giovanni paganin
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www.areaarte.it L’ECCELLENZA IMPRENDITORIALE DI UN TERRITORIO CHE, ATTRAVERSO L’ARTE E IL DESIGN, TROVA NUOVI LINGUAGGI DI COMUNICAZIONE E AGGREGAZIONE Editoriale Il corpo dipinto. Body art di massa I l tatuaggio – il termine deriva dal samoano “tatau” – è una tecnica di decorazione pittorica permanente del corpo molto antica e trasversale a diverse culture. Incidere la pelle immettendo nelle micro ferite o punture sostanze coloranti era una pratica in uso già nell’antico Egitto, a Roma e poi presso le comunità paleocristiane dove gli adepti si tatuavano sulla pelle simboli religiosi per marcare la propria identità spirituale. Main Sponsor L’uso ne venne vietato dall’imperatore Costantino, dopo la sua conversione al Cristianesimo, quando all’inizio del IV sec questa religione divenne non solo lecita ma anche “di stato”. Il divieto venne motivato in quanto ”deturpava ciò che era stato creato ad immagine di Dio”. w w w.grupposerenissima.it w w w.beninca.com w w w.askoll.com w w w.gardacartiere.com E tuttavia l’abitudine non si estinse, tanto che nel Medioevo i pellegrini si tatuavano con simboli religiosi dei santuari visitati, o con piccole croci o con soggetti marinareschi, visto che erano proprio i marinai i primi difensori della costa adriatica contro gli invasori turchi. Gli attacchi dei pirati inducevano anche gli abitanti della costa a tatuarsi segni cristiani poiché, in caso di morte violenta, sarebbero stati riconosciuti come fedeli e dunque sepolti in terra consacrata. La religione ebraica invece vietava ogni incisione o marca indelebile di inchiostro, come pure l’Islam, tranne che con l’henna, colore superficiale con cui nella tradizione araba e anche in quella indiana ancor oggi le donne son solite tatuarsi le mani e i piedi. w w w.graf icart.it w w w.vg7.it Caduto in disuso per secoli, il tatuaggio venne reintrodotto, a seguito delle esplorazioni oceaniche del XVIII secolo e alla fine del XIX secolo, l’uso di tatuarsi si diffuse anche fra le classi aristocratiche europee; addirittura lo fecero lo Zar Nicola II e Sir Winston Churchill. E ciò malgrado il criminologo Cesare Lombroso con la pubblicazione, nel 1876, del saggio L’uomo delinquente avesse associato l’uso del tatuaggio a personalità delinquenziale: secondo la sua tesi, l’atto di tatuarsi di criminali recidivi costituiva il sintomo di una regressione allo stato primitivo e selvaggio. In seguito alla diffusione delle teorie di Cesare Lombroso, il tatuaggio subisce comunque un’ulteriore censura che ne inibisce a lungo l’uso fino alla fine degli anni ‘60 e inizio anni ‘70 del Novecento, con una progressiva diffusione, prima nelle culture hippy e fra i gruppi di motociclisti e poi conquistando progressivamente ogni strato sociale e ogni fascia d’età. Patrocini Sorta di pratica body art, dunque, in quei decenni l’uso del tatuaggio era considerato segno di anticonformismo. Ma oggi? Attualmente i “tatoo” e gli studi che li eseguono si sono moltiplicati esponenzialmente. Viene il dubbio che, da carattere distintivo ed eccentrico, l’idea di tatuarsi sia divenuta un atteggiamento di massa e le forme – simboliche e non – della sua iconografia non di rado esprimono un gusto kitsch. PROVINCIA AUTONOMA DI TRENTO Giovanna Grossato [3] percorrevano le valli a chiedere penitenza e preghiera e, insieme, a lanciare anatemi e a invocar fuoco e fiamme sulla falsità e sulla corruzione del mondo), Paganin pare a me, ogniqualvolta lo vedo aggirarsi tra le sue opere, bruciato da un orgoglio che si pone al limite stesso della sostenibilità e, insieme, umiliato, annichilito, affranto; quasi che, sapendo benissimo ciò che il suo lavoro rappresenta nel nostro vile e maldestro tempo, avverta altrettanto bene cosa lui e lui solo aveva in animo che, quel lavoro, diventasse; se appunto il tempo, il secolo o, forse, i secoli fossero stati altri; se una fede; se, ecco, l’antichissima e mai abbastanza infangata “religione” (mai abbastanza perché possa considerarsi, come pur si vorrebbe, sepolta) reggesse ancora la vita. Invece, ecco, vi geme; trema; balbetta; povera capra o “cavretta” come quella invocata dal mio Macbetto nell’ora della morte o come quella che accompagna l’anonimo recitante della Conversazione (per altro non ancora a stampa, né a scenica pronuncia). La sproporzione che corre dentro lo studio e dentro ogni opera di Paganin é, in verità, un enorme sussulto; un terremoto; un sisma; di rivolta e d’amore; anzi, di rivolta per troppo amore di cosa la vita avrebbe potuto essere e, ahimè, per noi non fu; certo, non é. Su quel sussulto, su quel sisma e sulla sproporzione che ne deriva plana una sorta di virile, ma non per questo meno dolente malinconia; é la malinconia per come un tempo la vita, forse, era stata... Quel forse implica la possibilità che tale malinconia derivi da un sogno; o che essa scenda da chissà che lontanissimo Eden, non di felicità, ma di verità. Per parte mia penso che quel tempo sia localizzabile nei momenti in cui il disegno di Dio reggeva