e mondiale, prendendo
dal Paese di appartenenza valenze e valori, tradizioni e norme che si deve essere in grado di considerare in una prospettiva sopranazionale.
Restare nei confini territoriali ed andare oltre gli stessi è la sfida della complessità. La psicologia ci dice che la complessità malgestita provoca il disagio
esistenziale, sociale, scolastico. La sociologia avverte che la complessità non è
un dogma e che si può addirittura scomporre in fasi, procedure, metodi, tecniche così da generare la compattezza e ristabilire, come nota N. Luhmann, i
termini della legittimazione. La pedagogia osserva che la capacità di orientarsi nella complessità del presente è meta ardua, eppure perseguibile con il pensiero rivolto al bene, e con l’azione indirizzata allo scopo.
Si coniuga così la cittadinanza del contesto con la convivenza dei diritti
propri e dei diritti altrui. Cittadinanza e convivenza, non un binomio, bensì
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una sostanziale reciprocità dell’essere sociale della persona che non viene annullato dalla telematica del consumismo. Le persone che si incontrano, discutono, creano conoscenza innestano una marcia in più, rispetto al solitario
navigante in internet che usa, consuma, abusa della comunicazione senza volto. Dal face to face siamo scivolati al mail to mail, dalla comunicazione diretta alla comunicazione indiretta, riducendo il tempo destinato al contatto
umano. La società telematica, la web society descritta dal 1997 al 2003 da D.
de Kerckhove, è quella nella quale ci si interroga sull’intelligenza che connette, più che sulle intelligenze multiple di H. Gardner, sulla conquista del
tempo, più che sul concetto di tempo di M. Heidegger. Alla cibernetica, uso
umano degli esseri umani, The human use of human beings, scriveva nel 1950
N. Wiener, intesa ad assicurare il comando ed il controllo di circuiti elettrici
o sistemi meccanici, si è associata la teoria dell’informazione e sia l’una che
l’altra sono applicate dalla pedagogia che studia le situazioni di apprendimento come effetto e come contesto. N. Wiener nel 1979 pubblicava il volume dal titolo A cybernetic approach to the assessment of children: toward a
more human use of human beings, sottolineando la svolta epocale della valutazione fatta a macchina più che con la matita dai segni rossi e blu. Interessa
discutere sull’uso e sulla misura di quello che una volta si voleva definire e
che ora non sembra più importante stare a delimitare, assumendo come scontata la comprensione dell’oggetto del desiderio: l’intelligenza ed il tempo.
Non ci intratteniamo sulla sostanza, quanto piuttosto ci sentiamo attratti dalla forma della conoscenza. Il rischio sta nella perdita del valore delle cose, insieme alla scomparsa della ricerca del significato che rende le cose degne di
essere vissute.
M. Laeng nei Nuovi lineamenti di pedagogia del 1987, presenta l’apprendimento come meccanismo comportamentale ed anche come momento di scelta di civiltà: non possiamo non chiederci a favore di quale curricolo, di quale
scuola, poniamo la strumentazione resa disponibile dagli sviluppi della scienza e della tecnica.
A parte la sottigliezza delle due argomentazioni, tra sostanza e forma si può
anche convenire di trovare una continuità, quasi insospettata, nelle proposizioni della vecchia metodologia dialettica. Non abbandoniamo il campo della indagine metafisica e, nello stesso momento, non rinneghiamo la forza dirompente della tecnologia. La scienza non abdica né a favore dell’una né a favore
dell’altra, mantiene una sua posizione di equidistanza tra la materia da scoprire e la tecnica che agevola la scoperta.
Il parallelismo di convivenza e cittadinanza con sostanza e forma, ed ancora con metafisica e tecnica emerge, percorrendo una traiettoria logica stringente che assegna ai primi termini una validità qualitativa, ben coniugabile con
la pregnanza quantitativa dei secondi elementi del parallelismo.
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Contro l’omologazione della specie per l’affermazione della persona
La differenza fa paura e di differenza si può anche morire. Eppure, sulla differenza si cimenta la letteratura umanistica di varia estrazione, pedagogica, sociologica, psicologica, per convincere che la differenza è bella e che l’essere differenti fa quasi bene alla monotonia del conformismo, incapace di pensare in
modo originale e creativo. Il tutto potrebbe essere una trovata sensazionale che
capovolge l’ordine dei fattori, e attribuisce un segno positivo a ciò che fino ad un
certo momento aveva assunto un segno negativo: il più a ciò a cui nel passato si
assegnava il meno. Trasbordare dalla eccezione alla norma è questione di un attimo. Quello che un tempo era guardato con occhio sospettoso, ed era destinato
ad un linguaggio per specialisti, ora viene osservato con l’occhio educato all’empatia e al rispetto per l’altro, al punto da vedere in tutti il bisogno, o per lo
meno l’attesa, della comprensione. Mi aspetto di essere capito, più che di comprendere. Attendo la simpatia, prima ancora che la compartecipazione. Si desidera accoglienza, poi si potrà discutere sulla negoziazione dei diritti e dei doveri. Avviene così che nella sagoma sociale della democrazia contemporanea la differenza venga riposizionata, in modo da costituire una categoria implicita della
morte della persona. Quest’ultima dovrebbe essere accolta, compresa, considerata, perché diversa, e non perché essere umano in sé e per sé. La diversità è un
corollario, certamente rilevante, ma sicuramente non unico nella costituzione
della persona umana che è, in senso ed essenza, unica ed irripetibile, nonostante
le scienze sociali si sforzino di ritrovare quelle analogie comportamentali che, alla fine, non fanno che confermare l’originalità della specie umana.
La diversità sta diventando la nuova omologazione nella società telematica,
al punto che diviene sempre più difficile, ma non impossibile, andare a cercare il punto d’incontro di meteore, tanto belle, quanto effimere.
La convivenza è il segno distintivo della cittadinanza non misurata sul possesso di un documento, ma sulla maturazione del sentimento dell’essere nel
mondo come persona umana, dissimile e simile. Dissimile a qualsiasi altra persona culturalmente definita, e simile a qualunque altra persona per dignità
umana. Dove la cultura separa, la morale unisce. Il confine dell’antropologia
si supera proprio da questo andar cercando, nella esperienza del vivere comune, quel tratto caratteristico che fa cadere la differenza come categoria di giudizio a priori, ed apre invece alla comprensione, come categoria di osservazione della realtà che si presenta densa di molteplici significati.
Il culto della differenza nasce quando viene avvertito il torto commesso
dalla perpetuazione dell’ineguaglianza sociale, e si tende allora ad attribuire, a
ragioni di non rispetto della differenza, quello che invece è più spesso il risultato della negligenza verso la persona umana. Destinare sforzi ed impegnarsi
nell’educazione alla differenza produce, in alcuni contesti, l’effetto contrario
del ritrovarsi tra pochi a pensarla in modo simile e a non poter costituire alcuna solidarietà sociale, intesa alla formazione di una convivenza per la cittadinanza di tutti.
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Il superamento della differenza come categoria, alla base della nuova omologazione della specie, comporta la riscoperta del valore della persona umana,
fonte e meta di ogni dovere. Al dovere ci si educa nella prospettiva della crescita civile per il bene comune, non in quanto diversi o in quanto uguali, ma in
quanto persone libere, dotate di intelligenza e volontà. Le attribuzioni di merito seguono subito dopo, e dipendono da tanti e tali fattori che sono solo in parte controllabili dalla misurazione tecnica. Quest’ultima, in nessun caso, risulta
indipendente dall’origine che la genera. In questo senso, la cittadinanza è una
conseguenza della convivenza civile. Convivere è un vivere insieme, persona
con persona, e nel vivere insieme la persona, non più la specie, crea la norma
nella quale si afferma il diritto all’esistenza.
L’apprendimento della giustizia
Il primo atto di giustizia è quello di giudicare rettamente le cose, per quel
che dipende dalla nostra volontà. Il giudizio retto è quello formato dal nostro
riconoscere le cose per quello che di esse apprendiamo, senza accrescerne o diminuirne la bontà, la bellezza, la dignità. Giudicare quello che si conosce comporta che la facoltà del giudicare vada d’accordo con la facoltà dell’apprendere, e questo, secondo il Rosmini della Filosofia del diritto, è il bene morale.
Affermare si può quando si sa, e si giudica quando si apprende, non vi può essere valutazione senza apprendimento. Le cose sono quello che sono in relazione al nostro modo di guardarle, e perciò esse sono mutevoli nella materialità con cui le osserviamo, ma sono anche identiche a se stesse. Nella corporeità, nelle cose reali e materiali vi è il cambiamento, mentre nelle idee, nella
facoltà di apprendere vi è la costanza e l’eternità del principio che non muta.
Questo principio è l’identità delle cose che non confonde una idea con un’altra. Il tipo ideale è unico, necessario a se stesso ed indispensabile per la facoltà
di giudicare. Realtà, idealità e moralità si susseguono l’una all’altra e sono tra
loro unite dalla necessità e dalla reciproca dipendenza: ciascuna non può non
esistere e l’una non può esistere senza l’altra. Parlare in termini di necessità
vuol dire sapere che non si può fare altrimenti se si intende perseguire il bene
morale, e l’idea del bene è apprendimento di un principio al quale si vuole
mantener fede. Qui è l’aspetto interessante del ragionamento di Rosmini, rispetto alla riflessione sulla convivenza e la cittadinanza. Nel bene morale vi è
l’incontro di due beni che si fondono: il bene soggettivo, della convivenza, ed
il bene oggettivo, della cittadinanza. La persona è il soggetto che aderisce all’oggetto nel quale si esprime l’ordine, la verità, la perfezione. Perseguiamo il
bene, riconoscendone la doverosità per atto intellettivo.
La formazione della persona in quanto persona è la vocazione intellettuale
e la missione critica della scuola che educa alla convivenza ed istruisce alla cittadinanza, superando la contraddizione di identità e differenza nella soluzione
morale che fonde i due aspetti dell’idealità e della realtà. Ci rivolgiamo all’i28
deale che ci unisce e guardiamo alla realtà mutevole, coniugando ambedue nella necessità del bene comune.
Apprendere a far interagire l’ideale con il reale, formando la struttura etica
unificante, è la sfida alla intelligenza umana che dimostra di essere in grado di
far avanzare il processo di autorealizzazione della persona, dell’organizzazione nella quale si opera, della società nella quale si vive.
Il riconoscimento reciproco di soggetti-oggetti di diritti è la condizione della convivenza e della cittadinanza, e solo quando ci si sente protetti e difesi nella autorealizzazione come persone e come gruppi si ha la forza d’animo, secondo la tesi illustrata da A. Honneth in Lotta per il riconoscimento (2002), di
governare il conflitto che emerge tra libertà individuale e libertà comunitaria.
La vita sociale è costituita dalla tensione morale nella quale il conflitto ha una
sua ragione di essere e non va annullato; esso va invece considerato quale fatto che contiene in sé lo sviluppo del rapporto etico del riconoscimento dal quale si sprigiona la vita sociale. Il conflitto è prodotto e produce la trasformazione sociale e perciò ha una dimensione etica di grande rilevanza. L’intersoggettività si pone tra negazione ed affermazione della persona e si struttura in quella norma che va a formare il fenomeno studiato empiricamente e quindi controllato. Il quadro di riflessione hegeliano conduce ad una visione unitaria delle tre modalità di riconoscimento: amore, diritto, solidarietà, permettendo l’accordo, un tempo insanabile, ed oggi divenuto di necessità storico-sociale, tra
individualisti liberali e collettivisti comunitari.
Intendimento degli scopi come forma elementare di benessere
Pensarsi e pensare l’altro come persone sociali, sentirsi difesi nelle proprie
legittime aspirazioni, contribuire al bene comune sono altre espressioni con le
quale si assegna validità all’amore, al diritto, alla solidarietà. Nella scuola contemporanea questa triade è costante nelle donne educatrici della fine dell’Ottocento del secolo scorso. R. e C. Agazzi, M. Montessori, G. Pizzigoni, M. Boschetti Alberti creano il loro metodo d’insegnamento vivendo con i bambini,
osservandoli e misurando, con il cuore e con la mente, l’aderenza della scuola
all’ideale educativo. Rispetto all’ideale, la scuola si cambia, si rimodella, si
rinnova, si trasforma. Perché questo avvenga è importante che il fine sia chiaro nella prospettiva dell’educazione dell’insegnante. Si può volere il cambiamento della struttura della scuola, si possono inaugurare i musei delle cianfrusaglie, si possono risistemare gli arredi dell’aula, si possono invitare gli alunni a fare delle conferenze, ma quel che più conta sembra essere appunto lo
sguardo prospettico dell’attività pratica, sperimentale, quotidiana. Non il fare
per il fare, ma il fare per essere, e se quel fare non conduce alla libertà dell’essere, molto meglio cambiare sinfonia.
Sul tema della convivenza, preludio della moderna cittadinanza, già educava M. Boschetti Alberti quando richiamava il suo insegnamento all’ordine e al29
la libertà; vale a dire, all’interesse e all’autonomia per il lavoro scolastico, mostrando come il maestro e l’alunno potessero impegnarsi insieme per raggiungere lo stesso fine educativo, mossi dalla fiducia reciproca e non dal timore,
dalla collaborazione costruttiva e non dalla incomprensione, uniti nella aspirazione comune al continuo miglioramento e non impauriti da prove insidiose e
voti fuorvianti. A Muzzano, presso Lugano, e poi nella Scuola Serena di Agno
l’educatrice, ammirata dallo stesso G. Lombardo Radice, rendeva giustizia alle abilità dell’insegnante che senza mezzi eccezionali, senza costosi materiali,
riusciva a rinnovare continuamente il suo insegnamento. Non didattica povera,
ma didattica essenziale. In Filosofia e pedagogia dalle origini ad oggi (1986),
M. Laeng considera l’accademia scolastica della Boschetti Alberti l’esempio
più bello di soggettività duplice dell’insegnamento della scuola contemporanea, significando così che ordine, libertà, convivenza sono i pilastri di una educazione al bene e al bello.
Questo per dire che la relazione interpersonale tra insegnante e alunno è la
forma elementare della convivenza reciproca. È quella che gli insegnanti cercano maggiormente e che gli alunni apprezzano di più, è quella che non seleziona il docente, in base al suo patrimonio conoscitivo, è quella che apre l’alunno alla conoscenza, è quella che non si inaridisce sul do ut des, è quella che
crea mondi nuovi per futuri migliori, e soprattutto è quella senza la quale non
vi è ragione per la scuola di esistere.
Questa potente verità percorre la vita della scuola contemporanea ed anima
l’educatore di tutte le scuole del mondo. Forse la più grande lezione che le
maestre dell’Ottocento, divenute famose ed immortalate nei manuali di storia
della pedagogia, ci hanno trasmesso è proprio quella di aver compreso dai
bambini quale direzione dare all’idea di educazione che avevano intuito, ma
che non potevano avere la certezza di vedere concretizzarsi nell’azione degli
uomini e delle donne di domani, fino a quando non avessero sperimentato in
aula quelle modalità di convivenza che, una volta assimilate, sarebbero divenute metro e giudizio dei futuri cittadini.
Gli strumenti dell’agire morale
La persona che giudica e agisce moralmente finché si intende membro di
un regno intelligibile non ha bisogno di guardarsi attorno. Ma quando la costruzione trascendentale invade la infrastruttura comunicativa di forme della
vita, abbiamo a che fare, secondo la riflessione su Verità e giustificazione
(2001) di J. Habermas, non con persone che si comprendono, ma con persone
che interagiscono e non si comprendono. Nella società si sperimenta quello
che la scuola non insegna. La scuola insegna che l’interazione va di pari passo alla comprensione e che non c’è frattura tra le due modalità strumentali della convivenza. Interazione e comprensione sono gli strumenti dell’agire morale dell’adulto responsabile.
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Gli individui socializzati si incontrano nello spazio sociale e nel tempo storico. Essi devono decidere, di comune accordo, a che cosa sono moralmente
obbligati e poi seguire tutti insieme le norme riconosciute intersoggettivamente. Tuttavia, le condizioni sono imperfette, non siamo sicuri che le premesse razionali siano soddisfatte, e non siamo neanche certi che gli interessati seguano
le norme riconosciute come valide. Le controversie non sono decise dalla filosofia della storia o dalle concezioni del mondo, ma vengono dibattute alla luce dei motivi pubblicamente accettabili. La convivenza diviene allora il terreno nel quale vanno riformulate le norme.
Stati, indubbiamente democratici si trovano in un continuo processo di realizzazione dei loro principi costituzionali e questo non legittima chi riconosce
solo a parole i diritti umani. Possono pretendere fedeltà solo i regimi che, in
determinate circostanze, colmano la distanza tra norme costituzionali dichiarate e realtà costituzionale, attuando politiche appropriate. Dalla seconda guerra mondiale viviamo, per J. Habermas, in uno Stato cronico di sottoistituzionalizzazione dell’ordine di cittadinanza mondiale. Il passaggio dal diritto internazionale classico, alla fondazione di un diritto dei cittadini del mondo, crea
zone grigie di legittimità, sia in presenza che in assenza di interventi umanitari.
Quali sono i diritti ai quali ci riferiamo: diritti fondamentali o diritti di cittadinanza? Con le carte internazionali e le convenzioni sopranazionali sui diritti umani, i diritti sono fondamentali, vincolanti per tutti gli Stati che li riconoscono e subordinati al diritto internazionale, non più diritti di cittadinanza,
ma diritti delle persone, indipendentemente dalle loro diverse cittadinanze.
Due anni dopo la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948), T.
Marshall nel saggio Citizenship and social class assorbiva nella cittadinanza
tutti i diritti fondamentali, distinti in diritti civili, politici, sociali, tutti chiamati a questo punto “diritti di cittadinanza”. Questa tesi contraddice di fatto, secondo le osservazioni sul tema contenute nel volume Diritti fondamentali
(2001) di L. Ferrajoli et al., tutte le costituzioni moderne, compresa la citata
Dichiarazione del 1948, e le costituzioni statali che riconoscono e conferiscono questi diritti alle persone e non ai soli cittadini. Eppure, tale assunzione è
rilanciata quando i paesi benestanti e le cittadinanze ricche si sentono minacciate dalle immigrazioni di grandi proporzioni, dette anche di massa. Se i diritti fondamentali uniscono i popoli, i diritti di cittadinanza li dividono soprattutto sul piano della prassi sociale e politica. I primi abbracciano, senza fatica,
la forma universale e riguardano tutti gli essere umani, le persone capaci di agire; i secondi invece sono costretti a contorsioni definite, di volta in volta, dagli stati nazionali. In teoria, la cittadinanza spinge verso lo status di persona,
in pratica gli Stati producono norme contrarie all’esercizio di diritti pubblici e
politici. L’assurdità della convivenza è la privazione della cittadinanza, almeno
quanto la necessità della cittadinanza è che si rapporti alla convivenza. Per un
breve periodo si avrà ancora la compresenza delle due realtà governate la prima dall’eguaglianza e la seconda dalla separazione, ma nel lungo periodo a
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causa della diffusa interdipendenza degli Stati, dei processi mondiali di integrazione, delle crescenti pressioni migratorie, la cittadinanza è probabilmente
destinata a perdere senso e consistenza, a favore di una partecipazione internazionale allo sviluppo economico e alla determinazione politica degli Stati.
Il compito della pedagogia sarà sempre di più quello di dimostrare che l’esperienza del vivere insieme è in grado di produrre diritti senza confini territoriali, per i quali è necessario cominciare ad educare prima al dovere, che è
più semplice da intendere, e poi al diritto, come attività fisico-morale della persona che nessun altro può violare.
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Educazione civica, educazione alla cittadinanza,
educazione alla convivenza civile
MILENA SANTERINI
L’educazione civica costituisce lo specchio dell’identità e dei cambiamenti
sociali di un paese. Attraverso la sua storia si può comprendere non solo l’idea
di scuola e di stato espressa dai legislatori e dai riformatori, ma anche ricostruire le tensioni, gli avanzamenti e le battute d’arresto della vita democratica. Sul piano pedagogico, nella difficile storia dell’educazione civica s’individuano molti “antichi problemi”: l’antinomia tra libertà e autorità, il dibattito
sulla laicità della scuola, la difficoltà di definire lo statuto epistemologico di
una disciplina che deve, allo stesso tempo, educare ed istruire.
Nonostante il consenso sull’importanza di questo insegnamento, l’educazione civica finora praticata nelle scuole di tutto il mondo non si può dire riuscita, e anzi negli studi di carattere internazionale si giunge a conclusioni pessimiste, o si parla chiaramente di fallimento; le indagini IEA del 1974 e del
1994 reputano ad esempio “ingiustificata” la grande fede riposta nell’educazione civica1. Quest’ultima ha infatti costituito, per molti motivi, una disciplina “a parte” nel panorama scolastico, caratterizzandosi, per vari motivi, specialmente in Italia, come una disciplina “ambigua”. Quanto alla particolarità,
si presenta come un intreccio tra aspetti cognitivi, affettivi e motivazionali, tra
conoscenza, valori e atteggiamenti. Essa si colloca al confine tra la dimensione cognitiva e quella affettivo-motivazionale, rappresentando, come sottolinea
François Audigier, un campo molto pertinente per studiare la relazione tra
esperienza e saperi2.
Un altro aspetto della particolarità dell’educazione alla cittadinanza consiste nella dimensione di provvisorietà: il suo statuto, infatti, rimane fino ad oggi sospeso. In molti paesi europei, la storia dell’educazione civica rispecchia
1 Torney
J.V., Oppenheim A.N., Farnen R.F., Civic Education in Ten Countries. An empirical Study, Almqvist & Wiksell International, Stockholm, 1975; Losito B. (a cura di), Educazione civica e scuola. La seconda indagine IEA sull’educazione civica: studio di caso nazionale, Milano, Franco Angeli, 1999.
2 Audigier F., L’éducation à la citoyenneté, Institut National de Recherche Pédagogique,
Paris 1999.
33
l’evoluzione avvenuta da un progetto di coesione dell’unità nazionale ad una
cittadinanza di tipo “orizzontale” tra i membri della società. In Italia, dopo la
seconda guerra mondiale, l’educazione civica, considerata un antidoto al nazionalismo e un avviamento alla democrazia, presenta in modo ricorrente i temi dell’educazione alla responsabilità e il richiamo alla Costituzione come carta comune dei cittadini3.
Infine, quella che finora è stata chiamata “educazione civica” resta tuttora,
in molte classi, irrimediabilmente marginale, nonostante il diffuso consenso
sulla necessità di apprendere i fondamenti, le motivazioni e gli strumenti della convivenza e quindi le qualità del buon cittadino. Si tratta, in realtà, di un
oggetto “sconosciuto” per molti studenti, tanto da far parlare generalmente di
“insuccesso” dell’educazione alla cittadinanza, sia per quanto l’insufficiente
senso della legalità e della coscienza socio-politica dei giovani, sia per quanto
riguarda la diffusione della violenza e della microcriminalità. Mentre sono,
quindi, cresciute le domande di cittadinanza, sembra diminuire la capacità della scuola di farvi fronte. Ma, nel momento in cui relegava l’educazione civica
nell’irrilevanza, la società ha continuato a reclamare una scuola che formasse
i cittadini del domani, a protestare perché non educava persone alfabetizzate
socialmente e politicamente e a chiedere risposte alla violenza nelle classi, alla droga, al razzismo e l’antisemitismo, alla mancanza di senso delle regole e
la scarsa partecipazione politica dei giovani4.
Dall’educazione civica all’educazione alla cittadinanza
L’educazione civica del passato, specchio di una diffusa incertezza nel definire chi sia il “buon cittadino”, è stata per lo più considerata un’appendice ingombrante dei programmi e un gravoso compito ulteriore per gli insegnanti.
Tuttavia non sono mancati, nella storia della scuola, piani di ampia levatura,
come il D.P.R. del 1958 che aveva istituito l’Educazione civica o i Programmi
del 1985 della scuola primaria. Non è facile, quindi, alla luce di questo passato, ricostruire quali siano le condizioni per un passaggio dall’educazione civica all’educazione alla cittadinanza all’interno di una più ampia “Educazione
alla convivenza civile” prospettata nelle Indicazioni nazionali per i piani di
studio per la scuola dell’infanzia e primaria, soprattutto se si pensa al quadro
più ampio in cui questa mutazione dovrebbe svolgersi, quello cioè della globalizzazione. L’educazione civica insegnata oggi nella scuola, infatti, appare
3
Corradini L., Refrigeri G. (a cura di), Educazione civica e cultura costituzionale. La via
italiana alla cittadinanza europea, il Mulino, Bologna 1999; Corradini L., Fornasa W., Poli S.,
(a cura di), Educazione alla convivenza civile. Educare istruire formare nella scuola italiana,
Roma, Armando Editore, 2003.
4 Santerini M., Educare alla cittadinanza. La pedagogia e le sfide della globalizzazione,
Carocci, Roma 2001; Pagé M., Ouellet F., Cortesao L., L’éducation à la citoyenneté, Sherbrooke, Editions du CRP, 2001.
34
inadeguata alle esigenze di leggere fenomeni come l’individualismo civico, lo
sviluppo del grande mercato del Mcmondo, il multiculturalismo, la crisi della
nazione, le reti di comunicazione che hanno mutato il volto delle nostre società5.
Non si tratta, però, soltanto di aggiornare la scuola per affrontare queste trasformazioni. Occorrerà, piuttosto, che la società stessa – insieme all’istituzione formativa – sappia scegliere un progetto di cittadinanza che rispecchi la sua
identità culturale e politica e i suoi dinamismi interni.
Quale sarà il progetto di cittadinanza che oggi il nostro paese vuole scegliere, e che potrà condurre insieme alla scuola? Sarà un progetto “moderno”
orientato al rafforzamento dei valori repubblicani, che ricorda a bambini e ragazzi l’identità italiana, conferma le nostre radici, spiega il patto costitutivo da
cui è nata l’Italia repubblicana, oppure un progetto “post-moderno”, rivolto al
pluralismo, che tiene conto della grande varietà di culture ormai presenti in Italia, culture non solo in senso etnico, cioè presenza di immigrati, ma anche etico (culture laiche e religiose, di tipo liberale e di tipo solidaristico e così via)?
O, piuttosto, sarà una conciliazione di questi due aspetti, che sappia unire identità e pluralismo, diritti e doveri, uguaglianza e apertura e che, di volta in volta, sappia scegliere e dosare queste componenti ineliminabili della cittadinanza?6.
Non soltanto in Italia, ma in tutto il mondo il concetto di civic education
è andato progressivamente dilatandosi, fino a coprire una grande quantità di
significati. Dal 1980, la banca dati internazionale ERIC ha creato la voce Citizenship education, cioè “attività di apprendimento, curricolo e/o programmi educativi, ad ogni livello educativo, concernenti i diritti e le responsabilità dei cittadini che hanno come obiettivo la promozione del sapere, delle
abilità e comportamenti che conducono all’effettiva partecipazione nella vita civile”.
In Italia, le parole-chiave associate all’educazione civica come descrittori
risultano essere: cultura costituzionale, educazione alla socializzazione, alla
convivenza democratica, alla cittadinanza, alfabetizzazione civica, civismo; si
associano le dimensioni della pace-intercultura-mondialità-diritti-sviluppoambiente a quella relativa a civismo-legalità-politica-democrazia- responsabilità ed infine al campo valori-morale7.
Tali osservazioni conducono ad una questione chiave: com’è costituito il
corpus di conoscenze e abilità di ciò che in passato è stata definita come “educazione civica”? Rimane ancora attuale il giudizio che Elio Damiano dava an5
Barber B.R., Guerra santa contro contro Mcmondo. Neoliberismo e fondamentalismo si
spartiscono il pianeta, Nuova Pratiche Editrice, Milano 1998; Bauman Z, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Roma-Bari, Laterza, 1999.
6 Osler A., Rathenow H-F., Starkey H., Teaching for Citizenship in Europe, London,
Trentham Books, 1995.
7 Baldazzi A., Civic education: dimensioni del termine 1966-1998, in Losito B. (a cura di),
Educazione civica e scuola, cit., pp.143-160.
35
ni fa sull’educazione civica attualmente insegnata in Italia, definendola non
come un sapere formalizzato ma “un generoso aggregato di conoscenze e di
raccomandazioni socio-civiche-politiche, a volte anche moralmente ispirate:
ma – questo è il punto critico – non costituito in chiave disciplinare (potrebbe
essere il diritto, l’economia, la sociologia, la scienza politica, uno di questi saperi oppure più di uno, distinti e articolati fra loro come si dà per altre aree
multidisciplinari)”8. Si potrebbe esprimere la stessa osservazione, oggi, di
fronte all’Educazione alla Convivenza civile, prevista dalle Indicazioni nazionali per i Piani di studio della Scuola Primaria, che contiene al suo interno anche l’Educazione alla Cittadinanza, “erede” dell’educazione civica?
L’Educazione alla convivenza civile
Negli intenti degli estensori delle Indicazioni Nazionali per i Piani di studio, diffusi nel 20049, l’Educazione alla convivenza civile coprirebbe un campo più largo di quello della cittadinanza poiché riguarderebbe tutti, anche coloro che non godono di cittadinanza formale. Quest’ultima, come è noto, definisce l’insieme dei diritti e doveri riguardanti il cittadino. In tal modo, tuttavia,
si rischierebbe di formulare un’idea restrittiva di cittadinanza, limitata soltanto al suo significato giuridico-politico, che indica lo status giuridico legato alla nazionalità10. In realtà, è possibile anche un’altra interpretazione – propriamente pedagogica e più estensiva – del concetto di cittadinanza, da intendersi
come senso di appartenenza, possibilità di fruire di diritti e doveri non solo legati allo stato–nazione: in questo senso, si può usare il termine “cittadinanza”
soprattutto in prospettiva pedagogica, per indicare la piena appartenenza ad
una collettività, mentre si indica come “educazione alla cittadinanza” il percorso educativo e formativo che occorre intraprendere per realizzarla. Ciò riguarda, in questo senso, tutti i membri della comunità, anche chi, come il bambino, non possiede ancora gli strumenti culturali per partecipare attivamente.
Tutti, infatti, sono associati ad una civitas comune che oggi, inoltre, va al di là
dei confini della nazione.
In questo senso, la dimensione della cittadinanza nel curricolo scolastico è
centrale e non assimilabile esattamente a singoli compiti riguardanti, ad esempio, i comportamenti alimentari o di conoscenza del codice della strada. Nelle
Indicazioni l’orientamento prevalente ha mirato ad aggregare l’educazione alimentare, stradale, ambientale, all’affettività, alla salute, nell’Educazione alla
8
Damiano E., Storia, geografia e studi sociali nei nuovi programmi: una lettura epistemologica, in «Prospettiva EP», n. 2, marzo-aprile 1985, pp. 51-60.
9 D.L.19 febbraio 2004, n. 59 - Definizione delle norme generali relative alla scuola dell’infanzia e al primo ciclo dell’istruzione, a norma dell’articolo 1 della legge 28 marzo 2003,
n. 53.
10 Schnapper D., La communauté des citoyens. Sur l’idée moderne de nation, Paris, Gallimard, 1994.
36
Convivenza civile; questa espressione si presta a fungere da “contenitore” onnicomprensivo in quanto presenta un significato che mette in rilievo la dimensione sociale rispetto al senso più politico assunto nel tempo dalla cittadinanza; inoltre, allude anche alle virtù private e non solo pubbliche, da creare negli
alunni. Si tratta di una distinzione – presente anche in vari studi, ad esempio
canadesi – tra la dimensione della civil citizenship (a carattere individuale) e
della civic citizenship, riferita alla partecipazione a interessi comuni.
La scelta della convivenza civile come principio-guida indica proprio la
prevalenza del carattere individuale delle virtù private, tra cui le buone maniere e la cura di sé (salute, alimentazione, affettività) che attengono al benessere
personale. Tale orientamento verso le virtù private, espresse dalla preferenza
per la convivenza civile, tipica dei paesi anglosassoni, lascia però irrisolta la
questione della scarsa propensione, frequente e radicata nella storia del nostro
paese, verso le virtù pubbliche e verso la difesa del bene comune. In questo
senso, proprio nel momento attuale, si sente l’esigenza di ripensare il rapporto
tra le diverse dimensioni che Paul Ricoeur definirebbe della stima di sé, sollecitudine verso l’altro, all’interno di istituzioni giuste in un paese, come l’Italia, che ha bisogno di un nuovo ethos della cittadinanza11.
La riflessione sull’Educazione alla convivenza civile appare particolarmente importante in un momento di profonde trasformazioni che richiedono non
un semplice aggiornamento della scuola, ma una nuova visione del mondo, più
interdipendente, più critica, più solidale.
Cogan e Derricott, dopo aver svolto una vasta indagine sulle caratteristiche
dell’Educazione alla cittadinanza nel XXI secolo, suggeriscono, ad esempio,
che essa veda tra i suoi obiettivi:
– approccio ai problemi in qualità di membri di una società globale;
– assunzione di responsabilità;
– comprensione e apprezzamento delle differenze culturali;
– pensiero critico;
– disponibilità alla soluzione non violenta dei conflitti;
– cambiamento di stile di vita per la difesa dell’ambiente;
– sensibilità verso la difesa dei diritti umani;
– partecipazione politica a livello locale, nazionale e internazionale12.
Il buon cittadino è questo ed altro ancora: è l’alunno che partecipa alla vita della classe e della scuola e ne assume le responsabilità, che non solo conosce la legge, ma aderisce moralmente alle regole, si interessa all’ambiente, è
sensibile ai diritti umani, rispetta la differenza degli immigrati, accetta la diversità senza paura, nel suo piccolo gioca le regole democratiche e da grande
11 Ricoeur P., Persona comunità e istituzioni. Dialettica tra giustizia e amore, a cura di A.
Danese, S. Domenico di Fiesole, Edizioni Cultura della Pace, 1994.
12 Cogan J.J., Derricott R. (eds.), Citizenship for the 21st Century. An International Perspective on Education, London, Kogan Page, 1998.
37
voterà, pagherà le tasse, esprime un senso di identità nazionale italiana ma è
anche un europeo nel senso pieno del termine e un cittadino del mondo. Non
solo, ma si nutre bene, non fuma, rispetta il codice della strada, e così via…
Risulta chiaro quale sia, allora, la problematica specifica dell’Educazione
alla convivenza civile: questo campo che abbiamo finora chiamato “educazione civica”, pur essendo unanimemente riconosciuto come fondamentale, è intrinsecamente debole perché soffre di un sovraccarico epistemologico, una mescolanza composita di funzioni ed obiettivi. Non solo, ma è stato affrontato finora con un impianto di tipo cumulativo, cioè per sovrapposizione di obiettivi
– tutti meritori – ma anche difficilmente integrabili gli uni agli altri. Non da
oggi si prende coscienza di questa peculiarità, della sostanziale ambiguità della disciplina, sospesa tra “educazione” e “istruzione”, ma dobbiamo chiederci
come, attraverso adeguati cambiamenti, potremo affrontare questi limiti e, insieme, le opportunità offerte dai cambiamenti attuali.
Il nodo della trasversalità
Uno dei nodi centrali della questione riguarda la domanda se l’educazione
alla convivenza civile sia o meno una disciplina, e se lo spazio da attribuirle
debba essere specifico o trasversale. Anche qui il dibattito parte da lontano.
Già i programmi del 1945, forse i più maturi sul piano dell’elaborazione dell’educazione civica, introducono la convinzione che vi sia civismo solo se praticato e vissuto a partire dalla vita della classe. Il D.P.R. n.585/1958, approvato per volontà di Aldo Moro, che istituiva ufficialmente l’educazione civica
nelle scuole secondarie (due ore mensili, affidate all’insegnante di storia), riguardo allo spazio da dedicare alla materia, riconosceva la trasversalità dell’educazione civica, non limitabile ad uno studio strumentale all’interno di una
singola disciplina. Tuttavia, sottolineava l’esigenza di dare un quadro organico
alla riflessione sulla cittadinanza, presente ma “invisibile” in materie quali le
lingue, la storia, la filosofia; quindi, presentava la duplice esigenza di rendere
l’educazione civica visibile e allo stesso tempo trasversale.
La Circolare n. 29 del 5.3.04, applicativa del D.L. 19.2.04 n. 59, riguardante
gli obiettivi specifici di apprendimento relativi all’Educazione alla convivenza
civile (educazione alla cittadinanza, stradale, ambientale, alla salute, alimentare
e all’affettività) afferma oggi che essa “non costituisce una disciplina a se stante, ma si concretizza in un’offerta di attività educative e didattiche unitarie a cui
concorrono i docenti contitolari del gruppo classe”. Si è qui di fronte alla caratteristica centrale di ciò che precedentemente veniva denominata “Educazione civica”. L’Educazione alla convivenza civile non viene proposta come una semplice articolazione del Profilo educativo culturale e professionale, ma è l’ordito che
dovrebbe dare unitarietà all’intero sistema. Non è altresì una disciplina, ma le attraversa tutte ed è da esse contenuta. L’impianto unitario a ologramma della riforma accentua la trasversalità della Educazione alla convivenza civile, che “ado38
pera sia le discipline sia le altre attività educative”. Appare chiaro come l’educazione civica prima e, oggi, l’Educazione alla Convivenza civile, presentino entrambe caratteristiche di multidimensionalità e multireferenzialità.
La prima definizione sottolinea come l’attuale Educazione alla cittadinanza, e quella alla convivenza civile, dal punto di vista epistemologico, costituiscano un crocevia in cui si incontrano educazione morale e sociale, aspetti
emotivo/affettivi e cognitivi, conoscenze ed atteggiamenti. Definire un oggetto “a più dimensioni” comporta di considerare queste ultime come proprietà
che lo qualificano, e sottolineare di conseguenza l’omogeneità dell’oggetto
stesso. Occuparsi di educazione alla cittadinanza significa, quindi, affrontare
inevitabilmente la sua natura multidimensionale, che unisce il descrittivo al
prescrittivo, il “sapere” all’“essere”. Una prima argomentazione in questo senso è relativa alle funzioni della scuola stessa, non solo fonte di trasmissione di
conoscenze ma anche di socializzazione politica. L’educazione alla cittadinanza costituisce un caso unico e particolare tra le altre materie in quanto una
“buona pratica” civica corrisponde a “sapere” (rispettare una norma è più che
conoscerla). L’inclusività diviene, di conseguenza, necessaria per la natura
complessa degli obiettivi della cittadinanza, per l’ampiezza di abilità richieste
e per la particolarità di questo campo del sapere disciplinare.
La nozione di multireferenzialità, proposta da Ardoino, significa invece
evidenziare i diversi “riferimenti”, mettendo in luce l’eterogeneità dell’oggetto. Si pensi, ad esempio, a come la lettura storica, o giuridica, o valoriale, dia
una caratterizzazione completamente diversa all’Educazione alla cittadinanza.
Tali riferimenti, o approcci, raccolti teoricamente in un solo ambito, vengono
raramente connessi in modo organico, attraverso una logica processuale. Più
spesso, i vari nuclei tematici sono sovrapposti nel curricolo, in una visione cumulativa secondo cui tutto ciò che attiene alla vita sociale e civica trova posto,
in un ordine a volte anche casuale. Il manuale, in molti casi, funge da “ordinatore logico” dei concetti da insegnare.
L’Educazione alla cittadinanza, in definitiva, non è codificata in una sola
struttura concettuale, ma ne presenta molte non sempre ricomposte in un insieme coerente. Considerare la multireferenzialità una qualità intrinseca dell’educazione alla cittadinanza, sostituendola all’impianto cumulativo, comporta proprio una ricostruzione ragionata delle possibilità di connettere e combinare gli elementi della conoscenza intorno a uno o più temi-chiave come il diritto, la storia, la Costituzione, l’intercultura, la dimensione politica e altri.
La presa d’atto della situazione, cioè, non deve far rinunciare a pensare una
possibile ossatura concettuale. Ad esempio, un modello che permette di articolare elementi diversi dal punto di vista culturale, sociale, politico, giuridico,
economico è contenuto nel quadro concettuale sulla cittadinanza proposto da
Pagé e Gagnon: identità, appartenenze sociali, culturali e sopranazionali, regime effettivo dei diritti e partecipazione politica e civile. Questi elementi, in
stretto legame tra loro, contribuiscono a chiarire un quadro di concezione della cittadinanza espressa dalle società e dagli stati (le caratteristiche identitarie
39
di una comunità, le appartenenze cui i cittadini fanno riferimento, il regime di
diritti instaurato per garantire l’uguaglianza, l’insieme di competenze e azioni
con cui il cittadino manifesta il suo impegno nella partecipazione). Allo stesso
tempo, possono rappresentare gli elementi-base degli obiettivi formativi: aiutare ad elaborare una cultura civica e un’identità comune, costruire l’inclusione di tutti i cittadini rafforzando il legame sociale, fornire competenze finalizzate alla partecipazione sociale e politica, sostenere la coesione sociale riconoscendo una molteplicità di appartenenze.
Tale lavoro di ricostruzione potrà e dovrà essere fatto dalle scuole stesse. Nel
sistema dell’autonomia, la struttura multireferenziale dell’educazione alla cittadinanza e la sua pervasività divengono una chance per contestualizzare i curricoli, evitando che siano soltanto i manuali a fungere da “indice” della materia.
In questo modo, la grande varietà di “punti di vista” attraverso cui l’Educazione alla cittadinanza può essere realizzata nelle istituzioni educative, anziché rimanere uno svantaggio, come avviene attualmente, offrirà maggiori possibilità
di scelta per la costruzione di un progetto formativo dell’autonomia scolastica.
Questo tipo di scelta richiede che l’Educazione alla convivenza civile, e in
particolare l’Educazione alla cittadinanza, non siano spinte nella marginalità
ma oggetto di forte investimento culturale. Ci si chiede, tuttavia, quali siano i
percorsi e gli spazi che la scuola dedicherà alla cittadinanza: sarebbe sufficiente un’ora alla settimana impartita dagli insegnanti, o basterà parlare di
“percorsi integrati” affidati a progetti trasversali? La sfida risiede nella formulazione di un compito interdisciplinare, che impone la collaborazione tra i
docenti e un impiego unitario delle attività didattiche. Infine, un punto cruciale risiede nella possibilità che le attività inerenti alla convivenza civile siano inserite nel portfolio e valutate; la non obbligatorietà della valutazione, come è
dimostrato in tutti gli studi europei a riguardo, rischierebbe di vanificare l’impianto degli obiettivi proposti.
Il curricolo nascosto
Esiste un altro problema centrale, riguardante la cultura civica che la scuola ha comunque espresso, nonostante la materia sia stata, a volte, solo un fantasioso aggregato. Ad agire è stato, in molti casi, il cosiddetto curricolo nascosto, cioè quella parte di apprendimento non programmata esplicitamente
dall’istituzione scolastica: l’uso delle norme, le regole, la socializzazione, il
clima di classe, il modello di relazione, i messaggi impliciti, infatti, esprimono indirettamente il modo in cui si concepisce la cittadinanza13. È chiaro a tut13 Leleux C., Repenser l’éducation civique, Paris, Les éditions du Cerf, 1997; Perrenoud
P., Apprentissage de la citoyenneté… des bonnes intentions au curriculum caché. Former les
professeurs, oui, mais à quoi?, in Gracia J-C.(dir), Education, citoyenneté, territoire, Actes du
Séminaire national de l’enseignement agricole, Toulouse, ENFA, 1997, pp. 32-54.
40
ti gli insegnanti, quindi, che l’Educazione alla cittadinanza non può realizzarsi solo all’interno del curricolo formale, ma nella vita stessa delle scuole; deve essere inserita nell’organizzazione interna degli istituti, attraverso la promozione di tutte le occasioni di partecipazione alle decisioni e alla vita collettiva da parte degli alunni/studenti, anche tramite l’apertura alla collaborazione
con agenzie esterne.
Questa dimensione tacita è stato trascurata o si è posta in molti casi addirittura in contraddizione con i valori che si volevano esprimere. Basti pensare
alla resistenza di molti insegnanti, che continuano a proporre un modello direttivo di trasmissione di informazioni trascurando le metodologie attive, le
pratiche di discussione, la partecipazione reale degli studenti.
Ma non si tratta solo di insegnanti che comunicano uno spirito “anticivico”.
La cittadinanza nella scuola dipenderà dallo status di tutti gli alunni e dal rispetto dei loro diritti nell’ambiente in cui si apprende. Da questo primo punto
di vista, quindi, gli alunni divengono cittadini nella scuola non se hanno studiato una qualche forma di educazione civica, ma se viene loro riconosciuto, a
tutti gli effetti, il diritto all’educazione, in altre parole la possibilità per tutti di
esprimersi, crescere ed imparare come persone e come membri della comunità
scolastica (“pari opportunità” di cui alla legge 53/2003, art. 2). Perché “le differenze e delle identità di ciascuno” che la scuola è tenuta a rispettare (art.1)
non divengano disuguaglianze, è necessario ricordare che “attitudini e scelte
personali” non sono soltanto doti naturali, ma vengono sviluppate, orientate o
ostacolate dalla scuola stessa; è necessario quindi che l’istituzione assuma la
sua parte di responsabilità nei confronti delle diverse situazioni di partenza
dell’alunno (individuali, familiari, sociali) senza contribuire a cristallizzarle.
La scuola non è certo onnipotente rispetto al mondo esterno, ma neppure delegittimata a svolgere il suo ruolo di promozione dell’uguaglianza nella società
democratica; è, anzi, chiamata ad operare una chiara opzione di “giustizia educativa”.
Le frontiere della cittadinanza
Sono molteplici i fattori di “erosione” che fanno oggi parlare di una vera e
propria “crisi” dell’identità nazionale. Alcuni tendono a spiegare molti fenomeni con la debolezza del senso civico italiano, dimenticando che in realtà costituisce un problema comune a molti paesi. In passato, l’educazione civica ha
coinciso con la formazione del cittadino fedele al proprio paese e ha costituito
una delle fonti principali di trasmissione del nazionalismo, specie nei paesi totalitari. La problematica posta oggi alla scuola, dal punto di vista della difesa
dell’identità nazionale, può essere quindi riassunta nell’esigenza di conservare
un’unità ed una coesione sociale e culturale integrando il pluralismo attuale14.
14
Santerini M., Intercultura, Brescia, La Scuola, 2003.
41
La Legge 53/2003 parla di “formazione spirituale e morale,anche ispirata
ai principi della Costituzione, e lo sviluppo della coscienza storica e di appartenenza alla comunità locale, alla comunità nazionale e alla civiltà europea”
(art. 2, punto b). Una prima riflessione si colloca sui livelli presi in esame. Il
termine “civiltà” dovrebbe essere inteso, ovviamente, non come una sottolineatura evolutiva (punto di arrivo di uno sviluppo) né essenzialista (eredità statica di una tradizione), ma nel rapporto dinamico e interculturale con tutte le
altre civiltà non occidentali. Ma, soprattutto, ci si chiede il senso della mancanza della dimensione ulteriore, cioè quella globale o extra-europea. Al momento attuale, sembra quanto meno miope non riconoscere l’importanza dell’influenza sulla nostra vita dei fenomeni sociali a livello mondiale. Dalla cultura globale ai mass media, dall’economia alla politica, dal commercio alle
forme artistiche, siamo immersi in un mondo di informazioni e di relazioni interconnesse e interdipendenti. La scuola del futuro nascerebbe già vecchia se
non riconoscesse la dimensione della globalizzazione come un livello dell’appartenenza dei singoli, da imparare a leggere ed affrontare. Essere “cittadini
del mondo” non è una sconsiderata utopia cosmopolitica di stampo illuministico, è una realtà da considerare se si vuole capire il mondo in cui si vive. Il
provincialismo della scuola italiana può essere corretto proprio da un’educazione alla cittadinanza che sappia articolare i vari piani di appartenenza dei
singoli senza dimenticare la dimensione “macro” che non solo i politologi, ma
anche le scienze umane (si pensi a Piaget, o a Bronfenbrenner) hanno indicato come fondamentale.
Inoltre, all’articolo 2, l si dichiara che “i piani di studio personalizzati, nel
rispetto dell’autonomia delle istituzioni scolastiche, contengono un nucleo
fondamentale, omogeneo su base nazionale, che rispecchia la cultura, le tradizioni e l’identità nazionale, e prevedono una quota, riservata alle Regioni relativa agli aspetti di interesse specifico delle stesse, anche collegata con le realtà
locali […]”. Esiste, quindi, il concreto rischio di accentuare una “cittadinanza
regionale” artificiale, oltre al pericolo di creare un neo-centralismo regionale
e di ridurre lo spazio del rapporto scuola/territorio.
La riforma dovrebbe essere, invece, l’occasione per realizzare nella scuola
italiana una nuova educazione alla cittadinanza attiva, che rafforzi il legame sociale nella comunità nazionale, favorisca capacità critiche di responsabilità,
partecipazione e decisione, contribuisca a dare il senso della “moltiplicazione
delle appartenenze”, indispensabile in una società complessa e globalizzata.
Diviene quindi necessario, in un quadro profondamente mutato, un forte investimento culturale e un adeguato spazio nella direzione di una nuova educazione alla cittadinanza, non limitata alla mera trasmissione di alcune conoscenze, ma integrata in tutta la vita scolastica, con un significativo collegamento con l’ambiente extrascolastico.
42
L’educazione alla “cittadinanza” nella scuola.
Una riflessione pedagogica fra utopia e possibilità
MARIA TERESA MOSCATO
I testi prodotti in supporto e nel quadro della riforma scolastica avviata dalla legge Moratti1 hanno privilegiato il termine “convivenza civile”, rispetto al
più tradizionale termine di “cittadinanza” e di “educazione civica”, forse anche allo scopo di ampliarne l’orizzonte concettuale oltre i limiti giuridici e formali; o anche nell’ottica interculturale che contrassegna la contemporaneità, e
rende troppo “stretti”, materialmente e moralmente gli antichi confini della patria/nazione2.
La variazione terminologica non supera per ciò stesso la consistenza problematica del tema pedagogico: la cittadinanza costituisce una delle più importanti pre-condizioni, forse la più essenziale, della “convivenza civile”, comunque ridefinita.
In termini generali, infatti, la nozione di “cittadinanza” definisce il vincolo
di appartenenza di un individuo ad una entità politica positiva (la città/ nazione), il diritto/dovere di partecipare direttamente alla gestione sociale e politica
della vita comune, e tutte le forme di solidarietà sociale (vantaggiose o svantaggiose per il singolo) che sono connesse alla cittadinanza stessa. Essa costituisce perciò una delle categorie fondamentali della cultura occidentale, e una
delle idee guida più importanti nello sviluppo del pensiero politico e pedagogico moderno.
Esistono però dei substrati più arcaici di questo concetto, sia a livello della
1 L. 28.3.2003, n. 53, e decreto lg. Attuativo, 19.2.2004, n. 59 con Allegati. L’intera argomentazione contenuta nelle Indicazioni può essere comunque riletta e riformulata in termini più semplici: si tratta di riconoscere la fondamentale dimensione etica e morale della condotta umana, e di riaffermare che l’istruzione efficace ha come finalità diretta la costruzione
e la progressiva consapevolezza di tale dimensione etica nella persona di ogni alunno.
2 A questo proposito Corradini distingue fra diritti universali della persona e diritti di cittadinanza in senso stretto. Cfr. L. Corradini, Educare a una nuova cittadinanza, in: L. Corradini, G. Refrigeri (a cura di), Educazione civica e cultura costituzionale, Bologna, “Il Mulino”, 1999, p. 168 e sgg. V. anche, sullo spostamento della terminologia, la presentazione di M.
Moioli a L. Corradini, W. Fornasa, S. Poli (a cura di), Educazione alla convivenza civile, Roma, Armando, 2003.
43
psiche individuale, sia nel tessuto profondo delle culture umane: prima di tradursi in un concetto, la cittadinanza evoca “figure” della mente, archetipi stratificati e presupposti emotivi e affettivi, che presiedono quindi al processo formativo reale della persona, e determinano il radicamento di tale idea nella condotta personale e collettiva.
Sul piano della riflessione pedagogica non sarà dunque inutile una rapida
esplorazione di tali stratificazioni.
Il substrato psichico arcaico della cittadinanza: appartenenza e
spazio simbolico
Nel suo nucleo psichico più arcaico, l’idea di cittadinanza viene preceduta da un costitutivo “senso del noi”, da cui resterà sempre simbolicamente inseparabile. Si tratta dalla percezione di una identità collettiva, idealmente collocata nel centro di uno spazio/orizzonte simbolico, da cui tutti gli “altri” sono separati ed esterni, e per conseguenza percepiti come “stranieri”, e dunque
potenzialmente minaccianti. Nel suo fondamento arcaico (sia storico, sia psicologico) infatti, l’idea di etnia e la collocazione del gruppo etnico in uno spazio storico-geografico definito sono tutt’uno. Un popolo si identifica con uno
spazio geografico, il territorio, che esso riconosce come “patria” (terra dei padri) e di cui esso si ritiene originariamente “autoctono” (come “nato dalla terra” medesima). Al suo primo livello psichico perciò, la cittadinanza sottintende un senso di appartenenza, che sarà essenziale nello sviluppo dell’Io personale e nei successivi processi di identificazione. A questo livello, le dimensioni del luogo di nascita e di origine sono irrilevanti: il villaggio, il paese e
la grande città “segnano” allo stesso modo l’identità personale con il sigillo
di una appartenenza psichica che trova nel paesaggio di nascita (anche mitico) la propria figura della mente. È evidente come questo arcaico (ma irrinunciabile) senso di appartenenza costituisca poi un ostacolo pregiudiziale ad
ogni necessaria integrazione sociale fra gruppi e persone che si percepiscano
rispettivamente come “stranieri”. Le inevitabili resistenze reciproche possono
essere superate non solo all’interno di nuove esperienze di socialità positiva,
ma anche in relazione ad una educazione progressiva dello stesso senso di appartenenza.
Ritorneremo su questo punto parlando dei compiti educativi della scuola,
anticipando che tale trasformazione consapevole dell’originario senso di appartenenza psichica costituisce proprio una delle più precipue funzioni educative della scuola. Ma è prima essenziale sottolineare che il senso originario di
appartenenza, che agisce nei bambini autoctoni come in quelli stranieri, non
deve essere stigmatizzato o represso, perché è proprio sulla sua originaria ed
arcaica energia che si sviluppa il processo educativo personale e ogni possibile educazione collettiva alla “convivenza civile” (comunque la si intenda).
44
Esiste poi un secondo livello arcaico nelle figure della mente, che ha un
corrispettivo storico e materiale nell’esperienza umana associata: non a caso
nelle lingue latino romanze la radice dei termini “città” e “cittadinanza” è la
stessa del termine “civiltà” e “civilizzazione”. A questo secondo livello archetipico, la città/patria materializza la figura di uno “spazio” di umanizzazione
(materiale e simbolico insieme), di un ideale “recinto” in cui la vita nel senso
umano è resa possibile ed è tutelata e regolamentata. In questo senso i suoi
confini sono “sacri”, e devono essere mantenuti sicuri. Come appare desumibile dal patrimonio mitico simbolico di ogni antica cultura, la figura della
“città” custodisce in primo luogo un ideale “centro” dell’universo umano, segnato dall’incontro con il sacro. La città infatti è per eccellenza il luogo del
culto sociale e collettivo, il luogo dei templi che fanno memoria dell’incontro
con divinità demiurgiche, che hanno rivelato agli uomini il loro destino, nel
momento stesso in cui hanno loro insegnato a venerarle. Perché sede del Tempio, la città è anche sede del Palazzo, e per conseguenza è anche sede delle
scuole. Il mito della città capitale riflette e materializza storicamente la figura
archetipica del “centro del mondo”3 (si pensi a Gerusalemme e a Roma, in primo luogo, ma anche alle grandi capitali di ogni civiltà, a Oriente come a Occidente). Rispetto a questo secondo livello simbolico-archetipico, la città capitale può essere vissuta come “vera patria” di ognuno degli appartenenti ad una
civiltà storica, indipendentemente dalla distanza materiale che si frappone fra
di loro. Essa costituisce comunque una patria mitica, e come tale viene interiorizzata.
Ad un terzo livello di esperienza psichica, la “civitas” configura la condizione della esperienza umana condivisa, dei rapporti umani regolati, “normati” e quindi “giusti”. Si noti ancora che la radice greca del termine “polis” è la
stessa della parola “politica”, cioè di quel settore della conoscenza umana che
disegna i “giusti” rapporti fra gli uomini (in questo senso, il problema politico
è problema eminentemente “filosofico”). Ma “politica” è anche la sfera dell’agire umano (e non solo del conoscere), dell’agire in relazione, e per mezzo
di istituzioni sociali. A questo livello si colloca l’avvento (storico e simbolico)
della legge, di un patto, cioè, formalizzato in un “testo” pubblico, comune, relativamente “trasparente”. Il riferimento a precedenti antichissimi delle leggi,
a partire dal codice di Hammurabi, dai comandamenti ebraici, alle legge romana delle XII Tavole, che di norma introduciamo nei nostri insegnamenti di
educazione civica, non è casuale, al di là del rigore storico con cui questi precedenti devono essere spiegati ai ragazzi4. Di fatto la presenza di leggi codificate è l’elemento decisivo con cui l’appartenenza etnica e territoriale si razionalizza nei termini di un “patto” sociale, in cui diritti e doveri vengono formalmente esplicitati. La “certezza del diritto”, in altri termini, diventa compo3 Cfr. M. Eliade, Immagini e simboli, trad. ital. Milano, Jaka Book, 1980; E. Shils, Centro
e periferia, antologia italiana a cura di D. Zadra, Brescia, Morcelliana, 1984.
4 Cfr. A. Palini, Le carte dei diritti, Brescia, La Scuola, 2003.
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nente ineliminabile della cittadinanza. Così la “cittadinanza” designa allora anche la collocazione giuridico-politica, oltre che la posizione ideale del singolo
dentro la città.
Il “civis” si contrappone così al “peregrinus” (viandante) oppure all’“hostis” (nemico), ma anche all’“hospes” (ospite) e all’“extraneus” (straniero), in
quanto egli si colloca, insieme ad altri, che gli sono “con-cittadini”, all’interno di quello spazio simbolico ideale di cui i confini fortificati della città materiale (o dello stato-nazione) costituiscono l’espressione concreta. La cittadinanza materializza così il senso arcaico di appartenenza, rende l’appartenenza
rappresentabile e comunicabile, ma soprattutto traduce il senso di appartenenza (in tutte le sue componenti psico-emotive) in responsabilità politica (e quindi anche sociale ed etica).
Diversamente dall’appartenenza (che è psichicamente vissuta come “data”), la cittadinanza è “progettata”, “meritata”, “riconosciuta”, collegata ad un
“patto” originario che deve sempre essere rinnovato.
Perciò, nel testo del Critone platonico, Socrate può immaginare che le Leggi di Atene personificate lo ammoniscano, e gli impongano di non sottrarsi alla condanna, perché la sua fuga, rinnegando il patto di cittadinanza, sarebbe un
tradimento della patria, identificata con le leggi che sono condizione della vita associata della città. In questo senso le Leggi affermano:
“noi che ti generammo, noi che ti allevammo, noi che ti educammo, noi che
ti mettemmo a parte di tutti quei beni che erano in nostro potere, e te e tutti gli altri concittadini; noi [...] ti abbiamo pure fatto capire in tempo, col darne licenza a
chiunque degli Ateniesi lo desideri, dopo che sia stato iscritto nel ruolo dei cittadini e già conosca il governo della città e le sue leggi, che se a taluno queste leggi non piacciono è libero di prendere seco le cose sue e di andarsene dove vuole... ma chi di voi rimane qui [...] costui si è di fatto obbligato rispetto a noi di fare ciò che noi gli ordiniamo”5.
Si osservi come in questo passo Platone attribuisca alle Leggi personificate una responsabilità di “allevamento” e di “educazione” del cittadino, e come
l’educazione appaia, nel testo, inseparabile dal “mettere a parte di quei beni”,
comuni ai cittadini, che le Leggi attribuiscono al proprio potere.
Nell’esperienza storica delle città stato greche, cui dobbiamo certamente le
radici dell’idea moderna di cittadinanza, la cittadinanza appare perciò un vincolo sociale di natura giuridica non più esclusivamente connesso, come l’etnia,
ad un diritto di nascita: essa infatti si può acquisire. Il “patto” che genera il diritto/dovere di cittadinanza può perciò trasformare il “peregrinus”, l’“extraneus”, l’“hospes”, e perfino l’“hostis”, in un “con-cittadino”. La condizione di
assolvimento e mantenimento della cittadinanza, perciò, non è l’appartenenza
5 Platone, Critone, trad. ital. di Manara Valgimigli (Opere complete, Vol. I, Bari, Laterza,
1993, pp. 86-87).
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etnica o il luogo di nascita, ma la partecipazione personale a quella complessa
rete di diritti e doveri collettivi che ogni società storica ha ridefinito e precisato come attributi della cittadinanza.
In questa nuova prospettiva, le mura fisiche della città e i confini della nazione diventano espressione simbolica di un nuovo spazio ideale, che è costituito fondamentalmente dal “patto” cui i cittadini si obbligano, il vincolo giuridico che genera la civitas come nuova “etnia”, e come una più perfetta “etnia”. La “patria” coincide perciò con lo spazio definito dai suoi usi, costumi e
riti, ma soprattutto dalle sue leggi. E tutto ciò deve poter essere condiviso, perché sia partecipato, e quindi richiede educazione della nuova generazione e insegnamento intenzionale.
L’idea di un sistema “pubblico” di educazione, almeno in parte sovvenzionato dallo Stato, ma in ogni caso da esso regolato e politicamente controllato, appare inseparabile, nel suo sviluppo storico, da questa idea di cittadinanza.
Così concepita, l’idea-guida della cittadinanza come vincolo giuridico (e
non come appartenenza etnica) permette di dilatare pressoché all’infinito i
confini ideali della “patria”, portandoli a coincidere di fatto con quelli del
“patto” etico-giuridico cui ci si è vincolati. Le progressive estensioni del diritto di cittadinanza, nelle città greche come nell’impero romano, attestano storicamente la consapevolezza di una società, di fatto multiculturale, che dilata i
propri confini ideali insieme a quelli politici e militari. In questa prospettiva la
“civitas” greco-romana diventa la spazio ideale della “civiltà” che i suoi cittadini si sono vincolati a realizzare e difendere, e pertanto solo la “civitas” è la
“patria” ideale autentica di ciascuno di essi, quale che ne fosse l’etnia originaria. La cittadinanza costituisce perciò il vero “confine” che separa il mondo
che si giudica “civile” dai “barbari” (inizialmente i non-greci) che continuano
a premere sui suoi confini esterni.
La maturazione di questa idea guida subì una battuta di arresto nei secoli
successivi alla caduta dell’impero romano, di fronte alla pressione aggressiva
delle nuove identità collettive dei conquistatori “barbari”, per i quali diritto e
religione avevano una base etnica.
Ma in realtà l’idea-guida di cittadinanza si era trasferita quasi di peso nella
concezione cristiana, il cui universalismo religioso assume appunto un diritto
di conversione, e quindi di nuova alleanza fra gli uomini, a partire da una vocazione divina universale. La conversione, e la condivisione di una esperienza
religiosa positiva diventano nuova condizione di “umanità” universale: “cristiano” è sinonimo di “essere umano” in tutte le lingue occidentali moderne. E
la “società cristiana” assorbe in sé ogni possibilità e condizione della cittadinanza.
La concezione moderna della cittadinanza giunge quindi a noi nella mediazione di due utopie egalitaristiche per altri aspetti di segno profondamente diverso, e cioè l’universalismo cristiano e quello illuministico. Si può giudicare
che esse costituiscano tuttora le due anime in conflitto della nostra modernità,
47
soprattutto nella battaglia per la scuola universale ed in tutte le sue progettate
e rivendicate riforme6.
La cittadinanza come “identità progettata”
Nell’ideale politico dell’Europa moderna, quale che sia la forma di governo seguita, la vita sociale è regolata da una rete di diritti e doveri positivi, animata da valori di razionalità e scientismo, fondata sul lavoro, sulla cooperazione e sulla partecipazione attiva di tutti i cittadini. La “nazione” moderna è
perciò prima di tutto una rete di cittadinanze interconnesse; essa si costituisce
concretamente come un processo storico di omologazione politica e culturale
(l’unità del diritto e della lingua, il riconoscimento di una tradizione culturale
comune e di valori sociali, etici e religiosi, condivisi ecc.), ma non è solo questo. Contemporaneamente, la “nazione” moderna si propone anche come un
“progetto ideale” da realizzare, una grande meta collettiva, etica e politica insieme; l’idea di nazione assume un valore regolativo che ne fa coincidere la
realizzazione con il “progresso”, economico, sociale e scientifico. Nella filosofia politica del tardo Ottocento si realizza così la piena coincidenza ideale
fra “civitas” e “civilitas”; la “nazione” realizza la “civiltà”, dunque la solidarietà richiesta al singolo costituisce per lui la sua piena realizzazione etica.
In questo quadro politico e ideale le agenzie educative pubbliche, in primo
luogo la scuola, ma anche tutte le complesse strutture burocratiche e amministrative che reggono la vita associata, diventano perciò anche itinerari formativi di iniziazione alla cittadinanza.
Sembra oggi necessaria una nuova riflessione pedagogica, non tanto sul valore etico dell’idea-guida di nazione, o sui suoi aspetti negativi, che abbiamo
già storicamente sperimentato, ma piuttosto sulla funzione che tale idea guida
ha svolto in passato. La cittadinanza nazionale si è infatti proposta nei processi educativi scolastici come una identità astratta, collettiva, progettata, ma positivamente utopica, di fronte alle identità di tipo etnico-geografico, a tutti i localismi e municipalismi, alle diverse classi sociali, alle diverse confessioni religiose storicamente presenti nelle società occidentali7. Non sarebbe difficile
infatti mostrare come questa concezione di nazionalità, quali che ne fossero i
6
A questo proposito utilissima, e per molti versi illuminante, la rilettura di C.L. Glenn, Il
mito della scuola unica, (1988), trad. ital. antologica a cura di E. Buzzi, Torino, Marietti, 2004,
che analizza lo sviluppo della scuola in Francia, in America e nei Paesi Bassi nel corso dell’Ottocento. V. anche il brillante pamphlet di G. Ferroni, La scuola sospesa, Torino, Einaudi,
1997, che, nello stigmatizzare il riformismo fine a se stesso del progetto Berlinguer, rilegge
acutamente l’universalismo scolastico proprio dell’Illuminismo.
7 Cfr. T.H. Marshall, Cittadinanza e classe sociale, trad. ital. Torino, UTET, 1976; M. Santerini, Educare alla cittadinanza, Roma, Carocci, 2001; M. Corsi, R. Sani (a cura di), L’educazione alla democrazia fra passato e presente, Milano, Vita e Pensiero, 2004 (cfr. in particolare i saggi di H. Cavallera, G. Chiosso, L. Corradini).
48
limiti, diffusa capillarmente attraverso la scolarizzazione universale e ribadita
da molteplici interventi di controllo culturale da parte degli Stati, determinava
una spinta educativa al trascendimento dell’appartenenza primaria e concreta
di ogni individuo, per il tramite di una nuova appartenenza (ideale, astratta e
progettata) collocata ad un livello più ampio. In tal modo identità sociali “progettate” e “ideologiche” affratellavano le diverse classi e i diversi gruppi etnici all’interno della nazione, e permettevano loro di scambiarsi solidarietà a partire da difendibili ideali collocati su un piano più alto (o più profondo) delle loro personali collocazioni socioculturali concrete.
La pressione culturale delle identità “nazionali” e delle cittadinanze proposte (e spesso imposte) dai gruppi e dalle città/capitali egemoni alle loro periferie economiche e culturali ha avuto quindi anche una funzione educativa propositiva e promozionale per gli individui, e una funzione di contenimento di alcuni aspetti, sicuramente negativi, dell’appartenenza culturale primaria. In
tempi recenti abbiamo purtroppo sperimentato gli altissimi costi sociali conseguenti al crollo delle grandi identità ideologiche e nazionali. La violenta concretizzazione di nuovi nazionalismi etnico-geografici (le guerre nell’ex Jugoslavia di Tito, in conflitti nell’area caucasica dopo la fine dell’impero sovietico) sembrano rivelare la presenza di sopravvissute identità etniche, a lungo represse, sia politicamente, sia idealmente, dentro un “contenitore” simbolico
più ampio, nel quadro del socialismo reale. Naturalmente i nuovi nazionalismi
costituiscono anch’essi delle identità “progettate”, che cercano nella propria
etnia storica (e nella diversità etnico religiosa del nemico) la propria legittimazione etico-politica.
E tuttavia la fine degli imperialismi internazionali, e la crisi delle grandi ideologie, ripropongono oggi in termini perfino drammatici i problemi delle identità
sociali europee, mettendo a nudo anche la diversa condizione antropologica e
psicologica delle singole comunità locali, dei gruppi sociali e degli individui.
Infatti, di fronte alla nuova condizione storica generata dal tramonto dell’idea nazionale, anche le comunità locali sono costrette a ripensare la cittadinanza, a ridefinire la loro identità collettiva: alcune la ritrovano nelle loro tradizioni civiche, nel loro prestigio economico e culturale, nella convinzione della loro verificata capacità di affronto dei problemi quotidiani, nell’impegno in
concreti obiettivi comuni: il localismo ripensa quindi la propria dimensione
politica (vedi l’esempio dello sviluppo politico del leghismo italiano nelle regioni del Nord). Ma molte comunità, anche in parallelo, trovano nuove selvagge bandiere nella guerra degli stadi, e spesso in crociate xenofobe, purtroppo
anche cruente.
È pur inevitabile, infatti, che ogni rafforzamento di rinnovate identità etniche e regionali, e di ogni forma di localismo, comporti anche l’emergere di razzismi di vario tipo: ci si riconosce più facilmente “con-cittadini” di fronte ad
uno “straniero” e ad un “nemico”, quando non è possibile farlo a partire da un
orizzonte progettuale condiviso.
In realtà, però, anche le riscoperte identità etniche, emerse in tutta Europa
49
dopo la caduta del muro di Berlino sono progettuali e a loro modo “ideologiche”: non si tratta del riproporsi di identità etniche residuali, ma piuttosto di
identità etniche “astratte”, che aspirano a diventare nuove cittadinanze nazionali, e che si appellano al recupero di una tradizione culturale mitizzata, e con la
quale in realtà la catena delle generazioni aveva perso il contatto. Ci si può
quindi riconoscere “bergamaschi” dopo essere stati italiani; “cosacchi” dopo essere stati russi; “slovacchi” dopo essere stati cecoslovacchi; per non parlare della rinascita delle identità serbe, croate, slovene e bosniache, generate dal crollo
della Jugoslavia. Questa “rinascita” non accade in forza della fedeltà ad una tradizione superstite, come questi gruppi probabilmente si rappresentano, ma piuttosto in funzione di un progetto. Per la stessa ragione si diventa musulmani e si
studia l’arabo in età adulta, dopo essere stati cittadini francesi o americani laici, e non sempre di origine nordafricana o mediorientale. Ciò che muove i nuovi etnicismi e impone “pulizie etniche” non è la memoria, ma il nuovo progetto politico e sociale di un gruppo che delle proprie presunte radici comuni fa
l’elemento decisivo per la propria riaggregazione. Che si tratti di leghismo politico o di chador islamici, questa è la novità da comprendere oggi fino in fondo, novità con cui non solo la prassi educativa, ma l’idea stessa di una possibile educazione democratica e interculturale, hanno cominciato a fare i conti. E la
tragedia dell’11 settembre ne ha segnato il nuovo confine definitivo.
Il ruolo della scuola nell’educazione alla cittadinanza
Per quanto riguarda la scuola, il problema di fondo da considerare è posto
a monte di qualsiasi discorso (pure importante) sulle strategie didattiche, sugli
insegnanti, sui contenuti, gli obiettivi e le verifiche; i movimenti migratori hanno posto alla scuola dell’Europa occidentale, divenuta da decenni una complessa ed elefantiaca macchina burocratico-amministrativa, il problema della
sua legittimità etico-pedagogica. La scolarizzazione è infatti da sempre il luogo di proposta delle identità progettate e la condizione della partecipazione alla cittadinanza per tutti i gruppi di minoranza, o almeno per i loro figli. Ma
adesso la presenza di diverse etnie e identità culturali che rifiutano l’assimilazione culturale, che si propongono come fonti di identità formali alternative, e
che tuttavia rivendicano la partecipazione politica paritaria nelle società di residenza, mette in dubbio la legittimità stessa della scolarizzazione. È questo il
vero punto di crisi, in Germania e in Italia, come in Francia o in Inghilterra. Il
dibattito sul chador delle studentesse francesi va ben oltre una questione di disciplina, e non è neppure assimilabile all’ostentazione di altri segni di identità
religiosa. Il chador non esprime appena un’identità religiosa: esso contesta il
diritto educativo della scuola francese e la sua pretesa universalistica8.
8 Cfr. M. Caputo, Scuola laica e identità minoritarie. La via francese all’interculturalità,
Brescia, La Scuola, 1998.
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Ne consegue che la ridefinizione di un nuovo patto di cittadinanza, sempre necessario, anche nelle società divenute multiculturali, così come nelle
mai cessate conflittualità ideologiche, deve comportare una condivisione
della funzione e dei compiti della scuola, anche se questo non sembra facile.
Dal punto di vista pedagogico, la scuola, in tutti i suoi livelli e nelle sue forme, si qualifica come un luogo intenzionalmente predisposto dalla comunità
socio-politica per offrire un ambiente e una rete di relazioni educative a soggetti in età evolutiva, in modo che l’intelligenza e la socialità di questi soggetti vengano stimolate, promosse, orientate, canalizzate, consolidate ed esercitate, nella direzione di una progressiva autonomia personale di ogni allievo che
cresce, sia sul piano cognitivo sia su quello etico-sociale.
Tale autonomia soggettiva, resa possibile dalle informazioni, abilità e competenze acquisite anche ad opera della scuola, costituisce la condizione per la
partecipazione attiva, responsabile e creativa di ogni cittadino alla vita democratica del paese.
I contenuti culturali che vengono selezionati nei programmi e negli orientamenti didattici di tutte le discipline, nei diversi ordini di scuola, e così pure i
metodi e le strategie educativo-didattiche praticate, sono finalizzati intenzionalmente e adeguatamente a questo scopo fondamentale. Questa finalità intrinseca, nella misura in cui viene condivisa dagli insegnanti e progressivamente anche dagli allievi, legittimata dalla società politica e riconosciuta dalla
comunità circostante, fa della scuola una forma particolare di comunità educativa.
La scuola come istituzione perciò è sempre chiamata a dare un contributo
essenziale alla costante rifondazione della convivenza sociale. Questa perenne
rifondazione è resa possibile dalla triplice dimensione in cui si realizza il processo educativo nella scuola: la memoria storica dell’esperienza del passato, la
comprensione razionale dell’esperienza sociale e individuale del presente, e la
progettazione e costruzione responsabile della società futura. Tutte le esperienze culturali e relazionali vissute nella scuola debbono concorrere intenzionalmente allo sviluppo di questa triplice dimensione di memoria, intelligenza,
e progettualità esistenziale e sociale.
Il tema della cittadinanza responsabile appare il punto di intersezione di una
serie di esigenze formative che sembrano peculiari ed emergenti nel tempo
presente, e che possono diventare i grandi obiettivi di una formazione universale nell’Europa di oggi:
– l’impegno con la propria vita, la costruzione dell’identità personale,
l’accettazione serena, e anche gioiosa, della propria crescita e della fatica che il crescere comporta, come compiti etici personali. Il giovane allievo deve essere aiutato a percepire che la sua vita personale è stata resa possibile dalla solidarietà fra le generazioni e i gruppi umani, e che
essa è parte di una storia globale e di un cammino collettivo in cui ci si
aspetta che anch’egli si inserisca responsabilmente;
51
– il valore della conoscenza e del lavoro come condizioni della partecipazione adulta alla vita collettiva, e altresì come condizioni interrelate di
trasformazione della vita umana in un senso desiderabile;
– il senso di una “mondialità” fondata sulla pace internazionale e i diritti
umani universali, che tuttavia si fondi psicologicamente sul riconoscimento del valore delle identità sociali particolari, delle radici religiose,
etniche, regionalistiche e delle specifiche tradizioni di ciascun gruppo;
– il significato della democrazia politica come partecipazione attiva e responsabile degli individui e dei gruppi alla costruzione e gestione della
cosa pubblica. Questo significato deve essere sperimentato dagli allievi
nella concretezza della loro esperienza scolastica, parallelamente alla
crescente comprensione che essi devono maturare, in relazione all’età e
al livello scolastico, rispetto alle basi giuridico istituzionali della vita democratica e alla connessione fra vita sociale e tradizione giuridica e culturale. La partecipazione democratica – lungi dal configurarsi come
semplice prevalenza dell’opinione e della volontà della maggioranza, è
infatti inseparabile dal fondamento giuridico istituzionale e dalla tradizione politica e culturale che caratterizza la storia delle società moderne. La partecipazione democratica implica la conoscenza e la condivisione di un mondo di significati e di valori etico-politici che intessono
la trama della convivenza sociale e la rendono umana e civile. In ciò
consiste il valore della legalità e della lealtà alle istituzioni che si richiede al singolo;
– la percezione della salute e del benessere, individuale e collettivo, come
irrinunciabile bene comune, che reclama solidarietà sociale fra le diverse generazioni umane e i diversi popoli della terra, e impone a ciascuno
di assumere la responsabilità personale della propria salute, della vita
degli altri e dell’ecosistema ambientale. Questa percezione, una volta
conquistata dagli allievi, determinerebbe la motivazione intima e personale per partecipare attivamente a tutte le azioni di prevenzione del danno e del malessere sociale e ambientale, dall’AIDS alla tossicodipendenza, da ogni forma di inquinamento ambientale alla degradazione della vita sociale e politica. L’allievo deve progressivamente scoprire che
“nessun uomo è un’isola, ma sempre una parte del tutto” e che ciascuno di noi è, personalmente e solidarmente “responsabile della bellezza
del mondo”, e conseguentemente accettare anche per sé questa responsabilità come compito etico della sua vita adulta.
Questi punti schematici costituiscono di fatto la formulazione sintetica di
grandi obiettivi educativi e didattici generali, l’anima di un progetto educativo
che potrebbe determinare le condizioni individuali per una desiderabile convivenza multiculturale. Non intendiamo con questo affermare che la scuola possa agire come luogo separato, traendo solo da se stessa le forze e gli strumenti per ricominciare un processo di trasformazione delle socioculture presenti.
La scuola, come qualsiasi altra istituzione, è solo uno dei luoghi in cui una so52
cietà si esprime: ci occorre un impegno politico in senso forte, restituendo alla sfera del “politico” la sua inseparabile valenza etica9.
In questi tempi in cui si fa più acuta l’esigenza, per gli insegnanti, di “competenze” didattiche e metodologiche, mi sembra si dimentichi che il vero elemento unificante della formazione degli insegnanti, comunque perseguita, risiede nella filosofia dell’educazione (anche implicita) che viene ad essi proposta durante la prima formazione, e che essi fanno progressivamente e autonomamente propria. Questa filosofia fonda infatti un’idea positiva della scuola, e solo questa idea a sua volta determina le motivazioni di un insegnante nei
confronti del proprio lavoro quotidiano. Oggi questa filosofia implicita appare frammentaria e confusa; di fatto le ideologie della scuola tuttora diffuse non
sembrano adeguate a sostenere il lavoro insegnante nella società contemporanea, e neppure a disegnare i canoni della loro professionalità in maniera funzionale. Ma questo è un compito specifico dei pedagogisti, cui occorre continuamente tornare a dedicarsi10.
9 Cfr. L. Pazzaglia, L’educazione alla cittadinanza democratica fra identità ed ethos condiviso, in: A. Erbetta (a cura di), Senso della politica e fatica di pensare, Bologna, CLUEB,
2003.
10 Cfr. L. Corradini (a cura di), Insegnare perché? Orientamenti, motivazioni, valori di una
professione difficile, Roma, Armando, 2004. Si tratta di una ricerca esplorativa sul piano nazionale che ha definito il profilo di una categoria ancora consistente di insegnanti italiani (cfr.
M.T. Moscato, La scelta professionale e la formazione nelle parole degli insegnanti, ivi, pp.
87-100).
53
I saperi della cittadinanza
EMILIO LASTRUCCI
L’Educazione alla Cittadinanza può essere concepita come una nuova prospettiva pedagogica, affermatasi negli ultimi anni nel contesto politico-culturale ed educativo europeo, che abbraccia e pervade l’intero curricolo e si propone perciò, sostanzialmente, come un progetto educativo di respiro complessivo, che mira alla formazione dell’Uomo nel quadro storico-culturale della
nuova Europa unitaria.
L’Educazione alla cittadinanza (espressione che ho proposto di rendere più
esplicita e completa aggiungendo gli aggettivi attiva e solidale) si propone pertanto come un modello sostanzialmente innovativo in comparazione con i più
tradizionali approcci volti alla formazione del cittadino, i quali, usando l’espressione più usuale e comprensiva, possono essere ricondotti sotto l’etichetta di Educazione civica.
L’Educazione alla Cittadinanza, in sostanza, differisce dall’Educazione Civica in quanto la prima ricopre un’estensione denotativa molto più ampia della seconda, sia dal punto di vista degli obiettivi sia da quello dei contenuti.
Dal punto di vista degli obiettivi, l’educazione civica è generalmente finalizzata, all’interno di un progetto didattico-educativo di carattere tradizionale e
più formale/nozionistico, alla trasmissione/acquisizione delle conoscenze essenziali riguardanti l’ordinamento politico dello stato e più in generale il funzionamento della società civile nel contesto di un sistema democratico. Per tale ragione l’educazione civica ha rappresentato, tradizionalmente, una componente specifica e molto marginale del curricolo. Questo approccio tradizionale – che si può evincere, in particolar modo, attraverso l’analisi dei Programmi
ministeriali di educazione civica vigenti nella scuola italiana fino ai tempi più
recenti e ne identifica un tratto costante, sia pure alla luce dei notevoli salti
evolutivi che segnano il passaggio tra le diverse stagioni della storia scolastica
nazionale dal secondo dopoguerra ai nostri giorni1 – si fonda sull’implicito o
esplicito assunto che un insegnamento di questo tipo, mirato pressoché esclu1
Per un excursus storico sull’evoluzione dei programmi di educazione civica in Italia cfr.
E. Lastrucci, Alfabetizzazione civica e civismo, in M. Corda Costa (a cura di), Formare il cittadino, Firenze, La Nuova Italia, 1997.
54
sivamente a trasmettere conoscenze e, nella prassi più consueta2, generalmente impostato in forma marcatamente mnemonico-nozionistica, riveli un’intrinseca efficacia ai fini della formazione di valori e modelli di comportamento.
L’Educazione alla Cittadinanza (attiva e solidale) è invece focalizzata sulla
formazione e sull’esercizio effettivo di quell’ampio spettro di competenze che
risultano complessivamente legate non soltanto al conseguimento da parte del
cittadino della piena consapevolezza dei propri diritti e doveri, ma soprattutto
alla sua partecipazione attiva e fattiva alla vita politica e sociale3.
Anche dal punto di vista dei contenuti l’Educazione alla Cittadinanza aspira a ricoprire un’area (che, come vedremo, si estende su un ventaglio decisamente ampio di discipline) molto più vasta rispetto a quella tradizionalmente
ricoperta dall’Educazione Civica. Quest’ultima, infatti, nella consuetudine più
consolidata, si incentra essenzialmente sulla conoscenza del sistema politico e
delle istituzioni, eminentemente riferita, nella massima parte dei casi, al contesto nazionale.
L’acquisizione di adeguate conoscenze relative all’organizzazione della società e al funzionamento dei sistemi economici e di quelli politico-istituzionali, nonché dei diversi aspetti della vita civile (conoscenze che affondano le loro radici nel complesso articolato delle scienze storico-sociali ed antropiche)
costituisce comunque una finalità essenziale e per molti aspetti anche propedeutica dell’Educazione alla cittadinanza, nella misura in cui non appare verosimile promuovere lo sviluppo della coscienza etico-civile dei cittadini in formazione e accompagnare il processo della loro socializzazione civico-politica
a prescindere dalla costituzione di una adeguata (e via via, attraverso i vari stadi dell’itinerario formativo, sempre più ampia, completa e approfondita) base
cognitiva. Allorché si ampli adeguatamente l’orizzonte tematico, e nel contempo si riducano programmaticamente i suoi scopi (facendo in tal modo perdere di senso al più ambizioso sostantivo “educazione”), il compito che tradizionalmente si proponeva di assolvere l’educazione civica, può essere adempiuto da una specifica componente del curricolo che di fatto viene a configurarsi, più che altro, come una speciale forma e/o uno specifico settore dell’alfabetizzazione, definibile come alfabetizzazione civica (o, più precisamente,
civico-politica)4. L’alfabetizzazione civica rappresenta, in ultima analisi, la
2 Ciò senza tenere conto del fatto che in una larga maggioranza di situazioni – almeno fino al momento dell’emanazione, nel 1995, per opera di Luciano Corradini, allora Sottosegretario alla Pubblica Istruzione, durante il dicastero Lombardi, del decreto che ampliava il monte orario relativo all’insegnamento della ”Educazione civica e cultura costituzionale” nel nostro sistema, rendendo quest’ultima disciplina autonoma – lo studio dell’educazione civica veniva completamente disatteso.
3 Si tratta, in sostanza, di una prospettiva pedagogica che – sul fondamento della teoria dell’educazione delineata da E. Durkheim (cfr., nella versione italiana, Educazione come socializzazione, Firenze, La Nuova Italia, ultima rist. 2003) – interpreta il processo educativo come
fondamentalmente teso a guidare e indirizzare il processo di socializzazione politica.
4 Cfr. Lastrucci, vari capitoli in M. Corda Costa (a cura di), Formare il cittadino, cit.
55
knowledge-base sulla quale erigere le più ampie e complesse strutture cognitive, affettive, valoriali e conative che l’Educazione alla Cittadinanza si propone di formare.
Al fine di definire l’intelaiatura di un programma di alfabetizzazione civica che si snodi verticalmente lungo l’intero itinerario formativo, occorre compiere un’analisi delle discipline che dovrebbero concorrere a fornire le concettualizzazioni di base e più avanzate che i discenti dovrebbero far proprie nel
corso di tale processo di alfabetizzazione. Si tratta quindi di identificare il corpus fondamentale dei saperi della cittadinanza e di pervenire a definire l’apporto specifico di ciascuno di essi a tale processo. I saperi sui quali si dovrebbe erigere la base di conoscenza dell’Educazione alla cittadinanza ed i relativi
nuclei tematici essenziali sui quali si dovrebbe concentrare l’interesse didattico nell’ambito dell’alfabetizzazione civico-politica sono schematicamente illustrati nella Tabella 1.
Tabella 1: I saperi della Cittadinanza.
Economia
Diritto
Teoria dello stato e
dottrine politiche
Storia
Sociologia
Etno-antropologia
56
Fondamenti della teoria economica e dinamiche fondamentali
del mercato
Dinamiche fondamentali del mercato del lavoro e delle professioni
Diritto costituzionale (princìpi generali, ordinamento dello stato, ecc.)
Fondamenti di diritto pubblico
Nozioni di diritto privato, amministrativo e del lavoro
Fondamenti di diritto dell’Unione Europea
Fondamenti ideali e organizzazione/funzionamento del sistema
democratico
Fondamenti delle diverse dottrine politiche
Organizzazione dell’Unione Europea
Diritti umani, funzionamento dell’O.N.U., diritto internazionale e Trattati ecc.
Locale e regionale
Nazionale
Europea
Mondiale (World History)
Princìpi generali e fondamenti metodologici della sociologia
Analisi di fenomeni sociali del mondo contemporaneo (suicidio, alcolismo, tossico-dipendenze, disagio giovanile, devianze
ecc.)
Principali elementi culturali che caratterizzano i diversi gruppi
umani
Storia delle religioni e comparatistica religiosa
Storia delle tradizioni popolari locali
L’alfabetizzazione civica include quindi, in rapporto all’Educazione civica,
così come tradizionalmente questa veniva e viene in molte situazioni ancora
proposta, oltre ai contenuti più strettamente relativi all’ordinamento politicoistituzionale, ai princìpi costituzionali e ai fondamenti giuridici dello stato, altre questioni di cruciale rilevanza e connesse a settori disciplinari importanti
quali l’economia, il diritto, la storia, l’etno-antropologia e le altre scienze sociali. Come già sottolineato, da tale punto di vista, ossia intesa quale base conoscitiva volta alla formazione delle competenze cognitive indispensabili per
un adeguato sviluppo di un più ampio progetto di natura educativa, l’alfabetizzazione civica costituisce essenzialmente la componente cognitiva essenziale
dell’Educazione alla Cittadinanza, piuttosto che una forma più estesa e sviluppata di educazione civica.
Quelle incluse nella tabella rappresentano senz’altro le discipline di base
per l’Educazione alla Cittadinanza. Quest’ultima ha però trovato un terreno
fertile e vasto di sviluppo anche in connessione a finalità di natura educativa
specifica, legate ad alcuni filoni tematici più particolari e settoriali: l’educazione ai diritti umani, l’educazione alla legalità, l’educazione morale, l’educazione interculturale, l’educazione alla pace, l’educazione alla mondialità, l’educazione stradale, l’educazione alla salute, l’educazione ambientale, l’educazione sessuale (o, con un’espressione diversa, utilizzata nelle Indicazioni Nazionali, educazione all’affettività), l’educazione alimentare, l’educazione alla
globalità (sviluppata di recente nel contesto francese ed inglese) ecc.
Le specifiche finalità educative connesse a ciascuno di tali ambiti sono state prevalentemente perseguite, nel quadro della maggioranza delle esperienze
sviluppate in Italia e in Europa nell’ultimo decennio, attraverso la realizzazione di specifici progetti attuati a livello interdisciplinare e/o, generalmente, extra-curricolare. L’ampia diffusione di queste esperienze ha avuto riflessi decisivi, in diversi Paesi europei, su una revisione dei curricoli che conferisse piena dignità e completo diritto di cittadinanza a tali filoni extra-curricolari nell’ambito dei curricoli ufficiali. Ciò è accaduto nel nostro Paese, com’è noto,
attraverso l’elaborazione delle Indicazioni Nazionali, che in qualche modo costituiscono un progetto complessivo (definibile nei termini di educare alla
convivenza civile) articolato in ambiti educativi specifici, fra i quali acquistano uno statuto portante alcuni fra quelli poco sopra citati. Il modello che implicitamente questa impostazione reca con sé è quello di un progetto educativo complessivo articolato in un insieme di sotto-progetti settoriali (coerenti
emanazioni del progetto generale), tutti etichettati come “educazione a…”.
Questa prospettiva amplia ulteriormente l’orizzonte delle discipline che
partecipano della knowledge-base dell’educazione alla cittadinanza. Il caso più
eclatante è sicuramente costituito dall’educazione alla salute e da quella ambientale. Entrambe queste richiedono infatti il possesso di ben definite cognizioni in specifici settori delle scienze naturali (le discipline biomediche nel primo caso, le cosiddette “scienze della terra” nel secondo) e dovrebbero quindi
affondare le loro radici in un’alfabetizzazione scientifica riorganizzata secon57
do una nuova prospettiva di carattere più pragmatico, in quanto tesa, in via
prioritaria, a sviluppare comportamenti conformi ad un ben definito sistema di
valori e quindi ad un quadro di riferimento etico-assiologico e ideale-civile. Si
tratta, in ultima analisi, di mete educative che – secondo l’architettura educativa poggiante sui quattro pilastri indicati da Jaques Delors5 – rientrano essenzialmente nei domini del saper essere e del saper vivere con gli altri.
Per tali ragioni, l’Educazione alla Cittadinanza, inquadrata in tale prospettiva, viene a configurarsi, piuttosto che come una disciplina, per quanto estensiva e comprensiva di articolazioni tematiche più specifiche, o comunque come
un particolare settore del curricolo, eminentemente nei termini di un progetto
educativo globale, che abbraccia pressoché interamente il curricolo ed informa
di nuovo senso e valore l’attività formativa, conferendo così un nuovo e diverso ruolo alle varie aree in cui il curricolo stesso si articola: l’educazione linguistica (sia riguardo la competenza in lingua materna sia riguardo quella delle lingue straniere) come quella matematico-scientifica e tecnologica, lo sviluppo
delle capacità espressive come delle abilità tecnico-operative e di tutto il rimanente complesso di conoscenze e competenze che concorrono allo sviluppo armonico della personalità dell’alunno, alla conoscenza del mondo, di sé e degli
altri e al suo graduale inserimento attivo e fattivo nella società organizzata. Questa architettura di massima del curricolo – che già di per sé fonda le sue principali suddivisioni su una visione tesa alla formazione delle competenze (comunicative, espressive, tecniche ecc.), piuttosto che a ricalcare le compartimentazioni disciplinari consegnate dalla più inveterata tradizione culturale) –, però,
nella prospettiva educativa che pone quale suo fulcro l’educazione del cittadino
attivo e solidale (e che reinquadra in qualche modo tutte quelle categorie di
competenze in un sistema nel quale acquistano funzione centrale quelle di natura pro-sociale6 e l’esercizio di ogni altro tipo di competenze è concepito comunque come orientato a concorrere al progresso sociale e civile), si incrocia
con una nuova articolazione dei saperi di natura, per l’appunto, più concreta e
pragmatica, in quanto scaturente da una focalizzatone dei grandi problemi che
affannano la ricerca scientifica e la riflessione teoretica nel mondo presente (ad
esempio le questioni legate alla salvaguardia dell’ambiente naturale e alla promozione di uno sviluppo sostenibile, oppure la società multietnica, per citare
quelle che rivestono forse attualmente massimo rilievo nel dibattito culturale).
Questo secondo impianto è essenzialmente quello delineato da Edgar Morin nel
suo tentativo di rifondare l’educazione (vale a dire di definire un’architettura
dei curricoli del tutto nuova e coerente con le esigenze della società presente)
su una riforma complessiva dell’architettura del sapere umano7.
5
Cfr. Nell’educazione un tesoro, ediz. it. Roma, Armando, 2000.
Per un’analisi dell’ampio complesso di competenze che l’Educazione ala Cittadinanza
mira a sviluppare nel discente cfr. E. Lastrucci, Orientamenti e prospettive dell’educazione alla cittadinanza europea, in «Il Nodo», n. 25, 2004.
7 Cfr., soprattutto, La testa ben fatta, Milano, Raffaello Cortina, 2000, ma anche I sette saperi per l’educazione del futuro, ivi, 2001.
6
58
La realizzazione di questo modello reca con sé, naturalmente, un processo
di revisione e di potenziamento delle competenze dei docenti e degli altri professionisti della formazione e di conseguenza un arricchimento ed elevamento
della loro professionalità. Articolati ed efficaci programmi di formazione in
servizio dovranno quindi accompagnare la riorganizzazione dei curricoli e la
sperimentazione di nuovi modelli organizzativi dell’attività formativa.
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60
Tradizione cristiana e cittadinanza di pace
EMILIO BUTTURINI
Le violenze che continuano a mietere milioni di vittime, specie nei cosiddetti “paesi in via di sviluppo”, in quelli africani in particolare, e che di tanto
in tanto si affacciano, con effetto “perturbante”1 alle nostre regioni di “sviluppata opulenza”, ripropongono la centralità del tema della pace e dell’apporto
che le tradizioni religiose, a partire da quelle cristiane, ma anche le “tradizioni secolari di etica umanistica” – per dirla con Hans Küng – possono offrire per
affrontare e possibilmente risolvere i conflitti con modalità nonviolente di lotta2. Mi limito qui ad alcuni motivi della tradizione cristiana, su cui più a lungo ho riflettuto specie in riferimento ai primi secoli del cristianesimo3, convinto della necessità di ricercare alle fonti antiche delle religioni ed anche delle diverse culture ragioni che possano portare alla promozione di un nuovo
umanesimo.
1
L’uso di questo termine freudiano (Das Unheimliche è un saggio del 1919 e sta ad indicare qualcosa che riemerge dal fondo dell’umanità, il ritorno “perturbante” di un tempo remoto
proprio degli uomini primitivi) è stato usato per indicare recenti massacri avvenuti anche negli Stati Uniti e in Europa, ma tale realtà persiste purtroppo da decenni in vari Paesi del “Terzo Mondo”, specie africani (Sudan, Congo, Angola, Burundi ecc.) o anche del Medio Oriente
(Iraq e Israele in particolare) e solo negli ultimi tempi ha cominciato a coinvolgere anche i Paesi “sviluppati”.
2 Cfr. H. Küng, Ricerca delle tracce. Le religioni universali in cammino, Brescia, Queriniana, 2003.
3 Cfr. fra i miei testi l’antologia paraviana del 1977, La nonviolenza nel Cristianesimo dei
primi secoli, con saggio introduttivo di David Maria Turoldo, riedita nel 1979 e 1986; il testo
calorosamente voluto da padre Ernesto Balducci e da lui efficacemente intitolato La croce e lo
scettro.Dalla nonviolenza evangelica alla chiesa costantiniana, Firenze, Ed. Cultura della Pace, 1990 e l’ultimo mio saggio, nel 33° volume del Dizionario di spiritualità biblico-patristica, diretto dal prof. don Salvatore A. Panimolle, Guerra e pace nei Padri della Chiesa, Roma,
Borla, 2002, pp. 22-125. Motivi di riflessione riprenderò anche da un mio volume, recentemente riedito, La pace giusta, Verona, Mazziana, 20043, su “Testimoni e maestri” di pace “tra
’800 e ’900”: Ruskin, Tolstoj, Gandhi, Montessori, Capitini, don Milani.
61
Alcune indicazioni dai testi biblici
Nonostante il rispetto e la venerazione che dobbiamo avere per i nostri “fratelli maggiori” Ebrei, da cui è derivata la salvezza nell’ebreo Gesù, morto, risorto e venturo, “primizia di quelli che sono morti” (1 Cor 15,20 e Col 1, 18)
non si può negare la particolare novità sui problemi della pace e della nonviolenza del Secondo Testamento rispetto al Primo. Nel Primo Testamento infatti
– come osserva Norbert Lohfink – il Dio della pace emerge solo lentamente e
numerose sono le decise scelte di violenza, presentate spesso come comando
divino, accanto alla giustificazione della guerra (cfr., ad esempio, Dt 20, 5-14),
non senza anche lo svelamento della violenza nascosta o dissimulata. Non
manca certo l’annuncio (specie, ma non solo con i Profeti) di una futura società nonviolenta, fondata sulla legge del perdono e dell’amore, anche oltre i
confini del popolo eletto (cfr., ad esempio, Is 2, 3-4 e 19, 23-25 o Zc 9, 9-10 o
anche Sir 28, 1-7 o l’orientamento diffuso nei Proverbi di esaltazione dell’uomo di pace e di condanna dell’uomo violento)4. Anche nel Secondo Testamento si trovano versetti che sembrano accennare a guerre giuste e legittimare tante indicazioni al riguardo date dalle Chiese cristiane lungo i secoli, ma sembra
indubitabile agli studiosi che siano in esso contenuti passi a favore della nonviolenza “più chiari e numerosi” – per dirla con il Maggioni – o che sia “fuori discussione – come osserva il Vögtle – l’incondizionato impegno dei seguaci di Gesù al comportamento pacifico e creatore di pace tra gli uomini”, sempre, comunque, nel senso della “resistenza nonviolenta al male”, piuttosto che
in quello tolstojano della “non resistenza” tout court5.
Sono davvero numerosi nel Secondo Testamento i passi a favore di scelte
nonviolente, a partire dalle Lettere paoline (1 Cor 4, 12-13 o, più ancora, Rm
12, 14-21, dove la violenza dell’odio è vinta dalla forza dell’amore, con l’invito a “non lasciarsi vincere dal male, ma a vincere il male con il bene”) o da
quelle di Pietro (1Pt 2, 21-23). Se poi passiamo ai Sinottici, centrali appaiono
i versetti sulle beatitudini di Matteo (5, 1-12; 21-24; 38-48) e di Luca (6, specie 27-38), quest’ultimo, forse, anche più impegnato nel sottolineare il motivo
del perdono e della pace, non senza il “realismo” di versetti come 11, 21-22;
4 Cfr. N. Lohfink, Il Dio violento dell’Antico Testamento e la ricerca d’una società nonviolenta, «La Civiltà Cattolica», 7 aprile 1984. Cfr. anche la traduzione parziale, di un libro a
sua cura, Il Dio della Bibbia e la violenza, Brescia, Morcelliana, 1985. Cfr. infine il più recente testo di E. Peretto, Il fattore Guerra-Pace nell’Antico Testamento, nel 32° volume del Dizionario di Spiritualità Biblico-Patristica, Roma, Borla, 2002, pp. 17-97.
5 Cfr. per Tolstoj il mio testo citato La Pace giusta, specie pp. 53-60. Per un’approfondita
e puntuale critica della sua posizione da parte di un altro importante autore russo, vissuto tra
il 1853 e il 1900, cfr. V. Soloviev, I Tre dialoghi, Marietti 1820, Genova-Milano, 2002, specie
la Prefazione, il Primo dialogo e il Breve racconto dell’Anticristo. Per gli altri riferimenti cfr.
B. Maggioni, Fondamento biblico in L’obiezione di coscienza, Brescia, Queriniana, 1975, particolarmente pp. 40-41 e A. Vögtle, La pace. Le fonti nel Nuovo Testamento, Brescia, Morcelliana, 1984, specie pp. 17-22, 44-45, 65-84, anche per il commento di alcuni “lógia” classici.
62
12, 51; 14, 31-32 o 22-36, con motivi ripresi anche negli Atti degli apostoli, a
Luca comunemente attribuiti, e nelle opere giovannee: Vangelo, Apocalisse,
Lettere6.
Si possono ricordare in sintesi alcune espressioni di Bonhöffer – che pure
alla fine scelse di combattere con determinazione contro il tiranno della sua
patria – per il quale “la legge su cui Gesù richiama in primo luogo l’attenzione dei suoi seguaci vieta l’omicidio e affida loro il fratello […]. La vita del fratello è per chi segue Gesù il limite oltre il quale non si può andare. Questo limite è già infranto dall’ira, tanto più da una cattiva parola che ci scappa (raca)
e dal cosciente oltraggio dell’altro”7.
Il tema della guerra e della pace si lega poi strettamente a quello del potere civile e religioso, e subito nel Secondo Testamento appaiono orientamenti
diversi tra i Vangeli sinottici (Matteo, Marco e Luca), le lettere di Paolo, gli Atti degli apostoli, da una parte, e, dall’altra il Vangelo di Giovanni e soprattutto
l’Apocalisse (dove il verbo poleméo ricorre cinque volte delle sei di tutto il Secondo Testamento), quando si erano già avute le prime forme di persecuzione.
L’impero romano non viene più considerato con il lealismo di Mt 22, 15-21,
Mc 12, 13-17 o Lc 20, 20-26 (“il tributo a Cesare”) o anche di Pietro e Paolo
(1 Pt 2, 13-17 e Rm 13, 1-10), ma viene deformato con l’immagine della “bestia che viene dal mare” o della donna con “sette teste e dieci corna”, a cui si
deve non più rispetto e obbedienza quanto piuttosto la “resistenza” (hypomoné), di cui parla appunto l’Apocalisse 13, 10 e 17, 1-18. In quest’ultimo
scritto si celebra la “vittoria dell’agnello”, che non è certo un imbelle e possiede, anzi, una forza terrificante da cui nascondersi (Ap 6, 12-16), anche se
alla fine porterà “cieli nuovi e terre nuove” agli eletti e “la morte seconda” agli
ignavi, agli increduli e a tutti i peccatori, a cominciare dai depravati e dagli
omicidi (cfr. Ap 21, 1-8)8.
La proposta di decisa nonviolenza dei primi secoli cristiani e le diverse scelte dei Padri del IV e V secolo
Purtroppo si è scartata da secoli l’alternativa di decisa nonviolenza prospettata nei primi secoli del cristianesimo, quando le comunità cristiane si presentavano come paroikìai, cioè comunità che vivono “accanto alle case”, formate da uomini che “abitano nella propria patria come stranieri (pàrokoi), partecipando a tutto come cittadini e tutto sopportando come forestieri, perché
ogni terra straniera è loro patria e ogni patria terra straniera”, così da offrire
6
Cfr. sempre nel 32° volume del Dizionario sopra citato i contributi di F. Manns, Guerra
e pace nel Nuovo Testamento, pp. 134-178 e U. Vanni, Guerra e pace nell’Apocalisse, pp. 179220.
7 Cfr. D. Bonhöffer, Sequela, Brescia, Queriniana, 1975, pp. 107.
8 Cfr. Vanni, Guerra e pace nell’Apocalisse, pp. 215-216.
63
l’esempio di un “paradossale sistema di vita”, paràdoxos politeìa (A Diogneto,V,5; 10)9. Di qui l’insistenza sulla libertà personale, poiché nella religione
“la stessa libertà ha scelto di porre la sua dimora” (Lattanzio, Epitome, 49, 12) ed anche sulla libertà politica, con la disponibilità, ad esempio, a chiamare
“anche signore l’imperatore, ma secondo l’uso comune e solo se non si è costretti a chiamarlo così al posto di Dio”, perché – dice Tertulliano (Apologetico, 34, 1; 36, 2-4) – “il mio Signore è uno solo […] lo stesso Dio dell’imperatore”. Libertà inoltre non come privilegio di pochi perché “Cristo, a differenza
di Socrate, non ha solo filosofi e filologi per discepoli, ma anche artigiani e
persone di poca cultura” (Giustino, II Apologia, 10).
Ne conseguiva l’universalismo reale dei cristiani (che contribuisce a spiegare l’accanimento con cui furono perseguitati), il rifiuto della violenza e della guerra (con accenti particolari specie in Origene e Tertulliano)10, così come
il rifiuto della tortura e della pena di morte, non dandosi “eccezione alcuna al
comandamento di non uccidere – come scriveva Lattanzio, Divine Istituzioni,
VI, 10, 1 e 20,17 – poiché uccidere un uomo è sempre un delitto, anzi un sacrilegio, avendo Dio fatto dell’uomo un essere sacrosanto”. Di qui il moltiplicarsi di veri e propri obiettori di coscienza al servizio militare come Basilide,
Laurentino, Egnazio, Marino, Massimiliano, Fabio, Marcello, Floriano, ecc.,
tutti venerati come santi dalla Chiesa, specie quando ci fu l’incalzare delle “invasioni barbariche” e cominciò a diventare obbligatorio il servizio militare, almeno per chi, come Massimiliano, era figlio di un veterano11.