ogni città e ogni borgo; nei momenti in cui quel disegno ritmava ogni ora dell‘umano esistere; e l’artista, ecco, abdicava al suo nome per entrare nel coro della comunità; tuttavia, facendosi anonimo, egli realizzava se stesso fino all’ultima goccia del suo sangue; il “tutto” in cui entrava senza più particolari gli faceva ritrovare la sua vera, sola e garante identità. Giovanni Paganin nello studio milanese di via Savona | 1967 Giovanni Paganin G i o v a n n i Te s t o r i L’ostaggio | 1960 Bronzo cm 167 x 45 x 41 O gniqualvolta m’è accaduto di visitare lo studio di Paganin, anzi uno dei suoi studi (dislocati sempre alla periferia di Milano, tra i duri e tragici capannoni dell’industria), ho avuto l’impressione che vi pulsasse qualcosa di troppo compresso, qualcosa, ecco, d’eccedente e di non contenibile; di non contenibile non solo a quegli enormi stanzoni (fin a poco prima, forse, anonimi o abbandonati magazzini), ma anche alle dimensioni concesse al nostro miserevole vivere quotidiano. Tra i rari bronzi, i molti gessi e le moltissime crete (fasciate, quest’ultime, da veli di carta oleata come da altrettante sindoni) m’é sempre parso che Paganin si muovesse malissimo; come se l’artrite che lo insegue da anni lo volesse rendere ancor più estraneo, non solo allo studio o all’insieme dei capannoni dove lo studio aveva sede, bensì alla città che da anni lo ospita e, in definitiva, al paese; che dico? alla vita; alla vita, intendo, come luogo; quasi gli fosse fatalmente impossibile trovar un metro di terra in cui, non dirò sistemarsi, ma, ecco, sopportarsi; e sopportare. Eppure conosco pochi artisti così disperatamente attaccati alla vita come Paganin; attaccati non già per salvaguardarvi il proprio passaggio, ma per redimere lei, proprio lei, la vita. Uso la parola redimere, ancorché sia ridotta oggi ad oggetto di derisione; anzi, l’uso proprio ed esattamente per questa specifica ragione. Sdegnoso, collerico, spesso inavvicinabile, con ingenuità e tenerezze da bambino e con accensioni e rivolte da vecchio, ferito orso anarchico o da cupo predicatore medievale (quelli che, un tempo, [4] Giovanni Paganin con una delle sue Ossesse | 1990 [5] Prigioniero | 1965 Bronzo patinato cm 43,5 x 10,5 x 10,5 [6] Il portatore di luce | 1973 Gesso cm 196 x 63 x 57 La madre I | 1962 Bronzo cm 163 x 55 x 48 Eva (Lamentazione) | 1974-77 Bronzo cm 177,5 x 43 x 44 [7] Cacciata di Eva | 1948 Legno cm 61,5 x 30 x 24 Cacciata di Eva | 1946-47 Legno di noce cm 98 x 37 x 50 Oggi, in un periodo in cui l’anonimato é della peggior natura che possa immaginarsi (quella consumistica), l’unica possibilità di cui un artista dispone per diventar anonimo é di non esserlo per nulla; d’identificarsi talmente con la propria difficoltà, col proprio malessere e con la propria impossibilità ad accettare il baro e il falso della vita, da risultare quasi abnorme... avervi pianto sopra; per avervi immesso, dentro, il dolore dell’umana dignità e coscienza tradite all’atto stesso del nascere. Ed ecco che la parola maledetta (o benedetta) torna in causa. Paganin é, se Dio vuole (e certamente lo vuole), fuori dalle odierne proporzioni. Mettete una sua opera in una mostra antologica e vedrete; vi parrà che un bue sia entrato in un salotto o dentro una vetrina espositiva delle odierne, plastificate bellezze. Eppure la bellezza, anche la bellezza vera, é lì, nel passo del bue; nei suoi movimenti sempre eguali ma, a guardar bene, sempre diversi; nel volgere lentissimo del suo muso; e così la musica, sì, anche lei, è lì, nel suo profondo e come ancestrale muggito; un muggito che risulta un infinito lamento.Fuori dalla modernità (se modernità é ciò che ha formato la storia ufficiale e apparente di questi anni); e, altresì, fuori dal tempo connesso alla modernità; ma per aver toccato la creta con cui un giorno siamo stati fatti anche noi; abitanti di questa turpe modernità e di questo turpe tempo; per averla toccata, premuta, stretta fra le dita; per [8] Quello che, nella scultura di Paganin, più colpisce e determina come una stretta qui, alla gola, é proprio questo trascinarsi dietro tutto, assolutamente tutto, di quel terribile ed immenso momento: venir alla luce, sì. Ma perché? E per andare dove? E per vivere come? Qui? In questa che han chiamato società? Fosse per vivere in una valle di lagrime, gli uomini e le donne di Paganin accetterebbero; anzi, voi li vedete, han già accettato questo loro essere terra e luce, anima e creta. Ma di ciò che, poi, sulla terra si fa e si costruisce, anzi di ciò che, costruendo, si distrugge? Questo mondo dove Dio é cancellato, cancellata l’impronta dell’eterno e dove tutto é ridotto al perituro, dove anzi del perituro si cerca di fare il continuum e nello stesso tempo l’unico e possibile significato? Macerate, squassate come dolomitici frammenti o come vulcaniche larve, le figure di Paganin guardano l’orrore della vita fattasi società; talvolta hanno un gesto di sdegno; tal altra di maledizione; spesso l’abisso su cui posano i loro trogloditici piedi le chiude in una morsa di silenzio. In quel silenzio rantola l’ultima speranza che resta all’uomo; o s’aderge la sua ultima rivolta. La caduta II | 1975-78 Bronzo cm 190 x 130 x 100 Così le facce che nelle grandi sculture paiono anonimizzate dall’indignazione e dallo spavento, Paganin se le va a cercare nei Ritratti […]che egli esegue a memoria. Il segreto, il miracolo del futuro di Paganin sarebbe che, ad un certo punto, l’intensità fisionomica dei Ritratti s’impastasse con l’enormità della sua selva di nudi e di nude; oltre che il segreto e il miracolo, ne sarebbe la logica e come fatale conclusione; l’apoteosi dura e selvaggia; amarissima eppur umanamente indefettibile. Che nudi e nude risultassero anonimi ed insieme nominati e che la testa in forma di ritratto che in due sculture va, per la prima volta, a collocarsi sui corpi dei camminanti o dei fulminati sia quella dello scrivente prova, con l’imbarazzato orgoglio che ne deriva per esserne stato involontario tramite, che a cominciare quel suo totalizzante atto di fusione (e di nominazione) aveva bisogno d’una delle poche facce cui permette meno infrequentemente di rompere la sua solitudine; anzi, cui talvolta chiede che quella rottura o lacerazione operi e dietro invito […]. (da Giovanni Paganin, catalogo della mostra organizzata dal Comune di Milano alla Rotonda di via Besana, a cura di Giovanni Testori – Electa, Milano, 1978) Galleria d’arte Nino Sindoni Viale Matteotti 44/8 36012 Asiago ( VI) www.ninosindoni.com Associazione Alberto Buffetti [email protected] [9] El Greco Metamorfosi di un genio Casa dei Carraresi U na straordinaria esplorazione sull’opera e sulla vita del pittore cretese Dominikos Theotokopoulos, divenuto famoso come “El Greco” (Candia, l’odierna Iraklion, 1541 – Toledo, 1614), con i suoi misteri, alcuni dei quali forse destinati a rimanere tali, e la stupefacente originalità della sua pittura, sono oggetto della mostra El Greco in Italia. Metamorfosi di un Genio, la più importante retrospettiva sul pittore mai realizzata nel nostro Paese. Essa giunge a coronamento delle iniziative che hanno da poco commemorato il quarto centenario della morte dell’artista in Grecia e in Spagna e si pone come obiettivo svelare al pubblico, attraverso i dipinti e inedite indagini scientifiche, l’affascinante avventura umana e artistica che il maestro del ‘500 ha vissuto durante il periodo della sua permanenza in Italia. E’ proprio attraverso gli incontro con altri famosi pittori italiani e le conseguenti scoperte e passioni che tali rapporti suscitarono, che la pittura di El Greco è maturata al punto di fare di lui un personaggio capace di ispirare una generazione di artisti e letterati del XIX secolo, tra cui Baudelaire e Delacroix, Manet, Cézanne, fino a Picasso. a Tr e v i s o di Tiziano, Bassano, Tintoretto e Veronese. Il contatto con l’arte del maturo Rinascimento veneziano lo spinse ad addentrarsi ulteriormente nel modo artistico italiano e a recarsi anche a Roma, dove, nel 1570, aprì una propria bottega. Poi, nel 1577, il pittore si trasferì a Toledo, in Spagna, e nella città castigliana visse e lavorò fino al giorno della morte. Proprio a Toledo El Greco ricevette numerose importanti commissioni e realizzò alcune delle sue opere più importanti che fanno di lui uno degli artisti più significativi del Rinascimento spagnolo. Ora, studi aggiornati che la mostra pone in primo piano nello sviluppo del percorso espositivo, evidenziano anche come lo stile del maestro abbia sovrapposto alla matrice neo bizantina cretese del primo periodo le successive esperienze della cultura figurativa italiana della prima metà del ‘500 e del Manierismo, dando giustificazione del linguaggio originalissimo, unico nella storia dell’arte. Furono questi artisti a scoprire la modernità di El Greco, diventandone appassionati studiosi e traendo ispirazione dalla sua visionarietà, dall’uso antinaturalistico che egli faceva dei colori, dal movimento ascensionale delle figure, dalla tensione psicologica dei suoi ritratti, dagli sprazzi di luce rubati alle tenebre. Ciò, come si è detto, attraverso l’esperienza diretta dei maestri veneti e, anche, soprattutto sul piano compositivo, grazie alla lezione michelangiolesca e romana. Tutto ciò, inoltre, dimostra come l’artista possedesse un’educazione archeologica, letteraria ed estetico-filosofica raffinata che si manifesta in scelte espressive incredibilmente eccentriche per la sua epoca, di cui si sono potute ipotizzare le fonti nell’ambito di circoli intellettuali attivi a Venezia e a Roma negli anni in cui il pittore vi si trovava ad operare. Il decennio italiano, dal 1567 al 1576, fu per lui fondamentale e gli permise di confrontarsi in modo diretto con la coeva pittura Alcuni laconici documenti di Toledo ci informano solo, oltre che della data di nascita, del fatto che nel 1566 egli già operava Domenikos aveva compiuto il suo apprendistato a Creta, sua isola natale, a quell’epoca ancora ancora possedimento della Repubblica di Venezia in qualità di “stato da mar”, e centro di un importante movimento pittorico post-bizantino, noto