Significativa, in particolare, la posizione di Cipriano (A Donato, 6) che,
mentre ribadisce la fraternità di tutti gli uomini (Madet orbis mutuo sanguine:
è madida la terra del sangue versato da ogni parte) denuncia l’ingiusta separazione fra morale privata e pubblica, che portava a chiamare una medesima
azione “delitto”, quando veniva compiuta da una singola persona e “atto di valore”, quando era compiuta per ordine dello stato (“Homicidium cum admittunt
singuli crimen est; virtus vocatur cum publice geritur”). Il motivo, già presente in Seneca (Lettere a Lucilio, 95,30 o Ercole furente, vv. 251-252) viene ripreso da vari Padri (Lattanzio, Gerolamo, Agostino, ecc.) e ritorna nei moderni, in Machiavelli (Istorie fiorentine, III, 13, ad esempio), ma senza sfumatura
alcuna di protesta morale, o in Freud, per il quale la guerra è certo uno scacco
alla nostra presunzione di essere civili, ma è “conforme alla natura” e “del tutto giustificata biologicamente”, come scrive nel carteggio con Einstein e anticipa in altre opere12.
Un cenno infine alla tradizione canonica, che a partire dagli Ieroì Kànones
9
Cfr. il mio saggio, Guerra e pace nei Padri della Chiesa, pp. 33-36.
Ibidem, pp. 56-64.
11 Ibidem, pp. 49-52.
12 Cfr. lo scritto del 1915 Considerazioni attuali sulla guerra e la morte (Pordenone, Studio Tesi, 1991, pp. 10-13, 28, 49-50) e l’opera del 1929, Il disagio della civiltà (Torino, Boringhieri, 1971, pp. 39-40).
10
64
greci e dalla Traditio apostolica (cap. 16)13 – forse della I metà del III secolo
– prevedeva la scomunica per il cristiano o il catecumeno che scegliesse il mestiere delle armi “per aver disprezzato Dio”, esponendosi volontariamente al
pericolo di peccare, mentre tollerava che il soldato convertito rimanesse nell’esercito, purché non prestasse giuramento e non uccidesse nessuno, anche se
ne avesse ricevuto l’ordine. È la distinzione fra il bellare o pugnare e il militare (quest’ultimo non necessariamente legato all’uso della violenza, specie
quando, a partire dai Severi, si cominciò ad assegnare all’esercito grande varietà di funzioni), che ritroveremo confermata in altre fonti, canoniche e letterarie (cfr. il canone 3 del Sinodo di Arles o il testo di Sulpicio Severo, Vita di
Martino 4, 3-5).
Poi ci fu la “svolta costantiniana”, con forme di rilegittimazione della guerra o almeno del servizio militare (per cui poteva essere consentito il militare,
ma non il bellare, come nel caso di Martino) e con una specie di “divisione del
lavoro” – come quella teorizzata da Eusebio di Cesarea, Dimostrazione evangelica, I, 8,1-4 – fra preti e monaci, da una parte, chiamati al celibato, alla povertà e alla nonviolenza, e, dall’altra, laici, chiamati al matrimonio, al commercio e, se occorreva, alla guerra – giusta naturalmente – oltre che ad “ascoltare la parola di Dio nei giorni prescritti”. Seguirà la più profonda e articolata
riflessione teologica dei grandi padri greci e latini del IV e V secolo – a cui dedico la parte conclusiva del mio contributo al volume di Borla14 – che finirà
per condizionare per tanti secoli la teoria e la prassi delle Chiese cristiane, su
una linea di sostanziale giustificazione della guerra, a certe condizioni.
Così, accanto alla Lettera canonica (188, 13) di Basilio (330?-379), che
ammette la distinzione tra uccisione in guerra e assassinio e la concessione della “non sanzione” (syngnôme) per chi combatte “hypèr sôfrosúnês kaì eusebeías” (“per i valori morali e la retta fede”), sempre però con l’impegno ad
“astenersi solo dalla comunione per tre anni”, vi è l’indicazione di Ambrogio
(339/340-397), per il quale fare guerra non è compito dei sacerdoti, ma dei laici, chiamati ad esercitare la virtù della fortezza, a condizione che si tratti di
un’azione giusta, come quella di Mosé contro l’egiziano oppressore, perché:
“Chi, pur potendo, non protegge un compagno dall’offesa, è in colpa come chi
offende” (I doveri dei sacerdoti I,36,179). Analogamente Giovanni Crisostomo
(354-407) elogia una aggressività (thymòs) messa al servizio di persone ingiu13 L’orientamento più diffuso è quello di attribuire lo scritto ad Ippolito romano, esiliato
col papa Ponziano in Sardegna nel 235 e morto verso il 240, autore dei dieci libri dei Philosophoumena o Confutazione di tutte le eresie, distinguendolo dall’omonimo vescovo d’Oriente, ricordato da Eusebio e Girolamo, vissuto tra la seconda metà del II secolo e inizio del III,
autore dei quattro libri del Commento a Daniele, dell’Anticristo, del contro Noeto, ecc. Cfr. Ricerche e Nuove Ricerche su Ippolito, «Studia Ephemeridis “Augustinianum”» Roma 1977, n.
13 e 1989, n. 30. Solleva riserve sui due Ippoliti G. Jossa, I cristiani e l’impero romano, Napoli, D’Auria, 1991, pp. 243-252. Per i canoni orientali cfr. B. Petrà, Omicidio, guerra e pace
nella storia della tradizione orientale, «Quaderni di Sant’Apollinare», n. 5/II, Firenze s.i.d.
14 Guerra e pace nei Padri della Chiesa, pp. 106-122.
65
stamente attaccate. Non reagire alle minacce contro un’altra persona è segno
di mollezza e di trascuratezza (nòtheia), e non di dolcezza e di saggia moderazione” (Sui salmi 131, 1), mentre la maggior parte degli uomini si trasformano in “belve quando essi stessi subiscono un’ingiustizia e sono rilassati e rammolliti, quando un altro è minacciato” (Omelie su Matteo 16, 7).
Agostino (354-430) poi, pur affermando a più riprese, la priorità ontologica della pace sulla guerra (cfr., ad esempio, La città di Dio XIX, 7 e 12 o Lettere 229, 2), ammette la legittimità della guerra a certe condizioni (cfr., ad
esempio, Lettere 189, 4 e 6) e accetta il principio che il soldato che obbedisce
a un ordine superiore non sbaglia, anche se vince con l’inganno (Questioni sull’Ettateuco VI, 10), dottrina che finirà per divenire dominante nelle tradizioni
delle chiese cristiane15. Continua però, come Ambrogio, a rifiutare la pena di
morte e la tortura, denunciando – con tredici secoli d’anticipo rispetto a Cesare Beccaria – l’assurdità di un metodo di ricerca della verità, per cui un uomo
“paga una pena certa per un delitto incerto, non perché si sia scoperto che egli
ne è stato l’autore, ma perché non si sa se l’abbia commesso” (La città di Dio
XIX, 6)16. Diciamo, comunque, che nel complesso rimane isolata fra i grandi
Padri una posizione di aspra intolleranza contro pagani ed ebrei (non a caso
fondata quasi solo su passi del Primo Testamento) come quella del De errore
profanarum religionum di Firmico Materno della metà del IV secolo17, anche
se la violenza di stato veniva, almeno in parte, incorporata nelle chiese e per i
cristiani non c’era più la diffusa scelta di nonviolenza dei primi tre secoli, ma
quella della “guerra giusta”. Nel Medioevo si giungerà anche alla guerra santa, quella delle crociate ad esempio, e nell’epoca moderna si arriverà ai regimi
di cristianità, fondati sul principio, radicalmente anticristiano e antilaico, del
Cuius regio eius et religio (codificato nella pace di Augusta del 1555, nel periodo delle guerre di religione fra cattolici e protestanti), che obbligherà di fatto i sudditi a seguire la religione professata dal principe.
15
Sulla scia di un verso famoso di Virgilio (Eneide VI, 853: “Parcere subiectis et debellare superbos”), evocato fin dalla prefazione del primo libro de La città di Dio (sia pure come
un tentativo del cittadino orgoglioso della città terrena di “inseguire la legge divina dell’umiltà
e dell’amore”) Agostino, nel passo citato di Lettere 189 ritiene “legittima la violenza con chi
si ribella e resiste, mentre deve usarsi misericordia con chi è ormai vinto e prigioniero, soprattutto se non c’è da temere che turbi la pace”.
16 Riguardo al rifiuto della pena di morte cfr. Lettere 153, con il commento di Italo Lana,
L’idea della pace nell’antichità, Firenze, ed. Cultura della Pace, 1991, p. 163.
17 Un grande latinista, non certo di area cattolica, come Concetto Marchesi, Storia della
letteratura latina, v. 2, Milano - Messina, Principato, 1957, p. 450, definisce la posizione di
Firmico Materno “senza eco nella letteratura cristiana che nel IV secolo e nella prima metà del
V giunge alla sua piena grandezza”. Cfr. però L. Canali, Ritratti di padri antichi, Pordenone,
Studio Tesi, 1993, p. 168, dove parla dell’aspro appello di Firmico Materno “raccolto da tanti
vescovi cristiani, veri centurioni della repressione antigiudaica e antipagana”.
66
“Riprese” significative delle scelte di nonviolenza nell’età medievale
e moderna
Non mancarono riprese significative delle scelte di nonviolenza dei primi
secoli nel Medioevo, come nel primo movimento valdese18 o anche in quello
di san Francesco, che, rifiutando la scelta della crociata, tentò il dialogo con il
Sultano Malik al Kamil, in un noto episodio, ricordato da Dante (Paradiso, XI,
vv. 100-102. Cfr. Bonaventura, Legenda maior sancti Francisci, IX, 8 e I Fioretti, 21 e 24) e celebrato da Giotto nella Cappella Bardi di Santa Croce a Firenze. Egli vietava a frati e terziari di portare armi non solo di offesa, ma anche di difesa (“Arma mortalia contra quempiam non recipiant vel secum ferant”, come dice il cap. VI della Regola del Terz’Ordine del 1221)19. Da tali indicazioni sorgeranno i primi obiettori di coscienza dell’età moderna, come il
gruppo dei terziari francescani di Rimini del 1226, la cui obiezione fu in qualche modo avallata dallo stesso papa Onorio III20. Non a caso nella basilica inferiore di Assisi, accanto al celeberrimo episodio del taglio del mantello da
parte di S. Martino, è stato raffigurato da Simone Martini il fatto, molto meno
noto (ma non dunque ai francescani!) della sua obiezione di coscienza alla
guerra (cfr. Sulpicio Severo, Vita di Martino, 4, 1-7), sulla scia di tanti martiri militari dei primi secoli, che avevano rivendicato la radicale incompatibilità
fra la loro scelta religiosa e il mestiere delle armi.
Il rifiuto della guerra e l’accettazione piena di una positiva tolleranza ritorneranno, oltre che in alcuni settori della Riforma, in grandi umanisti cattolici
come san Tommaso Moro, Juan Luis Vives ed Erasmo da Rotterdam, che, commentando un verso di Pindaro (Dulce bellum inexpertis: Bella la guerra per chi
non l’ha provata), giungeva a dire negli Adagia (I ed. 1500) che “di gran lunga preferibile è una pace iniqua ad una guerra giusta” (Multo potiorem esse pacem iniquam quam bellum aequum), considerazione ribadita nella Querela Pacis (1517), scrivendo: “Nessuna pace sarà mai così iniqua da non essere preferibile alla più giusta delle guerre” (Vix ulla tam iniqua pax, quin bello vel ae18 Cfr. G. Scuderi, La nonviolenza dei primi Valdesi in Le chiese e la guerra, Roma, Napoleone, 1972, pp. 51-65.
19 Per il testo della Regola del Codice “Mazzarino” cfr. P. Sabatier, Opuscules de critique
historique, t. I, Paris 1903, pp. 17-30 e per quello del Codice di Königsberg L. Lemmens, Regula antiqua Ordinis de poenitentia, “Archivium Franciscanum Historicum”, VI, 1913, pp. 245250. Il precetto è inserito nel contesto relativo alla confessione, alla comunione, al rispetto degli altri e al rifiuto di prestare giuramento, che è, motivo tipico anche del Movimento Valdese.
Può essere significativa anche l’insistenza di Francesco a non usare forme violente di penitenza corporale tipiche di ordini medievali, come quello che il popolo battezzò con il colorito nome di “flagellanti”. Sulla base di questi documenti non sono fondate le dichiarazioni dell’ottobre 2004 del vicepremier Gianfranco Fini, in occasione della festa del Patrono d’Italia, sul fatto che Francesco non avrebbe mai condannato la legittima difesa. Fini parlava di una Regola del
1228, che invece era del 1289 (La Supra Montem del francescano papa Niccolò IV), sessantatré anni dopo la morte di S. Francesco, con vari cambiamenti intervenuti nel frattempo.
20 Cfr. F. Fabbrini, I cristiani e la guerra da Costantino a S. Francesco in Le chiese e la
guerra, cit., p. 49.
67
quissimo sit potior), in linea, del resto, con il “Tutte le guerre sono ingiuste”
delle Prediche volgari nel Campo di Siena di san Bernardino del 1427.
Particolarmente interessante è nel 1700 la lezione di pace e nonviolenza di
Ludovico Antonio Muratori (1672-1750), ben tenuta presente dall’opera manzoniana e dai Promessi Sposi, dove il prete modenese appare fra i pochi autori citati e lodato come “illustre e benemerito scrittore”21. La “pubblica felicità”
(è il titolo di una sua opera del 1749, della quale si vedano specialmente i capitoli 23 e 28) è per lui la meta suprema a cui deve tendere ogni stato e l’unica giustificazione della sua esistenza, mentre è indubbio che nulla vi è di più
dannoso e calamitoso delle guerre e delle avidità e ambizioni, che, prima o poi,
conducono alle guerre e sono opera di “persone nemiche del pubblico bene
perché troppo amiche dell’utile proprio”. Di qui il continuo succedersi delle
guerre e la tendenza, durante, ma anche prima e dopo ogni guerra, a “spremere il sangue de’ poveri e a continuare senza guerra le calamità della guerra”, attraverso “l’eccesso de’ tributi ed aggravi del popolo”. Sono questi motivi di riflessione che ritorneranno non solo in vari autori cristiani, ma anche nell’insegnamento ufficiale delle chiese, specie a partire dal 1800.
Negli ultimi due secoli poi non sono certo mancati testimoni e maestri di
pace e nonviolenza come gli autori da me studiati nel volume La pace giusta:
Ruskin, Tolstoj, Gandhi, Montessori, Capitini e don Milani, tutti animati da
una profonda ispirazione religiosa e impegnati in un’appassionata attività di
educatori. Essi non hanno chiacchierato sulla pace, ma hanno riflettuto su cosa sia la pace, come si possa arrivare a costruirla ed hanno operato attraverso
la modifica dei rapporti interpersonali e di classe sociale, delle modalità di fare scuola o di svolgere attività di lavoro, delle stesse modalità di combattere in
una lotta nonviolenta per la verità, la libertà, la giustizia.
La lunga azione di resistenza al servizio militare obbligatorio nell’età contemporanea
Nell’epoca contemporanea in particolare è significativa la lunga azione di resistenza al servizio militare obbligatorio non solo da parte di singoli cristiani o
di sacerdoti molto noti come Sturzo, Mazzolari, Milani, ma anche delle Chiese
e degli stessi Papi, in reazione al diffondersi della coscrizione obbligatoria, a partire dalla Rivoluzione francese e dalla vicenda napoleonica. Non si può non ri21 Cfr. I promessi sposi, cap. XXXII e, più diffusamente, Storia della colonna infame, cap.
VII. Cfr. anche Discorsi sopra alcuni punti della storia longobardica, cap. IV, dove Muratori
viene accostato al Vico. Per numerosi e significativi riferimenti nel senso della nonviolenza,
cfr., oltre a vari passi dei Promessi sposi, con l’ironia e l’inconfondibile perentorietà con cui
afferma cose importanti in forme laconiche e apparentemente dimesse, le due tragedie e passi
importanti delle Osservazione sulla morale cattolica, per i quali rimando a un mio lavoro Il
motivo della nonviolenza nella letteratura italiana, «La Scuola e l’Uomo», dicembre 1980, pp.
328-330 e febbraio 1981, pp. 40-43.
68
conoscere che la storia fratricida degli Europei, dalla fine del 1700 alla II guerra mondiale ed oltre, sia in gran parte dovuta alla presenza degli eserciti nazionali, autoesaltantisi nei singoli paesi, preponderanti sia nei costi dello Stato sia
nelle sue decisioni, a partire dal decreto del 23 agosto 1793 sulla “leva di massa” di tutti i francesi fra i 18 e 60 anni, fenomeno che ha trovato in Napoleone il
suo simbolo e il suo massimo propugnatore. Fino alla Rivoluzione francese nessun sovrano, anche assoluto, avrebbe mai potuto pensare di poter costringere un
suddito a prendere le armi e Federico di Prussia, quando voleva aumentare il numero dei suoi granatieri di Pomerania, giungeva anche a far ubriacare e rapire dei
baldi giovani, estorcendone il consenso e quello delle loro famiglie. Il principio
cristiano della non obbligatorietà a fare la guerra era accettato anche in area laica e lo stesso teorico dello stato assoluto Thomas Hobbes (De cive, II, 18 e VI,
13) prevede sì la rinuncia del cittadino a favore del sovrano di tutti i suoi diritti
naturali, tranne però del diritto alla vita, che resta inalienabile.
Solo la nobiltà tendeva ad esercitare l’attività militare come diritto-dovere
del suo grado, come condizione privilegiata ed ereditaria, sotto il peso di una
sorta d’obbligo d’onore, che durò fino al principio del ’900. Di fronte alla leva obbligatoria non mancarono scelte diverse di alcuni stati (Inghilterra e Stati Uniti fra i primi) ed esplicite opposizioni delle Chiese, anche di quella cattolica, ad esempio con il votum del 10 febbraio 1870 del Card. Manning, che
chiedeva la condanna conciliare della leva e la solenne definizione della “criminalità” della guerra o con il documento Praeclara Gratulationis del 20 giugno 1894 di Leone XIII di denuncia della coscrizione militare obbligatoria,
specie della particolare “pedagogia laica”, insita nell’obbligo delle armi22. Ma
già con Pio IX – secondo Joseph Joblin – grazie alla presa di posizione del 29
aprile 1848, in cui si dissociava non dalla causa nazionale italiana, ma dalla
guerra, incompatibile con la natura universale della Chiesa, il papato cominciava a prendere coscienza di una propria fondamentale missione di pace, differenziandosi progressivamente dagli episcopati nazionali che, almeno fino alla II guerra mondiale, tendevano a giustificare varie guerre, in difesa di determinati valori23. Anzi, secondo Cesare Balbo lo stesso Pio VII con “il rifiuto
fatto a Napoleone di entrare nella lega contro Inghilterra […] aveva abdicato
in gran parte all’ingerenza negli affari politici della Cristianità”, dando un
esempio e cominciando “un’età novella per il papato” e rendendo impossibile
“il farsi essi Papi capi d’imprese politiche temporali”24.
22 Cfr. U. Bellocchi (a cura di), Tutte le encicliche e i principali documenti pontifici emanati dal 1740, vol. VII, parte II, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1997, pp. 126136, p. 134 per la citazione puntuale. Il votum del card. Manning – opera inizialmente di un
Sinodo armeno – fu firmato da quaranta vescovi e presentato ufficialmente al Concilio Vaticano I, senza però essere discusso e approvato, anche per l’occupazione italiana di Roma del
20 settembre 1870, che provocò, fra l’altro, l’interruzione dei lavori conciliari.
23 Cfr. J. Joblin, L’église et la guerre, Paris, Desclée de Brouwer, 1988, pp. 217-223.
24 C. Balbo, Delle speranze d’Italia, III ed., Capolago (Canton Ticino), Tipografia Elvetica, 1845, pp. 243-244.
69
Le posizioni dei Papi del Novecento
È nota poi la ferma opposizione alla I guerra mondiale di Pio X e, nel corso della guerra, di Benedetto XV, di cui si evoca spesso l’espressione “inutile
strage”, staccandola però dal contesto di un documento (la famosa Nota del 1°
agosto 1917), che si faceva interprete delle aspirazioni dei cittadini e dei popoli per una “pace giusta e duratura”, fondata sul disarmo simultaneo e reciproco, sull’arbitrato pacifico in caso di controversie, sulla conciliazione fra gli
interessi delle nazioni e “quelli comuni al grande consorzio umano”25. Poco
conosciuta è anche l’enciclica di papa Benedetto Pacem Dei munus del 23
maggio 1920, con la denuncia della separazione fra morale privata e pubblica,
quasi esistesse “una legge di carità per gli individui e una legge diversa per le
città e le nazioni”26, com’era stato a lungo teorizzato nella storia della nostra
cultura, a partire da alcuni Padri del IV e V secolo, per venire a filosofi e teologi del medioevo e dell’età moderna, ma anche a grandi esponenti del pensiero “laico”, come Machiavelli, Hobbes, Hegel, Freud, Weber, ecc.
Sono noti anche gli appassionati discorsi di Pio XII all’immediata vigilia
della II guerra mondiale e durante il conflitto27, ma una vera svolta, a mio parere, si è avuta con Giovanni XXIII, dopo le terribili esperienze delle dittature
del XX secolo (di Stalin e di Hitler in particolare) e le testimonianze di fede e
di pace di tanti cristiani, che avevano condiviso quelle esperienze, ridando un
futuro alle chiese attraverso l’amore dell’uomo concreto. Così è nata nell’aprile 1963 l’enciclica Pacem in terris di papa Giovanni, a due mesi dalla morte,
rivolta a tutti gli uomini di buona volontà, in modo particolare alle donne, nel
pieno riconoscimento della loro dignità, ai lavoratori, ai popoli del cosiddetto
Terzo Mondo, indicati tutti come “segni dei tempi”, per un “aggiornamento”
delle posizioni pastorali, ma anche dottrinali della Chiesa cattolica, come stava avvenendo anche nell’ormai avviato Concilio ecumenico Vaticano II. Certo, la pace non è solo assenza di guerra, ma si fonda sui grandi valori di “verità, giustizia, amore e libertà” (n. 18. Cfr. nn. 49, 50, 51, 54, 64), mentre si
dirà al n. 67 “in un’età che si vanta della forza atomica pensare che la guerra
25
Cfr. Bellocchi (a cura di), Tutte le encicliche vol. VIII, 2000, pp. 182-184. Per meglio
capire l’espressione “inutile strage”, che potrebbe apparire infelice, in quanto sembrerebbe
ammettere la possibilità di una “strage utile”, occorre appunto inserirla nel contesto e magari
ricordare altre definizione della guerra, come quella di “orrenda carneficina che disonora
l’Europa”, contenuta in una lettera al cardinale decano del 25 maggio 1915, per la quale cfr.
Joblin, L’église et la guerre, cit., p. 232.
26 Su Benedetto XV papa di pace (che aveva trovato piena collaborazione nel nuovo imperatore d’Austria Carlo d’Asburgo, proclamato beato il 3 ottobre 2004) cfr. J. F. Pollard, Il papa sconosciuto. Benedetto XV (1914 – 1922) e la ricerca della pace, Cinisello Balsamo (Mi),
San Paolo, 2001.
27 I grandi discorsi di Pio XII dei primi anni ’40 furono raccolti e commentati in due volumi da Guido Gonella, Presupposti di un ordine internazionale e Principi di un ordine sociale, Città del Vaticano, Ed. Civitas Gentium, 1942 e 1944. Furono anche ripubblicati e “compendiati” nel 1983 dall’editrice Studium in un unico volume: Dalla guerra alla ricostruzione.
70
possa essere utilizzata per rivendicare diritti violati è irragionevole (alienum a
ratione)”.
Il Concilio non osa riprendere in pieno questa posizione del papa, anche se
la richiama in una nota della Gaudium et spes (n. 80), come esempio di una
“mentalità completamente nuova” di considerare la guerra, ma il nuovo papa
Paolo VI, nel Messaggio del Natale 1971, dirà in modo analogo che “la vera
pace è fondata sulla giustizia, sul senso di intangibilità della dignità umana, sul
riconoscimento di un’incancellabile e felice uguaglianza di tutti gli uomini, sul
dogma fondamentale per noi cristiani della fraternità umana”. “La pace – ha
scritto nell’enciclica Populorum progressio, 76 della Pasqua 1967 – non si riduce ad un’assenza di guerra, frutto dell’equilibrio sempre precario delle forze. Essa si costruisce giorno dopo giorno nel perseguimento di un ordine voluto da Dio, che comporta una giustizia più perfetta tra gli uomini”.
I vescovi americani riprenderanno la posizione di papa Giovanni vent’anni
dopo, sostenendo il pieno superamento dell’idea di guerra giusta, dato che ormai il rifiuto di ricorrere alla guerra atomica è condizione di sopravvivenza
dell’umanità. Nello stesso periodo Giovanni Paolo II nel discorso all’Accademia delle Scienze, ripreso da “L’Osservatore Romano” del 13 novembre 1983,
non esiterà ad elogiare i “profeti disarmati” e a invitare gli scienziati a “disertare i laboratori e le officine della morte”, per compiere una doverosa scelta nel
campo di ricerca, che cooperi all’edificio della pace. Già in quel discorso, ben
prima dunque della Nota per la Giornata mondiale della pace del 2003 (Pacem
in terris, impegno permanente), Giovanni Paolo II indicava nei valori già sottolineati da papa Giovanni “verità, libertà, giustizia, amore” (“Solo chi ama
vuole che l’altro abbia giustizia. Chi non ama cerca solo di ottenere giustizia
per se stesso”) i fondamentali capisaldi della scienza, la quale “può e deve promuovere la giustizia nel mondo, non rimanendo schiava dei popoli economicamente privilegiati”.
Resistere efficacemente alle inumane violenze ricercando un nuovo
umanesimo
È chiaro che occorre coniugare la scelta nonviolenta del cristiano col dovere di “resistere efficacemente” alle inumane violenze (per noi occidentali anzitutto quelle istituzionali del “disordine costituito”, come l’aveva chiamato
Mounier), soffrendo, se occorre, le profonde lacerazioni interiori, che mettono
in discussione le stesse nostre scelte religiose e morali. Si tratta di “sustinere”,
“resistere” (che è – come ha scritto Tommaso d’Aquino, Summa Th., IIa, IIae,
q. 123, a. 6 – principalior actus fortitudinis, massima espressione della virtù
della fortezza), non per odio, ma per amore degli uomini, anche dei nemici,
stando fermi sui valori e non lasciandosi travolgere dagli eventi. Il fine, comunque, di eliminazione delle violenze inumane intollerabili continua a non
giustificare i mezzi, perché essi pregiudicano il fine stesso che si vuol rag71
giungere. Non si possono avere – per dirla con Gandhi – “alberi di pace”, se si
continuano a mettere nel terreno “semi di guerra”, in quanto “il mezzo può essere paragonato a un seme, il fine a un albero; e tra il mezzo e il fine vi è la
stessa inviolabile relazione che vi è tra il seme e l’albero”28. Quanto sta accadendo in varie parti del mondo, a partire dall’Iraq, sembra indicare come fallimentare l’antica strategia, anche se rinnovata nel nome di “guerra preventiva”,
con cui di fatto si è alimentato il terrorismo e reso più drammatico lo scontro
di culture e di religioni. Occorrerebbe semmai parlare di “pace preventiva”,
come ha fatto Andrea Riccardi, così titolando un suo volume (San Paolo 2004).
Sulla scia di don Primo Mazzolari è necessario rovesciare l’antico detto: non
Si vis pacem, para bellum, ma “Se non vuoi la guerra, prepara la pace”29.
Resta la complessità del problema della scelta tra guerra e pace, tra violenza e nonviolenza, già presente nel messaggio evangelico, le cui istanze fondamentali di amore e di pace non sono disgiunte da quella che Hans Schöpfer
chiama “sensibilità politica”, capacità di tenere insieme le diverse istanze di
valore su cui si fonda la vita dell’uomo30. È proprio la contestuale affermazione delle diverse istanze, di quella etica, “semplici come colombe”, e di quella
politica, “accorti come serpenti”, a rappresentare, come già aveva osservato
Kant nell’appendice I (Sulla discordanza tra morale e politica) del suo Progetto per una pace perpetua, la vera utopia (ma utopia positiva!), dato che nella realtà che noi conosciamo i due progetti non coesistono come nell’invito
evangelico (Mt 10, 16). Un altro grande filosofo Antonio Rosmini, proprio all’inizio delle sue Massime di perfezione cristiana adatte a tutti propone una
conciliazione fra la semplicità della colomba, che deve connotare il cristiano
quando persegue il fine delle proprie azioni e l’accortezza del serpente nella
scelta dei mezzi per conseguire il fine. Tali mezzi però non potranno essere di
natura diversa dal fine e il Roveretano indica come mezzi l’abbandono fiducioso e totale nella Provvidenza, l’intimo e sincero riconoscimento del proprio
nulla e lo spirito di profonda intelligenza con cui disporre tutte le proprie azioni.
La sintesi fra il mistero della carità di Dio e la situazione storica nella quale siamo immersi insieme con tutti gli uomini, è la vera croce e la vera risurrezione del cristiano, la sua vocazione nel mondo. Il vangelo infatti non dice
come realizzare l’integrazione fra le diverse istanze, problema che lascia alla
28
Cfr. M. K. Gandhi, Antiche come le montagne, a cura di S. Radhakrishnan, Milano, Comunità, 1973, (VI ed.), pp. 115-116 e Per la pace. Aforismi, a cura di L. Moulian, e con una
preziosa introduzione di Thomas Merton, Milano, Feltrinelli, 2002, p. 93 (“I mezzi impuri si
risolvono in un fine impuro”). Per un inquadramento del problema cfr. nel mio testo citato La
pace giusta,il paragrafo Il pensiero e la riflessione sulla nonviolenza, pp. 89-97.
29 P. Mazzolari, Tu non uccidere, Vicenza, La locusta, 1955, p. 95.
30 Cfr. H. Schöpfer, Spunti neotestamentari e azione nonviolenta in E. Butturini (a cura),
La nonviolenza ieri e oggi, «Nuova Secondaria», settembre 1984, pp. 66-69. Schöpfer distingue la nonviolenza attiva (Gewaltfreiheit) da quella passiva (Gewaltlosigkeit), che egli identifica col Pazifismus, inteso dunque in un’accezione non positiva.
72
responsabilità storica di chi vive nelle diverse situazioni. In definitiva credo
che rimanga vera l’esigenza pascaliana di fondere insieme forza e giustizia e
di impegnarsi perché si possa superare la situazione di fatto per la quale “non
potendo far sì che ciò che è giusto fosse forte, si è fatto sì che ciò che è forte
fosse giusto” (Pensieri, n. 298 ed. Brunschvicg). In questa tensione il cristiano
dovrà rispondere in base alla sua situazione storica, ma anche in base alla sua
vocazione a spogliarsi dell’uomo vecchio e a rivestirsi dell’uomo nuovo, figlio
di un “Dio dell’amore e della pace” (2 Cor 13, 11).
Rimane per lui il dovere, ricordato da Bonhöffer, di calare nel concreto il
precetto divino dell’amore che “si applica come minimo alla protezione dei
tuoi cari, altrettanto che alla non soppressione del nemico” e che chiede comunque di “amare più il tuo prossimo che la tua coscienza angosciata”. E rimane il dovere, di cui parlava Mounier, di sostituire col proprio tributo di forza il tributo manchevole di una carità, che dovrebbe essere perfetta ed eroica,
pur non dimenticando “il dovere di aiutare il mondo in cui sono situato a rendere progressivamente generale la carità, smobilitando la forza”31.
Si tratta allora di ricercare un nuovo umanesimo, che non può trovarsi se
non “nel pozzo antico delle religioni”, al fondo del quale scorre la medesima
freschissima acqua – come amava dire Gandhi – che invitava ciascuno ad attingere l’acqua al proprio pozzo, prima di correre a quello del vicino32. Noi cristiani non possiamo negare che il pozzo primo cui attingere è quello del Vangelo, non usando quella “moderna slealtà” – di cui parlava Romano Guardini
– che denunciava il “doppio gioco”, per cui si dice no alle radici cristiane e si
rivendicano come autonomi i valori che da quelle radici sono nati, a cominciare da quelli della dignità di ogni persona e della fraternità fra tutti gli uomini.
Ma lo stesso valore della laicità, di cui è impregnata la forma occidentale dello Stato è – come affermava ancora Guardini – “nel più profondo determinato
cristianamente”33.
È quanto ha ribadito il 4 giugno 2004 in Normandia il card. Joseph Ratzinger, in occasione del 60° anniversario dello sbarco alleato, affermando che “la
fede cristiana ha soppresso, seguendo il cammino di Cristo, l’idea della teocrazia politica. Essa ha fondato la secolarità dello Stato nel quale i cristiani
coabitano, nella libertà, con gli esponenti di altre convinzioni. Una coabitazione fondata peraltro sulla comune responsabilità morale, insita nella natura dell’uomo e nella natura della giustizia. La fede cristiana fa distinzione tra questa
forma secolare e il Regno di Dio, che come realtà politica non esiste e non può
31
Cfr. D. Bonhöffer, Gli scritti (1928-1944), Brescia, Queriniana, 1979, p. 57 e E. Mounier, I cristiani e la pace, Bari, Ecumenica, 1978, pp. 36-37. Su una linea intermedia tra Realpolitik e tensione ideale si muove anche il lavoro di H. Küng, Etica mondiale per la politica e
l’economia, Brescia, Queriniana, 2002.
32 M. K. Gandhi, La mia vita per la libertà, Roma, Newton Compton, 1978, pp. 122, 300,
306, ecc.
33 Cfr. R. Guardini, La fine dell’epoca moderna, Roma, Morcelliana, 1989, p. 104, e Natura, cultura, cristianesimo, Roma, Morcelliana, 1983, p. 281.
73
esistere in quanto tale su questa terra, ma vive nella fede, nella speranza e nella carità e deve trasformare il mondo dall’interno […] lo Stato laico è un esito
della decisione cristiana fondamentale, anche se è stata necessaria una lunga
lotta per comprenderne tutte le conseguenze”34.
34
J. Ratzinger, L’Occidente, L’Islam e i fondamenti della pace, «Vita e Pensiero», settembre/ottobre 2004, p. 29.
74
L’educazione dei giovani alla cittadinanza attiva
CARLO NANNI
Il tema dell’educazione alla cittadinanza è tra quelli di moda oggi nell’area
della ricerca pedagogica. Ma è anche tra quelli meno scontati.
Nella tradizione pedagogica, almeno a livello di indicazioni programmatiche scolastiche nazionali, era abbastanza sottolineata la richiesta di un’educazione variamente denominata educazione sociale, educazione socio-politica o,
più comunemente, educazione civica. Essa era diversamente intesa a seconda
del tipo di governo che la prescriveva1. Seppure chiaramente delimitata e abbastanza controllabile dalla ricerca psico-socio-pedagogica2, nella scuola democratica essa non sembra avere avuto successo né presso gli insegnanti né
presso gli studenti3. È vero che tale genere di educazione non è appannaggio
della scuola. Anzi, per alcuni, sembra svilupparsi meglio al di fuori di essa. Ma
le cose non risultano facili neanche a questo livello.
Il concetto di cittadinanza
Le difficoltà provengono già dal modo di intendere l’oggetto della riflessione: la cittadinanza.
1 Si pensi all’insegnamento di “Mistica Fascista” durante il ventennio mussoliniano o all’insegnamento del marxismo nei paesi dell’est europeo sotto l’influenza dell’Urss. Nel clima
della ricostruzione democratica, in Italia si promulgarono con DPR 585/13 giugno 1958 i programmi per l’educazione civica; nella premessa dei programmi rinnovati per la scuola elementare del 1985 si propose, come orizzonte comprensivo dell’apprendimento scolastico, l’educazione alla convivenza democratica; e con la direttiva 58/8 febbraio 1996 del ministro
Lombardi (ispirata dal sotto-segretario Luciano Corradini!) si indicarono le “Nuove dimensioni formative, educazione civica e cultura costituzionale” dell’apprendimento scolastico (inviate alle scuole dal suo successore, Luigi Berlinguer, con il CM 672/25 ottobre 1996). Come
si dirà più diffusamente nel prosieguo, la riforma scolastica in atto – la cosiddetta “Riforma
Moratti” – propone a tutti i livelli di apprendimento scolastico e di istruzione formazione professionale, l“educazione alla convivenza civile”.
2 Cfr. A. Cavalli - G. Deiana, Educare alla cittadinanza democratica. Etica civile e giovani nella scuola dell’autonomia, Roma, Carocci. 1999.
3 Cfr. B. Losito (a cura di), L’educazione civica a scuola. La seconda indagine IRA sull’educazione civica: studio di un caso nazionale, Milano, Franco Angeli, 1999.
75
Cittadino4 significa direttamente il vivere materialmente in una situazione
di vita urbana e più globalmente l’essere soggetto di diritti e di doveri all’interno di una società organizzata a Stato: o per nascita o per acquisizione dello
status di cittadino di esso.
La cittadinanza dice sia la qualità di cittadino che una persona ha e sia l’appartenenza ad uno Stato, da cui derivano speciali diritti e doveri (che non hanno o di cui godono solo in parte coloro che cittadini non sono).
Da questo punto di vista l’idea di cittadinanza sembra alludere a qualcosa di
diverso (pur nella innegabile vicinanza semantica) dal termine “sociale” (più
vago, senza il riferimento alla condizione giuridica implicante un ordine civile
e politico, quanto si voglia differenziato, possibilità di azione e doverosi comportamenti, collegati a tale condizione). Altrettanto è da dire rispetto al termine
“socio-politico” (che sembra riferirsi maggiormente al momento attuativo della
cittadinanza); o anche al termine “civico” (che sempre riferirsi piuttosto al vissuto dell’organizzazione societaria, alle strutture e ai principi di essa).
Indubbiamente l’enfasi sul discorso della cittadinanza, e sull’educazione ad
essa, sembra essere connessa in primo luogo all’emergenza dei diritti umani soggettivi, comunitari e ambientali, portati alla ribalta soprattutto nella seconda
metà del secolo XX (dopo la stagione dei diritti civili nel secolo XIX e quella dei
diritti sociali nella prima metà del secolo XX)5; ed in secondo luogo può essere
collegata con la necessità di stili di vita che siano congruenti con l’ideale e la pratica della democrazia, a cui – da dopo la seconda guerra mondiale – si è voluto
ispirare la vita delle nazioni, le relazioni internazionali e lo sviluppo mondiale6.
In questo senso, se per un verso l’educazione alla cittadinanza sembra poter
essere accostata all’educazione alla legalità, tuttavia per altro verso sembra superarla e anzi porla in un orizzonte più ampio di azione, comprendente, oltre essa, anche quanto in un recente passato, e ancora oggi, veniva e viene compreso
intenzionalmente con educazione ai diritti umani, educazione alla democrazia,
educazione alla pace, educazione allo sviluppo, e sempre più oggi – a motivo
dei mutati scenari della convivenza nazionale – di educazione interculturale7.
4
Cfr. A. Monticone, Evoluzione del concetto di cittadinanza/appartenenza, in C. Di Agresti (Coord.), Cittadini del mondo. Educare alla mondialità, Roma, Studium, 1999, pp. 33-46.
5 N. Bobbio, L’età dei diritti, Torino, Einaudi, 1990; D. Zolo (Coord.), La cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti, Roma-Bari, Laterza, 1994.
6 Cfr. G. Cotturri, La cittadinanza attiva. Democrazia e riforma della politica, Roma, FIV,
1998; Democrazia competitiva e cittadinanza comune, Roma, AVE, 1996; E. Sgroi (Coord.)
L’educazione alla politica, Catanzaro, Meridiana Libri, 1993; M. Del Piano (Coord.), Educare i giovani alla politica Leumann-Torino, Elledici, 1993.
7 C. Nanni, L’esigenza di un’educazione alla legalità. Quale legalità? Quale educazione?,
in «Orientamenti Pedagogici», 40 (1993), 1, 9-28; G. Chiosso et alii, L’educazione tra solidarietà nazionale e nuova cittadinanza. XXXI Convegno di Scholé, Brescia, La Scuola, 1993; C.
Nanni (Coord.), Pace, giustizia, salvaguardia del creato, Roma, LAS, 1998; L. Corradini - G.
Refrigeri (Coord.) Educazione civica e cultura costituzionale. La via italiana alla cittadinanza europea, Bologna, Il Mulino, 1998; C. Di Agresti (Coord.), Cittadini del mondo. Educare
alla mondialità, Roma, Studium, 1998.
76
Vissuti problematici
La ricerca di quanto si fa o si può fare per un’educazione alla cittadinanza
dentro e fuori dei muri della scuola, conduce anzitutto nei luoghi della vita
quotidiana, quella direttamente esperita o ricostruita dalla cronaca giornalistica o dagli altri mezzi della comunicazione sociale.
Le ricerche sociologiche, un po’ in tutti i paesi, manifestano una fondamentale “disaffezione” e “disimpegno” dei giovani dalla vita politica8, pur non
mancando presso molti un certo interesse nel sociale e un buon impegno nel
volontariato9.
I motivi invocati sono molti.
– L’angoscia e il disagio esistenziale non mancano. La vita cittadina ha
spesso fenomeni di criminalità e magari di azioni terroristiche. Il terrorismo internazionale, specie quello islamico, ha messo in forte crisi la relativa prosperità e tranquillità sociale che da decenni si godeva in Occidente. I problemi socio-politici, anche quelli che dopo l’11 settembre 2001 (crollo delle due Torri
gemelle di New York) ci toccano non solo sulla pelle ma nell’intimo, sono vissuti come qualcosa che qualcuno (chi ci governa) deve eliminare, perché si
vuole vivere tranquillamente con sicurezza, bene, senza troppe sofferenze (e
magari per questo, alcuni che prima non andavano, sono andati a votare per un
secondo incarico a G.W. Bush, visto come difensore e protettore contro il terrorismo di matrice islamica e per la tutela della “pace imperiale americana”).
– Il consumismo tende a destrutturare il tempo, a far perdere i collegamenti con la storia passata e con la tensione per una progettualità a lungo termine.
Il mercato mondializzato, grazie ai mass media, presenta e fa desiderare un facile accesso ai beni di consumo, incanala i pensieri e le azioni alla ricerca del
benessere materiale e soggettivo, senza troppi slanci ed idealità “alte”; toglie
di mente preoccupazioni per il bene comune e tiene lontani da impegni a più
vasto respiro sociale (limitando a reazioni e non andando oltre il compianto per
le sciagure e una certa “carità pelosa”, cioè l’offerta di denaro per soccorrere
situazioni disastrate o di miseria nera, ma senz’altro coinvolgimento, magari
quasi solo per scaricarsi la coscienza e così neppure soffrire interiormente più
di tanto).
8 Sul tema della fiducia del cittadino si può vedere B. A. Misztal, Trust in Modern Societies. The Search for the Bases of Social Order, Oxford, Oxford Polity Press, 1996.
9 Cfr. A. Cavalli - O. Galland (a cura di), Senza fretta di crescere, Napoli, Liguori, 1996;
C. Buzzi - A. Cavalli - A. De Lillo (Coord.), Giovani verso il Duemila, Bologna, Il Mulino,
1997; P.P. Donati - I. Colozzi (a cura di), Giovani e generazioni. Quando si cresce in una società eticamente neutra, Bologna, Il Mulino, 1997. F. Garelli - M. Offi, Giovani. Una vecchia
storia?, Torino, SEI, 1997; I. Diamanti (a cura di), La generazione invisibile. Inchiesta sui giovani del nostro tempo, Milano, Il Sole24ORE, 1999; S. Vegetti Finzi - A. M. Mattistin, L’età
incerta, Milano, Mondadori, 2000; J. Neubauer, Adolescenza fin-de-siècle, Bologna, Il Mulino, 2000; C. Buzzi - A. Cavalli - A. De Lillo (a cura di), Giovani del nuovo secolo. Quinto rapporto IARD sulla condizione giovanile in Italia, Bologna, Il Mulino, 2002.
77
– È oggetto di esperienza comune la “chiacchiera” politica e l’inconcludenza dei rappresentanti dei parlamenti, regionali, nazionali, interregionali o
mondiali. La politica sembra essere decisa a livelli più alti: il potere sembra essere nelle mani o gestito dall’imprenditoria internazionale che ha in mano il
mercato globalizzato, che comanda sia la produzione che l’economia politica
mondiale, che costruisce il consenso, seleziona l’informazione e pubblicizza la
propaganda a livello planetario, grazie alla concentrazione delle agenzie e al
possesso delle reti e dei mezzi della comunicazione sociale.
– La situazione di complessità del vivere comunitario, segnato da un accentuato pluralismo delle parti sociali, da una crescente internazionalizzazione e multiculturalità della popolazione e del corpo sociale, accrescono l’insicurezza e la difficoltà delle relazioni e della convivenza sociale all’interno delle grandi città, ma anche dei piccoli centri di provincia, provocando spesso fenomeni di intolleranza, di razzismo, di fondamentalismo, di chiusure localistiche.
– L’instabile equilibrio socio-economico, che si muove tra sviluppo e crisi,
tra trasformazione e innovazione, tra vecchia e “new-economy”, rendono faticoso a tutti e specialmente ai giovani introdursi nel mondo del lavoro e della
produzione e permanervi in maniera stabile seppure flessibile; e provocano difese, consce o inconsce, degli interessi individualistici o particolaristici. La
preoccupazione della competenza professionale rischia di oscurare tutti gli altri aspetti della formazione. La ricerca del successo della vita diventa il fine
educativo per eccellenza, prioritario a qualsiasi altra prospettiva di pro-socialità o di corresponsabilità per uno sviluppo umanamente degno e per una buona qualità della vita di tutti ed ognuno.
– Dopo il “tramonto” delle ideologie “forti” del recente passato, quelle dello sviluppo illimitato e quelle dell’emancipazione totale globale e subitanea
(“tutto insieme e subito”) da ogni autoritarismo e da ogni schiavitù materiale e
morale, viene ad accentuarsi il “disincantamento” ideale, la sfiducia nelle capacità di cambiamento, la speranza di sorti migliori10. Per dirla in termini un
po’ paradossali non si vedono facilmente risposte positive alle tre famose domande kantiane: “cosa possiamo conoscere, cosa possiamo fare, cosa ci è dato sperare”11.
Se questo è vero per tutti, lo è in particolare per le generazioni in età evolutiva. Pur in una certa omologazione di tutti ai diversi livelli della vita civile,
resta pur vero che i giovani presentano fenomeni specifici, tutt’altro che rassicuranti e che fanno parlare di “generazione invisibile”, di “generazione senza”
10 Si vedano in proposito i saggi di Z. Bauman, La società dell’incertezza, Bologna, Il Mulino, 1999; La solitudine del cittadino globale, Milano, Feltrinelli, 2000; Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Roma-Bari, Laterza, 2001; Voglia di comunità, RomaBari, Laterza, 2001; Modernità liquida, Roma-Bari, Laterza, 2002; Una nuova condizione
umana, Milano, Vita e Pensiero, 2004.
11 Cfr. la parte della “Dottrina trascendentale del metodo” di I. Kant, Critica della ragion
pura, Bari, Laterza, 1969, vol. 2°, p. 612.
78
(= senza ideali, senza progetti, senza futuro, senza… lavoro), di “generazione
inafferrabile”, continuamente in trasformazione, ma anche di “generazione
dell’internet”, di “adolescenza negata”, di “giovinezza allungata”…12.
Peraltro la prospettiva educativa, in cui ci si muove, invita andare oltre la
lettura dell’esistente e spinge piuttosto a cogliere risorse e suggerire prospettive educative, cioè, comunque, orizzonti e strategie di crescita, di promozione
umana, di consolidamento personale. Il fine ultimo è che sia dato a tutti ed
ognuno di vivere nella città, per quanto è nelle proprie possibilità, in maniera
attiva e non solo consumistica, libera e partecipata, critica e responsabile, autorealizzata e solidale.
L’ambivalenza della memoria
In vista di ciò sembra opportuno rivolgere anzitutto uno sguardo al passato, quello più remoto e quello più recente. In quanto occidentali, la “memoria
lunga” ci ricollega al mondo dei giovani liberi delle “polis” (seppure erano solo quei pochi che potevano esserlo!) e ci prospetta l’ideale della “paideia” greca. Per altro verso ci fa ricordare l’“humanitas” e la “virtus” romana prospettate come ideale di vita del giovane “civis romanus”; o ci richiama l’ideale della “sapientia christiana” che invita a coniugare la cittadinanza terrestre con
quella celeste. La “virtus” ritorna ad essere l’ideale del giovane rinascimentale e moderno chiamato a realizzare il suo essere “centro dell’universo” (=“homo copernicanus”) ma anche “faber suae fortunae”; e stimolato ad essere non
tanto “costruttore di cattedrali” ma piuttosto, ed in primo luogo, cittadino di armoniche “città ideali”. La modernità sembra costruirsi attorno alla volontà di
potenza dell’io nazionale, proteso a espandere “imperialmente” la propria soggettività politico-economica e al contempo a dominare e trasformare il mondo
con la scienza e con la tecnica13.
La memoria più recente, quella successiva alle due guerre mondiale e alla
fine dei totalitarismi nazi-fascisti e quella successiva alla caduta del muro di
Berlino e del comunismo sovietico, attesta un generalizzato entusiasmo per
stili di cittadinanza improntati all’ideale della democrazia e a stili di vita democratica; ma ben presto viene ad evidenziarsi, a chiare note, il diffuso disagio per la “democrazia incompleta”, con le sue recenti e pericolose insorgenze e manifestazioni di razzismo, di fondamentalismo, di terrorismo, di di12 Cfr. G. Tonolo - S. De Pieri (a cura di), L’età incompiuta. Ricerca sulla formazione dell’identità negli adolescenti italiani, LDC, Leumann (To), LDC, 1995; I. Diamanti (a cura di),
La generazione invisibile. Inchiesta sui giovani del nostro tempo, Milano, Il Sole24ORE, 1999;
G. Pietropolli Charmet, I nuovi adolescenti, Milano, Raffaello Cortina, 2000; S. Vegetti Finzi A. M. Mattistin, L’età incerta, Milano, Mondadori, 2000; M.T. Torti, Abitare la notte, Milano,
Costa & Nolan, 2000; si vedano anche i testi delle ricerche sui giovani citati in precedenza.
13 O. Fullat, L’occidente, Braga, Universidade do Minho, 2000; più specificamente: P. Costa, Civitas. Storia della cittadinanza, Bologna, Il Mulino, 2000.
79
stanziamento dalla vita politica (di cui si è detto sopra)14. Le difficoltà si accrescono, come si è accennato, in concomitanza con i processi di complessificazione dell’esistenza individuale e comunitaria, con la crescente risonanza
sociale delle nuove tecnologie mass-mediali computerizzate e telematizzate,
con la accresciuta multietnicità, multiculturalità e multiconfessionalità del
corpo sociale, con il pluralismo e la mondializzazione della cultura personale e collettiva, con la dominanza dell’imprenditoria internazionale e del mercato mondializzato.
Per tutta questa serie di motivi, la memoria, antica e recente, ci provoca anche sentimenti di “tremore” e persino di orrore quando si porta a coscienza gli
“effetti” storici distruttivi e dominativi che tante idealità di cittadinanza nel
corso della storia hanno provocato. E tutto sommato risulta subito ben chiaro
un fondamentale “élitismo” nel concepire la cittadinanza a titolo pieno. Il diritto di tutti ad essere cittadini è stato proclamato solo con la rivoluzione francese, ma tuttora chiede, per tanti aspetti, di essere realmente effettivo per tutti
ed ognuno, in maniera adeguata e soddisfacente (e non solo conclamato, magari rifacendosi ai diritti umani o alla dignità della persona). Di molte prospettive storiche di cittadinanza risentiamo ancora oggi le conseguenze non
sempre di segno positivo. La loro insufficienza (soprattutto di quelle moderne,
a noi più vicine) e la loro fondamentale inadeguatezza al tempo presente, sono
alla base di quella che, ormai da qualche decennio, si denomina come “crisi e
ricerca di una nuova cittadinanza”15.
Pertanto la lezione della storia (se lezione deve essere!) si dimostra fondamentalmente ambigua o perlomeno ambivalente. Il passato evidenzia un lento
e faticoso processo di liberazione e di istituzionalizzazione di quelle che giustamente sono state dette le “libertà moderne” dell’uomo e del cittadino. Ma
registra pure il perdurare (se non addirittura l’accrescersi, soprattutto nel secolo XX) delle molteplici forme di dominazione degli uni sugli altri, di una classe o di un gruppo sociale sugli altri, di una ideologia su tutte le altre. L’omologazione e la massificazione (e la strumentalizzazione a finalità di mercato e
di arricchimento di pochi sui molti) perdura ancora in forme non meno pesanti del passato anche se magari più velate. In particolare il nazionalismo e l’etnocentrismo localistico del secolo ormai concluso rende piuttosto problematica l’esistenza sociale e la convivenza civile di chi, in vario modo, è straniero,
non cittadino, ospite, bisognoso. Ciò appare oggi particolarmente inconcepibile, poiché la produzione, il mercato e la comunicazione sociale ci spingono
sempre più verso forme di convivenza integrata tra locale, nazionale, internazionale, mondiale, umana. Il concetto stesso di cittadino dovrà, dunque, essere allargato o comunque maggiormente articolato, per una educazione che sia
all’altezza non solo del passato, ma dei mutamenti e delle novità del presente
14
Cfr. M. Filippa, Dis-crimini. Profili dell’intolleranza e del razzismo, Torino, SEI, 1998.
Cfr. M. Crozier - S. P. Huntington - J. Watanuki, La crisi della democrazia, Milano,
Franco Angeli, 1977; R. Dahrendorf, Quadrare il cerchio, Roma-Bari, Laterza, 1995.
15
80
e delle tendenze e dinamiche di futuro, che si manifestano in questi non facili
inizi di secolo.
Il contributo della recente riflessione filosofica socio-politica
Prospettive di comprensione e di intervento, possono, peraltro, venire dalla
recente riflessione filosofica a carattere socio-politica16. Essa infatti si centra
quasi totalmente sul problema della cittadinanza, così come, nel recente passato, sotto lo stimolo del marxismo-leninismo, si interessava, per combatterlo,
dello stato e del senso storico della politica.
Nella ricerca di una nuova cittadinanza
È subito da avvertire che la riflessione filosofico-politica attuale si realizza
con movenze di “pensiero della crisi”17, nel senso che anticipa e si muove tra
la crisi delle teorie politiche, ormai appartenenti al passato, seppure recente, e
l’insieme delle stimolazioni nuove che vengono dai mutamenti e dalle innovazioni, che attraversano e segnano la convivenza sociale a scala locale, nazionale, internazionale e mondiale.
Com’è noto, a livello di vissuto, la cittadinanza locale e mondiale ha avuto
a che fare con fenomeni che hanno provocato una caduta della credibilità politica non solo dei movimenti alternativi della fine degli anni Sessanta (il cosiddetto “Sessantotto”) e dei “difficili anni ’70”. Altrettanto è da dire del
marxismo-leninismo, almeno nella sua versione di social-comunismo sovietico. Ma in questi ultimi anni si va avvertendo sempre più, da larga parte dell’opinione pubblica, anche le ristrettezze del neo-capitalismo e delle espressioni socio-economiche che esso “giustifica”: l’internazionalizzazione dell’imprenditoria, la globalizzazione della produzione, la mondializzazione del
mercato.
È pur vero che, in termini generali, si può dire che si è avuto uno spostamento di accento dalla politica (= vale a dire dalla riflessione circa il modo di
intendere, di strutturare e realizzare le strutture e l’organizzazione delle istituzioni sociali) alla “politologia” (= vale dire alla riflessione sulla cittadinanza
ed in particolare sulla condizione e sull’agibilità socio-politica del cittadino)18.
Il contesto teorico è quello della cosiddetta “rinascita della filosofia pratica”, che si rifà soprattutto al Kant della ragion pratica, all’etica e alla politica
16
Cfr. L. Graziano, Lobbyng, pluralismo e democrazia, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1995; R. Gatti, Democrazia in transizione, Roma, Agrilavoro, 1997; A. Giddens, La terza
via, Roma-Bari, Laterza, 1995.
17 R. Dahl, La democrazia e i suoi critici, Roma, Editori Riuniti, 1997.
18 Cfr. H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Milano, Edizioni Comunità, 1967; P. Allum,
Democrazia reale. Stato e società civile nell’Europa occidentale, Torino, UTET, 19976.
81
aristotelico-tomista, al pragmatismo deweiano, alla filosofia dell’azione di
Blondel, alla teoria critica della cosiddetta Scuola di Francoforte, al costruttivismo sociale e ad altre teorie di riferimento19.
L’accento è posto sulla necessità di una ripresa della dimensione etica della politica; e in tal senso si approfondiscono i rapporti tra etica e politica, tra
politica e promozione umana, tra sviluppo democratico e giustizia sociale.
Quel che sembra emergere abbastanza chiaramente è l’esigenza di rispondere in qualche modo alla diffusa domanda di etica civile, magari proprio perché se ne sente la mancanza e non c’è molta pratica concreta di essa sia da parte di chi governa sia da parte dei semplici cittadini sia da parte dei gruppi organizzati del corpo sociale. La moralità pubblica non sembra il punto forte delle attuali società civili dell’Occidente e del mondo. Parallelamente si sperimenta una forte crisi dei ruoli educativi, della trasmissione dei valori e delle
norme della “carta democratica”, della legalità democratica. Ciò porta quasi di
necessità all’urgenza di un’educazione etico-sociale per ogni cittadino, per gli
adulti ed in particolare per le nuove generazioni.
D’altra parte è appunto l’idea e la tecnica democratica stessa che vanno ripensate in rapporto alle trasformazioni e alle innovazioni presenti nella vita civile.
Nel pluralismo (e nell’ambivalenza) delle stesse prospettive teoriche
Le indicazioni della ricerca teorica in proposito non sono, però, convergenti. E questo dice una difficoltà in più per l’educazione alla cittadinanza20.
Alcuni si rifanno a Karl Schmitt (1888-1985) e alla sua impostazione della
vita politica secondo la categoria dell’amico-nemico, enfatizzata a fini di difesa dell’esistenza e dell’identità di individui e di gruppi sociali. Ma è notevole
la possibilità del confronto-scontro tra le parti sociali più che la collaborazione alla costruzione della casa comune e del bene generale.
Altri si riferiscono a Ernst Jünger (1895-1987), che dall’analisi della condizione operaia nella società tardo-industriale, sotto l’influenza dell’ultimo
Nietzsche, va oltre ogni collocazione politica tradizionale di destra/sinistra, ed
esalta la libertà e lo spirito critico del cittadino nella presente condizione di tramonto della modernità occidentale (cfr. il suo elogio dell’“anarca”).
Altri ancora riprendono le riflessioni di Hannah Arendt (1906-1975), che
partendo dall’analisi critica del totalitarismo e della massificazione tecnocratica, arriva a riproporre la fondamentale politicità dell’agire umano (la “vita at19
Cfr. F. Volpi, Filosofia pratica, in Enciclopedia Italiana Treccani, 1998, vol. X, pp. 630638; E. Berti, Aristotele nel Novecento, Roma/Bari, Laterza, 1992; H. Arendt, Vita activa, Milano, Edizioni Comunità, 1964.
20 Cfr. W. Kymlicka, Introduzione alla filosofia politica contemporanea, Milano, Feltrinelli, 1996; A. Besussi, Giustizia e comunità, Napoli, Liguori, 1996; R. Gatti, Pensare la democrazia. Itinerari del pensiero politico contemporaneo, Roma, AVE, 1998.
82
tiva”). Ella afferma il primato della attività pratico-politica e della discussione/dialogo tra cittadini sul come governarsi e vivere insieme.
In questo caso se vengono riaffermate le ragioni antropologico-politiche
della cittadinanza, il senso della corresponsabilità attiva nella costruzione e
nella promozione della buona qualità della vita comunitaria, appaiono messe
un po’ nell’ombra la lotta per buone strutture e condizioni materiali di vita che
si esprimono nell’organizzazione economica che ha le sue regole (anche se non
dovrebbe servirsi del “fattore-uomo” solo a scopo di accrescimento capitalistico). In altre parole, non dovrebbe mai essere persa di vista la finalizzazione e
la referenza ultima dell’economia e della politica alla promozione umana e a
una buona qualità della vita di tutti ed ognuno. In questa linea sembra di particolare significato anche la stimolazione teorica di Hans Jonas (1903-1993) e
del suo “principio-responsabilità”.
Altri infine, sullo sfondo di una generalizzata ripresa del liberalismo, anch’esso però attento all’etica pubblica, si richiamano a John Rawls (19212002). Egli elabora una nuova concezione del contratto sociale (neocontrattualismo) per legittimare i principi della giustizia sociale, raggiunta attraverso una
“tavola delle trattative” tra “persone morali”, impegnate a costruire una vita sociale umanamente degna (= costruttivismo etico-sociale). A questo fine, mi
sembra pure pedagogicamente interessante il riferimento alle “comunità etiche” di MacIntyre (1929, vivente). Certo rimangono pure degni di attenzione
il “razionalismo critico”, la “logica della falsificazione” e l’idea della “società
aperta e i suoi nemici” di Karl Popper (1902-1994); o anche la comunità della
comunicazione, l’agire comunicativo e l’etica della comunicazione, proposti
da Jurgen Habermas (1929, vivente) e da Karl Otto Apel (1922, vivente), soprattutto in vista di una cittadinanza che coniughi libertà e responsabilità, efficacia e eticità, ragioni locali e prospettive internazionali.
Livelli e ambiti dell’educazione alla cittadinanza
Come si può facilmente arguire dal fin qui detto, la riflessione teorico-pedagogica, è chiamata a muoversi tra queste ambivalenze – che, appunto per ciò,
possono essere colte non solo come limitazioni, ma riprese anche come risorse – sia del vissuto sia della vicenda storica antica e recente sia delle prospettive teorico-filosofiche sulla cittadinanza.
Per dirla in termini di Habermas, la ricerca teorico-pedagogica è intrinsecamente mossa da un interesse guida conoscitivo di tipo “emancipativo” o perlomeno promozionale. Un vasto ed integrale umanesimo fa da orizzonte di
senso della ricerca teorico-pedagogica. Per tal motivo in presenza di tale contesto di ambivalenza, ha quasi per giocoforza da fare “professione di contrari”
(per dirla in termini pascaliani). Dovrà impegnarsi a trovare degli et et dove altri vengono presi da vistosi aut aut. E proprio perciò dovrà dare aggio più al
potenziale che al reale, dovrà lavorare più tra le pieghe dell’esistente più che a
83
livello di ciò che appare a prima vista, dovrà sfruttare le sfumature e le differenziazioni più che le corpose manifestazioni dei fenomeni e degli eventi.
La vita attuale, la memoria antica e quella recente, così come le prospettive teorico-filosofiche, opportunamente valutate e caso mai criticate, in rapporto e nel confronto con le richieste dell’attuale domanda sociale di formazione, mostrano un fondamentale umanesimo come orizzonte di senso dell’azione umana contemporanea, sia individuale sia collettiva. Pur partendo da
presupposti diversi ed appoggiandosi a motivi diversi, sembra indubbia la tendenza e l’aspirazione ad una integrale pienezza di vita e di una convivenza democratica fonte di realizzazione e di sviluppo dignitosamente umana per tutti
e ciascuno.
In tal senso tutto ciò può aiutare a mettere in rilievo i piani dell’educazione
alla cittadinanza e le strategie fondamentali di essa. Si proverà a darne un quadro sufficientemente esaustivo che va dagli aspetti cognitivi a quelli più emotivi e di atteggiamento, nell’orizzonte della globalità dell’esistenza personale21.
– Cittadini lo si è per diritto, ma lo si diventa per educazione e per compartecipazione della cultura comunitaria. A questo scopo è necessaria per tutti
una solida informazione socio-politica per l’acquisizione di conoscenze relative a idee, valori, tecniche adeguate alla convivenza civile dei proprio tempo,
del proprio paese e del mondo contemporaneo.
– Il consenso è un obiettivo per ogni forma o forza di governo che non voglia ridursi a maniere dispotiche nel ricercare l’adesione della popolazione.
Oggi in regime democratico il senso critico si raccomanda, al fine di vincere
le spinte all’omologazione e quelle al conformismo passivo e passivizzante.
– La complessificazione, la multiculturalità e la globalizzazione dell’esistenza comunitaria, non rendono meno importante l’educazione al senso di appartenenza cittadina e rendono quindi assolutamente importante una formazione culturale civile adeguata ad esse e alle possibilità di interazione e di vicinanza tra lontani, resa possibile dai mass-media e dai nuovi media informatizzati e telematizzati.
– Una buona competenza politica è necessaria. Il riconoscimento della soggettività politica di ogni cittadino richiede che si renda effettiva la capacità di
esserlo con un adeguato sapere, saper fare e saper essere e un saper vivere insieme con gli altri, per dirla con Delors22. In sostanza, un “educato” esercizio
della cittadinanza richiede competenze di “lettura” e di comprensione circa fatti, persone, eventi, sapendo andare oltre l’emotività, la passionalità, gli schematismi preconcetti, le chiusure ideologiche. Alla capacità di analisi saranno
21 Per quanto segue mi rifaccio principalmente al mio saggio: C. Nanni, L’educazione alla pace dal punto di vista della pedagogia religiosa, in Nanni C. (Coord.) Pace, giustizia, salvaguardia del creato, Roma, LAS, 1998, pp. 73-89; ma si può utilmente vedere: G. Moro, Manuale di cittadinanza attiva, Roma, Carocci, 1998; e per la formazione di una mentalità critica: N. Chomsky, La fabbrica del consenso, Milano, Tropea Editore, 1998.
22 J. Delors, Nell’educazione un tesoro, Roma Armando, 1997.
84
da collegare capacità di prospettazione, di progettazione, di operazionalizzazione efficiente ed efficace, attuate con lucidità, ampiezza di vedute, senso di
corresponsabilità.
– La graduale iniziazione a comportamenti da cittadino a pieno titolo, capaci di operare per il bene comune nel rispetto delle diversità, richiede la formazione di personalità libere e responsabili, capaci di iniziativa e di esecutività, di partecipazione e di collaborazione, di onestà e di competenza, di passione e di rigore civile, di idealità e di compromissione realistica, di partigianeria e di comunanza, di senso della realtà e di un pizzico di utopia.
L’educazione alla cittadinanza a scuola
La scuola e la docenza non si possono ridurre ad un “forum aperto di varia
umanità”. Ma tra i fini della scuola pubblica di ogni ordine e grado, statale o
paritaria, vi è quello di porre le basi cognitive emotive e comportamentali per
una vita civile e democraticamente connotata.
La tipicità scolastica dell’educazione alla cittadinanza
L’educazione alla cittadinanza a scuola va condotta secondo le modalità
proprie della scuola, vale a dire secondo modi di riflessione aperta, dialogica,
critica e motivata, e peraltro pubblica e democratica. Essa attinge alle informazioni, alle conoscenze, ai significati, alle motivazioni e agli orizzonti di valore che vengono dal meglio della cultura e che sono condensati nelle discipline scolastiche e nei principi costitutivi della vita e della pratica scolastica (che
fanno esplicito riferimento ai principi e alla cultura costituzionale, nell’orizzonte delle dichiarazioni internazionali dei diritti umani e dei diritti dei minori).
La scuola ha il compito di aiutare le studentesse e gli studenti:
1) ad apprendere e a condividere i principi e i valori di quella che Jacques
Maritain chiamava la Carta Democratica (fondamentalità della persona umana
e dei suoi diritti/doveri, democraticità della vita civile e della società organizzata, libertà e giustizia della produttività e del mercato, sviluppo sostenibile
equo e solidale per tutti ed ognuno, promozione di una cultura umanamente degna, condizioni e servizi per pari opportunità personali, professionali, civili);
2) a convergere nell’impegno attuativo di tali principi e valori per una cittadinanza pacifica e democratica ovunque e a tutti i livelli;
3) a imparare e praticare il dialogo e il confronto civile per ciò che riguarda le differenze di giustificazione dei principi e le motivazioni che sorreggono
l’impegno operativo. Tali differenze non sono solo da tollerare, ma sono legittime ed anzi costituiscono una ricchezza, perché permettono comprensioni migliori o lasciano intravedere possibilità inedite di azione;
4) a riscoprire, personalmente e insieme come gruppo di apprendimento, da
85
soli e nella compagnia di vita tra giovani e adulti che si realizza a scuola, quei
“fili invisibili della vita”, che motivano e danno senso alla vita e all’esistenza
personale e comunitaria (tra cui si pongono la coscienza della intrinseca relazionalità, co-esistenza e con-libertà del vivere umano individuale e collettivo)23.
6.2. L’educazione alla cittadinanza nella legislazione della riforma scolastica
Nei testi della riforma scolastica italiana – quella che viene solitamente detta “riforma Moratti” (Legge delega 53/28 marzo 2003 e decreti attuativi di essa, alcuni ancora in corso, Profili educativi culturali e professionali del primo
e secondo ciclo, Indicazioni nazionali per i Piani di studio personalizzati, ecc.)
– l’educazione alla cittadinanza è vista come la prima delle sei educazioni poste come specificazioni dell’educazione alla convivenza civile24. Questa, a sua
volta, è pensata e prospettata come un ambito educativo-scolastico meta-disciplinare, affidato alla scuola nella sua globalità e nelle sue diverse articolazioni di comunità educativa di apprendimento. Sicché sarà da essere considerata
sia come una dimensione diffusa nei vari apprendimenti disciplinari sia come
ambito trasversale attuato attraverso progetti interdisciplinari o attraverso iniziative di laboratori di sviluppo degli apprendimenti sia come attenzione e
orizzonte di senso del Pof e dei regolamenti scolastici, che dovrebbero ispirare e regolare il clima, la vita e le relazioni scolastiche. In tal senso la scuola dovrebbe essere un laboratorio di convivenza civile e un terreno di tirocinio di
una cittadinanza attiva e responsabile25.
Non mancano critiche a questa impostazione e al quadro di riferimento cui
sembra ispirarsi, forse troppo centrato sul soggetto che apprende ad essere cittadino (che ha da raggiungere una buona identità, che ha da essere critico, autonomo, responsabile, collaborativo), ma meno sulla comunitarietà degli studenti-concittadini cooperativi e compartecipativi, già nello stesso apprendere
scolastico.
Da questo punto di vista mi sembra, invece, molto interessante la prospettiva che viene fuori da decreti legislativi già esistenti in proposito, come la Carta dei servizi (DPCM 7 giugno1995) o lo Statuto delle studentesse e degli studenti (DPR 249/25 giugno1998). Quest’ultimo documento, resta a mio parere
insuperato, anche se sarà da comporre con le indicazioni relative allo statuto degli insegnanti e agli organi collegiali della scuola (ambiti che sono “in corso di
23
Si veda l’ultimo capitolo di E. Morin, I sette saperi necessari per l’educazione del futuro, Milano, Raffaello Cortina, 2001, dove, sulla base dell’“anello” che congiunge individuo,
specie, società, si pone il compito etico di insegnare la democrazia e una cittadinanza “terrestre” nell’orizzonte di un “destino planetario” dell’umanità.
24 Sulla riforma scolastica italiana rimando a C. Nanni, La riforma della scuola. Le idee,
le leggi, Roma, LAS, 2003.
25 Cfr. L. Corradini - W. Fornasa - S. Poli (a cura di), Educazione alla convivenza civile.
Educare istruire formare nella scuola italiana, Roma, Armando, 2003.
86
riforma”). Lo Statuto, all’art. 1, immagina la scuola come “luogo di formazione e di educazione mediante lo studio, l’acquisizione delle conoscenze e lo sviluppo della coscienza critica”. La vede come “comunità di dialogo, di ricerca e
di esperienza sociale, informata ai valori democratici e volta alla crescita della
persona in tutte le sue dimensioni. In essa ognuno, con pari dignità e nella diversità dei ruoli, opera per garantire la formazione alla cittadinanza, la realizzazione del diritto allo studio, lo sviluppo delle potenzialità di ciascuno e il recupero delle situazioni di svantaggio, in armonia con i principi sanciti dalla Costituzione e dalla Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia e con i
principi generali dell’ordinamento italiano”. Dinamicamente invita a pensarla
in interazione “con la più vasta comunità civile e sociale di cui [la scuola] è parte”, e che “fonda il suo progetto e la sua azione educativa sulla qualità delle relazioni insegnante-studente”, contribuendo “allo sviluppo della personalità dei
giovani, anche attraverso l’educazione alla consapevolezza e alla valorizzazione della identità di genere, del loro senso di responsabilità e della loro autonomia individuale” e perseguendo “il raggiungimento di obiettivi culturali e professionali adeguati all’evoluzione delle conoscenze e all’inserimento nella vita
attiva”. E si conclude affermando che “la vita della comunità scolastica si basa
sulla libertà di opinione ed espressione, sulla libertà religiosa, sul rispetto reciproco di tutte le persone che la compongono, quale che sia la loro età e condizione, nel ripudio di ogni barriera ideologica, sociale e culturale”.
L’educazione alla cittadinanza nell’extra-scuola
Scuola a parte (e, in molti casi, di più della scuola), l’educazione alla cittadinanza attiva è concretamente e fattivamente portata avanti, direttamente o indirettamente, da varie forze sociali del territorio, a cominciare dalle iniziative
formative dei movimenti, associazioni civili e ecclesiali, organizzazioni non
governative (=ONG), gruppi di volontariato civile26.
Le iniziative di educazione alla cittadinanza sul territorio
A dire il vero, in questi ultimi anni anche i governi hanno preso coscienza
della loro inderogabile ed insostituibile responsabilità formativa almeno per
ciò che concerne la vita pubblica. Stimolare, orientare, educare non sono necessariamente contrarie alla democrazia. Sviluppare politiche educative e promuovere direttamente iniziative formative, non è necessariamente scadere in
modalità autoritarie, dittatoriali o da “stato etico”. Certo la propaganda dei regimi dittatoriali del secolo passato fanno essere molto cauti. Ma indubbiamente, pur con tutte le avvertenze del caso, l’uso educativo dei mezzi della comu26 Cfr. M. Pollo, Il volontariato come luogo per la formazione dei giovani, in L. Pati, (Coord.)
La giovinezza un nuovo stadio per l’educazione, Brescia, La Scuola, 2000, pp. 203-227.
87
nicazione sociale, a cominciare dalla televisione, possono esercitare un positivo ruolo nell’educazione alla cittadinanza. Correttezza, controllo pubblico, trasparenza, democraticità dei contenuti e delle modalità dei messaggi: dovranno
essere alcuni dei criteri che regolano tali iniziative27.
L’azione educativa alla cittadinanza di iniziativa non statale è molto varia al
suo interno. Si va da tradizioni assodate, come nello scoutismo (o, in Italia,
l’Azione Cattolica28), a forme che sanno ancora di tentativi iniziali e molto approssimative dal punto di vista psico-pedagogico-didattico.
L’educazione alla cittadinanza trova un suo significativo sviluppo nella
esperienza e nella formazione dei giovani e adulti al volontariato o ad azioni
del cosiddetto “terzo settore”29. Meritano particolare attenzione le iniziative di
educazione ai diritti umani, alla pace, ad uno sviluppo sostenibile e le esperienze in cui si impegnano molti giovani di entrambi i sessi in questi ambiti. Si
conseguono, così, esiti educativi tanto più rilevanti quanto più sono il risultato
di un concreto esercizio di pratica della libertà e di assunzione cosciente di responsabilità solidale.
Un altro ambito di azione educativa riconducibile all’educazione alla cittadinanza può essere intravista nelle iniziative, scolastiche ed extrascolastiche, di
conoscenza del territorio e delle tradizioni popolari o di educazione interculturale. Da questo punto di vista è lodevole l’iniziativa degli organismi internazionali (Unesco, Unione Europea, ministeri nazionali, governi regionali o delle autonomie, amministrazioni locali).
Vorrei in particolare segnalare la valenza educativa degli interscambi di studenti e insegnanti tra scuole e università a livello nazionale e internazionale
(cfr. progetto Socrates, Erasmus…).
Altrettanto è da dire a proposito dell’uso e della pratica sempre più massiccia delle nuove tecnologie informatico-telematiche (internet, posta elettronica, conversazioni in rete…). Pur con tutte le ambiguità ad esse connesse, tali pratiche possono essere significativamente rilevanti per una cittadinanza
aperta al mondo, oltre i confini delle mura cittadine e delle relazioni abituali.
Ma converrà ricordare la basilarità e l’incidenza educativa che, nel bene e
nel male, vengono ad avere il clima della vita cittadina e la testimonianza dei
singoli cittadini o delle parti sociali all’interno di essa; come pure la fondamentalità di una buona educazione familiare o anche della predicazione e della catechesi ecclesiale, sia per ciò che riguarda il quadro dei valori, sia per ciò
che riguarda l’effettiva iniziazione a comportamenti e atteggiamenti da cittadi27
Si veda in proposito, pur in una prospettiva piuttosto “apocalittica”, l’innegabile acutezza di analisi dei saggi contenuti nel volume K. Popper, Cattiva maestra televisione, Torino,
Reset, 1994 (2004, terza edizione rinnovata e accresciuta); così come il volume di G. Sartori,
Homo videns. Televisione e post-pensiero, Roma/Bari, Laterza, 1997 (anch’esso successivamente più volte riveduto).
28 Azione Cattolica Italiana, Percorsi della cittadinanza. Materiali per la formazione, Roma, AVE, 2000.
29 Cfr. F. Gesualdi, Guida al consumo critico, Bologna, EMI, 1998.
88
no educato. Le denunce contro le chiusure conservatoristiche e grettamente
particolaristiche, che spesso hanno le pratiche educative familiari e ecclesiali,
non ne inficiano la possibilità che siano di valido aiuto per la formazione di
una educazione alla cittadinanza attiva. Certo, incidono.
La pedagogicità di tali iniziative
Nel loro insieme, le iniziative educative e le prospettive pedagogiche sopra
segnalate, sembrano porre in rilievo modelli di azione educativa di tipo “ecosistemico”, nel senso che chiedono una visione ed un agire sempre correlato e
comprensivo. Ciò è riferibile sia alla concezione sia alla pratica della cittadinanza, che chiede di essere intesa intrinsecamente come “cittadinanza multipla” o “cittadinanza plurima” (locale, nazionale, interregionale, mondiale, e
per il credente persino … celeste). Essa è chiamata a coniugare identità e alterità; uguaglianza e differenza; memoria, attualità e potenzialità di futuro; dialogo tra persone, tra nazioni e tra generazioni; e, certamente anche, efficienza
e solidarietà, qualità ed equità30.
A livello metodologico, pur nel favore dato a metodi cooperativi, sarà peraltro da stimolare la riflessività, la criticità e la creatività personale e/o di
gruppo, come pure l’appello alle risorse individuali e/o ambientali.
Conclusione
Una considerazione conclusiva. Non esiste un’educazione alla cittadinanza
“buona per tutte le stagioni”. Oltre la validità c’è da ricercare, l’adeguatezza,
la corrispondenza e la significatività rispetto ai bisogni delle persone e dei
gruppi storici concreti. C’è da essere attenti alle situazioni concrete e al momento storico che si vive.
In ogni caso emerge, abbastanza chiaramente, anche la stretta relazione esistente tra fini e strategie educative e concezioni della vita sociale (= i progetti-uomo e i progetti-società che ogni cittadinanza pone come proprio orizzonte di senso)31.
Forse perché spesso manca una tale positiva correlazione si resta global30 Cfr. S. Todorov, Noi e gli altri, Torino, Einaudi, 1991; S. Pochettino, Nuove geografie.
Dizionario del cittadino solidale, Bologna, Emi, 1998; W. Kymlicka, Cittadinanza multiculturale, Bologna, Il Mulino, 1999; R. Robertson, Globalizzazione. Teoria sociale e cultura globale,Trieste, Asterios, 1999; H. Niemi, Moving Horizons in Education. International Transformations and Challanges of Democracy, Tampere, Tampere University Press, 1999; UNESCO, Rapporto sull’educazione 2000. Il diritto di tutti all’apprendimento per tutta la vita, Roma, Armando 2000.
31 Cfr. M. Mantovani - S. Turuthiyl (Coord.), Quale globalizzazione? L’“uomo planetario”
alle soglie della mondialità, Roma, LAS, 2000; C. Nanni, L’educazione dei giovani alla cittadinanza dentro e fuori della scuola, in «Orientamenti Pedagogici», 48 (2001), 3, 407-421.
89
mente insoddisfatti sugli esiti dell’educazione alla cittadinanza, dentro e fuori
dalla scuola.
La predominanza degli interessi sia dei governi sia dei politici sia delle famiglie sia della cosiddetta società civile è proiettata, per lo più, verso il successo formativo funzionale all’ingresso nel mondo della produzione e delle professioni32 o al massimo verso il contenimento sociale dei giovani (nei confronti di esiti di devianza o di micro-criminalità). Si fa, cioè, quasi esclusiva (e ossessiva) attenzione al disagio giovanile, soprattutto in concomitanza con avvenimenti che scuotono l’opinione pubblica locale o mondiale (suicidi di giovani,
pedofilia, violenza sessuale, sfruttamento minorile, baby-soldati…), meno all’educazione dell’“agio”, cioè, dei bisogni, delle aspirazioni, dei desideri, delle
potenzialità dei giovani, come individui, come gruppo, come generazione.
Peraltro è evidente che l’educazione scolastica e non scolastica, anche se
avesse successo, non può sostituire o supplire la riforma sociale e culturale, le
condizioni socio-economiche per una convivenza civile effettivamente democratica e umanamente degna per tutti e per ciascuno, per i singoli, per i gruppi
per le parti sociali, per le minoranze, per gli stranieri, per la globalità della popolazione e del corpo sociale. Essa risulterà molto debilitata se deve agire in
contrasto con pratiche sociali o comportamenti non etici (di contro-testimonianza) da parte della generazione adulta33.
E tuttavia – come si è detto – è proprio dell’educazione (e della pedagogia)
sperare, volere e impegnarsi per il meglio, sulla base di quello che un grande
educatore, come don Bosco, indicava come il “punto accessibile al bene”, presente in ognuno e in tutti.
Alcuni anni fa, l’Unesco e l’Assemblea Nazionale Francese organizzarono
un Parlamento Mondiale dei Giovani a Parigi, Palazzo Bourbon (21-27 ottobre
1999) a cui parteciparono 350 giovani (in rappresentanza di 175 paesi). Il risultato dell’incontro fu un “Manifesto della gioventù per il XX secolo”34. In
esso i giovani prendevano posizione e dicevano la loro in materia di difesa della pace, di solidarietà, di educazione, di cultura, di sviluppo economico ed
umano, di protezione dell’ambiente.
Il Manifesto testimonia l’attaccamento dei giovani ai principi della “Dichiarazione universale dei diritti umani” del 194835.
32
Ciò non significa negare l’importanza umana e formativa del lavoro. Si tratta piuttosto
di evitare una cattiva formazione ad esso. Cfr. La questione del lavoro oggi: nuove frontiere
dell’evangelizzazione, Roma, AVE, 1998.
33 M. Santerini, Educare alla cittadinanza. La pedagogia e le sfide della globalizzazione,
Roma, Carocci, 2001.
34 Del testo, edito dall’Unesco in lingua francese, esiste anche una traduzione italiana pubblicata con il contributo dell’università di Roma Tre, dell’Ong Ecole Instrument de Paix Italia,
dell’IRRSAE Marche e dell’UCIIM.
35 In questa stessa linea, pur con tutti i suoi limiti (e i suoi “silenzi”) va posta la recente
Costituzione dell’Unione Europea. Il testo in italiano si può leggere in La costituzione Europea, Roma, Edizioni CieRre, 2004.
90
Ma, a ben vedere, non sono questi anche i grandi capitoli di una educazione alla cittadinanza per questi inizi del nuovo millennio? E che lo scrivano i
giovani non è un segno di speranza civile? E lo stesso modo di scriverlo non è
stato un eccellente strategia educativa ad una cittadinanza quale si raccomanda nella “civitas” del nostro tempo?
Se queste cose sono accadute tra giovani di 175 paesi, c’è spazio per impegni educativi futuri a livello locale e a livello planetario.
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PARTE SECONDA
EDUCARE ALLA CITTADINANZA EUROPEA
NELLE SCUOLE DELL’EUROPA
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L’educazione alla politica per la costruzione dell’Europa1
PIERO BERTOLINI
Mi pare molto azzeccato il titolo che mi è stato proposto (e che io ho accettato) per questa relazione: una relazione che, come è facile constatare, si
compone di due concetti, di due prospettive, educazione alla politica e costruzione dell’Europa.
Per ciò che riguarda la prima di queste prospettive vorrei sottolineare la preposizione articolata ‘alla’. Essa rappresenta se non un superamento della più
tradizionale espressione ‘educazione politica’, certo un altro modo di intendere e di impostare il problema che vi sottostà. Il termine politica, infatti, non
viene qui utilizzato come un attributo, ma come un sostantivo alla stessa stregua dell’altro termine ‘educazione’. Ciò significa e comporta il considerare
quei due concetti – educazione e politica, appunto – meglio, quei due ambiti
esperienziali propri dell’uomo, come autonomi e dunque con fondamenti, finalità e metodologie propri. Ma ciò non significa considerarli secondo un punto di vista autarchico, come se fossero delle esperienze chiuse in se stesse. Per
la verità, è tutto il contrario. Intanto, perché, quando si parla di autonomia in
termini vorrei dire epistemologici la si deve sempre e comunque dialettizzare
con la prospettiva della dipendenza che la rende non un’idea astratta, ma qualcosa di concreto e di realistico. Per l’uomo, non c’è autonomia senza il riconoscimento delle dipendenze (dei legami, dei condizionamenti…) che vi sono
collegate, così come non si debbono intendere le dipendenze se non in quanto
vivificate, ripensate alla luce dell’autonomia.
In secondo luogo, mi preme ribadire anche in questa sede ciò che tutti sappiamo e cioè che un’autentica interdisciplinarità si realizza solo quando ciascuna scienza si vive ed è riconosciuta dalle altre, appunto come autonoma e
perciò con pari dignità. Tutto ciò per dire che rivendicare l’autonomia dell’educazione (e quindi della pedagogia) e della politica (ma ciò vale anche con riguardo a qualsiasi altra scienza o a qualsiasi altro sapere, a partire dall’etica)
comporta la possibilità di sottolinearne con piena legittimità epistemologica i
loro legami e le loro reciproche dipendenze. Ma perché ciò possa avvenire con
1 Relazione presentata il 12/12/2003 al convegno internazionale su “Educazione alla cittadinanza e alla convivenza civile” - Roma, Università di Roma Tre.
95
sufficiente consapevolezza, occorre chiarire il nostro modo di intendere sia la
politica sia l’educazione, il senso che intendiamo dare all’una e all’altra. Tenterò di procedere al riguardo con estrema sinteticità rinviando chi volesse approfondire la questione ad alcuni dei miei volumi e segnatamente all’ultimo
Educazione e politica2.
Dunque, intendo per istanza originaria della politica (che è un modo per sostenere che si tratta di una esperienza costitutiva dell’esistere dell’uomo) la
tendenza, l’esigenza di “organizzare la prassi comunitaria in direzione intersoggettiva e secondo una progettualità a scadenza non ravvicinatissima e quindi non immiserita negli interessi particolari e di breve respiro come sarebbe
quella che riducesse il proprio interesse al presente. Una prassi, intendo dire,
che, partendo dalla pressione esercitata sugli individui dalla struttura materiale e dai bisogni economici, dovrebbe riuscire ad orientarsi, e quindi ad orientare le diverse istituzioni sociali – che rappresentano in un certo senso l’elemento tecnico della politica – secondo la prospettiva del massimo di libertà
possibile per tutti i cittadini del mondo, e con l’intento di fare raggiungere a
tutti il più elevato livello possibile di qualità della vita (volume citato, pag.
26/27). Di qui la funzione principale della politica che è quella di gestire il potere non per se stesso, ma come condizione necessaria alla vita di qualunque
comunità intesa sia a livello intra-comunitario, sia a livello inter-comunitario.
Per quanto riguarda il senso da dare all’istanza originaria dell’educazione
(anche in questo caso uso questa espressione per sostenere che si tratta di un’esperienza costitutiva dell’esistere dell’uomo), data la sede in cui ci troviamo,
le precisazioni necessarie sono ancora più facili da individuare. Mi limiterò
pertanto a dire che qualsiasi esperienza educativa, per essere corretta, deve essere consapevole: a) del suo carattere sistemico (educatore, educando, contenuti, mezzi); b) della reciprocità della relazione e della comunicazione; c) dell’impossibilità di tornare indietro, dunque del suo ‘essere situata nel tempo’ e,
di conseguenza, della grande responsabilità dell’educatore; d) della sua necessaria apertura al possibile, della sua capacità di andare oltre il già-dato, il già
acquisito dalla comunità di appartenenza: un procedere avanti proprio della
storia dell’uomo; e) del suo carattere di evento sociale e socializzante, il cui
senso originario va colto nelle prospettive della cooperazione e della partecipazione. Ma soprattutto mi importa dire che essa deve porsi come obiettivo
fondamentale il raggiungimento da parte del maggior numero possibile di individui di una autentica capacità di pensare che, se richiede l’acquisizione di
un sufficiente livello di cultura e quindi di conoscenze, nonché di competenze,
significa soprattutto capacità di ragionare su un determinato argomento sulla
base non di considerazioni estemporanee e superficiali, ma di criteri, opinioni
e convincimenti fondati. In altri termini, essa deve porsi come obiettivo fondamentale il raggiungimento da parte del maggior numero possibile di individui
della capacità di affidarsi, per ciò che attiene all’azione del giudicare e del de2
96
P. Bertolini, Educazione e politica, Milano, Raffaello Cortina, 2003.
cidere intorno a quali comportamenti assumere nelle varie circostanze della vita, né ad una semplice intuizione, né tanto meno a un ‘sentito dire’ che nasconde quasi sempre pericolosi pregiudizi.
Detto questo, occorre anche dire che né la politica né l’educazione – per
quanto siano, come ho precisato poco sopra, istanze costitutive dell’esistere
dell’uomo – sono garantite nella loro versione corretta. Possono anzi degenerare fino a cadere nel loro contrario: sicché la politica verrebbe intesa, ad
esempio, come esercizio del potere per il potere, e l’educazione come imposizione di un pensiero già fatto e dunque come sollecitazione ad una acritica dipendenza. Di qui la possibilità di una crisi della politica e di una crisi dell’educazione che, nel tempo presente, più che una possibilità risulta essere una
preoccupante realtà.
Se dunque teniamo presenti quei modi di intendere la politica e l’educazione, emerge con sufficiente chiarezza che tra di esse non può non esserci una
significativa correlazione. Anche qui in estrema sintesi si può affermare che tale correlazione è legata da un lato alla consapevolezza che per gestire il potere politico nel modo che ho indicato prima, occorre una formazione adeguata
di tutti i cittadini. Adeguata nel senso dell’acquisizione di un atteggiamento
sempre critico ed autonomo, nonché di una sorta di allenamento o, se si preferisce, di una vera e propria tensione al bene comune. Dall’altro lato, si può affermare che tale correlazione è legata alla consapevolezza che l’esperienza
educativa non può esercitarsi correttamente al di fuori di un autentico interesse per la politica, di una coscienza politica. In questo senso, nel volume che ho
citato, ho creduto di potere legittimamente sostenere che una tale correlazione
tra l’educazione e la politica costituisce una sorta di garanzia per entrambe.
Ciò in quanto la politica, pur nella sua autonomia, non può prescindere dagli
ideali formativi cui l’uomo deve tendere per realizzarsi pienamente come tale;
ed in quanto l’educazione, pur nella sua specificità, non deve permettersi di
perdersi in discorsi troppo astratti e dall’impostazione eminentemente moralistica, ma deve continuamente fare i conti con la prassi e dunque con la realtà
quotidiana che la politica consente o ci obbliga a prendere in considerazione.
In questo senso, ancora, si può capire meglio perché, impostando diversamente il rapporto tra quelle due dimensioni esperienziali, negando cioè l’autonomia di ciascuna, entrambe corrano il rischio di imboccare la via di una vera
e propria crisi, anche se si deve ovviamente ammettere, per non cadere in una
sorta di pericoloso delirio di onnipotenza, che quest’ultima ha a monte anche
e forse ben altre ragioni, a partire dal sempre più ingombrante potere dell’economia. Come dire che, non riconoscendo la reciproca autonomia, la politica ha
finito per rivolgersi all’educazione per utilizzarla come proprio strumento di
potere; e l’educazione ha finito per accettare quella subordinazione in cambio
di privilegi, spesso peraltro miserrimi, e dell’illusione di essere così in grado
di esercitare nella società una qualche (soddisfacente?) forma di potere.
97
Ma, allora, se teniamo presente quel fondamentale positivo rapporto tra la politica e l’educazione, emerge con forza che la prospettiva della cittadinanza rappresenta uno dei momenti più importanti e significativi di quell’incontro: sicché
è ben giusto che essa sia stata messa al centro anche di questo convegno. Ebbene, è proprio qui che entra in gioco il secondo concetto contenuto nel titolo della mia relazione, la costruzione dell’Europa. Credo infatti che siamo tutti d’accordo che acquista il diritto/dovere di fare politica solo il soggetto che risulta bene formato, ma anche che questa convincente e valida formazione non può non
tenere conto della dimensione sociale che è apertura all’altro, comprensione dell’altro, accettazione dell’altro come diverso e che, di conseguenza, è disponibilità alla cooperazione. Si comprende così bene perché la prospettiva della cittadinanza ha avuto e continua ad avere una storia che impedisce di considerarla nei
suoi contenuti una prospettiva, un valore dato chiaramente e perciò stabile. In verità la sua storia è fatta di un intreccio spesso difficoltoso, contraddittorio, in ogni
caso difficile, di inclusioni e di esclusioni. In un certo senso si potrebbe dire che
questa sua storia è stata un lungo e tutt’altro che concluso o vicino alla conclusione, cammino verso un’inclusione universale ed un totale superamento di qualsiasi esclusione. Non posso certo qui ripercorrere tutto il tragitto che è stato
compiuto nel passato da questo punto di vista: dal modo in cui è stata intesa e
realizzata la cittadinanza nel mondo classico, in quello romano, medioevale, moderno fino ai nostri giorni. Chiunque lo può fare agevolmente, ma se lo fa senza
pregiudizi si renderà conto che la prospettiva della cittadinanza è stata tutta giocata su quella dialettica esclusione/inclusione dove quest’ultima ha fatto sempre
riferimento non solo a motivi economici ma anche a motivi di ordine culturale,
etico e sociale. E si renderà anche conto che i principali mutamenti (le principali conquiste?) sono avvenuti prevalentemente a motivo della pressione esercitata
sugli inclusi da parte degli esclusi.
Ebbene, la costruzione dell’Europa risponde a questa stessa logica in quanto si tratta di un significativo allargamento dell’inclusione che tuttavia non elimina di per sé l’esclusioone. Anzi, questa dialettica può essere rintracciata anche nella stessa storia dell’idea di Europa unita, se è vero come è vero che a
partire dai timidi tentativi di aggregazione legati all’acciaio e al carbone, si è
giunti ad un notevolissimo ampliamento della sua base, tuttora in corso. Certo, questi tentativi avevano una giustificazione in primo luogo economica, anche se a monte l’obiettivo non sempre esplicitamente riconosciuto era quello
di realizzare finalmente una condizione di pace tra i vari Paesi europei che per
secoli si erano consumati in guerre fratricide. Eppure, ancora una volta, ciò ha
prodotto e produce altre forme di esclusione, i non-europei, gli immigrati, ecc.
La costruzione dell’Europa dunque non è stata e soprattutto non è attualmente
solo un fatto economico – come non lo è il fenomeno della globalizzazione –
legato in particolare all’introduzione della moneta unica. È anche un fatto etico di grande rilevanza, ed un fatto politico.
Sappiamo infatti tutti bene che – anche se permangono incertezze, tentennamenti, persino opposizioni più o meno esplicite – quella costruzione dell’Euro98
pa sta conducendo ed ancor più condurrà – almeno, io lo spero – ad un inevitabile cambiamento delle nostre istituzioni e soprattutto la introduzione di istituzioni/strumenti di autorità condivisa, istituzioni che implicano sicuramente
un’autentica fatica di pensare. Si tratta così di accettare tutta una serie di sfide
cui non è facile rispondere, implicando, esse, cambiamenti di mentalità spesso
incrostatesi nel tempo. Ne cito tre, per proporre alcune riflessioni al riguardo.
La prima sfida riguarda la formazione di un cittadino che sia in grado di vivere (di lavorare, di agire in genere) secondo identità multiple e dunque secondo fedeltà, anch’esse multiple (alla sua città, al suo Paese e appunto all’Europa). Ciò che significa e comporta la capacità e prima ancora la volontà
di uscire da un gretto egoismo che sempre ha condotto ad opposizioni spesso
drammatiche, ma senza che ciò significhi rinuncia alle proprie specificità e alle proprie caratteristiche.
La seconda sfida cui mi piace accennare è quella che riguarda il modello
del Welfare che va rinnovato, per adeguarlo alle novità che caratterizzano la
nostra contemporaneità: ad esempio, quelle che sono rappresentate dalle nuove strutture demografiche e dalle nuove connotazioni proprie delle varie età.
Un Welfare che va rinnovato ma non abbandonato in nome di una presunta libertà che altro non significa se non lasciare al mercato e alla legge del più forte il compito di orientare la stessa struttura economica e sociale dei singoli Paesi e perciò della stessa Europa.
La terza sfida che intendo qui citare riguarda lo stesso sistema educativo,
forse meglio la formazione dei giovani che deve essere comunque legata alla
valorizzazione dei cervelli migliori, affinché non fuggano dall’Europa con il
rischio che la dipendenza scientifico/tecnologica già oggi sensibile diventi addirittura drammatica, legata, come sappiamo, all’attrazione esercitata da questo punto di vista da altri Paesi.
Infine, credo sia fondamentale pensare ad un’Europa che, mentre aumenta
al massimo l’inclusione riduca al minimo l’esclusione (mi riferisco in specifico agli immigrati), in modo da viversi come un punto di forza per la realizzazione di quella globalizzazione che, superando la sua attuale perversa limitazione al campo economico, sappia diventare globalizzazione etica, sociale, insomma politica, verso il traguardo di una autentica mondializzazione. Tutto ciò
mi pare dimostri con sufficiente chiarezza la rilevanza di quella relazione tra
politica ed educazione da cui sono partito, senza della quale – ne sono convinto – non si potrà costruire un’Europa davvero nuova, capace di rappresentare
una punta di diamante, una sorta di apripista verso la costruzione di un mondo
in cui dominino sempre più i valori della giustizia, dell’uguaglianza pur se
sempre declinata con il valore della differenza. Si tratta di una relazione a cui
tutti coloro che si occupano rispettivamente di educazione e di politica, a partire dalla scuola, debbono sforzarsi di portare il proprio contributo, nella consapevolezza che, se si tratta di un’operazione difficile e faticosa, essa è destinata a dare frutti di straordinaria importanza per tutta l’umanità. Per questo,
merita di essere perseguita senza remore e senza tentennamenti.
99
L’educazione alla cittadinanza in alcuni curricula europei1
FRANÇOIS AUDIGIER2
Da ormai diversi decenni l’educazione alla cittadinanza (EC) è tornata in
primo piano nello scenario educativo nella maggior parte degli Stati europei.
Alcuni, come la Francia, vi si sono riallacciati attraverso una tradizione centenaria, altri, come nell’Europa centrale e dell’est, hanno tentato di farne un punto di forza per la costituzione di una società democratica, altri ancora, come
l’Inghilterra, l’hanno inserita come materia obbligatoria, creando così una rottura rispetto ad una lunga tradizione di autonomia delle istituzioni. Ogni sistema educativo ha portato avanti così le sue proprie evoluzioni. Da un altro lato,
alcune istituzioni internazionali, in prima istanza il Consiglio d’Europa e, più
recentemente, l’Unione Europea, hanno aperto dei cantieri di cooperazione su
questo tema. Le convergenze tra i sistemi scolastici sono diventate così più evidenti. Questo movimento, amplificato dalla costituzione dell’Unione europea,
anche se alcuni Stati del continente restano al margine, invita a non rimanere
chiusi ognuno nel proprio guscio, ad interessarsi agli altri, a studiare gli elementi di convergenza e di divergenza, a confrontare altrettanto bene gli orientamenti ufficiali quanto la loro messa in pratica, ciò che risolve e ciò che pone
il problema.
In questa ottica ho condotto uno studio comparato dei curricula ufficiali di
EC di diversi sistemi educativi in Europa. Senza anticipare nulla sui risultati
presentati in questo testo, sottolineo innanzitutto la grande somiglianza degli
orientamenti, dei problemi e delle domande contenuti in questi curricula. Sicuramente differenti, dal momento che si inseriscono all’interno di tradizioni
politiche, scolastiche e culturali, ma ciò che colpisce, al di là di queste differenze, sono gli sforzi di avvicinamento, l’impressione di trovarsi in un mondo
comune e di doverlo allo stesso tempo costruire. Ma prima di addentrarci nel1
Il lavoro di comparazione dei curricula di educazione alla cittadinanza di 8 sistemi educativi in Europa, qui presentato, è il contributo di un progetto Comenius sull’Educazione alla
cittadinanza attiva. Si confronti il sito Elcae: www.proformar.org/elcae/anex_seminaires/annexe%204%20Audigier.doc.
2 Franç[email protected] – elenco delle pubblicazioni sul sito: www.unige.ch/fapse/didactsciensoc
100
l’analisi comparata, è importante precisare al lettore ciò su cui si basa questa
analisi, i presupposti e il mio punto di vista, le questioni sulle quali verte questo lavoro. Infine, confrontare i curricula ufficiali è ben poca cosa nel campo
dell’educazione e della formazione che è uno dei più complessi che esistano.
La formazione del cittadino non si riduce all’apprendimento di conoscenze più
o meno ordinate; la formazione del cittadino non si riduce al fargli vivere delle esperienze di partecipazione o di cooperazione più o meno obbligate. La formazione del cittadino è un compito ambizioso e complesso per il quale spesso
la Scuola e i suoi attori appaiono alquanto solitari; la società ha ben altre gatte da pelare! e perciò non può essere fatto niente di duraturo in materia di formazione del cittadino se la Scuola non trova nella società un sostegno risoluto
e costante. È anche questa esigenza che spinge a condurre le analisi presentate in questo testo e che ne costituisce il punto di vista.
Interessi e limiti, prudenze e aperture
Le ragioni che spiegano l’interesse mostrato nello studiare e nel confrontare dei curricula di EC in diversi sistemi educativi europei sono molteplici. La
prima è legata al fatto che in parecchi di tali sistemi e in organizzazioni internazionali come il Consiglio d’Europa, l’EC è considerato sempre più una priorità. Dovremmo rallegrarci del fatto che una tale preoccupazione educativa sia
ricordata così spesso e messa così in primo piano. Eppure, guardando più da
vicino, le richieste riguardanti all’EC sono caratterizzate da una profonda ambiguità: rassicurare popolazioni preoccupate per certe violenze e inciviltà o
promuovere la formazione di cittadini liberi e critici, dunque capaci di mettere in discussione i poteri costituiti? Mantenere, se non addirittura ristabilire
l’ordine scolastico oppure insegnare agli studenti quelli che sono i diritti e le
libertà democratiche? Normalizzare i corpi e i comportamenti o aprirsi alle
questioni del mondo, alla diversità di interessi, di opinioni, di credenze, di valori? Le tensioni e le contraddizioni sono numerose e ci richiedono di esaminare attentamente ciò che viene catalogato sotto questa etichetta.
Una seconda ragione riguarda gli interrogativi di cui la cittadinanza è oggi
l’oggetto, i cambiamenti che subiscono il suo significato e il suo contenuto.
Certamente, la cittadinanza non ha lo stesso contenuto e lo stesso significato
nelle nostre diverse tradizioni e istituzioni politiche; e questa è una prima differenza di cui bisogna tenere conto. A ciò si aggiungono delle evoluzioni largamente convergenti e condivise nei diversi Stati europei: alcune sono legate
ai difficili rapporti tra il politico e l’economico; altre alla dinamica stessa della costruzione europea, dinamica che rincontreremo spesso in questo testo; altre ancora ai numerosi effetti di ciò che viene fatto rientrare nel termine globalizzazione; ecc.
Una terza ragione è evidentemente legata a questa costruzione europea.
Quali che siano le nostre opinioni e quali le forme che essa assumerà negli an101
ni a venire, questa costruzione si presenta come un elemento fondamentale
delle nostre particolari visioni future, delineando una prospettiva comune.
Quest’ultima va inserita nella continuità della metà di secolo che abbiamo appena vissuto, metà di secolo durante la quale, bene o male, da crisi in espansione, da solidarietà affermate a richiamati egoismi, i nostri Stati europei hanno rimpiazzato la guerra con la negoziazione, l’isolamento (relativo) con la
cooperazione. L’Europa è sia uno spazio comune che un progetto da costruire, uno spazio di circolazione e di scambio di beni, di servizi e di persone. Tale progetto avvicina le nostre regole e le nostre leggi, insieme che costituisce
il quadro delle nostre libertà e delle nostre relazioni. Tutti sappiamo che gran
parte del lavoro dei nostri Parlamenti nazionali consiste nell’adattare le nostre
leggi nazionali alle direttive della Commissione europea in seguito alle decisioni prese dal Consiglio dei Ministri. Questa prospettiva è aperta; sta ai cittadini costruirla. Tutti conosciamo le critiche fatte ad una costruzione europea
definita burocratica in risposta alle quali si fa appello ad un’Europa dei cittadini.
L’ultima ragione che adduco è leggermente diversa poiché è legata all’idea
stessa di confronto. Da cittadino francese espatriato, come si dice ufficialmente3, misuro la chiusura nella quale ci crogioliamo così frequentemente, la ricchezza e l’interesse che noi abbiamo dell’“andare a vedere altrove”. Spesso
sentiamo dire che l’Europa è ricca della sua diversità, come una formula destinata a proteggere le specificità. Visto che noi ci teniamo tanto, sarebbe urgente uscire dallo slogan e esaminare ciò che questo può significare e richiedere. Io lo intendo innanzitutto come l’espressione della paura collettiva di perdere la nostra identità, del timore di fondersi in una sorta di magma indifferenziato. Sarebbe ora di rompere con una sorta di essenzialismo di culture e di
identità e di considerare entrambe come costantemente in movimento, come
bisognose degli altri per vivere e fruttificare. La diversità non è un bene assoluto. Alla nota formula “ci vuole di tutto per fare un mondo”, il poeta Paul
Eluard rispondeva: “un po’ di felicità, è tutto ciò che basta!”. Per dare a questa
idea di diversità un carattere positivo e dinamico, conviene aprirci agli altri,
sforzarci di pensare con loro per costruire insieme un futuro comune. Il confronto è qui un metodo e un modo assolutamente essenziale di considerare le
cose. Noi confrontiamo costantemente; noi confrontiamo per dare un senso alle novità che incontriamo ogni giorno, oggetti, informazioni, persone, ecc. Si
tratta di un atto fondamentale del pensiero umano; comparare non equivale a
ridurre delle differenze ma a prendere bene la misura di ciò che è diverso, di
ciò che ci avvicina e di ciò che ci allontana.
Una volta dichiarati i miei intenti, è necessario fare luce su alcuni limiti.
Sono numerosi, perciò ne scelgo tre:
3
102
Gli intellettuali sono detti espatriati, gli operai sono degli immigrati!