come Scuola cretese, della quale era divenuto maestro. A 26 anni intraprese un viaggio a Venezia che era quasi d’obbligo per il completamento formativo di un artista, forse anche nella speranza di ottenere nella Serenissima nuovi sbocchi alla sua carriera. Rimangono tuttavia ancora poco noti alcuni particolari della vita e dei contesti entro i quali El Greco realizzò le sue opere. Come ad esempio le committenze del decennio italiano e i luoghi specifici dove egli abitò e dipinse, sia a Venezia che a Roma. Le certezze esistono solo nei ritratti di alcuni personaggi assai famosi, come il Cardinale Alessandro Farnese, il suo segretario Fulvio Orsini e Giulio Clovio che, per conto di Tiziano, lo aveva raccomandato al primo. Nella pagina seguente: Ritratto di giovane gentiluomo Olio su tela, cm 56,5 x 43 Courtesy of Maison d’Art , Montecarlo [ 10 ] [ 11 ] Adorazione dei Pastori | 1568-69 Tempera su tavola cm 63,5 x 76 J.F. Willumsens Museum, Danimarca Adorazione dei Magi Olio su rame cm 21 x 16,5 collezione privata, Montecarlo [ 12 ] con la qualifica professionale di “maistro” e di “sgourafos”, ma a tutt’oggi non si sa ancora se alla pratica tradizionale bizantina di pittore di icone, egli accompagnasse, come altri artisti veneto-cretesi suoi contemporanei, sperimentazioni o esercizi alla “maniera occidentale”. Sempre relativamente all’anno 1566, è documentato che il 26 dicembre Theotokopoulos mise all’asta un dipinto sulla Passione, forse per procurarsi il denaro necessario a compiere il trasferimento a Venezia, dove però la sua presenza è segnalata solo il 18 agosto 1568. Dopo l’arrivo a Roma nell’autunno del 1570, è noto che il pittore era già un ritrattista famoso, probabilmente per aver conosciuto il miniatore croato Giulio Clovio, allora al servizio dei Farnese, il quale designandolo “allievo di Tiziano”, lo raccomanda, con una lettera datata 16 novembre 1570, al “gran cardinale” che lo accoglie e inserisce nel suo circolo. Ma si ignora presso chi Dominikos si fosse stabilito. Poi, accadde qualcosa di inatteso: una lettera del 6 luglio 1572 ci informa che El Greco venne licenziato in modo irrevocabile dal suo protettore e che, per poter continuare a lavorare, si iscrisse alla corporazione dei mestieri come miniatore. Di questo periodo non si conosce altro per quattro anni, fino alla data del 1577, quando si trova l’artista già insediato in Spagna. Se prima di allora egli fosse rimasto a Roma o rientrato a Venezia non è dato sapere e rimane uno dei punti oscuri della sua biografia. L’evento espositivo italiano, mettendo in sequenza le recenti analisi storico -artistiche, documentarie e tecniche così da rendere più facile una comprensione organica dell’attività del pittore in Italia, coinvolge il pubblico in uno stimolante dibattito che tocca diversi ambiti di indagine: dalla fede religiosa di El Greco al suo orientamento politico, dai rapporti familiari all’evidenza di una profonda cultura umanistica. [ 13 ] L’aggiornamento critico è risultato di lunghe indagini, pregresse e recenti, del curatore Lionello Puppi, affiancato da un Comitato scientifico internazionale composto da studiosi di prestigiose realtà accademiche tra cui Serena Baccaglini. Tale ricognizione propone oggi un catalogo ragionevolmente certo e definito dell’attività di Dominikos Theotokopoulos. Un regesto che ha superato lo scompiglio causato intorno agli anni Quaranta e Cinquanta dall’immissione sul mercato antiquario di una gran quantità di modeste tavole prodotte nelle botteghe artigiane attive a Creta, nelle isole adriatiche, in Dalmazia e nei Balcani. Organizzato da Kornice, di Andrea Brunello, con la collaborazione di Art for Public e Fondazione Cassamarca, El Greco in Italia. Metamorfosi di un Genio apre i battenti dal 24 ottobre 2015 al 10 aprile 2016, presso Casa dei Carraresi di Treviso. Passione di Cristo | 1566 Tempera su tavola cm33,5 x 26,5 (icona), 68,7 x 45 x 2,5 cm (tabernacolo) © The Velimezis Collection, Atene El Greco. Metamorfosi di un genio 24-10 -2015 / 10 - 04-2016 Casa dei Carraresi Via Palestro 33, 35 Treviso info e prenotazioni: +39 0422 513150 e-mail: [email protected] www.elgrecotreviso.it Ufficio Stampa [email protected] cell. 338 6047174 Salvatore benedicente Olio su tela cm 73 x 55,5 Galleria Parmegiani Musei Civici Reggio Emilia [ 14 ] Ritratto di Giulio Clovio Olio su tela cm 62,5 x 51 cm Schorr Collection, Londra © Mathew Hollow [ 15 ] O ggetto di numerose mostre, ultima delle quali la Biennale di arte contemporanea “PRIA 2015” di Biella, i dipinti per gli arazzi di Aubusson della collezione AlVy rappresentano una rara ed interessantissima raccolta capace di raccontare ai giorni nostri una delle più antiche tradizioni tessili d’Europa. Una selezione di “cartoni” appartenenti a quella che è la più importante collezione italiana di ‘Cartons de Tapisserie d’Aubusson’ è stata infatti esposta con il titolo “I dipinti nascosti degli arazzi di Aubusson” dal 14 al 28 giugno 2015 presso l’Ex Lanificio Pria, in una delle più famose patrie dell’artigianato e dell’industria tessile italiana, Biella. L’obiettivo era quello - comune alle molte altre occasioni espositive in cui i bellissimi cartoni, recuperati e restaurati da Aldo Giurietto e dalla moglie Valérie – non solo di condividere con il pubblico le preziose e rare pitture realizzate per essere trasferite in stoffa, ma anche di far ripercorrere ai visitatori la secolare vicenda delle arazzerie della città francese di Aubusson, celebre in tutto il mondo per le sue manifatture tessili. Sebbene la data delle origini di questa lavorazione artigianale non sia certa, si ritiene di farne risalire la genesi al VIII secolo d. C ad opera dei Saraceni che avrebbero eseguito la prima manifattura con un particolare telaio, “a basso liccio”. Come per altri famosi arazzi, ad esempio i Gobelins, questi telai hanno la caratteristica di avere l’apertura della bocca d’ordito azionata da pedali, cosa che permette tempi di lavorazione più brevi, pur non consentendo la realizzazione di pezzi di grandi dimensioni. Carton de Tapisserie modello per schienale poltrona | sec. XIX Olio su tela cm 62 x 62 Collezione AlVy E’ certo comunque che la cittadina di Aubusson possiede fin dal XIV secolo le prime fabbriche, tanto che gli arazzi tipici qui prodotti ne assumono il toponimo e diverranno famosi come Arazzi di Aubusson. Richiesti in tutta Europa e intensamente prodotti dal XVI al XVIII secolo, questi arazzi costituiscono dei pezzi unici che si possono ammirare nei musei internazionali o in grandi collezioni d’arte pubbliche e private e che l’Unesco ha inscritto nella lista del Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità. A realizzare i dipinti sulla cui traccia veniva ricavata la tessitura erano artigiani specializzati, i ‘peintres cartonniers‘, che contribuirono con la loro maestria a creare una leggenda. C’è una storia antica che racconta di questi abili tessitori e dei pittori che, pur destinati a rimanere nell’anonimato, passarono alla storia attraverso le loro opere. Particolare di un Carton de Tapisserie modello per arazzo “Le coffret a bijoux”, genere “millefiori” | sec. XIX Tempera su carta cm 195 x 160 Collezione AlVy I Cartons de Tapisserie d’Aubusson A r t e d i c a r t a s o t t o l ’a r t e d i s t of f a G i ova n n a G r o s s at o [ 16 ] Da qualche anno il mondo del collezionismo ha iniziato a puntare gli occhi non sulle opere finite ma su quelli che ne costituiscono l’antefatto, i “cartons de tapisserie”, appunto, su cui arazzi, tappeti e tappezzerie venivano creati. Svelare ai visitatori cosa si nasconde dietro gli arazzi, diventa dunque l’obiettivo di queste mostre che si svolgono ormai da diversi anni. I “cartons de tapisserie” erano dipinti a olio o a tempera realizzati su carta o tela che i ‘peintres cartonniers’ creavano negli ate-lier delle manifatture di Aubusson su genere o su commissione, per essere poi utilizzati come modelli dai tessitori. Particolare di un Carton de Tapisserie modello per arazzo, genere millefiori | sec. XIX Tempera su carta cm 150 x 100 Collezione AlVy Il cartone in scala 1/1 veniva inchiodato direttamente sotto il telaio e il tessitore, passaggio dopo passaggio, incrociando i filati di vari colori realizzava in lana o seta il soggetto dipinto. Il fascino dei cartoni, che sono comunque dei bellissimi quadri, sta proprio anche nel fatto di essere stati vivi strumenti di lavoro: lungo il perimetro sono ancora presenti i piccoli fori dei chiodi serviti per fissarli a telaio, qua e là si leggono frasi con appunti e indicazioni tecniche minuziose del pittore per i tessitori che li avrebbero realizzati. [ 17 ] E’ probabilmente irrilevante che nessuno di questi piccoli capolavori cartacei rechi la firma del suo esecutore che evidentemente si considerava e veniva con-siderato parte integrante di una filiera artigianale. Solo in qualche caso viene apposto a margine dei dipinti il nome “Aubusson” come autenticazione d’origine, perchè comunque, come scrive Silva Menetto “fra queste “verdures”, questi paesaggi boschivi, tra castelli dipinti e corsi d’acqua, fiori e piccoli animali che sembrano usciti da una fiaba si coglie una rara sensibilità e un raffinato gusto per il bello. E poco importa, alla fine, se i tessuti, le tappezzerie e gli arazzi realizzati su questi “cartons” preparatori sono scomparsi: attraverso l’opera di divulgazione di alcuni collezionisti, i “cartons de tapisserie” stanno conoscendo una nuova giovinezza come opere d’arte a sé stanti, tanto che in Francia sta prendendo corpo l’idea di creare un museo ad hoc. I “cartons de tapisserie”, sottoposti ad un restauro e ad un successivo intervento di intelaiatura, diventano quadri di piccole o grandi dimensioni che raccontano storie di un’epoca e di un mestiere ormai scomparsi.” (Sole 24 Ore, 5 aprile 2012) I collezionisti di AlVy da molto tempo raccolgono questi “gioielli” e si adoperano per riproporli come originali elementi di arredo in ambienti classici e moderni dopo un attento restauro conservativo che nulla toglie al fascino del loro vissuto. Chi si avvicina agli arazzi di Aubusson ha dinanzi a sé non