• il primo è relativo alle fonti studiate e qui messe a confronto. Il mio studio verte sui curricula ufficiali, i curricula formali ancora detti curricula prescritti, quelli che le autorità pubbliche chiedono di applicare e rispettare agli istituti scolastici e agli insegnanti. Ma tutti noi sappiamo
che i curricula formali non sono quelli reali, quelli a cui gli insegnanti
si attengono realmente. Sappiamo anche che i curricula reali non corrispondono a quelli appresi, che ciò che viene insegnato, quali che siano
i metodi utilizzati, non è ciò che viene appreso, ciò che viene elaborato
dagli alunni. Infine, ci sono i curricula nascosti, quelli che non sono
espressi nei curricula formali. Ne conosciamo la particolare importanza
per l’educazione alla cittadinanza, poiché questa ha una dimensione etica e una pratica, poiché questa cerca di fare in modo che gli alunni abbiano nella loro vita scolastica e nella loro vita sociale, oggi e domani,
dei comportamenti accettabili in termini di cittadinanza. Numerosi studi concordano nel sottolineare che, troppo spesso, nelle nostre scuole gli
alunni sperimentano maggiormente l’arbitrario se non addirittura l’umiliazione piuttosto che il diritto e il rispetto delle persone;
• un secondo limite conferma in parte il precedente. I curricula ufficiali
sono prodotti dalle autorità scolastiche. Queste esistono a diversi livelli
amministrativi ma, qualunque sia questo livello, i curricula così redatti
non dicono nulla a proposito delle differenze esistenti fra i quartieri, le
istituzioni e persino le classi. Così in Germania i Länder o in Svizzera i
Cantoni dispongono di un’autonomia quasi totale per stabilire e redigere questi testi. Altrove, come in Spagna, una percentuale di curricula comuni è definita a livello dello Stato, il resto rimane al livello delle comunità nazionali, Catalogna, Andalusia, ecc;
• il terzo limite è relativo al tipo di testo stesso. I curricula formali sono
dei testi amministrativi e politici. Questi definiscono l’agire degli insegnanti; sono lì per dirigere ed orientare l’azione; definiscono dei contenuti di insegnamento, degli obiettivi, delle intenzioni, spesso dei metodi. Però non si rendono conto dei dibattiti che hanno accompagnato la
loro elaborazione. Al di là dei principi generali, l’EC non è affatto consensuale. Oppure i testi ufficiali non dicono nulla a proposito delle divergenze, delle difficoltà. Sarà necessario leggere spesso questi testi tra
le righe o leggerli dopo aver esposto queste possibili divergenze, dopo
aver creato gli elementi del dibattito per ricercarne delle tracce. A ciò si
aggiunge il fatto che, da un sistema educativo a un altro, ciò che è messo sotto il termine curriculum e i contenuti che vi sono attribuiti, sono
diversi. In Italia, come in Francia, sono spesso le conoscenze ad essere
privilegiate, altrove sono piuttosto le intenzioni generali. Da una parte si
insiste sui saperi, altrove piuttosto sui metodi e sulla loro applicazione.
Il termine stesso di curriculum che adotto qui non è utilizzato dappertutto. Gli attribuisco dunque un senso molto generale, quello di testi che
reggono l’insegnamento di una materia, di una branca di insegnamento.
103
La cosa è inoltre complicata dal fatto che l’EC non è dappertutto una
materia scolastica chiaramente identificata e dal fatto che, anche quando lo è, la maggior parte dei testi sostiene che è anche, e così deve essere, una preoccupazione condivisa da tutti gli attori della Scuola4.
Niente è semplice in materia di EC!
Infine, in questa sede parlerò soltanto della scuola dell’obbligo, che va generalmente dai 6 ai 16 anni. Questa, la maggior parte delle volte, è suddivisa
in due tempi: primaria e secondaria. Se la scuola primaria è la stessa per tutti
gli alunni, quella secondaria lascia spazio abbastanza presto a delle specializzazioni, a delle divisioni che separano gli alunni tra quelli che sono destinati a
studi di lunga durata, quelli che sono destinati a raggiungere abbastanza in fretta la vita attiva, e ogni altra soluzione intermedia. Anche se mi limito a questo
periodo di scuola dell’obbligo, è interessante notare che dopo i 16 anni, nella
maggior parte dei casi, l’EC non è più presente o lo è in una forma più discreta, come se, con l’avvicinarsi degli studi secondari, bisognasse concentrarsi
sulle cose serie! Paradosso curioso che vede l’EC abbandonare i curricula scolastici nel momento in cui gli alunni stanno per raggiungere la loro maggiore
età civica, giuridica e politica!
Per concludere questa lunga introduzione, cito alcune cose su cui essere
prudenti ed altre alle quali aprirsi. Le prime si riferiscono alla necessità di
contestualizzare. Su una tale questione, ci troviamo sempre all’interno di una
dialettica complessa tra il particolare e il generale, tra ciò che è specifico e ciò
che è comune. Per quanto riguarda ciò di cui ci occupiamo, lo specifico verte innanzitutto sulle nostre tradizioni scolastiche, le modalità di organizzazione delle nostre Scuole, precisando che sia le une che le altre sono, come le
culture, delle costruzioni storiche in costante cambiamento. Una di queste
modalità ci interessa qui in particolar modo e concerne il grado di autonomia
delle istituzioni scolastiche. Ho già parlato dell’importanza delle autorità scolastiche in materia di curriculum, per esempio in Inghilterra o in Svezia, in
opposizione a sistemi più centralizzati come la Francia. Anche in questo caso, però, conviene essere prudenti; l’esistenza di un curriculum nazionale stabilito tassativamente non significa che esso poi venga effettivamente applicato. Si assiste spesso ad una sorta di paradosso in cui i sistemi più centralizzati lasciano di fatto una grande libertà agli attori locali situati lontani dal centro. L’altro tema specifico che riporto riguarda anch’esso le tradizioni, ma
quelle politiche e non solo quelle scolastiche. È evidente che l’EC è fortemente e strettamente dipendente dalle concezioni di cittadinanza e di legame
sociale. Una traccia molto chiara di queste differenze si osserva nelle parole
e nel modo in cui vengono usate. Così, la Spagna è uno Stato costituito da na4 Visto che lo uso spesso, Scuola con la maiuscola designa l’insieme delle istituzioni scolastiche, dalla scuola materna fino alla fine degli studi, scuola con la minuscola, unicamente
la scuola primaria.
104
zioni diverse mentre altrove, in Romania o in Francia, lo Stato e la nazione
formano un’unità solida. Al contrario, ogni sguardo comparativo s’interessa
anche alle convergenze, a ciò che è condiviso. Tra queste riporto innanzitutto
quello che alcuni sociologi e storici dell’educazione designano con il termine
“forma scolastica”. Nelle nostre società europee, in particolare quelle situate
ad ovest del continente, la Scuola si è sviluppata nel corso del XIX secolo secondo delle modalità organizzative ampiamente condivise. Riportiamo, per
esempio: il raggruppare gli alunni nelle classi a seconda dell’età; l’avanzamento anno per anno di questi stessi alunni; la suddivisione dei saperi in materie scolastiche più o meno separate le une dalle altre, soprattutto quando si
arriva all’insegnamento secondario; la suddivisione di queste materie secondo delle progressioni annuali; l’importanza data allo scritto, più in generale
alla cultura scritta; ecc. Senza sviluppare l’analisi di questo testo imperniato
sui curricula, aggiungo semplicemente che l’EC incontra molte difficoltà a
iscriversi in questa forma scolastica, che costantemente gli vengono lanciati
degli appelli per privilegiare degli approcci diversi, per insistere su dei metodi di insegnamento, detti metodi attivi, per dare spazio alle esperienze degli
alunni, per essere il più vicino possibile alla vita sociale, ecc. Secondo i sistemi scolastici, raccomandazioni di questo tipo, largamente presenti, hanno
più o meno delle difficoltà ad essere tradotte in fatti; non è facile da nessuna
parte!
Un secondo insieme di convergenze che ci interessa è legato alla vicinanza
degli interrogativi posti ai nostri sistemi educativi, ai nostri sistemi politici, alle nostre società. Ovunque la scuola media, quella degli adolescenti, incontra
delle difficoltà; ovunque abbiamo a che fare con una diversità degli alunni che
sembra sempre più accentuata e quindi sempre più delicata da prendere in considerazione; ovunque si osserva una crescita dello sganciamento dei ragazzi;
ovunque le materie scolastiche tradizionali e quindi i curricula sono invitati a
lasciare il posto o a integrare delle nuove preoccupazioni, che siano le lingue
vive o le nuove tecnologie; ecc. Non siamo decisamente mai stati così vicini
gli uni agli altri, anche se la gerarchia dei problemi e delle priorità è un po’ diversa a seconda dei sistemi scolastici. Quanto alle nostre istituzioni e pratiche
politiche, noi concordiamo anche sul metterle in discussione, sui dubbi che i
cittadini hanno in proposito, la ridefinizione del politico e dell’azione politica
di fronte a delle forze come quelle del mercato; il rischio è di vedere l’affermazione dell’uguale dignità degli umani e della loro uguaglianza giuridica lasciare il posto ad altri criteri di regolamentazione fondati principalmente sul
denaro.
Di fronte a questa situazione non posso che insistere sull’importanza e sull’utilità degli sguardi esteriori, sguardi che consentono di spostare i nostri particolari punti di vista, di combattere i nostri automatismi di pensiero, di evitare di considerare specifico ciò che non lo è necessariamente.
105
Il mio punto di vista, i miei punti fermi
Prima di entrare nel vivo dell’argomento, bisogna che io precisi il mio punto di vista, ossia ciò che guida l’analisi e il confronto dei curricula. Vi sono diversi modi di condurre una tale analisi e un tale confronto. Potrei per esempio
cercare nei curricula formali tutti i punti o le espressioni in cui EC è usato, l’espressione stessa o delle espressioni simili, credere e far credere all’obiettività
di una tale ricerca, fare finta di non avere idee preconcette, dei punti fermi. Ma
qualunque sguardo, qualunque analisi parte da un determinato punto di vista.
Ci sono sempre delle ipotesi, delle aspettative, degli interrogativi, dei valori.
Perciò è importante precisare e esplicitare questo punto di vista e i punti fermi
da cui parte. Questo precisare ed esplicitare sono molto importanti tanto più
perché sono preso dal timore, così spesso alimentato, di vedere la cittadinanza
annegare, perdere la sua specificità, abbandonare ciò che di particolare essa dice e costruisce, di unico nella storia dell’umanità, sul legame sociale, il vivere
insieme. Tutto diventa cittadino, tutto ciò che riguarda il vivere in società diventa potenzialmente cittadino; mettendola dappertutto, la cittadinanza non è
e non sarà da nessuna parte. Constatiamo l’esistenza di questo rischio un po’
dappertutto, per esempio con l’aumentare delle “educazione a…”, educazione
alla salute, al codice della strada, ai media, all’ambiente, ecc. A rischio di
scioccare, spero però utilmente, queste “educazioni a…” non contengono in
esse alcuna particolare esigenza di cittadinanza. Rispettare il codice della strada o avere un’igiene di vita soddisfacente possono perfettamente essere difesi
e messi in atto in un regime totalitario; lo sono stati nella storia. Questo rischio
è tanto più accentuato dal fatto che queste “educazioni a…” hanno spesso degli obiettivi espressi in termini di comportamenti conformi e dal fatto che nulla dice che esse debbano lasciare posto anche ad una dimensione critica, ad
un’interrogazione di queste ingiunzioni comportamentali in funzione dei valori che caratterizzano una cittadinanza democratica, come la libertà, l’uguaglianza, l’esigenza di giustizia o la solidarietà, senza dimenticare il posto per
il diritto. Per prevenire questo rischio non abbiamo che un’unica “arma”, quella del rigore, di un’esigenza di rigore nelle parole che usiamo e quindi nel senso teorico e pratico che diamo ai curricula formali. Temo soprattutto tutti questi termini-ostacolo, questi concetti-ostacolo, che invadono i nostri discorsi,
questi termini che sembrano riscuotere l’unanimità a tal punto da farci rinunciare ad indagare sul loro significato e a quello che essi dicono delle nostre
azioni, dei nostri dispositivi, delle nostre aspettative. Tutti oggi concordano nel
mettere in primo piano la partecipazione, la responsabilità, l’autonomia… sorta di accordo generale e facile che consente a ciascuno di evitare la discussione e di ritornare tranquillamente alle sue piccole certezze.
Se associamo “cittadino” ad un’azione, ad un’istituzione, ad un progetto, ad
un risultato… che cosa cambia? Che cosa implica? Che cosa esige?
Per rispondere ad una tale domanda dobbiamo avere un accordo di base sul
senso delle parole, in primo luogo su quello di cittadinanza.
106
Il mio primo punto fermo verte dunque sul senso del termine “cittadinanza”. Le referenze sono qui estremamente numerose e rinvio alla loro lettura.
Con la stessa evidenza, ciascuno reagirà proclamando che il senso dipende dalle tradizioni politiche, dalla cultura, ecc. Inoltre, “cittadinanza” è un termine
complesso il cui senso evolve. Non è intenzione di questo testo fare una presentazione, se pure rapida, di queste differenze e di queste evoluzioni. Semplicemente sottolineo con forza il nocciolo duro della cittadinanza definendola
come uno statuto legato all’appartenenza di un individuo ad una comunità politica. Che lo vogliamo o no, il nostro mondo è organizzato in Stati sovrani: una
popolazione, un territorio, un potere. A partire da lì il cittadino, in una democrazia, è una persona titolare dei diritti e delle obbligazioni, oltre che di una
parte della sovranità. Inoltre, egli è legato agli altri cittadini della sua comunità
politica da un sentimento di appartenenza, dimensione più soggettiva, più affettiva, oggi spesso trascurata. Così siamo sempre dei concittadini; viviamo e
agiamo come cittadino con gli altri. L’appartenenza ci lega anche ad una storia
comune, storia che non si riduce al passato, ma una storia al presente, una storia che è legata ad un destino comune, ad un futuro comune. Questa appartenenza non si riduce affatto ad una mera appartenenza statale. Secondo le nostre storie e le nostre istituzioni, il locale, per gradi diversi, gioca un ruolo più
o meno importante. Così, ci si può avvicinare all’Europa come una comunità
politica in costruzione, dando dunque forma ad un’appartenenza che non annulla le altre ma che cerca il modo di articolarsi con queste ultime. Certamente l’Europa non è solo questo; potrei quasi dire che essa è sfortunatamente
troppo poco. Ma se parliamo di cittadinanza europea, ciò è in relazione ad un
progetto politico comune, progetto che resta da costruire. Proclamarsi appartenente ad una cittadinanza europea non può essere confuso con un mercato europeo o con un’Europa dei consumatori. Non si tratta della stessa Europa, salvo ridurre il cittadino a consumatore!
Da questo primo punto fermo, deduco un contenuto preciso per l’EC:
l’EC è un’educazione al diritto ed un’educazione al potere; essa include
la costruzione di un sentimento di appartenenza, di una concittadinanza.
Il mio secondo punto fermo deriva direttamente dalle tensioni e contraddizioni che sono al cuore stesso dell’EC. Questa educazione non equivale a nessun’altra. Per esempio, essa porta il segno di chi ci differenzia, di ciò che ci divide, ossia di ciò che ci mette in opposizione. Nelle nostre società pluralistiche, nelle nostre società dove la diversità non solo è riconosciuta ma è anche
considerata in maniera positiva, non vi è alcuna ragione per non essere d’accordo fra di noi, alcuna ragione per cui le nostre aspettative, i nostri interessi,
le nostre opinioni, le nostre speranze, ecc., siano le stesse. Ciò che è vero nella scala di ognuna delle nostre comunità politiche, lo è ancor più su scala europea. Sappiamo anche che le differenze dette nazionali si combinano qui con
le differenze sociali e che più il livello di formazione aumenta, più l’adesione
107
all’idea europea è importante. Inversamente le persone che vedono il loro statuto economico e sociale minacciato o in declino vivono più spesso l’Europa
come una minaccia, una minaccia che mescola l’ostilità alle istituzioni di potere e alla paura degli altri, dell’Altro.
Alla base di ogni EC si trovano i valori, valori comuni, valori differenti, valori in conflitto. La cittadinanza democratica è fondata su dei valori che contribuiscono a definire una concezione dell’umano, della persona. Così, la libertà e l’uguaglianza sono costantemente presenti e noi sappiamo anche costantemente in tensione. La libertà di ognuno si scontra sempre con la libertà
dell’altro e con altri valori. Allo stesso modo, la proclamazione dell’uguale dignità della persona umana, la proclamazione dell’uguaglianza giuridica non
hanno niente di “naturale”; esse implicano una concezione dell’umano, un’autentica antropologia. La cittadinanza democratica è una cultura. Da questo
punto di vista, mai nulla è guadagnato; non c’è trasmissione automatica di questa cultura, né cromosomi democratici nei nostri geni! Questo ci mette in difficoltà tra il rispetto delle persone ed il rispetto delle differenze. La cittadinanza democratica proclama il rispetto delle persone, chiunque esse siano; essa
non ostenta un equivalente rispetto di tutte le opinioni, di tutte le norme, di tutti i valori.
Infine l’EC affronta, ancor più degli altri campi o materie scolastiche, la
tensione permanente tra i saperi e le pratiche. Lo scopo dell’EC è quello di costruire in ciascuno delle attitudini, dei modi di pensare e di vivere insieme che
siano, se non conformi, almeno non in contraddizione con i valori, principi e
norme che fondano la cittadinanza. Una tale ambizione solleva almeno due
problemi: il primo è, paradossalmente, quello della libertà, libertà di ciascuno
di aderire o meno ai diritti umani, e quindi il rifiuto di un insegnamento che
impone; il secondo apre un’altra questione, quella di alcune nostre credenze
che sono semplicemente fondatrici della nostra Scuola; aspettiamo che i saperi producano nella persona delle pratiche più ragionate, che una conoscenza dei
valori e dei principi della cittadinanza si traduca nei fatti, negli atti. Si tratta di
una sfida, quella dell’educabilità, ma tutti sappiamo che non vi è nessun automatismo tra i saperi, le conoscenze e le pratiche, le attitudini.
Secondo l’ultimo punto fermo sul quale si basa la mia analisi, l’EC è presente, forse in tre modalità diverse. Queste tre modalità di presenza sono complementari e non opposte le une alle altre5. Le ricorderò molto brevemente:
• ci si aspetta dal cittadino la capacità di intervenire e di partecipare al dibattito pubblico sulle questioni concernenti la società, sui problemi che
5 Cfr. il testo che ho scritto nel quadro del progetto “Educazione alla cittadinanza democratica del Consiglio d’Europa sui concetti e le competenze chiave” Concepts de base et
compétences clés de l’éducation à la citoyenneté démocratique. Una terza sintesi. Consiglio
d’Europa, DGIV/EDU/CIT (2000) 23. Questo testo è disponibile in francese ed inglese sul sito del Consiglio.
108
questa, quindi lui e i suoi concittadini, dovrà risolvere. Queste questioni e questi problemi non sono disciplinari; il loro studio richiede la collaborazione di diversi ambiti del sapere; la loro soluzione è politica, nel
senso in cui essa esonera da scelte che rientrano nella responsabilità del
cittadino. Abbiamo qui l’esigenza di collaborazioni tra discipline, di lavori “polidisciplinari”; sappiamo anche che l’introduzione e la messa in
atto di tali lavori non sono facili a scuola, specialmente perché mettono
in crisi la forma scolastica;
• vi sono dei saperi, delle competenze, degli atteggiamenti che sono specifici della cittadinanza e quindi dell’EC. L’approccio proposto dal nocciolo duro della cittadinanza indica molto chiaramente l’importanza di
ciò che emerge dall’iniziazione al diritto e al politico. Di questi saperi
non si fanno carico le altre discipline; è dunque necessario che esista un
momento particolare, chiaramente inscritto nei calendari scolastici per
lavorare su questi saperi;
• infine, vi è un accordo unanime nell’affermare l’importanza dell’esperienza, principalmente dell’esperienza della vita comune vissuta a Scuola, nelle relazioni che ognuno vive con gli altri. Non c’è una rottura tra i
saperi e le pratiche, tra l’esperienza e la conoscenza. Ridurre l’EC a delle
esperienze condivise tra gli alunni è una sciocchezza, anche se essa spesso è messa in primo piano; lasciare l’EC rinchiusa tra le pareti di un insegnamento dogmatico o semplicemente ridotto ad una materia scolastica
chiusa non ha alcun effetto. Il processo di questi due orientamenti estremi
è abbastanza noto da decenni per non rendere necessario ritornarci su.
Per concludere la trattazione di questi punti fermi, ne ricordo il rigore e la
modestia. Ricordo che, confondendo e mettendo tutto dentro il termine cittadinanza, la si fa annegare, la si diluisce, la si riduce a qualcosa di molle ed
informe. La cittadinanza, questa invenzione moderna delle nostre democrazie,
merita di più, anche i nostri bambini. Ma la cittadinanza non racchiude tutta
l’esperienza della vita comune, lontano da lì ed è un bene. Né le identità individuali, né quelle collettive si riducono all’identità associata alla cittadinanza.
Vi sono ben altre dimensioni dell’identità. Allo stesso modo, la dimensione cittadina della nostra esistenza sociale non logora le altre dimensioni della nostra
vita. Le nostre relazioni con gli altri non sono poste tutte sotto il segno della
cittadinanza. Se l’universo politico e giuridico definisce il quadro delle nostre
libertà, dei nostri diritti e dei nostri obblighi, non siamo costantemente nell’universo politico; ancora una volta è normale ed è un bene.
Intermezzo: gli oggetti ricercati nei curricula
Tuttavia, prima di addentrarmi in alcuni risultati del confronto dei curricula, espongo la lista dei diversi oggetti ai quali ho rivolto uno sguardo privile109
giato. Questa lista non è affatto esaustiva, è evidente. Comprende la lista degli
oggetti di cui ho confrontato la presenza. Essa deriva direttamente dall’insieme di proposte di cui sopra:
– la politica ed il diritto; sono alla base dell’approccio alla cittadinanza di
cui ho parlato;
– l’esperienza del potere e della responsabilità, la partecipazione; ho citato l’importanza dell’esperienza nella costruzione delle competenze cittadine in particolare nella vita scolastica; andrò dunque a cercare nei
curricula ciò che si dice privilegiando soprattutto i dispositivi previsti
per facilitare la partecipazione e le iniziative degli alunni negli istituti;
– il sentimento di appartenenza ad una comunità politica, una comunità di
cittadini; questa non si limita alla comunità scolastica che, di per sé, non
è una comunità politica;
– i valori, includendovi in modo privilegiato la diversità;
– l’Europa, dato che essa ci viene presentata come un orizzonte di cittadinanza condivisa;
– i livelli di scala, cercando qui il modo in cui i curricula legano fra loro
il locale, il regionale (spesso chiamato nazionale), lo statale (spesso
chiamato anch’esso nazionale), l’europeo, il mondiale.
Questi livelli di scala intervengono almeno in due modi: il primo è pedagogico e tradizionale, che vorrebbe dover cominciare con lo studio del locale
per allargarsi progressivamente alla frequenza scolastica degli alunni; il secondo riunisce le appartenenze e la ricerca dei livelli privilegiati;
– l’incitamento all’apprendimento di una cultura del dibattito in relazione
allo studio delle questioni vive che una società deve risolvere, questioni
che, come ho già detto, ci dividono;
– i metodi.
Sono dunque alcuni oggetti di cui andrò a ricercare i segni nei curricula.
Prime constatazioni: un ugual numero di temi teorici e pratici da
condividere e su cui lavorare
Prima di entrare negli oggetti che ho appena indicato, lo studio dei curricula qui riportati mostra una diversità dei modi di presenza; ne distinguo almeno
tre:
– una disciplina scolastica separata la cui presenza è continua su tutta o
parte della frequenza. L’esempio più imponente è quello della Francia in
cui l’EC è di base6 una disciplina scolastica insegnata per un’ora alla
6 Ricordo che i curricula formali non sono quelli reali e che tutti sanno che la posizione
stessa dell’EC fa sì che certi curricula formali non siano rispettati.
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settimana nei primi nove anni, primaria e secondaria inferiore. Un altro
esempio è quello dell’Inghilterra in cui il curriculum nazionale prevede
la presenza dell’EC nel corso di una parte dell’obbligo scolastico e senza includervi i primi anni;
– una disciplina scolastica separata la cui presenza è discontinua, certi anni sì e certi altri no. È il caso della Romania dove esistono un programma ed un orario precisi soltanto a certi livelli scolastici;
– un tema integrato in un sistema più vasto. In questo caso le definizioni
delle ore sono tra le più vaghe e gli oggetti studiati più o meno precisi.
Vi inserisco il caso dell’Italia con la Convenzione Sociale che raggruppa il codice della strada, l’educazione alla sanità, l’EC, ecc. È anche il
caso della Svezia dove l’EC fa parte dei Social studies con una forte autonomia delle autorità scolastiche locali; gli alunni devono avere 885 ore
di Social studies durante i 9 anni della scuola dell’obbligo, viene lasciata libertà a quelle autorità di organizzare in autonomia le ripartizioni.
Al di là delle differenze nelle modalità di presenza, ovunque sono sottolineate:
– le dimensioni trasversali e multidisciplinari;
– l’importanza della vita scolastica, molto spesso legata ad una visione
normativa e comportamentale dell’EC. Il problema dell’ordine scolastico è di massa;
– il politico e il diritto.
La presenza del politico è molto discreta e si riduce essenzialmente allo studio tradizionale delle istituzioni. Questa discrezione è senza dubbio legata alla critica di cui questo studio è l’oggetto. È da molto tempo che alcune persone si ribellano contro lo studio di vuoti organigrammi in cui il sistema politico è ridotto ad un insieme di nomi collegati da frecce. Questa critica non sembrava essersi tradotta in uno spostamento degli oggetti politici studiati ma in
una diminuzione dello spazio a loro disposizione. Forse questa situazione deve essere collegata a ciò che è comunemente definito come crisi politica dalle
nostre democrazie contemporanee. Mai il politico e la democrazia sono presentati come una modalità di regolamentazione della diversità di opinioni e di
interessi né come un sistema in cui i poteri si controllano reciprocamente, ecc.
Il diritto non è favorito. Si insiste sull’aspetto legale; questa scelta segna
l’aumento delle preoccupazioni legate all’insicurezza, alla delinquenza, alla
preoccupazione già menzionata dell’ordine scolastico. Il diritto, non più della
politica, non presenta orientamenti più problematizzati. Non si tratta di materie su cui riflettere, su cui lavorare. Il politico dà luogo a descrizioni spesso
senz’anima; il diritto è l’oggetto di richiami normativi.
Sarei tentato di interpretare questi contenuti come la traduzione di una concezione della conoscenza che tiene a distanza tutto ciò che riguarda l’astrazione, tutto ciò che riguarda i concetti. Così, né i contenuti riguardanti la politica,
né quelli riguardanti il diritto lasciano spazio ad una presentazione più critica,
non mettono in primo piano concetti che costituiscono oggi nelle scienze so111
ciali l’oggetto di importanti ricerche come quelli di rappresentazione, deliberazione, o quello stesso di società civile; lo stesso vale per il diritto. Tutto avviene come se, di fronte ad una difficoltà di introduzione degli alunni nell’universo politico e giuridico, i testi privilegiassero dei richiami istituzionali e
normativi, lasciando agli insegnanti la cura di domandarsi se vi è lo spazio. Più
che il risultato di un lavoro, la conoscenza sarebbe allora il risultato di esperienze nelle quali è meglio inserire gli alunni.
• Il potere, la responsabilità, la partecipazione
La partecipazione è posta come un’evidenza. Ne deriva un accento sui dispositivi di partecipazione. Aggiungiamo volentieri alcune frasi di rito sulla responsabilità. Al di là di questa convergenza, è evidente che le tradizioni scolastiche e sociali sono diverse, che certe culture politiche e scolastiche, per esempio in Svezia o in Inghilterra, sono più sensibili alla partecipazione degli alunni. Tuttavia, questo accento non è affatto interpellato. Ho detto che i curricula
ufficiali non erano dei testi portatori di differenze di punti di vista e di concezioni. Non è la loro funzione. Ma ciò non impedirebbe loro senza dubbio di lasciare spazio a degli interrogativi, a sottolineare delle contraddizioni, a invitare a delle prudenze o a tenere a distanza dei luoghi comuni. L’esercizio è raro.
I documenti di accompagnamento dei programmi di EC del collège in Francia
(secondaria inferiore) testimoniano qualche sforzo in questo senso; non è sicuro che ciò abbia qualche conseguenza.
Questa mancanza di interrogativi si osserva, per esempio, nell’assenza dell’idea di potere, nell’assenza di apertura o di precisione sui diritti, dunque le libertà e i poteri che possono essere attribuiti agli alunni. Quali poteri dare agli
alunni? Su che cosa gli alunni vogliono e possono avere potere? Un secondo
esempio riguarda l’idea di partecipazione. Questa è posta come una necessità;
ma, in una democrazia, siamo messi di fronte ad un paradosso tra la libertà di
partecipare, spesso presentata come una sorta di dovere morale, e la libertà di
non partecipare o di partecipare in modo diverso da quello imposto dalle istituzioni ufficiali.
• La vita scolastica
Se l’importanza dell’esperienza in materia di EC è molto generalmente affermata, è interessante e importante osservare che i curricula formali non presentano che poche indicazioni, o addirittura nessuna, sulla linea che questa
educazione potrebbe o dovrebbe avere nella vita scolastica. Tutto avviene come se da un lato l’EC dovesse sviluppare i suoi propri metodi e attività pedagogiche e, dall’altro, fosse consigliato, raccomandato o esatto, di creare dei dispositivi di partecipazione degli alunni. In quest’assenza di relazione vi è una
doppia mancanza che si basa sulle concezioni di apprendimento che dovrebbero essere esaminate in modo rigoroso: la prima mancanza è quella dell’introduzione esplicita di relazioni tra i saperi e le competenze presenti nell’insegnamento dell’EC; la seconda è, quasi inversamente, quella dell’articolazione
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tra le esperienze di vita scolastica, soprattutto quelle legate a dei dispositivi tradizionali di partecipazione o di iniziativa, e dei momenti di lavoro riflessivo su
queste pratiche ed esperienze. Oppure è fondamentale che i saperi e le competenze costituiti durante corsi e lezioni di EC siano messi in relazione con delle situazioni sociali, con delle situazioni della vita scolastica. Queste situazioni sono molto eterogenee: situazioni di cooperazione, situazioni di iniziativa,
situazioni di conflitti, situazioni di solitudine, ecc.; tutte meritano, in un modo
o nell’altro, di essere messe in relazione con l’insegnamento formale. La seconda mancanza può anche essere letta come l’idea secondo la quale, in materia di EC e di vivere insieme, solo l’esperienza conta; questa sarebbe allora invisibile agli attori e il moltiplicarsi di situazioni ad hoc conterrebbe in se stesso, in maniera quasi spontanea, la garanzia di una riuscita dell’EC. È oggi evidente che l’EC deve unire i due aspetti di conoscenze ed esperienze, che è dalla relazione tra queste due facce di una stessa medaglia che si costruisce la formazione civica. L’esperienza è un sapere, il sapere è un’esperienza. L’uno trae
senso dall’altra e viceversa.
Quest’assenza di relazioni può essere anche interpretata come una certa difficoltà a definire i ruoli degli adulti presenti negli istituti scolastici, o persino a
farli cooperare. Da una parte sappiamo che, se alla scuola elementare gli insegnanti fanno spesso funzionare le regole di vita comuni, questo lavoro resta
molto interno alla loro classe e che è difficile mettersi d’accordo su delle regole più generali al di fuori di alcuni principi contenuti nei regolamenti scolastici
e che ogni adulto li gestisce e li interpreta a suo modo. D’altra parte, nell’insegnamento secondario, esiste quasi sempre un’amministrazione che, composta o
meno, in parte o totalmente da insegnanti, prende le distanze dagli insegnanti
stessi. Ne risulterebbe, almeno a titolo di ipotesi e con degli accenti più o meno marcati a seconda delle tradizioni scolastiche, una ripartizione dei ruoli: alle amministrazioni ed ai loro associati, la vita scolastica ed il mantenimento dell’ordine scolastico, agli insegnanti, la responsabilità delle conoscenze.
• Il sentimento di appartenenza e l’identità collettiva
Se tradizionalmente, laddove esisteva, l’EC aveva come scopo principale la
costruzione di un’identità collettiva, ora questa non sembra essere più una
priorità. Come abbiamo visto, lo studio delle istituzioni politiche resta uno dei
contenuti più importanti nei curricula formali, ma l’interesse di questo studio
per la formazione degli alunni non viene affatto esplicitato. Da un lato gli autori di questi testi considerano che ciò vada da sé, dall’altro le questioni di appartenenza sono sempre più difficili e delicate da affrontare. Propenderei piuttosto per la seconda ipotesi. Sottolineata questa discrezione, la preoccupazione della costruzione di un’identità collettiva non è scomparsa, bisogna però andarla a ricercare altrove, in primo luogo nell’insegnamento della storia. Quali
che siano le aperture che i curricula comportano, quest’ultima disciplina è innanzitutto volta all’apprendimento della storia della comunità politica alla quale appartiene la Scuola. Sicuramente sono apportate delle modifiche per la113
sciare spazio agli aspetti locali e regionali, che questi siano pensati o meno in
termini di nazione; il caso limite è quello della Svizzera dove i programmi sono decisi in maniera cantonale e dove la storia ha una forte dimensione locale
coerentemente con una concezione della cittadinanza che mette in primo piano la cittadinanza locale.
Un altro luogo in cui le questioni di appartenenza e di identità sono messe
in rilievo è quello legato a preoccupazioni multiculturali. Oggi le nostre società
si scoprono, con maggiore o minore accettazione della cosa, come società multiculturali. Se si prende in considerazione la multiculturalità, l’appartenenza
diviene quindi ancora più delicata da concepire. Certo ci si rifugia dietro a delle affermazioni di principio sia generali che generose secondo le quali ciascuno ha diritto a scegliere le proprie appartenenze, che siano multiple, mobili,
ecc. Tra affermare ciò e metterne in conto le conseguenze nell’insegnamento
quotidiano, esiste un divario praticamente colossale. Certi insegnanti fanno fare delle esperienze e prendono delle iniziative spesso appassionanti, ma resterebbero da studiare i loro effetti e la loro diffusione una volta riconosciuto il
loro interesse.
Così l’appartenenza è raramente messa in primo piano nell’EC, almeno non
in maniera esplicita. Vi sono qui un problema e una posta in gioco temibili e
complessi. Da un certo punto di vista, l’importanza data all’acquisizione, da
parte degli alunni, di conoscenze sui diversi aspetti della vita sociale e lo spazio limitato e addirittura negato alla trasmissione di un’appartenenza ereditata
può apparire come una vittoria contro una EC che impone il suo punto di vista
come un imperativo e lasciare libero l’individuo di scegliere le proprie appartenenze. L’autonomia di ciascuno è così proclamata come uno scopo dell’educazione e come condizione di una realizzata società democratica. Ora, innanzitutto, la visione di un’autonomia pensata come una sorta di stato e non come
un movimento ed una costruzione permanente, è assai restrittiva; inoltre, il rifiuto di assumere questa dimensione culturale rischia di lasciare un grande
vuoto che ben altre forze operanti nella nostra società stanno già colmando. Tra
pari, i differenti universi presentati dai media, quelli difesi dalle comunità linguistiche, culturali, religiose, il rischio è che il sentimento di appartenenza, la
maniera di percepirsi in relazione agli altri, i sodalizi, si restringano a degli
spazi delimitati da questi universi e da queste comunità e ai loro abitanti, sodalizi tanto più difficili da stabilire quanto più legati da appartenenze mobili.
• I valori
Quale che sia la loro presentazione generale, negli obiettivi e, più precisamente, nei contenuti di insegnamento, i curricula formali enunciano alcuni valori essenziali. Questi si suddividono in due insiemi. Nel primo si focalizza
l’attenzione sul rispetto e la tolleranza. Qualifico volentieri questi valori come
valori di “astensione”, nella misura in cui essi non implicano necessariamente
una relazione positiva con l’altro, un’implicazione. Vi riconosciamo facilmente l’espressione di questa preoccupazione di pace scolastica e sociale della cui
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importanza ho già parlato. Questa pace è innanzitutto un’assenza di tensione,
come se questa assenza… presenza non potesse essere costruita tramite il legame sociale che una sola volta. Il secondo insieme fa riferimento ai valori della democrazia e dei diritti dell’uomo. Tutto ciò è enunciato come delle evidenze, evidenze “naturali” e necessarie. Non ci sono mai problematizzazioni, evidenziazioni del fatto che, nella realtà, i valori ed i principi sono spesso, se non
sempre, in concorrenza gli uni con gli altri. Nelle formule generali dei testi internazionali sui Diritti dell’uomo e sul diritto positivo, tra questo e la vita sociale, non c’è una relazione di necessità; le contraddizioni sono numerose ecc.
Dal canto suo, la democrazia è ridotta ad una sorta di sistema in cui vi è la libera scelta di coloro che esercitano il potere attraverso il voto, ma niente di più.
Ci ricolleghiamo a certe constatazioni catalogate precedentemente sotto l’etichetta “diritto e politica”.
In linea con i valori, metto ciò che è in relazione alla religione come oggetto
eminentemente complesso se non conflittuale nel nostro spazio europeo oggi.
Si potrebbe pure farne un tema specifico. Il caso più frequente è quello di una
presenza della religione nella Scuola, spesso come oggetto specifico, se non
come una disciplina o una quasi-disciplina offerta ai bambini ed alle famiglie.
Un caso molto sostenuto è quello dell’Inghilterra dove, ogni giorno, devono essere presenti degli “atti religiosi”. Non dimentichiamo che, quale che sia il credo al quale ognuno aderisce (ivi compresa la credenza dell’assenza di credo),
il principale significato del termine “religione” definisce una maniera di costruire un legame, legame tra umani ed una o più divinità e, dunque, del legame tra gli umani che aderiscono allo stesso credo. Questa presenza della religione sembrava relativamente semplice quando le nostre società ed i nostri Stati si consideravano più o meno omogenei da questo punto di vista. “Cujus regio, ejus religio”, eredità del Trattato di Westfalia. Comunque sia, la situazione è oggi totalmente diversa, con delle società che si proclamano e si riconoscono con più o meno accettazione “pluri-” o “multiculturali”. Non è più possibile imporre la presenza di una religione o di un insegnamento religioso a tutti gli alunni. Gli “atti religiosi” quotidiani pongono il problema in Inghilterra;
nel Belgio francofono gli alunni scelgono tra un insegnamento legato ad una
delle quattro religioni ufficialmente riconosciute ed un insegnamento di “morale non confessionale”; altrove è la presenza di un’impronta religiosa, come il
crocifisso sui muri delle aule, che è messo in discussione. Il caso della Francia
con la laicità si presenta come singolare, poiché la libertà religiosa è garantita
ma la Scuola, spazio pubblico, deve rimanere neutra. Tuttavia, indipendentemente dalle situazioni, l’ipotesi è quella di un avvicinamento tra gli insegnanti religiosi o le altre forme nelle quali si presenta la religione e le preoccupazioni di EC che mettono in primo piano i comportamenti, la pacificazione delle relazioni, ecc. Forse sono le difficoltà legate alle inciviltà, se non alle violenze, a formare un terreno fertile per spiegare questo avvicinamento.
Lascio qui da parte ciò che si riferisce ad un insegnamento della storia delle religioni legata ad una comprensione del passato. Ci sarebbero degli studi
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interessanti e comparativi da svolgere per analizzare meglio una sorta di scansione che ha fatto succedere da mezzo secolo, un’importanza data alla vita ed
alle istituzioni politiche, poi alla vita ed alle condizioni economiche, oggi ai
cosiddetti problemi culturali. Qui sono chiamati in causa: da una parte questa
priorità, come se le differenziazioni e le identità culturali fossero la chiave della comprensione delle nostre differenziazioni e delle nostre identità sociali, i
fattori economici e sociali passano allora in secondo piano; d’altra parte la designazione della religione come componente principale di queste identità culturali, designazione che contribuirebbe a farne un oggetto specifico di insegnamento, di una certa maniera scevra da altre dimensioni di realtà storiche di
cui si fa carico l’insegnamento della storia.
• L’Europa
Diciamolo subito: l’Europa è una grande assente dei curricula di EC. Questi, stretti nella morsa delle preoccupazioni comportamentali e delle conoscenze relative alla società nella quale l’alunno vive, non si preoccupano affatto
dell’Europa. Questa assenza non è totale; c’è qualche apertura, soprattutto verso lo studio delle istituzioni europee; queste si presentano allora in un modo
del tutto simile a ciò che è osservabile per le altre istituzioni politiche: lisce,
evidenti, neutralizzate.
La maggior parte delle volte bisogna cercare l’Europa altrove, in particolare nei curricula di storia e geografia, se non addirittura nell’apprendimento
delle lingue straniere. Modesta in EC, più frequente in storia e geografia, l’Europa è generalmente presentata come un’evidenza. È un livello in più nel quale sono impegnati i nostri vari Stati. L’Europa non è un progetto da costruire,
un oggetto di controversia e di dibattito nella società, un insieme di scelte di
cui cittadini sono invitati ad impadronirsi, ecc.
A che cosa serve imparare ed agire come “Europa”? Poche indicazioni, così poche, aprono qualche pista per suggerire, orientare e dare impulso a dei lavori che permettano se non di rispondere quanto meno di introdurre a queste
questioni.
• I livelli di scala
Questo tema è il proseguimento del precedente e lo inserisce in un’altra
prospettiva. Ho già rilevato l’importanza di un modello di insegnamento e di
organizzazione dei curricula spesso qualificato come concentrico che consiste
nel cominciare dal vicino, il locale, per allargarsi progressivamente fino al planetario o al mondiale. Ne reperiamo la presenza nella totalità dei curricula. Gli
alunni cominciano a studiare il loro comune, il loro villaggio, poi ampliano
pian piano il loro campo di studi.
In linea con il locale si profila la preoccupazione della partecipazione che
viene allora come un fattore complementare di legittimazione. Ho messo in
evidenza l’importanza accordata sempre più all’idea di partecipazione ed
enunciato l’ipotesi secondo la quale la partecipazione appartiene a queste pra116
tiche e valori di “presenza”, con la responsabilità per esempio; questi valori sono invitati a equilibrare i valori e le pratiche di “assenza”, come il rispetto e la
tolleranza.
Nuovamente bisogna ricorrere ad un po’ di distacco e di spirito critico. Nessuno dei concetti utilizzati, nessuna delle intenzioni educative proclamate, nessuno dei contenuti presenti nei curricula, ha un aspetto semplice ed univoco.
Ne va della partecipazione come degli altri. Così, a rischio di scioccare, parto
dal fatto che è probabilmente nei sistemi scolastici degli Stati totalitari che le
pratiche, se non le esigenze di partecipazione erano, sono i più sviluppati.
In questo caso abbiamo a che fare con una partecipazione il cui primo scopo è quello dell’integrazione, un’integrazione obbligata senza altro limite alla
libertà se non quello della conformità al potere. Certo, in sistemi scolastici di
Stati democratici, la finalità di integrazione esiste ugualmente ma non è rispecchiata né messa in atto allo stesso modo. È sempre questione, almeno in
principio, di libertà. L’integrazione passa attraverso la costruzione della libertà
e dell’autonomia del soggetto. Questione vasta su cui sarebbe interessante lavorare come tale. Da parte mia, ritengo semplicemente che una partecipazione
“locale”, nell’istituzione scolastica, compresa una partecipazione legata a delle iniziative di alunni accettate dalle autorità scolastiche, non ha niente di “naturalmente” cittadino o civico. È necessario, qui come per gli altri temi, di vederla nell’ottica dell’inquadramento proposta per il concetto di cittadinanza.
Così, per esempio, la dimensione politica implica il non limitare la partecipazione al locale, di prendere in considerazione gli altri e l’altrove. La formazione cittadina si richiama a questo allargamento.
Un approccio più ampio della scala di livelli parte dalla constatazione secondo la quale è impossibile pensare le nostre realtà e le nostre esperienze sociali, comprese quelle che non fanno parte dell’ambito politico, restando confinati all’interno di un solo livello di analisi. C’è del mondiale nel locale. I geografi vi troveranno facilmente un pensiero dello spazio in rete. Pensare un luogo, pensare un’attività, implica di metterlo, di metterla in relazione con altri
luoghi, altre attività. Non possiamo più pensare il mondo soltanto in termini di
territori che potremmo analizzare secondo scale sempre più piccole. Il modello concentrico non è quindi più operativo e perciò esso resta massicciamente
presente.
• La cultura del dibattito, lo studio delle questioni vive
Questo tema sposta la nostra indagine. Anche su questo argomento notiamo delle forti convergenze. Queste non vengono sempre espresse direttamente negli stessi curricula formali. Bisogna andarle a cercare nelle presentazioni
di questi stessi curricula, nei documenti che li accompagnano, spesso nei testi
di regolamentazione che ne dettano le condizioni. Le intenzioni generali e generose abbondano. Bisogna formare lo spirito critico, sviluppare delle capacità
di informarsi e perciò imparare a gestire la fruizione dei media, prendere coscienza della diversità dei punti di vista e accettarli. La maggior parte di que117
sti testi insiste sull’apprendimento del dibattito, a volte ragionato, altre argomentato.
Ma, per questo tema, come per quelli precedenti, sono i silenzi, gli accenti
e le assenze che sono maggiormente significativi. Tra le questioni che sono così evitate, metto in luce per esempio che:
– l’accettazione della diversità viene proclamata ma poco “stipulata”. In
altre parole, una volta che la diversità è stata constatata, accettata, che
fare? Tutti i punti di vista si eguagliano? La convocazione rituale dello
spirito critico basta di per sé a offrire agli insegnanti degli strumenti per
dare luogo alla pratica?
– Le relazioni tra questa cultura del dibattito e gli oggetti in discussione
nella nostra società sono poco marcati. Queste relazioni sono spesso più
evidenti con gli alunni più grandi, quelli che continuano a frequentare la
scuola oltre il periodo dell’obbligo. E c’è di più, non è indicato alcun legame con le questioni che noi condividiamo tra europei, che siano le
stesse o che siano vicine a noi nei nostri vari Stati o ancora le questioni
che ci richiedono di cooperare, di agire insieme.
Infine, perché ci sia una cultura del dibattito, non si dovrebbe credere o far
credere che il dibattito pubblico è necessariamente un dibattito ragionato, argomentato. Ne fanno parte passioni, emozioni. A questo proposito le nostre
culture scolastiche divergono. Certe accettano meglio questa dimensione spesso pensata come “irrazionale”.
• I metodi
Queste precisazioni sulla cultura del dibattito ci fanno ritornare ai metodi
d’insegnamento. Li abbiamo incontrati nel paragrafo dedicato alla vita scolastica. Le convergenze sono qui molto grandi. Ovunque, i curricula insistono sull’esperienza, i metodi detti attivi. Bisogna mettere gli alunni nella situazione. Se
gli obiettivi della formazione alla cittadinanza possono essere enunciati in modo comune e condivisi da tutti gli alunni e gli insegnanti, le pratiche sono necessariamente diverse, nella stessa misura in cui lo sono i contesti locali. Senza
dubbio ciò spiega, almeno in parte, la discrezionalità dei curricula ufficiali. Bisogna aggiungere una concezione diffusa in Europa che lascia all’insegnante,
soprattutto nella scuola secondaria, la scelta e l’iniziativa in materia di metodi
di insegnamento. Dunque vi è la possibilità di un conflitto tra le aspettative e gli
orientamenti messi in primo piano dalle autorità scolastiche e dagli insegnanti.
Per non concludere
Al termine di questa analisi, vengono alla luce diversi temi di riflessione. I
primi comprendono alcune delle principali osservazioni che abbiamo fatto e
costituiscono anche dei richiami all’approfondimento e a dei lavori complementari:
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– i curricula formali si presentano come un grande contenitore nel quale
le autorità versano tutti gli oggetti da studiare non sono facilmente collocabili nelle discipline scolastiche istituzionalizzate, che la Scuola non
sa dove inserire e che a quest’ultima la società richiede;
– la redazione di questi testi è consensuale ed evita tutto ciò che potrebbe
suscitare proteste e polemiche; il soggetto è delicato e di pubblico interesse; le autorità politiche, al di là delle reali preoccupazioni deontologiche, evitano sempre di far sorgere una contestazione mediatica;
– così la democrazia è presentata anch’essa come molto consensuale; essa non è la ricerca permanente dell’accordo di base di diversità e disaccordi. Un privilegio è accordato alle relazioni orizzontali tra le persone;
in nome dell’uguaglianza dei cittadini, tutti sono messi sullo stesso piano. Vengono anche dimenticate le relazioni verticali, gerarchiche, come
se l’uguaglianza giuridica e politica, quella che è alla base della definizione di cittadinanza e di quella di democrazia, non soltanto fosse realizzata ma come se questa uguaglianza si estendesse all’insieme delle
relazioni umane e sociali indipendentemente dallo status, dalle funzioni, dalle età;
– vi sono pochi riferimenti alle appartenenze ed alle identità. Ho sottolineato il ruolo della storia, ma questa “per natura” non porta un’identità
cittadina. Da parte loro, i curricula di educazione alla cittadinanza non
aprono, se non molto poco, ad una riflessione sull’identità cittadina o alla dimensione cittadina dell’identità in relazione ad altre componenti e
ad altre fonti delle nostre identità individuali e collettive;
– infine, questi testi ufficiali sono caratterizzati da una tensione che è largamente presente nelle nostre società, nelle nostre concezioni dell’umano e della vita sociale, tensione nella formazione tra un individuo libero, autonomo, critico ed un individuo solidale, responsabile, cooperante, partecipante, tra il soggetto e le sue relazioni con gli altri. Questa tensione va ben oltre a ciò che è proprio dell’educazione cittadina per caratterizzare ed interrogare ogni atto di formazione e di educazione oggi.
In un secondo tempo, osservo che i curricula tracciano l’immagine perfetta, quella del cittadino formato a Scuola. Se tutte le intenzioni di formazione
fossero coronate dal successo, se tutti gli obiettivi fossero raggiunti, nessun
dubbio sul fatto che il futuro delle nostre società, il nostro futuro e quello dei
nostri figli si presenterebbe quasi come un paradiso terrestre, una Terra popolata di cittadini coscienti, dotati di spirito critico, tolleranti, rispettosi delle persone, dei beni, delle leggi, aderenti ai valori dei diritti dell’uomo e della democrazia, partecipanti a tutti i livelli alla vita sociale e politica… Interrompo
qui l’elencazione, non perché ho finito con le virtù cittadine ma perché il gioco rischia di essere crudele. La vita è così diversa dalle nostre buone intenzioni! Questa differenza è fonte di inquietudine; se non la si prende in considerazione, è fonte di pericolo. Gli alunni capiscono in fretta che ciò che è insegnato, indipendentemente dai metodi utilizzati, non è per niente simile a ciò che
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essi osservano nella vita degli adulti, a ciò che essi stessi vivono, alle loro esperienze. Il rischio è allora che quello che viene loro insegnato sia ridotto, da loro, a delle belle parole completamente inutili; il rischio concreto del resto della società, soprattutto dei genitori, è che la Scuola appaia come un’istituzione
inefficace in quanto non realmente capace di ottenere gli obiettivi che si prefigge. Tracciare la differenza non ha lo scopo di delegittimare l’EC e le buone
intenzioni che vi sono dietro, ma di suggerire di farne un oggetto di lavoro e di
riflessione con gli alunni. È in questa distanza tra i principi e i valori da una
parte e, dall’altra, le realtà che questi stessi principi e valori permettono di dire di queste realtà e di valutarle, che si colloca una riflessione sulla libertà, sull’azione, sull’iniziativa, sulla responsabilità, sul posto del cittadino in una società democratica.
La Scuola non può tutto, ancor meno in materia di formazione alla cittadinanza. Essa si trova in una società, in un mondo e ne vive gli effetti, le influenze, gli obblighi, le contraddizioni. Gli adulti che esercitano la loro professione nella Scuola non sono i soli a giocare un ruolo nell’educazione alla
cittadinanza degli alunni. Tutti riconoscono il ruolo insostituibile dei genitori
nell’educazione alla cittadinanza, ma anche il ruolo importante dei pari. La
Scuola dà il suo contributo, un contributo essenziale e specifico anche se spesso ritenuto modesto. Questo è specifico soprattutto per la sua durata, 9 anni di
Scuola dell’obbligo nella maggior parte dei nostri Stati e non “tutto e subito”,
per il suo spazio, all’interno della Scuola la vita non si organizza come nel resto della società, per il suo scopo primario, la costruzione di competenze e di
saperi riconosciuti come una base necessaria per l’inserimento sociale.
Nei curricula studiati abbiamo incontrato dei contenuti di formazione che
sono quelli più spesso menzionati sotto forma di elenchi, elenchi di obiettivi e
di intenzioni che lasciano una libertà più o meno grande a livello locale, elenchi di contenuti descritti più in dettaglio. Ma sempre, o quasi, elenchi che sono molto poco problematizzati.
Forse in questa caratteristica vi è l’effetto della funzione “ufficiale” di questi testi. Questi non sono lì per suscitare la controversia ma, al contrario, per
allontanarla, per tentare di presentare una scuola che riunisca; questi esistono
per portare l’accordo degli insegnanti, ecc. Perciò, al di là di questo effetto, ritiro da questo studio una forte impressione di ripiegamento o di prudenza in relazione al futuro con l’idea che l’astensione è preferibile a tutte le affermazioni potenzialmente conflittuali. I rischi di un tale atteggiamento sono già stati
sottolineati. Come per le pratiche, forse sarebbe utile interrogarsi su delle nuove forme di stesura di questi curricula.
Infine, tra ben altri temi la cui analisi sarebbe pertinente, concludo sottolineando questo paradosso tra l’educazione che comporta necessariamente una
parte di obbligo e di imposizione, e la libertà. L’una e l’altra sono movimenti,
presi nella storia di ciascuno, educazione scolastica che non dura che un tempo, formazione della persona che dura tutta la vita, libertà che è in costruzione permanente e non essenza o stato acquisito in un dato momento dell’esi120
stenza. Ma, allora, come valutare le competenze cittadine ed il loro apprendimento dal momento che ciò che è in questione è legato agli atteggiamenti ed
ai modi di relazione con gli altri e, per i nostri alunni, nel loro presente così come nel futuro della loro vita adulta?
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L’insegnamento per la cittadinanza europea
ELISA GAVARI STARKIE - JOSÉ LUIS GARCÌA GARRIDO
Introduzione
Nel corso degli anni il concetto di cittadinanza si è spesso dimostrato dinamico e problematico all’atto del suo inserimento in contesti storico-sociali. Le
origini di questo termine vanno ricercate in Grecia dove veniva usato per indicare la partecipazione alla vita pubblica. In età Moderna nasce il concetto di
cittadinanza nazionale vincolato alla nozione di Stato-nazione di radice liberale e a quello di patriottismo. Riferendoci alla nostra epoca più recente, in particolare agli anni Novanta, in un contesto caratterizzato dal fenomeno della
globalizzazione e dell’Unione Europea, vediamo emergere movimenti cittadini corrispondenti ad una società civile capace di superare le ampie frontiere
nazionali. Questi cambi hanno imposto una revisione del concetto tradizionale e nazionalista della cittadinanza creando la cittadinanza di Unione. Come
vedremo nel corso di questo lavoro, all’interno del progetto di costruzione di
un’ Europa unita, la cittadinanza e l’educazione europea hanno avuto uno sviluppo parallelo ma mai congiunto. Le autorità comunitarie si sono fatte eco di
questa mancanza, all’interno della tradizione della politica educativa europea,
tanto da proclamare il primo semestre del 2005 Anno dell’insegnamento alla
cittadinanza europea, al fine di stimolare la riflessione sull’identità europea e
sui valori su cui essa stessa poggia e di rafforzare il ruolo svolto dai sistemi
educativi europei e delle scuole impegnate nella loro diffusione. Riflettere su
questi punti è l’obiettivo fondamentale di questo lavoro.
L’insegnamento per la cittadinanza europea nel secondo dopoguerra
(1951-1980)
Nella prima metà del XX sec. l’Europa, coinvolta in due conflitti mondiali, vede gli Stati alleati combattere per difendere i propri interessi nazionali.
Per questo, nel 1945, distrutta ed annientata, l’Europa inizia a guardare alla pace ed al recupero economico come ai suoi due unici e principali obiettivi. Questi sforzi portano alla stesura dei Trattati Costituenti atti a regolamentare la
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cooperazione tra Stati sovrani creando così le Comunità Europee. Ad eccezione della proposta di una politica comune europea di formazione professionale,
questi testi non fanno però alcun riferimento all’educazione, né ad altri aspetti politici come la cittadinanza.
Alla fine degli anni Cinquanta, l’Europa entra in una fase di pieno sviluppo
economico. Questa situazione favorevole spinge a considerare la necessità di un
ampliamento all’interno della cooperazione tra più istituti quali la politica, l’educazione e la cultura. Si va formando una coscienza, sempre più crescente,
dell’importanza di creare un’identità ed un sentimento di appartenenza ai singoli Stati europei, così come di concedere diritti politici al cittadino europeo in
quanto tale. Uno dei testi in cui maggiormente si affronta tale tema è il trattato
Tindemans, del 1976, in cui ritroviamo il capitolo intitolato “L’Europa dei cittadini”. In esso vengono proposte una serie di iniziative quali: l’unificazione dei
passaporti, l’eliminazione dei controlli alle frontiere, e così via. Questo trattato,
che al momento della sua pubblicazione ebbe uno scarso successo tra i vari governi, si è andato accreditando negli anni proprio per il fatto di contenere in sé
programmi che hanno trovato attuazione in epoche più recenti.
Agli inizi degli anni Settanta, parallelamente al dibattito sulla cittadinanza
europea, vennero formulate le prime proposte relative ad un insegnamento europeo sopranazionale che non andasse ad interferire né collimare con l’insegnamento impartito dai sistemi educativi nazionali, considerati questi ultimi
sovranità dei singoli Stati. Le autorità comunitarie utilizzarono la strana
espressione “Dimensione europea dell’insegnamento” riferendosi ai provvedimenti educativi europei che dovevano svilupparsi seppur nel rispetto delle tradizioni e delle diversità dei sistemi educativi nazionali degli Stati membri. La
Dimensione europea aveva certamente ancora poca incidenza rispetto a qualsiasi altra politica pubblica ormai ampiamente definitasi a livello sopranazionale. I ministri dell’educazione europea riuscirono a trovare un accordo sui seguenti obiettivi da raggiungere a livello europeo (Etxeberria 2000: 21):
– miglioramento sul piano delle relazioni tra i sistemi educativi d’Europa;
– redazione di documenti e statistiche riguardanti il settore educativo europeo;
– aumento della cooperazione tra i centri di insegnamento superiore;
– riconoscimento della libertà di circolazione e dei professori, studenti e
ricercatori;
– miglioramento dell’insegnamento delle lingue straniere;
– maggiore riconoscimento accademico ai corsi di studio ed ai titoli conseguiti.
Queste proposte presero forma nel primo Programma di Azione della Comunità nell’ambito dell’Insegnamento permettendo numerose visite e scambi
tra docenti ed alunni di primaria e secondaria e l’inserimento, in corsi di studio e nelle attività scolastiche, di alcuni nuovi contenuti riguardanti il concet123
to d’Europa. Questi sforzi permisero ai cittadini che beneficiarono di questo
programma di ampliare la propria conoscenza dell’Europa e delle culture europee, ottenendo ottimi risultati. Ciò nonostante non si registrarono sviluppi significativi nella definizione di educazione europea, finalizzata alla formazione del cittadino europeo, né tanto meno si riuscirono a tradurre in realtà i contenuti concettuali, le attività ed i valori essenziali di questa educazione europea.
L’insegnamento alla cittadinanza europea negli anni del federalismo (1980-1990)
La seconda fase di integrazione europea si colloca negli anni Ottanta, anni
in cui la Comunità Europea perde l’aggettivo “economica” in favore del conseguimento di obiettivi di carattere politico.
Il progetto di integrazione degli Stati europei fece un passo in avanti e le
teorie circa l’interdipendenza degli Stati sovrani posero in secondo piano le
teorie della cooperazione. Le tesi federaliste cominciarono a raccogliere sempre più adepti fino ad arrivare alla presentazione, nel 1984, del primo progetto del Trattato d’Unione nel quale venne proposta per la prima volta la cittadinanza di Unione. Questo progetto non venne mai approvato. Ciò nonostante,
l’assunto riguardante la cittadinanza continuò ad essere oggetto di dibattito così come riscontrato nel Rapporto Adonnino del 1985. In questo documento si
insisteva sulla necessità di ridurre la distanza tra i cittadini e le istituzioni europee così come di democratizzare il processo di costruzione di una Unione
Europea. Si insisteva inoltre, sulla necessità di approvare provvedimenti atti a
potenziare l’immagine dell’Europa tra i cittadini nel tentativo di superare l’immagine tecnocratica ed economista che fino a quel momento era stata elemento predominante per la costruzione di una Unione Europea.
La questione riguardante il passaggio della Comunità Europea all’Unione
Europea e i diritti dei cittadini dovette fare spazio alle nuove proposte educative e culturali. Questo interesse per uno sviluppo più profondo della cultura
e dell’educazione si materializzò nella formulazione di numerosi suggerimenti, risoluzioni e dichiarazioni che si dimostrarono essere buoni propositi
in materia educativa. Sfortunatamente, da un punto di vista giuridico ciò non
portò a nessun passo in avanti non essendo tali disposizioni vincolanti per gli
Stati Membri. Tra queste segnaliamo la Dichiarazione di Stuttgart del 1983,
la Dichiarazione di Fontainbleau del 1984, e le Conclusioni dei Ministri dell’Educazione del 1985. Questi testi non portarono alcuna novità significativa
riguardo alla definizione di identità e cultura europee in modo da poter essere trasmessa ai cittadini degli Stati membri con il fine di rafforzare in essi la
propria identità europea. La politica educativa europea continuava a muoversi sempre nella stessa direzione, incentivando la conoscenza di altre culture
mediante programmi di scambio e cooperazione tra istituti e visite di alunni e
124
docenti. In questo periodo si può certamente constatare un aumento significativo del numero di programmi e progetti di scambio europei destinati a
rafforzare l’identità europea. Infine, bisogna segnalare che la Risoluzione del
Consiglio e dei Ministri dell’Istruzione del 1988, oltre ad includere le proposte già avanzate negli altri testi, si distinse per essere stata la più incisiva nel
perseguimento della dimensione europea; essa stabiliva, tra i tanti, i seguenti
obiettivi: “rinsaldare nei giovani il senso dell’identità europea ed illustrare loro il vero valore dell’educazione europea” così come “migliorare la conoscenza della Comunità e dei suoi Stati membri, nei loro aspetti storici, culturali, economici e sociali ed inculcare loro il significato di cooperazione non
solo tra gli Stati membri della Comunità Europea ma anche con altri paesi
d’Europa e del mondo”.
L’insegnamento alla cittadinanza nell’Unione Europea (1992-2000)
La terza fase della costruzione di un’Europa unita ebbe inizio verso i primi
anni Novanta e fu caratterizzata da fatti storici di massima rilevanza quali il
crollo del muro di Berlino, la caduta della cortina di ferro; la divisione della
Jugoslavia, la riunificazione della Germania ed il crack della borsa del 1987
che colpì il sistema monetario europeo. Questi fatti scatenarono tra i cittadini
europei e i partiti politici una serie di movimenti reazionari a carattere nazionalista-xenofobo. A ciò si univa una sensazione di perdita di uguaglianza giuridica, sociale, politica e culturale. In queste circostanze, così delicate, si percepì la necessità di creare un’Europa che costituisse una federazione di popoli differenti, desiderosi di dar origine ad una società che andasse oltre il corrispettivo di Stati-nazione. Questa società doveva caratterizzarsi dall’Unione dei
vari istituti: economico, politico, sociale e culturale.
Il concetto federalista di Unione si concretizzò con l’approvazione, nel
1992, del trattato di Maastricht. Questo stabiliva la base politico-legale della
cittadinanza europea e della cooperazione nell’ambito dell’insegnamento. Vennero così a stabilirsi i quatto diritti essenziali della cittadinanza europea intesa
“come complemento della cittadinanza nazionale”. Per ciò che concerne la politica educativa essa si tradusse nel concetto di cooperazione e completamento. Si rifiutò ogni forma di interventismo e di creazione di un ordinamento giuridico, da parte delle istituzioni comunitarie, che potesse imporsi alle normative nazionali. Questo fatto collocava la politica educativa europea in una posizione subordinata rispetto alle altre politiche europee capaci di poter intervenire nell’ordinamento giuridico nazionale. Ciò comportò che ciascuno stato
membro risultasse responsabile del contenuto e dell’organizzazione dell’insegnamento impartito dal proprio sistema educativo. Il ruolo dell’Unione Europea consisteva, dunque, nel contributo allo sviluppo di una educazione di qualità, nel promuovere la cooperazione tra gli stati membri, e nel caso fosse stato necessario, nell’appoggiare ed aiutare il loro operato. Tutto ciò si tradusse in
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sforzi volti a sviluppare una dimensione europea dell’insegnamento, compreso il fenomeno della mobilità e della cooperazione tra scuole e università. Il limite imposto a questa politica contrastava con ciò che succedeva, in quel periodo, alle altre politiche comunitarie che, attraverso l’imposizione normativa
da parte delle istituzioni comunitarie, venivano obbligatoriamente adottate dagli Stati all’interno del proprio ordinamento giuridico.
Malgrado tali vincoli, bisogna tener presente l’enorme valore riconosciuto
alla dimensione europea dell’insegnamento che, nonostante non riuscisse a definirsi, continuava a sopravvivere legato al concetto di apprendimento e diffusione delle lingue. Per tale motivo venne pubblicato nel 1993 il Primo libro
della dimensione europea della educazione nel quale veniva proposta l’idea di
una scuola che avesse come compito quello di aspirare all’insegnamento nel rispetto dell’uguaglianza delle opportunità; in autonomia di giudizio, di senso
critico e nella capacità di innovazione; consapevole della propria responsabilità all’interno di una società solidale. Nonostante tali buoni propositi la buona educazione del cittadino europeo continuava però ad essere misurata in rapporto al successo e al buon inserimento sociale e professionale dello stesso
piuttosto che ad aspetti legati ad un’identità europea. Successivamente, venne
approvato nel 1997 il Trattato di Amsterdam il quale, come il suo predecessore, raccoglieva in sé gli stessi punti riguardo all’educazione. In questo testo aumentò il riconoscimento dei diritti della cittadinanza sviluppandosi così una
nuova visione rispetto alla cittadinanza europea capace di mostrare un’Europa
in cui i cittadini erano protagonisti attivi, ancor più dei governi. A partire da
questo momento, la cittadinanza attiva iniziò ad essere considerata un elemento fondamentale per la costruzione di una Europa unita. Con l’obiettivo di voler promuovere questa nuova dimensione della cittadinanza europea vennero
pubblicati, a tale proposito, vari documenti e materiali tra i quali si ricorda
“L’insegnamento alla cittadinanza attiva” del 1998. In questo documento si insiste affinché i principi della cittadinanza europea “si basino sui valori della interdipendenza, uguaglianza di opportunità e mutuo diritto” (Commissione Europea 1998: 16). L’obbiettivo che si pretendeva perseguire era quello di far
prendere coscienza ai cittadini di essere persone autonome e critiche, partecipi e responsabili, capaci di creare una società caratterizzata dal rispetto dei
principi di democrazia, dei diritti umani, di pace, di libertà e di uguaglianza.
L’insegnamento alla cittadinanza europea nel nuovo millennio
Questo ultimo periodo, riguardante la costruzione di una Europa unita, è
caratterizzato dalla annessione di una grande quantità di paesi dell’Europa dell’Est all’interno della Unione Europea e dallo sviluppo della cosìddetta società
del sapere. In questo nuovo contesto, in particolare a partire dall’anno 2000,
l’educazione si mette al servizio dell’obiettivo strategico volto a convertire
l’Europa, entro l’anno 2010, “in una economia basata sul sapere, tra le più
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competitive e dinamiche del mondo, capace di crescere economicamente in
modo sostanziale grazie ad un sempre maggior numero di impieghi e con una
maggiore coesione sociale. L’educazione si converte in uno strumento fondamentale al servizio del fine menzionato e per la prima volta si delineano gli
obiettivi che i sistemi educativi nazionali degli stati membri della Unione dovranno sin da ora perseguire. Uno degli obiettivi più importanti è l’assunzione, lungo l’intero arco di una vita, del principio di educazione e formazione
tramite il quale si mira a migliorare la competitività, la capacità di impiego e
l’inserimento sociale dei cittadini, così come lo sviluppo della stessa cittadinanza attiva. Ciò presuppone lo sviluppo di un nuovo studio pedagogico riguardante tutti i vari livelli educativi basato sull’approfondimento delle conoscenze chiave quali: la matematica, la letteratura, le lingue straniere e le nuove tecnologie di informazione e comunicazione al quale si conforma la cittadinanza attiva. A ciò si uniscono importanti cambiamenti come l’inserimento
di nuove tecnologie di insegnamento, metodologie di apprendimento caratterizzate dalla flessibilità, l’aumento delle opportunità d’innovazione, ecc. Inoltre si impone ai sistemi educativi nazionali l’abbattimento delle barriere esistenti tra le differenti forme di apprendimento formale, non formale e informale. A partire dal Consiglio dei Ministri, celebrato nel 2000, si è andata
rafforzando la cooperazione e la convergenza dei sistemi educativi nazionali.
In tal senso è stato elaborato il programma dettagliato dei futuri obbiettivi dei
sistemi di formazione e educazione che si articolerà seguendo il metodo della
cooperazione. Ciò presuppone che tutti gli stati membri raggiungano all’interno del loro sistema educativo obbligatorio e post-obbligatorio dei livelli minimi di competenze chiave e che prevedano l’istituzione di indicatori atti a controllare l’andamento della cittadinanza attiva. A questo programma vanno aggiunti tutti gli sforzi fatti per la creazione dello Spazio Europeo di Educazione
Superiore a partire dall’approvazione della dichiarazione di Bologna che vincola l’insegnamento della cittadinanza europea all’apprendimento di una coscienza europea: “un’Europa del sapere è oggigiorno ampiamente riconosciuta come un fattore insostituibile per lo sviluppo sociale e umano e un indispensabile elemento atto a consolidare e arricchire la cittadinanza europea capace di dare ai cittadini le conoscenze necessarie per far fronte agli ostacoli del
nuovo millennio insieme ad una piena coscienza di condivisione di valori e di
appartenenza ad uno spazio sociale e culturale comune.
Questi documenti dimostrano che all’interno della politica di cooperazione
e convergenza dei sistemi educativi nazionali, la cittadinanza europea attiva è
considerata materia chiave nella società del sapere. In questo senso, a partire
dalla fine degli anni ’90, le autorità comunitarie hanno cominciato a riconoscere alla cittadinanza una rilevanza particolare, motivo per cui pare opportuna e coerente la decisione di mettere alla prova i cittadini europei, nel corso di
quest’anno e del prossimo, attraverso il voto per la ratifica del Trattato Costituzionale Europeo. Questo importante testo insiste sul principio che la politica
educativa si mantenga sulla linea della cooperazione però, a differenza di
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quanto accaduto negli anni passati, in questo si compie un passo in avanti rispetto alla problematica questione della identità europea sulla quale si basa la
cittadinanza dell’Unione. Nel primo articolo del Trattato Costituzionale si indica tra i valori comuni, capace di rendere uniti gli europei, il “Rispetto per la
dignità umana, la libertà, la democrazia, l’uguaglianza, lo stato di diritto e il rispetto dei diritti umani, inclusi i diritti delle persone appartenenti alle minoranze”. Viene inoltre detto che “questi valori sono comuni agli Stati membri in
una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dall’uguaglianza tra uomini e donne”.
Questo articolo segnerebbe la differenza che c’è rispetto alle altre potenze
mondiali, come per esempio la Cina, traducendosi nell’obiettivo di voler creare una armoniosa società socialista. A questi valori si unisce, nella II parte del
Trattato Costituzionale europeo, la Carta dei Diritti Fondamentali dei Cittadini proclamata a Nizza nel dicembre del 2000. Ciò inaugura l’inserimento, in
un Trattato europeo, di alcuni diritti e libertà quali il riconoscimento di associazioni o comunità religiose, così come la libertà di creare centri di insegnamento e il diritto dei genitori di educare i propri figli alla religione, considerando la religione stessa come uno degli elementi della tradizione europea. Il
fatto che non venga specificato di che religione si tratti permetterebbe di considerare una pluralità di religioni e l’adesione alla Unione Europea di paesi
quali la Turchia.
Il ruolo decisivo delle scuole europee nella formazione della complessa identità europea
Il cammino da percorrere per la costruzione di una unione europea e, inevitabilmente, di una cittadinanza europea è ancora lungo e l’insegnamento ricopre un ruolo cruciale in questo percorso. Il Trattato Costituzionale Europeo
fa, seppur piccolo, un passo in avanti nella definizione della problematica
identità europea. Questo testo stabilisce la pluralità culturale come base dell’identità europea, rifiutando l’omogeneità linguistica e culturale. L’identità europea risulterebbe caratterizzata da (Rodriguez 2002: 59):
1. una sorprendente diversità e ricchezza delle culture nazionali e regionali presenti all’interno di in uno spazio relativamente limitato;
2. uno sviluppo della cultura europea caratterizzato da un insieme di scambi realizzati attraverso dibattiti e controversie. Il nucleo dell’identità culturale europea risiede nella capacità di interrogare e riconsiderare tutte
le certezze.
Queste linee distintive dell’identità europea rendono difficile la difesa delle due teorie principali che si sono conservate sino ad oggi. La prima è quella
che impone un modello di tradizione culturale basato sull’Ebraismo, Cristianesimo e Umanesimo. La seconda è il principio costruttivista e modernista me128
diante il quale si pretende di voler conseguire l’edificazione culturale europea
basandosi sugli atti politici volontaristici in materia di plurilinguismo, insegnamento e Università.
A queste teorie si imputa la responsabilità di escludere dalla europeizzazione quegli immigrati già presenti in diverse nazioni europee ma che non partecipano a queste politiche comuni. Di fronte a queste due teorie Habermas ce
ne propone una terza finalizzata ad una società basata sulla democrazia liberale nella quale i cittadini devono essere leali e sapersi identificare non secondo
un’ identità culturale comune, bensì sulla base di principi costituzionali che garantiscano pienamente i loro diritti e libertà. Questa proposta coincide pienamente con il meglio della tradizione liberale e tollerante d’Europa fuggendo
dal nazionalismo assoluto.
Probabilmente la soluzione più prudente sarebbe quella di considerare tutte le opzioni. Ciò permetterebbe di riaffermare il fatto che se scomparissero
l’arte, la letteratura e la musica ispirate alla fede cristiana, scomparirebbe più
del settanta per cento del nostro patrimonio culturale. A questo c’è da aggiungere che determinati valori che si ritrovano nel Trattato costituzionale europeo,
come quello della dignità umana, pongono sempre al centro la persona umana
coincidendo dunque con la tradizione cristiana.
Conclusioni
Nel corso di questo lavoro si constata che lo sviluppo della cittadinanza e
la politica educativa non hanno seguito gli stessi modelli né si sono mossi all’unisono. Certo è che si è fatto un grande passo in avanti nello sviluppo di un
organismo, giuridicamente riconosciuto, di diritti capace di poter articolare il
concetto di cittadinanza. Ciò nonostante, tutto questo non è sufficiente per sviluppare il concetto di cittadinanza attiva. Il paradigma dominante nella educazione europea è l’apprendimento e la formazione percepiti nel corso di tutta
una vita, insistendo ad essere materie fondamentali per lo sviluppo della cittadinanza europea. I professori della scuole in Europa hanno un ruolo cruciale
nello sviluppo di esse. Inoltre, i percorsi di studio devono includere tutti quei
valori che si vanno proponendo nel Trattato costituzionale europeo. Nel caso
in cui questo testo venisse approvato, l’Unione Europea si erigerebbe a primo
attore di rilievo sulla scena internazionale, visto che più di 25 paesi oggi aderiscono liberamente ed in maniera democratica, riunendo più di 450 milioni di
cittadini. In questo nuovo aspetto giuridico, l’insegnamento della cittadinanza
europea deve essere tale da far sì che alle prossime generazioni non si presenti più il problema dell’appartenenza ad una città individualista, statale, europea
o globale, bensì che vengano identificate esse stesse come moltitudine di cittadini che vivono nel territorio dell’Unione Europea. I cittadini europei, inclusi gli immigrati che vivono in Europa, devono vivere insieme pur essendo diversi e partecipare attivamente alle decisioni politiche che li riguardano.
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130
Educare alla cittadinanza, educare all’Europa nell’era
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ROSETTA FINAZZI SARTOR
Qualche annotazione preliminare
Se a titolo introduttivo analizziamo in forma semplificata il significato del
termine “cittadinanza” il Dizionario Enciclopedico Italiano1 ci suggerisce che
esso designa: a) il vincolo di appartenenza ad uno Stato o del pari, in senso figurato, sempre allorché viene segnalata l’appartenenza con l’uso di frasi quali “dare la cittadinanza, acquisire la cittadinanza”. Tali locuzioni si possono
usare anche con riferimento a parole o modi di dire di origine straniera che siano entrati largamente nell’uso e si possano perciò considerare parte del patrimonio linguistico nazionale o, a idee, costumi ecc. di provenienza straniera
ormai largamente diffusi e acquisiti. Nell’uso comune il termine può anche b)
designare o riferire dell’appartenenza di un individuo ad una città. Questo titolo di appartenenza ad una città, che non sia la città di nascita, può venire concesso per particolari meriti a coloro che li hanno raggiunti con il lavoro, con la
loro attività e acquisiti in vari campi (letterario, artistico, medico, ingegneristico ecc.) e di conseguenza a coloro che hanno apportato alla cittadinanza di
nuova residenza fama, dignità e prestigio. In araldica, nei secoli antichi veniva
riconosciuto – sempre per meriti illustri – il diritto ad usare uno stemma con la
città. L’Università degli Studi di Padova, nell’antico cortile del Bo offre alla vista dei visitatori gli stemmi depositati fin dal Medioevo da studenti provenienti da vari Paesi dell’Europa a testimonianza dell’eccellenza degli studi e della
ricerca scientifica di quella Università e a colleganza di intenti e progetti culturali tra due città e, quindi, tra due nazioni e popoli europei per legami comuni
e comuni cooperazioni come testimonianza che la cultura può superare le frontiere e diventare patrimonio dell’umanità.
Sempre per rimanere ad alcune osservazioni introduttive si può ricordare
come l’essere cittadino, in quanto abitante della città e partecipe della città, im1 Dizionario Enciclopedico Italiano – Istituto della enciclopedia italiana – Roma, Vol. III,
1956, voce “Cittadinanza”. I successivi aggiornamenti del D.E.I. (Appendice V, 1979-1992)
non hanno apportato sostanziali modifiche alla suddetta voce.
131
plica (il latino cives anche nella derivazione indoeuropea della parola si riferiva all’insediarsi in un territorio) l’appellarsi ad un diritto. La cittadinanza può
dunque essere originaria perché acquistata con la nascita iure sanguinis o derivata, iure soli perché legata all’insediamento o all’essere nati in un territorio.
I due aspetti contemplano, comunque, una appartenenza che dal vincolo di appartenenza fa conseguire il godimento di diritti e l’assoggettamento a particolari oneri; soltanto, in senso figurato, il diritto di appartenenza è dovuto a particolari peculiarità o benemerenze, mentre ad esempio, nel linguaggio figurato, si poteva contrapporre il cittadino al rustico o, nel dialetto, al campagnolo.
Nella Roma antica si indicava il civis come colui che godeva intra muros la
pienezza dei diritti e peregrinus colui che dimorava transitoriamente o era di
passaggio nella città. Concetti ripresi al sorgere della città comunale nel tardo
medioevo.
Già nell’antica Grecia nella definizione erodotea della città quale sede del
modello ideale di democrazia il tovgo~ corrispondeva essenzialmente, per i cittadini, alla loro partecipazione della cosa pubblica, alla guida e alla responsabilità nella conduzione della città. Da cui l’esilio come condanna. La rinuncia
alla fuga dichiarata da Socrate nell’Apologia e nel Critone rispecchia, oltre ad
un insegnamento morale, una condizione giuridica di appartenenza e di tradizioni: lo straniero non è cittadino. Ai discepoli e ai cittadini della sua città che
l’hanno condannato ed a coloro che l’hanno assolto egli così si rivolge: “Chiederò allora l’esilio? E forse è questa la pena che voi vorreste assegnarmi […].
E bella vita, invero, verrebbe ad esser la mia, a questa età, uscir fuori di patria
e andare in giro di città in città, cambiando sempre, cacciato via da ogni luogo!”.
Colui che non è cittadino non è inserito nella comunità ed è assolutamente
indifeso.
L’essere cittadini del mondo nella scuola dell’epicureismo nei primi secoli
dell’era cristiana significava anche totale rinuncia del potere e della competizione politica. Nel periodo ellenistico il grandioso libro murale fatto costruire
da Diogene di Enoanda in Asia minore e recentemente scoperto in scavi archeologici, riporta in vari frammenti un messaggio del filosofo ai concittadini,
sintesi del suo pensiero rivolto a tutti, greci e “barbari”, poiché tutti gli uomini sono cittadini del mondo. L’unica patria è il mondo: “E senz’altro noi facciamo tutto questo anche per i cosiddetti stranieri, che in realtà non sono tali:
perché, secondo ogni singola suddivisione della terra, ognuno ha la sua patria,
ma, rispetto all’intero complesso di questo mondo, unica patria di tutti è la terra ed unica dimora è il mondo”2.
2
Giovanni Reale – Dario Antiseri – Mauro Laeng, Filosofia e pedagogia dalle origini ad
oggi, Brescia, Editrice La Scuola, 1985, vol. I, p. 216.
132
Perché l’Europa? Dubbi e interrogativi
Sul significato odierno di cittadinanza è difficile prescindere dal vasto lavoro di Pietro Costa pubblicato dall’Editrice Laterza in una serie di volumi
usciti a stampa quasi contemporaneamente tra il 1999 e il 2001.
Si parte in Civitas – Storia della cittadinanza in Europa dal medioevo; nel
periodo dei Comuni dalla civiltà comunale e si ripercorre il pensiero politico,
giuridico, storico, sociale di vari secoli: il Rinascimento, le nuove sovranità, il
Sei-Settecento e si arriva nel quarto volume a L’età dei totalitarismi e della democrazia.
Per l’A. il termine cittadinanza è un termine che “da qualche tempo gode di
una crescente fortuna non solo nel lessico filosofico o sociologico, ma anche
nel dibattito politico e nella stampa quotidiana. Il successo della parola coincide con un processo di più o meno consapevole estensione del suo campo semantico: da espressione impiegata semplicemente per descrivere la posizione
di un soggetto di fronte a un determinato Stato (rispetto al quale si è appunto
o cittadini o stranieri)” o ad un concetto di cittadinanza che tende “a divenire
un crocevia di suggestioni variegate e complesse che coinvolgono l’identità
politico-giuridica del soggetto, le modalità della sua partecipazione politica,
l’intero corredo dei suoi diritti e dei suoi doveri”3. Secondo il Costa non siamo
– per quanto concerne il termine ed il suo significato – di fronte ad una moda
passeggera: il termine si propone come una delle parole chiave del lessico e del
pensiero filosofico-politico odierno. Esso rientra in quella complessa operazione di ridefinizione ed estensione del quadro concettuale e sociale in cui viene usato e, nel contempo, si presenta nei confronti della comunità politica contemporanea con la possibilità di valutare atteggiamenti e comportamenti che
riguardano la stabilità dei rapporti diretti dei cittadini con gli Stati nazionali;
ovvero come una forza e nel contempo una limitazione. Di qui il riferimento
ad organismi internazionali che sovrastano intere popolazioni. Viceversa si
parla di “unità di raggio minore” alle quali danno connotazione spinte fortemente decentranti, unità che appaiono animate da entità disgregatrici destinate a determinare un fatale declino, il particolarismo dissidente piuttostoché avvalorare i differenti aspetti dell’identità europea. Si offuscano le grandi idee e
le possibilità della loro realizzazione?
Bogdan Suchodolski riteneva che i criteri pragmatici ed utilitari debbano
essere completati dai valori umani poiché la fonte di questi valori si trova “nella diversità delle culture e nella loro tradizione, nell’accettazione creativa dei
valori diversi di vita”4. Sempre Suchodolski, grande pedagogista del nostro
3 Pietro Costa, Civitas – Storia della cittadinanza in Europa, Bari, Editrice Laterza, 1999.
Introduzione, p. VII.
4 Bogdan Suchodolski, Europa: i pericoli dell’integrazione, in Cultura e formazione umana nel pensiero di Bogdan Suchodolski, Atti, Convegno di studi ottobre 1993, a cura di R. Finazzi Sartor, Padova, CNR Coop. Tip., 1996, p. 151.
133
tempo, a lungo vissuto nello spartiacque est-ovest (nato nella russa Sosnowiec
diventata polacca al termine della prima guerra mondiale) e profondo conoscitore dall’osservatorio polacco, Varsavia, degli Stati dell’est e dell’ovest negli
anni ’90, in uno dei suoi ultimi scritti Europa: i pericoli dell’integrazione5
esprime la sua perplessità e preoccupazione nei confronti di movimenti separatisti che rispetto ad una cultura europea di forte unità sociale educativa ed
economica tendono al particolarismo, alla frammentazione, ad un localismo
folcloristico. Questo scritto va letto nell’ambito del pensiero complessivo di
Suchodolski e in particolare in riferimento diretto all’opera Educazione permanente in profondità nella quale come nella Anthropologie philosophique
parla di quanto lungo e difficile sia il cammino dell’uomo, come possa essere
ingannato da una falsa coscienza che gli oscura la finalità del suo essere uomo.
Diverso parlare di protezione delle minoranze. La protezione delle minoranze è importante, implica una rete di rapporti fiduciari e creativi che salvaguardino tradizioni, lingua, costumi ponendo in essere legami giuridici con la
più vasta comunità. In molti Paesi europei proseguono i processi di decentramento e attribuzione a organismi regionali di particolari forme di autonomia.
A questo scopo, nell’ambito della Comunità europea, si sta elaborando6 se dare rilevanza ad un vero e proprio organo comunitario attraverso il quale le rappresentanze dei diversi enti territoriali minori rendano “visibili” le proprie esigenze ed aspettative rispetto all’evoluzione del processo comunitario. Non si
trascuri tuttavia come la diversità quale spinta periferica divergente, quale
spinta centrifuga che tende a composizioni frastagliate e che costringe ad una
variegata diversità di riconoscimenti ed assetti statuali possa pregiudicare il lavoro comunitario qualora siano disattese le procedure e le dinamiche democratiche rappresentative della forza coesiva dell’Unione Europea.
Jürgen Habermas intitola una delle sue ultime opere L’occidente diviso7;
oggi è in gioco il progetto kantiano dell’abolizione dello stato di natura fra gli
Stati poiché la politica statunitense sembra ignorare la tradizione illuministica
alla quale attinsero le correnti pragmatistiche americane e trasse fondamento
la Dichiarazione universale dei diritti umani. Da questa premessa scaturiscono due interrogativi: il primo se “la costituzionalizzazione del diritto internazionale [abbia] ancora una possibilità”; il secondo riguarda l’identità europea:
la creazione di un’identità europea è necessaria e possibile? Scrive Habermas:
“la forza dissociante delle divisioni tra storia ed esperienze storiche nazionali,
5 Il saggio è stato reso noto e letto da Irena Wojnar nei primi giorni di ottobre del 1992 al
Convegno organizzato dalla Scuola Superiore di Bydgoszcz nel nord della Polonia a pochi
giorni dalla scomparsa dello studioso.
6 Una costituzione per l’Europa? Potenzialità e limiti del nuovo ordinamento dell’Unione,
a cura di Federico Petrangeli, Roma, EDS, 2004.
7 Jürgen Habermas, L’occidente diviso, Laterza, Bari, 2005, ed. orig.: Der Gespaltene Westen, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, 2004.
134
che percorrono il suolo d’Europa come fratture geologiche non si è ancora
spenta”8.
Per il filosofo tedesco il problema fondamentale ed il conseguente interrogativo non riguarda tanto l’identità europea e se c’è una identità europea (la
perdita della memoria storica sta investendo non soltanto la classicità ma l’intero passato, fatto preoccupante soprattutto per i giovani e per la loro formazione) ma se al di là dei confini nazionali “si possa dispiegare l’autonoma dinamica della comune creazione di un’opinione e una volontà politica su temi
europei” discorso politico ma i cui presupposti sono sociali ed educativi. La
possibile estensione al di là dei confini nazionali di una civica solidarietà e riconoscimento di leggi sopranazionali si attua con un percorso progressivo e
continuo, richiede costante impegno e responsabilità dei singoli individui e
della comunità nazionale.
La presa d’atto di contrasti radicati nella società e negli Stati dell’Europa
deve far riflettere, come del pari il controverso traguardo della unificazione europea possa in qualche modo attuarsi con una progressiva consapevole intesa
tra i cittadini. Una identità politica dei cittadini, condizione per un tessuto
identitario comune, si crea soltanto in uno spazio pubblico transnazionale.
“Questa creazione di una coscienza si sottrae all’intervento elitario dall’alto e
non si può ‘effettuare’ mediante decisioni amministrative come il traffico di
merci e di capitali nel comune spazio economico e monetario”9. Le modalità
dell’itinerario percorribile implicano di necessità un percorso educativo la cui
durata non può essere misurata.
La letteratura sull’argomento: Europa – identità – partecipazione è molto
vasta a significare della rilevanza e dell’attualità del discorso. Ralf Dahredorf
parlava di quadratura del cerchio alla soglia del terzo millennio per la sfida a
combinare benessere economico, coesione sociale, libertà politica; condizioni
– quando emergono divergenze della prospettiva di vita in ampi strati della popolazione – che appaiono indispensabili a dare consistenza se non legittimità
all’essere cittadini partecipi e non individui emarginati. Il pensiero di Dahrendorf che ha come ascendenti diretti Alexis de Toqueville e John Maynard Keynes offre una immagine forte. La “quadratura del cerchio” riguarda la possibilità di coniugare l’efficienza e la competizione globale con le premesse del
pensiero liberale e della democrazia, riguarda la possibilità di coniugare forze
produttive e nuove tecnologie con istituzioni politiche, libertà individuale e benessere della comunità. La massificazione dell’individuo è in agguato. Occorre vincerla con strumenti idonei: non è esente adeguata e corretta informazione, accanto a convergenze di idee democratiche e stato di diritto ed, aggiungiamo, impegno e responsabilità educativa.
Perché dunque l’Europa? Perché operiamo per una unificazione dell’Europa? Ralf Dahrendorf afferma che “può darsi benissimo che ci sia riservato uno
8
9
Ibidem, p. 69.
Ibidem, p. 70.
135
spaventoso risveglio, se non ci riesce di realizzarla”10. Egli auspica, dunque,
una conclusione positiva, ammette che la politica interna sta compiendo dei
progressi ed irrompe una nuova primavera europea. L’aver sbagliato con dubbi
e pressanti interrogativi sarebbe, confessa, colui che si è definito un europeista scettico, assai gratificante.
L’approvazione della Costituzione europea, varata in prima istanza il 18
giugno 2004 e in seconda istanza a Roma il 29 ottobre 2004, è condizionata
ad una duplice conferma: quella parlamentare e quella referendaria. Il testo
della Costituzione, circa 800 pagine, è molto tecnico. Alcuni Stati europei
hanno scelto la prima forma di approvazione, altri la seconda. Attualmente in
Francia è in atto un dibattito capillare con quotidiani, associazioni professionali, canali televisivi, ecc. Uno dei padri laici della redazione del testo costituzionale Jacques Chirac si impegna nel maggiore canale televisivo francese
TF1 (14 aprile 2005) in una discussione con studenti, laureati, giuristi per
l’adesione o meno (oui – non) al testo costituzionale. Sono stampati a migliaia per le scuole e le maggiori istituzioni col simbolo stellare della bandiera dell’Europa unita dépliant e fascicoli con i passi essenziali della Costituzione.
La redazione del testo della Costituzione è stata, a sua volta, preceduta da
ulteriori dibattiti dai quali affiorava la preoccupazione circa la situazione spirituale, politica dell’occidente, dell’Europa odierna ed anche “circa le cause
che l’hanno determinata e i rimedi prevalentemente culturali che potrebbero
migliorarla”11. Sono da ricordare a questo proposito le conferenze di Marcello
Pera e Joseph Ratzinger (eletto in questi giorni papa con il nome di Benedetto
XVI) raccolte nel volume Senza radici che porta come sottotitolo Europa, relativismo, cristianesimo, Islam. Vengono riassunte concettualmente le dinamiche culturali e politiche dell’Europa laica e religiosa evidenziando come la civiltà dell’Europa abbia espresso dal diritto, all’arte, alla filosofia, la sua componente fondamentalmente cristiana. Pittura, architettura, urbanistica, letteratura ne sono testimonianza. Tutto questo fa parte della civiltà dell’Europa e non
può essere dimenticato.
Memoria e identità ha intitolato Giovanni Paolo II il libro che ripercorre le
sue esperienze di vita e di cammino religioso e sacerdotale in un insieme di
“conversazioni” come ha voluto definirle, soffermandosi a riflettere sui “fenomeni del presente alla luce delle vicende del passato”12. In tali vicende egli ha
cercato di scoprire le radici di quanto accade nel mondo di oggi per poter offrire ai suoi contemporanei, attraverso una rivisitazione della memoria, la possibilità di avere una più viva coscienza della propria identità. Quella che nel
10 Ralf Dahrendorf, Perché l’Europa? Riflessioni di un europeista scettico, Bari, Laterza,
1997, Prefazione, p. VI.
11 Marcello Pera – Joseph Ratzinger, Senza radici, Milano, Mondadori, 2004, Premessa, p.
3.
12 Giovanni Paolo II, Memoria e identità, Milano, Rizzoli, 2005.
136
passato fu tremenda violenza, oggi non manca: si estendono nel mondo le reti
del terrore, minaccia continua di vite innocenti. L’assurdità della violenza le
cui cause sono molteplici possono essere vinte col bene. E Giovanni Paolo II
cita a questo proposito il Faust di Wolfgang von Goethe e rammenta le parole
di San Paolo che ammonisce: “Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il
bene il male”. Il cristianesimo e la riflessione teologica hanno offerto nella luce della Rivelazione e della dottrina le ragioni ultime della vittoria del Bene sul
Male. Quanto dobbiamo nella nostra cultura e nella nostra identità alle parole
del Vangelo e della tradizione religiosa e cristiana?
La vittoria del Bene sul Male non esclude le altre religioni ma (a difesa di
uno scontro di civiltà) il dialogo interreligioso offre possibili spazi e vie di riscontro e di comunicazione se non di salvezza. Essere uomini, riscoprire la
propria identità significa crescere nel bene e nella verità poiché questo è il fine ultimo dell’umanità tutta.
Sulle radici cristiane dell’Europa gli incontri della quarantaquattresima settimana dei cattolici italiani, svoltasi a Bologna nell’ottobre 2004 sul tema La
democrazia: nuovi scenari, nuovi poteri ha aperto un dibattito; il dibattito si è
impegnato su vari fronti: sociale, politico, filosofico con relatori di alto livello. La mancanza dell’auspicato riferimento alla tradizione cristiana rappresenta un aspetto deficitario nell’ambito del Preambolo della Costituzione europea
che purtuttavia assume come essenziali i valori laici che dopo la Rivoluzione
francese di fine Settecento la costituzione francese assunse come propri: uguaglianza, libertà, fraternità. Su questi il cittadino doveva essere educato e nel rispetto di tali valori costruire la società postrivoluzionaria i cui poteri partissero dal basso per una autentica libertà.
Sempre sulle radici cristiane in riferimento alle prime elaborazioni della
Costituzione europea il cardinale Paul Poupard, autore del monumentale Dizionario delle Religioni (che fornisce gli strumenti di cui la scienza delle religioni oggi dispone), commentando13 sia l’allargamento a 25 Paesi entrati nella Comunità europea, sia il debole riscontro nelle votazioni dei singoli nuovi
Paesi entrati nella Comunità si duole dello scarso spirito comunitario osservando come l’aspetto economico e la votazione allargata non siano sufficienti
a fare l’Europa comunitaria. L’arte, la filosofia, la letteratura, il diritto nell’Europa dei secoli passati richiamano e si richiamano al cristianesimo; persino l’urbanistica che pose agli albori della civiltà medievale la Chiesa e l’Università nelle maggiori città dell’Europa come due centri e poli di riferimento e
di cultura per i cittadini. La Centesimus annus insiste perché una “democrazia
sostanziale” recuperi la dimensione etica per lo sviluppo integrale della persona. Una autentica democrazia “è possibile solo in uno Stato di diritto e sulla
base di una retta concezione della persona umana”.
Il francese e cattolico Jacques Maritain nel rispetto delle diverse culture e
13
Le radici cristiane dell’Europa, Bologna, Arte, settembre-ottobre 2004, pp. 11-15.
137
religioni nella Introduzione ai testi raccolti dall’Unesco Dei diritti dell’uomo14
a seguito della 2° sessione della Conferenza generale dell’Unesco a Città del
Messico ritiene possibile stabilire nel campo delle asserzioni pratiche un accordo su una dichiarazione comune “mediante un avvicinamento più pragmatico che teorico” trovando punti di convergenza pratica nonostante le opposizioni tra prospettive teoriche.
Educare alla cittadinanza, educare all’Europa
nell’era della globalizzazione
La ratifica popolare della Costituzione adottata in vari Paesi europei soprattutto attraverso il referendum dovrebbe essere l’occasione di una collettiva
presa di coscienza su un evento che dovrebbe sancire l’affermazione: siamo
cittadini dell’Europa. A questa affermazione vanno ricondotti i compiti educativi che si auspica siano in grado non soltanto di esprimere un giudizio complessivo sui contenuti del trattato costituzionale (sicuramente molto impegnativo ed oneroso anche soltanto a livello di pura informazione) ma sul cammino storico, giuridico, economico e culturale che ha impegnato per decenni eminenti politici e studiosi dei vari Stati dell’Europa.
È stata fissata una giornata commemorativa a ricordo della Dichiarazione
del 9 maggio 1950 dell’allora Ministro degli Esteri Robert Schuman che diede inizio al processo di integrazione europea sull’auspicio della pace dopo il
secondo conflitto mondiale: “La pace mondiale non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano. Il contributo che un’Europa organizzata e vitale può apportare alla civiltà è indispensabile per il mantenimento di relazioni pacifiche. […] L’Europa non potrà
farsi in una sola volta, né sarà costituita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto”.
Allora, negli anni ’50, si costituì il primo nucleo concreto di una “Federazione europea indispensabile al mantenimento della pace” su basi collaborative “mettendo in comune le produzioni di base” e realizzando “una fusione di
interessi necessari all’instaurazione di una comunità economica [introducendo] il fermento di una comunità più profonda tra Paesi lungamente contrapposti da sanguinose scissioni”15.
La seconda metà del secolo XX ha visto a tutela dei cittadini dei vari Stati
europei e a tutela del principio di uguaglianza: il diritto al lavoro ed alle libertà
sindacali, l’affermazione dei diritti della persona, la sovranità popolare e i poteri dello Stato passando al vaglio del pensiero giuridico e politico le norme
14 Dei diritti dell’uomo, Edizioni di Comunità, Milano, 1952. Vedi anche Sofia Corradi,
La valenza educativa dell’ordinamento giuridico, in Educazione degli adulti e comunità familiare, Roma, Editrice Bulzoni, 1975.
15 Europa. L’UE in sintesi. Dichiarazione di Schuman del 9 maggio 1950.
138
che fondano lo Stato di diritto e lo tutelano in vista della partecipazione consapevole di ciascuno e di tutti alla vita civile quale universale diritto.
Su queste basi si è operato affinché dall’instaurazione di una comunità economica si sia potuto creare e successivamente costituire tra i vari Stati che rientrano nella Comunità europea un particolare ordine giuridico di cui i loro singoli cittadini possano avvalersi (sia di fronte ai giudici nazionali sia di fronte a
quelli europei). Per ciò che concerne i cittadini dell’Unione e per quanto essi
possano beneficiare per il gran numero di diritti riconosciuti (libertà di pensiero e di associazione, mobilità nella professione, diritto allo studio e comparazione e riconoscimento dei titoli, salute, ambiente ecc.) la cittadinanza europea potrà dare positive garanzie a patto che di fronte ai nuovi assetti costituzionali prevalga qualità dei rapporti, conoscenza e consapevolezza “politica”.
Difficile stabilire esattamente quali vie siano le più proficue e necessarie
per acquisire i principi guida del nuovo patrimonio costituzionale che dovrà essere conosciuto, condiviso ed attuato dalle cittadinanze dell’Europa.
Negli ultimi anni le nuove forme associative dei movimenti sociali si sono
cimentate in approcci critici ai processi di globalizzazione neo-liberista, al ripetersi di guerre ed atti terroristici in varie parti del mondo. I problemi odierni da affrontare sono molteplici e non facilmente risolvibili. Stabilità, crescita,
risorse disponibili, inquinamento, sviluppo sostenibile, sovrappopolazione si
collegano a situazioni conflittuali che appaiono permanenti. Quanto spetti all’Europa e come possano i diritti fondamentali essere salvaguardati perché siano salvati i valori supremi non solo della civiltà europea ma quelli che riguardano il nostro pianeta e la sopravvivenza dell’uomo sulla terra comporta in definitiva fiducia nelle responsabilità umane nel senso di comunità e nello spirito di cooperazione.
Nell’opera precedentemente ricordata Educazione permanente in profondità16 Bogdan Suchodolski estrinseca la sua speranza di educatore e di studioso: “Divenire uomo – ecco il significato più profondo dell’educazione permanente, anche nel nostro mondo in cui l’esistenza umana è limitata al compimento di ruoli sociali e di funzioni, l’uomo è sottomesso alle esigenze delle cose e ai suoi redditi, e le relazioni interpersonali sono dominate dalla forza e dalla violenza. Come creare condizioni favorevoli affinché gli uomini divengano
uomini: questo è un grande compito della politica sociale ed economica, della
politica culturale ed educativa, ed anche soprattutto di quella politica che deve
vegliare sulla pace del mondo”.
16
Bogdan Suchodolski, Educazione permanente in profondità, Traduzione e prefazione a
cura di R. Finazzi Sartor, Padova, Imprimitur, 2003, 2° edizione, p. 201.
139
Scuola, convivenza civile e interculturalità
LUISA SANTELLI BECCEGATO
“Una volta assaporati i frutti del comprendere, gli studenti saranno motivati a restare ‘cacciatori di sapere’ - e forse anche ‘creatori di sapere’ – per il resto della loro vita”
H. Gardner, Sapere per comprendere
L’interculturalità tra significati di fondo ed esperienze educative
L’Ottocento e i primi decenni di questo secolo hanno visto nascere e
diffondersi la coscienza dei problemi del proletariato e le lotte di classe; dalla seconda metà del XX secolo si è posto sempre più decisamente il problema
della coscienza della povertà nel mondo, della presenza di un nuovo proletariato non più circoscritto all’interno delle città o delle campagne, ma proveniente da tutte le aree economicamente deboli e demograficamente forti del
pianeta.
In maniera evidente risultano le fratture tra Nord e Sud, tra Est e Ovest del
mondo, ma le fratture sono ovunque e hanno la loro matrice nella ricerca di un
migliore livello di qualità della vita. Una dinamica, questa, particolarmente dirompente che può esplodere in maniera drammatica se non si riuscirà ad assumere una cultura – sul piano personale e a livello politico, sociale, economico
– capace di dialogare, riconoscendo le legittime aspettative dell’altro e intenzionata a procedere in termini di collaborazione e di intesa.
Certo non è solo questo il motivo per cui si è aperto nella riflessione pedagogica il capitolo dell’interculturalità, che assume significati ben più ricchi ed
estesi di quelli ora richiamati, ma non si può assolutamente sottovalutare l’incidenza che tali dinamiche hanno nel tempo presente e il ruolo che giocheranno nel prossimo futuro.
L’interculturalità non è un atteggiamento ‘spontaneo’, anzi spontaneo è il timore o la vera e propria paura del diverso. È invece qualcosa da costruire e sostenere sulla base di conoscenze e di convinzioni attraverso un’analisi rigorosa e un impegno morale; interculturalità non significa appartenere a più culture senza riconoscersi in nessuna: è proprio il senso della personale identità che
140
consente di riconoscere nell’altro, qualunque sia la sua provenienza, uguali diritti e doveri.
Educazione interculturale non significa educare a un generico cosmopolitismo dove tutto si appiattisce e si confonde. Significa comprendere con chiarezza le dinamiche, le capacità e i limiti individuali e sociali; significa innanzitutto conoscere la storia del proprio Paese, sapere quello che si è compiuto e
quello che si vuole ancora compiere e avere consapevolezza di come sviluppo
e progresso comportino il superamento, lento e difficile, all’interno e all’esterno del proprio Paese, di particolarismi e separazioni. Essere consapevoli
della propria identità, come persone e come cittadini, e non ignorare l’identità
degli altri, come persone e come cittadini, apre a una possibilità di dialogo,
scuote da chiusure egoistiche e da valutazioni parziali per cercare di sostenere
un progetto di possibile convivenza.
Educazione interculturale non significa veicolare una stereotipata idea di
tolleranza o dedicare alcuni momenti celebrativi ai temi della pace, della non
violenza, dell’integrazione, dello sviluppo. Significa invece fare, come legislatori e politici della scuola e come insegnanti, un preciso lavoro a livello programmatico, curricolare, motivazionale, cognitivo, etico e sociale.
È necessario capire e far capire alle nuove generazioni che noi tutti ormai viviamo una storia complessa, in territori di frontiera: non esistono ‘nicchie’ geografiche e sociali in cui ripararsi e sentirsi protetti, così come non esistono identità ‘pure’ da privilegiare e valorizzare. Pensare diversamente significa fare degli errori non solo sul piano etico quanto su quello cognitivo; non esplorare adeguatamente questo tipo di problemi significa preparare un futuro di sofferenze.
Capire che oggi, noi che viviamo in società in movimento e immersi in un
bagno di informazioni, siamo tutti “des métis de culture si non de sang”1 può
aiutare ad incontrare l’altro superando resistenze e pregiudizi e a cercare i possibili tratti comuni.
L’educazione interculturale non va né nella direzione dell’assimilazione, né
in quella dell’integrazione. Il suo vero avvio è nella coesistenza delle diversità,
che può aprirsi o meno dichiaratamente alla costruzione di nuove identità personali e sociali; l’obiettivo che cerca di raggiungere è la cooperazione; l’ideale che la ispira la costruzione di una società solidale (e quindi l’unica veramente decente)2.