solo opere di alto artigianato ma anche veri e propri dipinti. Racconti secolari fatti di passione e maestria, di abilità e tradizione. Essi infatti sono costruiti secondo solide conoscenze della prospettiva e del chiaro-scuro, esattamente come i quadri su tela o su legno a loro contemporanei, e le atmosfere che evocano sono la pace e la tranquillità pastorale e idilliaca delle campagne e dei boschi della Francia. I motivi da cui traevano ispirazione erano destinati a creare a loro volta sugli arazzi che avrebbero ricoperto le pareti dei palazzi e dei castelli un senso di serena accoglienza. Nel contempo i paesaggi rappresentati, con acque e animali, suggerivano una relazione con le tenute e le proprietà dei ricchi proprietari che le possedevano. L’obiettivo di abbellire e rendere confortevoli e calde, ospitali le stanze delle ampie magioni si univa a quello di dimostrare il potere, la ricchezza e la cultura di chi ne aveva commissionato il decoro. Piante e fiori avevano spesso anche un significato simbolico che faceva riferimento alle virtù e a un ricco rimando iconografico che era ben noto ai frequentatori e agli ospiti, patrimonio culturale comune di una lunga epoca. I candidi mughetti metafora della felicità che ritorna con la primavera e annuncia la fine dell’inverno, attesa dall’usignolo che al suo primo fiorire vola nel bosco a celebrare i suoi amori, mentre per i monaci il fiore rappresentava la scala per il paradiso ed era ornamento primaverile degli altari; i lillà, segno sempre di intenso sentimento amoroso; i papaveri simbolo di consolazione, di serenità, di sogni felici e premonitori, dell’abbandono dell’orgoglio e dell’attesa di sorprese; la rosa, da sempre sinonimo di bellezza ma anche riferimento cristologico per la presenza delle spine. Anche le lunghe prospettive percorse da fiumi e campi, intervallate da manieri e castelli e popolate da pastori o contadinelle e da piccoli animali rappresentano il ricco patrimonio naturalistico presente nella “grande” arte pittorica dei secoli tra la fine del Medioevo, attraverso il Rinascimento e fino alle soglie del Romanticismo. Spesso i temi fanno riferimento alla letteratura, alla favolistica coeva o antica, come le favole di La Fontaine o anche, più raramente, rappresentavano copie o rifacimenti d’après di opere pittoriche famose. ALV Y di Aldo Giurietto Via Dante Alighieri 106, 36100 Vicenza www.alvy.it Insieme di Cartons de Tapisserie d’Aubusson “Opere d’arte come strumenti di lavoro” Collezione AlVy Carton de Tapisserie modello per arazzo | sec. XIX Tempera su carta cm 164 x56 Collezione AlVy Particolare di un Carton de Tapisserie modello per arazzo, genere “verdure” | sec. XIX Tempera su carta cm 90 x 90 Collezione AlVy Particolare di un Carton de Tapisserie modello per arazzo | sec. XX Tempera su carta cm 246 x 97 Collezione AlVy Particolare di un Carton de Tapisserie modello per arazzo “Le Bergeres”, genere “millefiori” | sec. XIX Tempera su carta cm 186 x 112 Collezione AlVy [ 18 ] [ 19 ] Simon Ostan Simone My land ES | 2010 Terra impastata su tela cm 60 x 60 L’o p e r a d ’a r t e c o m e “ f a t t o c o m u n i c a t i v o ” A l e s s a n d r o B e n e tt i S imon Ostan Simone o, sinteticamente, SOS (Portogruaro, 1977) si auto-definisce con l’epiteto complesso di multimedial artist. Culturalmente, Simon proviene da un percorso di formazione articolato in due momenti principali, fondamentali nel definire i due poli attorno ai quali si sviluppa la sua creatività. Inizialmente studia alla scuola d’arte La soffitta, fondata da Aldo Mori, tra le figure più importanti della scena culturale portogruarese del Novecento. È sotto la sua guida carismatica che Simon approfondisce le tecniche pittoriche e figurative del passato, apprendendo le nozioni fondamentali per preservarle non in quanto memoria inattuale ma come pratiche vive del presente artistico. Si concentra in particolar modo sulle pale d’altare, testimonianza diffusa di un sapere tramandato di generazione in generazione e presenza Simon Ostan Simone con alcune opere del ciclo Hands comune nel paesaggio degli edifici religiosi del Nord Italia. Parallelamente, negli anni ’90 s’iscrive alla scuola di grafica di Venezia, dove si diploma nel 1997. È nel capoluogo veneto che arricchisce il suo bagaglio culturale di una serie ricchissima di stimoli strettamente contemporanei e provenienti da un ambito più ampio di quello propriamente artistico. In particolare, si avvicina alla grafica pubblicitaria, proiettandosi nella dimensione di sintesi e urgenza comunicativa che le è propria. A partire dai primi premi vinti già a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 (come il Premio Paesaggio, nel 1989, e il primo premio al concorso nazionale indetto dall’AIDO per la propria campagna pubblicitaria), i lavori di Simon sono esposti in numerose mostre personali e collettive (a Roma, Milano, Torino, Venezia, Udine, Brugge) ed entrano a far parte di alcune importanti collezioni personali. Dal suo percorso di formazione complesso e non lineare, Simon eredita una