C’è bisogno di una educazione interculturale per non giungere impreparati
alle nuove domande sociali di cui si decifrano i contorni, ma per le quali le risposte sono ancora tutte aperte e possibili. C’è bisogno di un’educazione interculturale ‘militante’: forse solo la scuola, con la sua attività cognitiva e il suo
impegno formativo, può agire in modo da portare verso soluzioni di collaborazione e di intesa fra culture diverse, essere in grado di superare blocchi con1
G. F. Tchicaya U Tam’Si in “Le Monde”, 14 luglio 1980.
L’espressione – come è noto – è di I. Berlin in Il legno storto dell’umanità, trad. it., Milano, Adelphi, 1994.
2
141
cettuali e resistenze emotive, porre le basi per un modo di pensare e di agire
aperto e collaborativo. Dall’esperienza scolastica dovrebbe poter emergere con
chiarezza che ogni costruttiva dinamica relazionale e sociale ha alla sua base
due ragioni ‘forti’: la differenza e il dialogo.
È possibile affermare che dal punto di vista normativo la nostra scuola risulta pedagogicamente avanzata. La normativa vigente, le attuali Indicazioni
Nazionali e le Raccomandazioni sostengono dichiaratamente una formazione
individuale e un disegno sociale aperto, collaborativo, solidale; i suggerimenti
provenienti dalla normativa secondaria, le pronunce del C.N.P.I., quale organo
altamente rappresentativo dell’istituzione scolastica, tracciano linee di sviluppo flessibili, accoglienti, attente al rispetto alla valorizzazione della diversità.
È però necessario chiedersi quali siano le risorse che, in questa prospettiva,
vengono attivate; quali i punti di riferimento organizzativi e didattici; quali le
condizioni previste e predisposte dai dirigenti scolastici, dagli Enti locali per
favorire la traduzione operativa dei principi indicati.
C’è da osservare peraltro che educazione interculturale e presenza di alunni stranieri pongono due ambiti di questioni con propri caratteri e particolari
sviluppi e difficoltà. Una questione non si risolve nell’altra. L’integrazione di
alunni stranieri è una situazione scatenante che ha innescato un problema molto più esteso, comprensivo di una certa idea di società, di un modo di interpretare la scuola e la sua funzione, qualificante gli stessi significati di educazione e cultura che vengono così caricati di una valenza che tocca le radici dell’uomo e della storia.
L’educazione interculturale si configura infatti come una dimensione che
contrassegna l’attività della scuola in quanto tale, impegnata a procedere in termini integrali e integranti. La presenza di alunni stranieri, le loro ‘carriere’ scolastiche, i loro successi e i loro fallimenti possono essere assunti come ‘verifica’ delle effettive capacità della scuola di agire in termini interculturali (e il fatto che i fallimenti siano più numerosi dei successi dovrebbe già comportare
un’analisi particolarmente attenta della situazione).
Tale questione apre una serie di problemi di metodologia e didattica di notevole complessità sul piano dell’organizzazione, dell’impostazione curricolare, delle dinamiche relazionali e richiede interventi mirati fortemente innovativi rispetto alla scuola tradizionale.
La presenza dell’educazione interculturale nella quotidianità della
scuola
Nell’ambiente scolastico la dimensione interculturale può essere presente
come metodologia adottata da parte dell’insegnante nei confronti degli alunni;
come clima relazionale all’interno della classe e della scuola tra alunni, insegnanti e genitori; come finalità da perseguire; come contenuto d’insegnamento/apprendimento.
142
L’ordine in cui sono stati indicati questi aspetti non è casuale. Sembra infatti di poter riconoscere che se gli insegnanti della scuola di base hanno ampiamente acquisito la necessità di procedere con metodologie individualizzate
nel riconoscimento e nel rispetto delle esigenze, delle potenzialità, degli interessi e delle motivazioni, delle ‘diversità’ del singolo alunno, dando vita quindi a una forma di approccio interculturale, e se nella grande generalità dei casi si sono attivati e si attivano per rendere la scuola un ambiente accogliente
dove sia possibile l’interazione per alunni che esprimono culture fra loro diverse, non sia riscontrabile un’analoga attenzione nei confronti delle dimensioni restati.
Per quanto riguarda le finalità, l’intercultura risulta considerata più indirettamente che direttamente, spesso richiamata in modi non sistematici senza una
approfondita e maturata articolazione.
I contenuti di tipo interculturale sembrano dichiaratamente emergere e pervenire a un livello di evidenza e di intenzionalità nei casi in cui l’insegnante si
ritrovi, di fatto, nella propria classe alunni stranieri che, con la loro stessa presenza, impongono di affrontare la questione. Minore è l’attenzione quando tale situazione non si verifica così che le problematiche interculturali finiscono
con l’essere confinate in spazi ristretti.
Altro è il discorso da fare nei confronti della scuola secondaria superiore.
Qui la sequenza precedentemente richiamata non tiene più: la flessibilità, l’articolazione dei metodi – che già nella scuola media comincia a incrinarsi rispetto ai precedenti ordini scolastici – non sempre appartiene alla competenza
professionale degli insegnanti e il clima scolastico è qualcosa di già strutturato in cui lo studente deve sapersi inserire. Dei due rimanenti aspetti – contenuti
e finalità – nella scuola secondaria compare a tratti il primo, ma non sembra
assumere tutta la sua importanza il secondo. Sui contenuti e sui metodi non organicamente correlati alle finalità e sulla scarsa incisività che questo comporta nell’apprendimento dell’alunno esiste una ricca letteratura che qui non è il
caso di richiamare. Ciò che in questo contesto si vuole sottolineare è come il
lavoro dei primi ordini scolastici, sia pure ancora gravato da tante limitazioni,
nel momento in cui non viene ripreso nella prosecuzione dell’esperienza scolastica è destinato a lasciare tracce purtroppo deboli che nella futura esistenza
sociale e professionale rischiano d’essere facilmente cancellate.
C’è da osservare come lo stesso giudizio degli insegnanti nei confronti dell’attività della scuola sia abbastanza frequentemente negativo pur nel riconoscimento, che rimane però a livello d’affermazione teorico-concettuale, dell’opportunità di un impegno che l’istituzione dovrebbe saper esercitare rispetto a un’educazione interculturale3. Dichiarazioni provenienti da insegnanti dei
3
Una ricerca realizzata dieci anni or sono nella zona di Bari e provincia riferita ai diversi
ordini di scuola, dalla materna alla secondaria superiore, ha permesso di rilevare come complessivamente il 74,54% degli insegnanti – con un massimo di 82,86% nella scuola materna e
un minimo di 65,91% nella scuola elementare – ha valutato sostanzialmente insoddisfacente il
143
vari ordini di scuola e di discipline diverse consentono di rilevare come sia diffusa nel corpo docente l’interpretazione di un’ educazione interculturale che
dovrebbe riuscire ad attraversare l’intero processo formativo, configurarsi come uno ‘stile’ che accompagna e qualifica il modo d’insegnare. Sembrano
quindi superate dagli insegnanti interpretazioni limitative che confinano in alcuni spazi e tempi determinati l’educazione interculturale e dall’altra l’importanza di un contatto con le diverse culture e l’incidenza di esperienze direttamente vissute. Anche l’articolazione espressa dagli insegnanti relativa alle possibili situazioni metodologiche – che vanno dall’analisi di casi, dalle indagini
nel proprio ambiente, dalla lettura di giornali alla ricerca sui libri di testo, ai
sussidi audio-visivi, alle attività ludiche ed espressive, all’animazione e drammatizzazione – conferma la percezione della problematica e l’acquisizione di
un’informazione relativa alle diverse e differenziate modalità con cui si possono affrontare i problemi. Tutto ciò però non riesce ancora a sostenere effettive
e diffuse scelte metodologiche e comportamentali.
Sembra quindi emergere nei confronti dell’interculturalità una disparità o,
quanto meno, una dissonanza tra conoscenze e abilità degli operatori che, pur
consapevoli dell’importanza nel tempo attuale, e più ancora in quello futuro,
di questa dimensione e sufficientemente informati sulle modalità d’approccio,
non traducono questa loro consapevolezza e queste loro informazioni in concrete scelte operative. Le ragioni di una tale situazione possono essere probabilmente rintracciate in una interpretazione della scuola e della sua attività ancora legata sostanzialmente a modelli tradizionali in cui le dimensioni innovative vengono di fatto vissute in termini aggiuntivi alle già numerose situazioni
di studio e di apprendimento più che interpretate come dimensione qualificante l’attività scolastica.
Certo esistono numerose esperienze positive promosse in alcune sedi, avviate da motivazioni particolari, a volte contingenti, e condotte con strategie
diverse; tutte interessanti, ma non effettivamente rappresentative di una situazione diffusa che vede invece presenti difficoltà non facilmente superabili.
lavoro della scuola al riguardo. Cfr. L Santelli Beccegato, M.L. Scippa, Interculture: quelle reponse dans l’école et dans la dynamique sociale?, in Atti della XVIII Conferenza annuale
ATEE, Lisbona 1993.
Ora queste percentuali sono certamente da rivedere, ma i livelli complessivi di soddisfazione, pur essendo migliorati, continuano a risultare piuttosto contenuti. Si veda il recente A.
Cavalli (a cura di), Associazione IARD, Gli insegnanti nella scuola che cambia: seconda indagine IARD sulle condizioni di vita e di lavoro nella scuola italiana, Bologna, Il Mulino,
2000, dove si legge: “La questione dell’insoddisfazione nell’attività lavorativa è prevalentemente il risultato della trasformazione rapida e della complessificazione della società, che rendono le aspettative di ruolo nei confronti dei docenti notevolmente meno definite e quindi possono aumentare le difficoltà di questa attività professionale. L’interessante è che nell’ultimo
decennio l’insoddisfazione pare stabile o in diminuzione: vi sono però differenze considerevole fra i diversi livelli scolastici e il più elevato malcontento dei docenti della secondaria superiore” (p. 146).
144
Le strategie fino a ora documentabili riguardano le esperienze di classi
aperte con frequenze diversificate a seconda dei livelli di apprendimento; l’utilizzazione di materiali didattici finalizzati; il forte investimento sulla dimensione linguistica e comunicativa con l’appoggio di laboratori4. Anche l’uso dei
linguaggi dell’informatica e della telematica può concorrere a realizzare una
comunicazione fitta e ampia, ma la loro presenza al riguardo è ancora modesta; è però questa una strada certamente molto significativa per agevolare i
contatti e consentire scambi costruttivi.
Spesso in alcune sedi, le iniziative delle scuole risultano sostenute dall’apporto proveniente da gruppi di lavoro operanti presso i C.S.A., gli I.R.R.E., le
Università, gli Enti Locali che, predisponendo come singole istituzioni o, meglio ancora, in reciproca intesa luoghi organizzati per la presentazione di esperienze, di confronto, di discussione, favoriscono l’individuazione dei processi
di cambiamento e di innovazione, consentono il monitoraggio delle esperienze in corso, la circolazione di materiali e la diffusione della documentazione.
Sono queste, senza dubbio, situazioni di lavoro che potenziano fortemente la
capacità d’incidenza delle scuole, ma si tratta di esperienze particolari che non
possiamo considerare rappresentative di una situazione diffusa che vede invece difficoltà non facilmente superabili.
È urgente fare in modo che quanto c’è di costruttivo si estenda, le attività
avviate siano più ampiamente conosciute e sia così possibile passare da singole disponibilità a piani di interventi sistematici. Valutare quanto realizzato e
sensibilizzare sulle cose da fare: la pubblica amministrazione, gli I.R.R.E., le
Università, la pubblicistica scolastica, le associazioni professionali hanno un
forte ruolo da giocare in questa direzione.
I giovani chiedono alla scuola di più di quanto la scuola attualmente riesca
loro a dare. Chi si interessa di scuola – a tutti i livelli – dovrebbe riflettere su
questa domanda e cercare di essere presente per rafforzare questa istituzione e
consentirle di offrire le esperienze di cui gli alunni hanno bisogno.
È possibile comunque riscontrare che la scuola ha superato un’interpretazione ‘ingenua’ di educazione interculturale, limitata ad auspicare una migliore intesa tra persone e gruppi, comprendendo lo spessore dei significati e l’importanza di una sua realizzazione anche se sono ancora scarsi i mezzi e non sistematiche le competenze necessarie per renderli operativi.
Per una scuola che aiuti a comprendere
Numerosi sono gli ostacoli all’interno e all’esterno della scuola che si frappongono a una possibile incisiva presenza dell’educazione interculturale. L’e4 Su queste tematiche vedi D. Demetrio, G. Favaro, Didattica interculturale: nuovi sguardi, competenze, percorsi, Milano, F. Angeli, 2002. Vedi anche, a cura della scrivente, Bravi da
scoprire. Alunni di diverse nazionalità e successo scolastico, Bari, Levante, 2005.
145
lenco delle cose che mancano e sulle quali si dovrebbe da tempo intervenire
nei confronti di questa problematica come di altre – e spesso sono le stesse necessità a ritornare nei diversi contesti – è stato fatto in più occasioni. Al di là
delle necessità di fondo – dalle politiche della formazione di base e in servizio
ai riassetti organizzativi e alle revisioni curricolari, alle collaborazioni con gli
Enti locali e con i diversi centri operanti nel territorio – credo possa essere di
qualche utilità considerare come nei confronti dell’educazione interculturale
un ruolo particolarmente incisivo venga svolto dall’interpretazione che l’insegnante dà della propria professione.
Oggi la grande maggioranza degli insegnanti ha maturato la convinzione
che il proprio lavoro non si può esaurire su un piano tecnico-informativo, ma
si estende ai complessi problemi che la crescita psicologica e culturale di un
giovane comporta. Che tale ampia interpretazione del proprio ruolo sia riconoscibile più dichiaratamente in alcune categorie di insegnanti rispetto ad altre5 e non risulti ancora un tratto davvero comune al corpo docente è certamente vero, ma sono molti gli insegnanti consapevoli dell’importanza dell’esperienza scolastica nella formazione personale dei giovani. Il problema è che
questa consapevolezza si traduce in una qualità di rapporto, in scelte curricolari e didattiche del singolo insegnante nei confronti della sua classe, dei suoi
alunni e non sempre riesce a connotarsi come impostazione espressa da un
Collegio dei docenti.
Così anche per quanto riguarda l’educazione interculturale ciò che può configurarsi come un’opportuna strategia d’intervento abbastanza raramente risale a decisioni nelle quali si riconosce il gruppo degli operatori di una scuola.
L’impostazione individualistica della propria professionalità, anche se questa
viene assunta in termini intrinsecamente ricchi e polivalenti, è limitativa in generale, ma particolarmente quando si tratti di questioni che percorrono trasversalmente i diversi insegnamenti, quale è appunto il caso dell’educazione
interculturale, e diviene un segno di una difficoltà alla partecipazione e all’incontro, alla riflessione e alla discussione comune – che si configurano quali
elementi di base dell’educazione interculturale – da parte dello stesso insegnante. D’altronde se uno dei più diffusi ostacoli alla valida realizzazione dei
moduli nella scuola elementare è stata individuata nell’effettiva capacità d’intesa e di condivisione dell’attività educativa e didattica degli insegnanti componenti il ‘team’, se nella scuola secondaria fa ancora difetto una cultura della progettazione e programmazione come disegno complessivo e comune in cui
i diversi insegnanti riescono a riconoscersi non possiamo certo essere molto ottimisti nei confronti di un messaggio, di una testimonianza educativa che si
muova nella prospettiva dell’interculturalità.
Tutto questo si osserva non con un’intenzionalità riduttiva e demotivante,
ma anzi per assumere, nella piena consapevolezza della difficoltà delle cose da
5 Vedi, ad esempio, quanto rilevato da E. Damiano, L’insegnante. Identificazione di una
professione, Brescia, La Scuola, 2004.
146
fare, gli impegni necessari sul piano della riqualificazione in servizio, dell’incentivazione e valorizzazione di idee, progetti, sperimentazioni.
Non ignorare le difficoltà e cercare di rintracciare quali possano essere
quelle prioritariamente da affrontare all’interno della scuola è un modo serio e
onesto per non banalizzare i problemi e per impegnarsi nell’elaborare soluzioni operative lavorando, attraverso interventi mirati, sui versanti più deboli.
D’altra parte, se molte sono ancora le insufficienze che notiamo, bisogna
anche considerare come, meno di cinquant’anni fa, un discorso di educazione
interculturale sarebbe stato improponibile in una scuola chiamata a trasmettere e sostenere un sistema di valori tutto centrato su significati d’impianto nazionale (se non nazionalistico).
Nella nostra società, nella nostra cultura e purtroppo anche nella nostra
scuola è frequente la parola ‘bella’, l’appello retorico che consente le scorciatoie della superficialità e la pigrizia del non pensare; ma si tratta di cosa ben
diversa da ciò che qui interessa e cioè la capacità di riconoscere i problemi, approfonditi secondo le diverse prospettive disciplinari, intenderli in termini organici per elaborare e assumere costruttive strategie e perseguire finalità educative.
Oltre alle facili affermazioni sulla positività dell’incontro tra popoli, culture e soggetti diversi è necessario entrare nel merito dei problemi e analizzarne
i molteplici aspetti, non arretrare di fronte alle difficoltà di tipo sociale, economico, politico che la dimensione interculturale comporta, ma anzi considerarle attentamente preparati per affrontare in maniera adeguata i cambiamenti
complessi che tali dinamiche inevitabilmente comportano.
Le facilitazioni degli spostamenti, la massa delle informazioni hanno reso
il mondo più piccolo, da qui la paura di perdere il proprio spazio vitale. È anche per questo che dobbiamo rendere più grande la nostra capacità di comprendere e quindi il primo impegno che, anche in questo contesto, la scuola si
trova ad assumere è combattere l’ignoranza. Ma non è un impegno bastante, gli
ostacoli da superare non riguardano solo questo aspetto.
Nei confronti dell’educazione interculturale bisogna combattere l’ignoranza attraverso l’informazione e la conoscenza, che vengono a costituirsi come
basi per sapere costruire il rapporto con l’altro, ma bisogna combattere anche
l’ipocrisia spesso più diffusa e tenace della stessa ignoranza: perseguire l’autenticità significa porre le premesse e costituire delle garanzie per potere costruire il rapporto con l’altro.
L’educazione cognitiva e la sua didattica, pur nella difficoltà che ha incontrato e incontra, sembra procedere con una sua organicità e chiarezza. Organicità e chiarezza invece non ancora pienamente possedute da un’educazione tesa al raggiungimento di un obiettivo così complesso, e per certi aspetti precario: quale quello relativo all’espressione della propria autenticità che coinvolge il problema di fondo della ricerca e costruzione della propria dimensione
esistenziale nei confronti di se stesso e nei confronti dell’altro.
La scuola è impegnata dichiaratamente nella dimensione cognitiva, che ne
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costituisce la ragione istituzionale, ma è chiamata anche a considerare l’incontro con il sapere nei suoi apporti profondamente educativi; anzi la scuola
contemporanea che ha maturato, almeno sul piano dell’elaborazione pedagogica, il significato più pieno del suo ruolo e della sua funzione, è comprensiva
di un lavoro dove il conoscere e l’essere, l’ informazione e la formazione sono
dinamicamente connesse.
È quindi del tutto ininfluente un’educazione interculturale fatta solo di
esortazioni all’incontro e alla solidarietà, di incitazioni ai ‘buoni sentimenti’.
Un’impostazione di questo genere regge poco la prova dei fatti, risulta fragile
di fronte a problemi, difficoltà, tensioni che la presenza di gruppi sempre più
consistenti di diverse provenienze e culture, alla ricerca di spazi di sopravvivenza, comporta.
La scuola italiana sta elaborando un approccio all’educazione interculturale mediato da conoscenze linguistiche e storiche. Più difficile da raggiungere
– anche perché meno rappresentato nella tradizione della cultura scolastica del
nostro Paese – è l’approccio socio-politico ed economico che pure si costituisce come componente altamente significativa di un percorso di educazione interculturale6. Una componente certo sempre da assumere in un sistema complessivo, in un contesto che trova i suoi fondamenti nei principi che rendono
possibile una tensione progettuale e costruttiva della singola persona e della
convivenza civile, dove l’incremento di conoscenza si fa arricchimento educativo.
Troppo spesso il lavoro scolastico rischia di essere autoreferenziale, si ferma alle parole senza veicolare conoscenze e idee e sostenere motivazioni per
un agire personalmente e socialmente valido. Sciogliere i nodi concettuali significa aprire la strada a una più incisiva interpretazione della realtà. In questo contesto può essere interessante indagare sul fatto che molti dei comportamenti di rifiuto dell’altro, del diverso hanno alla loro base anguste valutazioni d’interesse. L’opportunismo è strettamente collegato al razzismo: il linguaggio dell’uno si sostiene con le argomentazioni dell’altro. Razzismi vec6
Recenti analisi portate sui libri di testo hanno permesso di riscontrare un’apertura sempre più sensibile a interpretazioni di tipo interculturale. In riferimento, ad esempio, ai sussidiari per la scuola elementare, l’esame del lessico “quale strumento indispensabile di penetrazione e discriminazione dei testi per individuare l’intenzione ‘occulta’ che all’uso dei termini
traspare” ha permesso di evidenziare il passaggio “dall’etnocentrismo dei testi successivi ai
programmi del 1945, a un moderato eurocentrismo che cerca di affermarsi nei volumi dei programmi Ermini fino a un formativo allargamento della cultura europeistica verso una prospettiva mondiale”. In R. Marini, Una ricerca sugli stereotipi: l’immagine degli altri popoli nei
sussidiari, in «Scuola e Città», 10, 1992, p. 437. In questo decennio le ricerche sul tema si sono intensificate. V. in proposito A. Portera, L’educazione interculturale nella teoria e nella pratica. Stereotipi, pregiudizi e pedagogia interculturale nei libri di testo della scuola elementare, Padova, CEDAM, 2000; G. Zincone (a cura di), Commissione per le politiche di integrazione degli immigrati, “Allegato. Osservazioni sulle modalità con cui vengono presentati l’immigrazione e gli immigrati nei libri di testo della scuola elementare”, in Primo rapporto sull’integrazione degli immigrati in Italia, Bologna, Il Mulino, 2000.
148
chi e nuovi7, impostati su basi bio-inegualitarie o su quelle delle differenze
culturali, che vedono i movimenti migratori come una minaccia alla propria
identità e un’aggressione al proprio benessere vanno affrontati e discussi,
considerati nelle loro componenti secondo gli approcci di studio, i metodi e i
linguaggi congeniali alle diverse età e capacità degli alunni, ma sempre cercando la contestualizzazione della questione, evitando interpretazioni parziali e riduttive.
Così dalla scuola dell’infanzia fino alla secondaria superiore si vengono
configurando tematiche e modalità – dai giochi alle drammatizzazioni, dalle ricerche d’ambiente alle analisi storiche antropologiche e sociali – che introducono e progressivamente approfondiscono significati portanti del discorso ben
oltre un generico e retorico appello a un ‘volersi bene’ che si vanifica di fronte alle prime difficoltà.
Per una scuola che aiuti a costruire
Negli anni Settanta G. Balandier ha teorizzato l’antropologia dinamista
trattando di “società comunicanti”8; nel nostro tempo, per la prima volta nella
storia, le diverse società e culture hanno gli strumenti per comunicare in termini sempre più facilitati e veloci. È attraverso questa comunicazione – se
profondamente e validamente considerata, assunta e gestita – che potremo affrontare il futuro.
L’alternativa all’interculturalità è la lotta di potere, la conflittualità a tutto
campo, non solo nei mercati, ma nella quotidianità con il bagaglio di sofferenza e sopraffazione che sul piano personale e storico essa comporta. C’è da
chiedersi, a fronte delle esperienze dirette e indirette che quotidianamente veniamo facendo, se sia possibile uscire da una logica competitiva e conflittuale.
Da un punto di vista personale, non so se sia possibile, ma paradossalmente so che è necessario per l’uomo che persegue la propria dimensione umana e
civile.
P. Carse, in un suo studio sul gioco, distingue tra giochi finiti e giochi infiniti: i primi si giocano per vincere, i secondi per poter continuare il gioco9.
Probabilmente se vogliamo continuare a vivere dobbiamo superare la contrap7
Sulla nozione di nuovo razzismo si veda M. Barker, The New Racism, London, Junctions
Books, 1981.
8 G. Balandier, Le società comunicanti. Introduzione all’antropologia dinamista, trad. it.,
Bari, Laterza, 1973. È purtroppo necessario notare come oggi gli strumenti di comunicazione
di massa, le tecniche mediatiche vengano utilizzate, e in maniera molto incisiva, per veicolare
messaggi di violenza e fomentare chiusure e tragiche contrapposizioni. La consapevolezza di
quanto alto sia il rischio di non riuscire più a comunicare, in un’epoca immersa in un bagno di
informazioni, non sembra sia abbastanza sufficientemente avvertita.
9 Citato in A. Carbonaro - M. Valeri, Il gioco tra creatività e violenza, Teramo, Lisciani e
Giunti, 1990, p. 42.
149
posizione di posizioni e di ‘squadre’ e capire che il ‘gioco’ della vita si vince
solo se si riesce a pareggiare.
Essere cittadini del mondo, nati ‘per caso’ da qualche parte: l’esperienza
scolastica dovrebbe riuscire a far conseguire quest’esito: la cultura, quando autentica, ha sempre un respiro, una valenza interculturale e la persona di cultura – che la scuola dovrebbe sapere e poter esprimere – ha una costruttiva apertura al mondo, esprimendo la propria identità senza chiusure localistiche e senza dispersioni.
È stato osservato come “le aree centrali dell’esperienza multietnica non sono affrontate, e forse non possono esserlo, attraverso l’educazione. Dove esistono reali differenze tra i servizi forniti dai diversi gruppi etnici l’educazione
non è sufficiente”10. Se il lavoro, la casa, l’assistenza in caso di malattie mancano, se non ci sono condizioni minime di esistenza, se gli spazi vitali vengono
a essere compromessi l’approccio educativo interculturale viene certamente
messo in difficoltà. Ma se non si persegue un’educazione in tal senso su quali
basi e per quali motivi si potrà procedere per modificare questo stato di cose?
È per questo che abbiamo bisogno di un’educazione interculturale realistica, senza troppe ambizioni incapaci di reggere alla prova dei fatti, ma solidamente fondata su principi forti, precisi, semplici, e nel contempo difficilissimi,
nella loro essenzialità: il primato della persona e della sua umanità, il riconoscimento del suo esclusivo e insostituibile valore è il riferimento primo di un
impegno culturale che si sostanzia e si rafforza attraverso i diversi ambiti conoscitivi.
Un’educazione interculturale senza enfasi, avvertita di tutte le difficoltà che
la condivisione di spazi, di risorse comporta, consapevole dei suoi costi psicologici, sociali, economici, situata nelle coordinate storiche del proprio tempo
per certi aspetti può apparire limitata, ma proprio per questo realistica e quindi con maggiori possibilità di attuazione rispetto a un discorso universalistico
in cui l’accettazione e il rispetto di tutti rischiano di rimanere a livello di dichiarazione.
Il lavoro della scuola è avviato in questa direzione; si tratta di continuarlo e
rafforzarlo. La scuola non esaurisce certamente il compito educativo, anzi la
sua efficacia è riscontrabile quando e se vi sia un concerto di proposte e di
esperienze formative che si muovono verso direzioni sostanzialmente analoghe. Ma se questo è vero, è altrettanto vero che senza la scuola o con una scuola distratta o disattenta nei confronti di questo problema, poche sono le speranze per l’educazione interculturale di poter sostenere un suo rafforzamento e
una sua diffusione, di poter avere qualche possibilità di successo.
Educazione interculturale a scuola, debolezze e ambiguità in politica, concorrenzialità in economia, avidità e arrivismo nella vita sociale: come di fron10 D. Kalekin-Fishman, La funzione dell’università nella risoluzione dei conflitti interculturali, in G. Pampanini (a cura di), Prospettive euro-arabe di educazione interculturale, Catania, CUECM, 1993, p. 119.
150
te a queste impostazioni separate non sentire un forte disagio in quanto educatori e persone di scuola? In questa prospettiva il discorso educativo si svolge in
uno spazio chiuso che trova i suoi significati solo al proprio interno: il mondo
della scuola non ha forti e precise connessioni di raccordo con il mondo della
vita e del lavoro, anzi le disconferme – una volta usciti dall’istituzione scolastica -– rischiano di essere pesanti e continue. L’attività della scuola non può
risolversi in una mistificazione: il danno nei confronti della storia personale di
un giovane, della sua formazione può essere gravissimo.
Che fare allora? È necessario da parte degli operatori scolastici assumere
consapevolezza del forte ruolo che gli anni dell’esperienza scolastica possono
esercitare nei confronti della stessa dinamica sociale e politica. Gli assetti realizzati, gli equilibri raggiunti non sono mai per sempre, hanno una loro durata,
le possibilità di cambiamento continuano sempre a sussistere: bisogna saperle
riconoscere e maturare la volontà di inserirvisi per fare sì che contenuti, principi, modelli educativi innervino le più ampie dinamiche sociali.
O la scuola assume ed elabora una capacità critica nei confronti di regole
economiche e sociali competitive e anguste o renderà il suo lavoro sostanzialmente sterile e improduttivo.
La vera scuola è radicata nella realtà del proprio tempo, ma la sua è una presenza non semplicemente assertiva dell’esistente: la scuola è istituzione formativa, centro pensante, coscienza vigile e critica per la formazione delle nuove generazioni rese capaci di riconoscere e di evitare gli errori compiuti nel
passato, di individuare, progettare e realizzare nuove positive soluzioni.
È chiedere troppo alla scuola? Non credo; se così non fosse tanto varrebbe
allora prendere tutti una ‘grande vacanza’.
151
Quando la scuola europea elabora cultura religiosa: tra
ruolo identitario e educazione alla convivenza
FLAVIO PAJER
Chi guarda all’articolatissimo mosaico degli insegnamenti religiosi praticati oggi nella scuola primaria e secondaria dei diversi paesi dell’Unione Europea1 si chiede se non sia in atto da qualche anno una rivoluzione del ruolo che
veniva assegnato generalmente a tali corsi: sembra infatti che il tradizionale
obiettivo scolastico di introdurre l’alunno a una miglior conoscenza culturale
della fede di appartenenza per concorrere a costruire in lui un’identità civile
anche confessionalmente connotata, ceda sempre più il posto ad altre finalità
formative ritenute più impellenti e funzionali, prime fra tutte l’urgenza di conoscere il “fatto religioso” per l’inedita rilevanza acquisita nello scenario geopolitico e culturale del pianeta, e di educare ai valori della tolleranza e della
convivenza democratica in una società europea multiculturale, che ha visto
crescere negli ultimi decenni la pluralità delle religioni, ma non ancora un corretto habitus di pluralismo religioso.
1 L’Europa è oggi il continente che ha indubbiamente il maggior affollamento di insegnamenti religiosi impartiti secondo le specifiche appartenenze confessionali degli alunni (corsi
di religione cattolica, ortodossa, evangelica, calvinista, anglicana), cui si accompagnano corsi
su altre religioni rappresentate nel territorio (corsi di religione ebraica in almeno otto sistemi
nazionali, di religione islamica in almeno una decina di paesi, corsi locali di induismo, buddismo, sikhismo, bahai…). Da notare che questi corsi confessionali si diversificano qualitativamente al loro interno se si tratta di corsi della religione o di corsi sulla religione. Il mosaico
però si frantuma ulteriormente se si pensa alla casistica dilagante di corsi biconfessionali (tra
cattolici ed evangelici in Germania e in Svizzera), di corsi transconfessionali o multireligiosi
(Inghilterra, Olanda), di insegnamento della Bibbia (schulische Bibelunterricht), di corsi di
storia delle religioni (in Svezia e in diversi altri paesi come materia alternativa curricolare), di
Etica aconfessionale… Per un’informazione sintetica mi permetto di rinviare a recenti rassegne e analisi: F. Pajer, Scuola e istruzione religiosa. Nuova cittadinanza europea, in «Il Regno», 2002/22, 774 -788; Considerazioni socio-pedagogiche sull’istruzione religiosa in Europa, in «Coscienza e libertà», 2004, n. 38, 38-48; F. Pajer (ed.), Europa, scuola, religioni. Monoteismi e confessioni cristiane per una nuova cittadinanza europea, Torino, Sei, 2005.
152
Le trasformazioni in atto
Il profilo dell’istruzione religiosa scolastica in Europa sta subendo oggi notevoli trasformazioni. Non si tratta solo dei consueti adattamenti stagionali apportati ai programmi o all’organizzazione didattica. È lo statuto stesso dell’insegnamento religioso che da più parti oggi viene messo in discussione. Ma non
perché la scuola pubblica voglia stravolgere o estromettere lo studio della religione dai suoi curricoli, anzi il più delle volte è vero il contrario. Osserviamo
infatti che la scuola pubblica invoca un reinserimento di cultura religiosa là dove essa era stata estromessa (vedi il caso della Francia); non solo, ma va introducendo corsi obbligatori per tutti gli alunni là dove esistevano solo corsi facoltativi di tipo confessionale (come è avvenuto nei Paesi scandinavi e come
sta avvenendo ora in diversi Cantoni svizzeri). E ancora: sta avviando corsi biconfessionali o trans-confessionali o corsi su religioni non cristiane là dove in
precedenza solo la chiesa di maggioranza aveva l’esclusiva del corso di religione (com’è avvenuto da tempo nel Regno Unito e in Belgio, e come avviene
in più regioni oggi – in Bassa Sassonia, Alsazia, Catalogna… – con l’accensione di corsi islamici o relativi ad altre fedi). Ma anche là dove permangono i
tradizionali modelli di insegnamento religioso pubblico affidati alla collaborazione delle varie confessioni cristiane la tendenza generale è ormai di allineare l’offerta di istruzione religiosa sugli standard cognitivi ed educativi del progetto scolastico d’insieme. Che senso hanno queste trasformazioni in corso?
Da chi o da che cosa vengono sollecitate? Al di là della casistica locale dei singoli paesi, si può scorgere un’unica direzione di fondo di queste trasformazioni?
Certo, a monte le cause e le concause sono molteplici e di diversa natura, e
variano a seconda delle aree culturali e confessionali e del diverso rapportarsi
degli stati con le chiese. Mi limito a richiamare qui alcuni fattori del cambiamento in atto, peraltro facilmente intuibili, partendo da quell’osservatorio non
ufficiale e assai informale che è il Forum europeo dell’istruzione religiosa nelle scuole pubbliche2.
1. Numerose riforme scolastiche attuate in diversi paesi negli ultimi anni –
nell’intento globale di adeguare finalità e contenuti della scuola alle nuove
condizioni sociali e culturali – hanno coinvolto più o meno frontalmente anche
i rispettivi insegnamenti di religione. Tra le ricadute più vistose che è dato osservare, annoto le seguenti:
2
Si tratta di un gruppo di esperti in varie discipline (diritto scolastico, rapporti stato-chiese, scienze della religione, pedagogia…), provenienti da vari paesi europei, che si riuniscono
periodicamente per analizzare situazioni, problemi e ipotesi inerenti l’istruzione religiosa. L’iniziativa, sorta nel 1984, ha avuto all’origine una matrice confessionale cattolica, ma ultimamente si stanno aggregando al gruppo rappresentanti di altre chiese cristiane e studiosi di istituzioni statali. Il Forum ha rapporti di collaborazione con altri analoghi organismi europei,
come la Intereuropean Commission on Church and School (ICCS), di ispirazione protestante.
153
– nei normali curricoli di studio della scuola primaria e secondaria la presenza della religione in genere non è contestata, ma viene richiesto con
insistenza alla disciplina di adempiere un ruolo più decisamente conoscitivo, sia in vista di esplorare il fenomeno religioso globalmente inteso, sia per individuare la rilevanza culturale ed etica che una determinata tradizione religiosa – solitamente la confessione cristiana dominante
nel paese – ha esercitato nella storia della propria nazione;
– accanto a questa valenza cognitiva, allo studio della religione viene
chiaramente riconosciuta una funzione etico-civica, nel senso che la
stessa educazione laica ai valori della convivenza civile e dei diritti umani può essere utilmente coadiuvata dalla conoscenza della propria e delle altrui religioni maggiormente presenti sul territorio;
– come conseguenza didattica, in certi paesi la materia religione viene
spesso accorpata in un’area disciplinare di materie affini per fungere da
necessario e reciproco complemento allo studio della storia, delle arti,
della filosofia o della stessa educazione civica3;
– in alcuni casi, inoltre, la riforma dei cicli scolastici ha comportato una
contestuale ridistribuzione del volume orario assegnato all’istruzione
religiosa in funzione dell’età dell’alunno e degli obiettivi specifici previsti per ciascun ciclo (alla stregua delle altre materie, anche lo studio
della religione è proposto in modo più corposo e mirato in certi cicli e
meno in altri, può essere obbligatorio in un ciclo e facoltativo in un altro, superando così quell’ambiguo qualunquismo pedagogico di una
“ora di religione” spalmata indifferentemente da un capo all’altro della
scolarità, indizio di una logica burocratica pedagogicamente assai miope).
Si osserva dunque come la disciplina religione venga più o meno trainata
nel processo di innovazione strutturale e pedagogica della scuola, con due possibili esiti: una maggior integrazione nel progetto educativo della scuola quando la religione mostra di poter dare il suo specifico apporto culturale adeguandosi agli obiettivi comuni e alle metodologie didattiche delle altre discipline, o, al contrario, l’esito di una inevitabile emarginazione quando la religione continuasse a rivendicare un suo statuto atipico, separato dall’organico
dei saperi scolastici e finalizzato all’educazione identitaria di singoli gruppi di
alunni credenti.
2. Oltre la scuola, e più rapidamente della scuola, è la figura pubblica delle religioni che cambia, è la loro visibilità sociale che è accresciuta e soprattutto il loro protagonismo politico, emerso con forza nello scenario mondiale
ed europeo. Mentre l’età moderna aveva abituato le società occidentali a rele3 Cf. E. Pace, Un concordato con la modernità, in «Quaderni di diritto e politica ecclesiastica», 2004, 1, 17-21.
154
gare la religione nel privato delle scelte personali e al riparo da coperture politiche, l’età postmoderna ributta il peso delle religioni nel pubblico, là dove le
strutture politiche della società civile sono chiamate a rinegoziare e a gestire i
principi e i valori della comune convivenza. Il fattore religioso diventa una presenza trasversale all’agire collettivo, e finisce così per provocare riposizionamenti di gruppi, di istituzioni e persino di governi nazionali e di organismi sovra-nazionali di fronte a problemi planetari come quelli della pace, dello sviluppo sostenibile, dei diritti umani, dell’educazione.
In ambito di educazione pubblica, appunto, l’istruzione religiosa cessa di
fungere da ‘longa manus’ delle chiese nella scuola, per diventare momento di
necessario confronto interculturale tra patrimoni simbolici diversi. Proprio
l’incontro ormai massiccio della diversità religiosa – con l’apparire all’orizzonte di fenomeni conflittuali come il comunitarismo identitario, i fondamentalismi di varia matrice, l’intolleranza – costituisce una minaccia alla coesione
della convivenza civile, bisognosa oggi più che mai di basarsi anzitutto su valori comuni condivisi prima di distinguersi eventualmente in diverse appartenenze religiose o filosofiche, che restano comunque da rispettare e valorizzare.
Lo stesso affievolirsi dei nazionalismi, il rigurgito dei regionalismi, l’inconcluso processo di unificazione europea sollecitano i poteri politici nazionali e dell’UE alla ricerca di una nuova tavola comune di valori condivisi in vista di quella che viene chiamata la “nuova cittadinanza europea”. Da decenni
il Consiglio d’Europa e le periodiche assemblee dei ministri dell’educazione
dell’UE tentano, attraverso esplicite direttive e raccomandazioni, di orientare
l’educazione scolastica su obiettivi di tolleranza4, di dialogo interculturale, di
promozione delle libertà personali e istituzionali, compresa ovviamente la libertà di religione. Tali valori, enunciati nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (2000) e che sono stati integrati nella Costituzione europea,
non potranno non trovare una congruente traduzione pedagogica nei nuovi curricoli dei sistemi educativi di tutto il continente.
3. Per altro verso è ben noto a tutti, e da lunga data, il fenomeno del progressivo decremento numerico delle storiche comunità cristiane sul territorio
europeo. L’Europa, storicamente e culturalmente parlando, può ben dirsi “cristiana”, ma il cristianesimo, si sa, si è largamente de-europeizzato. La cristianità europea è ben lungi dall’essere oggi coestensiva, se mai lo è stata in passato, alla società civile. È vero che in diversi paesi europei le chiese cristiane
possono fruire di una rete più o meno cospicua di scuole confessionali5, rico4
Cito, a titolo di esempio, la serie dei quattro Seminari di studio organizzati dall’Ufficio
del Commissario ai Diritti Umani del Consiglio d’Europa dal 1999, di cui accennerò più sotto.
5 Solo per citare alcuni casi: in Francia la scuola cattolica, sotto contratto di associazione
che l’assimila a quella pubblica dello stato, raccoglie oltre il 20% della popolazione scolastica, in Spagna il 33%, il Belgio oltre il 50%, in Olanda tra scuole cattoliche e protestanti coprono circa il 70%, nella cattolica Irlanda oltre il 90%.
155
nosciute pubbliche a pieno diritto, mediante le quali viene soddisfatta larga
parte della domanda di educazione religiosa che le famiglie credenti rivolgono
alla scuola. Sta di fatto però che anche la popolazione scolastica delle scuole
confessionali è oggi ampiamente pluralistica dal punto di vista della appartenenza religiosa, per cui anche qui il profilo dell’insegnamento religioso curricolare ha dovuto attenuare i suoi tradizionali tratti catechistici di un tempo per
acquisire sempre più i tratti di una cultura religiosa generale, finalizzata al risveglio del problema religioso e della ricerca di senso, e lo stesso cristianesimo viene proposto più frequentemente in chiave di informazione biblica e di
lettura storica.
Da parte sua, la scuola pubblica, anche nei numerosi paesi dove vigono ordinamenti concordatari, prende atto del fenomeno della secolarizzazione in almeno due modi: primo, trattando tutti gli alunni – siano essi cristiani, ‘post-cristiani’, di altra fede o di nessuna fede – come cittadini da educare allo stesso
zoccolo di valori e saperi, non senza riservare tuttavia una priorità alla conoscenza esplicita della tradizione cristiana, partendo ovviamente dalla forma
storicamente più rilevante nel proprio paese, e ciò in forza del ruolo storico,
culturale, etico che il cristianesimo può aver esercitato ed esercita nel paese e
nell’intero continente; secondo, allargando la propria offerta conoscitiva a un
più ampio spettro di fenomeni religiosi collegati sia al mosaico crescente delle appartenenze individuali degli alunni, sia alla attualità del fenomeno religioso a livello mondiale. In questo senso anche il fenomeno della secolarizzazione e degli umanesimi agnostici rientra come oggetto di studio di una scuola democratica, sotto forma per esempio di ‘corsi filosofici’ (proposti ultimamente in Belgio)6 o di numerose materie alternative al corso di religione, imperniate su insegnamenti di etica, di valori, di diritti umani.
4. All’indomani dei fatti del 1989-91, i paesi dell’Europa centro-orientale
hanno ritrovato, con la restaurazione democratica dello stato di diritto, anche
le condizioni legali minime di esercizio della libertà religiosa, e con questa la
possibilità di reintegrare nella scuola pubblica dei corsi facoltativi di religione
e in qualche caso anche di etica naturale. È vero che un po’ ovunque – sia nei
paesi a maggioranza cattolica, che in quelli protestanti e soprattutto in quelli
ortodossi – è stato fatto rinascere per ora un modello praticamente ‘catechistico’ di istruzione religiosa. Una riattivazione dei corsi di religione che appare
più che altro come una concessione alle mire pastorali delle chiese sui propri
alunni battezzati, e non tanto come una esigenza intrinseca della formazione
scolastica di ogni cittadino. Programmi, testi, insegnanti sono per ora gestiti
unicamente dalle chiese.
Ma è anche vero che i vistosi tassi di secolarizzazione che si registrano anche in quelle società non tarderanno a indurre autorità religiose e scolastiche a
6 A. Pisci, Più filosofia o più religione per la formazione del cittadino europeo? in «Religione e scuola», 2003/2, 83-90.
156
riconsiderare di conseguenza gli scopi, i contenuti e la gestione dell’attuale
modello di insegnamento a carattere catechistico. D’altronde il forte e progressivo decremento di iscrizioni a questi corsi confessionali (lo si registra soprattutto in Polonia, in Slovacchia, in Croazia) è chiaro indizio che anche all’Est non basta più essere una chiesa numericamente dominante per poter rivendicare un ruolo pastorale nella scuola pubblica.
5. Un altro, e non ultimo, tra i fattori che incidono sull’evoluzione del profilo dei corsi di religione in Europa è l’affermarsi di uno statuto autonomo delle scienze religiose, i cui sviluppi anche a livello accademico laico stanno a documentare non solo la possibilità ma la legittimità di approcci aconfessionali
al fatto religioso (vuoi di tipo comparatistico storico-fenomenologico, vuoi di
tipo filosofico, antropologico ed etico, ecc.), approcci che si rivelano epistemologicamente non conflittuali ma di per sé compatibili e complementari rispetto al tradizionale approccio teologico e pastorale che caratterizza gli insegnamenti confessionali.
Lo sviluppo delle scienze della religione a livello accademico non può non
avere opportune e feconde ricadute a livello di scuola primaria e secondaria.
Questo è già vero in parte nei curricoli della formazione iniziale dei “nuovi”insegnanti di religione, che, oltre a studiare le tradizionali discipline teologiche, possono familiarizzarsi sempre più con metodi e contenuti di altre
scienze della religione. In certi stati, infatti, la formazione accademica e pedagogica dell’insegnante di religione è assicurata da strutture statali (Gran
Bretagna e stati scandinavi), in altri da facoltà teologiche statali con indirizzo
confessionale (Belgio, Germania, Austria, Repubblica Ceca e Slovacchia,
Grecia…), in altri unicamente da strutture ecclesiastiche (Italia, Spagna ecc.).
In effetti, se scopo della scuola è elaborare una gamma di saperi fondamentali per fornire capacità critiche e competenze, sembra legittimo e doveroso che
essa debba offrire un analogo servizio educativo anche nell’area del sapere religioso, offrendolo con strumenti critici non solo di tipo teologico ma anche
di tipo aconfessionale.
Religione tra identità e alterità
Le scuole europee vanno popolandosi di anno in anno di alunni di diversa
cultura, ma che hanno il diritto al pieno rispetto della loro alterità. Il problema è che i sistemi educativi esistenti sono nati nei vari paesi per integrare i
giovani nativi nella propria cultura territoriale, nazionale ed europea, considerata tout court come “la” cultura a vocazione universale. Questi sistemi si
trovano ora a gestire una clientela in parte non nativa, e soprattutto portatrice
di culture diverse, che sono la smentita di fatto di ogni pretenzioso universalismo eurocentrico. La promiscuità culturale all’interno di uno stesso spazio
educativo obbliga ad attivare dapprima una sana dialettica tra identità e diver157
sità (è il momento della pedagogia del confronto, o del superamento di stereotipi e pregiudizi, della conoscenza reciproca, dell’autocritica), ma impone
poi anche di trovare una tavola di valori comuni su cui consentire positivamente per poter vivere insieme, riuscendo a dare un senso nuovo a questo vivere: è la pedagogia del consenso, o della ricerca di convergenze su punti importanti dell’ethos, su progetti comuni condivisi e attuati in solidarietà7. Tali
passi non si possono avverare senza la fatica di mediazioni culturali di vario
tipo. Tra queste, la mediazione religiosa è certamente tra quelle che stanno alla base di ogni attività educativa interculturale. Si sa dalla antropologia culturale e dalla storia delle religioni quanta rilevanza simbolica abbiano le diversità religiose nei rapporti tra culture. Se l’identità religiosa genera nell’individuo determinate rappresentazioni simboliche, veicola determinati significati del cosmo e della storia, impone specifiche gerarchie di verità e di valori
etici, attribuisce quel particolare senso del vivere e del morire, è chiaro che è
la persona nella sua totalità e continuità che viene coinvolta. Più ancora, viene coinvolto il gruppo di appartenenza, e il legame geloso che immedesima
l’individuo alla sua comunità e alle sue tradizioni. Per questo può rivelarsi superficiale ed illusorio un dialogo interculturale, specialmente se condotto in
sede di formazione di giovani e giovanissimi, se non viene presa oggettivamente nel debito conto anche la componente religiosa dell’identità personale
e sociale. Lavoro tanto più necessario in educazione in quanto – come insegna la storia dei popoli e singolarmente di quelli europei – gran parte dei conflitti religiosi non nascono dalla natura e dai contenuti oggettivi delle singole
religioni, ma derivano piuttosto da difetti soggettivi di educazione religiosa
degli uomini religiosi (o a-religiosi), e dalla tendenza a usare della religione
come strumento per fini impropri.
È chiaro che, in condizione di promiscuità culturale e religiosa, non solo
risulta antieducativo e devastante l’atteggiamento proselitistico, esplicito o
implicito che sia, ma lo stesso linguaggio identitario proprio di una religione,
quello dei suoi simboli liturgici, quello razionalizzato della sua teologia e della sua catechesi, risulterebbe discriminante, “esclusivo”, se non venisse opportunamente mediato da approcci storico-culturali o linguistici o comunque
interdisciplinari. Non meraviglia più il fatto che, in Europa, nel giro dell’ultimo ventennio, siano andati più o meno in crisi tutti i modelli di insegnamento religioso monoconfessionale. Avevano potuto funzionare nelle scuole pubbliche finché la società era (o poteva esibire le sembianze di) una società sociologicamente cristiana. Bastava utilizzare il linguaggio autoreferenziale delle chiese, anzi quello della propria tradizione confessionale con la sua spiritualità, la sua esegesi, la sua liturgia, per poter legittimare e imporre un modello di cultura religiosa nelle scuole. Già oggi, da più parti, quel modello
educativo si rivela impraticabile, ma non per insufficienze soggettive di inse7 Cf. G. Dal Ferro, Libertà e culture. Nuove sfide per le religioni, Padova, Messaggero,
1999, 85-102; C. Sirna Terranova, Pedagogia interculturale, Milano, Guerini, 1999, 119-130.
158
gnanti o di alunni o di responsabili, e tanto meno perché la verità cristiana meriti oggi meno credito di ieri, ma per un oggettivo cambio di paradigma che
investe tutto il sistema sociale quello educativo compreso. La tradizionale
pretesa delle chiese di tenere in vita nella scuola pubblica un’educazione religiosa a carattere identitario si scontra con una situazione culturale di fatto
ampiamente postcristiana e multiculturale, tale da rendere non tanto impopolare o addirittura improponibile quanto riduttivo e improduttivo un approccio
solo intraconfessionale al problema religioso. Nasce da queste ragioni la non
facile soluzione al problema della rivendicazione da parte di quei gruppi religiosi (certe correnti islamiche, certe ‘nuove religioni’, ma anche in genere le
chiese ortodosse nell’Est europeo) che ambirebbero conservare o attivare nello spazio pubblico della scuola insegnamenti e pratiche di natura confessionale. Se ancora resiste o insorge una certa ansia identitaria, ciò significa che
è ancora lontano il riconoscimento, civile e democratico, dell’alterità. Una ragione in più per le competenti autorità statali di provvedere a instaurare un
quadro normativo civile e laico, che, senza prevaricazioni o discriminazioni
nei confronti di qualsivoglia chiesa o gruppo religioso, possa gestire una comune alfabetizzazione al fatto e al problema religioso a servizio della differenza culturale di tutti gli alunni, a titolo della loro comune cittadinanza.
La cultura etico-religiosa tra i diritti umani
Diversi organismi dell’UE si sono occupati recentemente dell’educazione
scolastica. In particolare c’è stato e continua tuttora un crescendo di iniziative
volte a promuovere l’educazione alla cittadinanza democratica in ragione degli aumentati tassi di conflittualità sociale dovuti alla crescente multiculturalità. Si osserva che il fattore religioso è sempre tenuto presente in questi nuovi progetti educativi, in quanto dimensione ineliminabile, variabile ma costante, delle culture umane. La religione può essere storicamente fattore di coesione sociale, ma anche di divisione e di scontro. Il concetto coesione sociale ha
assunto una rilevanza centrale nei documenti degli organismi europei. Se fino
a ieri significava omogeneità nazionale sotto l’aspetto culturale, linguistico, e
religioso, oggi la complessità crescente delle società va imponendo un tipo
nuovo di coesione sociale, una coesione fondata piuttosto sui diritti e le responsabilità dei cittadini. Le grandi priorità sono la diversità, il pluralismo, la
giustizia sociale, la non discriminazione, la solidarietà, la partecipazione attiva, i valori comuni e la condivisione delle responsabilità secondo il principio
della sussidiarietà. Si tratta di una coesione sociale non scontata in anticipo né
imposta, ma che va continuamente costruita attraverso l’apprendimento della
cittadinanza e della convivenza civile. Ora, è convinzione comune, civile prima che teologica, che un nuovo modello di comprensione interreligiosa sia una
delle condizioni imprescindibili della pace sociale.
In questo senso è stata sintomatica in questi anni, tra molte altre iniziative eu159
ropee8, l’azione dell’Ufficio del Commissario ai Diritti umani, che si è fatto promotore di una serie di incontri europei tra responsabili dei Ministeri dell’educazione e autorità delle chiese e delle organizzazioni religiose, nell’intento di individuare vie nuove per garantire il mantenimento di uno stato di diritto democratico, ma rispettoso nel contempo delle libertà fondamentali, tra cui quelle di religione9. Un primo seminario, tenutosi a Siracusa nel dicembre 2000, sul tema del
ruolo delle religioni monoteiste di fronte ai conflitti armati, ha riaffermato con
forza che il fanatismo religioso è una perversione della religione e che le convinzioni religiose non debbono servire di giustificazione a conflitti armati, come
d’altra parte questi ultimi non possono essere invocati per reprimere l’esercizio
delle libertà religiose dei credenti. I rappresentanti delle fedi monoteiste si sono
impegnati tra l’altro “a continuare a sviluppare l’insegnamento della stima reciproca e dei diritti umani e promuovere la conoscenza dell’altro. Tale conoscenza
deve trovare la sua sede in tutti i luoghi dell’educazione pubblica. E a tal fine domandiamo ai poteri pubblici di fornire i mezzi adeguati agli educatori”10.
Il secondo seminario (Strasburgo 2001) metteva a fuoco le competenze delle chiese e degli stati circa l’esercizio del diritto alla libertà religiosa, e riconosceva che “le chiese come gli stati devono restare liberi di organizzare il loro rapporti in coerenza con le tradizioni confessionali e nazionali. Non compete al Commissario ai Diritti umani privilegiare un modello di rapporto piuttosto che altri. E tuttavia ogni riflessione sulle modalità delle relazioni statichiese deve essere guidata dal rispetto del diritto di ciascun cittadino alla propria libertà di pensiero, di coscienza e di religione, e in un quadro di reciproca
e rispettosa tolleranza”11.
8 Si segnalano in particolare: i pronunciamenti del Consiglio d’Europa, della Commissione europea, del Comitato dei Ministri dell’educazione su questioni come la lotta al razzismo e
all’intolleranza, la prevenzione del proselitismo delle sette, l’educazione interculturale, l’educazione etico-civica, l’introduzione di corsi di storia comparata delle religioni. Un gruppo di
esperti della sponda nord e sud del Mediterraneo, su incarico di Romano Prodi, presidente della Commissione europea, ha recentemente redatto un documento molto articolato sul Dialogo
tra i popoli e le culture nella spazio euro-mediterraneo, nel quale si insiste, tra l’altro, sulla necessità di introdurre nella scuola corsi adeguati di storia delle culture, delle mitologie e delle
religioni “mediterranee”, per favorire la comprensione reciproca tra civiltà confinanti che rischiano di combattersi solo perché si ignorano (il documento, a cura del Groupe des Sages de
la Commission européenne, è pubblicato dall’ Office des publications officielles des Communautés européennes, Luxembourg 2004, pp. 57)
9 Conseil de l’Europe, Dialogue du Commissaire aux Droits de l’Homme avec les communautés religieuses, Documentation pro manuscripto, Strasbourg 2004, pp. 58.
10 Ibidem, p. 11.
11 Ibidem, pp. 25. Il seminario ha tra l’altro ribadito i limiti della competenza dell’autorità
statale nei confronti della gestione pedagogica del religioso: “…L’Etat n’a aucune vocation à
devenir un ‘directeur de conscience’ et doit s’abstenir de toute tentative de définition du contenu admissible ou non croyances individuelles, qui sont et doivent demeurer libres. Ce qui
implique notamment que personne ne peut faire l’objet d’une discrimination dans la jouissance de ses droits civils et politiques en raison de son appartenance à une religion donnée ou pour
son refus d’y adhérer” (p. 18).
160
Un terzo incontro (Lovanio 2002), dal tema complesso ma di capitale rilevanza (“Diritti umani, cultura e religione: convergenza o divergenza? Dogmi,
norme e insegnamenti”) arrivava a concludere che “la costruzione dell’Europa
di domani esige lo sviluppo di una cultura politica che superi gli antagonismi.
Di qui la necessità di identificare i fondamenti etici dei principi che regolano
la vita delle nostre società. Le religioni, matrici culturali e comuni di questi
fondamenti e di questi principi, hanno un ruolo importanti da svolgere in questo processo, anche perché democrazia e religione hanno in comune l’idea del
riconoscimento e del rispetto dell’altro” . In particolare, in ambito di educazione scolastica, gli studiosi partecipanti al colloquio hanno riaffermato il ruolo primordiale della scuola in ordine alla formazione delle coscienze dei cittadini di domani, affermando che nella educazione ai diritti umani “le religioni,
che tanta parte hanno nella formazione dei giovani, dovrebbero trasmettere
contestualmente alla verità religiosa i valori dei diritti umani. E per garantire
una migliore qualità dell’educazione scolastica, crediamo sia arrivato il tempo
di creare un luogo specifico di formazione nel quale poter sviluppare una metodologia mirata all’integrazione dei diritti umani nell’insegnamento delle religioni, e alla integrazione della dimensione religiosa nell’insegnamento in generale”12.
Un quarto seminario (Malta, maggio 2004) ha affrontato di petto la questione dell’insegnamento religioso. Riflettendo sul trema “Religione ed educazione scolastica: la possibilità di sviluppare la tolleranza mediante l’insegnamento del fatto religioso”, la cinquantina di partecipanti (consiglieri di ministri dell’educazione, rappresentanti di chiese cristiane e altre religioni, giuristi,
pedagogisti) ha osservato, anzitutto, che l’incultura religiosa si sta generalizzando in modo preoccupante presso i giovani; che le istituzioni religiose sono
in crisi di trasmissione etico-simbolica-valoriale; che la stessa cultura generale risente negativamente degli effetti dell’ignoranza religiosa; che questa risulta essere anche una delle cause certe di ricorrenti episodi di intolleranza tra cittadini di diversa etnia e convinzione; che la scuola ha il dovere di far conoscere criticamente il fatto religioso, senza per questo assegnarle il monopolio della ricerca del senso; che lo studio del fatto religioso non può prescindere dalle
“storie religiose” sedimentate nella memoria collettiva dei singoli popoli e
gruppi; che l’istituzione di una specifica e autonoma materia di cultura religiosa non esonera dall’altrettanto importante analisi della dimensione religiosa interna ai vari saperi scolastici; che le religioni hanno indubbiamente dei valori e dei capitali di saggezza universali tali da armonizzarsi con la cultura dei
diritti umani… Il seminario ha inoltre studiato l’ipotesi della creazione di un’istituzione comune europea che possa servire da punto di raccolta e scambio
delle migliori pratiche didattiche in ambito di istruzione religiosa, da luogo di
incontro tra studiosi del problema e programmatori di curricoli scolastici, da
centro europeo promotore della formazione degli esperti in scienze della reli12
Ibidem, p. 43.
161
gione, che a loro volta dovrebbero formare a nuove competenze i titolari degli
insegnamenti di religione operanti nei sistemi scolastici nazionali o regionali13.
Questi cenni all’interesse che autorevoli organismi europei portano al tema
dell’educazione religiosa nella scuola documentano come la religione, lungi
dall’essere emarginata dalla scuola o dal rimanere riservata ai soli alunni credenti, stia diventando un nodo portante dell’educazione di tutti i cittadini europei, stia cointeressando trasversalmente tutti i saperi scolastici e non solo le
teologie confessionali, diventi una carta da giocare sul tavolo delle mediazioni
politiche e giuridiche oltre che su quello – scontato – dei dialoghi ecumenici e
interreligiosi. Tutto ciò lascia intravedere che lo studio scolastico della religione, nel mettersi a servizio dei valori della cittadinanza e della convivenza, assumerà presumibilmente una crescente curvatura etico-civica. Se questo potesse domani avverarsi in termini corretti e compiuti, non ci sarebbe che da rallegrarsene.
Conclusioni
Questo rapido sorvolo su alcuni dei fattori che urgono oggi una trasformazione del profilo dello studio scolastico della religione fa intravedere una serie
di realizzazioni già in atto o almeno di possibilità aperte, che possono interessare da vicino anche la realtà della scuola del nostro paese. In estrema sintesi,
potrei dire che dall’Europa, relativamente al problema che qui ci preoccupa,
possono venirci alcuni stimoli innovatori, che riassumerei così:
– la sollecitazione a ‘scolarizzare’ più adeguatamente il curricolo di religione, inserendolo in una logica epistemologica, pedagogica e disciplinare compatibile con quella dei comuni saperi scolastici;
– l’opportunità di qualificare l’istruzione religiosa strutturandone finalità
e contenuti in una prospettiva di formazione interculturale e interreligiosa, in risposta alle emergenze civiche ed etiche della società multietnica;
– la suggestione di molteplici sperimentazioni di cultura religiosa proposta via via in chiave ‘transconfessionale’ o di multifaith religious education (Gran Bretagna), di ‘scienza delle religioni’ e di ‘insegnamento
biblico e interreligioso’ (Svizzera), di ‘Società-cultura-religione’ (Spagna), di ‘Corsi filosofici e studio comparato delle religioni’ (Belgio), di
‘Formazione alla vita, ai valori etici, studio delle religioni’ (Land di
Brandeburgo), di ‘Educazione ai valori e alla cittadinanza’ (Alsazia),
ecc.;
– la necessità per l’insegnamento della religione, anche là dove è currico13 Cf. Documento finale del colloquio in EuForNews 2004/2, pp. 11-12; www.commissioner.coe.int.
162
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lare, di cambiare paradigma e cioè gli abituali schemi e linguaggi di tipo unilateralmente valutativo o identitario, per fornire prioritariamente
strumenti conoscitivi adeguati a superare comportamenti di intolleranza, riconducendo simboli atti messaggi religiosi ai contesti storico-sociali della loro origine e del loro sviluppo;
l’invito – che ci giunge dal contesto francese, ma ampiamente valido e
urgente anche per la nostra situazione – a passare da una laicità di incompetenza (“il religioso, per principio, non ci riguarda”) a una laicità
di intelligenza (“è un nostro diritto/dovere conoscerlo”) (Régis Debray)14;
l’urgenza di mettere in primo piano una conoscenza organica, contestuale, non strumentale, delle tre grandi tradizioni monoteiste che hanno dato una forma e un senso alla storia della cultura europea; una conoscenza che può essere tra l’altro un valido antidoto ai risorgenti fanatismi15;
la necessità di accreditare ogni insegnamento di religione con le scienze religiose di riferimento, sia teologiche che non teologiche, e perciò di
veder più largamente promosse tali scienze anche in sede universitaria
statale, dove potrebbe/dovrebbe aver luogo normalmente la formazione
scientifica e didattica dell’insegnante titolare della materia16;
la necessità, infine, di integrare nell’elaborazione pedagogica del prodotto religioso il contestuale risvolto non religioso, e cioè il fenomeno
14 Voci autorevoli e sempre più numerose di studiosi delle religioni insistono per auspicare un cambio di rotta nell’istruzione scolastica. Un esempio tra altri: l’islamista Maurice
Borrmans così scrive sull’ultimo numero del bimestrale «Le Monde des religions», 2004, 5, p.
26: “Je voudrais qu’une ‘science des religions’ permette à tous, à travers l’enseignement scolaire et l’information médiatique, de dépasser le ‘choc des ignorances’ et d’avoir une connaissance objective, scientifique et sympathique de l’expérience spirituelle des uns et des autres.
Puis-je alors souhaiter qu’on passe, dans certains pays, d’une ‘laïcité a-religieuse’ à une ‘laïcité pluri-religieuse’? Pour moi, tout en respectant la spécificité de leurs théologies, chrétiens
et musulmans pourraient dépasser le ‘choc des anthropologies’ et redécouvrir, en amont de la
Déclaration universelle des droits de l’homme et de la Loi islamique, ces valeurs fondamentales que sont la personne, la religion, l’économie, la culture et la famille ”.
15 È questa una esplicita richiesta venuta anche dall’ultima sessione del Forum europeo
dell’istruzione religiosa, Palermo 14-18 aprile 2004. Il giurista Silvio Ferrari dell’università di
Milano precisa: “La conoscenza della cultura e del diritto – anche religioso – dei ‘nuovi’ europei è di fondamentale importanza; capire le radici del diritto musulmano, porle a confronto
con quelle del diritto canonico, individuare gli elementi comuni che possono fare da ponte tra
i due ordinamenti (e tutto ciò non può essere realizzato senza coinvolgere il diritto ebraico, verso cui tanto il diritto canonico quanto quello musulmano hanno debiti rilevanti) è parte integrante di un confronto tra culture a cui potrebbe essere legato il destino stesso dell’Europa” (S.
Ferrari, Lo spirito dei diritti religiosi. Ebraismo, cristianesimo e islam a confronto, Bologna,
Il Mulino, 2002, p. 35).
16 Si veda il numero monografico di «Religioni e società», 2000, n. 37, su L’insegnamento delle scienze religiose in Europa, e il numero monografico di «Quaderni di diritto e politica ecclesiastica», 2001, 1, su L’insegnamento universitario delle scienze religiose e teologiche.
Prospettive italiane ed esperienze straniere.
163
della secolarizzazione, della non-credenza, del “post-cristianesimo”,
che proprio in Europa conosce le sue manifestazioni più vistose e diffuse17.
Per concludere, mi sia consentito avanzare una proposta “concreta”, il cui
contenuto però è ancora tutto da pensare e da costruire, e il cui esito non è per
nulla scontato. In questa Europa che va unificando paesi e mercati, che fa incontrare lingue e culture diverse, non appaiono ancora segni tangibili di una
unificazione della memoria dei diversi patrimoni simbolico-religiosi. L’educazione scolastica, da questo punto di vista, rimane tutt’oggi estremamente frammentaria e provinciale, perché legata sostanzialmente all’una o all’altra di
quelle province culturali che corrispondono grosso modo alle principali confessioni, che sono il cattolicesimo romano, l’ortodossia, il protestantesimo,
l’anglicanesimo. Alla frammentarietà delle “culture cristiane” e alle permanenti presenze secolari di cultura ebraica ed islamica si è aggiunta la “cultura
laica” della modernità.
Ebbene, che cosa potrebbe fare la scuola di tutti per trasmettere alle nuove
generazioni di europei questo patrimonio di storia e cultura religiosa? Non sarebbe il caso di pensare, ad esempio, a un syllabus comune di cultura storicasimbolico-religiosa, che, scevro da tentazioni enciclopediche o sincretiste, raccolga criticamente e organicamente dati storici ed empirici, simboli e testi, riti e pratiche, concetti e interpretazioni, etiche e valori…, da integrare nei programmi dell’educazione di base di tutti gli alunni dell’Europa dei Venticinque?
Non penso a un programma di cultura religiosa transconfessionale che debba
necessariamente sostituire gli attuali corsi confessionali presenti nei vari sistemi educativi nazionali, e nemmeno porsi in un discutibile parallelismo con tali corsi, ma penso piuttosto a uno “zoccolo comune dei fondamentali della cultura religiosa”, non sostitutivo ma trasversale alle culture confessionali e alle
stesse discipline scolastiche, in modo da facilitare quella auspicata ‘paideia europea’, capace di conciliare fin dagli anni di scuola l’eventuale adesione ai valori e ai comportamenti della confessione di appartenenza con una visione insieme plurale, laica, dialogante, ma anche storicamente e scientificamente aggiornata, del patrimonio religioso europeo. Vedrei questo come uno dei compiti urgenti e prioritari della scuola di domani, certo da non improvvisare co17
In proposito, afferma Amos Luzzatto, presidente dell’Unione delle comunità ebraiche
italiane: “La scuola è un tema più generale dell’intesa fra le singole confessioni e lo Stato, ma
soprattutto è un tema che deve essere posto all’ordine del giorno dell’Unione europea, la quale deve garantire paritariamente tanto le numerose religioni già oggi presnti nel suo seno quanto quella tradizione illuministica che tende a rifiutarle tutte. Il principio da affermare è quello
di offrire a tutti le medesime possibilità di esprimersi anche a livello delle istituzioni scolastiche. Per coloro che ritengono di avere la risposta più valida alle domande esistenziali degli
alunni e delle loro famiglie, non dovrebbe servire alcun ausilio coercitivo legale; le loro argomentazioni e la loro esperienza di comunità di fede dovrebbero essere sufficienti” (A. Luzzatto, Il posto degli ebrei, Torino, Einaudi, 2003, pp. 77-78).
164
me è successo in tentativi analoghi18, e che chiederebbe per lo meno la collaborazione congiunta – a livello europeo – di disciplinaristi della scuola, di
esperti in scienze accademiche della religione, non senza un consenso di massima degli esponenti qualificati delle organizzazioni religiose interessate al
progetto.
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18
È di qualche anno fa l’iniziativa di scrivere una “storia europea dell’Europa”, impresa
che poi si è rivelata fallimentare per più motivi (cfr. C.-C. Carbonell, in F. Pingel (a cura di),
Insegnare l’Europa. Concetti e rappresentazioni nei libri di testo europei, Torino, Ed. Fondazione Giovanni Agnelli, 2003, pp. 3-12). È invece in corso di realizzazione il progetto di
un manuale di storia moderna e contemporanea per ginnasi e licei che le scuole di Francia e
Germania dovrebbero prossimamente adottare in comune, nell’intento di “superare rancori,
diffidenze e pregiudizi stratificati nella memoria collettiva da secoli di guerre e di nazionalismi”
165
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Cittadinanza e convivenza civile nella scuola pubblica europea: prospettiva pedagogico-sociale e strategie della
“modularita”
GIUDITTA ALESSANDRINI1
Il diritto all’apprendimento ed al successo scolastico come “perno”
della politica dell’Unione Europea in tema educativo
È indubbio che il futuro – oggi più che mai – ci pone drammaticamente davanti agli occhi come “emergenza” il bisogno di rendere compatibile la spinta
verso lo sviluppo economico, la lotta alle nuove e vecchie “barriere” culturali
con l’opportunità di costruire un processo di coesione sociale non soltanto a livello europeo ma anche nella direzione più ampia.
Il vertice di Lisbona, nel marzo 2000, ha posto in primo piano il problema
di accelerare il passaggio verso il modello della società della conoscenza, di investire, cioè, in primis ma non solo nella crescita dell’informatizzazione di
massa e, soprattutto, di “ricalibrare” in modo equo le opportunità di formazione per tutte le categorie sociali. Il Memorandum, (documento redatto in sede
comunitaria nell’ottobre Duemila sugli indirizzi prevalenti da seguire nelle politiche educative) poi sottolinea una visione della formazione come opportunità di realizzazione del diritto all’apprendimento2.
Un ruolo centrale e strategico è oggi pertanto riconosciuto in sede comunitaria all’innovazione e all’adeguamento dei sistemi di istruzione, di formazione e di ricerca quali fattori di sviluppo, di crescita economica, di competitività
e dell’occupabilità.
In particolare, per quanto riguarda l’istruzione, un insieme di obiettivi finalizzati a sostenere nel medio-lungo periodo una profonda trasformazione del
1 Giuditta Alessandrini è Professore Associato presso il Dipartimento di Scienze dell’Educazione della Terza Università di Roma dove insegna anche Pedagogia del Lavoro e dirige il
Master in Gestione e Sviluppo delle Risorse Umane, Master in e learning presso la stessa Facoltà di Scienze della Formazione.
2 Sul tema del Summit di Lisbona, cfr. in particolare il mio volume Risorse umane e new
economy, Roma, Carocci, 2001, e la bibliografia ivi citata. Cfr. anche Manuale per l’esperto
dei processi formativi, Nuova edizione, Roma, Carocci, 2005 (in corso di pubblicazione).
168
sistema scolastico sono “messi a fuoco” nella logica della flessibilità, dell’adattabilità, dello sviluppo qualitativo (anche attraverso l’elevamento dell’obbligo formativo a diciotto anni), della promozione del successo scolastico, della formazione integrata, del raccordo con il mercato del lavoro, della diversificazione dell’offerta formativa, del rafforzamento della cultura scientifica e
tecnologica, della promozione delle competenze trasversali e della messa a regime di un quadro di valutazione del sistema scolastico.
Gli elementi chiave sottolineati dal Rapporto di Lisbona erano in linea di
massima, i seguenti:
• l’esigenza di armonizzare in modo significativo i sistemi educativi dei
principali paesi europei,
• abbattere l’attuale spreco di risorse umane,
• ancorare nel territorio la programmazione dell’offerta formativa, fermo
restando l’indirizzo unitario delle politiche formative,
• accrescere gli investimenti nella formazione delle risorse umane.
Ai fini del raggiungimento degli obiettivi di Lisbona, si prevede3 che per il
2010 si raggiungano almeno i seguenti obiettivi: che l’85% dei giovani di 20
anni raggiungano un diploma di istruzione o formazione o qualifica professionale; il tasso di partecipazione degli adulti alla formazione e istruzione aumenti del 30%; che il tasso di abbandono scolastico nella fascia di età 14-19
anni debba essere dimezzato; che il numero di aziende che dedicano investimenti in formazione aumenti del 30%.
Nel modello di società della conoscenza emergente dal contesto dei documenti dell’Unione Europea prima citati, si evidenzia come il diritto- dovere di
istruzione va correlato ad una nuova generazione di diritti alla cittadinanza intesi come diritto al successo formativo, acquisizione dei massimi livelli di qualificazione per tutti in riferimento alle attitudini ed alle aspirazioni personali.
Ai sistemi scolastici e formativi, si richiede, dunque, sempre più oggi il presidio dello sviluppo di set di conoscenze e competenze del soggetto in età evolutiva ed in età adulta in grado di interagire con le richieste di una società caratterizzata da una complessità crescente, da una connettività sempre più ampia ed invasiva, di interpretare le rappresentazioni simboliche presenti nel sociale e legate a variabili sociali e culturali sempre più intrecciate.
Il Consiglio Europeo è stato ancora più chiaro in occasione del Summit di
Barcellona, precisando la dimensione e il valore dell’impegno: fare dei sistemi di insegnamento e di formazione europei un riferimento qualitativo di livello mondiale, lavorando su tre assi strategici:
• il miglioramento della qualità e dell’efficienza dei sistemi di istruzione
e di formazione;
• l’estensione al maggior numero di persone dell’accesso a questi sistemi;
• l’apertura di questi stessi sistemi sul mondo.
3 Cfr. l’Accordo delle Confederazioni europee delle organizzazioni dei datori di lavoro del
28 febbraio 2002.
169
Il filo conduttore che lega insieme i tre assi è quello dell’apprendimento
permanente. Ciò significa dotare ogni individuo della capacità di imparare
“dove, quando e come” vuole.
La politica formativa dell’Unione Europea identifica, in definitiva, come
elemento essenziale l’investimento in capitale umano in quanto garanzia di
coesione sociale e cittadinanza attiva.
Il capitale umano è definito come l’insieme delle conoscenze, capacità
competenze e prerogative degli individui che agevolano la creazione del benessere personale, sociale, economico e costituisce un asset intangibile che ha
la capacità di migliorare e sostenere la produttività, l’innovazione e l’occupazione.
Basti citare il documento approvato dal Consiglio dei ministri dell’Istruzione dell’Unione Europea su “Lo sviluppo del capitale umano per la coesione sociale e la competitività nella società dei saperi (approvato dai 25 Ministri europei) i cui aspetti fondamentali sono: gli investimenti in capitale umano sono in sostanza un requisito preliminare ai fini della promozione della
competitività europea, del conseguimento dei tassi elevati di crescita e di occupazione e della transizione di un’economia basata sulla conoscenza”.
Ma al di là del dettato del linguaggio dell’Unione, in tema di strategie educative, spetta indubbiamente al discorso pedagogico pur in consonanza con le
motivazioni di un dibattito più ampio di carattere transdisciplinare, il compito
di interpretare ad un livello di maggiore approfondimento le questioni. Si tratta, dunque, di enfatizzare la curvatura della formazione continua verso l’idea
di primato dello sviluppo della persona in quanto soggetto.
In questa direzione va anche il dibattito recentemente enfatizzato anche in
sede comunitaria – come già ricordato – sul tema dell’educazione alla cittadinanza.
La formazione e l’istruzione – con l’accentuazione delle istanze che abbiamo prima rilevato – non sono più confinati negli ambiti propri del mercato del
lavoro e dei sistemi educativi. Esse assurgono al ruolo di politiche attive della
cittadinanza, nella misura in cui è loro conferita una funzione di raccordo tra
sfere sociali diversificate: partecipazione civica, vita professionale, ambiti familiari e del tempo libero, sviluppo personale attraverso la qualità dell’apprendimento. La correlazione positiva tra bassi livelli di istruzione e bassi indici di consumo culturale, di utilizzazione dei servizi, di partecipazione, di relazione mostrano che il diverso possesso del sapere incide su tutto il percorso
di vita delle persone determinando scelte e condizioni esistenziali.
Il valore della conoscenza si configura, quindi, come un “bene in sé”, legato alla realtà quotidiana di ogni cittadino.
In sintesi, il sistema formativo si configura come un bacino dove si coltiva
un bene di primaria importanza anche ai fini delle politiche finalizzzate all’inclusione: l’educazione alla cittadinanza attiva. L’idea che la “conoscenza”
170
possa essere considerata intrinsecamente, e non solo strumentalmente, un “bene” è un fatto su cui si sta avviando un lento processo di condivisione4.
Un’altra area di temi correlata con la questione della cittadinanza riguarda
i profondi cambiamenti presenti nella società come istanze del suo mutamento costante: i rapporti tra valori politici, religiosi ed i comportamenti dei gruppi sociali e delle minoranze, gli effetti delle dimensioni macroeconomiche e finanziarie sul cambiamento dei rapporti di produzione e sugli stili di vita. Come questi fenomeni complessi incidono nel “codeterminare” opzioni valoriali
che, a loro volta, esercitano influenza sulle prassi educative relativamente ai
giovani ed agli adulti della società in cui viviamo. Come reinterpretare i problemi più specifici dell’educabilità rispetto alle spinte presente nella società
multietnica, multirazziale in cui oggi viviamo?
La prospettiva della pedagogia sociale: inclusione, comunità e reti
La ricerca pedagogica-sociale coglie ed interpreta il tema secondo angolazioni diverse: ad esempio il tema della produzione del consenso in un contesto
come quello geopolitico attuale in cui sono venute a ridimensionarsi rispetto al
passato i punti di riferimento delle grandi aggregazioni politiche e sindacali, il
tema dell’educazione alla cittadinanza, che acquista diversi connotati a fronte
dello scenario europeo, il tema degli effetti dei nuovi mezzi e canali di comunicazione in rete che tendono a porre fuori gioco i modelli interpretativi consolidatisi nel contesto della comunicazione di massa.
La pedagogia sociale può anche essere identificata come “un’attenzione
teorica ed operativa tendente a scoprire e a inventare alcune dimensioni della
formazione dei soggetti e a renderle intenzionalmente educative attraverso il
rafforzamento la modificazione e l’eliminazione di alcuni loro elementi costitutivi”.
L’oggetto privilegiato dell’indagine della pedagogia sociale concerne prevalentemente due ambiti: “le valenze educative delle diverse istituzioni sociali e l’educazione sociale, la riflessione critica e la progettazione operativa rivolta all’intreccio dei rapporti esistenti tra i soggetti e i loro molteplici contesti d’appartenenza”5. La pedagogia sociale può essere colta come “pedagogia
in situazione” cioè “pedagogia rispondente a quell’istanza relazionale che ten4
Su questi aspetti ho curato un volume miscellaneo che riporta i contributi di numerosi
autori e studiosi di tematiche educative in occasione di un Convegno Siped. Cfr: (a cura di)
Giuditta Alessandrini, Pedagogia e formazione nella società della conoscenza, Milano, Franco Angeli, 2002.
5 Cfr. Luisa Santelli, Pedagogia sociale, Brescia, La Scuola, 2000.
Sul tema delle competenze trasversali cfr. in particolare G. Alessandrini, Manuale per l’esperto dei processi formativi, Roma, Carocci, 1998 e la bibliografia ivi acclusa. È fondamentale inoltre G. De Francesco (2002); ISFOL Competenze trasversali e comportamento organizzativo, Franco Angeli, 1994.
171
de a vedere il sapere pedagogico come rifiuto di visioni tendenti a processi di
cristallizzazione per assumere viceversa una visione dinamica e centrata sul
confronto” (Santelli, 2000).
La finalità che si pone la ricerca pedagogica è quindi quella dell’apertura
di possibilità per una migliore convivenza di promozione e sviluppo dell’uomo, di prevenzione e recupero del disagio.
Non dimentichiano che in un’ottica pedagogico-sociale, la formazione, può
essere sempre più vista secondo due polarità sostanziali, sia come fattore per
lo sviluppo socio economico e produttivo di una comunità, sia come “bene in
sé”, condizione e mezzo di sviluppo. Ciò significa che il “peso” della formazione e dell’istruzione non sono solo da correlare univocamente all’ampliamento di potenzialità che possono produrre rispetto al lavoro, ma anche a quelle aree che riguardano il soggetto nella sua interezza, la partecipazione civica,
la sfera degli ambiti familiari e del tempo libero, il consumo culturale in quanto tale, il benessere, la capacità di esprimere opzioni senza condizionamenti di
sorta, in definitiva lo sviluppo della persona.
Con lo sviluppo della realtà digitale e grazie al ricorso massiccio e diffuso delle ITC nell’organizzazione del lavoro si affermano una serie di nuove
opportunità offerte da software e architetture di interconnessione che, a minori costi, puntano soprattutto a obiettivi di integrazione e facilitano il definitivo avvento di forme di lavoro basate sulla comunicazione e sull’apprendimento.
La focalizzazione sulla crescita dei bisogni di apprendimento nella società
richiama in primis i temi classici della ricerca pedagogica ed educativa.
Al pedagogista sociale, in quanto studioso del fenomeno educativo nelle
sue interazioni con i processi di condizionamento sociale, spetta in primis il
compito di “ri-leggere” i significati – nelle luci ed ombre che questi comportano – che oggi può avere l’accesso alla conoscenza in un mondo in cui questa diventa sempre più risorsa chiave per lo sviluppo del soggetto, sia in quanto persona, che cittadino o membro di un’organizzazione pubblica o privata o
– se assente – fonte di esclusione dall’inserimento nella vita attiva. Il senso del
“governo” della globalizzazione, insomma, viene a legarsi indissolubilmente
con le esigenze di inclusione, e tali politiche dovrebbero, ci si auspica portare
verso la possibilità di coniugare crescita economica e giustizia sociale (Alessandrini, 2002).
La rivendicazione di un nuovo ruolo della pedagogia come “pensiero forte”, in grado di “rileggere” il rapporto tra formazione ed educazione, ed in alternativa alle “retoriche” della centralità della formazione nella società il richiamo allo spessore critico (ed il rifiuto della riduzione a sapere pratico-sociale) si traduce in riconoscimento per la pedagogia di un ruolo ri-flessivo sugli altri saperi (cfr. ad esempio Scurati).
172
Il passaggio dalla dimensione educativa a quella formativa
Quali sono gli elementi che disegnano, dunque, il passaggio dalla dimensione educativa a quella formativa? A mio parere – come ho gia avuto modo di
indicare altrove con maggiore ampiezza (Alessandrini, 2003) – questa appare
“consistente”soprattutto in considerazione di sei dimensioni chiave che sottolineiamo qui di seguito:
1. l’intenzionalità della dimensione formativa. Questa dimensione è legata alla definibilità stessa del concetto di formazione ed al suo rapporto
con l’idea di “Bildung”. In ultima analisi, l’intenzionalità è legata a
doppia mandata alla stessa intellegibilità dell’idea di formazione ed al
ruolo da questa giocato nella relazione io-mondo.
2. la processualità come caratteristica fondante della formazione stessa.
La “processualità educativa” è inerente alla dialettica tra soggetto ed oggettività culturale e sociale. Si tratta della dimensione descrittiva della
gradualità della crescita, vista sia come “emersione” del soggetto che
come “successo” del processo di sviluppo eterodiretto dell’individuo in
coerenza dinamica con il contesto culturale e sociale (sistema di valori,
”credi” condivisi, sistemi sanzionatori, ecc. ) che caratterizza l’habitat in
cui il soggetto vive.
3. la riflessività come ambito proprio del processo formativo. Abbiamo
avuto modo di sottolineare, anche in altri scritti, come l’apprendimento
adulto tenda sempre più ad essere colto non tanto come il processo di
acquisizione di un corpo di conoscenze consolidato ma in quanto “riflessione” sulle “buone pratiche”, autodiagnosi degli errori verso il miglioramento della capacità di apprendere. La formazione diventa sempre
più quindi identificabile come presidio dei processi di “creazione e “sviluppo della conoscenza”. L’individuo, infatti, nel suo porsi come soggetto che “costruisce” se stesso nel contempo in cui “costruisce” la
realtà in cui opera, elabora significati e senso in riferimento al suo agire individuale ed intersoggettivo.
4. La dimensione della soggettualità come chiave di volta del processo formativo adulto. L’enfasi sulla centralità del soggetto nasce a partire dalla
considerazione della dimensione esperienziale ed autobiografica quale
“chiave di volta” dell’apprendere adulto e si coniuga nei termini di precisi dispositivi metodologici (ad esempio l’approccio centrato sul bilancio di competenze).
5. Ridimensionamento di ruolo dell’insegnante in qualità di esperto di formazione verso ambiti di presidio dei processi di apprendimento e creazione della conoscenza. Le competenze del formatore travalicano la dimensione meramente metodologica di “mediatore” didattico per attingere un livello diverso – più ampio e complesso – che è quello di un operatore culturale ad ampio raggio. Pur nella considerazione della specificità dei contesti in cui si realizzano le esperienze educativo-formativo,
173
si delinea un elemento comune agli scenari organizzativi propri di aree
diverse (pubblico e privato): il bisogno di maggior coinvolgimento delle persone, del “carico” di creatività e di “intelligenza di cui esse dispongono per anticipare scenari che sono in divenire. Si configurano bisogni più complessi da parte delle persone che lavorano: interpretazione dei contesti, analisi di culture diverse, capacità di integrazione e di
dialogo, “pensiero produttivo”, capacità di autoanalisi dei comportamenti, capacità di organizzare e creare processi di crescita della conoscenza (knowledge management).
6. La problematicità come aspetto saliente della riflessione sulla formazione in un’ottica pedagogica. La formazione, in sostanza, diventa il
luogo in cui il soggetto per un verso acquisisce consapevolezza del suo
divenire, per l’altro introietta il senso delle sue potenzialità inespresse.
Gli esiti di ogni processo formativo devono, infatti, essere letti in termini che non possono che essere “problematici”, in parte a causa dell’impossibilità di predeterminazione dei risultati dei fenomeni formativi,
inoltre per le caratteristiche stesse della fenomenologia dell’esperienza
formativa stessa. Tale esperienza si gioca sul duplice filo per un verso
della “crescita individuale ed autodiretta” e per l’altro del sostegno
esterno all’emancipazione attraverso l’interazione duale tra formatore e
formando. Questo “nodo” – naturalmente ambiguo ed ambivalente – determina in modo irreversibile per così dire la natura problematica dell’atto del “formare” quando, superata la dimensione di puro metodo o
prassi, esso appare nella sua essenzialità pedagogica.
Le competenze trasversali come “competenze per la cittadinanza”
Il primo messaggio contenuto nel Memorandum è relativo alla individuazione della strategicità del tema delle competenze. “Nuove competenze per tutti” significa garantire – come abbiamo già visto in precedenza – un accesso
universale e permanente all’educazione e alla formazione al fine di permettere l’acquisizione e la manutenzione delle competenze necessarie a una partecipazione durevole alla società, attraverso l’esercizio della cittadinanza attiva
ed il miglioramento della occupabilità e della capacità di inserimento professionale.
Sembra evidente, dunque come il tema delle competenze sia strettamente
interrelato con una visione “strategica” della modularità. È in primo luogo necessario innalzare il livello delle competenze di base, necessarie a vivere e ad
agire nella società della conoscenza (il che significa una conferma degli assunti del Vertice di Lisbona). Uno dei punti più interessanti in questo contesto,
ad esempio, è il riconoscimento della complementarietà tra apprendimento
formale e non formale e quindi, come già sottolineato, della rilevanza di tutto
quel patrimonio di competenze critiche per la cittadinanza e l’occupabilità.
174
Da ciò deriva l’importanza non solo di policy di orientamento e politiche
formative ma anche di interventi mirati all’accesso all’informazione, all’auto
apprendimento in tutti i contesti ed alla riflessività in azione dei soggetti.
Occorre scorgere il potenziale grande interesse di una lettura pedagogica
del dibattito sulle competenze, anche se al momento non è possibile riscontrare una certa ampiezza e vivacità di contributi in materia. Occorre, pertanto, auspicare che anche all’interno della specificità di un linguaggio segnatamente
pedagogico, si possano registrare – come inizia ad avvenire – numerosi e qualificati interventi6.
In altri termini focalizzare le competenze può voler dire individuare gli spazi di realizzabilità dell’intenzionalità attiva del soggetto – persona che interpreta e sceglie il suo destino professionale e di cittadino. L’insegnante che delinea il contributo professionale da sviluppare nei termini di sapere, saper fare, saper essere presceglie un’idea di formazione come costruzione del sé (bildung) in cui il soggetto è attore della sua crescita professionale e umana.
Nei più recenti documenti relativi agli indirizzi comunitari in tema di formazione e lavoro, le competenze trasversali sono sempre più riconosciute a livello sociale come importante componente di una buona prestazione lavorativa. Competenze relative alla relazionalità, alla capacità di risolvere i problemi,
la competenza nel leggere i contesti, la capacità di diagnosticare situazioni
complesse, sono alcune delle competenze trasversali che sono al centro dell’attenzione come aree di particolare criticità sia per le organizzazioni che per
i giovani, al di là delle specifiche aree disciplinari e settoriali.
Il termine competenze “trasversali” è usato generalmente per intendere
competenze comuni ad una larga gamma di situazioni non relative alla situazione lavorativa specifica. All’interno del dibattito sulla definizione delle competenze nello scenario della formazione continua, ha acquisito una certa rilevanza il concetto di qualificazione chiave inteso come “insieme di competenze complementari che consentono una capacità d’agire piena e responsabile”.
Le qualificazioni chiave sono identificate ad esempio con alcuni processi
cognitivi; flessibilità, capacità di prendere iniziative, impegno del pensiero
astratto, capacità di lavorare in gruppo, abilità ad apprendere (competenza di
auto apprendimento).
6 Nell’ambito della didattica il modulo è inteso essenzialmente come una tappa del percorso formativo che consente ai soggetti in formazione di pervenire al possesso di conoscenze e competenze e comincia a posseder una vera e propria applicabilità solo in virtù della legge sulla riforma dei cicli: legge quadro approvata in via definitiva dal Senato il 2 febbraio
2000, tenendo conto del Regolamento 8 marzo 1999, recante norme di autonomia delle istituzioni scolastiche ai sensi dell’art. 21 della legge 15 marzo 1997, n. 59 (legge Bassanini) e del
decreto legislativo 31 marzo, cfr: il n ni, 112. Un riferimento d’obbligo è ai “Piani Personalizzati delle Attività Educative” e ai “Piani Personalizzati degli Studi” che ogni gruppo insegnante deve realizzare. Nuove responsabilità emergono, pertanto da parte di scuole e di operatori, in riferimento a scelte che vengono di volta in volta assunte anche in riferimento alle famiglie ed al territorio.
175
Le caratteristiche fondamentali di queste competenze chiave sono individuate nel rapporto ISFOL 1996. Esse, in primo luogo hanno in sé il principio
della trasferibilità, in quanto l’individuo le può utilizzare in contesti e situazioni lavorative diverse, senza essere obbligatoriamente legato ad un ambito
tecnico-specialistico specifico. In secondo luogo esse sono definite come competenze di base, vale a dire a basso livello di specificità ma a forte connotazione coesiva, elemento d’integrazione del sistema di competenze in possesso
dell’individuo. Infine vi è un nesso di queste competenze con la personalità
dell’individuo piuttosto che quella del suo operare e dunque sono strettamente
legate alla peculiarità di ogni singola storia. Molto spesso queste competencies
vengono definite nuove abilità, nuove capacità, nuove skills. Per alcuni queste
nuove competenze sono nuove solo in quanto alcune abilità “sociali”, acquisite fino a ieri per vie informali, possono oggi divenire oggetto di vera e propria
formazione. Per altri studiosi le abilità trasversali costituiscono una novità in
quanto sono diventate.
Il problema – che riguarda in particolare coloro che in qualità non solo di
studiosi ma anche di formatori operano nelle istituzioni formative – è quello di
creare le condizioni educative per la sollecitazione nei giovani nell’ambito
stesso nel percorso formativo, di abilità di tipo trasversale in modo da facilitare la transizione verso la vita attiva e l’inserimento occupazionale dopo la
laurea. Le competenze trasversali dovrebbero diventare, pertanto, oggetto di
formazione in forma esplicita e programmata sia in ambito di formazione di
base che professionale e universitaria (lauree triennali, specialistiche e master).
Le competenze trasversali dovrebbero diventare, pertanto, oggetto di formazione in forma esplicita e programmata sia in ambito di formazione di base
che professionale e universitaria (lauree triennali, specialistiche e master). Alla domanda “come cambia la progettazione della formazione nell’ottica delle
competenze” possiamo rispondere enucleando cinque punti chiave:
• Progettare interventi di formazione basati sul valore centrale delle competenze significa sottolineare la condizione evolutiva del soggetto adulto in formazione, sia nell’ambito dell’offerta formativa che delle altre
fasi dell’ iter formativo.
• Un progetto che si articola per competenze consente di sviluppare comportamenti di tipo auto riflessivo.
• Più che le conoscenze contenutistiche e procedurali acquistano rilevanza le competenze legate a comportamenti di tipo trasversale: all’apprendere nei gruppi, al gestire visioni condivise e processi comunicativi
complessi verso l’esterno e l’interno delle istituzioni
• Progettare per competenze consente alle strategie di formazione di inglobare logiche di flessibilità in coerenza con quanto richiesto nei contesti professionali.
• Lo sviluppo di una formazione articolata per competenze consente l’attuazione della leva dell’integrazione tra sottosistemi formativi. La certificazione di articolazioni del percorso anche realizzate nell’ambito di
176
diverse aree (la formazione universitaria, l’educazione degli adulti, la
formazione continua) consente di integrare fasi e momenti di crescita
personale e di conseguimento di titoli spendibili nella professione.
La modularità europea
L’esigenza di porre attenzione allo sviluppo della qualità dell’apprendimento ha condotto di recente alcune aree del dibattito pedagogico e delle “parti sociali” nello scenario europeo verso la “focalizzazione” intorno al tema della modularità7. Altri fattori, inoltre, correlati allo scenario dei sistemi formativi, caratterizzano gli elementi di “ancoraggio” su cui si articola questa tematica, al di là degli aspetti meramente di didattica generale o disciplinare. Il progetto Leonardo “E-Mod” – al quale abbiamo, in quanto Cattedra di pedagogia
Sociale e Dipartimento di Scienze dell’Educazione, partecipato come partner
– ha avuto il merito di sollecitare l’attenzione – anche dal punto di vista di una
riflessione sistematica oltre che sul piano delle verifiche empiriche dei risultati delle sperimentazioni effettuate a livello transnazionale, sull’insieme degli
aspetti caratterizzanti il modello e le implicazioni complessive della modularità.
Nell’ambito della discussione sull’argomento modularità – nella caratterizzazione teorica che abbiamo voluto conferire al tema –, la dimensione formativa assume un carattere di particolare rilevanza in quanto connessa a tre fattori critici: in primo luogo, l’attenzione al “destinatario” della formazione il
nucleo esperienziale del “soggetto – persona” sia in quanto soggetto in età evolutiva che in secondo luogo l’esigenza di rileggere gli standards di apprendimento richiesti in una società complessa, centrata sul valore del capitale intellettuale e su dinamiche di trasformazione e di sviluppo particolarmente intrecciate, in terzo luogo l’innesto di nuove modalità di apprendere per i docenti,
nuove modalità di gestire ed implementare la propria professionalità.
Vediamo il primo punto: il principio del primato della rispondenza dell’iter formativo alla centralità dell’allievo si traduce nell’affidamento di una particolare rilevanza alla processualità del percorso formativo con particole riguardo all’attività dell’apprendere. Il bagaglio culturale acquisito nella formazione scolastica è un capitale che può e deve essere investito nell’intero corso
della vita del soggetto in quanto strategia di apprendimento e di comunicazione che caratterizza l’individuo formato nelle sue relazioni sociali.
Le strategie modulari intese come parte costitutiva dell’iter progettuale possono quindi diventare metodologia pedagogicamente fondata del curricolo formativo.
L’attenzione alla qualità dell’azione formativa poggia, dunque, in modo peculiare sui seguenti elementi:
7
Sul tema dell’orientamento pedagogico alla persona c’è un’ampia bibliografia.
177
• la centralità del soggetto che apprende;
• la considerazione dell’individuo come “soggetto – persona”, cioè portatore di una soggettività complessa (saperi, saper fare, saper essere, essere)8 che si esprime nell’unicità e nell’irriducibilità della sua “umanità”;
• l’attenzione alle differenze ed alle specificità individuali (viste anche
come “ricchezza” e multidimensionalità dell’esistente) l’esigenza di
sviluppare – insieme agli obiettivi connessi con le competenze specialistiche – anche azioni finalizzate alla formazione dell’identità soggettiva e sociale (educazione alla cittadinanza attiva).
La scuola della “conoscenza condivisa” centrata sulle competenze di ogni
singolo allievo in qualche modo reinterpreta il valore dell’apprendimento nel
senso di processo individuale e collettivo.
I processi apprenditivi di cui la scuola può essere “teatro” sono definibili in
modo diverso: riguardano gli allievi ma anche gli insegnanti, talvolta sono paralleli, talvolta si intrecciano sovrapponendosi. L’apprendimento dai colleghi
attraverso la partecipazione a gruppi di lavoro (progettazione ad hoc) o agli organi collegiali è un esempio di tali processi. Non bisogna dimenticare che la
stessa partecipazione ad iniziative ed eventi in collaborazione con altri enti ed
istituzioni può essere uno straordinario veicolo per lo sviluppo di nuove “percezioni” delle problematiche didattico-educative. Si può apprendere dai competitori (scuole operanti nel territorio), si può apprendere dai partners (laddove esistano, ad esempio, partenariati o collaborazioni per la partecipazione a
ricerche finanziate in sede di Unione Europea). La programmazione modulare
si sostiene, nel senso che assume un significato effettivo dal punto di vista dell’innovazione grazie al suo stretto rapporto con l’innesto di fattori di apprendimento per i docenti e di crescita complessiva della professionalità. Per questa ragione, diamo spazio in questo capitolo ad un discorso relativamente ampio e mirato al tema dell’apprendimento organizzativo.
In questo nuovo scenario didattico, il docente è chiamato ad una progettualità nuova il cui ruolo fondamentale si esercita nell’aiutare l’allievo ad acquistare consapevolezza della multidisciplinarietà del sapere.
La struttura modulare è correlata, dunque, ad alcuni elementi portanti:
a) innanzitutto è garantita da momenti di verifica in itinere che consente ai
docenti di valutare se i risultati ottenuti dagli allievi collimano con gli obiettivi del modulo formativo e in senso più ampio dell’offerta formativa di ciascun
istituto scolastico;
b) un altro elemento-chiave è la flessibilità didattica intesa in senso generale come possibilità di raggiungere sintonia tra tempi dell’insegnamento e ritmi di apprendimento.
8 Sul tema dell’apprendimento organizzativo nella scuola, cfr. il volume Formazione ed organizzazione nella scuola dell’autonomia, Milano, Guerini Editore, 2001.
178
L’articolazione dei tempi dell’insegnamento va vista sia dalla prospettiva
della singola scuola, per esempio le ore totali di una singola o più discipline
aggregate anche in forma laboratoriale si possono condensare in un progetto
intensivo di durata trimestrale, anziché nell’indistinta durata di un anno, sia in
una prospettiva del sistema formativo integrato e della costruzione di curricoli, vale a dire forme di programmazione didattica fondati su “obiettivi specifici di apprendimento relativi alle competenze degli alunni”.
La flessibilità è dunque l’elemento fondante che consente ai “docenti-progettisti” di azioni didattiche alternative di muoversi agilmente all’interno di un
andamento scolastico lineare.
c) un percorso didattico modulare deve avere una relativa autonomia rispetto al percorso dell’offerta didattica complessiva nella misura in cui attinge senso e direzione direttamente in parte dalle problematiche cognitivoaffettive dell’allievo ed acquista efficacia rispetto agli obiettivi da raggiungere anche, naturalmente, in riferimento alle dimensioni strutturali della disciplina.
La modularità va interpretata e compresa – nel modello che è emerso nel
progetto europeo Leonardo e-Mod – in riferimento ad un insieme di elementi:
la dimensione organizzativa come componente implicita dell’innovazione dei
sistemi formativi, il valore dell’esigenza – propria dei sistemi formativi ed in
sintonia con lo spirito della riforma – di costruire nuovi standard formativi
coerenti con l’idea di società cognitiva, l’apprendimento organizzativo in
quanto possibilità di sviluppo di processi di crescita professionale dei docenti
anche correlati allo sviluppo di “comunità di pratiche” (cfr. in particolare il testo miscellaneo sul progetto curato da Di Mauro, 2004).
Paideia e cittadinanza
A conclusione del nostro discorso, occorre riprendere per una ulteriore riflessione i fili della discussione. La sottolineatura del primato della formazione interiore si salda al valore ineludibile di un ideale di convivenza civile. È
l’assunto della formazione interiore dell’uomo che sta alle radici dell’idea di
società della conoscenza e che ne costituisce la trama ideale. Dimensioni come la libertà, la responsabilità, la partecipazione, il superamento delle ingiustizie, contribuiscono a definire il senso della dignità di ogni individuo nei contesti professionali e sociali.
L’architettura del nuovo sistema prevede che gli istituti formativi si raccordino in modo consortile con il mondo del lavoro e dell’università, consentendo forme di collaborazione con la realtà industriale in riferimento non solo a
stages e attività formative in alternanza, ma anche a forme di raccordo con il
mondo produttivo in grado di creare “incubatori” d’impresa ed attingere a nuove risorse finanziarie. Un modello formativo flessibile e lineare, orientato alla
179
certificazione ed al riconoscimento delle competenze raggiunte costituisce
l’impianto portante della possibilità di integrazione tra sistemi.
Uno degli aspetti più significativi che consentono lo sviluppo di un’autentica modularità – intesa non solo nel senso di adeguamento a modelli di comportamento progettuale di tipo ritualistico- ma intesa come insieme di valori
portanti nelle scelte professionali dei docenti- è la possibilità di sviluppare processi di comunicazione sulle “buone pratiche” effettivamente realizzate con gli
allievi. Questa intenzionalità si correla all’esigenza di produrre documentazione, di far circolare l’informazione e di stimolare processi di autoanalisi in seno alla stessa comunità dei docenti. È da questo processo di autoanalisi che
scaturisce un effettivo processo di autoformazione e di crescita professionale.
Lo scambio di buone pratiche può essere un fattore che influenza la qualità dell’insegnamento.
Attraverso la possibilità di sviluppare una pratica riflessiva, l’insegnante
sperimenta un sentimento di efficacia che rinforza la fiducia dell’insegnante
nella sua capacità di influenzare positivamente l’apprendimento degli studenti.
L’apprendimento condiviso attraverso la costruzione di comunità di pratiche consente i lo sviluppo di strategie metacognitive che migliorano la capacità di sviluppare il mestiere di insegnante. Ciò significa la possibilità di sviluppare una presa di coscienza ed una valutazione (decentrata dal proprio personale punto di vista) delle proprie capacità didattiche. Questo processo significa creare le condizioni per garantire lo sviluppo delle competenze e della propria identità professionale della direzione del raggiungimento del successo
scolatico per l’intera comunità degli allievi.
La scuola in quanto luogo di apprendimento, come in precedenza abbiamo
avuto modo di vedere, è anche un luogo dove si organizza e sviluppa la professionalità. L’introduzione della modularità enfatizza, necessariamente, la
sensibilizzazione della componente docente all’apprendimento organizzativo.
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PARTE TERZA
LA CONVIVENZA TRA FATTI E VALORI NELLA
SCUOLA DELLA RIFORMA
183
184
La dimensione europea e internazionale nei documenti
della riforma della scuola italiana
GIUSEPPE BERTAGNA
“La regione più amata dal cielo”, scriveva con orgoglio dell’Europa Gian
Domenico Romagnosi, nel 18351. Può darsi che esprimesse questa valutazione non solo con il distacco dello studioso di storia o con la consapevolezza critica del sociologo e dell’economista, ma anche con l’inconscia passione sollecitata da ogni egocentrismo che si fa poi, antropologicamente, eurocentrismo.
Ricordiamo Lévi-Strauss: “ciascuna delle decine o delle centinaia di migliaia
di società che sono coesistite sulla terra, o che si sono succedute da quando
l’uomo vi ha fatto la sua prima apparizione, si è valsa di una certezza morale
– simile a quella che potevamo invocare noi stessi – per proclamare che in essa – fosse pure ridotta a una piccola banda nomade o a una capanna sperduta
nel cuore della foresta – si condensavano tutto il senso e la dignità di cui è suscettibile la vita umana. Ma che sia in tali società o nella nostra, ci vuole una
buona dose di egocentrismo e d’ingenuità per credere che l’uomo si sia interamente rifugiato in uno solo dei modi storici o geografici del suo essere, quando invece la verità dell’uomo sta nel sistema delle loro differenze e delle loro
comuni proprietà”2.
Sono difficilmente refutabili, però, qualunque siano le motivazioni che portarono Romagnosi al suo tempo e molti altri prima di lui e dopo di lui a considerare valore prezioso l’Europa e l’essere europei, anche le analisi di Rémi
Brague3, un vero controesempio dell’applicazione meccanica del paradigma
interpretativo straussiano alla nostra storia.
1 T.
Raffaelli, Carlo Cattaneo precursore di un’Europa delle regioni, internodo aperto verso l’umanità, in Aa.Vv. (ed. P. Roggi), Quale mercato per quale Europa?, Milano, F. Angeli,
1994, p. 232.
2 C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale (1958), trad. it., Milano, Il Saggiatore, 1966, p.
271.
3 R. Brague, Il futuro dell’Occidente (1992), tr. it., Milano, Rusconi, 1998. Il titolo originale dell’opera è un ben più significativo: Europe, la voie romaine. Il testo di questo docente
di filosofia araba alla Sorbona e di storia delle religioni alla Ludwig-Maximilian-Universität
di Monaco, tradotto in 14 lingue, costituisce, a mio avviso, una della letture più penetranti della natura dell’Europa e del suo fine, in rapporto all’apertura interculturale.
185
L’Europa, infatti, è nata, è stata e rimarrà tale, ad avviso di questo autore,
se e perché si è sempre decentrata. Quando si è ripiegata su se stessa, e se mai
si ripiega o si ripiegherà, sarebbe finita. Autofagia storica. La sua identità, infatti, si definirebbe solo per riferimenti esterni a sé. La Grecia, per esempio,
non si è mai considerata parte dell’Europa. Questa, per Atene, era la terra dei
barbari. Anche Gerusalemme non ha mai pensato di essere europea. È solo nel
suo tempio, nemmeno sul monte Garizim dei Samaritani, che si poteva pregare e incontrare Dio. L’Europa, invece, è, appunto, la via romana, quella che
tenta sempre di stabilire un’eccentricità della propria origine: non nascere in
sé, ma fuori di sé; quindi non vivere mai, e di conseguenza non finire mai, in
sé e da sé, ma nel confronto/incontro con il fuori da sé, con l’altro. Difatti,
Roma studia la Grecia. Gli Scipioni introducono la cultura greca. La stessa cosa capita con il Rinascimento: ritorno ad altro da sé, alla Grecia, nel caso particolare. Ma lo stesso spiazzamento accade anche con Carlo Magno, che fa venire i monaci inglesi alla corte franca. O con la Germania di Weimar, che torna ad Atene. È un’unicità dell’Europa quella d’aver abituato i suoi figli a leggere i classici nella lingua di un’altra civiltà, ritenuta superiore alla loro.
Europa, quindi, è “esperienza di cominciare come ricominciare …l’atteggiamento di chi si sa chiamato a rinnovare l’antico”4. “L’Europeo fa l’esperienza dell’antico come ciò che si rinnova attraverso il suo trapianto in un suolo nuovo”5. È Enea che lascia l’Asia e viene nella nuova terra, caricandosi però
sulle spalle Anchise e tenendo per mano il figlio Julo (Eneide II, 701-725).
Via romana di continue mediazioni e ritorni, prima; ma subito, poi, (pienezza dei tempi?) esaltata dal cristianesimo che non a caso ristipula la vecchia
nella nuova alleanza, il vecchio nel Nuovo Testamento, e che parla, secondo Testamento, a Roma di Gerusalemme. L’Islam, scrive Brague, è tutto il contrario:
non è il terzo Testamento, non ingloba e rilegge i precedenti: li sostituisce. Allo stesso modo, non studia il greco, ma lo legge nella traduzione che ne fanno
i cristiani e pur alimentandosi della grecità non ne conosce e pratica la lingua.
Non solo l’Islam, ma anche le altre grandi civiltà mondiali non perseguono i
tratti a loro modo unici di Roma e del cristianesimo, quindi dell’Europa.
Per questo, l’Europa, e la sua storia, quando autentiche, sono sempre un’identità e una storia che lasciano se stesse, si abbandonano, migrano, e si confrontano programmaticamente, per costituirsi, con altre identità e con altre storie, nel tempo (l’antico) e nello spazio (il diverso), per farsi un’identità e una
storia sempre nuove e diverse. Un crogiolo creativo senza fine, come il Mediterraneo descritto da Braudel.
Non è senza significato, dunque, che, per la Bildung hegeliana, sia “colto
solo chi è capace di appropriarsi oggettivamente dell’altro nella sua alterità”6;
4
R. Brague, Il futuro dell’Occidente (1992), trad. it., Milano, Rusconi, 1998, p. 43.
Ivi, p. 43
6 K. Löwith, Il concetto hegeliano di Bildung, in Hegel e il cristianesimo (1962), trad. it.,
Bari, Laterza, 1976, p. 105.
5
186
e che sempre per Hegel lo spirito europeo non sia altro che “la ragione autocosciente permeata dalla fiducia che nulla può per lei rappresentare un ostacolo insuperabile, e che perciò s’immischia in tutto, per definirvi presente se
stessa. Lo spirito europeo si pone il mondo di fronte, se ne libera, ma supera
nuovamente questa opposizione, accoglie in sé, nella sua semplicità, il proprio
altro, il molteplice”7.
Questa dinamica apertura/appropriazione, io/altro, interno/esterno, antico/moderno, universale/particolare, unità/molteplicità, semplice/complesso è
tutt’altro che un plesso di ireniche armonie e di fraterne gentilezze cooperative. Non è sottratta al rischio della violenza, dell’arbitrio dispotico, della tentazione imperiale. È accaduto tante volte, nella storia. Continuerà, purtroppo, ancora ad accadere. L’egocentrismo personale che si fa poi eurocentrismo culturale e civile resta sempre umanamente in agguato, una condizione che si insinua, perfida, come un’ombra, in tutti i nostri percorsi.
Europa e spirito europeo, tuttavia, è superare in ogni presente questa condizione di ripiegamento su di sé, scavalcarla, chiarendola, e trovare le forme
per tenere sempre aperte le coppie della dinamica menzionata, senza mai ridurle, autoreferenzialmente, ad uno dei due poli che le compongono. Europa e
spirito europeo, infatti, è non dissolvere l’apertura nell’appropriazione, l’io
nell’altro, l’interno nell’esterno, l’antico nel moderno, l’universale nel particolare, l’unità nella molteplicità, la semplicità nella complessità, e naturalmente viceversa. Comprendere, piuttosto, che non esiste l’uno atteggiamento
senza l’altro, e vivere in maniera creativa questo inesauribile intreccio che rifugge da ogni assolutismo, come da ogni relativismo, ma proprio per questo sa
il valore sia della verità, sia della relatività di ogni punto di vista.
Oggi che l’Europa non studia più, o trascura molto più di un tempo, lo studio del greco e del latino, ma nemmeno lo compensa con quello del cinese o
dell’arabo, sarebbe, allora, come spirito europeo da cui è nata e su cui è cresciuta, finita? Oggi, in cui pare che essa sia sazia e culturalmente autosufficiente sarebbe, allora, nella condizione di non fecondarsi più con la diversità,
e fecondarla nell’incontro personale, sociale e culturale, per elaborare nuove e
più alte sintesi? Oggi che non frequenta più, nel tempo, l’antico di sé e della
propria identità, ma pratica piuttosto, a loro riguardo, l’amnesia e la trascuratezza; né frequenta intenzionalmente, nello spazio, rivendicando le proprie, altre identità e storie, per promuoverne di più inclusive, non ci sarebbero più,
dunque, le condizioni per mantenere lo spirito europeo e l’apertura internazionale che ad esso sembra connaturata?
Le diagnosi sottese dagli interrogativi possono apparire eccessive. Forse, lo
sono. Niente è mai perduto per sempre, infatti. Niente è mai guadagnato per
sempre. La possibilità è piuttosto la cifra di ogni vita personale, sociale e sto7 G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (con le aggiunte a cura di L. von Henning, K.L. Michelet e L. Boumann). Parte III. Filosofia dello spirito (18401845), trad. it. a cura di A. Bosi, Torino, Utet, 2000, § 393, p. 128.
187
rica. Anche dell’Europa, perciò. Né pessimismo, né ottimismo, quindi. Ma certo non si può immaginare che l’impegno della responsabilità per un’educazione all’Europa e, attraverso essa, alla dimensione internazionale non costituisca,
oggi, un’emergenza di cui farsi carico a tutti i livelli dell’azione personale, sociale e culturale, tra cui quello dell’occasione di una riforma del sistema educativo di istruzione e formazione come quella varata in Italia con le legge 28
marzo 2003, n. 53 e con i suoi decreti di attuazione non costituisce, di sicuro,
uno degli ultimi.
La lettura della dimensione europea e internazionale nei documenti
della riforma
Si può affrontare l’argomento, tuttavia, in due modi. Il primo è quello di
mettere tra parentesi il discorso introduttivo. Troppo astratto. Troppo segnato
da prospettive culturali di lungo periodo e da ispirazioni così generali e rarefatte da risultare non immediatamente concretizzabili in disposizioni esecutive
empiriche e in strategie operative. Meglio allora optare per una prospettiva più
pragmatica e, in questo senso, ispezionare i testi normativi della riforma per
verificare se, come e quante volte sono in essi presenti riferimenti circostanziati alla promozione della dimensione educativa e culturale europea e internazionale.
Si scopre, allora, in questa direzione, che la riforma del sistema educativo
di istruzione e formazione varata nel nostro Paese:
– è attenta alla dialettica globale-locale per l’intera durata (12 anni) del
diritto dovere all’istruzione e formazione, e valorizza a questo scopo
fin dalla scuola dell’infanzia l’incontro tra dialetti, lingue materne, lingue comunitarie e no; oppure tra tradizioni municipali, regionali, nazionali, europee e mondiali; oppure ancora tra culture autoctone ed allotrie;
– chiede a tutti i cittadini di “riconoscere in tratti e dimensioni specifiche
della cultura e del vivere sociale contemporanei radici storico-giuridiche, linguistico-letterarie e artistiche che li legano al mondo classico e
giudaico-cristiano”; di “riconoscere, inoltre, l’identità spirituale e materiale dell’Italia e dell’Europa; ma anche l’importanza storica e attuale
dei rapporti e dell’interazione con altre culture” e di collocare, in questo contesto, “la riflessione sulla dimensione religiosa dell’esperienza
umana e l’insegnamento della religione cattolica, impartito secondo gli
accordi concordatari e le successive Intese”;
– per favorire le consapevolezze di cui sopra, nonché la circolazione delle idee, delle relazioni interpersonali tra i cittadini italiani, europei e del
mondo e delle sensibilità culturali e interculturali necessarie a questo
scopo, introduce l’insegnamento obbligatorio dell’inglese, ormai maggior lingua veicolare nell’UE e nel mondo, dalla prima classe della
188
–
–
–
–
–
–
–
scuola primaria all’ultima del secondo ciclo degli studi (vuol dire che
tutti i cittadini italiani, per la prima volta nella loro storia recente,
avranno il diritto dovere di incontrare l’insegnamento dell’inglese per
almeno 12 anni, che diventano 13 per chi frequenterà i licei; l’inglese
dovrebbe, quindi, diventare la seconda lingua di comunicazione del
Paese);
allo stesso scopo, ma, nello stesso tempo, anche per evitare il rischio
del monolinguismo o, addirittura, dell’imperialismo linguistico e culturale dell’inglese, introduce, sempre per tutti, lo studio di una seconda lingua comunitaria, dalla prima classe della scuola secondaria di I
grado all’ultima del secondo ciclo (almeno sette anni di studio obbligatorio per tutti);
instaura un sistema ordinamentale complessivo dell’istruzione e dell’istruzione e formazione professionale che permette il riconoscimento dei
titoli di qualifica e di diploma a livello europeo, come già accade per
l’università; a questo proposito, introduce anche il Portfolio delle competenze che può già vantare significative esperienze d’uso nella maggior
parte dei paesi europei;
integra ed armonizza con quella europea la formazione iniziale, in ingresso e in servizio dei docenti;
per ragioni di crescita culturale, ma anche di costruzione di abitudini europee ed interculturali, dà cogenza legislativa all’opportunità degli stage all’estero e degli scambi culturali per tutti i giovani del primo e del
secondo ciclo degli studi;
rende obbligatoria, nell’educazione alla Convivenza civile, la conoscenza specifica della Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo, della
Costituzione europea e della Carta dei diritti UE, dell’organizzazione
politica ed economica dell’UE, delle organizzazioni internazionali, governative e non governative, a sostegno della pace e dei diritti/doveri dei
popoli, a partire dall’Onu, dall’Unesco, dal Tribunale internazionale
dell’Aja, dalla Croce rossa;
richiede a tutti, nell’arco dei 12 anni di diritto dovere di istruzione e formazione, la conoscenza del significato teorico e delle conseguenze ordinamentali e giuridiche dei principi di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione nell’organizzazione delle forme di governance e di governo a livello nazionale, europeo e mondiale;
al fine di assicurare le padronanze culturali precedenti e le conseguenze
educative personali e sociali che ne conseguono, riconosce, sempre nei
12 anni di diritto dovere per tutti, un ruolo centrale alla conoscenza sistematica della geografia e della storia dell’Europa concepita in collegamento con la geografia e la storia della nazione e del mondo e come
mediatore per la connessione globale locale.
189
Lo spirito della dimensione europea e internazionale nei documenti
della riforma
Queste peraltro significative indicazioni desumibili dai documenti della
riforma per promuovere sul piano culturale ed educativo la dimensione europea e internazionale delle giovani generazioni possono, tuttavia, rimanere esortative, quasi predicatorie, oppure solo pragmatico-strumentali o, addirittura,
nozionistiche, se non siano animate da risonanze profonde di fini e di significati che le connettano ad unità e che le rendano davvero epifenomeno tanto
spontaneo quanto costruttivo di un modo tipico, quello europeo, di vivere la vita e di giudicarla ‘bene’, costituitosi negli ultimi due millenni.
È utile, allora, affrontare il nostro argomento in un altro modo, più coerente con l’impianto suggerito nell’introduzione a questo intervento. Si tratta,
cioè, di collocare queste indicazioni specifiche sulle modalità con cui, secondo i documenti della riforma, è opportuno educare all’Europa, e alla dimensione internazionale nel più generale contesto antropologico, storico-filosofico e pedagogico che caratterizza la riforma stessa, e dal quale esse ricevono un
senso unitario del tutto particolare, che allo stesso tempo le trascende nella loro strumentalità e le autentica sia come mezzo sia, soprattutto, come fine.
Le indicazioni riportate nel paragrafo precedente, infatti, non risultano più
né esortazioni, né espedienti empirici per poter vivere senza problemi insormontabili l’attuale stagione storico-sociale, né nozioni che si possono dimenticare appena superato qualche esame, ma molto di più, quando appaiano
espressione dei principi della paideia che le radici ebraiche, classiche (grecoromane) e cristiane dell’Europa hanno permesso di definire e di consegnare all’umanità come una risorsa per il miglior ‘umanarsi’ educativo di tutti gli uomini. La dimensione europea e internazionale presente nei documenti della
riforma, quindi, appare molto più corposa e pregnante di significati educativi
se riferita ai principi paidetici stessi che caratterizzano la riforma in generale e
che, in particolare, ne qualificano l’antropologia a cui rimanda.
Imputabilità e responsabilità della persona. Il primo di questi principi paidetici è il fondamento personalistico dell’educazione e della società. La convinzione è che non è la società a fare ontologicamente la persona, ma il contrario. Non è l’“essere sociale che determina la coscienza” delle persone8. Né
queste sono riducibili all’“essere sociale”, ultimo livello dello sviluppo dall’inorganico e dall’organico9. La persona non è affatto “prodotto, non fonte”10,
un chi o, peggio, un che cosa non consistente, che sia saturato impersonal8
K. Marx, Per la critica dell’economia politica (1859), Roma, Ed. Riuniti, 1957, p. 11.
G. Lukács, Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale (tr. it. parziale di Per l’ontologia dell’essere sociale, 1971), Milano, Guerini & Associati, 1990.
10 J. Dewey, Natura e condotta dell’uomo (1922), trad. it., Firenze, La Nuova Italia, 1958,
p. 197.
9
190
mente dall’esterno da sé11. Essa, pur subendo i più pesanti condizionamenti sociali e biologici che si possono immaginare e pur essendo per molti aspetti anche manifestazione di essi, è, al fondo, attiva, e comunque in grado di “trionfare sulla determinatezza del gruppo sociale”12, affermando, in libertà, se stessa come unità, formandosi mentre è formata. Essa, perciò, “è attività suprema
per natura”, da cui sorge il dovere morale “di non lederla, di non fare pure un
pensiero, un tentativo volto ad offenderla, spogliandola della sua naturale supremazia”13.
La matrice di questa persuasione filosofica, quindi ‘laica’ nel senso anche
comune di ‘razionale’, che ha progressivamente caratterizzato tutti i grandi
umanesimi occidentali che hanno alimentato la paideia europea, e che è stata
assunta dalla riforma come orizzonte della propria antropologia educativa, è
senza dubbio teologica. Vetero testamentaria: facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza (Gn 1, 26); e neotestamentaria: figli di Dio e perciò fratelli
in Gesù Cristo. Ma l’aspetto che ci interessa rilevare è la conseguenza, o se si
vuole, la successiva elaborazione etica di questa convinzione, sempre più maturata e diffusa nella cultura e nella tradizione umanistica europea: la persona
umana è imputabile, e per questo anche responsabile, verso sé, gli altri, le cose.
Gli alberi del paradiso terrestre erano due: quello della vita e quello della
conoscenza del bene e del male (Gen 2,9). Il primo immagine della vita teologale, quella di Dio, la vita eterna; il secondo immagine della vita umana (in
Gen 3,5, il serpente tenta Eva ed Adamo, infatti, dicendo che: “sarete come
Dio”, non Dio). La vita possibile all’uomo, dunque, è quella di Dt 30,15,19:
“pongo davanti a te la vita e la felicità, la morte e l’infelicità: scegli”. Una vita fatta di scelte etiche personali sul bene e sul male, con tutti i rischi che ne
conseguono. Non è la condizione della vita eterna, quella di Dio, ma quella
della vita umana ‘salvata’, nella sua debolezza finita, dall’amore infinito di
Dio. La persona umana può, dunque, subire tutti i condizionamenti inorganici,
organici e storico-sociali che si vogliono. Ma poiché “con la sua morte e resurrezione Cristo ci ha redenti e riscattati ‘a caro prezzo’ (1 Cor 6,20), ottenendo la salvezza di tutti”, ne consegue che “con il suo aiuto (…) è possibile
a tutti vincere il male con il bene”, ed allo stesso tempo affermare che “il male ha sempre un volto e un nome: il volto e il nome di uomini e di donne che
liberamente lo scelgono”14; come il bene. “Se nel mondo è presente ed agisce
il ‘mistero dell’iniquità’ (2 Ts 2,7), quindi, non va dimenticato che l’uomo re11
J. Dewey, Il mio credo pedagogico (1897), trad. it., Firenze, La Nuova Italia, 1954, p. 3-
4.
12 N. Berdjaev, De l’esclavage et de la liberté de l’homme, Paris 1946, p. 24, cit. in S. Cotta, Il diritto come sistema di valori, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2004, p. 100.
13 A. Rosmini, Filosofia del diritto (1841-1843), a cura di R. Orecchia, Padova, Cedam,
1967-1969, p. 48.
14 Giovanni Paolo II, Non lasciarti vincere dal male ma vinci con il bene il male, Messaggio per la celebrazione della Giornata Mondiale della Pace 1° gennaio 2005, Roma, Lev,
2005, p. 5.
191
dento ha in sé sufficienti energie per contrastarlo. Creato ad immagine di Dio
e redento da Cristo “che si è unito in certo modo ad ogni uomo”15, questi può
cooperare attivamente al trionfo del bene… (e lottare) ‘contro i dominatori di
questo mondo di tenebra e contro gli spiriti del male’ (Ef 6,12)”16.
Non c’è solo la matrice religiosa ebraico-cristiana alla base dell’elaborazione umanistica millenaria, anche laica, di queste convinzioni circa l’imputabilità e la responsabilità della persona. Si ritrova, sebbene in modo diverso, fin
dai suoi albori, anche la matrice mitico-religiosa greca. Prima scena dell’Iliade, sulla spiaggia di fronte a Troia. Agamennone, perduta la sua amante, sottrae Briseide a Achille, e cosi dà l’avvio all’intreccio di esametri dattilici che
conosciamo. Il re condottiero giustifica la sua prepotenza (la sua hybris) in un
modo accettato dai Greci di Omero: “non io fui la causa di quest’atto, ma
Zeus”. È abitudine e prerogativa degli dèi, infatti, insinuare l’ate¯ (tentazione,
infatuazione, oscuramento della coscienza) nella mente di un individuo. “Che
potevo fare? gli dèi l’hanno sempre vinta”. Achille, vittima furente dell’azione
di Agamennone, la pensa allo stesso modo, ammettendo che, senza Zeus, Agamennone “mai avrebbe osato scatenare il thumos (l’ira) nel mio petto”. Né lui,
né il suo re, quindi, in conclusione, sono davvero imputabili e responsabili come persone. Ma Atena, visibile solo ad Achille, lo afferra per i capelli, ammonendolo a non colpire Agamennone. Un attimo di esitazione si introduce nella
furia di Achille. Ripone la spada e per un momento prevale la sua ragione. S.
Weil ha scritto che questa esitazione costituisce il margine di salvezza della civiltà, la fessura attraverso la quale è poi passata la nascita, lo sviluppo e la celebrazione della ragione etica.
Difficile trovare queste convinzioni in quelle teologie e in quelle etiche, esistenti, per lo più non europee, nelle quali prevale il tutto sul singolo, in cui il bene e il male non sono mai imputabili alla coscienza di ogni persona e alla sua
unica esistenza, ma alla somma finale delle azioni e dell’esistenza di tutti gli uomini passati, presenti e futuri, ed in cui, per comprensibili ragioni, la responsabilità dei propri atti non è mai personale, ma sempre collettiva e atemporale17.
15
Gaudium et spes, 22.
Giovanni Paolo II, Non lasciarti vincere dal male ma vinci con il bene il male, Messaggio per la celebrazione della Giornata Mondiale della Pace 1° gennaio 2005, Roma, Lev,
2005, p. 5.
17 Il riferimento è a teologie ed etiche musulmane, buddiste, confuciane, taoiste. Significativo, in proposito, Ph. Short, Pol Pot: anatomia di uno sterminio (2004), tr. it., Milano, Rizzoli, 2005. L’ideologia Khmer, secondo l’A., è un misto di Lenin, Robespierre, Corea del nord,
ma soprattutto di religione buddista theravada dove la retribuzione e il merito, nell’infinito ciclo della perfezione del Sé, è proporzionata non a questa vita, ma ad una futura così come l’attuale destino dell’uomo è il frutto delle sue azioni nelle vite precedenti. Questo spiega perché
nelle fiabe khmer i ladri la passino liscia e vivano felicemente fino alla fine dei loro giorni e
gli uomini siano scusati per azioni criminose di cui sono colpevoli, la scelleratezza, se ha successo, sia elogiata e la bontà sia ritenuta una stupidità, l’inganno ammirato e l’onestà spregiata. In questa società, inoltre, non c’è posto per la compassione (Pol Pot sorrideva e, con questo sorriso come segnale, gli uomini erano portati via e fucilati), i giudici sono raffigurati co16
192
Si spiega, allora, perché sia segno di una profonda influenza della paideia
europea a cui si è fatto brevemente riferimento la circostanza per cui il Profilo educativo, culturale e professionale dello studente alla fine del I ciclo allegato al dlgs. n. 59/04 consideri valore educativo da perseguire per chiunque abbia responsabilità formative formali, non formali e informali la concretizzazione dell’ideale di un preadolescente che avverte “interiormente, sulla base
della coscienza personale, la differenza tra il bene e il male”, che è “in grado,
perciò, di orientarsi (…) nelle scelte di vita e nei comportamenti sociali e civili” e che, per questo, è “disponibile al rapporto di collaborazione con gli altri,
per contribuire con il proprio apporto personale alla realizzazione di una società migliore”.
Si spiega, contemporaneamente, perché sia dimostrazione della stessa appartenenza storico-culturale alla paideia educativa europea prima evocata il
fatto che il Profilo educativo, culturale e professionale dello studente alla fine
del II ciclo, a 18/19 anni, chieda ai docenti di educare l’allievo a “decidere consapevolmente le proprie azioni in rapporto a sé e al mondo civile, sociale, economico, religioso, di cui fa parte e all’interno del quale vive, imparando, da
una parte, a gestirsi in autonomia e a “prendere posizione” e, dall’altra, a “farsi carico” delle conseguenze delle proprie scelte, non solo in relazione a se
stesso, bensì anche in rapporto agli altri e alle future generazioni”. In questo
senso, che domandi anche a ciascun giovane “l’impegno nella creazione, nella
cura e nella crescita delle istituzioni (la famiglia, le imprese, gli enti territoriali, i servizi pubblici, le iniziative di volontariato, cooperazione e sindacato, le
strutture della partecipazione democratica, gli stati nazionali, gli organismi sovranazionali) che possono aiutare a prevenire le conseguenze negative di scelte individuali e ad ottimizzare per tutti quelle positive; a riconoscere e a superare gli errori e gli insuccessi, avvalendosi anche delle opportunità offerte dalla famiglia e dall’ambiente scolastico e sociale; ad avvertire la differenza tra il
bene e il male ed orientarsi di conseguenza nelle scelte di vita e nei comportamenti sociali e civili; a cogliere la dimensione morale di ogni scelta, interrogandosi sulle conseguenze delle proprie azioni, e avere la costanza di portare
a termine gli impegni assunti”.
Sempre, come si vede, l’appello ad un’imputabilità e ad una responsabilità
personali. Come scriveva recentemente Claudio Magris, del resto, il “filo rosso” dell’identità europea sarebbe “l’accento posto fin dall’inizio sull’individuo
piuttosto che sul tutto. Le stesse realtà globali, come lo Stato, nella tradizione
europea, sono al servizio dell’individuo, che ne è il protagonista. È un filo rosso che risale alla polis greca, al concetto stoico e cristiano di persona e continua con l’umanesimo, l’illuminismo, il liberalismo, la democrazia e il socialime sciocchi, la vera giustizia può venire solo dal re, che non accetta appelli. Questo spiega anche perché Short sostenga che Pol Pot, ad esempio, responsabile del massacro di un quinto della popolazione cambogiana, abbia continuato a vivere tranquillamente e anonimamente nel suo
paese, in un villaggio vicino a quello di nascita, dopo la sua detronizzazione. E pure la tesi
Short per la quale non esistono mostri, ma solo contesti mostruosi.
193
smo democratico. Per questo credo che le radici ebraico-cristiane facciano parte del patrimonio europeo”18.
Socialità della persona umana. Il secondo principio della paideia educativa storicamente elaborata dalla cultura europea, e assunto ad ulteriore organizzatore unitario delle proposte educative e didattiche contenute nei documenti della riforma per l’educazione dei giovani in generale e per l’educazione all’apertura sopranazionale in particolare è il superamento dell’identificazione tra “persona umana” ed “individuo”.
In verità, questo secondo termine non evoca affatto, in sé, significati dimidiati e negativi. Gli scolastici, come è noto, dichiaravano individuo ciò che è in
sé unitario e distinto da tutti gli altri, ciò che è in sé indiviso, ma separato da
altro. Non indivisibile, quindi, come se l’individuo fosse a-tomon, ma indiviso, cioè, allo stato, dotato di un’unità che lo rende chi o che cosa è, e, in questa sua condizione di indivisione, separato da altri, individui unitari quanto lui.
In questa accezione, è senza dubbio vero che ogni persona umana è un individuo. E che l’individualità è una caratteristica di ogni persona umana, visto che
essa, “esprimendo se stessa per mezzo delle sue operazioni e proprietà, porge
di sé una manifestazione che la distingue da tutti gli altri della sua stessa natura”19.
Individuo, tuttavia, soprattutto con la modernità20, è venuto ad assumere un
significato del tutto peculiare che ha modificato in parti non irrilevanti quello
di persona umana. Individuo, infatti, è diventato ogni componente della società
umana che esiste non solo come un’unità, ma anche come un’unità sovrana e
proprietaria di sé a tal punto, sia da non aver bisogno di altri e di altro per essere chi è, sia da ritenere ogni dipendenza dagli altri e da altro come una minaccia alla propria unica, indivisa e autosufficiente unitaria sovranità e proprietà.
Ne consegue una società atomistica, concepita come un insieme di individui separati l’uno dall’altro, dove ciascuno pensa per sé ed è animato da “un
desiderio perpetuo e senza tregua di un potere dopo l’altro (desire of power after power) che cessa solo nella morte. (…), in competizione (con altri) per acquisire ricchezze, onore, comando o altro potere, incline alla rivalità, all’inimicizia e alla guerra, perché la strada che segue chi si trova in competizione
per raggiungere il suo desiderio è quella di uccidere, di assoggettare, di sop18 C. Magris, Europa domani. Quel lungo viaggio al termine del Danubio, dialogo con G.
Amato, in “Il Corriere della Sera”, 14 novembre 2004, p. 10.
19 S. Giovanni Damasceno, Dialectica, c. 43; PG 94, 613.
20 E. Pulcini, L’individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del legame sociale, Torino, Bollati Boringhieri, 2001; R. Farneti, Il canone moderno. Filosofia politica e genealogia, Torino, Bollati Boringhieri, 2002. Sempre illuminanti restano le analisi di P. Barcellona, L’individualismo proprietario, Torino, Boringhieri, 1987; Id., L’egoismo maturo e la follia del capitale, Torino, Boringhieri, 1988; Id., Il ritorno del legame sociale, Torino, Boringhieri, 1990.
194
piantare o di respingere il rivale”21. L’egocentrismo di ciascuno, quindi, come
inesauribile desiderio di potere e di possesso per allargare il più possibile le
proprie sovranità e proprietà, fino alla coltivazione del fantasma dell’onnipotenza, non più soltanto, purtroppo, un tratto storico, morale e psico(pato)logico del comportamento di un individuo umano, ma un tratto addirittura ontologico del suo costituirsi. Dall’egocentrismo individuale all’egocentrismo sociale, fino all’estremo dei vari etnocentrismi, a cui nemmeno l’Europa avrebbe
avuto la forza di sottrarsi (eurocentrismo), poi il passo è solo di quantità e non
certo di qualità.
Questa identificazione della persona umana con l’individuo moderno e della società con un insieme atomistico di individui ciascuno autosufficiente e in
competizione tra loro per affermare solo se stessi, tuttavia, non appartiene all’eredità paidetica migliore e più tradizionale dell’Europa, e soprattutto non
trova giustificazioni nella tradizione ebraico-cristiana che è una delle sorgenti
fondamentali dell’Europa e della sua cultura.
“E Dio disse: ‘Facciamo l’uomo a nostra immagine e a nostra somiglianza’…” (Gn 1, 26). La tradizione rabbinica è stata sempre consapevole della delicatezza di questo momento in cui Dio esce dal suo Eterno Silenzio e dialoga
in se stesso e con gli angeli prima di creare l’uomo come suo privilegiato interlocutore22. Basilio di Cesarea, concordemente a tutta questa tradizione
ebraica, proprio laddove essa fa intervenire gli angeli quali interlocutori di Dio,
non esita tuttavia a dire: “Anche se i luoghi precedenti, dove sta scritto Dio disse, non li intendiamo come detti al Figlio, ma come un parlare di Dio con se
stesso – così sostengono i Giudei – […] questo testo chiude la bocca a tutti:
perché quale artefice potrà mai dire ‘Facciamo …’ a se stesso? Come potrà dire così, se non a chi lavora con lui?”23. Insomma, Dio stesso, secondo la Bibbia, all’inizio, non è solo. Nessun autismo ontologico. Nessuna sostanzializzazione autosufficiente dell’identità personale. È persona, identità personale, coscienza di sé, in se stesso, senza dubbio. Ma è tale nella misura in cui è posizione di sé nella relazione con un Altro da sé, coscienza dell’Altro, apertura
reale, attiva, all’Altro. La Trinità in atto puro, come perfetta trasparenza di ogni
persona a sé, ma anche in relazione, come “Trinità coscienziale corrispondente alla Trinità delle persone”24, in altri termini, è dall’origine; e dall’origine c’è
comunione, e non solitudine; c’è “amore (agàpe)” (1 Gv 4, 8) o ancora più
comprensibilmente “amicitia”25 con e verso qualcun Altro/altro da sé. In Dio,
ma non meno nell’uomo, creato a sua immagine e somiglianza. Al punto, e lo
21 T. Hobbes, Leviatano o la materia, la forma e il potere di uno stato ecclesiastico e civile (1651), trad. it. a cura di A. Pacchi, collaborazione di A. Lupoli, Bari, Laterza, 1989, cap.
XI, pp. 78-79.
22 Pirqé de R. Eliezer, 11, 12 ; Mishna, Abot III, 14.
23 Basilio Magno, Sull’Esamerone, IX, 6.
24 G. Lafont, Peût-on connaître Dieu en Jésus Christ?, Cerf, Paris, 1969, p. 286.
25 Elredo di Rielvaux, L’amicizia spirituale, I, 33.
195
ricordava Calvino, che “così è confutato l’errore di quelli che pensano che la
donna sia stata creata soltanto per popolare il genere umano […] come se la
donna gli fosse stata data (ad Adamo, n.d.r.) soltanto per dormire con lui, e non
per essergli compagna inseparabile di vita”26. Non esiste, quindi, persona divina o umana che non sia in sé e per sé socialità.
Privati della memoria critica di questo tradizionale orizzonte, è quasi impossibile comprendere perché si possa dire che la persona “non che sia in rapporto, non che abbia un rapporto, ma è un rapporto, più precisamente un rapporto con l’essere (ontologico), un rapporto con l’altro”27; e che “la persona
umana non può comprendersi come chiusa in se stessa, perché essa esiste nella forma di una relazione; seppure la persona non nasca dall’incontro, è certo
che si attua solo nell’incontro”28.
E neppure, sebbene in forme diverse, si può capire perché lo xénos, il forestiero, lo strano, l’estraneo fosse tutt’altro che la causa di grattacapi e di preoccupazioni, per le radici giudaico-cristiane e anche greco-romane, della nostra
cultura. Il ‘forestiero’, infatti, l’alter, come scrive Platone nel Sofista, se “non
mi pare affatto un dio”, è certamente “un uomo divino” (216b,9). Perché, in
fondo, per dirla con Ricoeur, esso è anzitutto in noi e tra noi, nella dialettica
dell’idem e dell’ipse che siamo e che sperimentiamo. Come persone singole,
ma anche come gruppi sociali prodotti storicamente dalla socialità personale.
Non esiste, perciò, all’origine, per la paideia educativa europea in senso proprio e di più consolidata tradizione, come immagina invece buona parte della
modernità, un “individuo proprietario di sé e delle proprie azioni” che inauguri, con una propria sovrana deliberazione, la dipendenza e la relazionalità sociale che lo contraddistingue poi nel tempo e nello spazio (l’uomo, infatti, ha
scritto Aristotele nella Politica 1253a1-7, a differenza delle bestie o degli dei,
“vive nella città”, cioè mai da solo). Esiste, piuttosto, una persona che è, sempre, se persona, costitutivamente, in sé, dipendenza e relazionalità sociale. Non
esiste l’uomo che non ha alcun bisogno intrinseco dell’altro e degli altri, che
non ha, all’inizio, un legame sociale che lo stringa e lo formi in un certo modo.
Egli piuttosto è tale perché è dipendenza e relazionalità sociale, e perché non la
decide, originariamente, mai, ma la vive. Egli, in questo senso, non fa politica,
ovvero non progetta e non costruisce la famiglia, il gruppo, la città, il popolo
come fossero un suo prodotto tecnico elaborato in maniera creativa a partire da
una sua originaria solitudine, o le accetta, subendole passivamente come un dato oggettivo a lui esterno ed estraneo, a cui non può non conformarsi a causa
della sproporzione tra la loro forza plasmatrice e la sua debole resistenza individuale, ma, a modo proprio e secondo sue forme peculiari di libertà e responsabilità, è politico, ovvero è figlio, padre, madre, cittadino, amico, sodale, sin26
G. Calvino, Commentaire de Jean Calvin sur l’Ancien Testament, Genève, Droz, 1961,
p. 57.
27
28
196
L. Pareyson, Ontologia della libertà, Torino, Einaudi, 1995, p. 15.
R. Guardini, Scritti filosofici, Milano, Vita e pensiero, 1964, vol. II, p. 90.
dacalista, parrocchiano, militante, italiano, europeo ecc.; in altri termini, vive di
famiglia, di gruppo, di ‘città’, di sindacato, di parrocchia, di partiti, di nazioni,
di Europa e di mondo, e ne interpreta e ne declina le forme.
La società, dunque, in quest’ottica, non è la somma di individui che decidono loro, in quanto singoli indivisi, a partire da una solitudine di partenza, per
le più svariate ragioni (difesa, commercio, utilità, divertimento, creatività…),
di stare insieme a diversi livelli di socialità, fino alla nazione e anche alla comunità mondiale. È che, essendo la persona stessa intrinsecamente sociale, la
società, da quella familiare fino alla nazione e alla comunità mondiale di tutti
gli uomini, è nient’altro che il farsi personalità delle persone in quanto persone, nei modi e nelle forme con cui di fatto esse si fanno nel tempo e nello spazio, sulla base della loro responsabilità.
Se questo è il portato più autentico della tradizione greco-romana ed ebraico-cristiana a cui si è alimentata la paideia educativa europea, non si comprende come, per spiegare le ragioni del mancato riferimento al cristianesimo
nella recente Costituzione europea, si sia potuto osservare che “nel fiume della cultura europea (….) l’idea della cristianità come tratto identitario fa parte
della propensione alla chiusura”29. Caso mai, visti i discorsi suggeriti, bisognerebbe sostenere il contrario, salvo che per le umane deficienze storiche che
proprio questa stessa paideia educativa di riferimento, con la sua inesauribile
dialettica tra essere e dover essere personalmente imputabile, ha i germi e gli
stimoli per colmare e combattere.
A questa serie di convinzioni, del resto, diversamente dalla Costituzione europea dell’ottobre 2004, fanno riferimento i documenti della riforma del sistema di istruzione e di formazione quando connettono il forte richiamo personalistico che permea tutte le sue proposte con un’altrettanto esplicita, costitutiva
convocazione della dimensione sociale e cooperativa della persona.
Nel Profilo educativo, culturale e professionale dello studente alla fine del
I ciclo, per esempio, troviamo così che “la capacità di comprendere se stessi”
dipende dal “vedersi in relazione con gli altri, soprattutto nella prospettiva di
un proprio ruolo definito e integrato nell’universo circostante”; che “per progettare il proprio futuro e comprendere le responsabilità cui si va incontro (…)
è necessario che tale capacità non si confronti soltanto con la riflessione sulle
esperienze vissute direttamente, ma si estenda anche su quelle altrui”; che “è
importante che egli si faccia carico di compiti significativi e socialmente riconosciuti di servizio alla persona (verso i familiari, gli altri compagni, gli adulti, anziani ecc.) o all’ambiente o alle istituzioni”; che “impari ad interagire con
i coetanei (è il miglior modo per conoscere e per conoscersi) e con gli adulti”;
che mantenga “sempre aperta la disponibilità alla critica, al dialogo e alla collaborazione”; che egli sia “consapevole di essere titolare di diritti, ma anche di
essere soggetto a doveri per lo sviluppo qualitativo della convivenza civile
29 G. Amato, Europa domani. Quel lungo viaggio al termine del Danubio, dialogo con C.
Magris, in “Il Corriere della Sera”, 14 novembre 2004, p. 10.
197
(…), trasformando la realtà prossima nel banco di prova quotidiano su cui esercitare le proprie modalità di rappresentanza, di delega, di rispetto degli impegni assunti all’interno di un gruppo di persone che condividono le regole comuni del vivere insieme”.
Anche il Profilo educativo, culturale e professionale dello studente alla fine del II ciclo insiste perché egli si metta sempre “in relazione con gli altri”,
dimostrandosi “disponibile all’ascolto delle ragioni altrui, al rispetto, alla tolleranza, alla solidarietà, (agendo) con pertinenza e con costruttività nella vita
scolastica, nelle attività esterne, in iniziative di quartiere, nelle associazioni,
nelle esperienze di stage e di lavoro, (ed esercitando) correttamente le modalità di rappresentanza, di delega, di rispetto degli impegni assunti e fatti propri
all’interno di diversi ambiti istituzionali e sociali” per costruire una convivenza civile che sia davvero tale.
Integralità della persona. Il terzo principio della paideia educativa storicamente elaborata dalla cultura e civiltà europea, programmaticamente adottato
nei documenti della riforma per poter affrontare senza problemi le sfide della
relazione locale-globale, riguarda il valore dell’integralità inerente in più sensi la persona umana e le sue manifestazioni.
Il primo senso evoca l’integrazione che, nella persona umana, sempre indissolubilmente esiste tra corpo, psiche e mente. Se la “persona umana”, è,
con le parole di Pestalozzi, un’unità integrata di “mani” (motricità, corporeità,
materialità, manualità, fisicità), di “cuore” (affettività, sentimenti, passioni) e
di “mente” (razionalità teoretica, pratica e tecnica), non è possibile immaginare in nessun luogo, tanto meno nella scuola, un’azione di qualsiasi natura e
scopo che non sia contemporaneamente attenta a tutte queste tre dimensioni30.
In particolare, non si può immaginare, in nessun campo, un’educazione della
“persona umana” che, coinvolgendo e valorizzando, ad esempio, le “mani”
non sia, insieme, anche educazione del “cuore” e della “mente”, e viceversa.
Anche a volerlo, dunque, non si riesce a sviluppare una componente della persona umana senza allo stesso tempo coinvolgere ed interpellare in gradi differenti anche tutte le altre. Per cui abbiamo educazione, e non diseducazione,
quando questo sviluppo delle sue diverse dimensioni è promosso in maniera
tra loro sinergica, integrata, armonica, progressiva, simultanea e, allo stesso
tempo, gerarchica, nel senso, ad esempio, di riconoscere che la corporeità,
l’espressività, la sensibilità, l’individualità, la socialità ecc. prese in sé, separate, non sono valore, ma lo sono in quanto accompagnate e unite, tutte, al
pensiero teoretico, tecnico e pratico31. Viceversa dovremmo concludere che le
farfalle sviluppano in maniera straordinaria la dimensione estetica e le api
quella operativa.
30
G. Bertagna, Scuola in movimento, Milano, F. Angeli, 2004.
L’uomo dell’educazione, in AA.VV. (a cura di S. Bucci), Studi pedagogici in
onore di A. Valeriani, Napoli, Ed. Scientifiche Italiane, 1991.
31 A. Agazzi,
198
Se le componenti della persona umana si richiamano a vicenda, è ragionevole che lo stesso principio dell’integralità si ritrovi anche nel prodotto più alto della capacità simbolica dell’uomo: la cultura.
Lo è quando inerisce alla cultura intesa in senso antropologico, ovvero
quando questa è descritta come “l’insieme delle forme assunte da ciò che le
persone hanno in mente, i modelli necessari a percepirle, correlarle e dunque
a interpretare le cose”32; o come l’insieme dei “significati che le persone creano, e che a loro volta creano le persone come membri di una società”33, forme
e di significati anche inconsapevoli, ma comunque così importanti che sono loro, “non sono le regole degli epistemologi o dei logici, a guidare i nostri pensieri”34 e le nostre “configurazioni comportamentali”35. È impossibile che la
cultura in senso antropologico possa, in questo senso, considerare i prodotti
delle mani della persona umana privati di mente e di cuore, e viceversa.
Lo è, inoltre, quando è concepita in senso più filosofico, ovvero come intenzionale riflessione, giustificazione e complessiva organizzazione critica
della prima, ovvero dei significati e delle forme che impregnano e caratterizzano, anche inconsciamente o solo intuitivamente, la vita individuale e sociale
dell’uomo nel mondo. In questa seconda prospettiva, è senza dubbio vero che
la cultura appare ricca di punti di vista, ambiti e percorsi diversi. La lingua, le
scienze, l’arte, la storia, il mito, la tecnica (il riferimento è alla filosofia della
cultura come filosofia delle forme simboliche di Cassirer), ad esempio, lo dimostrano. Non sono la stessa cosa. Non costituiscono modelli di analisi e di
sintesi razionali tra loro intercambiabili. È, tuttavia, non meno vero che pensare una di queste forme simboliche separata dalle altre e, a maggior ragione,
senza, in qualche modo, le altre è impossibile. Analogamente, è impossibile
pensare davvero e fino in fondo una lingua, una scienza, un’arte, una storia
ecc. tra le tante che compongono l’enciclopedia delle lingue, delle scienze, delle arti ecc. contemporanee, ciascuna con propri oggetti formali di studio, peculiari metodi per la costituzione di tali oggetti formali e specifico linguaggio
per esprimerli, senza confrontarsi in negativo o in positivo, con maggiore o minore intensità, con le altre e così via.
L’integralità è una qualificazione fondamentale delle cultura, infine, quando ci riferiamo alla sua stessa produzione. Per quanto nessuno la possa inventare o concepire nella sua interezza e complessità, infatti, ogni pensiero, ogni
manufatto, ogni sentimento e comportamento particolare che la caratterizza è
sempre frutto non solo della “persona umana” tutta intera, ma anche della cultura umana tutta intera. Nessuno, per restare nella filosofia della cultura di
32 D. Hymes (ed.), Antropologia radicale (1964), trad. it., Milano, Bompiani, 1979, intervento di Ward Goodenough (1957), p. 36.
33 U. Hannerz, La complessità culturale (1992), trad. it., Bologna, Il Mulino, 1998, p. 5.
34 P. Legrenzi, Come funziona la mente, Bari, Laterza, 1998, p. 24.
35 E. Sapir, Cultura, linguaggio e personalità. Linguistica e antropologia (1932-1949),
trad. it., Torino, Einaudi, 1972, p. 121.
199
Cassirer, ad esempio, può arricchire anche in dettaglio ciascuna delle forme
simboliche con l’invenzione di altra lingua, di altre teorie scientifiche, di altra
arte ecc. senza usare tutta la lingua, la scienza, l’arte, la storia, il mito e la tecnica che possiede, depositata nell’unità della cultura antropologica che respira
e fatta emergere in quella filosofica che è riuscito ad enucleare e senza mobilitare l’intero di sé, come e in quanto persona umana.
Il rimando continuo tra territori simbolici differenti, la coltivazione obbligata di una specie di peratologia (peras è il confine) delle classificazioni di tali forme simboliche e dei loro contenuti, le incursioni in significati in apparenza disparati, le frequentazioni innaturali, i meticciamenti più imprevedibili,
la dinamica ologrammatica parte/tutto sono, perciò, una costante della persona umana e della cultura antropologica o critica o creativa che essa esprime, sia
per mantenersi, l’una e l’altra, qual sono, sia per affermarsi e realizzarsi sempre più e meglio. La compartimentazione, intesa come una divisione astratta di
parti della persona umana e come significati e settori culturali specialistici,
chiusi e autoreferenziali, non appartiene alla vita e al suo modo di farsi nel
mondo naturale e culturale, ma all’irrigidimento burocratico e amministrativo
di essa.
Da questo punto di vista, perciò, comunque la si intenda, essa è sempre una
paideia unitaria, dove ciascuno, nella sua integralità, ha sempre presente, a
modo suo, come in uno specchio, tutto il mondo e la società, con l’intero senso che ha per lui. Per quanto sia specifica o addirittura specialistica, quindi, la
cultura rimanda sempre ad una “cultura generale”, ad una struttura organizzata e condivisa di significati che autorizza lo scambio, il dialogo continuo e la
reciproca comprensione tra lingue, metodi, sensibilità, prospettive settoriali diverse. Se non accadesse questo, il rischio dell’incomunicabilità e dell’estraneità non solo a livello di vita del gruppo sociale, ma anche e soprattutto di
gruppi scientifici che riflettono sulle caratteristiche delle diverse forme simboliche della cultura umana, sarebbe concreto. Ed entreremmo in una condizione che non potrebbe più essere dichiarata educativa, se educazione è anzitutto reciprocità relazione e culturale.
Non è un caso, dunque, trasferendo queste consapevolezze in campo scolastico, se fin dal 1923, i voti che ogni professore specialista di una o più discipline assegna ai ragazzi non sono, in realtà, frutto di una decisione personale
sovrana, ma sono solo una proposta da discutere in consiglio di classe che poi
decide responsabilmente, insieme, in via definitiva. I principi presupposti da
questo orientamento sono due.
Il primo significa che tutti i docenti di un consiglio di classe devono comprendere che cosa sta dietro la proposta di un voto piuttosto di un altro. Non
solo e non tanto che cosa sta dietro sul piano dell’impegno e del comportamento tenuto dall’allievo per meritarselo, quanto e soprattutto sul piano della
natura e della complessità dei problemi culturali affrontati in classe dal collega e non padroneggiati o padroneggiati non a sufficienza dai ragazzi. Si esige,
quindi, oltre che una conoscenza specialistica delle discipline del proprio in200
segnamento, una comprensione da “cultura generale” dei problemi di merito
che vengono messi in campo nell’insegnamento disciplinare specialistico dei
colleghi. Ecco perché sarebbe bene che nessun docente, e tantomeno nessun
dirigente scolastico, insegnasse in un istituto, o lo dirigesse, senza essere in
grado di sostenere con successo almeno la prima e la terza prova, oltre che il
colloquio orale, dell’esame di stato finale.
Il secondo principio è che si può pretendere la concretizzazione del primo
solo se ogni docente, nello svolgimento delle proprie attività educative e didattiche disciplinari, è attento anche allo svolgimento delle attività educative e
didattiche dei colleghi, ne comprende la natura, riesce ad individuare con naturalezza i momenti di intersezione con esse, coglie i problemi comuni che ricevono, sul piano delle prospettive disciplinari, risposte distinte ma non separate ecc. E progetta ed agisce in comune, dando spessore alla collegialità.
Non si tratta, certo, di aderire alla velleitaria e pericolosa tentazione della
tuttologia. Sarebbe paradossale, nel nostro caso, chiedere ad un docente di educazione fisica e sportiva in un liceo di lavorare tecnicamente con limiti e integrali o di indicare le specificità degli schemi narrativi delle novelle della quarta giornata del Decamerone. In pratica, di insegnare lui ai ragazzi matematica
e italiano. È però indispensabile che anche il docente di educazione fisica e
sportiva sappia concettualmente che cosa sono i limiti, gli integrali e gli schemi narrativi di un testo letterario e, soprattutto, controlli la natura dei problemi
conoscitivi a cui essi possono offrire una risposta, quando serve. In caso contrario, infatti, gli sarà impossibile far partecipare le conoscenze delle scienze
motorie e sportive all’intero della cultura generale a cui introdurre i giovani e,
in particolare, non lasciarsi sfuggire le connessioni e i richiami spontanei che
diverse prospettive culturali possono assicurare quando rispondono a problemi
analoghi, interpretano medesime situazioni esperienziali, contribuiscono ad
eseguire compiti complessi o ad elaborare progetti condivisi. Nessuno riesce a
vedere, infatti, ciò che, in qualche modo, non ha già in testa. E ciò che è richiesto al docente di educazione fisica e e sportiva vale, ovviamente all’inverso, nei confronti dei fondamentali teorici delle scienze motorie e sportive ed
operativi dell’educazione fisica e sportiva, per il docente di matematica e di
tutte le altre discipline.
Distinguere e individuare priorità in un tutto personale o culturale è sempre
bene, ma, in esso, separare parti e agire per esclusivismi non porta mai buoni
frutti. L’approfondimento specifico è un valore irrinunciabile, da coltivare.
Non cogliere e non far cogliere le differenze tra mani, mente e cuore della persona, oppure tra matematica, musica, arte, storia, lingua, mito, sport e motricità ecc., nella cultura, è male; ma è ancora peggio non cogliere e non far cogliere, sul piano formativo, gli intrecci tra tutte queste dimensioni.
Non è per caso, dunque, ma proprio per aderire a queste consapevolezze tipiche, maturate nella paideia educativa europea ispirata alla tradizione classica ed ebraico-cristiana, che, nei documenti della riforma e, in particolare, nelle Indicazioni nazionali per piani di studio personalizzati per le scuole del pri201
mo e del secondo ciclo, si insite sul valore dell’ologrammaticità dell’insegnamento e dell’apprendimento, potremmo dire, per rimanere nella simmetria
espressa dai due termini, della cultura e della persona. Si scrive, infatti, in questo documento, che “gli obiettivi specifici di apprendimento indicati per le diverse discipline e per l’educazione alla Convivenza civile, se pure sono presentati in maniera analitica, obbediscono, in realtà, ciascuno, al principio della sintesi e dell’ologramma: gli uni rimandano agli altri; non sono mai, per
quanto possano essere autoreferenziali, richiusi su se stessi, ma sono sempre
un complesso e continuo rimando al tutto. Un obiettivo specifico di apprendimento di una delle dimensioni della Convivenza civile, quindi, è e deve essere
sempre anche disciplinare e viceversa; analogamente, un obiettivo specifico di
apprendimento di matematica è e deve essere sempre, allo stesso tempo, non
solo ricco di risonanze di natura linguistica, storica, geografica, espressiva,
estetica, motoria, sociale, morale, religiosa, ma anche lievitare comportamenti personali adeguati. E così per qualsiasi altro obiettivo specifico d’apprendimento. Dentro la disciplinarità anche più spinta, in sostanza, va sempre rintracciata l’apertura inter e transdisciplinare: la parte che si lega al tutto e il tutto che non si dà se non come parte. E dentro, o dietro, le ‘educazioni’ che scandiscono l’educazione alla Convivenza civile vanno sempre riconosciute le discipline, così come attraverso le discipline non si fa altro che promuovere l’educazione alla Convivenza civile e, attraverso questa, nient’altro che l’unica
educazione integrale di ciascuno a cui tutta l’attività scolastica è indirizzata”.
Allo stesso modo, questo documento ricorda l’impossibilità di un apprendimento personale che non mobiliti l’intero della persona dell’allievo, e invita
a rifuggire da un’educazione solo manuale o solo sentimentale o solo intellettuale, perché è l’integrazione tra esse che procura i miglior risultati. E per questo ribadisce in più punti: a) che il punto di partenza di questo, come degli altri insegnamenti, non può che essere la “persona umana” dell’allievo; b) che
l’unità della “persona umana” implica l’unità della cultura, comunque essa sia
intesa; c) che, dunque, ogni disciplina è uno strumento da impiegare al fine di
scoprire e valorizzare l’unità della persona e della cultura.
Razionalità della persona. Le mani, il cuore. Il cavallo bianco, il cavallo nero del mito platonico36. La vita vegetativa, la vita sensitiva di Aristotele37. La
“persona umana” non può esistere senza queste dimensioni. Ma essa è davvero tale se e perché c’è la mente, l’auriga, la vita razionale, in tutta la sua complessità di ragione teoretica (theoría), tecnica (téchne) e pratica (phrónesis).
“L’uomo è evidentemente fatto per pensare: sta qui tutta la sua dignità e il suo
mestiere; e tutto il suo dovere consiste nel pensare come si deve”38; “il pensie36
Platone, Fedro 246 a-d, 253c-255b.
Aristotele, De anima, libri II e III; Etica nicomachea I, 13.
38 Pensiero n. 146, ed. Brunschvicg, in B. Pascal, Pensieri (1670), trad. it. di G. Auletta e
Ines e V.G. Rossi, Cinisello Balsamo, Paoline, 1986, p. 174.
37
202
ro costituisce la grandezza dell’uomo”39; “tutta la dignità dell’uomo consiste
nel pensiero”40, sebbene basti “una mosca (che gli) ronza vicino all’orecchio”
per non farlo più ragionare41. Non c’è persona umana, socialità umana, integralità della persona e della cultura, educabilità dell’uomo, non c’è insegnamento possibile di un uomo verso un altro uomo, quindi, senza ragione o, almeno, senza la potenza della ragione. Niente di tutto questo, infatti, si dà senza intenzionalità e riflessione logica. È indubbio che anche la “persona umana” viva di processi inorganici ed organici non consapevoli, e di comportamenti balistici. Senza automatismi non ci sarebbe vita organica. Essa, tuttavia,
è tale se e nella misura in cui ha la capacità di trasformare le reazioni irriflesse in azioni riflesse e la determinazione (o l’indeterminazione) in libertà e consapevolezza di cui si riesce a ‘dare ragione’.
Pensiamo ai grandi dell’antichità, da Parmenide a Plotino. Ma non meno a
San Tommaso d’Aquino: in piena egemonia “teologica” e fideistica, egli rivendica, a pieno titolo, come prima autorità dell’uomo, la ragione. E nel suo
commento al libro di Giobbe (In Job., cap. XIII, Sez. 2), proprio a partire dalla constatazione che è la ragione a vedere e dire la verità, giunge a dire che “la
differenza delle persone non cambia nulla alla verità; quando si dice la verità,
quale che sia l’avversario, si è invincibili”. Anche se l’avversario fosse Dio.
Potenza, dunque, della ragione, nella persona umana, e nel suo farsi sempre più
persona.
Razionalità, però, non significa razionalismo. Come scienza non vuol dire
affatto scientismo. È vero, l’Europa è stata ed è anche la sede delle più immotivate esagerazioni illuministico-scientiste. La ragione ha qualche volta, forse
spesso, tralignato. Non è sensato tuttavia reagire a questo errore con il valore
dell’irrazionalismo, dell’ate¯ e del thumos di un tempo. Questa strada può solo
portare verso il sangue. Come a Troia. Dovrebbero ricordarlo coloro che dimenticano che la ragione non nasce già armata come Pallade dal cervello di
Zeus ma che va cresciuta ed educata per diventare un’attualità, come ogni potenzialità umana. Con costanza, sistematicità, coraggio. Cosicché educare alla
fatica della ragione che cerca la verità in ogni cosa e che ad essa si inchina significa, in realtà, compiere non solo grandissimi gesti di educazione morale
(per cui, come sottolineano i documenti della riforma, logica ed etica, profitto
di apprendimento e comportamento morale si combinano sempre), ma anche
di educazione fisica, affettiva, sociale, manuale. L’una dimensione senza l’altra non esistono: ma senza riflessività razionale non è nemmeno possibile accorgersi di questa condizione, per cui, in fondo, tutto ruota attorno alla ragione. Questo il grande insegnamento, ma anche il dono, dell’Europa all’educazione per aprire ciascuno all’altro, in prospettiva internazionale e mondiale.
In maniera coerente a questi orientamenti, quindi, i documenti nazionali
39
Pensiero n. 346, ivi, p. 240.
Pensieri n. 347 e n. 365, ivi, p. 240, p. 245.
41 Pensiero n. 346, ivi, p. 245.
40
203
della riforma insistono a lungo sul valore della razionalità e sull’importanza
strategica dell’educazione alla razionalità per mezzo della razionalità delle
giovani generazioni.
Le Indicazioni nazionali per piani di studio personalizzati per la scuola primaria, per esempio, in questo senso, ricordano che si tratta di avviare il fanciullo “alla comprensione intersoggettiva del mondo umano, naturale e artificiale, nel quale si vive”. Per promuovere questo risultato, esse presentano un
percorso di consapevolezze educative e didattiche che trovano il proprio fulcro
nella progressiva espansione e sempre maggiore formalizzazione della razionalità. “I fanciulli che entrano nella Scuola Primaria – rammentano – hanno già
maturato concettualizzazioni intuitive, parziali e generali, che impiegano per
spiegare tutti i fenomeni che incontrano; anche quelli più complessi. Si può dire che abbiano maturato in famiglia, nei rapporti con gli altri e con il mondo,
nella scuola dell’infanzia non soltanto una ‘loro’ fisica, chimica, geologia, storia, arte ecc. ‘ingenue’, ma che abbiano elaborato anche una ‘loro’ altrettanto
‘ingenua’, ma non per questo meno unitaria, organica e significativa visione
del mondo e della vita. La Scuola Primaria si propone, anzitutto, di apprezzare questo patrimonio conoscitivo, valoriale e comportamentale ereditato dal
fanciullo, e di dedicare particolare attenzione alla sua considerazione, esplorazione e discussione comune”. Per questo “la Scuola Primaria accompagna i
fanciulli a passare dal mondo e dalla vita ordinati, interpretati ed agiti solo alla luce delle categorie presenti nel loro patrimonio culturale, valoriale e comportamentale al mondo e alla vita ordinati ed interpretati anche alla luce delle
categorie critiche, semantiche e sintattiche, presenti nelle discipline di studio e
negli ordinamenti formali del sapere accettati a livello di comunità scientifica”. “Grazie a questo graduale e progressivo percorso di riflessione critica attivato a partire dall’esperienza”, poi la Scuola Primaria si deve proporre “di arricchire sul piano analitico e sintetico la ‘visione del mondo e della vita’ dei
fanciulli, di integrare tale visione nella loro personalità e di stimolarne l’esercizio nel concreto della propria vita, in un continuo confronto interpersonale di
natura logica, morale e sociale che sia anche affettivamente significativo”.
In stretta successione con quelle della scuola primaria, le Indicazioni nazionali per piani di studio personalizzati per la scuola secondaria di I grado
sottolineano, inoltre, come, nel corso della preadolescenza, sia necessario mettere in crisi “l’isomorfismo ingenuo” tra “realtà e conoscenza della realtà, tra
la natura e le rappresentazioni che ce ne facciamo”, al fine di giungere alla costruzione di modelli razionali formali, matematici e non, sempre più complessi, ma anche sempre meno equivoci e sempre più intersoggettivi. In questo senso, “conoscere in maniera ‘secondaria’ vuol dire, allora, adoperare costrutti
mentali esplicativi che si fondano su un uso appropriato dell’analogia”, che, facendo riferimento ai metodi scientifici che caratterizzano le diverse scienze
(naturali ed umane), superano “ogni residuo egocentrismo cognitivo di tipo infantile per assumere, al contrario, la responsabilità di una vita criticamente
sempre vigile e tesa – attraverso il confronto – alla ricerca della verità”.
204
Il Profilo educativo, culturale e professionale dello studente alla fine del II
ciclo, infine, attribuisce a tutti i percorsi formativi predisposti per questa fascia
d’età (licei e/o istituti dell’istruzione e formazione professionale) il compito di
sviluppare “l’autonoma capacità di giudizio” concepita come “cura attenta dei
modi e della forme con cui si esprimono e si attuano i processi della ragione
in rapporto ai suoi oggetti reali e formali. Essa diventa, quindi, metodo di studio, spirito di esplorazione e di indagine, capacità intuitiva, percezione estetica, memoria, procedimenti argomentativi e dimostrativi che danno ragione delle proprie scelte ed opinioni, consapevolezza e responsabilità morale, elaborazione di progetti e risoluzione di problemi, che, nella loro complessità, rifuggono da riduzionismi”.
205
La convivenza civile e l’educazione
LUCIANO AMATUCCI
Nel processo innovativo della nostra scuola è divenuta sempre più evidente
l’esigenza di ricondurre a sistema le educazioni qualificate, nella loro continua
espansione1.
Il termine ‘educazione qualificata’ designa quelle ‘educazioni’ con aggettivo o con termine di specificazione, trasversali alle discipline, che si distinguono dalle discipline vere e proprie, che hanno un proprio statuto epistemologico e sono inserite nei programmi o piani di studio e nei relativi quadri orario.
Invero, anche queste ultime hanno talora assunto la denominazione di ‘educazione’: educazione fisica (o motoria), educazione all’immagine, educazione al
suono, educazione tecnica. Si tratta, in questi casi, soltanto di una scelta terminologica, che può essere sostituita da semplici sostantivi, quali ‘ginnastica’
o ‘disegno’, anche se il riferimento al termine ‘educazione’ non è irrilevante,
in quanto sottolinea la dimensione educativa delle discipline interessate.
Giovanni Gozzer ravvisava nel fenomeno delle educazioni qualificate uno
‘scaricabarile sulla scuola’, per il quale “siamo di fronte a una specie di rincorsa fra quanti si mettono in fila per proporre nuovi contenuti di insegnamento: si tratta, più che di materie o loro spezzoni, delle cosiddette educazioni, da immettere nel debito-programma degli insegnanti o da affidare a esperti più o meno appositamente noleggiati”. Lo studioso citava al riguardo le
educazioni: “sessuale; ambientale – ecologica; artistico – monumentale; museale e turistica; alla TV; alla circolazione stradale; sanitaria; alimentare; anti-droga; interculturale; anti-razziale; euro-comunitaria; di accostamento ai
dialetti e alle culture locali o minoritarie; all’accoglienza; alla diversità; alla
pace”2.
In verità, il proliferare delle educazioni qualificate è una chiara dimostrazione della funzione educativa della scuola e una risposta decisiva a quanti ancora la mettono in dubbio. Possiamo ricordare a questo riguardo la radicale
contestazione di J.C. Milner, per il quale la scuola dovrebbe soltanto istruire, e
1 Luciano Amatucci, L’educazione e le educazioni nella scuola italiana, in «Orientamento
scolastico e professionale», 1995, 1-2.
2 Giovanni Gozzer, Scaricabarile sulla scuola, in «Tuttoscuola», 1993, 329.
206
non anche educare: parlare di educazione nella scuola equivarrebbe a “confrontare la medicina con la resurrezione della carne e la vita eterna”3.
Anche oggi, se poniamo a confronto alcuni documenti delle Organizzazioni europee e la loro traduzione ufficiale in lingua italiana, rinveniamo una nostra palese riluttanza a esplicitare questo termine4.
Ad esempio, i testi in lingua inglese e francese della Comunità europea e
del Consiglio d’Europa introducono, rispettivamente, la ‘European dimension
of education’ o ‘dimension européenne de l’éducation’, mentre la traduzione
italiana ‘dimensione europea dell’insegnamento’ risulta chiaramente riduttiva.
Del resto, possiamo constatare che, nel Regno Unito e in Francia, al nostro
‘Ministero dell’istruzione’ corrispondono un ‘Department of education’ e un
‘Ministère de l’éducation’.
In effetti, si riscontra in Italia una remora storica a introdurre, con il termine educazione, il riconoscimento del fondamento valoriale dell’impegno
della scuola. Questo atteggiamento, piuttosto che collegarsi al ripudio dell’educazione nazionale del periodo fascista, ha radici più lontane, nella opposizione laica ad una paventata educazione confessionale, propria di un periodo
storico di contrapposizione tra Stato e Chiesa.
A questa reticenza si contrappone, come si è visto, la reiterata invocazione
dell’intervento educativo della scuola in relazione a problemi sociali emergenti nel corso del tempo. L’insieme delle ‘educazioni’ di volta in volta introdotte
per questa via viene a comporre un quadro che corrisponde alla presenza significativa e diffusa dell’educativo nella scuola. Tuttavia, si è rinnovato il rilievo sul carattere dispersivo delle educazioni qualificate: “Le più diverse attività educative continuano ad essere demandate alla Scuola, come se il loro numero, in continua crescita, da solo bastasse a qualificare la scuola…”. “Occorre una strategia complessiva di trasformazione della Scuola, in alternativa
al proliferare degli interventi frammentari realizzati dall’Amministrazione scolastica”5.
Nei documenti delle Organizzazioni internazionali si riscontra, con la diffusione delle educazioni qualificate, un ricorrente impegno per ricondurre le
stesse, almeno, a grandi raggruppamenti, anche se non ancora a un sistema
unitario6.
Si possono citare al riguardo, dell’UNESCO, la ‘Raccomandazione sull’educazione alla comprensione, alla cooperazione e alla pace internazionali e
sull’educazione ai diritti dell’uomo e alle libertà fondamentali’ (1974) e la ‘Dichiarazione sull’educazione alla pace, ai diritti dell’uomo e alla democrazia’
3
J. C. Milner, De l’école, Paris, Seuil, 1984 ; trad. it. La scuola nel labirinto, Roma, Armando, 1986.
4 Luciano Amatucci, Antonio Augenti, Fabio Matarazzo, Lo spazio europeo dell’educazione. Scuola. Università. Costituzione per l’Europa, Roma, Anicia, 2005.
5 Nota di redazione su Educazione stradale, in «Valore Scuola», 1994, 204-205-206.
6 Antonio Augenti e Luciano Amatucci, Le Organizzazioni internazionali e le politiche
educative, Roma, Anicia, 1998.
207
(1994). Il Consiglio d’Europa, nella ‘Raccomandazione su insegnamento e apprendimento dei diritti dell’uomo nelle scuole’ (1985) ha rilevato che l’educazione ai diritti dell’uomo “è una parte dell’educazione sociale e politica, che
include la cooperazione interculturale e internazionale”.
In questi testi ricorre il riferimento alla ‘Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo’, come espressione dei valori da assumere a fondamento dell’impegno educativo. La successiva ‘Dichiarazione per il Millennio’, adottata dalle Nazioni Unite con Risoluzione dell’8 settembre 2000, perviene alla formulazione diretta e aggiornata di questi valori: libertà, uguaglianza, solidarietà,
tolleranza, rispetto per la natura, responsabilità condivisa.
Per quanto riguarda l’Unione europea, il ‘Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa’, sottoscritto a Roma il 29 ottobre 2004, afferma, all’art. I
–2, che “l’Unione si fonda sui valori della dignità umana, della libertà, della
democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti
umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a una minoranza. Questi
valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini”.
Chi scrive ha avuto l’onore di far parte, nel 1995, di una Commissione ministeriale, presieduta dall’allora Sottosegretario di Stato Luciano Corradini, incaricata di proporre una visione sistematica delle varie educazioni7.
A seguito dei lavori di questa Commissione, agli inizi del 1996, venne presentato il documento ‘Nuove dimensioni formative, educazione civica e cultura costituzionale’, che proponeva la riconduzione unitaria di molte educazioni
nell’alveo di un’educazione civica imperniata sui valori della nostra Costituzione e ampliata nella dimensione interculturale e internazionale8.
Il testo rilevava che “i cataloghi di bisogni/valori/diritti che norme e documenti internazionali propongono come condizioni per la vita umana e come
guide e criteri per l’azione educativa, anche nella scuola, sono riconducibili all’educazione alla democrazia e ai diritti umani, in particolare alla libertà, alla
giustizia, al lavoro, alla legalità, alla pace, allo sviluppo, alla salute, alla solidarietà, alla sicurezza, alla sessualità, al senso, alla scienza, allo studio, all’identità, all’intercultura, all’ambiente, all’alimentazione, alla famiglia, alla nazione, all’Europa, al Mondo”.
Tutti questi motivi, secondo il documento, “trovano una formulazione e un
livello di realtà istituzionale dotato di particolare intensità concettuale e di efficacia operativa nella Costituzione italiana”. Infatti, “in un panorama composito, in cui sorgono nello stesso mondo giovanile nuove domande e nuove risposte di senso, di legalità e di solidarietà, la Costituzione è una specie di giacimento etico, politico e culturale per lo più sconosciuto, che possiede la sin7 Luciano Corradini e Giuseppe Refrigeri (a cura di), Educazione civica e cultura costituzionale. La via italiana alla cittadinanza europea, Bologna, Il Mulino, 1999.
8 Il documento venne annesso alla Direttiva ministeriale 8 febbraio 1996, n.58.
208
golare caratteristica di fondere in una visione unitaria i diritti umani e l’identità nazionale, l’articolazione autonomistica e l’apertura sopranazionale”.
Questo pregevole testo, di alto respiro pedagogico, fu messo in ombra dal
più ampio progetto innovativo dei programmi scolastici concepito dal Governo di centro sinistra nel corso della XIII legislatura (1996-2001).
La legge 10 febbraio 2000, n. 30 (‘Legge quadro in materia di riordino dei cicli di istruzione’), abrogata nel successivo corso politico, si proponeva, sul piano generale, come disciplina del sistema educativo di istruzione e formazione.
È qui da precisare che i termini “educazione”, “istruzione” e “formazione”,
usati singolarmente e in senso approssimativo, possono sembrare equivalenti;
messi a confronto in un comune enunciato, si delimitano reciprocamente e assumono un significato specifico. Il termine istruzione in senso proprio sta a significare la trasmissione delle conoscenze, mentre il termine formazione, se
collocato dopo istruzione, viene a sottintendere l’aggettivo professionale. Questa specificazione è convalidata dal Trattato di Maastricht, istitutivo dell’Unione europea, che, negli articoli 126 e 127 distingue, appunto, tra istruzione e
formazione professionale. Il termine educazione, secondo la più coerente lettura, non solo riassume i primi due, ma ne esprime l’ancoraggio a valori. Invero, nel corso dei lavori parlamentari per l’elaborazione della legge 30/2000,
si era proposta la formula, ancora più chiara, ‘sistema di educazione, istruzione e formazione’, che poneva in evidenza, con un trinomio, il carattere proprio,
e non soltanto riassuntivo, dell’educazione. L’accantonamento di questa formula rimette all’interprete il riconoscimento di questo tratto distintivo dell’educazione, cioè della sua ispirazione valoriale.
La legge in discorso, nell’individuare, con l’art. 1, le finalità del sistema
educativo, richiamava espressamente, per i principi ispiratori, la Dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo, accanto alla nostra Costituzione.
Sempre nel corso della tredicesima legislatura, il successivo progetto di
nuovi curricoli per la scuola di base (non entrato in vigore a causa del subentro di una nuova maggioranza politica) introduceva la formazione alla cittadinanza nei termini seguenti : “Ispirarsi deliberatamente, consapevolmente, perfino puntigliosamente nel far vivere nelle scuole i principi fondamentali della
Costituzione repubblicana significa per le scuole tutte assumere come obiettivo ultimo, come sovrascopo di ogni apprendimento e insegnamento, la formazione di personalità mature, responsabili, solidali, informate, critiche. La formazione alla cittadinanza non è un’aggiunta posticcia: è il cuore del sistema
educativo”9.
Il testo risultava in sintonia con il precedente documento ministeriale ‘Nuove dimensioni formative, educazione civica e cultura costituzionale’ e poneva
così le basi per una più ampia e comprensiva prospettazione dell’educazione
civica.
9
Documento ministeriale ‘Indirizzi per l’attuazione del curricolo’ in Giancarlo Cerini e
Italo Fiorin, I curricoli della scuola di base. Testi e commenti, Napoli, Tecnodid, 2001.
209
Nell’attuale legislatura, la legge 28 marzo 2003, n. 53 (c. d. ‘legge Moratti’), di ‘delega al governo per la definizione delle norme generali sull’istruzione e dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione e formazione professionale’, riprende, in primo luogo, la nozione di sistema educativo di
istruzione e formazione.
Il testo si limita, all’art. 1, a richiamare i principi sanciti dalla Costituzione,
per poi promuovere il senso di “appartenenza alla comunità locale, alla comunità nazionale e alla civiltà europea”. Vengono dunque meno, in sede di premessa generale, il riferimento ai diritti dell’uomo e la dimensione mondiale.
Il successivo decreto legislativo 19 febbraio 2004, n. 59, contiene in appendice, tra l’altro, le ‘indicazioni nazionali’ per i ‘piani di studio personalizzati’ nella scuola primaria e secondaria di primo grado.
Le indicazioni introducono l’educazione alla convivenza civile, che comprende le educazioni: ‘alla cittadinanza’, ‘stradale’, ‘ambientale’, ‘alla salute’,
‘alimentare’, ‘all’affettività’.
Negli obiettivi specifici di apprendimento per l’educazione alla convivenza
civile nella scuola secondaria di primo grado viene espressamente recuperata
la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo10. D’altra parte, già il richiamo della legge 53/2003 ai principi sanciti dalla Costituzione comporta un indiretto riferimento ai diritti dell’uomo e ai valori connessi, atteso che la nostra
Costituzione fu emanata nello stesso periodo della stesura della Dichiarazione
e in consonanza con i suoi principi. Anche il richiamo all’appartenenza alla civiltà europea, contenuto nella legge, si risolve nel riconoscimento dei diritti
dell’uomo e dei valori connessi, che appunto nelle sedi europee hanno trovato
le prime formulazioni, per essere poi recepiti nella Costituzione dell’Unione
europea.
Infine, risulta assai significativo il rilievo, contenuto nelle indicazioni nazionali, che “dentro, o dietro le ‘educazioni’ che scandiscono l’educazione alla convivenza civile vanno sempre riconosciute le discipline, così come attraverso le discipline non si fa altro che promuovere l’educazione alla convivenza civile e, attraverso questa, nient’altro che l’unica educazione integrale di
ciascuno a cui tutta l’attività scolastica è indirizzata”.
In questo modo, il disegno perseguito dalla ‘Commissione Corradini’ e nel
documento ‘Nuove dimensioni formative, educazione civica e cultura costituzionale’ trova nei recenti testi sulla riforma scolastica piena convalida.
Anche dopo l’emanazione di questi testi, restano aperti ampi spazi per la
loro interpretazione, l’adattamento in situazione e l’aggiornamento, in funzione di nuove emergenze. Risultano esaltati, in questo campo, i compiti di ricerca delle scuole e il contributo originale dei docenti, nel continuo divenire della nostra società e nel rinnovarsi delle sue richieste educative.
10 In questo senso si veda l’intervento del Sottosegretario Valentina Aprea in occasione del
dibattito sulle ‘indicazioni nazionali’ svoltosi presso la VII Commissione del Senato il 28 ottobre e il 4 e 11 novembre 2004, riportato in «Scuola e didattica», 1 gennaio 2005, n. 8.
210
Educazione e cittadinanza sostenibile
ROBERTO ALBAREA
Educazione e cittadinanza: sfide, prospettive e scelte
Il titolo si riferisce allo spazio dialettico, libero, imprevedibile (e anche
ispirato), che intercorre tra educazione e cittadinanza, senza perciò adattarsi e
limitarsi ad una educazione alla cittadinanza, in quanto percorso didattico, o
programma, o progetto: come tutte le tematiche e i significati che convogliano
energie, pensiero critico, intuizione creativa, atteggiamenti euristici, testimonianza, sguardi reciproci, inclinazioni e connaturalità più o meno consce, esercitare cittadinanza e sentirsi parte di essa si pone attraverso le conoscenze e le
discipline (quale crosscurricular element) e “al di là” di queste; cioè essa si
presenta nella sua trasversalità formativa e disciplinare ad un tempo (Albarea,
Izzo, 2002, pp. 129-130), al pari delle attitudini e degli approcci interculturali,
della dimensione europea dell’educazione, della sostenibilità nella relazione
interpersonale e educativa.
La trasversalità formativa diventa una sorta di a priori, di scelta etica e pedagogica, un punto di partenza; mentre la trasversalità disciplinare è il frutto
di un lavoro a posteriori, è un punto di arrivo, un percorso continuamente
strutturantesi in relazione ai principi pedagogici di fondo. È la “curiosità epistemologica” di Freire (Freire, Macedo, 1995).
La trasversalità disciplinare si integra con la formazione personale. Ci si
può così avvicinare al concetto di complessità culturale in quanto terreno di influenze dinamico, pluralistico, prospettico, tendente a costruirsi intorno ad un
sapere e ad un essere multidimensionale che tiene conto degli intrecci e delle
mutuazioni fra le scienze, tra scienza e filosofia, tra estetica ed etica (Hannerz,
1998), tra esperienza di vita e riflessione pedagogica.
Come scrive Andrea Kazamias in un immaginario (ma forse non tanto) dialogo tra antichi, moderni e postmoderni: “In our modern complex societies, the
responsibility for education in citizenship falls upon several agents: the family,
the state, the churches, the mass media, civic associations, and, perhaps most
importantly on public educational institutions. […] To paraphrase [the] dictum
that citizenship education should be the responsibility of the whole state/polity/community, I would say that it should be the responsibility of the whole
211
school in all its activities” (Kazamias, 2004, p. 165), e più avanti “[…] to be a
citizen one must live in a City and must participate actively in its public affairs
[…] a citizen is one who rules and is ruled”, così che “ […] a person is both
educated/instructed and habituated (by active participation) in being a citizen”.
Le interrelazioni tra campi di indagine e di significato, tra settori di interesse, tra aree di esplorazione e di perlustrazione, secondo l’ottica pedagogica,
possono sorgere, ad esempio, tra dimensione interculturale ed ecologia ambientale, tra educazione alla mondialità, ricerca di significati di cittadinanza ed
approccio plurilingue, tra orientamento ai servizi socioeducativi e alla persona, rapporto scuola/comunità e diritti dell’infanzia, tra geografia, storia, educazione e letteratura comparate, e così via. La conseguente ricerca di convergenze e divergenze, di prestiti ed aperture, si trova accomunata sia da una opzione eticamente fondata, quella della dignità umana, sia dall’esigenza della
coesione e della condivisione sociale, sia infine da una tendenza che punta alla costruzione di un più sostenibile, ecologico e democratico modello di società e di sviluppo.
Living the Betweenness: per uno stile educativo
Tutto ciò viene espresso con un efficace termine/concetto formulato da Ulf
Hannerz (2002): Betweenness. L’ipotesi è che la ricerca, sull’asse educativo, di
uno stile di cittadinanza (o cittadinanze, al plurale), che diventa anche stile dell’educatore, possa permettere di gestire questo equilibrio/disequilibrio (talvolta paradossale) tra versanti, gestire la variabilità delle condizioni e delle relazioni, senza disperdersi in frammentazioni e frantumazioni pericolose, riconducendosi continuamente, con tenacia e fatica (è il “distinguere per unire” maritainiano), ad una testimonianza valoriale, ad una cultura personale, sedimentata e dinamica allo stesso tempo: cultura personale che si realizza nella triade
del condividere/appartenere/partecipare.
Tale stile si sviluppa attraverso una esplorazione, una presa di coscienza e
una conciliazione dinamica tra l’analogia e il concetto, tra lo spiegare e il comprendere, tra il distinguere e il connettere. Molto spesso sembra che occorra situarsi in una zona di problematicità esistenziale in cui, affinché prendano forma significati e direzioni a procedere, occorra il silenzio e una sorta di dialogo interiore.
Anche il termine passage può essere usato, metaforicamente, per tradurre
lo stato e il sottile sentimento che riflette, in modi diversi, il delicato processo
mentale di ogni individuo, il suo costruirsi, il suo dipanarsi, (Calvino, 2000, p.
751) in rapporto alle comunità di appartenenza, alle varie forme di alterità, alla ricchezza dello sguardo e degli sguardi.
Questo stato di passaggio è fatto di confini interni e confini esterni (Hannerz, 2002), sconfinamenti, frontiere, varchi, passaggi, flussi (Appadurai,
1990), legami e interdipendenze (Albarea, 2000).
212
Si parla, anche e diffusamente, di “frontiere della conoscenza”, di confini
mentali, di zone in cui le persone e le culture si interpenetrano dinamicamente attraverso cornici, (frame) (Goffman, 2001): cornici politiche, linguistiche,
economiche, sociali, culturali e parentali che contribuiscono alla costruzione
del senso di cittadinanza. Queste cornici funzionano come filtri, strumenti di
selezione e di rielaborazione di variabili continuamente in gioco, perché è la
nozione stessa di cittadinanza che è in gioco.
Così, l’idea di flusso sta in opposizione ad ogni tipo di pensiero statico: ciò
implica non la dispersione (che comunque rappresenta sempre una deriva pericolosa) ma il potenziamento dei poteri dell’intelligenza. Si ragiona in termini di
correnti principali, di correnti secondarie, di confluenze: la metafora del flusso
induce verso l’inderogabile compito di problematizzare la cultura e il senso di
cittadinanza, di valutarne gli eventi in termini processuali; tale metafora non
fornisce alibi per una semplificazione riduttiva, astraendola dai peculiari contesti complessi di appartenenza. C’è comunque lo sforzo di focalizzare gli interflussi degli eventi, educativi e non, tra (in between) le culture e le società; proprio su questo si costruisce il senso di una cittadinanza plurima, così come nel
caso dell’identità pluralistica e dinamica (Albarea, 2000, pp. 13-20).
In un frangente storico in cui i processi di globalizzazione e l’ideologia
neoliberista stanno erodendo il ruolo e il potere degli stati nazionali (i quali costituivano il contesto e il luogo ove esercitare democrazia e cittadinanza) e la
presa di decisioni si verifica a più livelli, una cittadinanza democratica e sostenibile deve svilupparsi di conseguenza, e riproporsi nelle mutate condizioni
(puntando più sull’equità piuttosto che sulla mera uguaglianza), altrimenti essa viene lasciata alla deriva economicista e tecnocratica (Maritain) e alla sua
sottostante ideologia; “The result is […] the loss of intellectual and cultural autonomy by those who are less powerful” (Altbach, cit. in Wielemans, 2004, pp.
46-47).
Per questo, il senso di appartenenza e di esercizio di cittadinanza/cittadinanze può coniugare anche il tentativo di esplorare le possibilità di capirsi e
l’intuizione della irriducibilità dell’altro, secondo quanto afferma Gayatri
Chakavrorty Spivak, filosofa e critica letteraria bengalese, esponente di quel
settore letterario e scientifico che si indica come post colonial studies, a proposito di una “etica dell’alterità” (Spivak, 2002, p. 83).
Ora, questo “stare tra” è anche uno “stare con”, la Betweenness ha bisogno
di ancore di riferimento, che non siano lacci o impedimenti, bensì costituiscano leve per un ricerca continua. Per questo si procede facendo riferimento ad
uno scritto di Jacques Maritain.
What is Man: da uno scritto inedito di J. Maritain
Gli appunti e le riflessioni, contenute in un manoscritto con correzioni olografiche dell’autore, conservato presso il Jacques Maritain Center dell’Uni213
versità di Notre Dame, Indiana (U.S.), stilato durante il periodo bellico e durante la permanenza del filosofo in America, sono illuminanti per approfondire il messaggio profetico di Jacques Maritain. Nonostante gli inevitabili condizionamenti dovuti alla temperie culturale e storica in cui egli lo scrisse (le
vittorie del nazismo e i prodromi di resistenza), le osservazioni maritainiane
conservano ancora oggi, una loro intrinseca validità.
Ogni grande periodo storico, egli afferma, è dominato da una peculiare idea
di uomo, una immagine che l’uomo forgia di se stesso. I comportamenti degli
individui dipendono in larga misura da questa idea. Essa appare brillantemente nel pensiero di autorevoli rappresentanti e studiosi dell’epoca, così come, in
modo più o meno inconscio, nei criteri di condotta e nelle immagini mentali
della gente comune. L’immagine dell’uomo dei tempi moderni dipende, secondo Maritain, dall’influenza sulla società delle concezioni di Cartesio,
Locke, dell’Illuminismo e di Rousseau. Il processo della modernità non fu solo un processo razionale; fu un processo di continua secolarizzazione dell’uomo della Cristianità, dell’uomo della Incarnazione; un umanesimo antropocentrico che conservò nondimeno l’apparenza del messaggio cristiano (“a Christian make-up”). Enormi promesse vennero avanzate per instaurare il regno
dell’uomo, nel quale egli sarebbe diventato il supremo regolatore della propria
storia. In seguito, una progressiva, lenta perdita, nella ideologia della modernità, di certezze ed illusioni, portarono a distinguere ciò che doveva essere preservato di quelle conquiste e ciò che andava rivisto. In estrema sintesi, la perdita del senso dell’Essere: “Human reason lost its grasp on Being”.
Se l’uomo moderno si appellava ai diritti e alla sua dignità, se egli aveva fiducia nella pace e nella fraternità, se si accingeva a conquistare la terra e credeva nella vita umana, se si richiamava alla libertà e alla proprietà privata, acquisendo ricchezza per la propria felicità, nondimeno non considerava i beni
dello spirito; ma se l’uomo non considera la possibilità di donare la propria
anima a chi ama, cosa può dare infine? Egli può dare solo denaro, non se stesso: “He can give money, not himself ”. La civiltà moderna ha come fine la vita in comune, preservando la libertà e l’uguaglianza di ciascuno, possiede la
speranza nella tecnologia per raggiungere la propria felicità, ma perde una finalità più intima, quella dell’essere umano che, attraverso uno sforzo ascetico,
propende verso una interna conoscenza e padronanza di se stesso, che si traduce in responsabilità morale e testimonianza etica. L’uomo moderno cerca la
democrazia (senza però un eroico sforzo verso la giustizia e senza l’amore fraterno che le dà l’ispirazione) così che il più significativo miglioramento politico dei tempi moderni, incluso il rispetto dei diritti della persona e dei diritti
dei popoli, la democrazia appunto, devia verso la perdita del senso della finalità dell’esistere. La democrazia incorpora, riduttivamente, la volontà sovrana
del popolo e la sua dignità, nell’apparato di uno stato burocratico sempre meno responsabile e sempre più ripiegato in se stesso (la progressiva perdita d’importanza dello stato-nazione, si direbbe oggi, e la nascente speranza di apertura verso una cittadinanza sostenibile, planetaria e interrelata).
214
Il divario tra il reale comportamento dei singoli del mondo cristiano secolarizzato e i principi morali e spirituali che dovrebbero animarlo e dargli interna consistenza, fa emergere la tendenza verso un universo nominalistico (gli
slogans), fatto di parole vuote e di pasta senza fermento, che riceve forza dall’esterno (“vis a tergo”) e non da un interno dinamismo. Il principio utilitaristico caratterizza la civiltà capitalistica, che è stata capace di innegabili conquiste nei confronti del mondo materiale, ma che ha perso il senso del donare
e del donarsi, vivendo dei segni e nei segni, costruiti a propria misura, e risolvendosi, si potrebbe aggiungere, in una autoreferenzialità che sfiora il dogmatismo, nonché nei suoi esiti più deleteri, in una forma di idolatria.
L’avvento di una nuova era (al termine della conflagrazione bellica mondiale, quando avranno vinto le forze della dignità umana e della democrazia)
sarà una “profane” Christian civilization, una era di riconciliazione in cui la
sfera del temporale, la ragione filosofica e scientifica, lo stato e la politica, potranno esercitare e godere della loro autonomia riconoscendo, allo stesso tempo, il ruolo vivificante e ispiratore delle tensioni spirituali e della fede religiosa, che si situeranno su un altro (e più alto) livello. Ora, la “profane” Christian
civilization incorpora in sé un’etica della responsabilità globale.
Autorità e autonomia: per una cittadinanza sostenibile
La funzione essenziale dell’autorità, anche di quella educativa, sta nell’esercizio del giudizio prudenziale (“prudential judgement”, secondo Maritain)
che è differente rispetto al giudizio scientifico, in quanto la proprietà della
prudenza consiste nella relazione di conformità del giudizio con i requisiti di
una giusta tensione verso un fine che si deve perseguire. Oggi si potrebbe parlare di sostenibilità e cautela nelle relazioni e nei giudizi in un contesto sempre più multiprospettico e interrelato.
Per quanto riguarda il principio di autonomia, studiosi contemporanei hanno posto l’accento sia sullo stato di minorità di un individuo che non sa esercitare appieno la sua autonomia, anche in situazioni storiche e istituzionali di
libertà (Iacono, 2000, pp. 27-39), sia sulla differenza tra relazioni di potere e
stati di dominio (Foucault, 1998, pp. 291-292). C’è pertanto differenza tra libertà e autonomia: esse non si pongono come passaggio necessario e sequenziale dall’una all’altra. Se si attribuisce alla nozione di libertà quel che concerne la dimensione oggettiva, istituzionale dell’essere liberi, e alla nozione di
autonomia la dimensione soggettiva, individuale, allora si possono immaginare situazioni di libertà senza autonomia e, viceversa, situazioni di autonomia
senza libertà.
Così le relazioni di potere si distinguono dagli stati di dominio perché lasciano spazio a giochi di relazione, a mediazioni intelligenti (come nella relazione educativa), alle regole del diritto, alle modalità di gestione e di governo,
all’ethos personale e alla testimonianza (del cittadino e dell’educatore), alla
215
pratica di sé come pratica di libertà. Solo all’insegna di una ricerca di plurimi
significati di cittadinanza, le relazioni di potere tra uguali possono evolversi in
relazioni tra diversi, raggiungendo così, attraverso la libertà, forme di equità.
La relazione che focalizza il dinamico rapporto (come si diceva all’inizio) tra
educazione e cittadinanza, è anche quella che si realizza nella tensione tra libertà e obbedienza (ai valori), come il mito di Antigone insegna; tale tensione
è una manifestazione di cittadinanza sostenibile. Essa richiede una “eroica” filosofia di vita accompagnata dalla meditazione evangelica; ed è per questo che
non si osa abbastanza e neppure si propone abbastanza: è, mutatis mutandis, il
concetto di “pensiero alternativo” formulato da Bogdan Suchodolski (2003,
pp. 106-108), nella sua intrinseca validità.
Ahiwa Ong, una studiosa malese, che insegna antropologia all’università di
Berkeley, in California, svolge le sue riflessioni sulla cittadinanza nel contesto
delle pratiche di governo della “nuova America” e in rapporto a diversi tipi di
mobilità transnazionale, focalizzando le complesse relazioni tra fenomeni migratori transnazionali, regimi nazionali e pratiche culturali, in cui le azioni
quotidiane dei singoli sono viste come forme di politica culturale inserite in
specifici contesti di potere. Tali intrecci diventano variabili significative tese
ad influenzare la tradizionale composizione sociale e culturale dei singoli stati nazionali. La cittadinanza americana, afferma la Ong, già da qualche tempo
è al centro di un intenso dibattito. Gli studiosi hanno ormai inevitabilmente superato la concezione ristretta della cittadinanza come insieme di diritti legali,
che si possiedono o non si possiedono (concezione statica, risalente alla tradizionale nozione di cittadinanza dell’epoca liberale), per prendere in considerazione un’appartenenza di gruppo che includa gamme diverse di cittadini, di
non cittadini, di “quasi” cittadini. Esistono pertanto processi di cittadinanza
originatesi dalla dialettica inclusione/esclusione (cioè della tensione esistente
tra una riconosciuta ideologia dei diritti politici uguali per tutti e una comune
e profonda spinta ad escludere ampi gruppi di esseri umani privandoli della cittadinanza, con giustificazioni basate sulla razza, sulla classe e sul genere), processi di cittadinanza per successione etnica (come nel caso delle minoranze di
immigrati o di minoranze etniche che vengono ammesse nel corpo principale
della società americana, grazie alle conquiste ottenute dalle generazioni successive), e processi di cittadinanza per differenza: negli ultimi decenni, ad
esempio, alcuni gruppi hanno distolto le lotte delle minoranze dall’obiettivo
dell’assimilazione orientandole verso una maggiore insistenza sulla differenza
culturale, determinando così l’inclusione integrale della differenza nella nozione di cittadinanza americana (Ong, 2005, pp. 17-22).
Di fronte ad una visione così differenziata e, se si vuole, frammentata, della cittadinanza, urge un radicale cambiamento delle sue componenti, che costituivano il modello classico di cittadinanza: diritti, responsabilità, partecipazione e identità (Delanty, 2000). L’indicazione di Delanty è quella di considerare questa frammentazione come una opportunità per una rinnovata configurazione delle diverse componenti e dei livelli di governance della cittadinanza
216
in rapporto alla realtà emergente, caratterizzata da dinamicità, variabilità e pluralismo. Egli ipotizza tre diversi livelli di configurazione e di azione che si integrano a vicenda, come cerchi concentrici:
– un livello subnazionale di democrazia partecipativa nella gestione diretta dei cittadini al bene comune e alla vita comunitaria;
– un livello nazionale di welfare state in cui si realizza il piano più propriamente costituzionale, cioè la cittadinanza sociale e la salvaguardia
dei diritti;
– un livello transnazionale in cui si realizzano politiche più generali di tipo regolativo e forme di cittadinanza collettive o di gruppo, che si possono manifestare nella partecipazione attraverso i movimenti sociali in
settori quali, ad esempio, quelli dei diritti umani, della sicurezza, dell’ambiente, o dello sviluppo, oppure in quello che lo stesso Delanty ritiene essere il livello più alto di espressione, e cioè la prefigurazione e
l’articolazione di un’etica della responsabilità globale. La “transnational
governance” assume di fatto le forme di un “legal cosmopolitanism”.
È su questo terreno che si deve lavorare in vista della creazione di una cittadinanza sostenibile tra i nord e i sud del mondo, tra identità e alterità, tra autonomia, autorità e pratiche di governamentalità.
Riferimenti bibliografici
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217
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Changing Nation States, in E. Buk-Berge, S. Hom-Larsen, S. Wiborg (eds.), Education across Borders. Comparative Studies, Oslo, Didakta, pp. 35-56.
218
Educazione alla convivenza civile:
modelli e prospettive didattiche
PAOLO CALIDONI
La ‘trasposizione didattica’ dell’educazione alla convivenza civile, ovvero
la delineazione di percorsi formativi adeguati a perseguire il ‘valore aggiunto’,
il ‘supplemento d’anima’ dei curricoli scolastici utile per lo sviluppo del potenziale di ‘umanità’ e di ‘cittadinanza’ nel contesto globale – oltre che e per il
sapere, saper fare e saper essere di ciascuno – pone specifici problemi perché
si tratta di un ‘oggetto’ didattico atipico.
Cercherò di tracciare sommariamente le coordinate del problema didattico
che pone questo ‘oggetto’ e di identificare alcune possibili tipologie di soluzione, per indicare – infine – alcuni criteri di lavoro.
1. Anzitutto si deve ricordare che la stessa istituzione scolastica, nelle diverse forme storiche che ha assunto nell’arco della modernità ‘incorpora’ nel
suo curricolo, nelle forme d’azione e nella stessa strutturazione spaziale ed organizzativa modelli di convivenza civile ‘impliciti’ ed ‘espliciti’, come le analisi di Foucault, Illich, Postman – ad esempio – hanno documentato con argomentazioni non facilmente liquidabili. E queste considerazioni evidenziano
che l’educazione alla convivenza civile più di altri ‘contenuti/scopi’ formativi
e curricolari si gioca nell’intreccio complesso tra scuola ed extrascuola, tra implicito ed esplicito, tra intenzionale e non intenzionale; ma è comunque presente.
Il primo passo per la ‘governance’ didattica di questa dimensione formativa sta, quindi, nello ‘scoprire’ quanto è tacitamente incorporato nelle pratiche
quotidiane veicolatrici di valori e forme di convivenza diversi, nel confrontarsi sui loro significati e sulla loro accettabilità educativa e democratica, renderli espliciti ed intenzionali, vagliarne l’attuazione.
2. L’individuazione dei modelli didattici di educazione alla convivenza civile può avvenire su base storica o avvalendosi dei criteri di costruzione e analisi dei curricula proposti, ad esempio, da Kerr, Stenhouse e, più recentemente, da Gardner e Morin. Tra le diverse possibilità, scelgo di segnalare, a titolo
219
indicativo, alcune delle coordinate entro le quali si configurano i diversi modelli didattici, senza pretesa di esaustività1.
– L’educazione alla convivenza civile può assumere il formato degli altri
insegnamenti scolastici (è stato così per l’educazione civica) o essere
posta come dimensione trasversale (come avviene oggi) o essere ‘esplicitata’ con specifici progetti ritagliati ad hoc ed integrati (come è stato
con i vari progetti giovani). Ogni soluzione presenta diversi vantaggi e
svantaggi dal punto di vista didattico ed è coerente con diversi impianti
di riferimento sociale e pedagogico.
– Inoltre, qualunque sia la collocazione curricolare tra quelle appena indicate, l’enfasi formativa dell’educazione alla convivenza civile può essere variamente distribuita privilegiando il sapere, il saper fare o il saper
essere – ad esempio – . Nel primo caso le conoscenze sono centrali, nel
secondo le azioni, nel terzo gli atteggiamenti mentre le altre dimensioni
diventano strumentali o secondarie; raramente sono escluse. Il primo
modello può scadere nel nozionismo, il secondo nel proselitismo, il terzo nell’emozionalismo.
– Infine, trascelgo e segnalo le strategie didattiche che possono andare –
ad esempio – dalla trasmissione, alla simulazione, alla costruzione. La
presentazione delle conoscenze e dei valori della convivenza civile è tipica – ad esempio – dell’impostazione scelta dal MIUR e dal MIT (che
non è il Massachussets Institute of Technology ma il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti) per organizzare in tutte le scuole secondarie
di primo e di secondo grado i corsi di 20 ore per il conseguimento del
“certificato di idoneità alla guida del ciclomotore”, illustrate nel sito
www.istruzione.it/patentino/. L’utilizzo delle procedure elettorali nell’ambito degli organi di democrazia scolastica ed il loro funzionamento;
i consigli comunali dei ragazzi ecc. sono esempi di simulazione. La costruzione si realizza nelle esperienze dei progetti giovani (es. giornale
scolastico ecc.; come co-costruzione) e nell’autogestione.
Combinazioni diverse di opzioni relative alle coordinate, danno luogo a
modelli didattici differenti che assolvono a funzioni specifiche, guidate da e
orientate a opzioni pedagogiche diversificate.
Un interessante esempio dell’attuale interpretazione del senso dell’educazione alla convivenza civile è rappresentato dal caso già citato, che vale la pena di riprendere integralmente dalla Newsletter di «Tuttoscuola» del 12 di1 Una analisi organica delle forme dell’educazione alla cittadinanza democratica nei Paesi europei si trova nel documento del Consiglio d’Europa dal titolo ‘All-European Study on
Education for Democratic Citizenship Policies’,
reperibile all’indirizzo web
http://www.coe.int/T/e/Cultural_Co-operation/Education/E.D.C/Documents_and_publications/By_Subject/Policies/All_european_study_complete.PDF
220
cembre 2003: “Per conseguire il patentino i giovani interessati dovranno frequentare un corso di 20 ore complessive, 12 delle quali extracurricolari: 4 sulle norme di comportamento, 6 sulla segnaletica, 2 di “educazione al rispetto
della legge”; se si superano le 3 ore di assenza non si è ammessi all’esame. Le
altre 8 ore saranno invece curricolari, e rientreranno nell’ambito della “educazione alla convivenza civile”. A differenza delle prime 12, queste 8 ore saranno rivolte a tutti gli studenti, e saranno gestite, presumibilmente, in compresenza tra il docente “scolastico” e il docente esterno: polizia stradale, vigili urbani, carabinieri, guardia di finanza e altri, in possesso di competenze specifiche. L’esame finale non sembra tale da togliere il sonno ai candidati: si farà su
un questionario predisposto dal MIT contenente 10 domande a risposta multipla, ma l’esame sarà superato anche se si daranno quattro risposte sbagliate.”
Come si vede, si tratta di una soluzione in cui l’educazione alla convivenza civile – nell’aspetto dell’educazione stradale – è configurata come insegnamento scolastico, centrata sul sapere, con una strategia trasmissiva.
‘Speriamo bene’, conclude il giornalista. Speriamo, ma in questi casi sarebbe preferibile affidarsi ad argomenti convincenti piuttosto che ad una speranza che, nell’accezione usata, è sinonimo di dubbio o rassegnazione.
Un altro esempio è rappresentato dalla dimensione europea dell’istruzione
è divenuta centrale nelle politiche scolastiche in particolare a partire dalla delineazione – nel 2000, da parte del Consiglio dell’Unione Europea – della cosiddetta ‘strategia di Lisbona’ che ha evidenziato il ruolo cruciale dell’istruzione per lo sviluppo economico sostenibile e la coesione sociale2 ed ha posto
per il 2010 significativi ed impegnativi obiettivi da raggiungere, ribaditi nel
20043 a seguito di un bilancio del processo in corso che evidenzia l’esigenza
di un rinnovato impegno.
Contemporaneamente, l’allargamento e la recente firma del Trattato per la
Costituzione dell’Unione Europea – ed i relativi problemi e ripensamenti – costituiscono ‘passaggi epocali’ nella configurazione delle forme di esercizio
della ‘cittadinanza attiva’ che impegnano ed impegneranno le giovani generazioni, che la scuola e le istituzioni democratiche sono chiamate a coltivare e a
far crescere. E al riguardo l’Unione ha promosso diverse iniziative specifiche
(1000 Debates on Europe, European Spring Day, Futurum) in aggiunta ai programmi già consolidati (Youth, Socrates, Leonardo).
Inoltre, il Consiglio d’Europa (ben oltre la pur allargata Unione a 25) ha
proclamato il 2005 Anno Europeo della Cittadinanza attraverso l’Istruzione.
“Nell’organizzare l’Anno il Consiglio d’Europa intende focalizzare l’attenzione sull’importanza dell’istruzione nello sviluppo della cittadinanza e la qualità
della partecipazione in una società democratica”, anche in concomitanza con
il 50º anniversario della European Cultural Convention (19 dicembre 2004maggio 2005).
2
3
http://europa.eu.int/comm/education/policies/2010/et_2010_en.html
http://europa.eu.int/comm/education/policies/2010/doc/jir_council_it.pdf
221
3. Come si dovrebbe facilmente evincere dalle sommarie considerazioni
precedenti, la ‘trasposizione didattica’ (dal sapere al sapere insegnato al sapere appreso) dell’educazione alla convivenza civile è questione articolata e complessa, da affrontare come tale, rifuggendo le scorciatoie riduzionistiche. Una
prospettiva didatticamente adeguata per l’educazione alla convivenza civile
comporta l’integrazione articolata di diversi piani e forme di lavoro formativo
tra scuola ed extrascuola. A partire dalle regole e pratiche della vita quotidiana della scuola, l’educazione alla convivenza civile si sviluppa sia attraverso
insegnamenti specifici, sia come valore trasversale, sia con momenti ad hoc.
Modelli e soluzioni semplificatori o unilaterali sembrano inadeguati per affrontare la trasposizione didattica di un tema così importante ed assolutamente centrale nella formazione di oggi e di domani.
222
Educazione alla convivenza civile e percorsi formativi
PASQUALE MOLITERNI
Con la Riforma Moratti è cambiato anche il lessico scolastico.
L’educazione alla cittadinanza del precedente testo programmatico Berlinguer-De Mauro è stata integrata ed espansa nella Educazione alla Convivenza
Civile (E.C.C.).
La legge 53/2003 assegna, infatti, alla scuola il compito di “educare ai principi fondamentali della convivenza civile” (art. 2).
Il Profilo Educativo, Culturale e Professionale (PECUP) dello studente, alla fine del primo ciclo di istruzione, presenta un paragrafo dedicato specificamente alla Convivenza civile.
Dalle Indicazioni Nazionali (documento allegato al decreto legislativo
59/2004 attuativo della legge 53/2003), veri e propri programmi di apprendimento, rileviamo, inoltre, che gli apprendimenti e i saperi da costruire nella
nuova scuola sono costituiti dalle discipline (dieci per la scuola primaria, dodici per la scuola secondaria di primo grado, oltre alla religione cattolica) e
dall’Educazione alla convivenza civile; questa non si presenta con una propria
specificità ma è la risultante dell’aggregazione di sei educazioni aventi propri
obiettivi specifici di apprendimento: educazione alla cittadinanza, stradale,
ambientale, alla salute, alimentare, all’affettività.
L’ottica utilizzata sembra essere quella di tipo giustappositivo, con il ricorso ad un codice cumulativo anzicchè integrativo1.
Il problema di come tenere insieme tutte le discipline e le sei educazioni
poste sotto il tetto dell’educazione alla convivenza civile – con i vari Obiettivi
Specifici di Apprendimento (OSA), esplicitati non solo per le discipline, ma
anche per le stesse educazioni (vi sono in tutto circa 700 OSA) – è questione
che affronteremo successivamente, anche se per ricostituire l’unitarietà del sapere e dei processi di conoscenza e apprendimento gli estensori dei testi rinviano alla soluzione dell’ologramma, cosa più facile a dirsi che a farsi.
1 Per approfondimenti ed ulteriori riferimenti vedi: Pasquale Moliterni, Educazioni e curricolo: verso percorsi formativi integrati, in Luciano Corradini, Walter Fornasa, Sergio Poli,
Educazione alla convivenza civile, Roma, Armando, 2003, pp. 125-173.