profondità di sguardo e riflessione non comune, che s’interroga continuamente sul legame tra la possibile “aura” dell’opera d’arte e la strategicità del mezzo pubblicitario: SOS è un “artista comunicatore” che, in effetti, lavora correntemente anche come art director. Andy Warhol è, inevitabilmente, la figura di riferimento principale di Simon, che dal padre della pop art eredita l’interesse per il ripensamento del rapporto reciproco tra artista e osservatore, e del posizionamento di ciascuno nei confronti dell’opera d’arte. Quest’ultima non ha certamente valore come pezzo unico autoriale: piuttosto, la sua “riproducibilità tecnica” ne amplifica il potenziale perché è proprio la serialità a garantirle di raggiungere un pubblico il più possibile vasto. Negli infiniti stimoli visivi a cui siamo soggetti nel mondo contemporaneo lo spettatore è un osservatore rapido e distratto, che può essere impressionato unicamente attraverso un linguaggio immediato, di facile leggibilità, estremamente sintetico. È sulla base di questi presupposti che si costruisce la poetica di Simon. Come scrive Lara Bortolussi: «Le sue opere s’impongono (…) per essere caratterizzate da forme semplici, nitide, espressive, comunicative, “libere”, non imbrigliate in una prigione capillare di segni. Il suo linguaggio è talmente “manifesto” e al tempo stesso talmente “personale” e “svincolato” che elude sia il campo figurativo che quello astratto». Si colloca, invece, in una posizione intermedia tra i due, che include la realtà ma la trasforma in «segno danzante» (ancora Bortolossi). L’obiettivo, infatti, non è la forma in sé, né la sua riconduzione fine a sé stessa alla sfera della figuratività o dell’astrazione ma la definizione di un mezzo materiale attrattivo con cui veicolare un messaggio capace di catturare l’attenzione. Simona Tesio, citando Umberto Eco e il suo saggio La definizione dell’arte evidenzia l’importanza nella vita dell’opera d’arte della dialettica tra finitezza (quale realizzazione dell’in[ 20 ] My land | 2010 Terra impastata su tela cm 40 x 60 [ 21 ] tenzionalità dell’artista) e apertura (ossia la disponibilità ad essere interpretata dai fruitori). I lavori di Simon vivono ampiamente di questa dialettica, perché proprio essa ne garantisce e amplifica il valore di “fatti comunicativi”. Simon compone questi fatti a partire da simbologie elementari, come la contrapposizione tra il bianco e il nero e tra la linea retta, che rappresenta la finitezza della condizione umana, e linea curva, che si proietta verso il trascendente. Queste coordinate di base, poi, si arricchiscono d’infinite sovrapposizioni e imprevisti: presenze eteree in trasparenza – come i frequenti volti umani o, meglio, frammenti di essi; segni grafici più complessi, come la ricorrente lettera A; variazioni cromatiche, quando la dicotomia tra bianco e nero si stempera nel grigio o include pochi brillanti tocchi di rosso. Nella serie My Land, infine, il supporto liscio dell’opera bidimensionale si trasforma in materia, vera e propria argilla, con le sue crepe, la sua texture caratteristica e i chiaroscuri irregolari, che contrasta con l’outline preciso delle campiture bianche che sembrano deformarsi fino ad esplodere, a sgretolarsi. Primordial Storm | 2015 Olio su tela cm 100 x 100 Evohandaction | 2009 Acrilico su tela cm 200 x 100 Le opere di Simon, però, non vivono unicamente delle proprie caratteristiche intrinseche, ma si relazionano strettamente con il contesto in cui sono presentate e vissute dal pubblico. L’intorno dell’opera è uno strumento fondamentale per “congestionare” l’esperienza dell’osservatore di ulteriori stimoli e per indirizzarne sottilmente le capacità interpretative. Così, a Portogruaro Simon collabora con il dj Christian Martini per la presentazione di Orchestrazione 21, un omaggio al manifesto dell’Arte dei Rumori, composto da Luigi Russolo nel 1913, che mette in discussione il pregiudizio negativo sul “rumore” inteso come suono unicamente fastidioso. La serie degli eventi di Anime, invece, coinvolge ogni volta personalità di ambiti diversi attorno al nucleo centrale di Signs and forms | 2015 organizzatori di cui fanno parte, oltre a Olio su tela cm 100 x 100 Simon, lo scultore Max Solinas e il giornalista Fabrizio Nonis. In questo caso, protagonista è l’arte culinaria, come performance che fa da complemento alle opere statiche dei tre. Infine, a Marrakech, Simon “libera” alcune delle sue tele nella piscina di un grand hotel, percorsa da una corrente leggera ma continua. Il flusso incontrollabile delle acque determina accostamenti sempre diversi e ogni volta inediti tra le opere, veri e propri “frammenti” di un discorso possibile, di cui il caso imprevedibile ridefinisce senza sosta il messaggio. Simon Ostan Simone Performance Artistica “together” | 2012 Forme intagliate e proiettate su maxi schermo cm 400 x 300 presso Cison di Valmarino vive e lavora a Gruaro - Venezia www.simonostansimone.it [ 22 ] [ 23 ] La Scuola di Mosaicisti del Friuli L a Scuola Mosaicisti del Friuli è una realtà unica e