223
Dall’Educazione civica all’Educazione alla Convivenza Civile
Il cammino dell’ educazione alla convivenza civile ha nel nostro paese radici lontane, a partire, evidentemente, dalla Costituzione, in cui trova fondamento la scuola repubblicana.
È dunque dal 1948 che ci si adopera per costruire un sistema di istruzione
che abbia come finalità principale l’educazione alla democrazia, alla legalità,
all’etica civile. Eppure, solo dopo dieci anni dal varo della Carta si è riusciti a
tradurre i suoi principi fondanti in quella specifica materia che è l’Educazione
civica, introdotta nella scuola secondaria con un decreto del 1958. È noto comunque che tale disciplina non ha avuto grande rilevanza e ciò per varie ragioni, tra cui il suo schiacciamento sulla storia e la mancanza di un proprio peso anche nella valutazione degli apprendimenti. È vero anche che il problema
di formare buoni cittadini, portatori consapevoli di diritti e di doveri in una società democratica, non è risolvibile solo attraverso uno specifico e ridotto insegnamento, ma è necessario che trovi collocazione in maniera diffusa nell’intero percorso formativo e venga concepito in modo trasversale e cogente, permeando l’intera azione didattica. Ciò è necessatio perché si vanno ad intersecare comportamenti prosociali e morali su cui maturare consapevolezze ed intenzionalità, non solo attraverso il curricolo esplicito ma anche e soprattutto attraverso il curricolo implicito, in una considerazione attenta sia della “pedagogia visibile” sia della “pedagogia invisibile”, secondo le accezioni che è dato
riscontrarne in Basil Bernstein2 (per il quale quello culturale costituisce il contesto della pedagogia visibile, mentre il contesto sociale rappresenta il contesto della pedagogia invisibile) e in Victor Garcia Hoz (per il quale le “finalità
si collocano nel campo della pedagogia invisibile, che è certamente il campo
più profondo dell’educazione, quello in cui prevalentemente si situano i valori”)3. “Nella caratterizzazione degli atti educativi, le finalità dell’educazione si
materializzano nelle opere latenti” 4.
I concetti di etica e di formazione valoriale vanno pertanto esplicitati in modo rilevante, facendo permeare di sé anche il curricolo nascosto, per assicurare a tutti ed a ciascuno i diritti inviolabili di libertà ed uguaglianza, nella responsabilità personale e sociale, in una società che fa della persona, nella sua
tipicità e diversità, il valore fondamentale.
È quanto prescrive la Costituzione repubblicana in materia di diritti eticocivili, oggi consolidati dalla stessa Costituzione europea dove si afferma che
“L’Unione si fonda sui valori indivisibili e universali della dignità umana, della libertà, dell’uguaglianza e della solidarietà”. I diritti fondamentali della per2
Basil Berrnstein, Classe e pedagogie: visibili e invisibili, in Egle Becchi (a cura di), Il
bambino sociale, Milano, Feltrinelli, 1979, pp. 192-226.
3 Victor Garcia Hoz, Anton Bernal Guerriero, Santo Di Nuovo, Giuseppe Zanniello, Dal
fine agli obiettivi dell’educazione personalizzata, Palermo, Palumbo, 1997, p. 29.
4 Ibidem.
224
sona possono trovare espressione soltanto in un ordinamento democratico, capace di coniugare libertà e responsabilità, in un’etica della responsabilità, secondo la felice accezione datane da Max Weber5, prima, e Hans Jonas6, dopo.
D’altra parte “tra democrazia ed educazione esiste una stretta correlazione,
… non si può veramente educare …svelando la comune umanità, se non in una
società democratica …e non si può essere veramente democratici se non in un
orizzonte educativo; …l’educazione… deve mirare al compimento della cittadinanza nei termini di una virtuosa coniugazione tra libertà ed uguaglianza”7.
Non va comunque dimenticato, come ribadisce Zagrebelsky, che l’“ethos della democrazia non si produce da sé…è naturale che si guardi alla scuola e al
suo compito di formazione civile…impegnandoci in ogni luogo per scuotere
l’apatia, promuovere ideali, programmi e…utopie. La democrazia deve curare
l’originalità di ciascuno dei suoi membri e combattere la passiva adesione alle
mode”8.
È il motivo per cui già in seguito al Rapporto di Edgar Faure del 1972 arriva la Raccomandazione dell’Unesco del 19 novembre 1974 sull’educazione
per la comprensione, la cooperazione e la pace internazionale e sull’educazione ai diritti umani e alle libertà fondamentali, enunciati nella Carta delle Nazioni Unite e nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1948. L’obiettivo è
di preparare i bambini e gli adolescenti ad “esercitare i propri diritti nel riconoscimento e nel rispetto dei diritti altrui e ad adempiere alle proprie funzioni
nella società”.
Nel 1985 il Consiglio d’Europa approva un documento allegato alla Raccomandazione R85, relativo all’insegnamento e all’apprendimento dei diritti
umani nelle scuole.
Nel 1993, a Vienna, nella Seconda Conferenza mondiale delle Nazioni Unite viene sottoscritta la Dichiarazione di Vienna sui diritti umani. In essa si afferma che l’istruzione deve promuovere la tolleranza, la comprensione e l’amicizia tra i popoli e tra le nazioni ed incoraggia lo sviluppo delle attività dell’ONU in tale direzione.
Nel 1995, in Italia, il CNPI, con il documento Educazione civica, democrazia e diritti umani, afferma che al fine di “contrastare ogni forma di individualismo, di razzismo, di massificazione, la scuola deve saper costruire percorsi di educazione alla conoscenza e al rispetto dei diritti di ogni uomo, al dialogo, alla collaborazione, alla giustizia, alla legalità e alla pace”.
Si ribadisce, dunque, che la conflittualità trova fondamento nella mancan5
Max Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Firenze, Sansoni, 1945.
Hans Jonas, Il principio di responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Torino, Einaudi, 1993.
7 AA.VV, Educazione e futuro della democrazia per una nuova cittadinanza, Roma,
Uciim-Siesc, 1998, p. 5.
8 Gustavo Zagrebelsky, Decalogo contro l’apatia politica, in “La Repubblica”, 4 marzo
2005, Roma, pp. 50-51.
6
225
za di senso civico, nella scarsa attenzione alla giustizia, legalità, partecipazione, convivenza democratica e nella mancanza di senso del bene comune.
“La democrazia è basata sull’uguaglianza che è isonomia e in essa le identità particolari sono ininfluenti sul diritto di stare in società… oggi il problema
della coesistenza di identità plurime è di natura etnico-culturale e religiosa…
La democrazia non può parlare solo di tolleranza ma di una cittadinanza uguale per tutti che vada al di là del solo principio di identità cui si associa in genere l’esclusione… La scuola deve promuovere, invece, reciproca accettazione e con ciò abbassare l’insolenza dei segni distintivi… La democrazia è orientata dai principi ma deve imparare quotidianamente dalle conseguenze dei propri atti… È forma di vita di esseri umani solidali. La virtù repubblicana di
Montesquieu è… amore per la cosa pubblica e disponibilità a mettere in comune il meglio di sé… d’altra parte non va dimenticato che (ndr) politica viene da polis e politéia, due concetti che indicano “arte, scienza e attività dedicate alla convivenza”9.
Nello stesso documento del 1995, il CNPI ribadisce che i valori dell’educazione civica sono fondamentalmente trasversali a tutte le discipline e devono impregnare di senso e di significato tutte le attività scolastiche, con indubbi riflessi anche su quelle extrascolastiche.
Quella della trasversalità e della fondatività dell’educazione civica e civile
per tutti i saperi è una questione di grande rilevanza, che trovava esplicitazione già nei programmi della scuola media del 1979, in cui, oltre alla presenza
specifica dell’Educazione civica come disciplina, era dato rilevare la fondatività di tale educazione per l’intero percorso formativo, in quanto essa “…potenzia la capacità di partecipare ai valori della cultura, della civiltà e della convivenza sociale e di contribuire al loro sviluppo”.
Nei Programmi della scuola elementare del 1985 (DPR 104) vi è uno specifico paragrafo della Premessa intitolato Educazione alla Convivenza Democratica. In esso emerge con chiarezza che l’educazione alla convivenza democratica non è né una generica finalità né un ambito disciplinare “a parte”. È,
insieme, fine e principio dell’intera azione formativa della scuola e del suo
funzionamento. Rappresenta il “fulcro stesso della struttura del curricolo, il
principio unificatore degli obiettivi formativi”10. Ogni disciplina è funzionale
all’educazione etico/sociale perchè ha una valenza cognitiva, essenziale ai fini
dell’alfabetizzazione culturale, ma anche una valenza formativa per la realizzazione di quel processo di decentramento personale, che ha una dimensione
insieme cognitiva ed etica. Le discipline, però, hanno tale duplice connotazione solo se orientate da precisi riferimenti epistemologici e a condizione che
9
Gustavo Zagrebelsky, ibidem.
Matilde Parente, Commento ai programmi della scuola elementare, Bergamo, Juvenilia,
1986, p. 32.
10
226
vengano messe in campo con una metodologia basata sulla problematizzazione dell’esperienza.
La ricerca infatti comporta non solo una strategia di costruzione della conoscenza (quella che Kant definiva “Ragion pura”), ma richiede anche implicazioni di comportamento (la “Ragion pratica”), perché si basa sulla capacità
di prendere in considerazione punti di vista diversi e di manifestare disponibilità al confronto ed al dialogo, evitando atteggiamenti pregiudiziali nei confronti di proposizioni possibili; richiede, inoltre, disponibilità a porsi in discussione, insieme al rigore e alla coerenza delle argomentazioni.
È solo in questa prospettiva che i contenuti curricolari diventano strumentali alla formazione della persona ed al perseguimento dei fini esplicitati dalla
educazione alla convivenza democratica, che, evidentemente, costituisce la
bussola ed il faro di orientamento e, dovendo dare la direzione di marcia, anticipa e sostanzia di senso e di significato le stesse discipline ed i vari saperi.
In applicazione della legge 30 del 2000 e dell’art. 8 del dpr 275/1999, il Regolamento del 2001 in materia di curricoli della scuola di base, negli Indirizzi
per l’attuazione del curricolo dedica un apposito paragrafo a La formazione alla cittadinanza che costituisce, come vi si afferma, “il cuore del sistema educativo”. È evidente la continuità con le indicazioni presenti nel “Sé e l’altro” degli Orientamenti della scuola dell’infanzia del 1991, dell’“Educazione alla convivenza democratica” dei programmi del 1985 e della “Scuola della formazione dell’uomo e del cittadino” dei programmi del 1979 per la scuola media.
Educare alla cittadinanza, infatti, comporta l’acquisizione degli “strumenti
relativi all’assunzione di responsabilità nella vita sociale e civica…la progressiva acquisizione di competenze sociali nell’orizzonte della libertà, della criticità,
della partecipazione democratica, della responsabilità civico-sociale e della solidarietà a tutti i livelli della vita organizzata (locale, nazionale, europea, mondiale) nella prospettiva di uno sviluppo sostenibile. Si tratta di un aiuto educativo
che abiliti ad atteggiamenti ed a comportamenti democratici, a partire da quelli
interni alla scuola… secondo una logica implicita e contestuale… Le scuole dovranno …inserire specifici obiettivi di apprendimento rivolti allo sviluppo del
senso della cittadinanza nei diversi curricoli, indicare …tra gli obiettivi trasversali… quelli relativi ai saperi e ai comportamenti di cittadinanza… prevedere
percorsi interdisciplinari di formazione alla cittadinanza”.
L’educazione alla cittadinanza è dunque centrata sulla formazione del cittadino, ovvero sullo sviluppo di comportamenti basati sul valore della democrazia, intesa come rispetto dei diritti di ciascuno e di tutti, orientata al bene
comune.
Il cittadino è l’abitante della città, il soggetto portatore di diritti; pertanto,
un’educazione alla cittadinanza sembra risultare più centrata sul comportamento del singolo, anche se l’accezione di cittadino nelle varie lingue (france227
se: citoyen; inglese: citizen; spagnolo: ciudadano) assume la specificazione di
colui che mette l’interesse dell’umanità al di sopra degli interessi personali e
nazionali.
Con l’Educazione alla convivenza civile si vuole spostare ulteriormente tale processo verso l’attenzione al bene comune; è come dire che i comportamenti civili devono mirare oltre ed avere come obiettivo prioritario la costruzione di processi di convivenza (cum-vivere) sociale e civile, con comportamenti protesi sempre verso l’altro.
La legge 53/2003, come già detto, all’art. 2 assegna alla scuola il compito
di “educare ai principi fondamentali della convivenza civile”; il Profilo Educativo, Culturale e Professionale (PECUP) dello studente alla fine del primo
ciclo (Allegato D del decreto legislativo n. 59 del 2004) dedica alla Convivenza civile un apposito paragrafo in cui si dice che “Alla fine del primo ciclo,
grazie alla maturazione della propria identità e delle competenze culturali, il
ragazzo è consapevole di essere titolare di diritti, ma anche di essere soggetto
a doveri per lo sviluppo qualitativo della convivenza civile …riflette sui propri
diritti-doveri di cittadino… all’interno di un gruppo di persone che condividono le regole comuni del vivere insieme”.
“Le esigenze del bene comune derivano dalle condizioni sociali di ogni
epoca e sono strettamente connesse al rispetto e alla promozione integrale della persona e dei suoi diritti fondamentali. Tali esigenze riguardano innanzitutto l’impegno per la pace, l’organizzazione dei poteri dello Stato, un solido ordinamento giuridico, la salvaguardia dell’ambiente, la prestazione di quei servizi essenziali delle persone, alcuni dei quali sono al tempo stesso diritti dell’uomo: alimentazione, abitazione, lavoro,educazione e accesso alla cultura,
trasporti, salute, libera circolazione delle informazioni e tutela della libertà religiosa”11.
Come si vede, i diritti di cittadinanza e convivenza civile, sono strettamente intrecciati, anzi l’uno è conditio sine qua non per l’altro ed è il motivo per
cui, forse, anche nelle Indicazioni Nazionali l’Educazione alla Convivenza Civile costituisce soltanto un titolo, i cui contenuti si ritrovano nell’aggregazione di altre sei educazioni, a partire da quella alla cittadinanza.
L’educazione alla cittadinanza attiene al riconoscimento ed alla tutela dei
diritti fondamentali ed inviolabili dell’uomo; come ribadisce Papa Giovanni
Paolo II12, la legge stabilita dall’uomo non può valicare i limiti fissati dalla legge di natura e la tutela dei diritti umani è fondamentale perché questi costitui11
Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, “Compendio della dottrina sociale della Chiesa”, Roma, Libreria Editrice Vaticana, 2004, p. 166.
12 Giovanni Paolo II, Memoria e identità. Conversazioni a cavallo dei millenni, Milano,
Rizzoli, 2005.
228
scono il fondamento della stessa convivenza civile in una comunità fondata sul
diritto.
Contrariamente a quanto sostenuto da alcuni commentatori delle Indicazioni Nazionali, non può pertanto ravvisarsi una lettura contrastiva tra educazione alla cittadinanza ed educazione alla convivenza civile, né una deminutio della prima a favore della seconda.
D’altra parte sia civitas che civis hanno tratti fortemente comuni; con il primo termine si indica il luogo in cui sviluppare la civiltà che rende possibile la
costruzione dell’humanitas e che mira a trasformare ciò che può esservi di
“selvatico” in ciascuno (non va dimenticato che con selvae si indicavano i barbari). “Il civile indica la qualità della cultura e dei rapporti che si instaurano
entro un determinato gruppo umano, il civico indica il rispetto delle norme di
un determinato paese…il riferimento implicito alla società civile chiama in
causa le radici antropologiche, storiche, etiche e giuridiche e della civitas e dell’urbs, distinguendole dalle selve; e ricorda che la scuola non è un’isola, ma
uno snodo essenziale nel processo di incivilimento e di resistenza alla mai
sconfitta barbarie”13.
La civitas è dunque frutto di costruzioni continue attraverso interazioni, la
cui integrazione porterà alla convivenza civile.
“Da un ordinamento all’altro, la persona umana e i suoi diritti trovano dunque la stessa accoglienza, la stessa cittadinanza. Questa è divenuta anzi l’istituzione di mezzo, la legatura”14.
Qualche tempo fa, abbiamo elaborato un modello15, di seguito riportato, in
cui l’educazione alla cittadinanza costituisce per l’appunto il luogo di mezzo,
nelle interazioni tra soggetto e oggetto, per lo sviluppo di quelle consapevolezze capaci di favorire l’educere dell’humanitas che è in ciascuno di noi.
L’educazione alla convivenza civile può costituire la risultante delle interazioni e degli intrecci di seguito evidenziati, secondo il modello piagettiano.
S
Educazione
alla salute
↔
Educazione
alla cittadinanza
O
Educazione
ambientale
13
Luciano Corradini, Radici e sviluppi dell’educazione alla convivenza civile, in L. Corradini, W. Fornasa, S. Poli, Educazione alla …, op. cit., p. 85.
14 Andrea Manzella, Il monito del Papa non trova ascolto a Roma, in “La Repubblica”, Roma, 2 marzo 2005, p. 18.
15 Pasquale Moliterni, Educazioni e curricolo: verso percorsi formativi integrati, in Luciano Corradini, Walter Fornasa, Sergio Poli, Educazione alla convivenza civile, cit., p. 135.
229
Come si vede l’educazione alla cittadinanza costituisce una terra di mezzo,
una nuova istituzione tutta da costruire, in un cammino ed impegno che veda
le società trasformarsi da comunità di destino in comunità di progetto: un progetto orientato a quella tutela dei diritti fondamentali della persona, possibile
solo in un riconoscimento della stessa persona non in termini di mera individualità (per sé unum, latino), ma in interrelazione e corrispondenza con chi gli
sta accanto e di fronte (o prosopos, greco); d’altra parte la tutela dei propri diritti comporta il dovere di tutelare quelli altrui.
Nello studio di cui alla nota precedente ci ponevamo il problema di come
individuare saperi scolastici utili alla promozione dell’uomo e alla costruzione
di un mondo capace di assicurare i diritti di cittadinanza e, dunque, la convivenza civile.
Rifacendoci al modello dell’epistemologia genetica, in cui, come già detto, la conoscenza è il frutto dell’interazione (I) tra soggetto (S) e oggetto (O),
potremmo sicuramente riferire al soggetto la salute (intesa come benessere e
ben-essere del soggetto) e all’oggetto l’ambiente (ciò che è fuori da sé, l’alter), mentre concependo la cittadinanza come frutto delle azioni/interazioni
tra soggetto e oggetto (regole e modi di agire/essere come costrutto del soggetto nei vincoli e negli adattamenti interattivi sociali), vedevamo le educazioni in interazione fra loro; ad esempio l’educazione alla salute, ma anche all’affettività, facenti capo al soggetto, in interazione con l’educazione ambientale, alimentare, ma anche stradale (come attenzione a ciò che è altro da sé e
che ha comunque implicazioni sul sé). Il tutto rappresenta il concretizzarsi
progressivo di quel diritto di cittadinanza che poi è frutto della messa in campo dei diritti alla salute, all’ambiente, all’alimentazione, all’affettività e che,
nell’insieme dei loro intrecci e delle loro implicazioni, favorisce quell’educazione alla convivenza civile che nel suo sviluppo progettuale e personale-sociale struttura il cum-vivere civile, fonte di benessere e ben-essere e, dunque,
luogo di concretizzazione dell’agognato bene comune.
L’educazione alla cittadinanza è dunque tratto costitutivo di quell’educazione alla convivenza civile che, attraverso i vari eventi e fatti facenti capo a
ciascuna delle azioni educative, porterà a strutturare sempre di più processi sociali di qualità.
C’è da chiedersi, però, se in tutto questo non debba essere recuperata la dimensione dell’educazione interculturale, stranamente disconosciuta dalle Indicazioni Nazionali.
Progettare percorsi formativi di Educazione alla Convivenza Civile
Nelle Indicazioni Nazionali (Allegato A, decreto legislativo 59/2004), sia
per la scuola primaria che per la scuola secondaria, si afferma che “gli Obiettivi Specifici di Apprendimento (OSA) sono ordinati per discipline, da un lato, e per “educazioni” che trovano la loro sintesi nell’unitaria educazione alla
230
Convivenza civile, dall’altro. …Gli obiettivi specifici di apprendimento indicati per le diverse discipline e per l’educazione alla Convivenza civile, se pure
presentati in maniera analitica, obbediscono, in realtà, ciascuno al principio
della sintesi e dell’ologramma: gli uni rimandano agli altri… in un complesso
e continuo rimando al tutto. Un obiettivo specifico di apprendimento di una
delle dimensioni della convivenza civile è e deve essere sempre anche disciplinare e viceversa; …dentro la disciplinarità va sempre rintracciata l’apertura inter e transdisciplinare: la parte che si lega al tutto e il tutto che non si dà se non
come parte. E dentro o dietro le “educazioni” che scandiscono l’educazione alla Convivenza civile vanno sempre riconosciute le discipline, così come attraverso le discipline non si fa altro che promuovere l’educazione alla Convivenza civile e, attraverso questa, nient’altro che l’unica educazione integrale di
ciascuno a cui tutta l’attività scolastica è indirizzata”.
Le discipline sono dunque dentro e dietro le educazioni, e viceversa.
Ma come tenere insieme le sei educazioni poste sotto l’ “ombrello”16 della
Educazione alla Convivenza civile ed evitare che vadano a sviluppare progetti
aggiuntivi rispetto ai percorsi formativi attinenti alle varie discipline, come già
molto spesso accaduto in passato, con conseguenti problemi di frammentazione del curricolo?
Forse sarebbe stato utile evitare di esplicitare gli OSA nelle Educazioni, o,
quanto meno, evidenziare l’esistenza di replicazioni e sovrapposizioni tra gli
OSA delle Educazioni e alcuni delle Discipline. È lavoro da fare attraverso una
attenta analisi degli stessi, utilizzando la metodologia dell’analisi del contenuto17.
Memori degli insegnamenti di Basil Bernstein, dobbiamo mirare alla progettazione di unità didattiche o di apprendimento (non vi è differenza, se si intende correttamente la didattica!) di tipo integrativo più che cumulativo.
Sulla scorta di quanto affermato dalle Indicazioni Nazionali, abbiamo visualizzato nel modello seguente implicazioni e procedure da tener presenti per
costruire percorsi formativi e Unità di Apprendimento (UdA) secondo il codice integrativo18.
16
Elio Damiano, Tra discipline ed Educazioni (Il problema dell’unitarietà dell’apprendimento), in «Nuovo Gulliver News», 2005, 73, Vasto, Ed. Didattiche Gulliver, pp. 5-7.
17 Per approfondimenti, v. E. Damiano, Un modello organizzativo per la nuova scuola elementare, Roma, Ecogeses-Aimc, 1987; P. Moliterni, Educazione e curricolo scolastico, in Studium Educationis, Padova, Cedam, 1997, 6, pp. 927-947.
18 Per approfondimenti, vedi: Pasquale Moliterni, Progettare l’Unità di Apprendimento, in
Nuovo Gulliver News, Rivista mensile di Aggiornamento per gli insegnanti, 68, settembre
2004, Vasto, Edizioni Didattiche Gulliver, pp. 19-25; Pasquale Moliterni, L’Unità di apprendimento: una fanciulla in crescita, in «Nuovo Gulliver News», 77, settembre 2005, Vasto, Edizioni Didattiche Gulliver, pp. 10-15.
231
UdA (TITOLO: tema, problema, argomento):
PECUP
Indicazioni Naz.
OSA
OSA
OSA
OSA
2
disciplina B
1
E
S 1
P
E
R
I
E
N
Z
A
disciplina A
111
1
OSA
O.F./OO.F
F
OSA
OSA
1
OSA
1
disciplina C
2
OSA
disciplina D… ...E…….
OSA
OSA
2
E.C. C.
ATTIVITA’
(METODI, TEMPI,
SOLUZIONI ORGANIZZATIVE)
VERIFICA CONOSCENZE/COMPETENZE (per Portfolio)
Come si vede, l’unità di apprendimento (UdA) si presenta come una struttura complessa, che deve mettere in campo l’unitarietà dell’apprendimento. I
tratti definienti sono costituiti dagli obiettivi formativi, dalle attività, compresi i laboratori, e dalla verifica, tenuto conto delle Indicazioni Nazionali, che
costituiscono i nuovi Programmi di apprendimento, e del Pecup, che costituisce il faro del processo di personalizzazione, e dell’esperienza degli alunni.
Ogni UdA propone (dovrà proporre) un “intero” di apprendimento, articolabile internamente, quale compito identico per tutti, ma organico, significativo e personalizzato, tramite la declinazione in itinere di OO.FF. personalizzati, mettendo insieme ed integrando la “segmentazione” del tessuto degli apprendimenti, così come derivante, altrimenti, dagli OSA, sia disciplinari che
educativi.
Gli obiettivi formativi, come già detto, sono il risultato di un mix significativo tra obiettivi specifici di apprendimento (OSA), relativi sia alle discipline
(nello schema, A, B, C, D, E, ecc., negli spazi dell’ellisse interna), sia alla educazione alla convivenza civile (E.C.C.) che, lo ricordiamo, è frutto dell’aggregazione delle sei educazioni (cittadinanza, stradale, ambientale, salute, ali232
mentare, affettività – articolata negli spazi dell’ellisse esterna), sulla base del
Profilo (PECUP) e tenuto conto della esperienza degli alunni. Tutti gli aspetti
vanno integrati secondo la logica ologrammatica – reticolare di tipo tridimensionale – attraverso prospettive pluri-interdisciplinari e di integralità educativa.
Tutto sta nella struttura didattica degli OO.FF., dove discipline ed educazioni devono congiungersi, ordinando gli OSA alle finalità pertinenti dell’educazione alla convivenza civile.
Nell’obiettivo formativo bisogna riconoscere l’intero, ovvero tutte le discipline, grazie alle educazioni che hanno proprio questa funzione di unificazione. Le educazioni si nutrono delle discipline che a loro volta si esprimono nelle educazioni. L’educazione alla convivenza civile le abbraccia tutte, attraverso la mediazione dell’educazione alla cittadinanza, posta a baluardo dei diritti
fondamentali della persona.
Si tratta così di formare il cittadino a tutto tondo, renderlo capace di convivere in una società pluralistica. Non va dimenticato comunque di prestare
grande attenzione alle congruenze tra curricolo implicito e curricolo esplicito.
Nel modello precedente, gli OO.FF. sono in prima battuta (vedi frecce n. 1,
nello schema precedente) risultato di una costruzione a partire da OSA, ma, in
seconda battuta (frecce n. 2) costituiscono il faro della stessa progettazione e
realizzazione dell’UdA e, pertanto, orientano gli OSA, l’esperienza, l’attività
e la verifica. Sono progettati e strutturati in sede di programmazione, anche tenendo conto dei possibili bisogni, capacità e conoscenze/competenze iniziali
e/o spontanee degli alunni, e poi curvati e mediati in base all’esperienza ed alle condizioni fattuali.
Gli OO.FF. sono il connettivo delle discipline – e delle educazioni! – e delle conoscenze/abilità da cui sono assunte a riferimento; sono individuati a partire dagli OSA e curvati in termini di significatività rispetto a bisogni, esperienze, contesti di vita.
Dallo schema precedente si vede anche che vi è un rapporto di sovraordinazione delle educazioni facenti capo alla educazione alla convivenza civile
(ECC), rispetto alle varie discipline e che, pertanto, la progettazione delle UdA
dovrebbe avvenire secondo una matrice progettuale che veda l’integrazione tra
le une e le altre, utilizzando un codice integrativo, anzicchè cumulativo19, come indicato nelle Raccomandazioni e evidenziato in alcune ricerche20. Alla luce di queste ultime, anzi, si può utilizzare il metodo dell’analisi del contenuto
per cogliere le implicazioni e le correlazioni tra gli OSA di ciascuna educa19
B. Bernstein, Class, codes, and Control, London, Routledge & Kegan, 1971.
P. Moliterni, Educazioni e curricolo: verso percorsi formativi integrati, in L. Corradini,
W. Fornasa, S. Poli, Educazione alla convivenza civile, Roma, Armando, 2003; P. Moliterni,
Educazione e curricolo scolastico, in Studium Educationis, Padova, CEDAM, 6, 1997, pagg.
927-947, già citati.
20
233
zione e quelli delle varie discipline, anche considerato che nelle Indicazioni
Nazionali si afferma che “è possibile organizzare le singole attività scolastiche
per discipline e per una o più educazioni appartenenti all’unica Convivenza civile”, ma di più non è dato trovare.
Riteniamo che si debba pervenire ad una matrice progettuale come la seguente, capace di ricreare una sintesi tra educazioni/valori e saperi/comportamenti/atteggiamenti, verso unità didattiche, o di apprendimento, significative
perché centrate su questioni di natura esperienziale e affrontate attraverso l’utilizzazione degli strumenti pluridisciplinari, secondo quegli orientamenti di
senso sottesi alle educazioni, anche se in questo caso c’è da chiedersi se le sei
educazioni sono esaustive rispetto ai valori personali e sociali tout court.
Matrice progettuale:
E.C.C. \ Discipline
Ed. Ambientale
Ed. Alimentare
Ed. Stradale
Ed. Salute
Ed. Affettività
Ed. Cittadinanza
Italiano
Storia
Geografia
Scienze,
ecc.
UdA
In un’ottica integrativa dovremmo giungere a costruire UdA capaci di mettere in gioco in forma interconnessa alcune discipline all’interno non solo di
una educazione ma, anche, tra più educazioni, utili a ridare sapore al sapere e
a rendere la scuola sempre più significativa e capace di far cogliere la cultura
come risposta ai bisogni personali o, meglio, rappresentazione e comprensione della realtà.
L’UdA, in fondo, dovrebbe divenire un campo di esperienza di apprendimento in grado di attraversare ed intrecciare, attraverso obiettivi, conoscenze,
abilità, competenze e strategie, più educazioni e discipline insieme, in particolare nei primi anni della primaria (in cui dovrebbe essere messa in campo un’esperienza di apprendimento di tipo più pre-disciplinare e per problemi), ma anche negli anni e nei gradi successivi, rendendo significative le esperienze di
conoscenza.
Si tratterà di provarlo con una certa attenzione progettuale e realizzativa,
non dimenticando che il tutto dovrebbe favorire un processo di personalizzazione utile a costruire anche un progetto di vita, come si evidenzia nello schema seguente.
234
g
CULTURA
EDUCAZIONE
DISCIPLINE/SAPERI….
(Storia, Geografia, Italiano, Scienze, ecc.)
“Persona”
V
A
L
O
R
I
Educazione
CONOSCERE
COMPRENDERE**
alla
Conv
ivenza
AGIRE
ESSERE
Civile
PROGETTO DI VITA *
(CANTIERE)
* processo – èlan vital – compito di sviluppo – costruzione di significati – making sense.
** competenze.
Nello schema che precede è di tutta evidenza la natura processuale di una
educazione che mira a favorire processi di metacognizione da parte del soggetto rispetto alla comprensione di sé nel mondo, attraverso l’uso sempre più
affinato di metodologie e sistemi disciplinari che ritrovano il proprio scopo e
la propria finalizzazione in un sistema di valori che fanno capo all’educazione
alla convivenza civile. L’obiettivo ultimo è la costruzione di un proprio progetto di vita che venga percepito come un cantiere “in fieri”, un “èlan vital”21 capace di far emergere e rendere sempre più chiaro il compito di sviluppo di ciascuno, in un agire umano e comunicativo che struttura sempre più competenze di tipo non solo funzionalistico-prestazionali ma utili ad attribuire senso e
significato all’intera esperienza personale e sociale.
L’Educazione alla Convivenza Civile è, in conclusione, oggetto di curricolo esplicito (insegnamento) e di curricolo implicito (testimonianza personale e
sociale) ed è “luogo” delle interazioni positive e costruttive tra soggetti e mon21
Henry Bergson, L’evoluzione creatrice, Parigi, 1907.
235
di; è contesto, ambiente educativo di apprendimento, sviluppo di atteggiamenti consapevoli per la costruzione di mondi densi di humanitas, tanto più significativi quanto più attenti a fenomeni ed azioni di comprensione e di integrazione verso il bene comune.
Bibliografia (oltre ai testi citati in nota)
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Vitale C. Educare alla legalità, Costruire una nuova identità, Bergamo, Edizioni Junior,
2001.
Weber M., L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Firenze, Sansoni, 1945.
236
La convivenza degli insegnanti e il mobbing nella scuola
ISABELLA POGGI - LARA BOSCHETTI
La pace nella scuola
L’educazione alla cittadinanza, alla convivenza, alla pace può essere certo
una “materia” di studio fra tante che affollano i curricula degli studenti; ma
forse più di altre è materia di quelle che non serve tanto studiare sui libri quanto imparare dall’esperienza quotidiana.
Molte sarebbero le nozioni, tratte dalla filosofia morale, dalla sociologia,
dalla filosofia del diritto, ma anche dalla psicologia sociale e da quella sua
branca emergente che è la filosofia della morale, che tolte dalla freddezza dei
libri di testo noi possiamo vedere incarnate in tutta la nostra vita di relazione:
norma, valore, potere, altruismo, aggressività, cooperazione, concorrenza,
competizione… Aspetti della natura umana che è importante conoscere e saper gestire per vivere bene insieme agli altri, e che sono spesso all’origine dei
problemi che l’insegnante incontra nel suo agire quotidiano, molti dei quali dipendono dalla natura intrinsecamente sociale e relazionale del suo ruolo e della sua attività. In questo contributo tratteremo alcuni aspetti oscuri della vita
dell’insegnante, mostrando come in esso istanze molto diverse interagiscano in
modi complessi, come possano determinare almeno parte del suo disagio, e come quindi debbano essere tenute presenti per organizzare una scuola che sia
fonte di serenità e di vera gioia d’apprendere, per chi impara e per chi insegna.
Scopi del lavoratore e scopi della persona
Secondo un modello della mente e dell’interazione sociale in termini di
scopi (Castelfranchi e Parisi, 1980; Conte e Castelfranchi, 1996), ogni azione
di un sistema, sia esso una persona, un animale, un’organizzazione, è guidata
da scopi. Per raggiungere uno scopo è necessario pianificare ed eseguire le
azioni utili a realizzarlo tenendo conto delle risorse a disposizione. Ogni azione è mezzo per uno scopo, e uno scopo può essere a sua volta un mezzo per
uno o più scopi ulteriori (sovrascopi). Due o più scopi con i loro sovrascopi costituiscono una gerarchia di scopi (piano) in cui tutte le azioni, direttamente o
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indirettamente, mirano allo stesso scopo finale, o meta. Uno scopo “fine a se
stesso”, che cioè non ha ulteriori sovrascopi, si dice “scopo terminale”. Sono
scopi terminali, comuni probabilmente a tutti gli uomini, la sopravvivenza e la
riproduzione, amare ed essere amati, l’immagine, l’autoimmagine, l’autorealizzazione, il bisogno di giustizia, la possibilità di decidere autonomamente
quali scopi porsi e come perseguirli. Gli scopi terminali sono scopi “fissi”,
cioè tali che dobbiamo sempre tenerli presenti, anche nel pianificare il perseguimento dei nostri scopi “contingenti”; e sono più importanti di tutti gli altri,
a tal punto che le emozioni hanno proprio la funzione di “sorvegliare” e monitorare il loro stato di raggiungimento/compromissione. Proviamo emozioni
positive quando un nostro scopo molto importante è raggiunto, negative quando è o rischia di essere compromesso (Poggi e Germani, 2004).
Anche quando lavoriamo siamo regolati da scopi. O meglio: quando lavoriamo lo siamo doppiamente. Da un lato regolano la nostra azione i nostri scopi di ruolo e quindi le mansioni che abbiamo il dovere di svolgere, ma dall’altro, poiché anche sul lavoro oltre ad essere lavoratori continuiamo (o almeno,
dovremmo continuare) ad essere persone, siamo contemporaneamente regolati anche dai nostri scopi terminali.
Quali sono dunque gli scopi che ci regolano quando lavoriamo? Quali scopi perseguiamo al / nel / durante / attraverso il nostro lavoro? Il primo e più ovvio è ancora lo scopo della sopravvivenza e riproduzione (mantenere noi stessi e la nostra famiglia). Ma in genere non è solo questo che ci interessa quando siamo al lavoro. Anche altri sono gli scopi che ci governano: scopi di
1. efficacia: disporre delle risorse necessarie per fare bene il nostro lavoro
2. autoregolazione sul lavoro: decidere autonomamente tempi e modi del
lavoro
3. autoregolazione personale: possibilità di gestire la vita privata senza
conflitti con la vita lavorativa
4. immagine sul lavoro: essere valutati positivamente dal punto di vista
professionale
5. immagine personale: essere valutati positivamente come persona
6. socialità: avere relazioni positive con altre persone
7. equità: equilibrio fra costi e benefici propri e fra i costi e benefici propri e di altri
8. potere: avere il potere di influenzare altri (per aumentare il nostro potere di raggiungere scopi)
9. benessere fisico e psicologico: tranquillità, libertà dalla paura
10. altruismo: far sì che siano soddisfatti scopi di altri.
Questi sono scopi che abbiamo tutti, in quanto persone (anche se magari alcuni di noi danno più importanza all’altruismo, altri più al potere…); ma alcuni di questi sono anche scopi centrali in certi tipi di lavoro. Ad esempio, lo scopo dell’altruismo è scopo di ruolo nelle professioni d’aiuto; lo scopo dell’im238
magine, di essere persona degna di stima, si può considerare uno scopo “professionale” per l’insegnante: come possono gli studenti trovare in lui una figura di riferimento, se la dignità dell’insegnante è cosi spesso conculcata?
Ora, se sappiamo quali scopi regolano le persone al lavoro, possiamo predire che la qualità della vita sul lavoro sarà tanto peggiore quanto più numerosi e importanti sono gli scopi compromessi, e quanto meno numerosi sono, fra
gli scopi importanti dell’individuo, quelli raggiunti.
Mobbing e scuola
Uno dei (tanti) problemi che l’insegnante si trova ad affrontare in questi ultimi anni è quello del mobbing. Il mobbing è definito da Leymann (1993) una
“sistematica attività ostile posta in essere da colleghi o da superiori nei confronti di un lavoratore, volta ad esempio a isolarlo o a rovinarne la reputazione personale o professionale”.
In termini di scopi il mobbing si può definire come un attacco agli scopi del
lavoratore: una serie di comportamenti (azioni mobbizzanti) messi in atto da
colleghi, superiori, dipendenti o utenti, volti a far sì che, fra gli scopi che il lavoratore persegue attraverso il lavoro, aumenti la quantità di scopi compromessi e/o diminuisca la quantità di scopi raggiunti, così da far pendere il bilancio dell’individuo verso la decisione di lasciare il lavoro (chiedere il trasferimento, mettersi in pensione ecc.).
Il mobbing trova condizioni favorevoli per prosperare specialmente laddove siano presenti alti gradi di competitività sul lavoro. Per questo finora è stato individuato e studiato specialmente nelle imprese private e laddove la crisi
economica richiede drastiche riduzioni di personale. Ma tutto questo comincia
ad essere vero anche nella scuola.
Negli ultimi anni la scuola italiana sta vivendo una fase drammatica di verticalizzazione, di accentramento del potere nelle mani di un gruppo ristretto di
persone, il dirigente e il suo staff, che tendono a perpetuare il proprio potere e
sono insofferenti ad ogni forma di controllo democratico. Ciò provoca fra l’altro una tendenza, da parte degli insegnanti, a cercare di accaparrarsi per vie lecite e illecite, dirette e indirette, quel potere che diventa sempre più raro e prezioso. E non si parla di chissà quale potere, ma di piccoli incentivi per attività
aggiuntive, o di fondi per l’attuazione di progetti didattici. Risorse dunque in
genere finalizzate al miglioramento della didattica, ma che hanno anche un valore simbolico: chi le detiene gode di maggior prestigio (di una migliore immagine) nella scuola. Dunque, “per qualche dollaro in più” si scatena la lotta
per il potere; e siccome uno dei modi per aumentare il proprio potere è erodere il potere altrui, anche la scuola può essere luogo favorevole al mobbing. Tuttavia sono ancora pochi gli studi sul mobbing in questo ambito, e semmai incentrati sul problema del bullying, quel tipo di mobbing “dal basso” costituito
dalle molestie agli insegnanti da parte degli studenti.
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Il mobbing nella scuola: una ricerca empirica
Per indagare questo fenomeno, abbiamo condotto una prima ricerca esplorativa sul mobbing nella scuola, chiedendoci
– se esiste, e quale incidenza ha, il mobbing fra gli insegnanti
– quali sono le specificità del mobbing nella scuola, cioè le azioni mobbizzanti più tipicamente attuate nel contesto scolastico
– se il mobbing ha effetti, e quali, sulla mobilità (dimissioni, prepensionamenti o trasferimenti)
– che effetti ha sulla qualità del lavoro e sulla qualità della vita degli insegnanti.
Ipotesi di lavoro
L’ipotesi di lavoro era che il fenomeno del mobbing sia presente anche fra
gli insegnanti, che vi sia mobbing da parte sia del dirigente scolastico che dei
colleghi, e che possa essere attuato anche in forme indirette: ad esempio, che
si possa attaccare un collega mettendogli contro gli studenti o i genitori, o ingraziandosi il dirigente.
Metodologia
Per sottoporre a verifica queste ipotesi sono state in un primo tempo condotte alcune interviste informali a insegnanti che si potevano considerare vittime di
mobbing. Una volta raccolti alcuni elementi ricorrenti nelle interviste, è stato
elaborato un questionario che è stato poi somministrato a 22 soggetti, maschi e
femmine, di età media 47 anni, provenienti da 5 regioni diverse: Piemonte, Veneto, Emilia, Lazio, Abruzzo. (In realtà il questionario è stato consegnato a un
numero molto alto di insegnanti che partecipavano a un Congresso Nazionale del
Sindacato Autonomo GILDA, ma i docenti che hanno restituito il questionario
compilato sono stati un numero esiguo; il che la dice lunga su quanto il tema del
mobbing nella scuola sia delicato e induca timori e reticenze).
Il questionario era costituito da 55 domande, chiuse, semistrutturate e aperte, su casi di mobbing da parte di dirigenti, studenti e colleghi. Le domande indagavano sulle azioni perpetrate nei confronti del soggetto in diverse aree, per
così dire, di attacco ai suoi scopi come persona e come lavoratore. Le aree indagate riguardavano gli scopi di:
– efficacia
– autoregolazione sul lavoro
– autoregolazione personale
– immagine sul lavoro
– immagine personale
– socialità
– equità
– benessere fisico e psicologico.
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Su ogni area venivano poste un certo numero di domande relative alla frequenza di azioni mobbizzanti subite dal soggetto.
Ecco alcuni esempi di domande:
Aree dell’efficacia, dell’autoregolazione, e dell’immagine sul Lavoro
Ti affidano compiti dequalificanti
Ti negano la possibilità di accedere a risorse o attività (biblioteca, supporti
informatici o multimediali, ecc.) anche se hai titoli e professionalità per
utilizzarli correttamente ed efficacemente
Entrano in classe per verificare / controllare il tuo lavoro
Durante i Consigli di classe, o in altre occasioni pubbliche, ti rimproverano
o criticano il tuo lavoro
Aree dell’Immagine personale e sociale
Ti imitano allo scopo di derisione per il modo di camminare, parlare, vestire, per difetti fisici, ecc.
Fanno circolare voci infondate sulla tua vita privata
Area dell’incolumità fisica
Ti minacciano apertamente di violenza fisica
Danneggiano i tuoi oggetti o proprietà personali sul posto di lavoro o fuori
(furto, danneggiamento automobile, ecc.)
Area dell’autoregolazione personale
Quando chiedi permessi o brevi sostituzioni non te li concedono facilmente
Ti cambiano durante l’anno l’orario delle lezioni
Area della socialità
Ti rifiutano il contatto con allusioni dirette o con gesti e sguardi scostanti
Area dell’equità
Ti obbligano a rimanere in sevizio quando non ti spetta
Un collega si prende i meriti del tuo lavoro o di una tua iniziativa
Area del benessere fisico e psicologico
Ti minacciano sanzioni o denunce
Ti fanno telefonate mute o di minaccia
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Alla fine del questionario, due domande indagavano
1. gli effetti a breve termine, sul vissuto e il comportamento del soggetto
in classe e fuori, degli episodi spiacevoli e dei momenti di conflittualità
nella scuola;
2. se e quali cambiamenti il soggetto avesse osservato nella qualità della
sua vita come insegnante negli ultimi due anni.
Risultati
Dall’analisi dei questionari è risultato che il mobbing è presente fra gli insegnanti, ed è attuato sia dal dirigente scolastico che dai colleghi, anche in forme indirette: ad esempio si può attaccare un collega non solo criticandolo direttamente ed apertamente ma anche mettendogli contro gli studenti o ingraziandosi il dirigente.
Come risulta dalla Fig. 1, le aree in cui il mobbing è più frequente, cioè gli
scopi più spesso attaccati degli insegnanti, sono l’autoregolazione sul lavoro
(16,5%), la socialità, l’efficacia lavorativa, e l’immagine professionale (tutte al
12%). Meno frequenti gli attacchi all’autoregolazione personale (6,5%), all’equità (5,4%) e al benessere fisico (1,1).
Benessere
1,1
Equità
5,4
Socialità
12
Autoreg.pers
6,5
Autoreg.lav
16,33
Efficacia
12,2
Imm.pers
9,4
Imm.lav
12,22
0
5
10
15
20
Figura 1
Quali gli effetti di questi attacchi sulla qualità della vita dell’insegnante?
Il 25% si sente meno sereno nel suo lavoro con gli studenti, il 23% tende a
un ripiegamento nel privato, cioè ha più voglia di stare con la famiglia o con
gli amici; il 12% è irascibile e depresso nei rapporti con la famiglia, mentre il
10% si sente più motivato e combattivo nel suo lavoro.
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Per tutti i soggetti, infine, negli ultimi due anni la qualità della vita dell’insegnante è cambiata. E come mostra la Tab. 1, per il 15 % dei soggetti sono i
rapporti “difficili” coi colleghi e il dirigente la causa di questo cambiamento:
in definitiva, la seconda causa di cambiamento nella qualità della vita dell’insegnante sono proprio i rapporti con gli altri lavoratori della scuola.
Tabella 1
“Pensando alla tua professione di insegnante, ti sembra che negli ultimi due
anni la qualità della tua vita di insegnante sia cambiata ?”. Sì 100%
Qual è la causa, nel tuo caso?
Causa
necessità di trasferimento
cambio ordine di scuola
rapporti “ difficili” con colleghi e dirigente
avvicinamento residenza
passaggio di cattedra
incapacità del dirigente di gestire i poteri concessi dalla nuova riforma;
riforma scolastica
trasformazione della scuola in azienda
scarsa qualità nell’insegnamento
perdita della titolarità di cattedra
problemi personali.
%
20
20
15
11
8
7
7
5
5
1
1
Conclusioni
Negli ultimi anni la scuola ha subito grandi rivolgimenti, oltre che nel suo
profilo didattico, nella struttura delle relazioni fra le persone. Anche la scuola,
purtroppo, è divenuta luogo di competizione per il potere. Potere per accedere
a qualche maggiore finanziamento per i “progetti”; potere per assurgere al ruolo di insegnante “tutor”, che ormai sovrasta gli altri; ma potere anche solo di
essere considerato l’insegnante più bravo della scuola. Potere come prestigio,
potere come immagine.
L’estremizzazione della lotta per il potere, nella scuola come in qualsiasi
luogo di lavoro, è il mobbing: aumentare il proprio potere cercando di erodere
il potere dell’altro; emarginarlo, metterlo alle corde, ma specialmente perpetrare quello che è il peggiore delitto sul lavoro: togliergli il piacere di lavorare.
E in un’istituzione il cui fine ultimo sarebbe dare ai ragazzi il piacere di conoscere, questo appare come un delitto ancor più grave. La sofferenza provocata dalle azioni mobbizzanti può far diminuire la serenità dell’insegnante nei
suoi rapporti con gli studenti, e danneggiare quindi anche il funzionamento
della didattica.
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La sua dignità di persona e di professionista, la sua possibilità di autoregolazione (quindi la libertà dell’insegnante), la difesa dal mobbing e da strumenti iniqui di gestione e acquisizione del potere nella scuola sono “ferri del mestiere” dell’insegnante, strumenti necessari per l’efficacia del suo lavoro.
Di questo devono essere coscienti gli insegnanti, che devono adoperarsi per
rendere più corretta e meno conflittuale possibile la loro interazione con i colleghi, stigmatizzando le iniquità, riequilibrando i poteri, individuando e prevenendo i potenziali mobbizzatori. Ma particolarmente attento a questo problema deve essere il dirigente scolastico – una pedina importante negli scenari di
mobbing – che deve saper gestire i rapporti fra i docenti favorendo la loro collaborazione, vigilando affinchè la competizione non sfoci nella lotta per il potere e nell’emarginazione; e deve guardarsi dall’adulazione, saper giudicare il
reale valore degli insegnanti, e assicurare a quelli più efficaci la maggiore autonomia e libertà nel loro lavoro.
Riferimenti bibliografici
Castelfranchi C. e Parisi D. (1980) Linguaggio, conoscenze e scopi, Bologna, Il Mulino.
Conte R. e Castelfranchi C. (1996) La società delle menti, Torino, Utet.
Leymann H. (1993) Mobbing. Psychoterror am Arbeitsplatz und wie man sich dagegen
wehren kann, Rowohlt, Reinbeck.
Poggi I. e Germani M. (2004) “Lavoro ed emozioni”, in G. Alessandrini (a cura di), Manuale di pedagogia del lavoro, Milano, Guerini e associati.
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Conoscere e convivere: le nozioni infantili sulla realtà sociale
MERETE AMANN
Genitori, insegnanti ed educatori si trovano spesso nella situazione in cui
sapere quali sono le conoscenze spontanee dei bambini su un certo argomento
potrebbe essere molto utile.
Quasi sempre i bambini, una qualche idea su un determinato argomento ce
l’hanno già, e prima di intervenire per proporre loro le nostre conoscenze potrebbe essere necessario sapere quali sono le loro rappresentazioni e nozioni
spontanee.
Le cognizioni sociali in età evolutiva
L’interesse degli studiosi di psicologia dello sviluppo per le idee che i bambini hanno della realtà circostante risale a molto tempo fa. Negli Stati Uniti, S.
Hall condusse le sue prime ricerche al riguardo nel 1881, cioè due anni dopo
la nascita ufficiale della psicologia, ricondotta, com’è noto, alla fondazione da
parte di W. Wundt del primo laboratorio di psicologia a Lipsia, in Germania,
nel 1879.
J. Piaget, assunto nel 1921 come “maître des recherches” all’Institut des
Sciences de l’Education di Ginevra, pubblica nel 1926, un libro che diventerà
subito famoso su La rappresentazione del mondo nel fanciullo. Nel 1932, lo
stesso J. Piaget pubblicherà un altro volume dal titolo Il giudizio morale nel
fanciullo destinato anch’esso a diventare mondialmente conosciuto.
Gli obiettivi che hanno guidato le ricerche di J. Piaget, esposte nel volume
sul Giudizio morale nel fanciullo, possono essere sintetizzati in tre punti: rilevare quali criteri, a diverse età, i bambini utilizzano per valutare come buone o
cattive, giuste o ingiuste, vari tipi di azioni; individuare da cosa deriva, in diverse età, il senso di obbligo a fare il bene ed evitare il male che si accompagna a queste valutazioni; avanzare delle ipotesi sui fattori che sono alla base
dei cambiamenti che hanno luogo col procedere degli anni, nei giudizi e negli
atteggiamenti dei bambini.
Numerose sono le caratteristiche del pensare e dell’agire infantile in rapporto al sociale messe in evidenza, per la prima volta, nel Giudizio morale del
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fanciullo, quali ad esempio, il passaggio progressivo da concezioni infantili secondo le quali “il bene” si identifica rigorosamente con “l’obbedienza” (Piaget, 1932), cioè con l’accettazione di regole proposte dagli adulti, regole che il
bambino sente come estranee a sé e di cui non sempre gli sono chiare le ragioni. Inoltre, inizialmente, le regole sono intese alla lettera, senza tener conto
delle circostanze in cui devono essere applicate. Progressivamente si affermerà
un giudizio morale più autonomo, imperniato su principi di maggiore giustizia
distributiva, su regole condivise ed accettate consapevolmente e su capacità di
valutare le intenzioni che stanno dietro alle azioni buone o cattive, e tali nuovi
modi di porsi rispetto alla realtà sociale, costituiranno le basi necessarie per
l’attuazione di comportamenti a valenze altamente sociali come la collaborazione e la cooperazione.
Queste prime ricerche piagetiane sullo sviluppo di nozioni sociali in età
evolutiva, oltre ad essere state replicate in numerosi paesi (rileviamo tra parentesi che il “giudizio morale nel fanciullo” fu tradotto in italiano soltanto nel
1972), hanno conosciuto in anni relativamente recenti, estensioni ed ampliamenti, anche da parte di studiosi italiani dello sviluppo infantile. Ricordiamo
al riguardo le ricerche di Berti e Bombi (1981) sulle nozioni infantili di proprietà, di denaro ed altri aspetti collegati con il sistema economico, gli studi di
Berti e Bombi (1981) e di Amann Gainotti (1988, 1992) sulle idee dei bambini relative al lavoro, alla disoccupazione, e al sistema giudiziario, le ricerche di
Marin (2004) sulla comprensione che i bambini hanno di alcuni concetti legati alla vita familiare come il matrimonio, la separazione e il divorzio, altre indagini di Marin (2004) sulle idee infantili relative all’ inquinamento, e tante altre ricerche che non ci è possibile citare nel presente contributo per motivi di
spazio.
I risultati di questi numerosi studi e le conoscenze sulla realtà psicologica
infantile che essi hanno consentito di acquisire confluiscono nel grande Capitolo che l’attuale Psicologia dello sviluppo dedica allo sviluppo sociale dall’infanzia all’adolescenza. Tale Capitolo include molti argomenti di rilievo riconducibili alle varie modalità e ai meccanismi che rendono l’essere umano
capace di rapportarsi agli altri e alle istituzioni sociali della propria cultura.
Cenni al contesto politico internazionale in cui nasce il lavoro sul
Giudizio morale nel fanciullo
Il periodo storico tra la prima e la seconda guerra mondiale è un momento
di forte destabilizzazione del continente europeo. Tra il 1922 e il 1936, si contano in Europa ben 15 regimi dittatoriali: nel 1922 si assiste alla “marcia su
Roma” di B. Mussolini; nel giugno 1923 vi è un colpo di stato militare in Bulgaria; nel settembre 1923 la Spagna subisce la dittatura militare del generale
Primo de Rivera; nel gennaio1925 Ahmed Zogou prende il potere in Albania;
nel maggio 1926 vi è un colpo di stato militare del generale Pilsudski in Polo246
gna e un altro colpo di stato militare in Portogallo; nel 1927 Stalin diventa capo incontrastato in URSS e nel 1933 Hitler prende il potere in Germania; nell’agosto del 1936, colpo di stato del generale Metaxas in Grecia e nel settembre dello stesso anno, il generale Franco diventa “caudillo” dello stato spagnolo. Senza dimenticare il regime militarista del Giappone e i conflitti in corso in Cina.
In un contesto europeo ed internazionale così conflittuale, la giovane “Societé des Nations”, fondata nel 1920, con sede a Ginevra (che diventerà O.N.U
dopo la seconda guerra mondiale), chiede al Bureau International de l’Education (BIE), con sede anch’esso a Ginevra, e di cui J. Piaget aveva assunto la direzione nel 1928, di organizzare e di promuovere dei Corsi di formazione destinati agli insegnanti di ogni ordine e grado (dai maestri elementari ai docenti universitari), ai funzionari e agli ispettori dei Ministeri dell’Istruzione pubblica, sul tema: “Come fare conoscere La Societé des Nations e sviluppare lo
spirito di cooperazione internazionale”.
In risposta a tale richiesta, J. Piaget, nella sua veste di Direttore del BIE, fece personalmente, e in seguito pubblicò, una serie di Conferenze, ben note agli
addetti ai lavori di lingua francese, che elenchiamo di seguito con i riferimenti bibliografici per i lettori italiani, poiché a nostra conoscenza questi articoli
non sono stati tradotti in italiano:
1930a:
1930b:
1931a:
1931b:
1932:
1934:
Le développement de l’esprit de solidarité chez l’enfant, Comment
faire connaître la Societé des Nations et développer l’esprit de
coopération internationale, 3ème Cours pour le personel enseignant
organisé par le BIE, Publications du Bureau International d’Education, n. 8, pp. 52-55
La notion de justice chez l’enfant, Comment faire connaître la Societé des Nations et développer l’esprit de coopération internationale, 3ème Cours pour le personel enseignant organisé per le BIE, Publications du Bureau International d’Education, n. 8, pp. 55-57
L’esprit de solidarité chez l’enfant et la collaboration internationale,
Recueil pédagogique, Genève, n. 2, pp. 11-27
Introduction psychologique à l’éducation internationale, Comment
faire connaître la Societé des Nations et développer l’esprit de
coopération internationale, 4ème Cours pour le personel enseignant
organisé per le BIE, Genève, Publications du Bureau International
d’Education, n. 9, pp. 56-68
Les difficultés psychologiques de l’éducation internationale, Comment faire connaître la Societé des nations et développer l’esprit de
coopération internationale, 5ème Cours pour le personnel enseignant
organisé par le BIE, Genève, Publications du Bureau international
d’Education, n. 10, pp. 57-76
Une éducation pour la paix est-elle possible?, «Bulletin de l’enseignement de la Societé des Nations», Genève, n. 1, pp. 17-23
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In questi scritti, J. Piaget illustra il ruolo della scuola nel promuovere la
comprensione tra gli individui; spiega i meccanismi psicologici della giustizia,
della solidarietà, dell’altruismo e della cooperazione e denuncia gli errori educativi responsabili del nazionalismo e del razzismo. Insiste sul ruolo fondamentale dell’interazione sociale, della libera discussione e della ricerca obiettiva della verità per lo sviluppo dell’intelligenza e del giudizio morale autonomo. Argomenta contro il nazionalismo, il fanatismo e l’intolleranza a favore
della cooperazione, della solidarietà tra le persone, le generazioni, e tra i gruppi sociali e le nazioni.
La contrapposizione tra egocentrismo e decentramento dal proprio punto di
vista, costituisce il fondamento teorico utilizzato per interpretare gli atti educativi, che verranno giudicati positivamente se consentono il decentramento
dal proprio punto di vista, e negativamente se al contrario rafforzano le posizioni egocentriche ed etnocentriche. A livello strategico, attribuisce alla scuola – ma ad una scuola rinnovata grazie ad una più efficace conoscenza della
psicologia infantile – un ruolo insostituibile par aiutare i bambini a liberarsi dal
loro egocentrismo spontaneo.
Bisogna tuttavia rilevare che il titolo dell’ultimo articolo di J. Piaget di quel
periodo Une éducation pour la paix est-elle possible? (1934), non è soltanto
retorico, ma traduce un pessimismo crescente rispetto al reale potere di influenza dell’educazione per migliorare la convivenza tra gli individui. L’affermarsi decisivo, a partire dal 1935, dei regimi totalitari in Europa, ed alcuni anni dopo, l’inizio della seconda guerra mondiale, misero fine alle illusioni di
quanti avevano creduto/sperato di potere attuare un mondo migliore grazie all’educazione.
Guerra e pace e guerra, in televisione
Cambiamenti di notevole entità sono avvenuti in Europa, nell’assetto socioeconomico, nello sviluppo tecnologico e scientifico, nei mezzi di comunicazione e di trasporto, nell’organizzazione familiare ecc. da quando furono pubblicate le prime ricerche di psicologia infantile relative alle nozioni sociali. Tali cambiamenti strutturali della società hanno determinato profonde trasformazioni nell’ambiente di vita di bambini ed adolescenti, in particolar modo, nelle loro opportunità di fare esperienze e di acquisire conoscenze. La globalizzazione dei mezzi di comunicazione, ha portato dentro le case di tutti, eventi,
storie ed immagini riferiti a realtà lontane nello spazio, e a realtà conoscibili
solo attraverso le immagini della televisione (o del cinema).
È nostra convinzione che né gli insegnanti, né gli educatori, né tantomeno
gli specialisti dell’infanzia come gli psicologi, possono permettersi di non tenere conto dell’enorme impatto che ha la televisione sul processo di crescita
dei bambini e degli adolescenti odierni, sia a livello cognitivo, che affettivo,
che sociale.
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Non è qui il luogo per una disamina approfondita di questo impatto della
televisione, si vuole soltanto sostenere che un qualunque progetto educativo,
anche quello sulla “ Cittadinanza e convivenza civile nella scuola europea”,
pregevolissimo nei suoi intenti, deve fare i conti con il “contraddittorio” costituito dalle immagini e dalle informazioni che quotidianamente provengono
dalle televisione. Riportiamo al riguardo una lettera scritta alcuni anni fa dagli
alunni di una scuola media di Foligno a Barbara Palombelli, giornalista del
quotidiano “La Repubblica”, che la pubblicò nella sua rubrica di corrispondenze con i lettori, con il titolo: Il disagio dei ragazzi davanti al video. “Siamo
gli alunni della classe I-A e II-A della scuola media G. Carducci di Foligno e
diciamo: “Basta”. Basta al bombardamento quotidiano che ci colpisce e ci ferisce, compromettendo la nostra visione della vita, della realtà e del futuro.
(…). I telegiornali sono diventati o un elenco di morti o la pubblicità di altri
programmi o una ripetitiva telenovela. Non si soffermano su fatti storicamente importati. Strillano le notizie, non ci fanno capire, ci annoiano o ci impauriscono. Noi ragazzi siamo i destinatari di una grande parte dei messaggi pubblicitari. Allora sì che tutti si ricordano di noi. Siamo diventati grandi consumatori di tutto ciò che si può comprare, soprattutto di ciò che è inutile. Ci dimenticano invece per tutto il resto. Se gli adulti hanno fatto leggi per la scuola, preoccupandosi della formazione, perché poi per il resto della giornata si
dimenticano spesso di noi? Perché ci lasciano sempre più davanti alla realtà
virtuale? Sono due anni che a scuola leggiamo, confrontiamo i quotidiani e i
telegiornali. Questo lavoro ci piace, ma più andiamo avanti, più ci sembra che
il mondo sia brutto e che tutto vada male. Rarissime sono le notizie belle e le
immagini positive. Lo scorso anno su quattro quotidiani, solo uno riportava in
prima pagina la firma della pace nell’ex-Jugoslavia. Eppure a scuola ci dicono
che la pace è la cosa più importante. (…). Con l’insegnante facciamo confronti con il passato e la vita quotidiana. Scopriamo che oggi si vive meglio. Si hanno chiari, anche se non sempre vengono rispettati, i diritti e i valori delle persone e dei popoli. Vedendo invece le immagini ed ascoltando i telegiornali, ci
assale la paura. Una paura terribile che ci impedisce di pensare serenamente al
nostro futuro. E per questo che diciamo: “Basta”.
Le informazioni di attualità trasmesse dalla televisione sono spesso frammentarie, disorganizzate, incomplete; spesso sono cariche di violenza e pertanto risultano essere fonte di confusione, di inquietudine e di angosce come
traspare dalla lettera sopra citata.
Da più parti ci si è chiesto come trasformare l’informazione caotica e a volte minacciosa in qualche cosa di coerente ed utile, per dare ai bambini informazioni valide su quegli argomenti da loro poco conosciuti, ma che sono il
fondamento della costruzione di un punto di vista personale sul contesto sociale al quale appartengono.
I telegiornali per ragazzi
A tale scopo sono stati ideati i telegiornali per ragazzi. Oggi, molti paesi,
tra i quali Gran Bretagna, Germania, Olanda, Francia, Austria, Stati Uniti, of249
frono telegiornali appositamente realizzati per un pubblico giovane. Anche l’Italia propone il suo Tg Ragazzi, poi divenuto Gt Ragazzi.
Per comprendere concretamente cosa sono questi telegiornali per ragazzi,
indirizzati ad un pubblico di giovani dagli 8 ai 14 anni, D’Alessio e collaboratori hanno realizzato una ricerca (2003) allo scopo di analizzare il contenuto di
78 puntate complessive dell’edizione di Rai1 (periodo 1998-1999) e di Rai3
(periodo 2000-2002). Nel contesto del presente contributo, ci limiteremo a riferire alcuni risultati significativi.
Nel seguente grafico sono riportati i dati quantitativi relativi ai tipi di notizie, divisi in categorie di contenuti (politica, cronaca, cultura, esteri, intrattenimento, sport) forniti dal GT1 e dal GT3.
Figura 1: Contenuti dei GT1 e GT3
50
46,5
45
40
35,4
35
30
24,4
25
20
17,5
17,3
17,4
15
12
11,8
10
8,3
6,5
5
2,7
0,9
0
GT11998-1999
politica
GT32000-2001-2002
cronaca
cultura
esteri
intrattenimento
sport
Tratto da: M. D’Alessio, Posso guardare la TV?, (2003) p. 130
Dalla ricognizione effettuata risulta che i servizi che affrontano temi di attualità rilevanti sono circa il 20% di tutte le notizie. Sono riferiti all’estero e
raccontano la guerra, o trattano problemi sociali di varia natura.Nel campione
in esame la guerra in Afghanistan è l’unico evento importante che il GT abbia
seguito e raccontato con sistematicità, fornendo anche in alcuni periodi (quello relativo all’inizio dei bombardamenti), informazioni quasi quotidiane. Il resoconto è stato realizzato attraverso differenti tipi di servizi: alcuni riportano
la cronaca della guerra; altri mostrano gli effetti disastrosi della guerra sulla
popolazione afghana e la miseria della vita quotidiana nel paese in guerra, soprattutto attraverso reportage su storie di vita di bambini. La vicenda del con250
flitto israelo-palestinese è stata presentata con lo stesso taglio giornalistico ma
in modo più discontinuo.
Al contrario della guerra, come rilevano gli autori della ricerca, le questioni politiche o economiche passano silenziose e inosservate sotto gli occhi dei
bambini, e il GT non fa nulla per renderle visibili, tanto che sono le aree più
neglette di questo programma televisivo. In sintesi, l’impressione che si ha è
che questi servizi di attualità rappresentino dei frammenti di mondo distante, e
siano niente più che una fuggevole incursione negli aspetti più vistosi, ma anche più superficiali di problemi sui quali il giovane telespettatore non ha né il
tempo, né sufficienti dati, per pensare.
Alcune annotazioni sull’impatto emotivo della violenza e dell’aggressività
osservati in TV
Il rapporto tra minori e violenza rappresentata in TV è un argomento che
interessa e coinvolge da più decenni studiosi appartenenti a diversi ambiti disciplinari delle scienze sociali.
Tra i più importanti lavori di sintesi che hanno fornito dati indicativi al riguardo, sicuramente spiccano le ricerche di Comstock e coll. (1978, 1991,
1999), citate in De Leo (1998) e in D’Alessio (2003). Nello studio del 1978,
Comstock e coll. hanno preso in considerazione circa 700 ricerche sociopsicologiche degli anni Sessanta e Settanta giungendo alle seguenti conclusioni:
– esiste una definita relazione (da parte dei bambini) fra esposizione alla
violenza e comportamenti aggressivi;
– quando la violenza è presentata come comportamento punito, l’aggressività tende ad essere inibita; quando invece è presentata come compensata, giustificata, effettuata da un eroe positivo, o quando non comporta
conseguenze (caratteristiche, queste, tutte comuni alla programmazione
televisiva), si accresce la possibilità di successivi comportamenti aggressivi;
– una forte esposizione a messaggi televisivi violenti può comprensibilmente desensibilizzare i bambini dalle conseguenze negative della violenza nella vita reale;
– gli effetti del messaggio televisivo violento possono essere in qualche
misura moderati da commenti e osservazioni di adulti che guardano il
programma insieme al bambino.
Su quest’ultimo punto riguardante l’effetto positivo della mediazione degli
adulti che discutono con i bambini della violenza alla quale assistono, nei cartoni animati e nei film, si deve sottolineare la non fattibilità concreta di una tale proposizione. Non è possibile invocare sempre la mediazione degli adulti e
delle “famiglie” quando è ben noto che ormai tanti bambini vivono in famiglie
disunite, con genitori separati, oppure assenti perché impegnati con il lavoro.
È altresì noto dai risultati convergenti di numerosissime indagini psicosociologiche effettuate in tutto il mondo, che i maggiori utenti, solitari, della TV sono
i bambini che la guardano tre ore al giorno, nelle medie europee, con punte anche di sei ore. In alcune indagini italiane è stato rilevato che nei mesi campio251
ne di gennaio-febbraio, intorno alle 23.00 di sera, erano ancora in ascolto
1.300.000 piccoli utenti.
Pertanto non vi possono essere dubbi sul ruolo attuale della televisione nella formazione delle rappresentazioni, delle conoscenze e degli atteggiamenti
nell’età evolutiva.
E l’Europa, cos’è per i bambini?
Dopo avere tentato di argomentare che la televisione e le informazioni recepite attraverso la TV costituiscono una vera e propria agenzia educativa alternativa che incide sulla mappa cognitiva in formazione dei bambini, ritorniamo al punto di partenza del nostro discorso sulle nozioni sociali infantile e
chiediamoci: cosa sanno i bambini dell’Europa, quali sono le loro nozioni e
rappresentazioni spontanee al riguardo?
Suggeriamo di dare un’occhiata, per cominciare, ai risultati di alcune ricerche psicologiche, condotte a partire dagli anni ’50 che potrebbero avere un legame indiretto, ma a nostro giudizio anche assai diretto con la tematica della
cittadinanza e della convivenza civile in Europa. Prendiamo ad esempio la ricerca di Piaget e Weil condotta nel 1951 su: Le développement chez l’enfant de
l’idée de patrie et des relations avec l’étranger, in seguito replicata in Scozia
da Jahoda (1963, 1964), da Greenberg (1970) negli Stati Uniti, e da Tajfel ed
altri (1972) in Gran Bretagna.Secondo Piaget e Weil i bambini piccoli non riescono a concepire che, come ci sono stranieri per lui, egli stesso è uno straniero per gli altri; l’incapacità a padroneggiare operazioni di reciprocità va ricondotta alle caratteristiche del pensiero egocentrico dei bambini più piccoli.
Un’altra difficoltà è quella di capire che si può essere “ginevrini e svizzeri”; in
tal senso sarà interessante indagare se bambini italiani concepiscono che sono
“italiani ed europei”…; inoltre, dagli 8 agli 11 anni è stata notata la tendenza
ad esprimere giudizi stereotipati del tipo “i tedeschi fanno la guerra”, “gli americani sono ricchi” ecc. Questo atteggiamento trova la sua eventuale spiegazione nel fatto che a quella età i bambini stanno elaborando le operazioni di classificazione, e ciò inevitabilmente comporta la tendenza a ricercare criteri (anche stereotipati) di classificazione. A partire dai 10-11 anni si manifesta un
maggiore interesse per avvenimenti che vanno anche al di là del proprio ambiente di vita, che riguardano altri popoli ed altri luoghi.Si sviluppa una reciprocità più autentica che consente appunto di assumere il punto di vista dell’altro e di valutarne meglio le ragioni, senza stereotipie.
Jahoda, replicando l’indagine iniziale di Piaget e Weil, su bambini scozzesi, rileva concordemente con Piaget, che i concetti relativi al proprio paese, alla patria e alle relazioni con le altre nazioni, sono ben lungi dall’essere pienamente acquisiti alla conclusione della scuola primaria, mentre invece assai precocemente si sviluppa una disposizione sfavorevole verso gli altri paesi, collegabile alle vicende politiche che però, in quanto tali, non sono comprese. In al252
tre parole, come tutte le ricerche hanno messo in luce, sembra che si impari prima una disposizione affettiva, una informazione valutativa, verso i paesi stranieri. Pare anche che la percepita similarità di un paese al proprio, determina
una disposizione affettiva positiva verso quel paese. L’apprendimento precoce
di giudizi di valore relativi ad altri popoli è analogo a quello rilevabile nei bambini di una stessa nazione, relativo alle razze, alle classi sociali dominanti, alle minoranze religiose o etniche.Gli studi di Greenberg, negli Stati Uniti degli
anni ’70, relativi a bambini americani bianchi e negri, hanno evidenziato la
chiara percezione da parte dei bambini della “importanza” di una classe sociale “più alta” rispetto ad un’altra “più bassa”.
Un altro genere di nozioni sociali infantili che presenta attinenza con il tema della cittadinanza e della convivenza civile è quello relativo alle concezioni politiche infantili, un tema indagato da Connell nel 1971 su bambini australiani. Secondo i risultati di Connell, tra i bambini più piccoli non esiste ancora la consapevolezza di un ambito di realtà che si possa qualificare come “politico”. I bambini piccoli conoscono l’ambiente prossimo, di cui fanno parte la
famiglia, la scuola, il vicinato, e il mondo di cui sentono parlare in casa o alla
televisione, in cui si mescolano personaggi dei telefilm o delle fiabe, cantanti,
protagonisti dello sport e personalità politiche.Verso i 7 anni i bambini cominciano a formarsi l’idea di un ruolo politico, caratterizzato dalla sintesi di due
attributi: essere importanti ed esercitare una funzione di comando. Regine, presidenti, sindaci comandano a degli “aiutanti” o a dei “servitori”. Negli anni
successivi i bambini differenziano meglio le varie figure e verso i 10-11 anni,
le collegano le une alle altre in una gerarchia di potere. Sanno che esistono i
partiti politici e che essi hanno a che vedere con le elezioni, ma non ne conoscono esattamente le funzioni, e li confondono con organi come le camere del
Parlamento. Solo nel corso dell’adolescenza, la conoscenza delle istituzioni
politiche diventa più accurata e precisa e inizia a formarsi la consapevolezza
dei conflitti di interessi che contrappongono ceti sociali diversi. I partiti vengono allora considerati come espressione di questi interessi e comincia a farsi
strada la comprensione delle varie ideologie, ed eventualmente l’adesione ad
una di esse.
Come si evince dalle poche ricerche menzionate, vi sono importanti differenze tra i concetti infantili, i modi di ragionare dei bambini sulla realtà sociale e i modi di ragionare degli adolescenti e degli adulti sulle stesse realtà. Nei
bambini, i concetti sono composti da elementi giustapposti in modo globale e
impreciso, invece che da elementi connessi da relazioni precise; vi sono inoltre difficoltà a tenere conto contemporaneamente di molte relazioni. Per i bambini inoltre, la realtà materiale e/o sociale non presenta quella articolazione in
un dominio soggettivo e in un dominio oggettivo, articolazione che caratterizza invece le concezioni degli adulti; pertanto si assiste nei bambini ad una forte tendenza a “personalizzare” gli eventi sociali e politici.
Da rilevare anche che le nozioni sociali, rispetto alle nozioni fisiche, sono
caratterizzate da due tipi di “distanza psicologica”: la prima è che le nozioni
253
sociali sono obiettivamente distanti dagli interessi immediati dei bambini; la
seconda è che queste nozioni sono per lo più di tipo verbale, apprese attraverso i discorsi degli adulti, senza possibilità di essere manipolate e verificate nella pratica.
Infine, le nozioni sociali sono “complesse” in quanto comportano aspetti
storici e culturali, affetti, valori, che sono delle componenti extralogiche, assenti negli oggetti fisici.
Riferimenti Bibliografici
Amann Gainotti M., La ricchezza e il lavoro nelle concettualizzazioni di soggetti in età
evolutiva, «Bambino incompiuto», 3, pp. 41-48, 1988.
Amann Gainotti M., Battaglia E., Il sistema della giustizia nelle nozioni e rappresentazioni di soggetti in età evolutiva, in Amann Gainotti M. (a cura di), Il minore e la legge: nuove prospettive della psicologia giuridica, Bari, Cacucci, 1992, pp. 103-145.
Berti A.E., Il mondo economico nel bambino, Firenze, La Nuova Italia, 1981.
Connell R.W., The child’s construction of politics, Carlton, Melbourne University Press,
1971.
De Leo G., L’esposizione dei minori alla rappresentazione della violenza, in: G. De Leo,
La devianza minorile, 2a ed., Roma, Carocci, 1998.
D’Alessio M., Posso guardare la TV? Come dare una risposta consapevole ai nostri bambini, Milano, F. Angeli, 2003.
Piaget J. (1926), La rappresentazione del mondo nel fanciullo, Torino, Boringhieri, 1955.
Piaget J. (1932), Il giudizio morale nel fanciullo, Firenze, Giunti Barbera, 1972.
Piaget J., Weil A.M. (1951), Le développement chez l’enfant de l’idée de patrie et des relations avec L’étranger, «Bulletin International des Sciences Sociales», Paris, Unesco,
pp. 605-621.
Vianello R., Lucangeli D., Lo sviluppo delle conoscenze nel bambino, Bergamo, Edizioni Junior, 2004.
254
La formazione degli insegnanti per lo sviluppo delle nuove
generazioni
LUCIA CHIAPPETTA CAJOLA
Istruzione e formazione
La crescente attenzione rivolta anche nel nostro Paese al ruolo della formazione, ha fatto seguito alla convinzione secondo la quale le risorse umane rappresentano sempre più il capitale per eccellenza di una comunità che punta ad
un’alta qualità della vita socio-culturale e produttiva. Ciò ha comportato il superamento di una concezione della formazione come compito esclusivo di un
unico sistema, a vantaggio della concezione più ampia che include anche altri
sistemi formativi, sempre comunque fra loro connessi.
Si è fatta così progressivamente strada, anche nel nostro Paese, l’idea che
cultura scolastica e accademica, e cultura professionale e del lavoro debbano
sviluppare una significativa e sistematica interrelazione, al fine di promuovere un vero e proprio progetto educativo della società. Ma per la valorizzazione
dell’istruzione e del lavoro e per l’affermazione della persona appaiono rilevanti non solo gli spazi e i tempi della formazione, ma anche, e soprattutto,
quelli dell’alternanza e dell’integrazione di istruzione e lavoro, e dei relativi sistemi.
L’Europa non ha mai distolto l’attenzione da tali temi e anche in un documento di lavoro elaborato dalla Commissione delle comunità europee nell’ottobre del 2000, ha riaffermato con maggior forza e convinzione che “l’Europa
è indiscutibilmente entrata nell’era della conoscenza, con tutte le conseguenze
che tale evoluzione implica sulla vita culturale, economica e sociale. I modelli di apprendimento, di vita e di lavoro sono soggetti ad una rapida trasformazione. In altre parole, non solo dovremo adattarci al cambiamento ma i modelli di comportamento ‘affermati’ dovranno essi stessi cambiare”1.
Il senso di tale affermazione è da rintracciare nell’idea che l’istruzione e la
formazione devono assumere una dimensione permanente che interessi il futu1 Commissione delle comunità europee, Memorandum sull’istruzione e la formazione permanente, documento di lavoro dei servizi della commissione del 30.10.2000, seguito al Consiglio europeo tenutosi a Lisbona nel marzo 2000.
255
ro di tutti, ma in maniera diversa per ciascuno e che tutti gli individui e le organizzazioni devono collaborare effettivamente alla realizzazione concreta dell’istruzione e della formazione, intesa come offerta formativa globale. È dunque di fondamentale importanza attuare in Europa una strategia complessiva e
coerente in tali campi e la qualità dei processi formativi appare essere una priorità internazionale.
È opportuno sottolineare che, nell’ambito delle politiche dell’Unione europea, il ruolo dell’istruzione è divenuto via via un obiettivo essenziale quasi “di
riflesso”; infatti, la formazione ha rappresentato il target privilegiato verso cui
indirizzare forze e intenti congiunti, nel momento in cui tutti gli Stati membri
si sono impegnanti a realizzare delle strategie comuni a favore dell’occupazione. A tale riguardo, il trattato di Amsterdam del 1997 rappresenta il primo invito rivolto agli Stati dell’Unione Europea a progettare e realizzare una sinergia strategica nei confronti dell’occupazione proprio attraverso la promozione
di acquisizione di competenze qualificate da parte dei diversi profili professionali.
I sistemi educativi si devono quindi fare carico del compito di fornire ai cittadini solide competenze cognitive di base, ma anche abilità metacognitive per
continuare ad apprendere in età adulta, oltre la fase iniziale di formazione.
Come sostiene, infatti, Domenici “le competenze si esprimono nella capacità di adottare strutture, piani, schemi e programmi di azione capaci di integrare a livello interdisciplinare le conoscenze, formali e informali, teoriche,
esperienziali e procedurali possedute per risolvere un problema in un contesto
ambientale specifico; di adottare, inoltre, un sistema di monitoraggio della validità del programma nel contesto specifico (meta-cognizione), quindi di riadattarlo (meta-valutazione e meta-decisione), costruttivamente, per porre in
atto comportamenti adatti al raggiungimento di un risultato adeguato alle intenzioni stabilite. Si evince la possibilità di verificare e valutare le competenze, di fare, in alcune circostanze, un vero e proprio bilancio delle stesse, prima
di certificarle e/o attribuire crediti”2.
In tale contesto, la flessibilità e la capacità di interagire costruttivamente
con gli altri rappresentano anch’esse competenze fondamentali che i sistemi
formativi devono contribuire a promuovere, nella prospettiva di preparare individui in grado di poter far fronte alla rapidità dei cambiamenti e dell’obsolescenza dei saperi. Allo stesso modo, la capacità di esercitare il pensiero critico
e creativo, di individuare e porre i problemi e le potenziali situazioni di difficoltà assume una rilevanza maggiore rispetto alla capacità stessa di risolverli.
La crescita del capitale umano, dunque, appare essere una scelta strategica
per lo sviluppo di ciascun Paese poiché è il fattore, che più di altri, può garantire la crescita culturale, sociale e produttiva della società europea e favorire
non solo l’inserimento, ma anche il re-inserimento nel mondo del lavoro.
2
256
G. Domenici (a cura di), La valutazione come risorsa, Napoli, Tecnodid, 2000.
Conoscenza quale risorsa fondamentale
Se nel terzo millennio la “conoscenza” rappresenta la risorsa per eccellenza, quella cioè che può assicurare lo sviluppo della società nel suo complesso,
allora l’investimento continuo nella formazione delle risorse umane diviene
una scelta ineludibile. Per tale ragione, una delle linee-guida delle politiche comunitarie dei prossimi anni è il miglioramento della qualità e dell’efficacia dei
sistemi di istruzione e formazione nell’Unione europea, da cui dipende, infatti, il futuro culturale e sociale di ogni Paese.
Va appena sottolineato, però, che non tutti i sistemi scolastici europei si trovano allo stesso punto del percorso, né che abbiano scelto di impiegare le medesime strategie di intervento per innalzare i propri standard qualitativi. L’incidenza di fattori diversi, quali ad esempio, il peso attribuito allo sviluppo della ricerca pedagogica e alla diffusione della cultura valutativa, fa sì che nell’iter complesso verso il raggiungimento di livelli qualitativi elevati, ogni sistema di istruzione si trovi ad esperire una diversa fase evolutiva.
Tuttavia, l’elemento che li accomuna è la concezione della formazione
sempre più in termini di “qualità” della formazione stessa, che ha portato all’introduzione di nuovi concetti e strumenti quali, per esempio, quelli relative
a specifiche strategie e buone pratiche per migliorare le prestazioni dell’offerta formativa. Si è cominciato così a discutere, e in modo sistematico, di indicatori di qualità, di standard di efficacia e di efficienza, e perfino di authority
della formazione di qualità per rispondere, tra l’altro, anche ad esigenze di valutazione nazionale e di comparazione internazionale.
In tale scenario, l’istruzione e la formazione si pongono come elementi
strategici per favorire la crescita, la competitività e l’occupazione3 soltanto se
si rivelano capaci non solo di promuovere apprendimento ma anche di insegnare a mettere in pratica le conoscenze che si acquisiscono lungo tutto l’arco
della vita per superare il rischio di rapida obsolescenza in cui esse incorrono
inevitabilmente nel mondo di oggi.
Di conseguenza la formazione, come l’istruzione, si caratterizza quale percorso educativo e originale che, oltre a tendere all’acquisizione, allo sviluppo
e al consolidamento dei saperi, è anche capace di destrutturate gli apprendimenti precedenti per tornare poi a ristrutturarli in modo innovativo ed efficace. Ciò significa che la finalità primaria della formazione è quella di porre l’individuo nelle migliori condizioni per poter accedere all’apprendimento in modo consapevole, creativo e organizzato.
3 Il Libro Bianco. Crescita, Competitività, Occupazione. Le sfide e le vie da percorrere per
entrare nel XXI secolo, Commissione delle Comunità europee, 1993, offre un contributo in
termini di riflessioni e di aiuto nelle decisioni relative allo sviluppo “sostenibile” di lunga durata delle economie europee, con il duplice obiettivo di far fronte alla concorrenza internazionale e di creare i posti di lavoro necessari. A tutti gli Stati membri è apparso chiaro il compito dell’Europa di ravvicinare ricerca, industria ed educazione per assicurarsi uno sviluppo economico e il mantenimento del suo modello sociale.
257
Se si assume questo punto di vista, appare evidente una nuova prospettiva
che pone al centro dell’intera questione la persona che apprende con la sua storia personale e la sua capacità di essere co-protagonista del processo formativo, e annulla quel primato progettuale e operativo, esclusivo del docente e del
formatore, che ha evidentemente fatto il suo tempo.
L’attenzione si è spostata, come è logico, dall’insegnamento all’apprendimento, inteso quest’ultimo quale nodo primario sul quale occorre ragionare nei
contesti finalizzati alla formazione.
L’apprendimento si configura come motore di sviluppo del capitale umano
presente in una società, al quale deve corrispondere un’azione di insegnamento in grado di proporre contenuti adeguati alla domanda di formazione, sempre più di tipo cognitivo e relazionale, migliorando, ogni volta che è necessario, nozioni e know how.
Si comprende quindi quanto sia importante promuovere la capacità di “imparare ad imparare” che conduce ciascun individuo a divenire responsabile del
processo in atto, ad esercitare un ruolo di protagonista non solo nella progettazione del processo formativo ma anche nella sua regolazione, acquisendo la
capacità di valutare autonomamente la propria situazione e di proporre miglioramenti a tutti i livelli. Solo così potrà avere una prospettiva di vita responsabile che sia nello stesso tempo libera e creativa, della quale sia capace
di affrontarne la complessità e di gestirne il cambiamento in un rapporto costruttivo con essa.
Ne consegue che le competenze non possono essere considerate contenuti
direttamente trasmissibili dall’insegnamento, né l’apprendimento può essere
concentrato in una inefficace quanto improbabile unità di tempo e di luogo e
realizzato con modalità uniformi, ma al contrario, le une e le altre devono essere acquisite lungo un percorso formativo personalizzato e multidimensionale durante l’intera vita di una persona in una società che, fondandosi sempre di
più sulla conoscenza, ha bisogno di risorse umane adeguatamente preparate sia
sul piano teorico che su quello pratico, ma anche capaci di condividerne i significati.
Formazione delle risorse umane, sviluppo sociale e cittadinanza
Il ruolo dell’istruzione nell’ambito del modello sociale europeo non è finalizzato solo allo sviluppo dell’individuo, ma anche a quello della collettività,
dal momento che livelli di istruzione diffusamente raggiunti da un rilevante numero di individui producono la riduzione di disparità e di disuguaglianze, e
promuovono, di contro, il rispetto dei diritti umani e, di conseguenza, un livello più alto di coesione sociale.
Il tema della cittadinanza, anzi di una “nuova” cittadinanza si incentra infatti nella stretta correlazione tra educazione e democrazia, nel senso che non
si può veramente educare alla cittadinanza mettendo in luce la “comune” uma258
nità, se non in una società democratica in cui le differenze non devono essere
causa di scontro ma di reciproco arricchimento. Come dire che non si può essere democratici se non in un orizzonte educativo.
L’educazione, intesa come progresso dell’uomo in un mondo che è a disposizione sotto forma di eredità culturale, deve mirare oggi al compimento
della cittadinanza nei termini di una nuova e virtuosa coniugazione tra libertà,
giustizia, uguaglianza ed esercizio attivo della propria cittadinanza.
Infatti se è vero che la democrazia genera il cittadino e sviluppa tanto più
la cittadinanza quanto più essa è una vera democrazia, allora l’esistenza di una
cittadinanza forte permette alla democrazia di non indebolirsi.
Da questo punto di vista, la necessità di “imparare ad imparare” cui si è fatto cenno nel paragrafo precedente, deve essere spendibile anche sul fronte della comunità sociale, nazionale e sovranazionale, per meglio conoscere e comprendere gli altri e convivere con loro in modo reciprocamente rispettoso, definendo sempre meglio la scelta di vita personale e la partecipazione attiva alla vita sociale.
È sotto gli occhi di ciascuno di noi l’urgenza di soddisfare questa necessità
di pacifica convivenza tra i popoli, così come è altrettanto evidente che essa
rappresenta un problema di proporzioni enormi, alla cui ricerca di soluzione si
è impegnata anche la Commissione internazionale sull’educazione per il ventunesimo secolo. Gli esiti di tale impegno hanno costituito l’oggetto di uno
specifico Rapporto all’Unesco da parte della Commissione stessa che ha, in
quella sede, proposto e definito i quattro “pilastri” dell’educazione, Imparare
a conoscere, Imparare a fare, Imparare ad essere, Imparare a vivere insieme,
ritenuti chiavi d’ingresso per il XXI secolo in quanto fondamentali sia per la
realizzazione di ciascuna persona sia per una convivenza democratica e pacifica dei popoli4.
Sempre nell’ambito dello sviluppo delle politiche comunitarie in materia di
formazione lungo tutto l’arco della vita, la Commissione europea ha elaborato
un Memorandum sull’istruzione e la formazione permanente, il cui obiettivo è
quello di “favorire la costruzione di un’economia basata sulla conoscenza, rivolta a tutti i cittadini e che faciliti il raggiungimento della piena occupazione”5.
Il Memorandum sostiene la necessità di acquisire competenze specifiche irrinunciabili nella attuale società dell’informazione, soffermandosi soprattutto
sulla necessità di fornire aiuto a ciascuna persona in questo processo di acquisizione non solo delle competenze, ma anche delle conoscenze e delle capacità
richieste per esercitare un ruolo di cittadinanza attiva.
4 J. Delors, Nell’educazione un tesoro, Rapporto Unesco della Commissione internazionale sull’Educazione per il Ventunesimo secolo, Roma, Armando, 2001.
5 Memorandum sull’istruzione e la formazione permanente nei progetti “Leonardo da Vinci” dal 1995 ad oggi, Agenzia nazionale Programma Leonardo da Vinci 2000-2006, Italia Ministero del Lavoro e della previdenza sociale-M.P.I., CD ROM.
259
Innovazione nelle tecniche d’insegnamento e di apprendimento
La Commissione internazionale sull’educazione per il ventunesimo secolo,
mentre ha individuato i quattro pilastri come base dell’educazione nel corso della vita, ha anche sottolineato l’importanza di concepire l’educazione in una maniera più globale, auspicando cioè che i sistemi formativi formali non considerino più l’acquisizione delle conoscenze a detrimento di altri tipi d’apprendimento. Ciò può avvenire solo a condizione che le politiche scolastiche vengano
orientate al rinnovamento dei contenuti e dei metodi di insegnamento, ma anche al miglioramento dei contesti dell’insegnamento e dell’apprendimento.
Tale convinzione è anche nel Memorandum, già citato, nel messaggio chiave n. 3 “Innovazione nelle tecniche d’insegnamento e di apprendimento”6 in
cui si auspica che i sistemi di apprendimento siano capaci di adattarsi agli stili e ai ritmi di vita che caratterizzano la società odierna. Solo in questo modo
può essere raggiunto il rilevante obiettivo dichiarato in questo messaggio chiave che è teso a “sviluppare contesti e metodi efficaci d’insegnamento e di apprendimento per un’offerta ininterrotta d’istruzione e di formazione lungo l’intero arco della vita e in tutti i suoi aspetti”.
In tale contesto si inseriscono gli studi sul longlife learning7 che costituiscono un punto di forza non solo verso il superamento della distinzione, attualmente in atto, fra formazione iniziale e formazione permanente, ma anche
verso l’affermazione piena del principio fondamentale che è, come abbiamo
già evidenziato, quello di “imparare ad imparare”.
In questa ottica, la formazione degli insegnanti assume un ruolo determinante non solo in fase iniziale, ma anche lungo l’esercizio della professione
scolastica ed implica innanzitutto un serio ripensamento della formazione iniziale connessa a quella in servizio. Questi due momenti di formazione sono,
infatti, entrambi determinanti per la qualità dell’insegnamento e sarebbe davvero difficile stabilire quale dei due incida in misura maggiore. È difatti certo
che la formazione iniziale dei futuri insegnanti sia fondamentale per comprendere e poter svolgere pienamente il loro ruolo, ma è altrettanto vero che quest’ultimo sarebbe ben presto devitalizzato e impoverito se di quella formazione essi non avessero la massima cura attraverso una pratica costante di ri-formazione. Il ruolo degli insegnanti ha, infatti, un’importanza decisiva e la costruzione permanente del loro profilo professionale è una priorità ovunque,
non soltanto nel nostro paese. Sebbene la loro condizione di lavoro sia molto
diversa da paese a paese, unanime è il riconoscimento della centralità del loro
6
Il Memorandum si articola in sei messaggi chiave: 1. Nuove competenze di base per tutti; 2. Maggiori investimenti nelle risorse umane; 3. Innovazione nelle tecniche d’insegnamento e di apprendimento; 4. Valutazione dei risultati dell’apprendimento; 5. Ripensare l’orientamento; 6. L’apprendimento sempre più vicino a casa.
7 Si vedano: Lifelong Learning and Lifewide Learning, Agenzia nazionale dell’Educazione,
Stoccolma, gennaio 2000; Unità europea Eurydice, L’apprendimento lungo tutto l’arco della vita. Il contributo dei sistemi educativi degli Stati membri dell’Unione europea, Bruxelles, 2000.
260
compito per l’avanzamento delle diverse società: riconoscimento che implica
innanzitutto una formazione iniziale e in servizio di qualità, contestualmente
ad appropriate condizioni di lavoro. Se, dunque, si assume come principio fondamentale quello che considera gli insegnanti capaci di formare, insieme alla
famiglia e alle altre agenzie formative, generazioni di allievi che siano in grado di esercitare la loro cittadinanza nel mondo e di vivere una vita ben integrata in questo, allora è inevitabile che gli stessi insegnanti, come la maggior
parte degli altri professionisti, prendano atto che la loro formazione iniziale
non potrà coprire il loro “fabbisogno” professionale per tutto il resto della loro vita: al contrario devono maturare la consapevolezza di dover aggiornare le
proprie conoscenze e migliorare abilità e tecniche per tutto il corso della loro
esistenza, in un continuo processo di ri-orientamento delle proprie competenze e di valorizzazione delle diverse esperienze condotte. A questo scopo, anche
la valutazione e l’autovalutazione di istituto possono fornire un contributo significativo attraverso la specifica funzione di regolazione della vita professionale degli insegnanti e di controllo del loro individuale “stato” di formazione.
Dai dati e dalle informazioni che tali strumenti consentono di rilevare, gli insegnanti possono infatti diagnosticare le difficoltà incontrate e superarle e/o
rinforzare ulteriormente i punti forti e perfezionarli.
Imparare e insegnare, ma anche imparare ad insegnare
La formazione degli insegnanti è un’operazione fondamentale ed indispensabile, sia in fase iniziale e sia in servizio, e occupa quindi una dimensione permanente in cui l’esercizio efficace della professione docente richiede competenze sempre nuove e di genere diverso, disciplinari, comunicative e relazionali, da proporre con modalità adeguate per promuovere la crescita dei propri
allievi.
Ed è proprio l’efficacia dell’insegnamento l’elemento più qualificante della professionalità docente, al punto che da questo dipende in buona parte la
qualità della scuola stessa. Quest’ultima, infatti, si misura essenzialmente sulla base della capacità di produrre apprendimento in tutti gli allievi, ma anche
sulla capacità degli insegnanti e dei dirigenti scolastici di adattare in modo originale le innovazioni proposte a livello centrale proponendosi come comunità
che apprende.
A tale proposito, alcune ricerche condotte sulle cosiddette “scuole effica8
ci” hanno fatto emergere che le scuole “in movimento” – quelle che progre8
Si vedano: S. Rosenholtz, Teacher’s Workplace, New York, Longman, 1990; J.Sheerens,
Effective Schooling: Research, Theory and Practise, London, Cassell, 1992; P. Sammons, J. Hillman, P. Mortimore, Key Characteristics of Effective Schools: a Review of School Effectiveness
Research, London, Institute of Education, 1995; L.Stoll, P. Mortimore, School Effectiveness and
School Improvement, in J. White, M. Barber (a cura di), Perspectives on School Effectiveness
and School Improvement, Institute of Education, London, Bedford Way Papers, 1997.
261
discono verso livelli qualitativi migliori – sono caratterizzate da un’atmosfera
arricchita di esperienze di apprendimento per i docenti; al contrario, nelle
scuole “inceppate” i docenti sono troppo isolati per mettere in atto qualsiasi tipo di apprendimento reciproco.
Nelle scuole efficaci, infatti i docenti affrontano i problemi come una sfida che volgono a loro favore e, dopo la riflessione comune e la messa in pratica di ipotesi risolutive, codificano il sapere acquisito in norme e valori condivisi.
L’attuale dibattito che promuove l’analisi dell’insegnamento secondo il parametro dell’efficacia, ha stimolato culturalmente l’ambiente scolastico e socio-politico verso una riflessione approfondita e mirata delle dimensioni assunte come decisive rispetto all’efficacia dell’insegnamento: i risultati dell’apprendimento e le competenze professionali del docente, la gestione e il governo delle relazioni e della comunicazione all’interno dell’équipe docente e delle situazioni didattiche, la mediazione didattica e la formazione continua, costruita insieme e condivisa. La professionalità infatti si costruisce necessariamente in situazioni di interazione sociale in cui vi sia l’opportunità di integrare l’impegno e le responsabilità individuali con quelli di tutti i componenti ed
anche con il lavoro cooperativo poiché le competenze necessarie a svolgere il
proprio compito sono di natura complessa. Proprio la complessità delle competenze non richiede azioni determinate dalle individualità, ma piuttosto da
una sinergia di contributi dinamici e proattivi, capaci di promuovere davvero
processi di crescita professionale e degli allievi.
Un esempio emblematico, in tal senso, è rappresentato dall’integrazione
scolastica degli allievi disabili: questa è possibile solo laddove si sviluppa una
progettualità partecipata da parte di tutti i docenti, in una dimensione che avvicina tra loro non solo questi ultimi ma anche gli allievi, contro ogni forma di
discriminazione e per dare piena attuazione ai principi universali di equità e di
giustizia nella scuola come nella società.
Qualsiasi carenza o assenza di un livello accettabile di condivisione progettuale e operativo, in questo caso non solo tra docenti, ma anche con i genitori e altre figure coinvolte, determina una serie di carenze/assenze a cascata
che si ripercuotono sul processo di integrazione, minandolo alle fondamenta.
Nella scuola di oggi, dove l’autonomia è tutt’ora in costruzione, la qualità
rappresenta dunque il fine ultimo del processo di riforma in cui essa è coinvolta e l’autonomia rappresenta il mezzo più idoneo per raggiungere tale fine.
In una scuola autonoma è possibile utilizzare in modo più efficace le risorse
disponibili, mantenere con il territorio una comunicazione continua che permetta di adattare l’offerta formativa ed attuare una maggiore personalizzazione delle proposte didattiche. In particolare l’autonomia di ricerca e di sviluppo appare essere la condizione privilegiata in cui realizzare le innovazioni in
campo didattico, organizzativo e formativo.
Infatti, sotto questo profilo, lo stile di lavoro degli insegnanti nella scuola
autonoma è sempre, per così dire, di tipo sperimentale, in cui pratiche costan262
ti di valutazione e di autovalutazione possono orientare le decisioni e progettare percorsi di miglioramento continuo.
Ogni innovazione, infatti, è innanzitutto un processo che necessita di tempi adeguati per essere realizzata ed è valida non di per sé, ma per il grado con
cui modifica positivamente una precedente situazione non completamente, o
del tutto, insoddisfacente. Se tale influenza non è rilevante, allora essa è non
solo inefficace ma anche inefficiente, rispetto al dispendio di risorse umane e
materiali che ogni innovazione comporta.
Del resto per la scuola il cambiamento è sempre un’occasione di innovazione e di miglioramento, non perché innovazione e miglioramento siano impliciti nel concetto di cambiamento, quanto perché il cambiamento è sempre
per la scuola un momento di discussione e di confronto sulle scelte sinora compiute: si fanno i conti con incertezze e precarietà, si avviano revisioni di significati da cui perfino l’identità personale e collettiva può uscirne profondamente modificata.
Da questo punto di vista, il cambiamento si configura come un processo di
apprendimento reciproco tra individuo e sistema, sul duplice piano dell’esperienza e della riflessione su questa, della dimensione progettuale e di quella
processuale del mutamento. Occorre, però, governare il cambiamento, e la prima fonte alla quale si attinge in questi casi è l’esperienza sia personale che collettiva che può orientare l’azione verso le scelte ottimali.
La scuola è infatti, per definizione, un’organizzazione che apprende dalle
proprie esperienze, ma anche dai propri errori. Tutto ciò rende evidente che la
scuola necessita di cambiamenti al fine di essere in grado di presentare offerte formative all’insegna sia dell’innovazione e sia del miglioramento, in relazione alle esigenze dei singoli allievi, e, più in generale, della società che impone cambiamenti in tempi rapidi.
Per fare ciò la scuola ha bisogno di progettualità, di professionalità e di essere in grado di mutare la propria organizzazione in relazione a possibilità proprie di rinnovamento, ha bisogno quindi di spazi per la crescita e di occasioni
che sperimentino ipotesi di lavoro, teorie, metodologie che si realizzano nella
prassi, di efficaci procedure di verifica e di valutazione per la promozione della crescita personale di tutti gli allievi e degli insegnanti.
La professionalità docente ha, dunque, bisogno di essere qualificata e riqualificata, pensando con molta attenzione a curricoli formativi che siano
aperti alle possibili integrazioni successive. Quindi devono essere pensati come curricoli professionali che, nella logica dei crediti, consentano prospettive
di ulteriori arricchimenti, anche in rapporto ai nuovi bisogni che possono determinarsi.
Gli interventi di formazione in servizio di tutti gli insegnanti dovrebbero,
infatti, poter valorizzare l’esperienza pregressa e costituire l’opportunità di riorientarla e implementarla per consentire loro di affrontare le sfide e le oggettive difficoltà e responsabilità dell’innovazione, sviluppando capacità progressive di risposte sempre più efficaci per i propri allievi.
263
Le strategie di risoluzione dei problemi, proposte dal percorso verso la qualità, devono essere percepite dai docenti come metodi efficaci per rafforzare la
propria professionalità, prima ancora che per migliorare la scuola. Occorre, in
sostanza, che si attui un apprendimento “a doppio circuito” che non si limiti a
correggere modalità operative isolate, ma che metta in discussione le norme e
i valori che ne sono alla base.
Formazione dei docenti tra Università e Scuola: il ruolo del tirocinio
L’esperienza delle Università in questi ultimi anni ha mostrato la capacità
di assumere responsabilità formative anche attraverso proficue partnership
realizzate con la Scuola.
L’introduzione nel curricolo accademico del tirocinio nei percorsi formativi dei docenti, appare infatti essere una delle scelte più innovative in tale settore, soprattutto per la messa a punto di una didattica interattiva ed efficace,
capace di mettere in relazione significativa la dimensione teorica con quella
pratica. Il tirocinio, in tal senso, si caratterizza quale strumento metodologicodidattico in grado di promuovere l’acquisizione delle competenze più specificamente professionalizzanti, e, al contempo, di integrare queste ultime in un
percorso equilibrato in cui teoria e pratica procedono congiuntamente e costituiscono l’una per l’altra una chiave di lettura privilegiata per la reciproca
comprensione e realizzazione9.
L’integrazione delle esperienze formative promuove infatti quel circolo
esperienza-riflessione10 che, già individuato da Dewey come base di ogni forma di conoscenza, e attualmente ritenuto un elemento proprio della ricercaazione11, è tornato all’attenzione soprattutto negli approcci del cosiddetto
“pensiero situato”, secondo il quale la conoscenza viene a “situarsi” criticamente in un contesto di esperienza concreta, capace di promuovere riflessioni
e di far emergere aspetti problematici con i quali è necessario confrontarsi. È
proprio tale rapporto che permette di superare la frattura tra le due dimensioni, teorica e pratica, a favore dell’affermazione dell’unitarietà delle esperienze
formative di tipo diverso, caratterizzate da momenti ricorsivi e sistematici che
procedono dalla teoria alla pratica e viceversa, in un processo di contestualizzazione e decontestualizzazione continua.
Si tratta, in sostanza, di esperienze in cui il rapporto teoria/pratica assume
significati nuovi, soprattutto per effetto del riconoscimento della “pratica” come componente non subalterna alla teoria, ma al contrario determinante nell’intero percorso di formazione. Le esperienze pratiche contribuiscono a favorire la sinergia con strutture mentali preesistenti, agendo come opportunità che
9
L. Chiappetta Cajola, Il tirocinio nella didattica universitaria, Roma, Monolite, 2002.
J. Dewey, Esperienza ed educazione, Firenze, La Nuova Italia, 1949.
11 K. Lewin, Teoria e sperimentazione in psicologia sociale, Bologna, Il Mulino, 1972.
10
264
rinforzano e stimolano apprendimenti teorici precedentemente appresi e predisponendo le condizioni più idonee ad incoraggiare e sviluppare i processi acquisitivi.
Durante le attività di tirocinio, gli studenti si trovano a riflettere sul fatto
che imparare ad insegnare rappresenta un “compito” che va ben oltre il periodo della formazione iniziale, anche in considerazione delle conoscenze che si
vanno via via acquisendo su taluni macro e microfenomeni verificatisi nel
tempo nel mondo dell’istruzione e della formazione: dall’evoluzione del concetto di insegnamento e di apprendimento, a quello di didattica e di valutazione; dall’introduzione delle tecnologie dell’insegnamento e dell’informatica, all’evoluzione del profilo professionale dei docenti e ai loro nuovi compiti all’interno della scuola ed anche all’esterno di questa; dalla riforma dei programmi didattici, alla scuola dell’autonomia capace di realizzarsi come organizzazione che apprende e di autovalutarsi, ecc.
In ragione di tutto ciò, i tirocinanti possono rendersi conto che gli insegnanti in servizio nella scuola non hanno mai potuto ignorare quei fenomeni e
che, anzi, ne hanno dovuto necessariamente tenere conto adeguando sistematicamente la loro formazione alle sollecitazioni che provenivano dal mondo della cultura e della società in generale. Da quanto fin qui argomentato, si può
evincere che il tirocinio è certamente uno snodo strategico entro cui si sviluppano i contributi significativi dell’Università e della Scuola, una sorta di sintesi ottimale dei punti di vista e delle convinzioni di queste due istituzioni rispetto alla formazione degli insegnanti. Sintesi che è stata, ed è, tutt’altro che
scontata, ma che, al contrario, rappresenta l’esito di un percorso fatto di confronti e negoziazioni e finalizzato alla più efficace offerta di formazione. Quest’ultima fa sì che nello sviluppo individuale e nel processo di apprendimento
venga accentuato lo spazio per pratiche che facilitino un uso “intelligente” dei
fattori di intervento cognitivo, comunicativo e relazionale, cioè di quelle capacità personali che costituiscono il fondamento della costruzione del proprio essere persona ancora prima del proprio essere professionale.
Tecnologie informatiche e formazione dei docenti:
un binomio fondamentale
Se, dunque, la formazione degli insegnanti rappresenta una priorità ovunque nel contesto internazionale, la prospettiva è quella di una formazione in
continua evoluzione per tutti i docenti attraverso programmi ai quali si possa
accedere con frequenza e facilmente, e con l’impiego di adeguate tecnologie
della comunicazione.
Il riferimento va in via prioritaria alle tecniche della formazione a distanza
che consentono agli insegnanti di continuare a lavorare, come diversamente
non potrebbe essere, e di continuare a formarsi senza eccessivi disagi e con un
sicuro risparmio finanziario.
265
È attualmente in corso una innovativa esperienza di formazione dei docenti in servizio a tempo indeterminato della scuola dell’infanzia e della scuola
primaria del Lazio proprio mediante l’uso della modalità didattica a distanza,
che attraverso l’impiego delle moderne tecnologie elettroniche “e” oltre che di
Internet, offre opportunità didattiche per l’apprendimento, “learning”, a distanza.
Cardine di questa iniziativa è la realizzazione di un’attività di formazione
in servizio, prevalentemente a distanza, in grado di valorizzare l’esperienza
pregressa dei docenti partecipanti e, soprattutto, di arricchirne il lavoro educativo quotidiano senza generare interferenze con il suo pieno svolgimento, e
nello stesso tempo, di mostrarsi significativa anche sul piano del riconoscimento formale dell’esperienza via via accumulata e verificata, di conseguenza
in grado di garantire l’opportuna certificazione delle competenze progressivamente acquisibili, attraverso il riconoscimento di crediti funzionali al conseguimento della Laurea in Scienze dell’Educazione12.
È indubbiamente un esempio di formazione continua, progettata con rigore
e con un ottimale impiego delle risorse a disposizione, per la cui realizzazione
è stato adottato un modello didattico-organizzativo integrato, nel senso che oltre alla prevalente attività di formazione a distanza, contempla anche momenti interattivi in presenza.
L’attività a distanza è realizzata on line, con una piattaforma e-learning, che
rende possibile al livello più alto l’individualizzazione della proposta didattica, assicurando al percorso formativo caratteristiche di interattività e flessibilità molto elevate, permettendo di verificare in itinere i risultati raggiunti.
Come era prevedibile, l’iniziativa ha registrato un rilevante successo nell’ambiente scolastico, rappresentando così la permanente esigenza di soddisfare bisogni formativi sempre nuovi da parte degli insegnanti che, pur in servizio a tempo indeterminato, avvertono l’urgenza di continuare ad apprendere
per insegnare con ulteriore efficacia ed essere in linea con i bisogni e i cambiamenti della società.
Oltre a questo genere di offerta formativa, ce ne possono, e devono, essere
altre diversificate per tipologia e modalità. Anzi, a tale proposito vale la pena
sottolineare che i programmi di formazione per i docenti dovrebbero altresì
contemplare più “luoghi” presso cui realizzare la formazione continua, superando i confini attuali e prevedere dei veri e propri “rientri” in formazione mediante la partecipazione a stage o tirocini specifici, con frequenza breve ma intensiva, una sorta di full immersion in situazione che, coniugando esperienze
12 Si
tratta di un progetto di formazione, di cui è responsabile scientifico Gaetano Domenici, finalizzato al conseguimento della Laurea in Scienze dell’Educazione, e realizzato per effetto di una Convenzione tra la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi “Roma Tre” con l’Ufficio Scolastico Regionale per il Lazio. Nell’ambito di questo progetto, la scrivente è docente di Didattica Generale, oltre che componente del Comitato tecnicoscientifico e del Comitato di Direzione e Coordinamento.
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di teoria, di tecnica e di pratica, non solo si porrebbe in continuità con la formazione iniziale ma probabilmente consentirebbe di raggiungere esiti formativi di maggiore qualità.
Nuove prospettive di formazione iniziale
Proprio in questi giorni, in fase di elaborazione del presente contributo, il
Ministro dell’Istruzione ha annunciato che a partire dall’anno scolastico 20082009 per insegnare occorrerà conseguire, dopo la laurea di primo livello, anche la laurea specialistica, magistrale, di durata biennale più un anno di tirocinio da realizzare interamente nella scuola, come previsto dal decreto legislativo che attua l’art. 5 della Riforma scolastica13.
Alla laurea specialistica si potrà accedere mediante una selezione a numero programmato che si svolgerà presso le Università. A tal fine, il Ministro ripartirà anno per anno tra le Università un numero di posti pari a quelli che si
prevede di coprire nelle scuole delle singole regioni, maggiorato del 10 per
cento. Al termine del percorso universitario complessivo, è previsto un esame
di stato con valore abilitante, che garantirà a coloro che lo superano la certezza dell’assunzione. Gli specializzati che supereranno l’esame di Stato verranno assegnati alle scuole della propria regione dove svolgeranno un anno di tirocinio. Tale assegnazione sarà effettuata dalla Direzione Generale dell’Ufficio Scolastico Regionale di competenza, secondo criteri prestabiliti, e l’attività
sarà regolata da un contratto di inserimento formativo al lavoro. Il tirocinante
insegnerà sotto la supervisione del tutor che gli è stato assegnato e al termine
dell’anno, se la valutazione sarà positiva, stipulerà con il dirigente scolastico
un contratto di lavoro a tempo indeterminato.
Proprio queste ultime novità in campo educativo dimostrano quanto gli
aspetti legati all’istruzione e all’inserimento nel mondo del lavoro siano tenuti sempre più in considerazione dai responsabili istituzionali, in linea con quanto da tempo viene praticato in ambito europeo.
L’ottica è quella della costante valorizzazione e della sistematica formazione del personale docente, finalizzata non solo alla migliore qualità dei prodotti e dei processi formativi, ma anche al concreto inserimento nel mondo del lavoro e professionale.
Il percorso formativo necessario per diventare docente delinea, a quanto pare, la logica connessione tra la preparazione iniziale e la formazione continua,
mediante l’impiego del tirocinio che, seppure collocato diversamente, conferma la sua rilevanza di strumento educativo indispensabile sia per chi apprende
e sia per chi insegna, contribuendo altresì al dialogo formativo fra le parti e al13 La Riforma scolastica è espressa nella Legge 28 marzo 2003, n. 53, recante “delega al
Governo per la definizione delle norme generali sull’istruzione e dei livelli essenziali delle
prestazioni in materia di istruzione e formazione professionale”.
267
l’impegno di entrambe le istituzioni a promuovere professionalità altamente
qualificate che, in quanto tali, vengono effettivamente immesse nel mondo del
lavoro.
Come sempre, occorre ricercare il filo rosso che lega il “cosa fare” al “come fare”: anche in questo caso, il problema va affrontato in termini teorici ma
poi immediatamente tradotto in applicazioni pratiche, efficaci e produttive.
268
PARTE QUARTA
ORIZZONTI DI SENSO TRA PASSATO E PRESENTE
269
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La “Città interiore” di Platone e la nuova cittadinanza
MARIO FERRACUTI
Pensando all’amico Luciano Corradini, e in particolare al suo impegno di
educatore e di animatore associativo dell’UCIIM, dell’AIDU e dell’ARDeP, mi
è tornata in mente la “città interiore” di Platone. Per affrontare tanti problemi,
con tante persone, in tempi tanto lunghi e difficili, bisogna avere dentro di sé
l’idea di un’armonia possibile fra gli uomini, l’idea di una città che cresce attraverso l’educazione e la politica, nonostante le indifferenze, le stonature, i
conflitti e gli insuccessi di cui tutti facciamo più o meno dolorosa esperienza.
In particolare mi ha colpito la sua provocatoria testimonianza di “volontario fiscale”, con cui ha inteso segnalare la gravità di quel “male comune” che
è il nostro abnorme debito pubblico e indicare la necessità di ridurne il peso,
sia per consentire al nostro paese di agganciare l’euro, sia per combattere le ingiustizie che si commettono con “reati finanziari” nei riguardi delle giovani
generazioni.
L’associazione che ne è nata, associazione per la riduzione del debito pubblico, è un singolare esempio di civismo, che non si accontenta della presa di
coscienza e dell’indignazione, ma che vuole muoversi sul piano dei comportamenti di “cittadini praticanti”, interessati non solo al beni propri, ma al bene
comune.
Per dare parte del proprio stipendio e del proprio tempo, in un contesto non
molto favorevole alla “pedagogia del dono”, occorre avere dentro di sé un’idea
forte di giustizia e di “vita buona”: un’idea capace di affrontare i fatti “duri e
testardi” e di mostrare nei comportamenti, sia pure in modo simbolico, la possibilità di andare oltre, verso l’orizzonte che interessa tutti gli educatori.
È questa la storia da lui raccontata nel volume La tunica e il mantello, Roma 2003. Veniamo dunque alla città interiore di Platone.
Ricordo bene gli studi liceali. Il mio professore di storia e filosofia greca
parlava con particolare efficacia ed empatia: la Polis era il luogo delle armonie
civiche, morali e statuali, una scuola di paideia e di humanitas, il punto di arrivo e di partenza delle civiltà passate e future. E, per rendere più immediato il
suo dire, il mio professore, si abbandonava a racconti e metafore per riattualizzare, con la lezione, accadimenti e vicende della Polis.
Guardate il latte, ci diceva. Il latte sano e fresco si presenta con nuclei di
271
coerenza legati tra loro da una rete coesiva in grado di organizzare armonicamente l’insieme della sostanza, sembrano “nodi” legati da una metaforica griglia che li unisce donando bontà e fragranza a quel liquido bianco-opaco così
indispensabile per una appropriata nutrizione di bambini e giovani. Nel latte
cattivo i nuclei di “coerenza” diventano incoerenti, anarchici, slegati, incompatibili tra loro e incapaci di formare un corpo sano. Il latte allora si dissolve
e imputridisce.
Lo stesso processo si verifica nella società politica. La migliore storia della Grecia ha prodotto “Città-Stato” con nuclei di coerenza tali da formare “Stati” modello incentrati sulla disciplina della giustizia che è “nucleo di coerenza” essenziale, virtù suprema per la fondazione e l’organizzazione dello Stato.
Ecco perché Socrate nell’Apologia sente di dover affermare il suo “io” trascendentale sull’“io” empirico: “…allora, cittadini ateniesi, non dovete pretendere che io debba fare certe cose che non considero essere né belle né giuste
né sante”. Proprio in forza di queste virtù la polis greca diventa un organismo
vivo, in espansione e trasformazione, ma senza mai nuocere alla struttura fondamentale e alla sua solidità e stabilità. Platone, nella Repubblica (IX, 591)
parla di “città interiore che ogni uomo porta in se stesso” quindi, come l’uomo, destinata ad evolvere e trascendere se stessa.
Oggi si parla di “società chiusa” e “società aperta” secondo le espressioni
di Bergson e, più vicino a noi, di Popper. Il mio Professore, studioso di Bergson, non si lasciava sfuggire il pensiero di questi grandi filosofi per poter sottolineare le feconde armonie della polis greca. “L’umanità geme, semischiacciata sotto il peso del progresso che lei ha costruito. Non sa abbastanza che il
suo futuro dipende da lei. A lei di vedere prima di tutto se vuole continuare a
vivere. A lei di domandarsi in seguito se vuole vivere soltanto o fornire inoltre
lo sforzo necessario perché si compia, persino sul nostro pianeta refrattario, la
funzione essenziale dell’universo, che è una macchina per fare degli dei”
(Bergson, Le due fonti della morale e della religione)
Se il mio professore vivesse oggi, certamente, i toni del suo parlare sarebbero attenuati dalla visione un po’ paludosa in cui vivono gli Stati moderni; si
accorgerebbe di un mondo lontano kilometri-luce dal tempo sognato e raccontato con le sue belle lezioni. La polis cosmica di oggi è sempre sul punto di coltivare nuclei di coerenza sempre più incoerenti e spezzare quei filamenti che
tengono in “rete” la struttura sociale e politica che, “schiacciata sotto il peso
del progresso che ha costruito”, manca di quello “slancio vitale” che priva
l’uomo del respiro di Dio e toglie al mondo quelle armonie conferite dalla giustizia di uomini giusti che, soli, intessono nodi di coerenza nel tessuto della polis.
Si pensi alla recente costruzione dell’Europa. Una aggregazione di 25 Stati. Qual è il nucleo di coerenza che li lega? Sono forse sufficienti le banche della Comunità, il pil dei singoli Stati o il concetto astratto di democrazia? La Sto272
ria ci racconta che la formazione di ogni piccolo o grande Stato, di ogni formazione spirituale o geopolitica è sempre avvenuta attorno ad un nucleo di
coerenza fortemente sentito e vissuto: un eroe, un mito, una forte ideologia,
una idea ipostatica attorno a cui si compone l’armonia del progetto, della Polis, della Nazione, dell’Impero. Avevano chiesto per l’Europa le “radici cristiane” come minimo comun denominatore di una aggragazione vasta, ricca, ma
ancora senz’anima. Neppure questo è stato concesso come principio fondatore dell’Europa. Riuscirà essa a vivere senza una forma sostanziale che rappresenti l’anima unificante di questo nuovo gigante continentale?
La tradizione e l’esperienza storica ci dicono di no.
Un tempo l’uomo era inserito in un contesto comunitario, in una griglia etico-culturale, era dentro un oikos, un ambiente, che davano senso e direzione ai
suoi comportamenti personali e sociali. Ma oggi sono cadute le grandi mappe
di orientamento e l’uomo è solo con se stesso e incapace di trovare risposte da
parte della stessa società che, pur essa, ha smarrito la propria direzione avendo dissolto importanti nuclei di coerenza. Un tempo anche la comunità nazionale, pur complessa e articolata per la sua dinamicità e dialettica politica, garantiva a ogni cittadino il senso di appartenenza, lo status di cittadino a pieno
titolo, l’orgoglio socratico di sentirsi membro riconosciuto di una Patria riconosciuta. Una Patria, naturalmente, non più costituita da soli confini materiali, quei “confini” da cui è nata, nel sangue, la storia di Roma e che sono stati
la causa di tante guerre e di enormi sofferenze per aver alimentato, in negativo, la cultura delle differenze, delle discriminazioni, delle esclusioni.
Oggi, su scala planetaria, sta avvenendo quanto, nel IV secolo a.C., avveniva in Grecia dove, in pieno clima ellenistico, si perdono i contatti con la paideia filosofica per affidarsi alle discipline particolari. Mentre nelle epoche
precedenti, la polis era punto di sostegno e di guida alla vita, ora che la polis
si è disintegrata, all’uomo non resta che affidarsi alle proprie forze raccogliendosi in se stesso, per chiedere a se stesso la spiegazione della vita e un
principio di condotta. Anche nel nostro tempo, nella pienezza del postmoderno, del pensiero debole, con una polis dagli orizzonti planetari, è venuto a
mancare, per parafrasare Mircea Elide, “un simbolismo del centro”, sono venute meno le tradizionali mappe di orientamento esterne (tradizioni, religioni,
ideologie, istituzioni) che sostenevano l’individuo nel suo cammino di uomo e
di cittadino. È venuto, pertanto, a mancare anche l’humus culturale per l’affermazione della sua cittadinanza, ossia per un confronto attivo con le leggi e
i costumi della propria nazione. In questa ebollizione cosmica ove tutto è rimesso in discussione, l’intera società è in crisi e con essa le istituzioni e le leggi. Una crisi di legittimità che tende a diventare crisi di legalità anche perché,
per una dialettica esasperata, almeno da noi, sembra sia caduto il vincolo di fiducia che fonda la stabilità e la coesione della società. Sembrano dispersi i nuclei di coerenza e con essi l’auctoritas e la potestas che sono i pilastri della
struttura statuale e il fondamento della societas. Quando Rousseau si chiede in
273
che modo gli uomini hanno trovato la formula per stare insieme, egli risponde
che questo miracolo lo produce la legge. La legge diventa un trascendentale
storico della comunità che traduce l’immaginario collettivo comune: se cade
questa struttura si perde il senso della comunità e dei valori che si traducono
in norme esecutive.
Lo stesso Buber, decenni fa, avvertiva già lo stesso problema “L’uomo non
è più capace di signoreggiare il mondo ch’egli stesso ha fatto sorgere: questo
mondo diviene più forte di lui e l’uomo non conosce più la parola che abbia il
potere di assoggettare il Golem che egli ha creato, che impedisca a questi di
nuocergli”.
Ecco allora l’urgenza di un ritorno all’educativo. L’educazione, per sua natura richiama l’etica, la legge, la norma. L’esigenza è normativa poiché senza
legge viene meno anche ogni progetto di vita. Urgente, oggi soprattutto, perché la scuola del postmoderno ripiega sull’istruttivo e, conseguentemente, produce più istruzione che formazione, distribuisce nozioni senza penetrare nell’eidos, là dov’è il nucleo di coerenza della persona stessa. Come dunque la
scuola può educare l’uomo alla cittadinanza senza volgerlo “ verso la città interiore che porta in se stesso?”.
Fino ad oggi la scuola ha “giocato” all’educazione civica, quasi marginale
sovrastruttura della cultura scolastica. È giunto il tempo per la scuola di re-insegnare all’uomo che, in quanto zoon politicon, egli ha precisi doveri verso la
comunità sociale e verso le leggi dello Stato se non vuol diventate un corpo
estraneo, un nucleo incoerente destinato a imputridire e corrompere. K. Lorenz
si domanda in Il declino dell’uomo: “l’umanità è destinata a diventare una comunità di esseri realmente umani, oppure una rigida organizzazione di nonuomini, privi della capacità di agire con autonomia? Questo dipenderà da un
unico fattore: la capacità di sviluppare i germi dei valori insiti in noi”.
La nuova riforma della scuola sembra dare grande spazio al concetto di cittadinanza colto nelle sue fondamentali espressioni di diritti e doveri propri di
ciascuno e della intera comunità. La convivenza civile di cui parla la Riforma,
fa simultaneamente riferimento alle singole educazioni: cittadinanza, stradale,
ambientale, alimentare, alla salute e alla affettività e queste, per la interconnessione dei singoli elementi, creano le condizioni educative che coinvolgono
la struttura stessa della persona in tutte le sue dimensioni ed espressioni. La
scuola non può imporre motivi ideologici e religiosi che coinvolgono l’uomo
nelle sue profonde scelte esistenziali e meta-esistenziali che, quindi, debbono
rimanere opzioni e scelte personali, ma è un suo preciso dovere che essa insegni la Carta Costituzionale italiana ed europea fino a farne una introiezione
della “città interiore”. Essa è la bussola valoriale, la piattaforma legale ove l’individuo ritrova il senso del proprio sentirsi, responsabilmente, zoon politicon,
dilatando il suo “io” individuale fino agli orizzonti del “noi” comunitario.
Ho detto “responsabilmente” perché il soggetto deve imparare a res-ponere, a porre, cioè, in gioco se stesso rendendo conto di ciò che fa, fino ad assumere le conseguenze dei suoi atti sugli altri. Non è necessario che dica in qual
274
modo la scuola possa attuare questa svolta educativa. Basta lo senta e lo voglia.
Per quanto mi riguarda, se mi si perdona l’enfasi in sintonia con il mio professore, chiudo con le parole di Siddharta: “sarebbe bello che un giorno i nostri
figli ritrovassero il coraggio, la letizia e lo slancio degli animi per erigere monumenti e simboli della loro interiorità, così limpidi, grandi e inequivocabili”.
Credo sia arrivato il tempo di questi figli. Dopo che le generazioni precedenti sono state scosse da passioni ideologiche o rivoluzionarie, di palingenesi sociali, ora che gli orizzonti si slargano sull’Europa e, per molti versi, sul
mondo, ora che non abbiamo più molti sostegni esteriori, è necessario fare ricorso a mappe culturali interne, è necessario che il pendolo oscilli verso la responsabilità della persona, l’interiorità della cultura, l’eticità dei comportamenti per ricuperare quella “città interiore” che la scuola deve far emergere
dall’inconscio dove, per calcolo o pigrizia, spesso, è stata rimossa.
275
Jacques Maritain e l’Europa: il pluralismo
come metodologia
PIERO VIOTTO
In Europa, a causa del suo lungo percorso storico, convivono diverse forme organizzative della società civile dai regimi monarchici ai regimi repubblicani, parlamentari e presidenziali; diverse comunità religiose sia cristiane,
cattoliche, ortodosse, protestanti, sia ebraiche che musulmane; diverse tradizioni culturali anche in relazione alla lingua con cui si veicolano. Solo il pluralismo può essere il collante di un mondo così multiforme, ma il pluralismo
non può essere una filosofia, ma solo una metodologia politica per garantire
insieme il dovere di cercare la verità e il diritto al rispetto della libertà di coscienza.
C’è un filosofo contemporaneo, Jacques Maritain (1882-1973) che ha vissuto nella sua esperienza questo travaglio, protestante francese sposo di una
ebrea russa (Raissa Oumançoff 1883-1960), entrambi, convertiti al cattolicesimo, acerrimi difensori della libertà contro ogni forma di Stato confessionale,
come dimostra il loro comportamento durante la guerra civile spagnola. I verbali degli incontri alla “Societé française de philosophie”, dove era di casa il
razionalismo del pensiero laico e allo “Studio franco-russo”, dove si confrontava con la spiritualità mistica degli ortodossi, documentano questo atteggiamento di comprensione affettiva e di fermezza intellettuale. Confronti aspri,
ma cordiali, che lo portarono a riflettere sulle motivazioni filosofiche e teologiche di un pluralismo inteso come metodologia delle relazioni sociali, ma che
non può diventare una filosofia, perché negherebbe se stesso e farebbe del relativismo il fondamento della democrazia; un pluralismo necessario per vivere
in pace in una società complessa e multiforme1. La riflessione di Maritain nasce anche dai multiformi rapporti di amicizia e di dialogo che ebbe con altri filosofi europei da Bergson a Gilson, da Pieper a Guardini, da Wust a Hilde1 Nelle citazioni si fa riferimento ai sedici volumi delle Œuvres Complètes, Editions Universitaires, Fribourg, Paris, Editions Saint-Paul, 1986-2000, indicando tra parentesi il volume
e le pagine. Cfr. P. Viotto, Dizionario delle opere di Jacques Maritain, Roma, Città Nuova,
2003, Dizionario delle opere di Raissa Maritain, Roma, Città Nuova, 2005. Introduzione a
Maritain, Bari, Laterza, 2000.
276
brand, da Gabriel Marcel a Miguel de Unamuno2, ed in particolare con il teologo svizzero Charles Journet (1891-1975) con cui scambiò una lunga corrispondenza (1903 lettere)3, come pure con romanzieri, poeti, pittori, compositori, musicali di diverse tradizioni culturali.
Nel 1930 in una conferenza a Friburgo al “Secondo congresso degli studenti cattolici svizzeri”, Maritain pone le basi delle distinzioni e delle correlazioni
tra la religione, la cultura e la politica, precisando che la religione trascende
ogni cultura, non è né greca, né latina, e ogni forma di organizzazione politica,
non è né di destra né di sinistra. Scrive in Religione e cultura4, in cui ha raccolto la sua conferenza, “La Chiesa, il cattolicesimo sono realtà essenzialmente soprannaturali, sovraculturali, il cui fine è la vita eterna. La civiltà cristiana, il
mondo culturale cattolico restano una civiltà, un mondo, il cui fine specifico,
pur ordinato alla vita eterna, è per sua natura di ordine temporale” (IV, 223). Bisogna evitare due errori concomitanti: il nazionalismo in spiritualibus, cioè trattare il cattolicesimo come una civiltà terrena e la temporalizzazione della religione in una data cultura, perché lo spirituale trascende il temporale, anche
quando anima la cultura, la politica, l’arte. Bisogna poi recuperare con amore le
verità e il bene che si trovano in tutte le altre culture. Nella sua opera più nota,
frutto di lezioni a Santander in Spagna e di conferenze a Poznam in Polonia,
Umanesimo integrale5, che ha suscitato tante polemiche e che ha rischiato di essere messa all’Indice, il filosofo propone una concezione pluralistica della società civile “che, sulla base dell’uguaglianza dei diritti, assicura le libertà proprie delle diverse famiglie religiose istituzionalmente riconosciute e lo statuto
del loro inserimento nella vita civile. Tale concezione è chiamata a prendere il
posto, sia della concezione impropriamente detta teocratica dell’età sacrale, sia
della concezione clericale dell’epoca giuseppina, sia della concezione liberale
dell’epoca borghese, e ad armonizzare gli interessi dello spirituale e quelli del
temporale in ciò che concerne le questioni miste (civili-religiose), in particolare
quella della scuola”. (VI, 636)
Durante l’esilio in America, mentre la Francia era occupata dai nazisti, Maritain partecipa alla resistenza con conferenze e messaggi e sviluppa la sua
analisi dello Stato pluralista. Nel 1942 col volume I diritti dell’uomo e la legge naturale6, pubblicato a New York nella collana «Civilisation» da lui pro2 Cfr. P. Viotto, I Maritain e la filosofia contemporanea in «Quaderni del Cairoli» n. 187,
200, pp. 49-73.
3 J. Maritain - Ch. Journet: Correspondance, 1920-1973, Saint Maurice (Svizzera), Editions Saint-Augustin, in 6 tomi vol I (1920-1929) 1996; vol. II (1930-1939) 1997; vol. III
(1940-1949) 1998; vol IV (1950-1957) 2005.
4 Religion et culture, Desclée de Brouwer, Paris 1930 pp 115 (IV 193+255); tr. it. Religione e cultura, Brescia, Morcelliana, 1966.
5 Problemas espirituales y temporales de una nueva cristiandad, Madrid, El Signo 1935
(VI 301+634); tr. it. Umanesimo integrale, Roma, Borla, 2002.
6 Les droits de 1’homme et la loi naturelle, New York, Editions de la Maison Française, 1942
(VII, 617-695); tr. it. I diritti dell’uomo e la legge naturale, Milano, Vita e Pensiero, 1991.
277
mossa per aiutare gli scrittori francesi emigrati in America, considera il pluralismo come una connotazione strutturale della società democratica. Nel successivo Cristianesimo e democrazia7, afferma che la democrazia è la fruttificazione della ispirazione evangelica nella coscienza profana. Ma è soprattutto
nelle sei conferenze tenute nel 1949 all’Università di Chicago pubblicate prima in inglese poi in francese, col titolo L’uomo e lo Stato8 che Maritain elabora la sua filosofia politica, ponendo la libertà di coscienza come fondamento
dello Stato democratico nel rispetto della identità dei diversi gruppi ideologici9.
Maritain ha la soddisfazione di vedere accolte queste idee dal “Concilio Vaticano II” e esulta, ne Il contadino della Garonna, perché il Concilio ha riconosciuto il valore della libertà di coscienza, ma rivendica anche i diritti della
verità e il dovere di riconoscerla come regola di vita quando e come la si conosce. In questa prospettiva analizza la crisi della cultura contemporanea, che
per “logofobia”, una reazione alla “ragione puramente discorsiva” di Cartesio,
rinuncia a pensare secondo le regole della logica, fermandosi alla opinione
cangiante; e per “cronolatria epistemologica”, una conseguenza dello storicismo di Hegel, si accontenta dell’effimero e non ammette verità universali e definitive. Secondo Maritain la fenomenologia contemporanea, “che è l’ultima
delle versioni dell’idealismo” (XII, 813) ha rinunciato alla intuizione dell’essere, e alla oggettività della verità10.
La cultura, la politica e la religione
L’uomo è in grado di conoscere la verità, la sua intelligenza può cogliere la
intelligibilità dell’essere, anche se l’essere non si esaurisce nella intelligibilità
alla portata dell’uomo, perché vi sono aspetti della realtà che per troppa luminosità superano l’intelligenza umana e solo Dio può rivelare (il sovra-intelligibile della teologia), come vi sono aspetti della realtà che per troppa oscurità,
non possono essere penetrati dall’uomo (l’infra-intelligibile delle scienze na7Christianisme
et démocratie, New York, Editions de la Maison Française, 1943. (VII 699762); tr.it. Cristianesimo e democrazia, Milano, Vita e Pensiero, 1977.
8 Man and the State, Chicago, University of Chicago Press, 1951 (IX 471-736); tr. it. L’uomo e lo Stato, Genova, Marietti, 2002.
9 Maritain presenta una sintesi di tutta la riflessione sul pluralismo nel 1947 in una conferenza alla Princeton University dal titolo Truth and human Fellowship, tradotto in italiano impropriamente con Tolleranza e verità, perché non può esserci tolleranza all’errore e perché essere tollerati non significa essere accettati mentre bisogna vivere nella comprensione vicendevole pur testimoniando coerentemente le proprie convinzioni. Cfr. Il filosofo nella società,
Brescia, Morcelliana, 1976.
10 Cfr. Le paysan de la Garonne, Paris, Desclée de Brouwer, 1966; (XII 663-1035); tr. it. Il
contadino della Garonna, Brescia, Morcelliana, 1969. Vedi P. Viotto, Il contadino della Garonna, trent’anni dopo, in «Rivista di teologia morale» n. 113, gennaio-marzo 1997, pp. 45-62.
278
turali)11. Il concetto umano non è una forma vuota, una conoscenza puramente nozionale senza significato reale (Bergson, Blondel), non è uno strumento
pratico, utile ma non vero, (Dewey), ma ci fa conoscere oggettivamente la
realtà, attinge l’essere, coglie la verità. Ma l’intelletto, nella sua oggettività cognitiva, non determina la libertà della volontà. Nella persona umana volontà e
intelletto sono in una relazione vitale, si condizionano reciprocamente nella libertà. La libertà di scelta, o libertà arbitrio della volontà, nella sua soggettività
morale è un valore (libertà psicologica), costituisce la radice della dignità dell’uomo. Ma non è la “vera libertà”, è solo la ”possibilità” della libertà, perché
la vera libertà consiste nell’aderire alla verità, nel comportarsi secondo verità
(libertà morale).
In una società democratica si debbono garantire insieme verità e libertà,
evitando ogni forma di fondamentalismo ma anche ogni forma di relativismo.
La relazione che intercorre tra la verità e la libertà, tra l’oggetto e il soggetto
pone un problema politico che riguarda la relazione fondamentale tra la soggettività della coscienza e l’oggettività della legge. Lo Stato autoritario è uno
Stato dogmatico, che impone ai cittadini una verità di Stato, come capita nel
socialismo reale; lo Stato libertario è uno stato scettico, che abbandona i cittadini al caleidoscopio delle opinioni soggettive, come capita nelle società liberali; lo Stato democratico deve evitare questi due errori. Maritain analizza i
dinamismi psicologici che gravano su queste alterazioni politiche: “Da una
parte l’errore degli assolutisti, cui sorriderebbe di imporre la verità per coercizione, viene dal fatto che essi fanno deviare i loro giusti sentimenti pertinenti
l’oggetto, dall’oggetto stesso al soggetto. Essi pensano che, siccome l’errore
non ha diritti che gli competano e dovrebbe essere bandito dalla mente (attraverso i mezzi della mente), così l’uomo quando sia in errore, non gode diritti
da parte sua e dovrebbe essere posto al bando dalla società umana (attraverso
i mezzi della potenza umana). D’altro canto, l’errore dei teorici che fanno del
relativismo, dell’ignoranza e del dubbio, una condizione necessaria per la mutua tolleranza viene dal fatto che essi fanno deviare i loro sentimenti concernenti il soggetto umano – da rispettare anche se in errore – dal soggetto stesso
all’oggetto, e così privano l’uomo e l’intelletto, umano dell’atto medesimo di
adesione alla verità in cui consiste insieme la dignità dell’uomo e la ragione di
vivere” (XI, 78-79).
Maritain riconosce che il primo diritto della persona umana è la libertà di
coscienza, ma precisa che la coscienza, nella sua responsabilità morale, è vincolata alla verità. “Di fronte a Dio ed alla verità, l’uomo non ha diritto di scegliere a suo gradimento una qualsiasi strada, egli deve scegliere il vero cammino per quanto sia in suo potere di conoscerlo. Ma di fronte allo Stato, alla
comunità temporale ed al potere temporale, egli è libero di scegliere la sua vita religiosa a suo rischio e pericolo, la sua libertà di coscienza è un diritto na11 Distinguer
pour unir: ou les degrés du savoir, Paris, Desclée de Brouwer, 1932 (IV 2571111); tr. it. I gradi del sapere, Brescia, Morcelliana, 1984.
279
turale inviolabile” (VII, 671). E riconosce il dovere della obiezione di coscienza davanti ad una legge, che la coscienza ritiene ingiusta. “Non c’è bisogno di
aggiungere che la volontà del popolo non è sovrana nel senso errato che qualunque cosa piaccia al popolo dovrebbe avere la forza di legge. Il diritto del
popolo a governarsi procede dalla legge naturale: e similmente l’esercizio di
questo diritto è soggetto alla legge naturale. Se la legge naturale è sufficientemente valida per dare questo diritto basilare al popolo, è pure valida per imporre i suoi precetti non scritti nell’esercizio di questo diritto. Una legge non è
giusta per il solo fatto che esprime la volontà del popolo. Una legge ingiusta,
anche se esprime la volontà del popolo, non è legge” (IX, 534). Conclude osservando “All’origine del sentimento democratico, non si trova, come crede
Rousseau, il desiderio di non obbedire che a se stessi, ma piuttosto il desiderio
di obbedire, perché ciò è giusto” (IX, 629).
L’uomo è interamente sociale, ma non secondo tutto se stesso, i valori culturali, e a maggior ragione i valori religiosi, sono valori metapolitici, riguardano la persona umana in quanto tale. L’uomo come individuo materiale è interamente subordinato alla comunità, che può richiedergli anche il sacrificio della vita per il bene comune; ma come persona spirituale subordina a sé la società. Maritain esemplifica: la società può chiedere ad un matematico di insegnare la matematica, perché l’insegnamento è una funzione sociale, ma non
può chiedere al matematico di insegnare questo o quel tipo di matematica, perché “le verità matematiche non dipendono dalla comunità sociale e concernono l’ordine dei beni assoluti della persona come tale” (VII, 629). Nel cuore della vita sociale si hanno così due movimenti, uno verticale, verso la realizzazione della persona in Dio ed uno orizzontale, verso la realizzazione della persona nella società. Questi due movimenti si intersecano e si condizionano.
“L’uomo trova se stesso subordinandosi al gruppo e questo non persegue il suo
fine se non servendo l’uomo e sapendo che l’uomo ha dei segreti i quali sfuggono al gruppo e una vocazione, che supera il gruppo” (VII, 630).
Su queste premesse filosofiche si può affrontare il problema del pluralismo
nella società complessa, senza cadere nel fondamentalismo di un Caifa che voleva imporre allo Stato la legge ebraica o nel relativismo di un Pilato, che, scettico, domandava a Gesù «Che cosa è la verità?». Il giudice costituzionale G.
Zagrebelsky, in una lunga riflessione sul processo intentato a Gesù, scrive “Sia
il dogmatico che lo scettico possono apparire amici della democrazia, ma solo
come falsi amici. Il dogmatico può accettare la democrazia solo se e fino a
quando serve come forza, una forza indirizzata ad imporre la verità. Lo scettico, a sua volta, poiché non crede in nulla, può tanto accettarla quanto ripudiarla. Se è davvero scettico, non troverà nessuna ragione per preferire la democrazia all’autocrazia. O meglio, troverà una ragione non nella fede in qualche principio, ma in una convenienza”12. Maritain supera questa implicita contraddizione distinguendo con san Tommaso tra l’intelletto teoretico, proprio
12
280
G. Zagrebelsky, Il “Crucifige” e la democrazia, Torino, Einuadi, 1995, p. 6.
del conoscere per conoscere, che ha per oggetto la verità e l’intelletto pratico,
proprio del conoscere per fare, che ha per fine un’azione da compiere nella
concretezza della situazione. Sul piano dell’oggettività del conoscere non può
esserci un pluralismo, perché la verità è una e si impone per se stessa; sul piano della soggettività dell’agire deve esserci un pluralismo per rispettare la libertà di coscienza, riconoscendo la buona fede altrui, non pretendendo di avere l’esclusiva della verità, perché la verità è inclusiva di tutti gli uomini di buona volontà che la cercano. Maritain commentando san Paolo13 trova la formula che risolve il rapporto tra verità e libertà, tra teoresi e prassi, tra oggettività
e soggettività, tra intelletto e volontà: Fare la verità nell’amore.
La politica: l’amicizia civile
Il primo livello di pluralismo è quello della società civile, nazionale ed internazionale, dove gli uomini possono convivere stabilendo comuni principi
pratici di azione nel proclamare la Carta dei diritti dell’uomo, a livello internazionale e nel formulare la Carta Costituzionale per il proprio paese. Nel discorso inaugurale alla “Seconda conferenza internazionale dell’Unesco”, a
Città del Messico il 6 novembre 1947 sul tema Le vie della pace14, indica come
sia possibile trovare un accordo pratico tra culture diverse, rispettando la identità di ciascuna. Maritain a proposito della Carta dei diritti dell’uomo, osserva:
“si tratta di una ideologia pratica basilare e di principi fondamentali di azione
implicitamente riconosciuti oggi, in modo vitale se non programmatico, dalla
coscienza dei popoli liberi” per cui “si costituisce inavvertitamente grosso modo una specie di residuo comune, una specie di legge comune non scritta, al
punto di convergenza pratica di ideologie teoriche e di tradizioni spirituali
completamente diverse. Per capire questo fatto, basta fare una distinzione fra
giustificazioni razionali, non separabili dal dinamismo spirituale di una dottrina filosofica o di una fede religiosa, e le conclusioni pratiche che, giustificate
variamente per ciascuno, sono per tutti principi di azione analogicamente comuni. Io sono pienamente convinto che il mio modo di giustificare la fede nei
diritti dell’uomo e nell’ideale di libertà, uguaglianza, fraternità, è l’unico solidamente basato in verità. Questo non mi impedisce di essere d’accordo su queste conclusioni pratiche con coloro che sono convinti che il loro modo di giustificazione, completamente diverso dal mio, e perfino opposto al mio, nel suo
dinamismo teorico, è parimenti l’unico e basato in verità” (IX, 569-70).
Maritain a proposito della Carta Costituzionale, che ciascun popolo deve
darsi per regolare i rapporti interpersonali, di un credo civile di libertà, perché
13
La pensée de saint Paul, New York, Ed. de la Maison Française, 1941 (VII 427+615) Il
pensiero di san Paolo, Roma, Borla, 1964.
14 La voie de la paix (IX 143-164). Riportato anche in Le philosophe dans la cité, Paris,
Alsatia, 1960 (XI 9+130); tr. it. Il filosofo nella società, Brescia, Morcelliana, 1976.
281
la democrazia ha bisogno di una fede comune, profana non religiosa, nei valori di giustizia e libertà. Scrive nel 1945 “Se si vuole trionfare delle tendenze totalitarie e realizzare la speranza dei popoli, la democrazia di domani dovrà avere una sua propria concezione dell’uomo e della società, una sua propria filosofia e una propria fede, che la metteranno in grado di educare il popolo alla libertà e di difendere se stessa contro coloro che vorrebbero servirsi delle libertà
democratiche per distruggere le libertà e i diritti umani. Nessuna società può vivere senza una comune ispirazione fondamentale e senza una comune fede fondamentale”, (IX, 422). Ma, ancora una volta si tratta di una filosofia pratica,
non di una teoria, non di una ideologia. Infatti un accordo pratico non esige una
uguale fondazione teoretica. “Bisogna distinguere tra l’ideologia con i suoi
principi teorici da una parte e i principi pratici che regolano il comportamento
dall’altra. Pertanto pur credendo ambedue alla carta democratica, un cristiano
ed un razionalista ne daranno tuttavia giustificazioni teoriche incompatibili tra
di loro, giustificazioni in cui la loro anima, il loro spirito e il loro sangue saranno impegnati, e perciò motivo di reciproca lotta. E Dio mi guardi bene dal
dire che non importa sapere quale dei due abbia ragione! Questo importa essenzialmente! Rimane che sulla pratica affermazione di questa carta si trovano
d’accordo e possono, formulare insieme comuni principi di azione” (IX, 159).
Questa intesa presuppone il riconoscimento dello Stato di diritto e il rispetto
della legalità sia da parte dei cittadini che da parte dei governanti. Bisogna quindi educare i giovani a rispettare le leggi e le istituzioni malgrado le persone che
le gestiscono, ed esigere dai governanti che non abbiano ad impersonare le loro
funzioni amministrative, quasi fossero una gestione privata e non pubblica. Salvo il diritto alla obiezione di coscienza, perché è la verità che ci libera.
Lo Stato davanti alle diverse ideologie filosofiche e alle diverse confessioni religiose dei suoi cittadini dev’essere neutrale, non può essere neutro, negando il valore delle ideologie presenti, sovrapponendo a queste una sua idea
di Stato, che farebbe del relativismo un’ideologia di Stato, come il laicismo radicale propone.
La cultura: la giustizia intellettuale
A livello culturale il pluralismo pone una problematica più complessa, perché non riguarda più la vita pratica della società, ma coinvolge direttamente i
valori cognitivi, la verità in quanto tale, e di conseguenza l’educazione della
persona. Maritain, affronta il tema del pluralismo culturale, soprattutto a livello filosofico, in una conferenza tenuta nel 1946 all’Angelicum di Roma Cooperazione filosofica e giustizia intellettuale15.
15 Coopération philosophique et justice intellectuelle in «Revue Thomiste» XLVI n. 3-4,
settembre-dicembre 1946, pp. 434-456. Riportato anche in Raisons et raison, Paris, Egloff,
1948 (IX 239-438); tr. it. Ragione e ragioni, Milano, Vita e Pensiero, 1982.
282
A livello scientifico e filosofico c’è una incompatibilità tra sistemi di idee,
ma può esserci comprensione tra gli operatori culturali e professionali. Fermo
restando che ogni sistema filosofico è tenuto alla sua coerenza interna, Maritain si preoccupa di individuare la possibilità di collaborazione tra filosofi, per
cui si può parlare di un pluralismo del filosofare non delle filosofie, in quanto “le dottrine filosofiche non sono esseri umani, è la loro verità intrinseca che
costituisce il loro diritto all’esistenza intelligibile, riconosciuta dallo spirito nel
regno immateriale del pensiero” (IX, 274). Ci deve essere una comprensione
reciproca e uno scambio dottrinale tra i filosofi nella giustizia intellettuale, che
permette a ciascuno di riconoscere le ragioni altrui senza rinunciare alla proprie. Maritain precisa la possibilità di questa cooperazione tra filosofi dall’interno e dall’esterno di ogni sistema filosofico. “A situarsi nella prospettiva della struttura interna, concettuale e logica dei sistemi filosofici, ogni sistema
può trarre profitto dagli altri per il proprio bene, smembrandoli, nutrendosene
e assimilando ciò che da essi può prendere per sé” (IX, 273). Al di là di questa utilizzazione egocentrica, è possibile un vera comprensione dell’altro sistema, e quindi un rispetto per il filosofare altrui, quando si situi questo sistema,
diverso dal nostro, “in una sfera esterna, e sforzandosi di rendergli giustizia,
con una comprensione che senza dubbio non può fare scomparire gli antagonismi di base, ma che può creare una sorta di reale, benché imperfetta cooperazione, nella misura in cui ogni sistema riesce: 1) a riconoscere per l’altro un
diritto all’esistenza, 2) a trarre profitto dall’altro, non utilizzando in proprio
parti del suo organismo, ma portando, grazie all’altro, la propria vita e i propri
principi nella loro specificità a un più alto grado di perfezione” (IX, 273). Si
tratta di assumere due atteggiamenti di giustizia intellettuale “l’uno è la considerazione dell’intuizione centrale che sta al cuore di ogni grande dottrina filosofica, anche se male concettualizzata; l’altro è la considerazione del posto o
della collocazione che ogni sistema potrebbe accordare, secondo le proprie
coordinate di riferimento, all’altro sistema, come posto che questo spetterebbe
legittimamente di occupare nel mondo del pensiero” (IX, 287). Come si può
constatare è questione riguardante la storia della filosofia, non si può far dire
all’altro quanto l’altro non intendeva dire, e bisogna riconoscere all’altro il posto che gli spetta.
A livello di insegnamento16 questa giustizia intellettuale riguarda i rapporti tra il docente e l’alunno, che non dev’essere indottrinato ma guidato per la
sua strada a trovare la verità, anche se l’insegnante è più responsabile verso la
verità che non verso la libertà del discente, che pure deve rispettare. Non si
tratta di insegnare a sapere la verità, acquisendo nozionisticamente quanto l’umanità ha maturato nella sua storia, come può avvenire in una scuola autoritaria e dogmatica, ma nemmeno di insegnare a cercare la verità, come capita in
una scuola libertaria e agnostica, che abbandona l’individuo a se stesso, bensì
16 Cfr. Professore, a cura di P. Viotto in Enciclopedia Pedagogica, Brescia, La Scuola,
1989-1994, vol. V, 9442-9446.
283
si tratta di insegnare a trovare la verità, guidando ogni alunno a confrontarsi
con la realtà nei suoi multiformi aspetti per coglierne tutta la sua intelligibilità.
Nelle istituzioni scolastiche non bisogna insegnare una filosofia, potrebbe portare al dogmatismo, o solo la storia della filosofia, potrebbe portare al relativismo, ma educare a filosofare, affinché ciascun alunno trovi la verità. Nella
concretezza dei programmi scolastici a livello liceale si potrebbero articolare,
sulla base di una comune storia della filosofia, lavori di gruppo impegnati nello studio delle opere dei classici della filosofia.
4. La religione: la carità fraterna
Il pluralismo a livello teologico è più complesso dei precedenti, perché
coinvolge direttamente le convinzioni profonde delle persone. Maritain si confronta con questa tematica nella relazione Chi è il mio prossimo17 che nel 1939
tiene alla Sorbona al IV “Congresso Mondiale dei Credenti per la Difesa della Persona umana”.
Anche a questo livello Maritain elabora e propone una correlazione tra verità e libertà, che da una parte afferma con vigore la verità di fede testimoniata dalla Chiesa – non può esserci tolleranza dogmatica –, e dall’altra riconosce
la libertà di coscienza nella quale si radica l’atto di fede – non può esserci con
conversione forzata. Pertanto non si può giudicare la buona fede altrui, mentre
si rende testimonianza della propria. “Ogni credente sa bene che tutti gli uomini saranno giudicati, lui e gli altri. E né l’uno, né l’altro è Dio per giudicare
l’altro. E ciò che ciascuno è davanti a Dio, né l’uno, né l’altro lo sanno. Qui il
nolite judicare del Vangelo s’impone con tutta la sua forza. Noi possiamo giudicare le idee, le verità e gli errori, le azioni buone e cattive, il carattere, il temperamento e le disposizioni interiori così come appaiono. Ma non possiamo assolutamente giudicare il segreto dei cuori, quel centro inaccessibile nel quale
giorno dopo giorno la persona intesse il proprio destino e i suoi legami con
Dio. Su questo piano, al cospetto degli altri, non c’è che una cosa da fare: avere fiducia in Dio” (XI, 89). Maritain giustifica teoreticamente questo atteggiamento. Ogni uomo è una sostanza individuale, una sussistenza, una soggettività originale e irripetibile, che non può essere oggettivizzata. Maritain precisa che solo Dio può capirmi e rendermi giustizia, perché “Egli mi conosce interamente in quanto soggetto. Sono, presente a lui nella mia stessa soggettività;
egli non ha bisogno di oggettivarmi per conoscermi” (IX, 79). Gli uomini, tutti gli altri soggetti, mi conoscono solo come oggetto ed ignorano la mia soggettività; non possono con la loro intelligenza penetrare nella mia inesauribile
profondità.
17 Qui
est mon prochain? in «La Vie intellectuelle», LXV, n. 2, l. agosto 1939, pp. 165-191.
Riportato in Principes d’une politique humaniste, New York, Éditions de la Maison Française,
1944 (VIII 177-355); tr. it. Per una politica più umana, Brescia, Morcelliana, 1968.
284
Ma la salvezza per il credente, dipende dalla sua fede in Dio che si è manifestato oggettivamente nella storia, il Verbo si è incarnato, e ha lasciato alla sua
Chiesa il potere di sciogliere e legare le coscienze degli uomini, che ha redento dal male18. Nella storia l’unità della Chiesa del Cristo si è frantumata, molti popoli non sono ancora stati raggiunti dalla evangelizzazione, si verifica un
pluralismo di esperienze e di confessioni religiose davanti al quale il fedele deve porsi con consapevolezza e responsabilità, perché il dialogo ecumenico e il
dialogo inter-religioso non comportano la confusione delle diverse fedi, ma solo il rispetto della buona fede altrui. Anzi Maritain preferisce parlare di amicizia ecumenica, di carità fraterna, anziché di dialogo ecumenico, e precisa che
l’amicizia di carità “non è sovradogmatica, ma è sovrasoggettiva; non ci fa
uscire dalla nostra fede, ci fa uscire da noi stessi, ci aiuta a purificare la nostra
fede dalla ganga di egoismo e di soggettività in cui tendiamo istintivamente a
rinchiuderla.” (VII, 290). Rifiuta le posizioni di Lessing, ed osserva che l’affermazione del filosofo tedesco“ «Amo chi non ha la mia fede, perché, dopo
tutto, non sono sicuro che la mia fede sia quella vera» ridurrebbe in tal modo
la fede ad una semplice eredità storica e la porrebbe sotto il sigillo dell’agnosticismo e del relativismo. Un simile errore, per chi crede di avere inteso la parola di Dio, equivarrebbe a mettere l’uomo al di sopra di Dio” (XI, 90).
Maritain diffida di ogni forma di universalismo religioso che si realizzi a
danno della fede o che imponga una fede: “Diffido di un’amicizia tra credenti di varia denominazione che non sia accompagnata da una specie di dolore
dell’anima, che sia facile e confortevole; così come diffido di un universalismo
che pretenda di riunire in un unico servizio di Dio tutti i modi di credenza e
tutti i modi di adorazione. Ma io diffido anche, e per contro, di un’amicizia tra
credenti della stessa denominazione, perché in tal caso la carità sarebbe riservata ai correligionari; diffido di un universalismo che limiti l’amore ai soli fratelli nella fede; di un proselitismo che ami l’altro solo per convertirlo e nella
sola misura in cui è convertibile” (XI, 91). Ad Assisi gli uomini di tutte le religioni, invitati da Giovanni Paolo II, non sono andati a pregare insieme, erano
insieme per pregare, e ciascuno ha pregato secondo la sua fede. Tra i credenti
in Dio si può fare un tratto di strada insieme, e certamente ci si ritroverà tutti
nella beatitudine eterna, ma quando si tratta di definire la propria fede non si
può rinunciare alla verità. “Il vero universalismo è giusto il contrario dell’indifferenza, è l’universalismo dell’amore, presuppone il senso della verità e le
certezze della fede” (XI, 94).
Il rispetto della coscienza altrui non si costituisce nella rinuncia alla propria
coscienza e responsabilità personale. “Non si tratta di arrestarsi ad un non so
quale minimo comune di verità, né di investire le convinzioni di ciascuno di
una specie di indice dubitativo comune. Al contrario, un’amicizia ecumenica
18 De l’Eglise du Christ. La personne de l’église et son personnel, Paris, Desclée de
Brouwer, 1970 ( XIII 9+411); tr. it. La Chiesa del Cristo. La persona della Chiesa e il suo personale, Brescia, Morcelliana, 1971.
285
ed inter-religiosa diventa concepibile supponendo che ciascuno si muova con
il massimo di fedeltà alla luce che gli è mostrata” (XI, 87-8). Maritain, convinto che ci si possa salvare solo in Cristo, sa che ci si salva nel Cristo conosciuto, come nel Cristo sconosciuto, ci si salva nel Cristo venuto, come ci si
salvava nel Cristo venturo. Anche gli ebrei che rifiutano la venuta del Cristo e
attendono ancora il Salvatore si salvano nella loro buona fede19. L’affermazione del cattolicesimo secondo la quale non c’è salvezza fuori della Chiesa va intesa nel senso che non ci può essere salvezza fuori dalla verità, perché appartengono invisibilmente alla Chiesa tutti gli uomini di buona volontà.
Ma oltre a questa dimensione soggettiva del pluralismo religioso, Maritain,
considerando il travaglio della storia20, che procede nell’ambivalenza del buon
grano seminato tra la zizzania, si mette alla ricerca anche di una dimensione
oggettiva per cui riconosce che elementi di Chiesa possono trovarsi virtualmente presenti, fuori dei confini visibili della Chiesa, nelle religioni monoteiste, pre-elementi di Chiesa possono trovarsi nel brahmanesimo e ombre di
Chiesa nel buddismo; elementi, pre-elementi, ombre di Chiesa oggettivamente insufficienti alla salvezza, ma che non impediscono al credente in buona fede di essere salvato dal sangue redentore di Cristo, perché è la verità che salva: “Il vento soffia dove vuole, ma non sai di dove viene e dove va: così è di
chiunque è nato dallo Spirito” (Giovanni III, 8). In questo universalismo cristiano, che si estende oltre i confini amministrativi della Chiesa, si ritrovano
tutti i credenti in buona fede.
5. Educare nel pluralismo
In una società complessa i giovani non possono essere abbandonati al caleidoscopio sempre cangiante delle opinioni e delle immagini ma hanno bisogno e diritto di essere educati alla verità, secondo le convinzioni delle loro famiglie e dei gruppi di appartenenza. Non si tratta quindi di educare al pluralismo, come sembrano implicitamente alludere gli ultimi Orientamenti della
Scuola Materna equiparando non solo tutte le religioni ma anche la non religione. Bisogna, invece, educare nel pluralismo rispettando le convinzioni di
tutti con un pluralismo delle istituzioni, garantendo ad ogni gruppo la possibilità di avere la sua scuola nella prospettiva di una omogeneità di convinzioni e
con un pluralismo nelle istituzioni, quando mancando questa omogeneità si rimanda ai lavori di gruppo gli approfondimenti di un comune programma. Questo pluralismo esige una giustizia proporzionale, perché una scuola non può rinunciare alla sua identità per la presenza di minoranze di altra tradizione cul19 Le mystère d’Israel, Paris, Desclée de Brouwer, 1965 (XII 429+660), ed. it. Il mistero di
Israele, Brescia, Morcelliana, 1964.
20 On the Philsophy of History, New York, Scribner’s Sons, 1957 ( X 603-761); tr. it. Per
una filosofia della storia, Brescia, Morcelliana, 1957.
286
turale, che pure deve rispettare. Inoltre occorre tenere conto dell’età evolutiva
e del grado di maturazione intellettuale dell’educando, perché altro è il pluralismo a livello di scuola liceale e altro è il pluralismo a livello di scuola.
Questo problema si presenta non solo a riguardo della religione, ma anche
a riguardo della politica, perché la democrazia ha un suo credo civile di libertà,
e lo Stato democratico ha il diritto di richiedere ai cittadini la conoscenza ed il
rispetto della Carta costituzionale.
Maritain ha studiato questo problema in una lunga nota Il problema della
scuola pubblica in Francia21, un testo del 1946 per l’edizione francese di Education at the Crossroads Maritain si domanda come sia possibile insegnare
queste norme comuni rispettando le diverse convinzioni ideologiche dei cittadini. Lo Stato non può scegliere la verità per il cittadino, pertanto le motivazioni interiori con cui ciascun cittadino aderisce alla democrazia riguardano le
sue convinzioni personali e non l’ordine pubblico. Lo Stato può richiedere a
tutte le Scuole l’insegnamento della carta democratica, ma deve rispettare le
diverse convinzioni ideologiche, garantendo omogeneità di convinzioni morali tra discenti e docenti, raggruppati per classi, o all’interno della stessa classe
per gruppi, nelle stesse scuole pubbliche. “Se si ammette la distinzione tra Stato, forma organizzata e autoritaria della vita comune, e Nazione, insieme storico concreto e complesso di realtà viventi, si può dire che la Scuola pubblica,
piuttosto che essere una scuola di Stato e una scuola spersonalizzata, deve essere la scuola della Nazione, una e diversificata come quest’ultíma” (VII, 74).
Una scuola neutra è impossibile, perché per insegnare occorre pure incominciare con qualche informazione, “Il principio che essa invoca è in realtà la negazione di ogni educazione, perché il fanciullo circa tutto ciò gli viene insegnato deve incominciare col credere prima di giudicare da se stesso” (VII,
982). In educazione una completa indeterminazione è impossibile. Solo chi conosce può rinunciare alle sue conoscenze; l’ignorante non può essere libero.
L’educazione non è indeterminazione, ma libera determinazione in relazione
alle verità che si vengono a conoscere, comprese le verità religiose.
Anche in questa società secolarizzata ed in questa cultura consumistica, derivata dalla crisi del sapere, iniziata con Cartesio22, il bisogno di conoscere la
verità nella sua oggettività si fa sentire, perché è una connotazione dell’essere
umano. Giovanni Paolo II nella Veritatis splendor lo mette in evidenza e sulla
verità costruisce la morale e il diritto che debbono regolare la formazione dell’uomo, e citando ripetutamente s.Tommaso sottolinea come sia proprio la verità a radicarsi in Dio, fondamento dell’essere e della legge. “Nelle profondità
del cuore dell’uomo permane sempre la nostalgia della verità assoluta e la sete di giungere alla pienezza della sua conoscenza. Nè è prova eloquente l’ine21
Education at the Crossroads, New Haven, Yale University Press, 1943, (VII 963-988) tr.
it. in Per una filosofia dell’educazione, Brescia, La Scuola, 2001 pp. 307-340.
22 Le songe de Descartes, Paris, Buchet Chastel, 1932. Cfr. P. Viotto, Maritain legge Cartesio in «Vita e Pensiero» LXXIX, n. 10, ottobre 1996, pp. 669-682.
287
sausta ricerca dell’uomo in ogni campo e in ogni settore. Lo prova ancora più
la sua ricerca sul senso della vita”23. Ne consegue per ogni uomo il bisogno
psicologico e l’obbligo morale di cercare la verità e di adeguarvi il proprio
comportamento ed in particolare per l’educatore la responsabilità verso la verità, nell’aiutare l’educando a trovarla. Il Vangelo avvisa ripetutamente che il
peccato contro la luce, contro lo Spirito Santo, è l’unico peccato che non può
essere perdonato, perché l’uomo in questo caso rifiuta la verità che è venuto a
conoscere o rinuncia a cercare la verità, che è lo scopo stesso della vita24.
23
24
288
Giovanni Paolo II, Veritatis splendor, Bologna, EDB, 1993, p. 4.
Cfr. Marco III, 28- 29; Luca XII, 10; Matteo XII, 31-32.
Per educare alla democrazia… il messaggio di Augusto
Baroni
SIRA SERENELLA MACCHIETTI
In una stagione di grande fervore democratico ed educativo, quando nel nostro Paese, dopo la seconda guerra mondiale, iniziarono a delinearsi i vari
orientamenti politici e si imponeva il problema dell’educazione alla democrazia dei cittadini della “nuova Italia”, la Casa Editrice Studium (Roma) pubblicò
un breve saggio di Augusto Baroni, intitolato Per la formazione sociale civile
e politica della gioventù ed introdotto da Giuseppe Lazzati.
Si tratta di un saggio poco noto, attento alle idee di democrazia e di democratizzazione, di socialità e di socializzazione, che erano le uniche idee condivise in vista della ricostruzione della scuola italiana1, e alla fondazione pedagogica dell’educazione sociale, civile e politica.
Significativa è, a questo proposito, l’Introduzione di questo saggio in cui
Giuseppe Lazzati denunciava l’abuso che si faceva del termine “democrazia”
e il rischio di coglierne soltanto aspetti parziali.
Pertanto precisava che l’affermazione della democrazia “implica, come
fondamento e come méta ad un tempo, lo sviluppo pieno della persona umana”, il cui valore “è sostanza di democrazia”. Quindi “se la personalità, come
sviluppo armonico della persona in tutti i suoi aspetti, è frutto di educazione,
appare subito evidente che l’azione educativa è fondamento di ‘democrazia’”2.
È però indispensabile che l’azione educativa tenga presenti le esigenze della persona, infatti l’educazione chiede all’educatore la “conoscenza dell’essere e della natura dell’uomo nella sua origine, nel suo fine, nei suoi rapporti”
cioè “di un essere che trova in un altro da sé la propria ragione d’essere, cioè
in Dio...”3.
1 A. Agazzi,
Le prospettive della riforma democratica e di quella pedagogica della scuola
italiana dopo il 1945, in Aa.Vv., Questioni di storia della scuola italiana (1945-1985) (a cura
di S.S. Macchietti), Quaderni dell’Istituto di Pedagogia-Facoltà di Magistero-Università degli
Studi di Siena con sede ad Arezzo, Città di Castello (PG), Tibergraph, 1986, pag. 15.
2 Cfr. G. Lazzati, Introduzione, in A. Baroni, Per la formazione sociale civile e politica della gioventù, Roma, Editrice Studium, 1948, pagg. 5-6.
3 Ibidem, pagg. 5-6.
289
In questa prospettiva si collocava anche Augusto Baroni che affidava all’educazione e quindi alla scuola il compito di impegnarsi per tradurre “i principi di democrazia” “in vita delle coscienze con una germinazione rapida e copiosa”. Questo compito “urgente e incalzante” era reso difficile “da orientamenti passionali, da ribollimenti fanatici, da feroci egoismi”, che agitavano “il
complesso sociale”, oscuravano “le coscienze”, deprimevano “gli spiriti più
elevati”, avvilivano “i volenterosi” e inducevano “una rassegnata inerzia nei
mediocri”.
Occorreva quindi “far fronte alla tempesta” e sforzarsi “di risalire la corrente: giacchè l’inizio della salvezza” non poteva venire che dalle coscienze,
dalle energie personali, dall’intelligenza e dall’amore pedagogico degli educatori 4.
Pertanto nel suo breve saggio Augusto Baroni si rivolgeva agli insegnanti,
invitandoli a vedere che cosa si poteva e si doveva fare “per promuovere la formazione civile e sociale dei giovani”, affermando che non era “più il caso di
agire ognuno in privato, timidamente, isolatamente, quasi vergognandosi di
rompere con qualche parola di saggezza e di cordialità l’aridità usuale e la falsariga obbligatoria dell’insegnamento”.
Gli insegnanti di buona volontà infatti erano chiamati a conoscersi, a unirsi, a collaborare, a portare il “peso decisivo della loro esperienza e del loro
pensiero nell’ordinamento e nella riforma di tutta la scuola”.
A suo avviso, bisognava superare i limiti della concezione statalistica della
scuola italiana, la quale, nel corso del Novecento, era diventata “burocratica”,
“autoritaria e livellatrice” e quindi aveva determinato negli insegnanti “una dissuetudine da libere e concrete osservazioni ed esperienze che sole possono dare sostanza vitale alle riforme, prepararle con l’esempio mostrandone il valore
nei fatti”.
Rivolgendosi ai colleghi docenti, il Nostro così si esprimeva: “noi dobbiamo domandare l’ordinato e onesto esercizio del diritto di dimostrare in concreto, traducendo in opere e in fatti organici, solidi e fecondi, il valore delle
idee e delle tendenze nuove”, “dentro e fuori la scuola di Stato; noi dobbiamo
volere che la meditata esperienza della scuola influisca sugli ordinamenti e sulle riforme per quel che obiettivamente dimostra di valere. L’assenza o la penuria di questa viva linfa radicale ha reso finora debole ed anemica la scuola italiana; è l’humus della scuola che va dissodato e fertilizzato”, ricordando sempre che “quando si sia animati dalla santa inquietudine del meglio e dalla coscienza e dalla volontà di essere umili e sinceri operai del Vangelo, si deve confidare che ai propri sforzi Dio darà un frutto di bene”5.
4
Cfr. A. Baroni, Per la formazione sociale civile e politica della gioventù, cit., pag. 9 e
segg.
5
290
Ibidem, pagg. 10-11-12.
“Facciamoci dunque coraggio”
All’invito ad “unirsi”, ad affermare i diritti (e i doveri) degli insegnanti e
dell’educazione, Augusto Baroni fa seguire una rapida riflessione sulle innovazioni e sulle riforme scolastiche in atto in Europa e negli altri continenti e
sulla lezione delle scuole nuove le quali, “in un primo momento”, apparivano
come esempi “ammirabili e invidiabili” perché “dotate abbondantemente di
materiali e di mezzi…”.
Di fronte alla ricchezza di risorse di cui queste scuole disponevano, secondo il Nostro, poteva essere utile ricordare “un’acuta distinzione del Maritain tra
mezzi ricchi e mezzi poveri”. “I mezzi ricchi sono quelli materiali, che possono alimentare complesse organizzazioni tecniche e svilupparsi in grande ampiezza e facilità di successi rapidi e uniformi; i mezzi poveri sono quelli spirituali, che non costano a chi li usa se non poco o molto di vita generosamente
donato, che si fondano sull’azione personale o su organizzazioni ridotte al minimo indispensabile, ma compensano la loro apparente tenuità, per cui sono disprezzati dalla gente superficiale, con una forza penetrativa, germinativa e talora anche esplosiva assolutamente ignota ai mezzi ricchi”6.
Facendo tesoro di questa lezione, Augusto Baroni rilevava che agli insegnanti italiani i mezzi ricchi erano “preclusi” ma affermava che ognuno, “in
quanto uomo, ha a sua disposizione i mezzi poveri nella misura della sua energia e volontà personale”.
Pertanto, rivolgendosi ai colleghi, così scriveva: “facciamoci dunque coraggio, pensando tra l’altro che il Cristianesimo ha conquistato il mondo con
l’uso esclusivo di mezzi poveri”.
Per testimoniare questo coraggio giovava riflettere sul significato dell’educazione, la quale non è fondata soltanto sui principi ma “nella vita e nella riflessione morale”. Pertanto per educare è indispensabile il confronto con i “casi della vita”, per i quali il giovane (specialmente tra i 15 e i 18 anni) ha “fortissimi interessi etici concreti, in connessione col predominio degli interessi
sociali caratteristico a quella età”. All’educatore dunque spetta il compito
“d’indurlo, partendo da questa base psicologica, a considerare con spirito
equanime”, i fatti “di cui è attore o testimone, per interpretarli rettamente e ricavarne l’indicazione del proprio dovere”.
All’insegnante il Nostro chiede di ispirarsi a quella che il Förster chiama
“scienza della vita”, la quale costituisce la base dell’educazione civica, il cui
compito è quello di educare il giovane a “sentirsi sempre al servizio d’alcunché di più alto che non sia il palpabile vantaggio personale”.
In questa prospettiva assume un particolare significato il “dovere quotidiano, umile, usuale” in cui “si afferma principalmente la giustizia e la bontà
dell’uomo”, tanto che “sarebbe in grave errore chi pensasse di poterne fare
6
Cfr. A. Baroni, Per la formazione sociale civile e politica della gioventù, cit., pagg. 12-
13.
291
di meno perché si dedica ad opere più vaste e più ardue d’apostolato sociale” 7.
Nella scuola quindi “l’esigenza cristiana della interiorità, della semplicità,
della sincerità” può essere “pienamente soddisfatta” e l’iniziativa degli educatori può esprimersi “liberamente e originalmente” se sorretta dalla “convinzione di lavorare e di costruire nel concreto dello spirito e della vita”.
Inoltre un “lavoro di educazione civile…” “può svilupparsi nella sostanza
dell’insegnamento (comunicazione d’idee e di riflessioni, … osservazioni e discussioni giovanili, interpretazione della tradizione culturale, storica e civile e
dei valori sociali, ecc.)” e “realizzarsi nella vita stessa della scuola considerata come società, come corpo organico”, in cui “il giovane può attivamente apprendere, esercitare e perfezionare lo spirito” della cittadinanza e può “prudentemente essere ‘avviato’ all’autogoverno della classe”.
Tuttavia, a questo proposito, è opportuno ricordare che “gli adolescenti, anche nelle condizioni migliori, non hanno piena capacità di governo, appunto
perché stanno imparando a governarsi”. Pertanto, se è doveroso superare l’errore fatto nel passato, in cui i giovani non erano “addestrati” né molto né poco
“a questa bisogna”, è altrettanto doveroso chiamare gli alunni “alla partecipazione attiva all’ordine scolastico” con gradualità, “in misura via via corrispondente allo sviluppo del loro senso di responsabilità”, per iniziarli concretamente a capire che “ogni funzione sociale non crea un privilegio ma un dovere”.
Per conseguire questo traguardo può giovare, specialmente nelle “classi superiori”, promuovere e facilitare la formazione di “gruppi particolari”… “a
scopi di libera collaborazione”, tenendo presente che “l’incentivo a una ordinata cooperazione di lavoro va dato… da motivi intellettuali e morali”.
Per la realizzazione di questo impegno “si richiedono tentativi pazienti e
costanti”, ad esempio può essere utile “incoraggiare gli alunni ad esprimere le
loro osservazioni e i loro desideri sull’andamento della scuola e delle lezioni,
e farne oggetto di discussione serena, tenendo conto di quanto vi è di giusto e
ragionevole”8.
Inoltre è sempre opportuno che l’insegnante avvicini gli studenti, li solleciti ad incontrarsi, ad esprimersi, a dar vita a libere riunioni, per far sì che essi
non si sentano “più soggetti a imposizioni disciplinari” e aprano “l’animo loro”, ascoltino “senza diffidenza e senza prevenzione”.
Questi incontri e questi confronti potrebbero consentire una reciproca comprensione e la costruzione di una “scuola cordiale”… “fatta insieme in una comune consapevolezza e lealtà”, in cui potrebbe essere superato il tradizionale
antagonismo “studente-insegnante” e potrebbero attivarsi processi di cooperazione, di collaborazione e di corresponsabilità, commisurati ai reali scopi educativi dell’istituzione scolastica, in cui l’adolescente ha il dovere e il diritto di
apprendere “a governarsi”.
7
8
292
Ibidem, pag. 16 e segg.
Ibidem, pag. 20 e segg.
Agli incontri “informali”, extrascolastici degli alunni con gli insegnanti Augusto Baroni chiede anche di non ostacolare anzi di incoraggiare la discussione su idee politiche, purché il docente sappia proporsi come “un arbitro fermo
e prudente, in nome di una imparziale verità, distinguendo e facendo distinguere ciò che è certo da ciò che è discutibile, la verità dall’opinione”. Ciò può
infatti rivelarsi molto utile per “sviluppare nelle coscienze giovanili il culto
della verità e l’avversione al mito ideologico, la coerenza morale e il ripudio di
ogni fanatismo di parte, la lealtà e il coraggio nella ragionevole affermazione
del proprio pensiero e insieme la capacità di discutere…, di comprendere e di
correggere” quello “avverso” e di riconoscere il proprio errore e la ragione dell’altro9.
Dalla patria all’umanità
Alla formazione del cittadino, secondo Augusto Baroni, concorrono tutti
gli insegnamenti scolastici, quello della storia, tuttavia, può particolarmente
configurarsi come “un insegnamento di vita e di moralità” se si attua cercando di penetrare i fatti “nel loro significato”. Questo insegnamento, inoltre, può
consentire di promuovere la comprensione “di ciò che cade e di ciò che resta,
di ciò che è sterile e di ciò che è veramente fruttifero nei secoli” e di “come la
libertà civile e politica è ben altra cosa che la licenza di fare ciò che più piace”. Essa infatti va considerata “nella sua dignità vera, nel suo vero valore”,
per cui per conseguirla “occorre la buona volontà di tutti, con l’esercizio di alcune virtù fondamentali, quali l’onestà, la lealtà, la laboriosità, la generosità,
la prontezza al sacrificio, il coraggio nella ferma difesa del giusto”10.
La realizzazione dell’“educazione civile e politica”, infine, non può prescindere dalla ricomprensione dell’idea di Patria, che presuppone la distinzione “tra patria reale e ideologie-patriottiche”.
È infatti indispensabile superare le idee nazionaliste e tendere “a una federazione di popoli che, per il bene e la pace comune, richiami a sé una parte dei
poteri sovrani attualmente esercitati dagli stati nazionali: ma anche così, entro
il più vasto organismo, la patria reale resterà, naturale e necessario completamento della persona umana, mezzo di collaborazione e non di divisione dei
popoli”.
Però, giova anche non dimenticare che “la natura degli uomini, spirituale
ma limitata, se può abbracciare concettualmente l’umanità in universale, non
può intimamente, esistenzialmente, viverla e realizzarla se non entro rapporti
concreti, organici e perciò limitati: uno dei quali è la patria”. Essa è “la città,
la regione, ma soprattutto quel più ampio gruppo nazionale, la cui organicità si
esprime oltre i dialetti, nell’unità della lingua, cioè in un modo originale e co9
Ibidem, pag. 30.
Ibidem, pag. 29.
10
293
mune di sentire, di pensare e di vivere e costruire la civiltà”. “Di questa patria
reale la scuola non può non essere la voce”11, che reclama l’attenzione sulla civiltà e quindi sulla tradizione dei padri in modo che essa divenga “germe di vita ancor più ampia e piena” dei giovani e che essi sentano di appartenere organicamente ad una comunità “e non vadano a cercare lontano ciò che è vicino, espansione della loro stessa persona, in cui si raccoglie tutto ciò che l’uomo può avere di più caro sulla terra”.
L’appartenenza ad una comunità è un diritto della persona e tutto ciò che
“giustamente si difende nella patria non è un’astrazione divinizzata, ma il diritto della persona” (la quale è “il valore assoluto”) ad una libera patria.
La comprensione di questi principi può favorire il rispetto di tutte le patrie
in cui gli uomini possono “vivere, organicamente, affettuosamente, personalmente, la civiltà”, la quale “nella sua essenza non è italiana o francese o inglese ma è universalmente umana”. Pertanto “quella intimità e adesione piena con
cui viviamo la nostra civiltà non deve chiudersi in se stessa ma usarsi a penetrare per analogia, a sentire e anche ad assimilare ciò che hanno di più profondamente umano, cioè di più prezioso, le civiltà altrui”12.
La conquista di questa capacità di apertura, di rispetto e di comprensione
dei valori delle varie civiltà che gli uomini hanno creato, prima ancora di essere un traguardo dell’educazione civile è un traguardo dell’educazione morale, che ha “risonanza” e “responsabilità sociale: sicchè la distinzione corrente
tra vita privata e vita pubblica è quanto mai esteriore ed empirica. Anzi, proprio per un ampliamento della vita privata giungiamo alla pubblica” e “per
questa gradualità la moralità può farsi strada nella vita pubblica, assai meglio
che con la posizione assoluta di precetti moralistici che riescono poi inapplicabili o rovinosi se trovano una società impreparata ad accettarli”13.
Collocarsi in questa prospettiva per Augusto Baroni significa consentire alla scuola di superare “ogni residuo di ozioso dilettantismo estetico o di erudizione fine a se stessa, per porsi in concreto servizio della vita”14.
A questo proposito è opportuno che la scuola si impegni perché i giovani
“valutino e apprezzino sempre meglio il significato e la dignità del lavoro” e
comprendano che “la stessa attività intellettuale, quando si esercita non come
gioco o come svago dilettantistico, ma con intenzione produttiva, è lavoro ed
implica uno sforzo organico….”15.
Questo “lavoro” conferisce allo studente una dignità sociale e, anche se egli
è sempre un lavoratore apprendista, “quando si riconosce e si sente della stessa stoffa di qualunque altro lavoratore, è posto nella migliore condizione per
comprendere anche l’operaio del lavoro manuale” e per “affratellarsi” con lui.
11
Ibidem, pag. 24.
Ibidem, pag. 25.
13 Ibidem, pag. 27.
14 Ibidem, pag. 31.
15 Ibidem, pag. 30 e segg.
12
294
In merito a questa apertura nei confronti dei nostri simili, Augusto Baroni
invita a tenere presente che l’educazione civica dei giovani non può non prevedere l’attenzione per quella che egli chiama “l’assistenza sociale” e che potremmo più propriamente definire “solidarietà”.
Essa infatti postula la comprensione, l’affetto, la volontà di aiutare chi soffre… e soprattutto la capacità di amare. A questo proposito il pedagogista bolognese così si esprime: “esistono numerose e svariate opere di assistenza sociale che possono ricavare utilità da una partecipazione giovanile; cerchiamo
di farle conoscere ai nostri alunni”, invogliandoli “a farvi un tirocinio d’esperienza sociale”. “Questa esperienza, però, riuscirà piena e veramente educativa solo a patto che il giovane vi sia guidato a volere veramente, cioè cordialmente, accostarsi al popolo, cercandovi non la categoria, non la massa ma le
persone, ma i fratelli”, portandovi “l’amicizia cristiana”.
Questo impegno dello studente quindi potrà consentirgli di superare lo spirito di privilegio di fronte al quale l’insegnante “deve reagire con un’opera positiva in senso contrario”16, per “avviare la mente giovanile alla comprensione
del vero valore e della vera dignità della persona umana” e per “far capire e
sentire che il riconoscimento dei veri valori implica una serie di doveri ben precisi: … ‘doveri di giustizia e doveri di carità’”…
E per concludere “un messaggio” ed alcune considerazioni
Le riflessioni e le proposte espresse da Augusto Baroni permettono di rilevare che il vigore pedagogico del discorso trova la sua base nel messaggio finale, il quale può essere riassunto, con queste parole…: “affermiamo il primato dello spirito”.
In una cultura in cui “la salvezza si attende dall’economia o rivoluzionaria
o capistalistica, ma pur sempre economia, e soltanto da essa”, “la scuola è la
sola istituzione che, dopo la Chiesa, possa dire una parola ed esercitare una
azione educativa per convincere le nuove generazioni che l’uomo non vive di
solo pane; che i fattori economici, nella loro estrema gravità ed importanza,
non sono però tutta la vita e vogliono essere, nella sintesi umana, integrati e
guidati dai valori più alti, supereconomici, dello spirito”.
Questa fiducia nelle potenzialità umanizzanti della scuola e nella persona,
insieme alle sollecitazioni ad unirsi, a farsi protagonisti della ricostruzione dell’Italia, rivolte agli insegnanti, costituiscono una testimonianza della passione
educativa, della coscienza pedagogica, della fedeltà al Vangelo, della volontà
di democrazia e della chiarezza di idee sul rapporto tra etica pubblica e “virtù
privata” di Augusto Baroni e conferiscono un particolare significato al suo magistero, con il quale possiamo proficuamente confrontarsi anche oggi, per accogliere il messaggio di speranza che ci consegna e per ricomprendere il valo16
Ibidem, pag. 33 e segg.
295
re della “comune umanità” e dell’educazione alla cittadinanza, fondata su
quella “morale”. A questa educazione, che è vista anche come “educazione alla solidarietà”, al volontariato, ad impegnarsi per il bene comune, si chiede di
promuovere in tutti gli uomini la capacità di collocarsi nella prospettiva dell’interculturalità, di formare “un’unica famiglia umana” e di rispettare e coltivare il “primato dello spirito”.
296
Lo straniero e l’educazione. Spunti per una riflessione
storiografica
CARMELA COVATO
La complessità e, insieme, la necessità dell’incontro con lo straniero inteso
come ’altro’ rispetto alle culture dominanti nei diversi contesti sociali – un tema che ha assunto nella contemporaneità dimensioni assolutamente inedite rispetto al passato1 – ha percorso fin dall’antichità la storia della filosofia e dell’educazione.
“L’esodo biblico – è stato osservato di recente da Paolo Carile –, così come
l’Odissea o l’Eneide, testimoniano di arcaici eventi in cui l’ospitalità ed il suo
contrario hanno un ruolo rilevante. Quegli antichi testi danno la dimensione
della longue durée di pratiche sociali, connaturate con la storia dell’umanità,
che i vari popoli, le varie culture regolano con forme proprie”2.
Se si pensa al mondo antico e, in particolare, alla realtà ellenica sono molte le testimonianze letterarie – fra le quali soprattutto gli scritti di Erodoto –
che documentano l’esistenza di una strategia difensiva nei confronti dello
‘straniero’ sia che esso fosse soltanto xenos (straniero greco appartenente ad
un’altra polis), sia che esso fosse bàrbaros (straniero non greco).
“In un celebre frammento di Pindaro poi – come ha notato Mauro Moggi-,
troviamo sottolineato il motivo della giustizia: i furti di vacche e di cavalle
compiuti da Eracle ai danni di Gerione e di Diomede, sono addotti, infatti, come esempi di violenza giusta, di una violenza che trova la sua giustificazione
nel nomos, ‘re dei mortali e degli immortali’. In questo contesto il nomos qualunque sia il suo significato preciso, rappresenta comunque un insieme di costumi, di norme e di istituzioni, un sistema di valori riconosciuti come tali e ac1 Per gli aspetti pedagogici della tematica della convivenza civile, si veda, fra i contributi
più recenti, L. Corradini, W. Fornasa, S. Poli (a cura di), Educazione alla convivenza civile.
Educare, istruire, formare nella scuola italiana, Roma, Armando, 2003. Cfr. anche, F. Susi (a
cura di), L’interculturalità possibile. L’inserimento scolastico degli stranieri, Roma, Anicia,
1995.
2 P. Carile, L’ospitalità. Un problema antropologico, un topos letterario, in V. Pompejano
(a cura di), L’ospitalità e le rappresentazioni dell’Altro nell’Europa moderna e contemporanea, Roma, Artemide, 2004, p. 19.
297
cettati nell’ambito del mondo greco, all’interno del quale dovrebbe rimanere
circoscritta la loro validità”3.
La scoperta dell’‘altro’ ha assunto però significati nuovi e di grande rilievo
soprattutto a partire dall’età moderna, in seguito alle conseguenze culturali,
politiche ed antropologiche legate alla scoperta di nuovi mondi.
Come ha osservato opportunamente Luciano Griozzi, in seguito alla scoperta dell’America “si diffuse in Europa una letteratura concernente i viaggi,
le esplorazioni, gli stanziamenti coloniali degli Europei nel Nuovo Mondo, in
seno alla quale la descrizione, l’interpretazione e la valutazione dei modi di vita degli indigeni americani assunse sempre maggiore rilievo, fino a esorbitare
dall’ambito della letteratura strettamente geografica per diventare oggetto di
più vasti interessi e di discussioni nella cultura europea”4.
Nel capitolo XXVI dei Saggi (1580) dedicato all’Educazione dei fanciulli5,
già Michel de Montaigne – nel denunciare i limiti di un’educazione pedante
presente sia nell’impostazione scolastica sia in alcune forme degenerative di
quella umanistica che avrebbero favorito il diffondersi di una formazione solo
libresca e priva, dunque, di contenuti reali – delineava un nuovo ideale educativo fondato sulla centralità pedagogica dello studio della storia, della filosofia, sull’importanza dello sviluppo dell’attività fisica e, soprattutto, sulla funzione formativa del viaggio6.
Se il tema del viaggio di formazione è stato a lungo presente nella storia
delle idee pedagogiche, è soprattutto con Montaigne che esso assume il ruolo
di ‘luogo’ privilegiato dell’acquisizione di conoscenze che consentano di uscire dalla ristrettezza del proprio ambiente d’origine.
“Dal frequentare la gente – osservava infatti Montaigne – si ricava una meravigliosa chiarezza per giudicare gli uomini. Noi siamo tutti ristretti e rattrappiti in noi stessi, e non vediamo più in là del nostro naso. Domandarono a Socrate di dove fosse. Non rispose: ‘Di Atene’, ma ‘Del mondo’. Lui, che aveva
la fantasia più ampia e più vasta, abbracciava l’universo come la sua città,
estendeva le sue conoscenze, la sua compagnia e i suoi affetti a tutto il genere
umano, non come noi che guardiamo soltanto sotto di noi […]. Questo gran
mondo, che alcuni moltiplicano ancora come specie sotto un genere, è lo specchio in cui dobbiamo guardare per conoscerci sotto il verso giusto”7.
3
M. Moggi, Straniero due volte: il barbaro e il mondo greco, in M. Bettini ( a cura di), Lo
straniero: ovvero l’identità culturale a confronto, Roma-Bari, Laterza, 1992, pp. 55-56. Cfr.
anche T. Todorov, Noi e gli altri, tr. it., Torino, Einadi, 1991.
4 G. Gliozzi, Differenze e uguaglianza nella cultura europea moderna, Napoli, Vivarium,
1993, p.25.
5 M. de Montaigne, Saggi, tr. it., Milano, Adelphi, 1996, p. 207.
6 Su questo tema, cfr. P. Fasano, Letteratura e viaggio Roma-Bari, Laterza, 1999; M. T.
Moscato, Il viaggio come metafora pedagogica, Brescia, La Scuola, 1999 e S. Barsotti, E
cammina, cammina, cammina… Fiaba, viaggio e metafora formativa, Pisa, Edizioni ETS,
2004.
7 Ibidem, pp. 207-208.
298
L’esigenza di superare nell’esperienza educativa il pericolo di un angusto
localismo viene riproposta molto più tardi da J.-J. Rousseau, in modo particolare nel quinto Libro de L’Emilio o dell’educazione (1762)8, nel contesto della
sua critica del progresso, della società delle apparenze e di ogni forma di educazione basata su di un metodo intellettualistico e libresco. Anche per Rousseau, che ripropone così rielaborandoli motivi legati al pensiero di Montaigne,
il rapporto fra l’ambiente in cui si vive e la scena del mondo è mediato proprio
dal viaggio, inteso come esperienza di formazione.
“Ci si domanda – afferma Rousseau – se sia utile che i giovani viaggino e
si discute molto su questo tema….”9. Si tratta, a suo avviso, di una domanda
che non può che prevedere una risposta affermativa.
“Un parigino crede di conoscere gli uomini, ma non conosce che i francesi;
nella sua città, sempre affollata di stranieri, guarda ogni straniero come se fosse un fenomeno straordinario che non ha nulla di comparabile con il resto dell’universo. Bisogna aver visto da vicino i borghesi di questa grande città, bisogna essere vissuti con loro per capire come, con tanto spirito si possa essere tanto stupidi. La cosa più sorprendente è che ciascuno di loro ha letto forse dieci
volte la descrizione del paese, un abitante del quale deve poi tanto stupirlo”10.
L’esperienza del viaggio, tuttavia, per divenire un evento formativo, nel senso di consentire agli uomini di aprire gli occhi alla scena del mondo e dell’alterità, non può essere vissuta in modo spontaneistico e casuale, ma implica la
capacità di “saper viaggiare”.
“Per osservare – sostiene, infatti, Rousseau – è necessario avere occhi e saperli volgere verso l’oggetto che si vuole conoscere. Vi sono molte persone che
imparano dai viaggi ancora meno che dai libri”11. Soprattutto i francesi, che
pure viaggiano molto per motivi di interesse, sembrano a Rousseau incapaci di
capire la diversità.
Nel delineare così la sua idea di viaggio, Rousseau intende contrapporsi radicalmente – nel contesto della sua serrata polemica contro la corruzione della società parigina – all’usanza aristocratica del gran tour, ancora molto diffusa nei ceti aristocratici d’allora come momento di iniziazione per il giovane che
si avviava alla vita adulta o come rito successivo al matrimonio, ma sempre
concepito come occasione mondana e di svago.
A partire dall’Ottocento, con il consolidamento degli Stati nazionali, il tema del rapporto con l’altro acquista, nella storia dell’educazione, una forte valenza politica all’interno del processo di unificazione culturale delle nazioni
spesso gestito in forme accentratici (com’è evidente, ad esempio, nel caso dell’Italia post-unitaria) e, dunque, tramite il tentativo di imporre – attraverso la
scuola e l’educazione – una tradizione egemone ed elitaria (nel caso della
8
J.-J. Rousseau, Emilio o dell’educazione, tr. it., Firenze, La Nuova Italia, 1996.
Ibidem, p. 559.
10 Ibidem, p. 562.
11 Ibidem, p. 563.
9
299
realtà italiana si pensi al ruolo svolto dalla tradizione piemontese) alle culture,
ai costumi ed alla lingua presenti nelle singole realtà locali. È così che il tema
dell’alterità o ella diversità si compone all’interno di una stessa realtà nazionale e culturale.
A questo proposito, si deve forse ad Antonio Gramsci, una delle riflessioni
più stimolanti sul rapporto fra culture egemoni e culture locali, lingue nazionali e dialetti.
“Se è vero che ogni linguaggio – sostiene Gramsci nei Quaderni del carcere – contiene gli elementi di una concezione del mondo e di una cultura, sarà
anche vero che dal linguaggio di ognuno si può giudicare la maggiore o minore complessità della sua concezione del mondo. Chi parla solo il dialetto o
comprende la lingua nazionale in gradi diversi, partecipa necessariamente di
una intuizione del mondo più o meno ristretta o provinciale, fossilizzata, anacronistica in confronto delle grandi correnti di pensiero che dominano la scena mondiale. I suoi interessi saranno ristretti, più o meno corporativi ed economicistici, non universali. Se non è sempre possibile imparare più lingue straniere per mettersi in contato con vite culturali diverse, occorre imparare bene
almeno la lingua nazionale. Una grande cultura può tradursi nella lingua di
un’altra grande cultura, cioè una grande lingua nazionale storicamente ricca e
complessa, può tradurre qualsiasi altra cultura, cioè essere un’espressione
mondiale. Ma un dialetto non può fare la stessa cosa”12.
Contro una visione del folclore – inteso come modo di pensare dei ceti subalterni – egli pone così anche sul piano pedagogico la questione di una appropriazione democratica, da parte di tutti, delle forme di sapere più elevate in
ogni tempo.
Da un punto di vista pedagogico, come si è detto, il viaggio di formazione
ha rappresentato la modalità più emblematica di scoperta della scena mondiale e della diversità rispetto al localismo del proprio ambiente di appartenenza,
riservata tuttavia ai rampolli dei più elevati ceti aristocratici. Più di recente, alla luce dei processi di globalizzazione, il tema ha dovuto confrontarsi con i
processi di elaborazione di una nuova cultura planetaria, rispetto alla quale
l’indagine storica ha offerto contributi assai stimolanti recenti sulla base di un
serrato confronto con l’antropologia culturale e alla luce delle rivoluzionarie
trasformazioni ermeneutiche ed epistemologiche del ’900. Nuovi paradigmi
storiografici hanno consentito di ripensare la storia stessa come un viaggio dal
presente al passato, da una civiltà ad altre civiltà, e perfino – come ha sottolineato Carlo Ginzburg – dalla realtà del giorno a quelle della notte, dal mondo
razionale alla sfera immaginaria e subliminale dell’umanità13.
Si tratta naturalmente di una visione della storia assai diversa da quella impostazione diplomatico-militare e legittimatrice dei ceti dirigenti che si era af12 A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, pp. 730-731.
13 Cfr. C. Ginzburg, Storia notturna, Torino, Einaudi, 1989.
300
fermata nella tradizione occidentale già a partire dal XIX secolo, contestualmente al consolidarsi dei nuovi stati nazionale e dell’idea stessa di nazione,
sintesi verticistica di molte realtà locali e differenze sociali.
Per la verità, come si è detto, nel clima culturale del secolo dei Lumi, la necessità di ripensare la categoria di memoria storica era già stata segnalata da J.J. Rousseau, nel contesto della critica dei modelli culturali veicolati da quella
che definiva la ‘società delle apparenze’:
“In generale la storia è carente in quanto si limita a registrare i fatti più sensibili ed evidenti, quelli che possono essere fissati con nomi, luoghi, date; ma
le cause lente e progressive di questi fatti, quelle cioè che non possono essere
assegnate allo stesso modo, restano sempre sconosciute. Si fa spesso risalire ad
una battaglia vinta o persa l’origine di una rivoluzione che anche prima di
quella battaglia era da considerarsi inevitabile. La guerra si limita a manifestare avvenimenti che gli storici sanno vedere raramente […]”14.
Allo stesso tempo, altre considerazioni rinviano anche ad interessanti riflessioni sull’importanza, di così grande attualità, dell’approccio biografico:
“A tutte queste riflessioni – osserva, infatti, Rousseau – aggiungete anche che
la storia mostra di più le azioni che gli uomini, in quanto non coglie questi ultimi che in alcuni momenti privilegiati, nei loro abiti di parata; ci mostra soltanto l’uomo pubblico, che si è preparato ad essere visto. Non lo segue in casa, nel suo studio, in famiglia, in mezzo agli amici; lo descrive solo quando recita e, di conseguenza. Preferire che lo studio del cuore umano cominciasse
con le biografie[…]”15. Così come già per Montaigne, Plutarco è il modello
indicato come riferimento principale. È certo tuttavia che, nel secolo successivo, l’indagine storica seguirà – come si è detto- ben altre vie.
Tornando poi alla storiografia contemporanea, è possibile senza dubbio affermare che sono molti gli spunti riconducibili ad un’analisi della relazione
con la diversità. In un suo recente lavoro dedicato al rapporto fra storia, retorica e prova, Carlo Ginzburg ha osservato, a questo proposito, che è la riflessione stessa sulla metodologia della storia a porre interrogativi significativi sul
rapporto fra le culture, perché chiama inevitabilmente in causa il tema del confronto con costumi e consuetudini diverse dalla cultura di appartenenza ponendo la questione della loro accettazione o meno.
Nel sottolineare che, per molti secoli, all’interno di una tradizione legata ad
una realtà europea impegnata nell’espansione coloniale, si è data per scontata
la necessità di imporre le nostre leggi alle culture “altre”, Ginzburg sostiene
che nella società contemporanea “in un’età in cui la convivenza, spesso conflittuale fra culture diverse si è spostata nelle metropoli, si sente affermare da
più parti che i principi cognitivi e morali delle varie culture sarebbero imparagonabili. Questo atteggiamento, che in teoria dovrebbe sfociare in una tolleranza illimitata, scaturisce paradossalmente da premesse simili a quelle a cui
14
15
J.-J. Rousseau, Emilio…, cit., p. 281.
Ibidem.
301
s’ispira il principio che fa coincidere la giustizia con il diritto del più forte. Potremmo parlare di relativismo scettico in due versioni, una mite nelle intenzioni, anche se non sempre nelle conseguenze) e l’altra feroce. Queste posizioni
politicamente così distanti, se non addirittura opposte, hanno una radice intellettuale comune, un’idea di retorica non solo estranea, ma contrapposta alla
prova. La sua genesi, remota e prossima,, getta una luce inattesa sulle discussioni odierne sul rapporto fra le culture”16.
A sua volta Philippe Ariès, in una prefazione del 1983 al volume Les temps de l’histoire, nel definire la sua posizione allo stesso tempo critica, ma attenta nei confronti dell’impianto marxista e nel prendere le distanze dalle posizioni storiografiche più tradizionali affermava, che le società conservatrici rifiutano il confronto con la diversità sostenendo le loro tradizioni come le uniche valide. “Lo storicismo permise loro di viaggiare nel passato pur restando
sorde a questo appello alla diversità delle tradizioni, appello inquieto verso una
solidarietà che avrebbe tuttavia mantenuto queste differenze […]. Così si poteva spiegare il mondo senza uscire dal proprio recinto. Era comodo e utile: come i racconti di avventure letti in pantofole, accanto al fuoco”17.
Del problema, Michel Foucault dà un’interpretazione radicale quando afferma che il potere della normalizzazione “spinge all’omologazione, ma dall’altra individualizza permettendo di individuare gli scarti, di determinare i livelli, di fissare le specialità e di rendere le differenze utili, adattandole le une
alle altre. Si comprende come il potere della norma funzioni facilmente all’interno di un sistema di eguaglianza formale perché all’interno di una omogeneità che è la regola, esso introduce come imperativo utile e risultato della misurazione, tutto lo spettro delle differenze individuali”18.
In questo contesto va sottolineato che proprio il rapporto fra città e campagna, fra realtà considerate universali e specifici microcosmi, si presenta in forma antinomica nella storia della società e dell’educazione.
A partire da una tradizione secolare (che va da Campanella a Moro o Bacone fino al secolo dei Lumi) nel corso dell’Ottocento l’insistita svalutazione
del mondo contadino e la marginalizzazione o ghettizzazione della realtà rurale non appare legata al solo al diffondersi di una nuova civiltà industriale, ma
si configura anche come uno degli elementi costitutivi del formarsi delle identità nazionali e del consenso perseguito dai ceti dirigenti. Esemplare, a questo
proposito, è lo studio di Ernest Weber sulla modernizzazione della Francia rurale fra Otto e Novecento19.
All’interno della sua indagine, la figura del contadino, in una società in fase di industrializzazione crescente, assume quasi i caratteri di uno straniero au16
C. Ginzburg, Rapporti di forza. Storia, retorica e prova, Torino, Feltrinelli, 2000, pp. 14-
15.
17
Ph. Aries, Il tempo della storia, tr. it, Roma-Bari, Latreza, 1987, p. 38.
M. Foucault, Sorvegliare e punire, tr. it., Torino, Einaudi, 1973, p. 202.
19 E. Weber, Da contadini a francesi. La modernizzazione della Francia rurale (18701914), tr. it., Bologna. Il Mulino, 1989.
18
302
toctono, la cui presenza rappresenta una minaccia per i ceti dirigenti in ascesa
e contribuisce, indirettamente ad occultarne le contraddizioni.
Anche nella realtà italiana post-unitaria, l’antinomia fra città e campagna è
stata rappresentata in molti casi come un’alternativa fra progresso e restaurazione. Si è così configurata una conflittualità sociale e culturale che ha avuto
significative ripercussioni sul piano pedagogico ed educativo.
In particolare, nella storia della scuola post-unitaria, la distinzione fra il
mondo della scuola urbana e il mondo della scuola rurale è apparso sempre rigidamente regolato da una tensione ordinatrice fortemente gerarchica. A titolo
esemplificativo, si può citare la diversa formazione delle maestre di città da
quella delle maestre di campagna e la preoccupazione, espressa in molte relazioni degli Ispettori ministeriali che le giovani provenienti da realtà rurali, trasferitesi di necessità in città per frequentare una scuola normale, tornassero poi
nei loro paesi senza ‘intatte’ e esenti dal pericoloso contagio derivante dal contatto con la realtà urbana, i suoi miti e le sue mode.
Il Ministro della Pubblica Istruzione, Ruggero Borghi, nel 1875, in una circolare sui sussidi agli alunni e alle alunne delle scuole normali, raccomanda
che la vita dei convitti dove sarebbero state ospitate le future maestre provenienti dalla campagna fosse tenuta entro ambiti modesti abituando le ragazza
a compiere gli uffici riservati alla donna in una famiglia di modesta condizione. “Per accertarmi di questo – dichiarava con molta determinazione – io ordinerò delle straordinarie e improvvise ispezioni durante il venturo anno scolastico, perché sono persuaso che un convitto ordinato in altra maniera invoglierebbe la giovanetta alla vita cittadina e renderebbe vano così lo scopo di questa mia lettera, che è quella di procacciare maestre che si acconcino di buon
grado a starsene quiete nei poveri luoghi di campagna”20.
Sia all’interno di una stessa realtà nazionale sia nel confronto fra le culture appartenenti a diverse tradizioni e paesi, la diversità ha assunto tratti inquietanti nella misura in cui ha configurato una minaccia nei confronti degli assetti simbolici
destinati a veicolare esclusivamente le attese dei ceti dominanti e la necessità di
mantenere immutato l’ordine simbolico veicolato dagli assetti sociali21.
L’indagine storica sulla diversità può offrire molti spunti alla riflessione attuale sulle dimensioni pedagogiche e culturali connesse ai processi di convivenza civile e ai temi della nuova cittadinanza, ai quali Luciano Corradini si è
particolarmente dedicato e continua a impegnarsi, sul piano scientifico ed educativo, con grande attenzione e ricerca costante.
20 Circolare 6 luglio 1875, n. 442, Sussidi agli alunni e alle alunne delle scuole normali,
“Bollettino della pubblica istruzione”, 1874-1875, p. 658. Ho trattato questo tema in I luoghi
delle differenze: città e campagna, in A. Semeraro (a cura di), Due secoli di storia dell’educazione in Italia (XIX-XX), Firenze, La Nuova Italia, 2000, pp.203-230.
21 Su questo tema, E. Morin, A. B. Kern, Terra, patria, Milano, Raffaello Cortina Editore,
1994; T. Todorov, La vita comune, Milano, Nuova Pratiche editrice, 1995; L. Gallino, Globalizzazione e libertà, Milano, Mondadori, 2002.
303
L’educazione alla convivenza civile in Giorgio La Pira
MARCO PAOLINO
Per comprendere appieno quale significato rivesta per La Pira il concetto di
convivenza civile, dobbiamo partire da due premesse di ordine teoretico: d’altronde, è egli stesso ad indicarci questo metodo di analisi, quando attribuisce
ad una specifica visione dell’uomo e del suo rapporto con la società la funzione direttiva (in maniera esplicita o implicita) dell’intero ordine sociale1. La prima premessa è la consapevolezza che il Novecento ha visto manifestarsi una
crisi profonda della società contemporanea, e che tale crisi non è stata (come
superficialmente si è creduto) il frutto di dinamiche economiche o di fattori di
politica internazionale: abbiamo assistito in realtà alla crisi delle “norme finali […] la crisi odierna prima di essere crisi tecnica è crisi metafisica”2. La seconda premessa è l’adesione di La Pira alla concezione tomista del rapporto
grazia-natura: la grazia non annulla la natura, ma la perfeziona3. Alla luce di
entrambe queste premesse possiamo cogliere il valore che La Pira assegna alla convivenza civile, la quale ha una radice a tempo stesso trascendente ed immanente4, radice che corrisponde a quello che è un bisogno innato dell’uomo,
a quella che è la “naturale socialità dell’uomo”5, perché è dalla società che
l’uomo trae ciò che gli consente di sviluppare la propria personalità. In effetti,
il rapporto fra l’uomo e la società è biunivoco:
“la società si sviluppa per effetto dello sviluppo ordinato di ciascuno dei suoi
membri; per converso la società si impoverisce quando nello sviluppo dei suoi
membri avviene un impoverimento interiore od una crescita disordinata ed antisociale”6.
1 G. La Pira, Architettura di uno stato democratico, in Premesse della politica, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1978, pp. 187-241, in part. p. 200.
2 G. La Pira, Premesse della politica, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1945, p. 7.
3 G. La Pira, Il valore della persona umana, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1955, p.
44. Sull’adesione di La Pira alla filosofia tomista, cfr. V. Possenti, La Pira tra storia e profezia, Genova-Milano, Marietti 1820, 2004, pp. 24-56.
4 “[…] possano presto i popoli sentirsi quali essi – nel disegno di Dio e nella loro stessa
realtà – sono”: G. La Pira, La nostra vocazione sociale, Roma, AVE, 1964, p. 15.
5 “[…] tesi umana e cristiana: l’uomo è intrinsecamente sociale”: G. La Pira, Premesse della politica, cit., pp. 9-10.
6 G. La Pira, Premesse della politica, cit., p. 11.
304
La convivenza civile per La Pira si basa sulla fraternità e sull’amicizia, che
è sinonimo di disinteresse, distacco dai beni materiali, disponibilità alle esigenze dell’altro. Questa concezione della società (che trae anch’essa la propria
ispirazione da S. Tommaso) è stata in gran parte oscurata negli ultimi due secoli sia dalle ideologie collettivistiche sia dall’individualismo meramente economicista7: gli uomini non sono monadi, separati fra loro dall’utilitarismo e
dall’egoismo, bensì “membri di collettività umane fra loro organicamente collegate”, mentre le ideologie che si sono sviluppate a partire dal Settecento hanno distrutto la “struttura organica” ed hanno inevitabilmente atomizzato gli individui8. Da parte sua La Pira professa la propria adesione alla concezione pluralista e personalista, la quale presuppone l’esistenza di comunità che sono l’espressione dei diritti del singolo e che hanno il compito di tutelare le manifestazioni della personalità umana: la famiglia, la Chiesa, il sindacato, l’ordine
professionale, la comunità territoriale, la nazione, la comunità internazionale9.
La rottura della “struttura organica” della società ha prodotto quei tragici risultati che hanno segnato la storia del ventesimo secolo. Da una parte si sono
affermati i regimi totalitari, nei quali tutto ruota intorno alla volontà del capo
e lo stato è al servizio del partito unico: questa visione dello Stato (che per La
Pira trova in Hegel la propria origine) ha portato l’Europa alla rovina. Si tratta
di una vera e propria “concezione demoniaca”, frutto del male che agisce nella storia dell’umanità. Tale concezione ha avuto nel Novecento una nuova teorizzazione ad opera di Carl Schmitt, nei confronti del quale La Pira non manca di manifestare il suo profondo dissenso10.
Dall’altra parte si è affermato il capitalismo basato sull’idea della “libertà
individuale ad ogni costo”, idea che altro non è se non una violazione ed una
deviazione del cristianesimo, perché prescinde del tutto dal sistema di valori
evangelici11 e rischia di produrre – in nome del principio assoluto della maggioranza – la “tirannia”12. Si assiste in questo punto ad un interessante rovesciamento della critica liberale del principio di maggioranza: per La Pira la libertà del singolo che non abbia alcun limite può condurre alla negazione della stessa libertà individuale.
Educazione alla convivenza civile significa per La Pira promozione della
7
G. La Pira, La nostra vocazione sociale, cit., p. 56.
G. La Pira, Premesse della politica, cit., pp. XIII-XIV.
9 G. La Pira, Architettura di uno stato democratico, cit., p. 216.
10 G. La Pira, Premesse della politica, cit., p. 58; questa concezione “infirma la libertà perché ne disconosce l’intima originalità; rende schiavo l’uomo assoggettandolo senza riserve alla tirannia di un capo; produce inevitabilmente, con la sua ineluttabile tendenza all’oppressione dei popoli, la guerra e la rovina” (ivi, p. 60).
11 G. La Pira, Premesse della politica, cit., p. 85; su questo aspetto del pensiero di La Pira si veda P. Roggi, I cattolici e la piena occupazione. L’attesa della povera gente di Giorgio
La Pira, Milano, Giuffrè, 2004, pp. 48-53.
12 “[…] la libertà individuale ad ogni costo e senza limite porta al dogma del valore assoluto della norma votata dalla maggioranza”: G. La Pira, Premesse della politica, cit., p. 87.
8
305
persona: in questa luce il diritto viene vissuto secondo le modalità della solidarietà e della dedizione al prossimo, la carità illumina gli uomini sul significato profondo della convivenza civile13, il concetto di comunità ha un grande
rilievo sia come modello organizzativo della società sia come stile di vita14. La
convivenza civile acquista al contempo una dimensione globale e fa sentire i
suoi effetti sullo scenario internazionale: La Pira esprime l’augurio che i popoli possano sentirsi
“membri solidali di una comune famiglia che abita una comune casa: la terra;
che ha un comune Padre Celeste, che ha un comune fratello: Cristo Redentore;
che ha una comune lampada che la guida e la illumina lungo il corso millenario
della sua grande avventura storica: la Chiesa”15.
A loro volta, i rapporti economici devono puntare all’eliminazione “della
fame, della miseria, della disoccupazione, dell’ignoranza, della malattia”16 ed
all’innalzamento del valore della persona umana17, in modo da consentire di
dar vita alla convivenza pacifica dei popoli ed alla loro unificazione su base
mondiale18, andando così oltre le divisioni che hanno avuto origine dalle ideologie nazionaliste e dai conflitti economici. Perciò La Pira può affermare che
la
“missione e vocazione storica dei popoli può essere concepita in senso umano e cristiano (cioè missione di verità, di giustizia, di fraternità e, quindi, di rispetto e di elevazione dell’uomo) e può essere concepita in senso antiumano e pagano: allora diventa missione di prepotenza (volontà di potenza!) all’interno e all’estero”19.
13
G. La Pira, La nostra vocazione sociale, cit., p. 30: “[…] la carità è per essenza costruttrice di una società nuova”.
14 “La società appare […] come una grande comunità umana nella quale tutti producono
[il] bene comune destinato ad essere proporzionatamente distribuito a ciascuno”: G. La Pira,
La nostra vocazione sociale, cit., p. 110.
15 G. La Pira, La nostra vocazione sociale, cit., p. 15.
16 G. La Pira, Il senso della storia nella Mater et Magistra, in La Mater et Magistra e i problemi attuali del mondo, Roma, Città Nuova Editrice, 1962, pp. 71-76, in part. pp. 74-75.
17 “Il Signore, datore di ogni grazia, conceda ai popoli di tutta la terra la pace, la luce, il
lavoro, la libertà: conceda, cioè, i doni più preziosi che fanno ricca la personalità umana”: La
Pira a Otto Nuschke, 10 agosto 1956, pubblicata in M. Paolino, Intellettuali e politica nel periodo della “Guerra Fredda”: i rapporti culturali fra il Partito Comunista Italiano e la Repubblica Democratica Tedesca, in Partiti e movimenti politici fra Otto e Novecento. Studi in
onore di Luigi Lotti, a cura di S. Rogari, Firenze, Centro Editoriale Toscano, 2004, tomo II, pp.
999-1018, in part. p. 1011.
18 Su questi aspetti si veda G. La Pira, Unità, disarmo e pace, Firenze, Cultura Editrice,
1971.
19 G. La Pira, Premesse della politica, cit., p. 60.
306
Da ciò ne consegue che una saggia ed accorta attività politica non deve mai
perdere di vista il suo obiettivo, vale a dire quello di riuscire a subordinare
sempre l’interesse nazionale al valore universale dell’umanità20.
L’autentica democrazia richiede per La Pira una “orientazione fraterna della società”, la quale a sua volta non può non essere fondata sulla concezione
cristiana “del valore dell’uomo singolo”21. Le trasformazioni sociali devono
seguire il
“metodo della legalità nel quale consiste l’essenza della democrazia e nel quale si affermano le garanzie della persona e lo spirito della umana fraternità. L’influenza del cristianesimo sulla vita politica deve esprimersi […] nel ‘lievitare’ nel
senso della fraternità e del rispetto della persona tutti i contrasti, anche i più duri
della vita associata”22.
Dalla consapevolezza della “orientazione fraterna della società” nasce l’esigenza che ciascuno contribuisca alla costruzione della società ed operi attivamente per eliminare le disuguaglianze, in modo che “la fraternità […] sia
trascritta nelle istituzioni sociali, diventi fraternità di fatto”23. È questo per La
Pira un punto di fondamentale importanza: occorre educare la persona affinché sia in grado di intervenire nella vita pubblica24 e sappia così mettere a frutto i talenti donati a ciascuno dal Signore, perché tutti dovranno un giorno rendere conto a Dio delle proprie azioni:
“quando Cristo mi giudicherà io so di certo che Egli mi farà questa domanda
unica (nella quale tutte le altre sono conglobate): – Come hai moltiplicato, a favore dei tuoi fratelli, i talenti privati e pubblici che ti ho affidato? Cosa hai fatto
per sradicare dalla società […] la miseria dei tuoi fratelli e, quindi, la disoccupazione che ne è la causa fondamentale?”25.
Possiamo a questo punte trarre alcune conclusioni. In primo luogo, dobbiamo sottolineare come la concezione lapiriana della società abbia una solida base etica: senza un riferimento “forte” ai valori non è possibile avere la convivenza tra gli uomini. In secondo luogo, La Pira insiste sul fatto che lo scopo
della società debba essere quello di permettere all’uomo di poter vivere in pienezza non solo la dimensione esistenziale (vale a dire il benessere fisico ed
20
G. La Pira, Gerarchia dei valori sociali, in Principi (Giugno-Luglio 1939), Torino,
Giappichelli, 2001, pp. 126-135, in part. pp. 134-135.
21 G. La Pira, Premesse della politica, cit., p. 87.
22 G. La Pira, Premesse della politica, cit., p. 173.
23 G. La Pira, La nostra vocazione sociale, cit., p. 54.
24 “[Il cristianesimo] si inserisce nelle cose e negli eventi della vita individuale e collettiva; insegue dappertutto l’azione umana; penetra nella famiglia, nella società, nel lavoro, nel
diritto, nella cultura”: G. La Pira, Premesse della politica, cit., p. 18.
25 G. La Pira, L’attesa della povera gente, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1977, p. 72.
307
economico, l’arricchimento culturale, il godimento artistico), ma anche e soprattutto la dimensione trascendente (vale a dire la contemplazione di Dio26):
“[…] il valore finale dell’uomo non sta nell’azione sociale, non sta nell’azione economica, e neanche nell’azione culturale: sta in un colloquio interiore, tutto personale, che egli stabilisce, sotto l’impulso della grazia, con Dio”27.
Il riferimento alla dimensione trascendente non nega la laicità della realtà
terrena, ma fornisce ad essa un significato ed un valore più profondo: compito dello stato è di preservare e tutelare la dimensione sociale dell’uomo, con la
consapevolezza però che la società non ha un valore assoluto bensì strumentale28, perché deve essere in grado di garantire le condizioni per “l’espansione
della vita interiore della persona”29. Perciò per la Pira lo Stato non può essere
“laico”, cioè agnostico, ma deve ispirarsi al principio della libertà di coscienza e saper al contempo preservare l’intrinseco ed essenziale orientamento religioso della persona umana30. Alla luce di ciò si comprende anche perché La
Pira sia contrario al comunismo, il quale a suo dire minaccia di “sradicare Dio
dal cuore dei popoli e delle nazioni”31.
La società deve quindi porsi al servizio della persona, la quale resta il fine
ultimo dell’azione sociale: il primato della persona porta La Pira sia a combattere ogni forma di totalitarismo organicista sia a vedere come il prevalere degli
egoismi individuali sul bene comune e la disattenzione dell’organismo statuale
per il valore della persona producano inevitabilmente la disgregazione sociale32.
Ma quale giudizio possiamo alla fine formulare sulla concezione lapiriana
della convivenza civile? Dobbiamo dire che solo ad uno sguardo superficiale
questa prospettiva poteva sembrare frutto dell’ingenuità ed era lo stesso La Pira a chiarire cosa egli intendesse per ingenuità:
“Alcuni ci chiamano ingenui […] noi accettiamo questa qualifica […] anche
gli ingenui hanno un posto – e non di poco rilievo! – nella storia degli uomini!
Perché questa ingenuità consiste […] nel credere che la Grazia di Dio è capace di
compiere le cose che non è capace di compiere la furbizia degli uomini!”33.
26 G. La Pira, Prefazione a R. E. De Sanctis, Difesa dell’uomo, Roma, Editrice Studium,
1949, pp. 9-16, in part. p. 12.
27 G. La Pira, Il valore della persona umana, cit., p. 210.
28 “[…] la società è fatta per l’uomo – cioè per agevolare all’uomo l’itinerario che lo conduce a Dio – e non viceversa”: G. La Pira, Premesse della politica, cit., p. 153.
29 G. La Pira, Premesse della politica, cit., p. 179.
30 G. La Pira, Architettura di uno stato democratico, cit., pp. 229-230.
31 La Pira a Nasser, 21 agosto 1957, in G. Merli-E. Sparisci, La Pira a Gronchi. Lettere
di speranza e di fede 1952-1964, Pisa, Giardini, 1995, pp. 151-154, in part. p. 152.
32 G. La Pira, Il valore della persona umana, cit., p. 206.
33 G. La Pira, Il sentiero della speranza, in Introduzione ai convegni per la pace e la civiltà cristiana. Lettere ai responsabili dei popoli, Firenze, La Badia, 5 novembre 1981, n. 5,
pp. 5-18, in part. p. 17.
308
In realtà molti giudizi sull’operato di La Pira furono improntati ad un acre
e sgradevole realismo ed a tale proposito non si può non ricordare quanto Ernesto Rossi scrisse:
“Dio ci guardi dall’affidare la pubblica amministrazione ad uomini che aspirano alla santità; sono più pericolosi delle peggiori canaglie, di cui sono destinati a coprire le malefatte, divenendone inconsapevoli strumenti”34.
Se è accaduto che la visione lapiriana della società abbia ricevuto siffatti
giudizi è perché – come ebbe a scrivere significativamente Carlo Bo sul “Corriere della Sera” dopo la morte di La Pira – i cristiani hanno perso quella carica di radicalità evangelica che dovrebbe contraddistinguerli, non vivono più
“nella luce di Cristo” e sono “occupati dal mondo”35. Ma ancora più duro fu
Arturo Carlo Jemolo sulla “Stampa”:
“noi non fummo degni [di comprendere La Pira], noi, cristiani degeneri, che
non sappiamo renderci conto della ricchezza che è nella pazzia (tale agli occhi
degli uomini) costituita dal completo abbandono in Dio, sfidando ogni legge economica, ogni insegnamento della storia”36.
Ritengo quindi che abbia pienamente ragione Stefano Grassi37, quando
molto opportunamente individua nella connessione tra utopia e prassi (connessione sempre vissuta con grande semplicità e umiltà) quello che costituisce
il tratto più originale dell’uomo politico La Pira e che caratterizza – come ebbe a scrivere di lui Giuseppe Dossetti – la sua dimensione di “autentico profeta”38.
34 E. Rossi, Finanza in Paradiso, “Il Mondo”, 13 maggio 1950, ristampato in P. Roggi, I
cattolici e la piena occupazione. L’attesa della povera gente di Giorgio La Pira, cit., pp. 249257, in part. p. 249.
35 C. Bo, Un profeta da rivalutare, in G. La Pira, L’attesa della povera gente, cit., pp. 128130, in part. p. 130.
36 A. C. Jemolo, Ricordo La Pira, in G. La Pira, L’attesa della povera gente, cit., pp. 188189, in part. p. 189.
37 S. Grassi, Il contributo di Giorgio La Pira ai lavori dell’Assemblea Costituente, in Scelte della Costituente e cultura giuridica, a cura di U. De Siervo, Bologna, Il Mulino, 1980, vol.
II, pp. 179-221, in part. p. 181.
38 G. Dossetti, Prefazione a G. La Pira, Il fondamento e il progetto di ogni speranza, a cura di G. Alpigiano Lamioni e P. Andreoli, Roma, AVE, 1992, pp. VII-XXIV, in part. p. XXIII.
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PARTE QUINTA
PROFILO DI LUCIANO CORRADINI
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Educare la persona, il cittadino, il lavoratore. Linee per
un’educazione alla convivenza civile nella pedagogia di
Luciano Corradini
ANDREA PORCARELLI
Scrivere un saggio sull’opera di Luciano Corradini rappresenta un compito
affascinante ma delicato per chi ha avuto la gioia di conoscerlo come persona,
di condividere un tratto del nostro cammino culturale e di impegno intellettuale e associativo1: non è facile fissare sulla carta il senso di tante conversazioni, dei frequenti scambi notturni di e-mail, di tanti momenti carichi di gioia e
di fatica, vissuti insieme in questi ultimi anni. Ci conforta in questo compito la
profonda sintonia percepita e testimoniata su alcune tematiche, come quelle
dell’educazione alla convivenza civile, ed anche il fatto che il presente scritto
non si configura come un bilancio consuntivo “post mortem”, ma come una
tappa di un dialogo culturale con una persona vivente e attiva, rispetto alla quale i termini di un rapporto e le modalità di una reciproca comprensione possono sempre – fisiologicamente – crescere e perfezionarsi.
1 Ho conosciuto Luciano Corradini nel 1997, poco dopo la mia elezione a presidente della sezione UCIIM di Bologna, ne è nato subito un rapporto di reciproca stima e fiducia, che –
con la sua nomina a presidente nazionale dell’associazione – si è tradotto nella richiesta di un
mio impegno a tempo pieno (tecnicamente reso possibile da un comando ministeriale presso
l’UCIIM) in qualità di delegato nazionale per i giovani insegnanti. Si tratta di un ruolo che lo
stesso Corradini aveva avuto modo di ricoprire (negli anni ’60) su incarico dell’allora presidente (e fondatore) dell’UCIIM, Gesualdo Nosengo. Nei cinque anni in cui sono stato comandato presso l’UCIIM, con l’incarico di cui sopra e la cooptazione in Consiglio centrale, ho avuto modo di lavorare gomito a gomito con Luciano, sia sul versante associativo, sia sul versante dell’impegno intellettuale nel campo pedagogico, in cui – proprio grazie a lui e ad altri insigni pedagogisti attivi nell’UCIIM – mi sono trovato ad approfondire in modo intenso e sistematico un interesse che già aveva appassionato la mia vita di insegnante e di studioso di
questioni filosofiche ed educative.
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Le radici, affiorate in uno scenario “auto-ermeneutico” dell’ispirazione corradiniana
Prima di affrontare l’analisi delle tematiche su cui si concentra il nostro
scritto ci sembra importante richiamare i tratti essenziali dell’ispirazione complessiva della pedagogia corradiniana e ci affidiamo – per questo – ad un testo2 in cui il Nostro si cimenta a sua volta in un difficile compito di auto-analisi di tipo ermeneutico e presenta una sintesi del proprio itinerario. In tale contesto egli individua il motivo ispiratore della propria identità pedagogica in una
bella espressione di Tommaso d’Aquino riletta con gli occhi di don Milani, assieme a quella che sarebbe divenuta la sua consorte3:
“Sicut maius est illuminare quam lucere solum, ita maius est aliis contemplata tradere quam solum contemplari”. (S. Thomae, 2°2°, Q. 118, art. 6) Si è trattato di una specie di rivelazione e insieme di un programma per la nostra vita d’insegnanti: la preferenza accordata al transitivo illuminare rispetto all’intransitivo
risplendere indica un modo pedagogico d’intendere la cultura e il rapporto con gli
altri. Don Milani avrebbe detto, con felice esagerazione: “Il sapere serve solo per
darlo. Dicesi maestro chi non ha nessun interesse culturale quando è solo” (Lettera a una professoressa, Firenze, LEF, 1967, p. 112)4.
In questo denso passaggio si possono rintracciare alcune delle suggestioni
che più profondamente segnano la pedagogia corradiniana: una visione cristiana del mondo e della vita, un’antropologia (come quella di Tommaso) che
pone al centro la dignità di ogni persona, una visione della cultura come generatrice di umanità, un’attenzione profonda alle dinamiche di tipo sociale (testimoniata qui dal riferimento a don Milani), il rapporto affettuoso e profondo
con la donna che fu prima fidanzata e poi sposa. Un altro elemento rivelativo
che si ritrova in diversi testi e che ho sentito spesso richiamare dallo stesso Luciano è rappresentato dal desiderio originario di iscriversi alla facoltà di medicina5, da cui probabilmente derivano alcune suggestioni sul potere “terapeutico” o “preventivo” dell’educazione, rispetto ai “mali” (interiori, spirituali) del
singolo e della società.
Qualche parola ancora può essere utile spendere sulla personale ispirazione di fede sempre testimoniata da Corradini, “opportune et importune”, come
lui stesso ama dire citando S. Paolo. In un’epoca in cui il cattolicesimo mili2 L. Corradini, Ripensamento di un itinerario pedagogico, in: M. Borrelli (a cura di), La
Pedagogia Italiana Contemporanea, Cosenza, Pellegrini, 1997, vol. I, pp. 113-140.
3 Maria Bona Bonomelli.
4 Ivi, pp. 116-117. Il testo citato si trova in un paragrafo significativamente intitolato “l’archetipo del contemplata tradere”.
5 “Mi sarei iscritto a medicina, se le condizioni familiari me lo avessero consentito: m’iscrissi invece a filosofia e vinsi il posto gratuito nel collegio Augustinianum dell’Università
Cattolica di Milano” (ivi, pp. 114-115).
314
tante aveva il sapore di una “bandiera” di una “squadra” di cui ci si sentiva parte, anche e soprattutto nel momento in cui si dovevano assumere delle pubbliche posizioni in seno ad una comunità scientifica (come quella dei pedagogisti) abbastanza nettamente “spaccata” tra cattolici e laici, si può cogliere in
Corradini un’ispirazione di sapore quasi kierkegaardiano, marcatamente esistenziale, a tratti inquieta. Di fronte ai grandi interrogativi della vita e della società, il riferimento a Dio non ha mai i toni del sereno possesso da cui far derivare uno spirito di “crociata”, ma semmai quelli di un Amore che “convoca”,
che chiama ad affrontare un viaggio difficile, ma che – proprio per questo –
non farà mai mancare il sostegno lungo il cammino.
Confesso che la pianta che avrei voluto coltivare da ragazzo non era quella
della fede, ma quella della ragione. Di fede avevo vissuto fin da bambino: ora volevo capire. Non riuscivo ad accettare che un Dio onnipotente e buono avesse
creato, tra i tanti possibili, questo tipo di mondo e si facesse chiamare padre dagli uomini, restando poi muto e nascosto di fronte alle tragedie di questa terra.
Nella Bibbia trovavo oscurità e contraddizioni, ma anche sciabolate di luce e provocazioni che mi toglievano il fiato. (…) Sono arrivato a considerare quel Dio un
amico e un padre che non vuole darmi una prova rassicurante della sua esistenza
e della sua divinità, una prova che faccia scomparire tutte le ambiguità di questa
meravigliosa e inquietante “storia”, che va dalla creazione al peccato e dalla redenzione alla vita eterna, attraverso la morte la resurrezione di suo Figlio6.
La sintesi tra vita di fede ed impegno civile si ritrova nel fatto di avere vissuto in modo attivo e con entusiasmo gli anni del Concilio Vaticano II, stagione di cui Corradini ha sempre parlato con passione, ricordando il fervore che i
lavori conciliari in corso avevano stimolato nella sua Reggio Emilia, dove “don
Camillo” (il card. Ruini) portava ai giovani cattolici impegnati le “primizie”
del dibattito conciliare. Probabilmente in quel contesto – come egli stesso afferma – si è formata quella sintesi tra riflessione pedagogica ed impegno civile che costituisce l’oggetto del presente saggio:
Durante il periodo del Concilio nacquero e crebbero i miei tre figli, vinsi la
cattedra al liceo, organizzai corsi di aggiornamento per docenti, campagne contro
la fame, campi di lavoro Emmaus, campi scuola per studenti, iniziative di partecipazione scolastica per studenti e per genitori, cominciando a studiare le questioni pedagogiche e giuridiche connesse alle problematiche partecipative, a formulare, e in qualche modo a sperimentare, l’ipotesi della “scuola comunitaria” e
della “città educativa”7.
6
7
Ivi, pp. 119-120.
Ivi, p. 123.
315
L’impegno associativo come “scuola di comunità” e le ricerche sulla democrazia scolastica
Avendo conosciuto Luciano Corradini nel momento in cui assumeva la presidenza nazionale dell’UCIIM, chi scrive è naturalmente portato ad attribuire
a questa e simili esperienze un peso specifico decisamente significativo nella
formazione della sua identità culturale e pedagogica. Ma tale percezione è pienamente confermata da numerose testimonianze che si ritrovano nei suoi scritti, come ad esempio un articolo scritto nel 1974 per la rivista dell’Associazione, dal titolo paradigmatico: “Perché sono nell’UCIIM”8.
L’UCIIM per me, quando l’ho scoperta poco più di 10 anni fa, e cioè poco prima del Concilio, ha significato una formula di sintesi teologica e culturale di
grandissimo valore, in quanto, attraverso un gruppo di colleghi cristiani, mi ha
posto “in presa diretta” tra vita evangelico-sacramentale e attività “laica”, cioè
professionale. Non si trattava solo di chiarire concettualmente, ma di realizzare
operativamente dentro di me, prima di tutto, e poi nell’azione professionale scolastica e sociale, quella “animazione cristiana” del temporale che il Concilio avrà
il merito di sottolineare con forza, ma che già Nosengo e gli altri soci fondatori
avevano intuito fin dal 19449.
Interessante una precisazione che si trova in conclusione di questo articolo,
in cui Corradini afferma “sono nell’UCIIM perché non sono solo nell’UCIIM,
ma anche in una serie di altri gruppi e movimenti, organizzati e spontanei, ecclesiali e civili, sindacali e politici, omogenei ed eterogenei (…) nei quali cerco di vivere meglio che posso le situazioni complesse che mi trovo ad affrontare”10, rifiutando con questo l’idea di un’associazione (o di un movimento)
8 L. Corradini, Perché sono nell’UCIIM (note per un dialogo con i giovani cattolici), «La
scuola e l’uomo», Roma, n. 1-2 / 1974, pp. 9-11.
9 Ivi, p. 10.
10 Ivi, p. 11. Si tratta di affermazioni che – nel corso degli anni – hanno trovato piena conferma nelle scelte di Luciano Corradini che ha promosso la costituzione dell’USM (Unione
Studenti Medi, a Reggio Emilia, nel 1965), dell’AGE (Associazione Genitori, sempre a Reggio Emilia, nel 1968), dell’ARDeP (Associazione per la Riduzione del Debito Pubblico, a Roma nel 1993) e dell’AIDU (Associazione Italiana Docenti Universitari, nel 1999, di cui è stato il primo Presidente). A proposito dell’ARDeP, Corradini ha offerto una sintetica presentazione in una lettera ad “Avvenire” del 26 luglio 2005: “L’articolo di Cassese (“Corriere della
Sera”, 19.7.05) sulla moltiplicazione dei ruoli e delle indennità da parte di organismi regionali, mi ha fatto venire in mente quello che succedeva nella vituperata prima Repubblica, dove
ho avuto la fortuna di servire un paese che aveva più di oggi il senso del rigore e del bene comune. Sono stato per 11 anni presidente dell’IRRSAE Lombardia, istituto autonomo sottoposto alla vigilanza del MPI: l’indennità prevista era di 250.000 lire lorde al mese. Il consiglio
di un analogo istituto regionale deliberò un’indennità di un milione per tutti i consiglieri. Una
lettera del ministro Falcucci impose di restituire il di più all’erario. Da sottosegretario non parlamentare ho percepito uno stipendio da funzionario. Dopo il ’96 una legge ha equiparato le
indennità dei membri del governo “tecnici” a quelli parlamentari. Da vice presidente promini-
316
esclusivo ed escludente, che mirasse a divenire esso stesso un “ambiente di vita”, totalizzante per le persone. Le associazioni sono per gli uomini e non viceversa, per questo i giovani – ha sempre sostenuto Corradini – dovrebbero
abituarsi a vivere diverse forme di appartenenza (associativa), come “palestra”
di quella “cittadinanza multipla” che rappresenta l’orizzonte di vita dell’uomo
contemporaneo.
Sull’esperienza diretta del molteplice impegno associativo si sono innestati interessi di ricerca, empirica e sistematica, “allo scopo di elaborare la domanda e di tentare risposte e proposte di trasformazione istituzionale, che fossero sociologicamente fondate oltre che plausibili sul piano della pertinenza
pedagogica”11. Esemplificativa di tale interesse è una ricerca sulla democrazia
scolastica12, nata nel clima suscitato dalla Lettera a una professoressa di don
Milani, a due anni di distanza dalla circolare Sullo che – il 17 gennaio 1969 –
consentiva la realizzazione di assemblee studentesche in orario scolastico, e
prima che venissero emanati i Decreti delegati del 1974. Il testo analizza i dati della ricerca effettuata nelle scuole reggiane, ma coglie anche l’occasione per
tratteggiare una ricostruzione ragionata della storia del movimento studentesco
in quella città13 e trarre alcune conclusioni sulle prospettive di una “democrazia scolastica”, al di là dell’esito non sempre confortante delle prime assemblee studentesche (il giudizio sulle quali è in maggioranza negativo da parte
degli stessi studenti). Le conclusioni tratte dallo studio vanno a confermare l’ipotesi di partenza dell’approccio corradiniano:
Se la domanda alla quale implicitamente ci premeva venisse data risposta riguarda la concezione della scuola come comunità di persone, riunite dalla volontà
di realizzare un comune progetto di formazione, ebbene ci sembra che la risposta
degli studenti sia sostanzialmente positiva14.
stro del CNPI (Consiglio nazionale della Pubblica istruzione), carica che ho ricoperto per 7 anni, ricevevo poco più che il rimborso delle spese per i biglietti del tram. Durante questo servizio, avendo assistito, nel 1992, alla crisi della lira, a causa del debito pubblico, decisi provocatoriamente di versare all’erario il 10% del mio stipendio di docente universitario. L’esperimento, durato 16 mesi, è riuscito, nel senso che non sono in miseria, con la mia numerosa famiglia, e l’Italia è ancora un paese democratico. Con un manipolo di arditi facemmo nascere
l’ARDeP, associazione per la riduzione del debito pubblico. Ma il debito in questo periodo è
quasi raddoppiato, mentre stipendi e indennità si sono moltiplicati più volte. In questo senso
l’esperimento è fallito. C’è qualcuno che vuol saperne di più e magari ricominciare”.
11 L. Corradini, Ripensamento..., cit., pp. 127-128.
12 L. Corradini – M. Vecchi, Le assemblee studentesche e la democrazia scolastica, Roma,
M.C.D., 1971.
13 Dove Corradini all’epoca insegnava Filosofia e pedagogia in un Istituto Magistrale.
14 Le assemblee ..., cit., p. 108. Ancora più chiaro l’approccio dell’autore quando esplicita
le “condizioni” per il buon funzionamento anche dei meccanismi di democrazia scolastica che
la ricerca dimostra non avere funzionato: “queste si concretizzano in una visione della comunità di istituto, in un impegno rinnovatore di carattere sociale e politico da parte dell’intera società e in particolare in un impegno più coordinato e deciso delle componenti adulte della
scuola, insegnanti in primo luogo e genitori. Il che non implica una ‘scolasticizzazione’ del-
317
In quegli stessi anni prendono forma – in più sedi – le ipotesi di una società
educante e di una educazione permanente15 che, insieme alla prospettiva dell’apprendere ad essere (suggerita dal Rapporto Faure) esercitano una suggestione potente sulla formazione del pensiero corradiniano. Gli anni in cui furono elaborati e varati in prima attuazione i Decreti delegati rappresentano infatti una stagione importante per la strutturazione dell’approccio pedagogico
di Corradini, come viene attestato dai numerosi scritti. Citiamo in particolare
La difficile convivenza. Dalla scuola di stato alla scuola della comunità, che
ha identificato le coordinate di lungo periodo della trasformazione della scuola italiana, ma non possiamo dimenticare il denso saggio: Democrazia scolastica16 e la ricerca empirica La comunità incompiuta. Crisi e prospettive della
partecipazione scolastica17.
Le responsabilità educative della scuola
Il dibattito pedagogico italiano del secondo dopoguerra ha visto diverse posizioni in ordine al rapporto tra la funzione dell’educare e quella dell’istruire
nelle istituzioni scolastiche. Corradini ha partecipato a tale dibattito sostenendo sempre con forza la necessità che la scuola assuma anche una funzione di
tipo educativo, seppure con le modalità che le sono proprie.
Nel corso degli anni la scuola italiana è stata chiamata numerose volte a farsi carico della domanda sociale di educazione, che si è fatta sempre più articolata e pressante, come già si poteva leggere nel rapporto Faure del 1972, a
cui più volte – nel corso degli anni – egli si è richiamato:
“Non è dunque venuto il momento di pretendere ben altro dai sistemi scolastici? e che cosa? Insegnare a vivere, insegnare ad imparare, in modo da poter acquisire nuove conoscenze durante tutta la vita; insegnare a pensare in modo libero e
critico; insegnare ad amare il mondo e a renderlo più umano; insegnare a realizzarsi nel lavoro creativo. (…) Queste tesi sembrano astratte. Ma l’educazione è un’impresa di tali dimensioni che impegna alla radice il destino dell’uomo e non può essere circoscritta entro termini di strutture, di mezzi logistici, di procedure”18.
l’assemblea, come dicono con disprezzo gli studenti di estrema sinistra, ma una ‘socializzazione’ della scuola, ossia una trasformazione radicale dei fini e dei metodi che finora la scuola ha avuto” (ivi, p. 111).
15 Espressione a dire il vero piuttosto infelice, dato che preferiremmo riservare il termine
“educazione” a quella stagione della vita in cui il cucciolo d’uomo acquista la sua capacità di
pensare e agire in modo autonomo, ma che ha il merito di proporre una visione “allargata” delle istanze sociali, che arrivano ad abbracciare non solo il sapere e il fare, ma anche l’essere
delle persone.
16 Brescia, La Scuola, 1976.
17 Milano, Vita e Pensiero, 1979.
18 E. Faure, Rapporto sulle strategie dell’educazione (tit. orig., Apprendre à être, Paris,
UNESCO 1972), tr. it., Roma, Armando, 1973, pp. 137-138.
318
L’appello appena ricordato viene inquadrato dal Nostro in una cornice di
analisi del nostro tempo in cui si ritrova spesso un forte afflato di tipo sociale19, un senso di partecipazione appassionata alle vicende dell’umanità presente, anche in considerazione delle responsabilità che questa ha nei confronti dell’umanità futura. I suoi testi si distendono su territori concettuali molto
ampi, partendo dall’analisi della realtà, che in genere si “appoggia” sui dati
delle ricerche sociologiche20, per proiettarsi verso suggestive metafore miranti ad illuminare gli orizzonti di un agire possibile e auspicabile:
Il mondo biblico e il mondo greco-romano ci hanno fornito delle metafore
splendide per dare consistenza emotiva all’impegno per un futuro ancora vago
e incerto. Basti pensare a Mosè, a Ulisse, a Enea. I problemi personali si legavano, nella loro coscienza a quelli collettivi e le vicende interiori si legavano alle vicende storiche. Si trattava di fuggire da un passato di schiavitù e di morte
e di costruire un futuro di libertà e di vita, attraverso atti che fossero il più possibile positivi e razionali, in mezzo alle forze ostacolanti degli uomini e del destino. (…) Il nostro problema è in certo senso più semplice, in certo senso più
complesso degli antichi condottieri. Di fatto una società non vive solo in virtù
di un atto istitutivo, frutto di un eroico padre fondatore, ma anche in virtù delle capacità di continua rifondazione che si riesca a mobilitare tra i cittadini. E
questa capacità richiede insieme cultura e fede, lucidità e coraggio, realismo,
saggezza e forti idealità. Quanto più è lucida la coscienza della meta e della posta in gioco, tanto più elevata è la capacità d’impegno, di dedizione, di sacrificio21.
L’uomo deve dunque assumersi le proprie responsabilità, di fronte agli uomini del proprio tempo e a quelli delle generazioni che verranno. Il problema
educativo non è mai una questione “privata”, riservata a pochi (o tanti) soggetti
coinvolti, ma ha sempre il sapore di un’impresa “umana” nel senso più ampio.
19 I testi che si potrebbero citare su questa linea sono davvero numerosi, perché in genere
analisi come quella che riportiamo di seguito a titolo esemplificativo costituiscono l’incipit dei
testi e dei saggi pedagogici di Corradini, in quanto “fondamento sociale” dei “bisogni educativi” messi in evidenza: “Non sempre questi pensieri sono formulati in maniera esplicita: ma
il saccheggio di beni anche non riproducibili, come se la nostra fosse l’ultima generazione della storia, il calo delle nascite di bambini, che per il nostro Paese è al di sotto della soglia di riproduzione, e il contestuale aumento delle nascite di animali domestici, urbani e sotterranei,
la difficoltà di comunicare senza cedere alle prepotenze o senza litigare, l’indifferenza per le
conseguenze delle proprie azioni sulla vita degli altri, la demotivazione educativa di molti, tutto questo sembra denunciare una sorta di confusione dei sistemi d’orientamento della nostra
società, che non disporrebbe più delle forze vitali, istintuali e razionali necessarie sia per riprodursi, sia per migliorarsi” (L. Corradini, Essere scuola nel cantiere dell’educazione, Roma,
SEAM, 1995, p. 33).
20 I riferimenti ai rapporti IARD, ISPES, EURISKO, CENSIS, ecc. sono in genere molto
frequenti e puntuali.
21 Ivi, p. 38
319
L’educatore è chiamato a “mediare” tra i valori che vive e riconosce nella propria storia personale, quelli che appartengono alla società di cui è parte e quelli delle persone di cui si occupa, tenendo conto dei vincoli e delle possibilità
offerti dall’ambiente educativo in cui opera. Di fronte alle sfide della contemporaneità, di cui cerca di cogliere luci e ombre, Corradini riprende sovente la
potente metafora medica e ritiene che – insieme agli altri soggetti – la scuola
sia chiamata a confrontarsi con esse e ad intervenire sul piano educativo. La
guerra alle “D cattive” che affliggono il mondo contemporaneo rappresenta un
motivo ricorrente nella sua riflessione pedagogica:
Dal disagio della miseria e dal disagio della civiltà nascono strane patologie:
la demotivazione, il disimpegno, la dissipazione, la dispersione, la depressione, il
disfattismo, la devianza, la droga, la delinquenza. Sono le d aspre, che pavimentano una strada in discesa verso la disgregazione dell’io e la distruzione della speranza e della coesione sociale22.
L’azione educativa della scuola ha davanti a sé orizzonti molto ampi, che
comprendono l’educazione alla democrazia, ai diritti umani, alla sessualità, alla solidarietà, allo sviluppo, al senso, al sacro, alla sicurezza, allo sport, all’intercultura, all’ambiente, alimentazione, ecc.; il tutto sinteticamente espresso
con una sigla “serpentina” (EDDULLLPPSSSSSSSSIIAEEFIEM)23 che
espande, sulla base di un’accurata recensione delle “domande di fatto rivolte
alla scuola”, l’EPS (Educazione alla Pace e allo Sviluppo) di Aldo Visalberghi.
Le vie della cura e della prevenzione dei disagi, però, devono percorrere itinerari congruenti con la logica educativa in cui si distendono, con una logica
che Corradini definisce omeopatica, in quanto atta a rafforzare le “difese generali dell’organismo”:
Si tratta in sostanza di costruire delle mentalità aperte, flessibili, problematiche, capaci di ricercare, di comparare, non fermandosi alle soluzioni apparentemente più facili, di utilizzare correttamente i diversi registri del pensiero, da quello etico a quello scientifico, a quello tecnico-operativo, a quello politico, sulla base di un consistente patrimonio di conoscenze, esperienze, testimonianze, relazioni. Tutto questo, nel linguaggio premoderno della pedagogia, significa educare e istruire, ossia concorrere a formare persone, cittadini e lavoratori (e non giovani drogati, devianti e disadattati), attraverso metodi, tecniche e contenuti che
siano congruenti con le situazioni istituzionali, personali e sociali del nostro tempo, efficaci ed efficienti24.
22 Ivi, p. 26. Alle “d” negative – osserva più oltre Corradini – “si tratta di rispondere con
la positività delle ‘s’: simpatia, scienza, sperimentazione, sfida, sviluppo, salute, solidarietà,
salvezza, saggezza, senso, sacralità, secolarizzazione, sicurezza, sessualità, sinergia, sport, studio, scuola” (ivi, p. 108).
23 Cfr. ivi, p. 104.
24 Ivi, p. 122.
320
La triade “persona-cittadino-lavoratore”, rappresenta – come vedremo – il
“Giano trifronte” del “profilo in uscita” del giovane della cui formazione ed
educazione la scuola deve farsi carico, certamente non da sola, ma senza potersi sottrarre al proprio delicato compito.
La scuola come comunità educativa
La riflessione sulla dimensione comunitaria delle istituzioni scolastiche è il
frutto di una molteplicità di contributi culturali e ideali, che affondano le loro
radici remote nel cristianesimo dei primi secoli, nelle Università del Medioevo e quelle prossime nel cattolicesimo liberale del XIX secolo, nel marxismo
e nella pedagogia di Dewey, di cui ci sembra particolarmente suggestivo un
passaggio che troviamo nell’ultima pagina di Democrazia e educazione:
(…) la scuola stessa diventa una forma di vita sociale, una comunità in miniatura, una comunità che ha un’interazione continua con altre occasioni di esperienza associata al di fuori delle mura della scuola25.
Corradini fa proprie queste suggestioni, collegandole al personalismo cristiano, riletto alla luce dei documenti del Concilio Vaticano II26, e vede nei decreti delegati del ’74 un punto di confluenza di queste diverse ispirazioni, convergenti sull’idea di comunità scolastica27, concepita dal Nostro come un fecondo laboratorio che può fungere da antidoto e contrappeso alle spinte spersonalizzanti e alienanti della società contemporanea.
Tentando una definizione complessa, potremmo dire che la concezione comunitaria pensa la scuola come totalità dinamica di persone, che vivono il processo educativo, di per sé carico di molteplici tensioni dialettiche, in termini tendenzialmente cooperativi, in modo che ciascuno, sentendosi rispettato e valorizzato, sia facilitato a interagire educativamente con gli altri e a vivere la scuole
come una realtà organica, capace a sua volta di interagire produttivamente con
25 J. Dewey, Democrazia e educazione (ed. orig. 1916), tr. it., Firenze, La Nuova Italia,
1965 (IX ed.), p. 460.
26 In cui la scuola viene vista come “un centro alla cui attività e al cui progresso devono
insieme partecipare le famiglie, gli insegnanti, i vari tipi di associazioni a finalità culturali, civiche e religiose, la società civile e tutta la comunità” (Gravissimum educationis, n. 5); cfr. L.
Corradini, Essere scuola..., cit., pp. 128-129.
27 “Al fine di realizzare, nel rispetto degli ordinamenti della scuola dello Stato e delle competenze e delle responsabilità proprie del personale ispettivo, direttivo e docente, la partecipazione della gestione della scuola dando ad essa il carattere di una comunità che interagisce con
la più vasta comunità sociale e civica, sono istituiti, a livello di circolo, di istituto, distrettuale, provinciale e nazionale, gli organi collegiali di cui agli articoli successivi” (DPR 416/1974,
art. 1).
321
la società globale, nelle sue diverse articolazioni, e di facilitare in tal modo il
raggiungimento dei fini personali e sociali dell’istituzione.28
Si tratta di una concezione della scuola-comunità che si confronta esplicitamente con il rapporto Faure che parlava di “comunità educante”, cogliendone le suggestioni, ma prendendone ad un tempo le distanze, perché non si può
dire che la “comunità” (qualsiasi comunità) sia sempre e in atto tutta educante, mentre si può parlare – precisa Corradini – di una dimensione educativa
della società, in cui la scuola può e deve inserirsi, sviluppando la propria capacità di esprimere un’offerta formativa autonoma, frutto di un’elaborazione
collegiale che dovrebbe vedere coinvolti tutti i soggetti che costituiscono la
comunità scolastica. Per questo la scuola deve configurarsi come una comunità
democratica29, andando oltre l’incompiutezza del riformismo degli anni ’70 e
tenendo conto di una propria specificità, per cui lo spirito democratico dovrebbe prendere forma in un’istituzione strutturalmente “gerarchica”: non si
tratterà dunque di una democrazia di tipo rivendicativo, sindacale o di una sorta di “contratto sociale” generativo della comunità scolastica, ma piuttosto di
una democrazia promozionale, capace di “mettere a frutto e di trasformare in
energia promozionale la ‘differenza di potenziale’ umano, carismatico, intellettuale”30 che caratterizza la sua fisiologica asimmetria di rapporti.
Per costruirsi come comunità democratica in tal senso la scuola deve essere
consapevole del proprio “mandato istituzionale” nei termini più alti e profondi,
a partire dalle sue radici costituzionali. Ci si può riferire innanzitutto a quanto
inteso dai Padri costituenti31, con riferimento al riconoscimento dei “diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali dove si svolge la sua personalità” (art. 2), al fatto che la Repubblica si impegna a “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale” al pieno sviluppo della persona
umana (art. 3), riconoscendo ai genitori il diritto/dovere di “mantenere, istruire
ed educare i figli” (art. 30), in una Repubblica che solennemente sancisce che
“l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento” (art. 33). È in tale
contesto che si colloca l’obbligo – per la Repubblica – di “dettare le norme generali sull’istruzione” (art. 33), di garantire almeno otto anni di istruzione ob28
L. Corradini, Essere scuola ..., cit., p. 130.
Cfr. L. Corradini, La difficile convivenza. Dalla scuola di stato alla scuola della comunità, Brescia, La Scuola, 1975; Id, Democrazia scolastica, Brescia, La Scuola, 1976; Id, La comunità incompiuta. Crisi e prospettive della partecipazione scolastica, Milano, Vita e Pensiero, 1979; Id, Educare nella scuola. Cultura comunità curricolo, Brescia, La Scuola, 1983; Id,
La scuola e i giovani verso il Duemila. Problemi di educazione etico-politica, Teramo, Giunti
e Lisciani, 1986.
30 L. Corradini, Essere scuola ..., cit., p. 137.
31 A cui Corradini si riferisce sempre con grande reverenza, indicando in essi un modello
di sintesi “alta” tra tendenze ideali profondamente diverse, in vista della costruzione del bene
comune; cfr. (tra gli altri testi significativi) L. Corradini – G. Refrigeri (a cura di), Educazione civica e cultura costituzionale. La via italiana alla cittadinanza europea, Bologna, Il Mulino, 1999.
29
322
bligatoria e gratuita a tutti, oltre alla prosecuzione degli studi per i “capaci e meritevoli” (art. 34), di “istituire scuole statali per tutti gli ordini e gradi” (art. 33)
salvo il diritto di enti non statali di istituire scuole e istituti di educazione. Le
recenti modifiche del Titolo V della Costituzione hanno rafforzato il mandato
sociale della scuola32, precisandolo alla luce di alcuni principi (sussidiarietà, solidarietà, equità), per cui la competenza legislativa sulla scuola diviene materia
“concorrente” tra Stato e Regioni, le quali hanno competenza esclusiva per l’istruzione e la formazione professionale, “salva l’autonomia delle istituzioni
scolastiche” (art. 117), che viene in tal modo “costituzionalizzata”.
Il modello democratico rappresenta per Corradini la naturale – e auspicabile – evoluzione del modello burocratico che ha caratterizzato la storia della nostra scuola33, dall’unità d’Italia ad oggi. Perché ciò possa accadere è necessaria una piena consapevolezza delle finalità dell’istituzione (la formazione della persona, del cittadino, del lavoratore), con tutti i risvolti propriamente “educativi” che essa comporta (le “educazioni” richiamate con la sigla EDDULLLPPSSSSSSSSIIAEEFIEM), in una rinnovata concezione di “partecipazione”
che vada oltre i limiti di un assemblearismo rissoso e si configuri come “il processo socioculturale per cui i soggetti che direttamente o indirettamente (e
quindi con diversi titoli, motivazioni e capacità) danno vita all’istituzione scolastica, concorrono a qualificarne le finalità e la natura e a determinare le modalità concrete di esercizio delle sue funzioni”34. Si profila in tal modo l’idea
di una ecologia organizzativa della comunità scolastica fortemente determinata dalla missione educativa che la caratterizza, anche in ordine al fatto di essere “scuola di democrazia”, ma anche di responsabilità, di solidarietà, di partecipazione e di tutte le virtù che possono contribuire a formare la persona, il cittadino, il lavoratore, ma che – come tutte le virtù – possono essere acquisite solo se vengono “esercitate” in un contesto educativo adeguato:
32
In questo senso può essere utile la lettura dell’intervento di Corradini – in qualità di Presidente dell’UCIIM – agli “Stati generali” della scuola, convocati dal Ministro Moratti nel 2001,
in cui (oltre ad una valutazione generale del documento predisposto dal Gruppo di lavoro ristretto, che veniva posto in discussione), si trova un riferimento esplicito alla nuova legge costituzionale ed al rafforzamento del mandato sociale che questa comporta: “la Repubblica non
scompare, ma interviene a legittimare e a istituire scuole, non per debolezza o per volontà di monopolio, ma perché riconosce autorevolezza alla persona e alle formazioni sociali (...). È chiaro
che una scuola di questo tipo, istituita dalla Repubblica o da essa riconosciuta, dev’essere una comunità capace di vivere in modo educativo la sua missione, giustificata da un ordinamento i cui
principi scaturiscono dalla tragica esperienza della guerra, dal disastro dei campi di concentramento e dalla Resistenza” (in: «Annali dell’istruzione», n. 3-4, Roma 2001, p. 70).
33 “La scuola moderna nasce negli ultimi due secoli come istituzione burocratica, per l’omogeneità formale delle sue procedure, per la validità dei titoli che rilascia, per i controlli che
impone, per le strutture operative che utilizza: strutture costituite da insegnanti specializzati,
alunni divisi per classi, contenuti di insegnamento selezionati e graduati, percorsi determinati
nello spazio e nel tempo, strumenti di lavoro standardizzati” (L. Corradini, Essere scuola ...,
cit., p. 140).
34 Ivi, p. 144.
323
La morale e la cittadinanza non sono frutto di germinazione spontanea o di
semplice asettica informazione: sono valori da vivere in esperienze comuni e richiedono un’attenta coltivazione. La scuola è uno dei pochi laboratori di esperienze sociali dotate di senso e di riflessività che si possano organizzare nelle società moderne, prima che le leggi del mercato rendano più economico istruire i ragazzi lasciandoli a casa propria, in balia dell’informatica e della telematica. La
democrazia scolastica non va perciò intesa solo come lo sforzo di aprire la scuola
allo spirito democratico, che vive nelle istituzioni e nel costume. Essa è anche lo
sforzo di rendere le scuole capaci di alimentare di esperienze e di idee democratiche fresche le istituzioni e il costume, di una società che rischia di smarrirsi e di
sfaldarsi, perché non sa più connettere tra loro i riti democratici e i miti sociali: ossia quei valori che esaltano il valore di ciascuno e la possibilità di crescere insieme35.
Una “pedagogia positiva”: dalla prevenzione del disagio alla promozione del benessere
Gli studi sul disagio scolastico sono – da un po’ di anni a questa parte – un
punto di riferimento costante per chi si occupa di scuola, ma diverse sono le
strategie individuate per intervenire, sia a livello preventivo che “terapeutico”.
I motivi fondamentali di disagio si legano al cattivo inserimento nel gruppo dei
pari, al fatto di sentirsi “giudicato” (e non apprezzato) dagli insegnanti, alle
difficoltà di dialogo, al senso di impotenza nei confronti dei dinamismi scolastici. Dai dati convergenti di tali ricerche emerge “un tipo di studente che non
accetta di vivere da suddito e da estraneo, ma che ha bisogno di contare qualcosa e di essere tenuto in conto”36. Le vere strategie di prevenzione del disagio, sono dunque strategie di “promozione del benessere”37, che comportano
una partecipazione attiva alla vita della scuola e alla costruzione della propria
identità. In tal senso Corradini propone una rivisitazione dell’idea di “salute”
andando oltre le illusioni della nota definizione dell’OMS, che viene integrata
da suggestioni tratte dall’idea di “bene comune” (che rappresenta la “salute” di
un sistema socio-politico):
la salute è una sorta di bene comune delle diverse componenti della persona,
un bene condizionale, che consente lo sviluppo della persona stessa, in rapporto
al complesso di fini che ne consentono l’autorealizzazione. Anche per il sistema
personale, come per quello socio-politico, si deve dunque parlare di processo dinamico e di prudenza, la virtù che consente di raggiungere obiettivi difficili, gio35
Ivi, pp. 147-148.
L. Corradini, Essere scuola ..., cit., p. 193.
37 Cfr. Atti della prima Conferenza nazionale sulla droga, Palermo, 24-26 giugno 1993,
Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per gli Affari Sociali, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 1994.
36
324
cando sui tempi e sui modi e navigando ciberneticamente nel mare della complessità38.
Si tratta insomma di uscire da una visione vaga e indistinta dell’idea di “salute” che – anche cogliendo in modo superficiale alcune suggestioni della nota definizione dell’OMS – rischia, nella cultura odierna, di trasformarsi nell’aspirazione ad una sorta di “paese dei balocchi”, di collodiana memoria, in
cui ogni problema sia magicamente risolto, come per incanto (e senza sforzo
da parte dei diretti interessati). Di qui lo slittamento dalla logica dello “stare
bene”, nel senso di trovarsi – al limite per caso o per fortuna – in una condizione che il soggetto reputi gradevole, alla logica di “essere bene”:
Star bene nel senso di essere bene implica non solo il piacere funzionale di
chi vive senza malattie e senza angustie di vario tipo, ma anche una positiva immagine di sé e degli altri, la serenità interiore, la speranza, la voglia di vivere, l’attitudine ad affrontare i conflitti con spirito costruttivo. Il che non comporta affatto l’assenza di disagi e di malessere, ma il possesso di strumenti razionali, affettivi e morali che consentano di conferire un senso agli agi e ai disagi, in rapporto alle possibilità, ai limiti, agli altri valori personali e sociali che sono in gioco39.
Il mondo contemporaneo è sempre più in difficoltà ad individuare quelle
“buone abitudini” (virtù) che possono rendere “buona” la vita di ciascuno e
dell’intera società. Il vero problema è quello di capire come trasformare quelli che potrebbero limitarsi ad essere vaghi auspici, potenzialmente inconcludenti, in progetti educativi auspicabilmente efficaci. Si tratta, in altri termini,
di capire in quale misura, con quali modalità e con quali strategie tale promozione dello “star bene” possa entrare nei percorsi educativi scolastici.
Nuovi orizzonti per la partecipazione e l’esperienza del “Progetto
Giovani”
Tra le esperienze significative nella vita e nell’opera di Luciano Corradini
vi sono anche alcune specifiche responsabilità che egli è stato chiamato ad assumere, a diversi livelli: presidente dell’IRRSAE Lombardia (1979-1990), vicepresidente del Consiglio nazionale della Pubblica istruzione (1989-1997),
sottosegretario alla Pubblica istruzione (1995-1996). L’analisi delle modalità e
38 L. Corradini, Perché l’educazione alla salute, in: L. Corradini – P. Cattaneo, Educazione alla salute, Brescia, La Scuola, 1997; cfr. anche Id, Essere scuola ..., cit., p. 184; Id, Etica
e potere in prospettiva pedagogica, in «Scuola democratica», n. 1-2, gennaio-giugno 1994, pp.
269-281.
39 L. Corradini, Essere scuola ..., cit., p. 188.
325
delle motivazioni40 con cui sono state assunte alcune decisioni in tali contesti
aiuta e gettare ulteriore luce sull’itinerario tematico che stiamo percorrendo.
Le numerose sollecitazioni educative che – nel loro insieme – sono andate
a costituire la sigla “serpentiforme” che abbiamo già richiamato, potrebbero
spaventare, se viste in termini puramente “quantitativi” e “giustappositivi”; diventano invece illuminanti e orientanti se viste, secondo la proposta di Corradini, come l’anima o il principio unificante di una sorta di paideia per il nostro
tempo, delle cui emergenze la scuola è chiamata, per la sua parte e con i suoi
strumenti, a farsi carico. Se è pur vero che “si può certo deprecare il modo
estemporaneo con cui il legislatore primario o secondario interviene sul ‘codice genetico’ della scuola, introducendo nuovi fini e nuovi compiti, che interferiscono, non sempre in modo positivo, con la natura e le funzioni della scuola
stessa”41 è altresì vero che non si può “far finta di niente” e tutti – dalle singole scuole alla Pubblica Amministrazione – sono chiamati a farsi carico delle nuove emergenze e a rivolgere i telescopi verso le nuove costellazioni che
popolano il cielo scolastico.
Una “svolta” metodologica in tal senso può essere individuata nel Convegno di Fiuggi, promosso dal ministro Galloni nel 198942, e caratterizzato dalla relazione di base di Corradini, allora responsabile delle politiche giovanili
dell’Ufficio Studi: le sue proposte confluirono nella C.M. n. 246 del
15/7/1989, in cui venne ripensato43 il Progetto Giovani, con riferimento all’appuntamento europeo del 1992, facendo riferimento esplicito ad alcuni principi pedagogici fondamentali: “1) validità pluriennale del progetto, 2) legame
tra educazione alla salute e prospettive d’impegno civico-politico (…), 3) coinvolgimento di tutte le discipline, oltre che di iniziative aggiuntive al curricolo
strettamente inteso, 4) impianto organizzativo che prevedeva un sistema di
convegni dal livello d’istituto al livello europeo”44. In realtà l’ispirazione pe40 Riferimenti indiretti alle motivazioni pedagogiche di alcune scelte compiute si trovano
in numerosi degli scritti corradiniani successivi al periodo a cui corrisponde ciascuna delle responsabilità di volta in volta assunte, ma in questa sede vogliamo fare particolarmente riferimento a due testi, l’uno relativo ad un’intervista rilasciata mentre era sottosegretario alla PI,
l’altro riportante un intervento ad un Convegno della SIPED, in cui si trae una sorta di bilancio della medesima esperienza da poco conclusa: L. Corradini, La pedagogia, l’educazione e
la scuola viste dai banchi del Governo, in M. Borrelli (a cura di), La Pedagogia Italiana Contemporanea, Vol. II, Cosenza, Pellegrini Editore, 1995, pp. 279-302; Id, Appunti di politica
scolastica: dal governo tecnico al governo politico. Acta e agenda fra due legislature, in:
«Orientamenti pedagogici», n. 44 (1997), pp. 297-310.
41 Ivi, p. 297.
42 Si tratta di un Convegno, promosso dall’Ufficio Studi del MPI, con la consulenza scientifica di Corradini, cfr. MPI – Ufficio Studi, Educare per prevenire: continuità e innovazione
di fronte alle emergenze, Fiuggi, 1-5 maggio 1989, Roma, Editrice Scolastica Lombardi, 1990.
43 L’input originario si deve al Ministro Falcucci, nel 1985, anno internazionale della Gioventù, anche se nella forma di un generico appello affinché le scuole si servissero degli spazi
assembleari per promuovere approfondimenti e dibattiti in tale direzione.
44 L. Corradini, Perché l’educazione alla salute, cit., p. 88. L’impostazione pedagogica ri-
326
dagogica di fondo del Progetto, secondo la lettura corradiniana, sottintende
una domanda più radicale:
È giusto e possibile aiutare i docenti ad elaborare una nuova attenzione ed un
nuovo impegno professionale nei riguardi degli studenti, affinché questi possano
costruire, attraverso la scuola, stili di vita più consapevoli, più adeguati a risolvere i loro problemi personali e più utili a costruire l’ethos civico-politico di cui il
nostro paese è vistosamente e pericolosamente carente?45
La risposta positiva alla domanda è scontata nella mentalità del nostro autore ed è sempre nella CM 246/89 che si trova la felice formula che organicamente esprime il legame intimo tra salute/benessere del singolo e salute/benessere della società: 1) star bene con se stessi in un mondo che stia meglio, 2)
star bene con gli altri, nella propria cultura, nel dialogo interculturale, 3) star
bene nelle istituzioni, in un’Europa che conduca verso il mondo. “Ai giovani
che sostano più o meno incerti sulla soglia del mondo adulto – precisa Corradini – il PG ’93 fa una proposta e indica le condizioni per accettarla. È una proposta di senso: un viaggio simbolico in cui lo star bene, oggetto di fantasie e
di desideri, rappresenta la meta, per raggiungere la quale bisogna sudare le proverbiali sette camicie delle fiabe. Il cammino che ci sta di fronte (…) è come
un rito di passaggio, al termine del quale si diventa adulti, se si son rispettate
le condizioni prescritte”46. Per questo la circolare propone anche un “iter progettuale” di massima, da declinare su tutti e tre i livelli sopra indicati:
a) Dal disagio al problema. Analisi delle forme e dei fattori di disagio giovanile, in rapporto al contesto scolastico, al fine di trasformare le condizioni di
malessere diffuso in una domanda di cambiamento chiara e condivisa. (…)
b) Dal problema all’azione. Progettazione e realizzazione d’interventi, in risposta ai problemi evidenziati, sia a livello d’istituto che di classe o gruppi di
classi. In tal modo, l’azione mirata allo “star bene” a scuola viene calibrata in
rapporto allo specifico contesto scolastico e trova la sua legittimazione nell’essere la risultante di un processo di esplorazione e di condivisione di bisogni reali.
c) Dall’azione alla valutazione. Verifica degli interventi, in itinere e conclusiva,
sulta evidente anche dalla lettura delle Ragioni e prospettive del P.G., nel testo stesso della circolare: “obiettivo fondamentale di tale iniziativa resta quello di offrire ai giovani l’opportunità
di essere promotori di analisi e protagonisti di interventi, sia al fine di migliorare la qualità della vita, sia per favorire l’acquisizione di capacità autonome per il conseguimento del proprio
equilibrio psicofisico e sociale, nonché di promuovere, su questa base, un’immagine reale e
positiva dei giovani, al di là della cultura dell’emergenza, assecondando e favorendo il loro impegno culturale e civile, nel quadro delle finalità formative della scuola” (C.M. n. 246 del
15/7/1989).
45 L. Corradini, Educazione e ricerca di senso nel Progetto Giovani ‘93, in «Quaderni di
Vita Italiana», n. 4/1992, p. 14.
46 Ivi, p. 17.
327
attraverso opportuni strumenti di valutazione e il coinvolgimento dei diversi
soggetti, al fine di rilevare la corrispondenza fra le attività progettate e i bisogni rilevati. (…)
d) Dalla valutazione alla domanda alle istituzioni e alla proposta. Attraverso la
riflessione, la ricerca, il confronto, si scopre non solo d’essere portatori di disagio e di problemi, ma anche di risorse47.
Un successivo punto di riferimento – sul piano istituzionale – è stata una
legge dello Stato, la cosiddetta Jervolino-Vassalli48, che aveva affidato al Ministero dell’Istruzione il compito di coordinare e promuovere attività di educazione alla salute nelle scuole di ogni ordine e grado49. Il Ministero ha quindi ripreso il Progetto Giovani 9350, promuovendo anche Progetto Ragazzi
200051 e Progetto genitori52, ai quali si aggiunse il Progetto Arcobaleno (per la
scuola dell’infanzia). Caratteristica comune a tali progetti è una concezione
della salute molto estensiva, intesa come esercizio e frutto di attività sviluppate nell’ambito dell’istituzione scolastica e che si muovano nella prospettiva
della progettazione esistenziale dei giovani.
La legittimazione pedagogica “organica” della paideia che animava tali
progetti si può ritrovare nella lunga e articolata premessa53 alla D.M. n. 58 del
8/2/1996, frutto del lavoro di un gruppo – presieduto dal sottosegretario Corradini – con l’incarico di ripensare l’insegnamento dell’educazione civica54,
individuando obiettivi e contenuti di quella che viene ridefinita come Educazione civica e cultura costituzionale. Il testo si presenta di dimensioni insolite
per il “genere letterario” dei documenti normativi (specialmente se pensiamo
che si tratta di una premessa ai nuovi programmi di Educazione civica), ma risulta prezioso per l’insieme di istanze educative di alto profilo che ha inserito
tra le “fonti normative” in materia scolastica, con alcune precisazioni sull’identità istituzionale della scuola come comunità educativa:
47
C.M. n. 246 del 15/7/1989, in: L. Corradini, Perché l’educazione alla salute, cit., p. 93.
Legge 162/1990, integrata con la 685/1975 nel DPR 9-10-90 n. 309.
49 Per Corradini si tratta di un dispositivo normativo dal valore “epocale”, che “cambia addirittura l’identità della scuola, anche se la legge non si fa carico di tutte le conseguenze di carattere culturale, pedagogico, ordinamentale, oraganizzativo che questa scelta comporta” (L.
Corradini, La pedagogia, l’educazione e la scuola viste dai banchi del Governo, cit., p. 295).
50 C.M. n. 327 del 30/11/1990, a cui va collegata la C.M. n. 270 del 15/10/1990 che aveva introdotto la figura del docente referente per l’educazione alla salute e la C.M. n. 66 del
14/3/1991, che prevede l’attivazione dei CIC (Centri di Informazione e Consulenza), oltre a
definire i compiti del docente referente.
51 C.M. n. 240 del 2/08/1991.
52 C.M. n. 47 del 20/2/1992, che fornisce anche ulteriori indicazioni in merito all’educazione alla salute, ai CIC, alle attività connesse a Progetto Giovani 93 e Progetto Ragazzi 2000.
53 Il testo è stato diffuso come “allegato” alla Direttiva in questione ed è facilmente reperibile in rete, tra gli altri segnaliamo il seguente URL: http://www.portaledibioetica.it/documenti/000249/000249.htm.
54 Previsto nella normativa italiana in forza del DPR 585/1958.
48
328
Fa parte delle funzioni della scuola, intesa come comunità educativa, assicurare anzitutto agli studenti l’esercizio dei diritti individuali e di quelli collettivi, e
di promuovere l’esercizio dei corrispondenti doveri, in una dialettica che salvaguardi identità e solidarietà, apprendimento e partecipazione, aggregazione spontanea e raggruppamento formale, efficacia/efficienza ed espressività, interventi
direttivi e sussidiarietà, in quanto bisogni-valori personali e sociali, e in quanto
dimensioni complementari dell’esperienza scolastica55.
In tal senso il testo si fa carico di assumere in modo esplicito quella “ri-definizione” del mandato sociale della scuola che Corradini aveva già visto (implicitamente) fin dalla legge Jervolino-Vassalli, precisando che il compito di
istruire e formare diviene strutturalmente impossibile se non è vitalmente connesso con quello educativo:
Il sapere delle persone deriva da ciò che esse apprendono attraverso l’insieme
delle esperienze che vivono e delle attività che compiono, non solo attraverso il lavoro scolastico: poiché gli aspetti percettivi, intellettivi, affettivi e morali sono indissociabili, questo apprendimento dipende dall’insieme delle motivazioni che il
soggetto possiede e può maturare in ordine all’acquisizione di nuove conoscenze.
Ciò significa che le conoscenze e le competenze variano con il variare delle condizioni oggettive (l’ambiente e in particolare l’azione didattica) e di quelle soggettive (il vissuto e in particolare l’azione di studio e di apprendimento). Questo
circolo vitale, in cui pensiero e azione si arricchiscono a vicenda, producendo sviluppo fisico, affettivo, mentale, morale, ma anche sapere e cultura, può procedere
con maggiore o minore velocità, produttività, validità, soddisfazione56.
Frutto di tale logica ed esemplificativa dell’approccio corradiniano, si colloca la progettazione del mensile “Studenti & C” – “Periodico del MPI per la
scuola e viceversa”, pensato come uno spazio di dialogo “diretto” e partecipativo tra le Istituzioni (in questo caso il Ministero) e i “cittadini della scuola”:
Arriverà in ogni classe di scuola secondaria superiore, in duplice copia: si
stampa con i fondi del Provveditorato generale dello stato e a cura del Poligrafico dello stato. La direzione è professionale, impegnata a comunicare e a promuovere un dialogo partecipato, per superare il distacco che esiste fra giovani e
istituzioni. Funzionerà? Si riuscirà a trovare il tono giusto, né burocratico né giovanilistico, né troppo professionale né troppo aperto a collaborazioni randage ed
eventuali? l’occasione è “storica”57.
55
D.M. n. 58/1996; allegato.
Ibidem.
57 L. Corradini, La pedagogia, l’educazione e la scuola viste dai banchi del Governo, cit.,
p. 302. Una collocazione pedagogica e amministrativa di questo periodico nell’attività scolastica è fornita dalla CM 11-10-1995 n. 325.
56
329
La rivista fu progettata e ne furono stampati sette numeri, ma già nella successiva legislatura i responsabili del Ministero hanno pensato di lasciar morire
l’iniziativa58, preferendo altre vie di progettazione, ma la provocazione educativa rimane aperta, tra realtà e utopia, e potrebbe essere raccolta sotto altre forme e in altri modi.
Un approccio integrato e trasversale alle istituzioni educative e alle
discipline scolastiche
Le istanze educative di cui la comunità scolastica è chiamata a farsi carico
non vanno intese come un insieme di “nuovi saperi” da aggiungere in modo
giustappositivo a quelli tradizionalmente già inseriti nei programmi di studio,
ma devono essere pensate con approccio integrativo, nell’ottica di una “nuova
paideia”, le cui finalità complessive non si riducano alla pura trasmissione di
conoscenze, ma implichino la promozione di atteggiamenti, capacità e competenze in ordine al miglioramento della vita personale e sociale:
Con una formula che appare fortunata nei convegni, e un po’ meno nelle commissioni incaricate di costruire le architetture ordinamentali e i curricoli, si può
dire che questo sapere implica il saper essere (persona), il saper interagire e cooperare (cittadino), il saper fare (lavoratore) senza dimenticare la dimensione del
consumatore, che può considerarsi trasversale alle tre dimensioni indicate59.
Queste dimensioni rappresentano le coordinate fondamentali del “profilo
educativo” a cui – secondo Corradini – il complesso delle azioni educative e formative deve tendere, con una modalità che a sua volta deve essere organica e unitaria, in una sorta di “organismo pedagogico”60 di cui si può delineare l’architettura culturale. Per questa ragione Corradini ha sempre cercato di valorizzare – in
58
Così si esprime Corradini in un articolo che è una sorta di bilancio consuntivo/lettera
aperta ai sottosegretari del Ministro Berlinguer: “La prosecuzione di questa iniziativa da parte della nuova Amministrazione si è rivelata più problematica del previsto (...) il lungo silenzio, le motivazioni addotte per l’interruzione (...) hanno generato sconcerto fra i giovani e nel
mondo della scuola, a cominciare dal CNPI. Toccherà agli storici interessati al rapporto tra giovani e istituzioni chiarire le vere ragioni di questa ‘discontinuità’ con una linea di dialogo e di
promozione del protagonismo studentesco che hanno la loro legittimazione nelle leggi antidroga del 1975 e del 1990, nella rete dei referenti per l’educazione alla salute nelle delibere
del Comitato scientifico-tecnico operante presso il MPI” (L. Corradini, Appunti di politica
scolastica..., cit., pp. 303-304).
59 L. Corradini, Introduzione, in: L. Corradini – W. Fornasa – S. Poli (a cura di), Educazione alla convivenza civile. Educare istruire formare nella scuola italiana, Roma, Armando,
2003, p. 14. Il testo è molto ricco di riferimenti ai rapporti Faure, Cresson, Delors, a cui si rimanda per una legittimazione internazionale che funga da pungolo per l’evoluzione del sistema scolastico italiano.
60 Cfr. L. Corradini, Essere scuola ..., cit., p. 107.
330
tale prospettiva – le Premesse ai programmi dei diversi ordini e gradi di scuola,
che ben lungi dal potersi considerare come “introduzioni liriche”, marginali e
inessenziali, dovrebbero essere accolte in tutta la forza delle indicazioni pedagogiche che offrono in ordine alla formazione dell’uomo e del cittadino.
Sul piano operativo si tratta di agire con una intelligenza pedagogica che si
traduce nella “capacità di finalizzare tutti i mezzi giuridicamente, scientificamente e moralmente disponibili allo sviluppo umano degli studenti”61. Dal
punto di vista culturale il problema è quello di legittimare tutta l’area di quei
saperi non formalizzati, che per ora trovano solo una collocazione di tipo marginale, mentre dovrebbero configurarsi come “metacurricoli trasversali a tutti i momenti della vita scolastica e a tutte le discipline, e capaci di fornire loro nuovi orizzonti di senso e nuove motivazioni alla ricerca e alla collaborazione interdisciplinare”62. Oltre che spazio di legittimazione culturale della dimensione educativa dei curricoli la “trasversalità” rappresenta – per Corradini
– anche un’imprescindibile istanza metodologica per la quale il senso delle
stesse discipline dipende dall’impatto educativo e formativo che queste possono avere nei “mondi vitali” dei giovani affidati alle istituzioni scolastiche:
Le discipline, presenti nella scuola come materie d’insegnamento e apprendimento (…) concorrono alla trasmissione-elaborazione dei “saperi” delle nuove
generazioni, che attingono anche ad altre fonti di conoscenza e di esperienza. Separati più o meno artificiosamente nelle singole discipline, ma di fatto interconnessi, questi saperi diventano formativi se vengono non semplicemente sommati, ma integrati, elaborati, assimilati, in termini culturali, personali, esistenziali,
ossia se diventano sapere e, più profondamente, sapienza. Diciamo educazione
scolastica il processo dialogico attraverso il quale si realizza l’elaborazione personale delle discipline e dei saperi, ossia la trasformazione dei dati, delle informazioni, delle conoscenze, delle esperienze, dei valori che le caratterizzano, in
nutrimento di personalità consapevoli, responsabili, capaci di affrontare al meglio
le problematiche personali, civiche e professionali della vita63.
Riflessioni conclusive
Ripercorrendo l’itinerario corradiniano, specialmente sulle tematiche che
abbiamo preso in esame, ci sembra di veder emergere una visione olistica dell’educazione, che pone al centro l’identità della persona nella sua unità integrale, sia dal punto di vista ontologico, sia dal punto di vista dei diversi ambienti di vita in cui realizza se stessa come tale. Si potrebbe dire che l’istru61
Ivi, p. 113.
Ivi, pp. 119-120.
63 L. Corradini, Radici e sviluppi dell’educazione alla convivenza civile, in: L. Corradini
– W. Fornasa – S. Poli (a cura di), Educazione ..., cit., p. 35.
62
331
zione del giovane cittadino non è autenticamente tale se non si innesta vitalmente in un processo di tipo educativo e – d’altro canto – la domanda sociale
di educazione di cui la scuola è investita non può essere considerata come una
sorta di richiesta di “pronto soccorso sociale”, in una logica episodica e marginale, ma a sua volta va considerata come un appello al cuore stesso dell’identità dell’istituzione scolastica. In questo senso ci sembra di trovare notevoli consonanze tra l’impostazione pedagogica di Corradini ed alcuni elementi
della “pedagogia implicita” nella Legge 53/2003, di cui pure lui ha cercato di
individuare luci ed ombre, nel timore che sorga un insanabile contrasto fra i valori proclamati, le finalità pedagogiche affermate e taluni vincoli di tipo ordinamentale, organizzativo e finanziario presenti nell’attuale politica scolastica.
L’idea di un “profilo educativo”64 a cui riferire tutte le azioni educative e formative, con una sezione esplicitamente dedicata alla Convivenza civile, intesa
come spazio di raccordo di tutte le istanze educative della scuola, ci sembra
straordinariamente consonante con molte delle intuizioni corradiniane.
Al centro della scuola vi è dunque ogni singolo allievo, con il suo mondo
vitale, ma sempre con un riferimento esplicito e fattivo alle dimensioni sociali e professionali da cui non possiamo mai prescindere, pena il “mutilare” l’identità complessiva di colui che va sempre e ad un tempo visto come persona,
cittadino e lavoratore.
La scuola – ha scritto all’inizio degli anni ’90, prima che iniziasse l’avventura istituzionale delle “educazioni” – se non è onnipotente, non è neppure impotente: sarebbe distorto pensare ch’essa debba e possa insegnare fatti senza valori,
nozioni senza significati, risposte senza domande; e che i suoi docenti siano chiamati in causa nella relazione con gli studenti solo come professionisti e non anche come cittadini di una città, di una nazione, dell’Europa e del mondo, e come
persone umane, interdipendenti e solidali con tutte le altre persone umane, a cominciare da quelle con cui si vive ogni giorno65.
Questa è la base a partire dalla quale affrontare le sfide educative che attendono il mondo della scuola in questo periodo di grandi mutamenti sul piano culturale, sociale ed anche su quello dell’evoluzione del sistema educativo
di istruzione e formazione. Corradini segue con attenzione tali mutamenti e si
è pubblicamente espresso in più occasioni, soprattutto negli editoriali pubblicati sulla rivista dell’UCIIM negli anni della sua presidenza nazionale. In uno
64 Ci riferiamo al PECUP, Profilo Educativo Culturale e Professionale dello studente, al
termine del primo come del secondo ciclo, in cui il legame tra la dimensione educativa, culturale e professionale ci sembra straordinariamente consonante con l’idea di un’educazione della persona (che come tale va educata), del cittadino (sempre parte di una determinata cultura,
anche se aperto al dialogo con tutti) e del lavoratore (capace di inserirsi professionalmente in
una società, con i suoi meccanismi produttivi).
65 L. Corradini, EDUPSSA: educazione ai diritti umani, alla pace, allo sviluppo, alla salute, all’ambiente, in «Annali della Pubblica Istruzione», (XXXVI), n. 1, 1990, pp. 33-34.
332
“sguardo panoramico”66 sulla scuola italiana di oggi e di domani egli ribadisce
che una società che voglia affrontare il terzo Millennio non può fare a meno
dell’educazione, che ne costituisce il “motore interno”; e questo comporta una
grande responsabilità per la scuola, chiamata ad affrontare le sfide del cambiamento con gli strumenti “deboli” dell’informazione e della scienza, mentre
nella società si palesano squilibri ed emergenze di ampia portata.
Tutto questo appare particolarmente difficile in un’epoca che si definisce
“post” e non “pre” qualche valore, proiettata più verso l’idea di un superamento del passato ma senza saper bene verso quale futuro; ma la scuola non
può non assumere su di sé quei fini antropologici che si possono riassumere
nella personalizzazione, nella socializzazione e nella professionalizzazione, da
realizzare con un sano “distanziamento critico” e mantenendo un difficile
equilibrio tra esigenze di controllo della “produttività” (raggiungimento di apprendimenti significativi) ed esigenze di promozione delle variabili educative
in senso ampio. Istruzione ed educazione, professionalità e partecipazione,
promozione dell’eccellenza e tutela dei più deboli non sono alternative tra cui
scegliere, ma valori da perseguire simultaneamente, con dosaggi che possono
mutare nei diversi contesti e nei diversi tempi.
In un rinnovato “patto sociale” fra portatori di domanda e portatori di offerta educativa, è necessario anche un saggio equilibrio fra programmazione di
tipo centrale e capacità di elaborazione e risposta di tipo regionale, locale e
istituzionale, e fra i diversi punti di vista delle diverse categorie di “cittadini
della scuola”: allievi, genitori, insegnanti e dirigenti.
Condizione necessaria perché tale patto si realizzi è una piena valorizzazione dell’autonomia dei vari soggetti chiamati ad esercitare le loro specifiche
responsabilità. Accanto ad almeno sufficienti risorse di tipo economico e di tipo giuridico-organizzativo, è necessario assicurare a tutti i livelli risorse di tipo professionale e morale.
Le professioni educative – ci ricorda tutta l’opera di Corradini e vogliamo
ribadirlo in conclusione – hanno bisogno di un supplemento d’anima, che le
renda capaci di insegnare ad affrontare i compiti della vita di oggi e soprattutto della vita di un domani, in piena libertà e coscienza, con la consapevolezza
delle gravi responsabilità, nei confronti delle generazioni future, che sono ineliminabili dal codice genetico di tali professioni.
66 Ci riferiamo in particolare all’Editoriale pubblicato su «La Scuola e l’uomo», Roma, n.
4 – aprile 2004, in cui si indicano 13 “punti di attenzione” sulla missione della scuola.
333
Luciano Corradini Sottosegretario alla Pubblica Istruzione
e l’educazione degli adulti
SOFIA CORRADI
Com’è noto, dal 23 gennaio 1995 al 22 maggio 1996 Luciano Corradini è
stato Sottosegretario di Stato alla PI, nell’ambito del governo “tecnico” di
Lamberto Dini, in cui Ministro per la PI era l’industriale ing. Giancarlo Lombardi. Corradini aveva già un incarico istituzionale al Ministero, perché dal 21
12 1989 era stato eletto Vicepresidente pro ministro del Consiglio Nazionale
della PI: incarico che avrebbe tenuto fino al 30.1.1997. Sicché nel periodo in
cui svolse attività di governo potè avvalersi del lavoro che stava compiendo
nell’ambito del CNPI, la cui attività in quel periodo fu particolarmente intensa, nel dialogo con i sette ministri dell’epoca, che furono nell’ordine Sergio
Mattarella, Gerardo Bianco, Riccardo Misasi, Rosa Russo Jervolino, Francesco D’Onofrio, Giancarlo Lombardi, Luigi Berlinguer.
Le deleghe avute e alcune delle iniziative assunte
Il complesso delle deleghe attribuite a Corradini dal Ministro Lombardi riguardavano la formazione universitaria degli insegnanti, gli organi collegiali
della scuola, e le materie cosiddette trasversali: prevenzione delle tossicodipendenze e azioni atte a garantire il diritto all’istruzione delle persone handicappate, progetti per il successo scolastico e per contrastare la dispersione scolastica, educazione alla salute, educazione alla legalità, educazione stradale,
progetto giovani, progetto ragazzi 2000, progetto genitori.
I risultati più rilevanti del breve ma intenso periodo di governo sono a mio
parere l’elaborazione dei testi relativi alla formazione universitaria dei docenti (laurea ai maestri e SSIS) che il successivo Ministro Berlinguer portò all’approvazione del Governo Prodi, e altri atti ufficiali che hanno lasciato una
traccia nella storia della Pubblica Istruzione. Cito per prima la CM 11.10.1995
n. 325, che prevedeva un’integrazione pedagogica e organizzativa dell’attività
di educazione alla salute e di prevenzione delle tossicodipendenze, della lotta
contro la dispersione scolastica, dell’educazione alla lettura, e della valorizzazione del teatro a scuola e dei giornali studenteschi. Nella citata circolare si
334
presentava inoltre, con opportune indicazioni pratiche, una nuova rivista, che
veniva inviata a tutti i rappresentanti delle classi secondarie superiori, dal titolo Studenti &C, mensile del Ministero della PI per i giovani e viceversa.
Stampato dal Poligrafico dello Stato, con fondi del Provveditorato generale dello Stato, nella logica della Carta dei servizi scolastici, questo mensile,
uscito in sette numeri, frutto di una redazione mista fra funzionari ministeriali
e studenti, costituì uno strumento d’informazione e di dialogo interistituzionale, perché vi erano presenti tematiche d’interesse dei diversi ministeri che avevano competenze su questioni giovanili, dalla Sanità all’Interno ai Lavori Pubblici, alla Giustizia, alla Difesa, all’Agricoltura.
Di rilievo istituzionale maggiore sono state due direttive ministeriali, che
hanno operato nella stessa logica “trasversale”, portando ad unità materie fino
ad ora sottovalutate o disperse.
La prima, Dir. Min. 8.2.1996, n. 58 sull’educazione civica e la seconda, Dir.
Min. 3.4.1996, n. 133, sulle attività integrative e complementari.
Se la seconda legittimava i collegi dei docenti ad autorizzare e valutare attività extracurricolari degli studenti, anticipando per certi aspetti l’autonomia,
la prima costituiva per così dire il software di una scuola ripensata alla luce dei
principi costituzionali.
Se mi è consentito individuare un filo rosso che informa tutta l’azione del
sottosegretario Corradini, questo è rintracciabile nel determinato e lucido proposito di procedere speditamente, anche in considerazione della precarietà del
Governo Dini, nella direzione della concreta attuazione dei principi costituzionali in materia di educazione e di scuola, in sintonia con gli orientamenti dell’Unione Europea, del Consiglio d’Europa, dell’OMS e dell’UNESCO. Se sul
piano organizzativo significative sono le Conferenze nazionali degli studenti,
due a Roma e una a Strasburgo, la scelta culturale che stava alla base del Progetto Giovani e che intendeva ripensare tutto il curricolo scolastico, si trova
formulata nel documento allegato alla citata direttiva 58, dal titolo “Nuove dimensioni formative, educazione civica e cultura costituzionale”.
È questo il frutto del Gruppo di lavoro, personalmente presieduto dal Nostro, istituito con DM 23-3-95 per la revisione del DPR 585/1958 sull’insegnamento dell’educazione civica, in armonia con una mozione parlamentare e
con la richiesta formulata da una pronuncia in argomento del CNPI del 23-21995, su “Educazione civica, democrazia e diritti umani”. Il documento in questione fu steso proprio dal citato Gruppo di lavoro e, acquisito il parere favorevole del CNPI al termine di una prima fase dei lavori, allegato dal ministro
Lombardi alla direttiva 58.
Il “discorso educativo” implicito nella Costituzione
Nella bozza di Decreto Ministeriale sui Programmi di educazione civica,
elaborata dalla Commissione Corradini nel periodo 1995-96, non firmata dal
335
Ministro per la fine del Governo Dini, è di particolare interesse il paragrafo intitolato “Le valenze formative del testo costituzionale” (che fa seguito ad uno
più ampio intitolato “L’educazione e la scuola nel disegno costituzionale”) in
cui lapidariamente si enuncia che “la Costituzione contiene ‘in nuce’ un’essenziale discorso educativo”. È opportuno riportarne alcuni passi. “La Costituzione presenta …, con efficace sintesi, concetti che hanno trovato ulteriori e
più analitiche e moderne formulazioni nella vita culturale e nella produzione
scientifica e giuridica nazionale e internazionale degli ultimi cinquant’anni,
anche se questa ha dato spesso l’impressione di un aumento sterminato di conoscenze e di esigenze fra loro non connesse né compatibili.
La Costituzione possiede invece la singolare caratteristica di fondere in una
visione unitaria i diritti umani e l’identità nazionale, l’articolazione autonomistica e l’apertura sovranazionale, la scuola come istituzione e il suo compito di
ricerca, d’insegnamento, di rispetto e di promozione della persona, nella prospettiva di una società pluralistica, a raggio variabile, aperta agli sviluppi della mondialità e della multiculturalità.
Le fondamenta dell’edificio costituzionale, nonostante il tempo passato e i
mutamenti intervenuti, costituiscono una specie di ‘giacimento’ di valori etici,
giuridici, politici e culturali, tanto più prezioso quanto più frammentato, complesso e disorientante appare l’orizzonte valoriale oggi disponibile.
La conoscenza e lo studio di questo testo appaiono dunque condizioni irrinunciabili – prosegue la Commissione Corradini – non solo per la fedeltà alla
Costituzione e alla di poco successiva (1948) Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, ma per la necessità pedagogica di offrire ai ragazzi una mappa
ragionata, una sorta di indice essenziale dei valori/bisogni/diritti/doveri che
consenta loro di leggere, di interpretare e di concorrere a trasformare la realtà
nella direzione dell’autorealizzazione e della realizzazione di un mondo più civile e ragionevole”.
La Commissione per l’educazione degli adulti e i suoi sviluppi
Ma ciò su cui desideriamo rendere diretta testimonianza è il determinante
contributo del Sottosegretario Corradini alla elaborazione di quello che è oggi
uno dei fondamentali documenti che hanno strutturato in Italia il sistema dell’educazione degli adulti. Ci riferiamo alla Ordinanza Ministeriale n. 455 del
1997 che formalmente è stata emanata dal Ministro per la Pubblica Istruzione
Luigi Berlinguer, succeduto in tale dicastero al Ministro Lombardi. Ci riferiamo alla attiva opera di propulsione personalmente e costantemente dedicata dal
Sottosegretario Corradini ai lavori della Commissione ministeriale per l’analisi dell’esperienza delle “150 ore”, operante presso la Direzione Generale della Scuola Media del MPI (Dott. Pasquale Capo), cui venne sostanzialmente attribuito un amplissimo mandato di iniziativa e propositivo. Abbiamo avuto l’onore di farne parte e ricordiamo tale esperienza come una delle più gratifican336
ti e formative. La Commissione era piuttosto numerosa, e vi erano rappresentati sostanzialmente tutti i soggetti (istituzionali e non) attivi nel campo dell’educazione degli adulti in senso lato, dai Ministeri, all’Università, alla scuola,
alle ONG. Ovviamente ciascuno proveniva da esperienze e orientamenti diversi, ma ciò che era assolutamente eccezionale era la evidente intenzione di ciascuno dei partecipanti di recare un concreto contributo.
Era un periodo di grande fermento creativo per tutta quella vasta materia
che ora indichiamo con la intraducibile espressione di “lifelong learning”. Il
Parlamento Europeo aveva proclamato il 1996 “Anno Europeo del lifelong
learning”, anche l’OCSE era attiva in tale campo e la Commissione si tiene in
costante contatto con tali organismi.
La Commissione lavorò intensamente e un suo ampio documento rilanciò
la materia dell’educazione degli adulti, superando decisamente la prospettiva
sperimentale delle “150 ore”. Si tennero due convegni, uno a Brescia e un secondo a Napoli, sia per socializzare gli orientamenti raggiunti sia in vista del
Seminario Europeo sull’EDA, che si svolse a Firenze nel 1996 con amplissima
partecipazione italiana ed internazionale, sulla base di un impegno assunto da
Corradini a Madrid, a nome del Governo, in vista del semestre di presidenza
italiana degli organi comunitari.
In quella sede Corradini aveva proposto il titolo “Verso una società del sapere”, cercando di identificare quanto si doveva fare nel nostro Paese, ancora
privo di una direzione generale per l’educazione degli adulti, e quanto si poteva fare nell’ambito delle istituzioni europee, in vista del ripensamento dei progetti Socrates e Leonardo, anche per evitare la dispersione esistente in materia
di educazione degli adulti fra i diversi programmi europei. Parlò allora di politica attiva dell’educazione e non solo del lavoro, e di politica di gestione della domanda, della risposta e della ricerca, in merito all’educazione permanente, anche in rapporto al ruolo delle cattedre universitarie di questa materia.
La genesi di un’iniziativa sviluppatasi nell’Università di Roma Tre
Nell’occasione del Convegno di Firenze comunicammo ufficialmente al
prestigioso uditorio di avere appena ottenuto dai competenti organi dell’Università “Roma Tre” l’approvazione per un “Corso di Perfezionamento in Teoria e Prassi dell’Educazione degli Adulti”, che poi si sarebbe ripetuto ogni anno. Si tratta di un Corso a distanza, della durata di dodici mesi, che riscosse subito un tale successo da dover prevedere un “numero chiuso” massimo di centocinquanta partecipanti, cui si iscrissero numerosi Presidi.
I lavori della Commissione si sono tradotti dapprima nella emanazione della Ordinanza Ministeriale n. 307 del 2-7-1996 (Corsi sperimentali di scuola
media per adulti) e nella Ordinanza Ministeriale n. 400 del 30-7-1996 (Istituzione di corsi per gli adulti finalizzati all’alfabetizzazione culturale e ad una
prima formazione professionale) e quindi nella notissima Ordinanza Ministe337
riale n. 455 del 29 luglio 1997 (Educazione in età adulta. Istruzione e formazione) istitutiva dei Centri Territoriali Permanenti.
L’Ordinanza dichiaratamente recepisce gli orientamenti emessi da diverse
assise europee ed internazionali. Vengono espressamente citate: le Conclusioni della IV Conferenza Europea “Verso una società dei saperi: orientamenti
per una politica dell’educazione nell’età adulta” svoltasi a Firenze nei giorni
9-11 maggio 1996; le Conclusioni del Consiglio dei Ministri dell’Unione Europea del 20 dicembre 1996 su “Una strategia per l’apprendimento durante
tutto il corso della vita”; le Conclusioni del Consiglio dei Ministri dell’Unione Europea del 17 febbraio 1997 su “Lo sviluppo della comunità locale attraverso l’istruzione e la formazione”; le Conclusioni della Conferenza nazionale italiana “L’apprendimento in età adulta: una chiave per il XXI secolo” svoltasi a Firenze nei giorni 19-20 marzo 1997 in preparazione della allora imminente Conferenza mondiale UNESCO di Amburgo; le Conclusioni della medesima Quinta Conferenza internazionale UNESCO di Amburgo (nota come
“Cofintea five” in quanto si pone in una ideale continuità con le riunioni UNESCO che hanno costituito le pietre miliari della evoluzione dell’educazione degli adulti da intervento remediale ad ecosistema educativo) svoltasi nei giorni
14-18 luglio 1997.
La “Premessa” dell’Ordinanza n. 455 enuncia esplicitamente le finalità che
ci si propone di raggiungere: “l’educazione in età adulta, considerata come elemento propulsore della crescita personale, culturale, sociale ed economica di
tutti i cittadini, si struttura in attività finalizzate all’arricchimento culturale, alla riqualificazione ed alla mobilità professionale; … tali finalità possono essere raggiunte attraverso la promozione di una maggiore collaborazione tra scuola e comunità locale, il coinvolgimento del mondo del lavoro e dei partner sociali, il rapporto tra formazione generale e formazione professionale per l’inserimento nella vita attiva”.
L’Ordinanza n. 455 struttura un sistema di “Centri Territoriali Permanenti”
diffuso capillarmente su tutto il territorio nazionale e che storicamente si riallaccia ai Centri UNLA creati da Anna Lorenzetto nel Mezzogiorno d’Italia. “I
Centri (art. 2 della Ordinanza) si configurano come luoghi di lettura dei bisogni, di progettazione, di concertazione, di attivazione e di governo delle iniziative di istruzione e formazione in età adulta, nonché di raccolta e diffusione della documentazione”. “I Centri coordinano le offerte di istruzione e formazione programmate sul territorio, organizzate verticalmente nel sistema
scolastico e orizzontalmente con le altre agenzie formative per dare adeguata
risposta alla domanda proveniente sia dal singolo, che da istituzioni o dal mondo del lavoro”. “I Centri (art. 3, n. 1) promuovono la domanda, la valutano e
predispongono adeguate risposte ad essa”. “ Il coordinatore di ciascun Centro
(art. 2, n. 2) opera per il radicamento nella realtà territoriale delle iniziative di
istruzione e formazione in età adulta. A tale scopo … promuove rapporti con i
soggetti pubblici e privati … coordina le risorse umane, strutturali e finanziarie impegnate nella realizzazione delle attività”. “Le attività del Centro (art. 5)
338
sono permanenti” e i modelli organizzativi per le diverse attività debbono venire definiti “in base alle reali esigenze dell’utenza e alla effettiva possibilità
di risposta legata ad una gestione efficace e responsabile delle risorse …”.
“Le funzioni di competenza dei docenti” (art. 5, n. 6) vanno ben al di là dell’insegnamento della singola materia. Essi sono infatti tenuti a svolgere, fra
l’altro, “attività di accoglienza e ascolto; analisi dei bisogni dei singoli utenti
…”. “I docenti (art. 5, n. 9) utilizzano il valore formativo delle discipline …
per … sviluppare: la flessibilità come disponibilità a cambiare e innovare; …
l’apprendimento continuo come disponibilità ad aggiornarsi e ad apprendere”.
A proposito degli esami viene precisato (art. 7, n. 4) che “il colloquio … esclude qualunque separata valutazione di singole materie”.
Come risulta evidente, con l’istituzione dei Centri Territoriali Permanenti
per l’istruzione in età adulta, si è creata la struttura portante di quello che si sta
avviando a diventare (seppur fra ostacoli e difficoltà di vario ordine) un sistema integrato di educazione permanente che dura quanto “la vita” del singolo
in senso soggettivo ed è ampia quanto “la vita” in senso oggettivo.
Riferimenti bibliografici
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III Conferencia europea de Educaciòn de Adultos, San Lorenzo de El Escorial. Madrid.
Del 19 al 22 de Novembre de 1995, Ministerio dei Eucaciòn y Cultura, Comisiòn de
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1989-1997, in «Studi e Documenti degli Annali della Pubblica Istruzione», 75-76,
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Governo Dini, Ministri Sottosegretari di Stato e segreterie particolari, Camera dei Deputati Servizio informazione parlamentare e relazioni esterne, Roma, 1995, pp. 65-66.
Corradini L., La pedagogia, l’educazione e la scuola viste dai banchi del Governo. In La
Pedagogia Italiana Contemporanea, a cura di Michele Borrelli, Luigi Pellegrini Editore, 1996.
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italiana alla cittadinanza europea, a cura di Luciano Corradini e Giuseppe Refrigeri,
Bologna, Il Mulino, 1999.
Corradi S., Anno 1997. Gli odierni Centri Territoriali Permanenti per l’Educazione in Età
Adulta. In Mazzatosta T.M. e Corradi S., Cittadini italiani e cittadini europei. Verso
una educazione a nuove cittadinanze, Roma, SEAM, 2001.
339
“Ammiro la tua attività per l’associazionismo e ti faccio i migliori auguri, estensibili a quella ‘santa donna’ di tua moglie e ai tuoi discendenti,
quasi numerosi come l’rena del mare... per usare un’espressione biblica che si addice alla tua condizione patriarcale. Con gratitudine e affetto”.
Mauro Laeng, Pasqua 2004
342
Appendice bio-bibliografica
Gli studi e le attività
Luciano Corradini (n. Reggio Emilia 30.08.1935) dopo la maturità classica, la laurea con lode in filosofia nell’Università Cattolica di Milano (Collegio
Augustinianum), con Sofia Vanni Rovighi e Gustavo Bontadini (1958: tesi su
Comte), ha insegnato lettere e filosofia in diverse scuole secondarie, conseguendo anche il perfezionamento in filosofia neoscolastica (1962: tesi su
Labriola). Vinti tre concorsi a cattedra, accettò storia e filosofia nel liceo di ??
passando poi nel magistrale di Reggio. Sulla base dell’esperienza di aggiornamento professionale, riprese a lavorare in università, nelle sedi di Parma,
Cosenza, Cattolica di Brescia, Statale di Milano. In quest’ultima, nella facoltà
di Lettere e Filosofia, divenne assistente ordinario (1978) poi professore
straordinario (1980) e ordinario (1983) di Pedagogia. Chiamato al Ministero
della PI come vicepresidente del Consiglio nazionale della Pubblica istruzione
(CNPI) e alla Facoltà di Magistero della Sapienza di Roma (1991) come successore di Mauro Laeng, ha continuato il suo insegnamento di Pedagogia generale nella Facoltà di Scienze della formazione dell’Università di Roma Tre,
concludendolo nel 2003.
La sua attività di docente e di studioso si è sempre intrecciata con l’impegno per la promozione dell’associazionismo studentesco, familiare, professionale e sociale: di questa opera sono testimonianza la costituzione, a Reggio
Emilia, dell’USM (Unione studenti medi, 1965), degli ORS (Organismi rappresentativi studenteschi), dell’Age (Associazione genitori, 1968), e poi, a
Roma, dell’ARDeP (Associazione per la riduzione del debito pubblico, 1993)
e dell’AIDU (Associazione italiana docenti universitari, 1999). Nel campo istituzionale, come primo presidente dell’IRRSAE Lombardia (1979-1990), vicepresidente del Consiglio nazionale della PI (1989-1997), sottosegretario alla PI
nel governo Dini, col ministro Lombardi (1995-96), ed infine dal 1997 come
presidente nazionale dell’UCIIM, ha svolto un ruolo attivo nella gestione e
nella trasformazione delle strutture decisionali ed organizzative del sistema
scolastico, secondo una visione che si può definire di pedagogia istituzionale
ispirata a principi personalistici e comunitari.
343
Nel periodo di servizio al Ministero, inizialmente con una convenzione con
l’Università di Milano (Ministro Galloni, 1988), ha curato, nel settore “problemi della condizione giovanile”, le iniziative per l’educazione alla salute, l’educazione stradale, la lotta contro la dispersione scolastica e ha inaugurato la
stagione della progettazione scolastica pluriennale, con i progetti Giovani ’93,
Ragazzi 2000, Arcobaleno e Genitori. Durante l’anno e mezzo di governo ha
cercato di portare a sintesi culturale e istituzionale le “educazioni”, con l’intenso lavoro condotto nella presidenza della commissione per l’educazione
civica, che ha elaborato un curricolo continuo di “cultura costituzionale” (Dir.
Min. 08-02-1996, n. 58, “Nuove dimensioni formative educazione civica e cultura costituzionale”). Promosse intese fra CNPI e CUN e fra i Ministeri
dell’Università e della PI, per attuare gli artt. 3 e 4 della legge 341/1990, conducendo fino alle soglie dell’approvazione i decreti istitutivi della scuola di
specializzazione all’insegnamento secondario (DPR 31.07.1996 n. 470) e del
corso di laurea in scienze della formazione primaria (DPR 31.07.1996 n. 471),
varati poi dal governo Prodi. Per l’Università di Roma Tre e la SSIS Lazio ha
contribuito all’avvio ed al consolidamento dei nuovi percorsi formativi.
Sul piano internazione ha rappresentato il Governo e la scuola italiana in
sede di Unione Europea, di Consiglio d’Europa, di UNESCO, di UNICEF: è
stato per tre tornate membro della giuria del premio europeo “Alcuino”
dell’EPA (European Parents Association). La sua conoscenza del mondo politico si è accresciuta con l’accettazione della candidatura per la Camera nel
1994 per il PPI (Patto per l’Italia), a Brescia. Non eletto, rinunciò ad una successiva candidatura, per dedicarsi all’impegno associativo. Per due quinquenni ha fatto parte del Comitato di valutazione del sistema scolastico della
Provincia autonoma di Trento e ha collaborato per oltre un ventennio all’organizzazione dei convegni internazionali della Fondazione Serio di Praia a Mare,
città della quale è cittadino onorario.
La sua nutrita attività editoriale si è espressa nella direzione della collana
“Educazione scuola e società” dell’editrice SEAM di Roma, del mensile
dell’UCIIM “La Scuola e l’Uomo”, e dei notiziari “ARDeP Notizie” e “AIDU
Notizie”. Giornalista pubblicista, ha scritto per varie riviste italiane e straniere, anche come membro dei rispettivi comitati direttivi. È stato fondatore e
direttore responsabile del “Bollettino dell’IRRSAE Lombardia”, dal 1980 al
1990, e di “Studenti & C., mensile del Ministero della PI per i giovani e viceversa” (1995-1996).
Gli sono stati conferiti il premio EIP (Ecole instrument de paix) per lo studio e la diffusione della cultura della pace, la nomina a socio onorario della
Società italiana di Psicologia dell’educazione e infine la medaglia d’oro dei
benemeriti della scuola, della cultura e dell’arte (1999) da parte del presidente Ciampi, su proposta del ministro Berlinguer (1999). Un profilo di L.C.,
redatto da Piero Cattaneo, si trova in Enciclopedia Pedagogica, diretta da
Mauro Laeng, Appendice A-Z, Brescia, La Scuola, 2003, pp. 392-395.
344
Le pubblicazioni
Volumi
Le assemblee studentesche e la democrazia scolastica, Roma, MCD, 1971,
con M. Vecchi, pp. 154; La difficile convivenza. Dalla scuola di stato alla scuola della comunità, Brescia, La Scuola, 1975 (6° ed. 1983), pp. 334; Democrazia
Scolastica, Brescia, La Scuola, 1976 (7° ed. 1995), pp. 208; Dialogo pedagogico e partecipazione scolastica, Milano, Massimo, 1976 (2° ed. 1980), pp. 288;
Scuola e famiglia. Dai Comitati ai Consigli, Roma, Armando, 1978, pp. 171;
Una scuola per l’uomo. La comunità cristiana s’interroga, Milano, Massimo,
1979, pp. 200; La comunità incompiuta. Crisi e prospettive della partecipazione scolastica, Milano, Vita e Pensiero, 1979, pp. 245; Educare nella scuola.
Cultura comunità curricolo, Brescia, La Scuola, 1983 (3° ed 1987), pp. 272;
Tempo prolungato e programmazione didattica, Milano, Mursia, 1985 (3° ed.
1991), con I. Fassin, pp. 575; La scuola e i giovani verso il Duemila, Teramo,
Giunti e Lisciani, 1987, pp. 219; Vivere senza guerra. La pace nella ricerca universitaria, Milano, Guerini e Associati, 1989 (con altri), pp. 136; Essere scuola nel cantiere dell’educazione, Roma, SEAM, 1995 (ristampa 1996. Vincitore
dello Stilo d’oro), pp. 225; Educazione alla salute (con P. Cattaneo), Brescia,
La Scuola, 1997, pp. 169; Competizione e solidarietà, Da solo o con gli altri?
Roma, Fondazione italiana per il volontariato, 1998, pp. 155; Professione
docente e autonomia delle scuola, Brescia, La Scuola, 2001 (con G. Macchia,
A. Milletti, S. Cicatelli), pp. 1-25; La tunica e il mantello. Debito pubblico e
bene comune: provocare per educare, Roma, Euroma, 2003, pp. 214.
Libri a cura di L. C.
Ragioni e prospettive dei distretti scolastici, IRRSAE Lombardia, Milano,
1985, pp. 1-22; 63- 66; La domanda di aggiornamento, Atteggiamenti e comportamenti degli insegnanti di scuola media in Lombardia, IRRSAE
Lombardia, Milano, 1987, pp. 7-19; Il Biennio nella scuola secondaria superiore, Riflessioni e proposte dalle Scuole sperimentali, IRRSAE Lombardia,
Milano, Mursia, 1988; Progetto Giovani. Identità e solidarietà nel vissuto giovanile, La documentazione educativa n. 8, Ministero della PI, Roma, Istituto
della Enciclopedia Italiana, 1991; Il Consiglio nazionale della Pubblica
Istruzione nel periodo 1989-1997, in «Studi e documenti degli Annali della
PI», nn. 75-76, 1996, Roma, Le Monnier, 1997; La dimensione affettiva nella
scuola e nella formazione dei docenti, Roma, SEAM, 1998; Educazione civica e cultura costituzionale. La via italiana alla cittadinanza europea, Bologna,
Il Mulino, 1999 (con G. Refrigeri); Il corpo a scuola, Roma, SEAM, 1999 (con
I. Testoni); Pedagogia: ricerca e formazione, Saggi in onore di Mauro Laeng,
Roma, SEAM, 2000; Educazione alla convivenza civile. Educare istruire formare nella scuola italiana, Roma, Armando, 2003 (con W. Fornasa e S. Poli);
Insegnare perché? Orientamenti, motivazioni valori di una professione difficile, Roma, Armando, 2004.
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Voci per enciclopedie e dizionari:
– per il Nuovo Dizionario di pedagogia diretto da G. Flores d’Arcais,
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– per l’Enciclopedia pedagogica diretta Mauro Laeng, Editrice La Scuola:
Autogestione, Comunità scolastica, Gestione sociale della scuola,
Partecipazione scolastica, Perucci, Studente, Trasversalità, Nel vol di
Appendice AZ, anno 2003: AGe, AIDU, Checcacci, Giornali studenteschi, Laeng, Modestino, Qualità della scuola, Statuto degli studenti,
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– per il Dizionario di scienze dell’educazione, a cura di Prellezo, Nanni e
Malizia, Elle Di Ci, SEI, 1996: Associazioni pedagogiche, Educazione
sessuale, Organi collegiali scolastici, Partecipazione scolastica,
Studente;
– per il Dizionario di teologia della pace, a cura di L. Lorenzetti, Bologna,
EDB, 1997: Ambiente (educazione all’), Salute (educazione alla),
Studente
Con La Scuola e l’Uomo ha collaborato dal 1968, scrivendo gli editoriali
dal 1997. Qui si citano solo le relazioni ai congressi del 2000 e del 2004:
UCIIM 2000: memoria sogno e progetto al servizio della scuola, 1-2, 2000, pp
6-28; Da persone, cittadini, professionisti per una scuola comunità educativa,
4-5, 2004, pp. 69-94.
Volumi in collaborazione, atti di convegni, miscellanea, articoli
1967. Scuola e democrazia, Bilancio di un esperimento nelle scuole medie
superiori di Reggio Emilia, Roma, Ministero della PI, “Quaderni di sociologia
dell’educazione”, a cura dei Centri didattici nazionali, n. 14, dicembre 1967 (in
coll. con G. Braidi e M. Vecchi), pp. 80;
1968. Forme e problemi dell’associazionismo studentesco d’istituto, in “La
famiglia”, settembre-ottobre 1968, pp. 439-454;
1969. “L’esperienza di Reggio Emilia”, in AA.VV., Professori e studenti in
una scuola rinnovata, UCIIM, Roma 1969, pp. 89-105;
1970. Proposte dalla base, in “Scuola e Città”, n. 6,7,1970;
1972. Aspetti, tendenze e prospettive dell’associazionismo studentesco d’istituto, in “Vita e Pensiero”, marzo-aprile 1972, pp. 21-36; Orientamenti
metodologici per lo studio e l’accostamento educativo della “subcultura”
giovanile, in “Presenza della scuola”, maggio 1972, pp. 2-12; “Condizioni e
garanzie di autonomia e libertà della scuola e nella scuola”, in AA.VV., La
gestione della scuola, UCIIM, Roma 1972, pp. 57-93; La difficile scommessa dell’educazione, in “Scuola italiana moderna”, 15 10, 1972, pp.8-9; Una
coscienza morale per essere autentici, in “Scuola italiana moderna”, 15 11,
1972, pp. 6-7;
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1973. “La scommessa del distretto”, in AA.VV., Il distretto scolastico,
UCIIM, Roma 1973, pp. 5-27; Per un accostamento educativo della “cultura”
giovanile, in “La comunità scolastica”, n. 2-3, aprile-settembre 1973, pp. 3-58;
Il mestiere di genitore nella società che cambia, in “La famiglia”, n. 39, maggio-giugno 1973, pp. 195-208; Il mestiere di genitore nella scuola e nella famiglia, in “La famiglia”, n. 40, luglio-agosto 1973, pp. 306-325; Prospettive per
il superamento di alcuni conflitti di ruolo dell’insegnante, in “Religione e
scuola”, n. 2, novembre 1973, pp. 3-15; Razionalità e partecipazione, in
“Scuola italiana moderna”, 1, 2, 1973, pp. 8-12; “Introduzione” a Potenziali di
sviluppo e promozione educativa. Problemi medico-pedagogici dei minori in
difficoltà di sviluppo e di apprendimento, Atti del Simposio promosso dalla
Fondazione Francesco Montini, Brescia 1973, pp. 5-10; L’Europa dell’educazione, in “Scuola Italiana Moderna”, 1, nov. 1973, pp. 10-12;
1974. Linee per una pedagogia e una politica dell’aggiornamento, in “Vita
dell’Infanzia”, n. 5, 1974, pp. 6-8; Dall’educazione civica all’educazione politica: problemi e prospettive. Parte prima, in “Religione e scuola”, n. 7, 1974,
pp. 8-18; Dall’educazione civica all’educazione politica:problemi e prospettive. Parte seconda, in “Religione e scuola”, n. 8-9, 1974, pp. 4-16; Educazione
sessuale nella scuola e pluralismo, in “La famiglia”, n. 46, 1974, pp. 296-314;
Insegnanti, genitori, alunni nella scuola secondaria: convivenza, cooperazione o rissa? (con R. Calzecchi Onesti), in “La famiglia”, n. 48, 1974, pp. 469480; I centri scolastici distrettuali, in “Aggiornamenti sociali”, n. 3, 1974, pp.
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