originale, difficilmente incasellabile in una categoria didattica precisa sia per la sua storia, sia per le diversificate attività che in essa si concentrano. Viaggiando nel tempo e nello spazio, si contano numerose installazioni, esposizioni, opere musive realizzate dalla Scuola nel mondo. Opere che scaturiscono dall’energia di persone che nel mosaico investono un sogno, la sapienza tecnica, lo spirito di ricerca, la voglia di guardare le cose attraverso le tessere e di lavorarci. Il mosaico è un’arte nobile, antica e contemporanea ad un tempo, dove è sottile la separazione tra dimensione artistica e artigianale (ammesso che esista), che vicendevolmente si rinforzano. La Scuola Mosaicisti del Friuli nasce nel nord-est dell’Italia, in Friuli Venezia Giulia, a Spilimbergo (PN), vicino ad Aquileia (culla del mosaico romano e paleocristiano) e a Venezia (polo di respiro musivo bizantino). I riferimenti storici del passato e la particolare configurazione del territorio pedemontano, con i suoi Magredi (una sorta di Land Art Musiva) hanno mantenuto viva nella memoria collettiva l’arte del pavimentare e del mosaicare le superfici con i materiali messi a disposizione dalla natura (sassi, pietre). Ne è nata una tradizione e una prospettiva di lavoro. Il Friuli - terra d’emigranti tra ‘500 e ‘800 - ha esportato idee e creazioni che hanno trovato terreno fertile in luoghi stimolanti e pieni di risorse, come a Venezia e a Parigi. A Venezia è documentata - fin dagli albori del Rinascimento - la nutrita presenza di maestranze friulane: si tratta sia di terrazzieri (artefici esperti nella realizzazione di pavimenti in seminato, fatti di pietre e sassi raccolti lungo il greto dei fiumi Tagliamento, Cellina, Meduna), sia di mosaicisti attivi nel cantiere della Basilica di San Marco (tra loro Domenico Bianchini, interprete anche di bozzetti di Passeggiata in RGB | 2013 Realizzazione musiva della Scuola Mosaicisti del Friuli su ideazione di Cristina De Leoni Saetta Iridescente | 2004 Mosaico parietale Realizzazione musiva della Scuola Mosaicisti del Friuli su ideazione di Giulio Candussio New York, Ground Zero Jacopo Tintoretto) dove l’uso di smalti e oro stimolò nei Maestri friulani la sensibilità per un nuovo materiale, per il colore e per i riflessi. A Parigi, invece, capitale europea dell’arte - nella seconda metà dell’Ottocento – il mosaicista e imprenditore friulano Gian Domenico Facchina fu celebrato in riviste d’arte per il successo ottenuto dai suoi mosaici pavimentali e parietali realizzati per l’Opéra Garnier di Parigi, inaugurata nel 1875. Le esperienze maturate nei cantieri musivi friulani diffuse nel mondo sono confluite nella Scuola Mosaicisti del Friuli, nata nel 1922 con la responsabilità morale e culturale di ampliare la formazione dei maestri mosaicisti attraverso un percorso didattico che ne rafforzasse la loro abilità e il ruolo propositivo, con corsi formativi teorici e pratici (una sorta di scuola d’arte “globale”). La Scuola fin dalle origini ha il suo punto di forza nell’esecuzione di opere di alta qualità che non si limitano alla produzione di saggi didattici, ma puntano alla realizzazione di progetti compositi destinati agli spazi della contemporaneità. In questo modo è garantita agli studenti una formazione completa, con l’impegno di curare non solo l’aspetto formale del mosaico, ma anche l’organizzazione del lavoro. Con questa apertura la Scuola Mosaicisti del Friuli s’inserisce dai suoi esordi nei circuiti artistico-culturali: solo a un anno dall’inizio della sua attività didattica partecipa alla Biennale di Monza del 1923, vetrina nazionale di arti decorative e primo embrione di quello che poi sarà la Triennale di Milano. La Scuola cresce nel tempo realizzando opere musive le cui tracce sono dislocate nel mondo: al Foro Italico di Roma negli anni Trenta, con i mosaici delle Centrali Idroelettriche in Friuli e in Veneto negli anni Cinquanta, con l’esecuzione e posa dei mosaici dell’Hotel Kawakyu di Shi[ 24 ] rihama in Giappone e del Santo Sepolcro di Gerusalemme negli anni Ottanta e Novanta, senza dimenticare gli interventi musivi più attuali, capaci di valorizzare il mosaico come espressione della contemporaneità. Lo testimoniano, ad esempio, Saetta iridescente nel Ground Zero di New York; Cielo e laguna a Graz in Austria; La Sacra Famiglia per l’omonima Chiesa di Pordenone. La Scuola, gestita da un consorzio di enti pubblici, è riconosciuta dalla Legge regionale L.R.15/1988 e l’autonomia di gestione che ne deriva ha permesso in tempi recenti un suo considerevole sviluppo, così che oggi la Scuola viene considerata un centro formativo unico, capace di puntare sulla ricerca e sulla promozione del mosaico, favorendo lo sviluppo anche economico del settore. La formazione prevede tre anni di corso, all’interno dei quali gli allievi entrano in contatto con la particolare dimensione dell’arte e della tecnica del mosaico, dando senso alla storia (mosaico romano, bizantino, moderno) e spazio alle soluzioni contemporanee con un particolare riguardo per la ricerca, la creatività, la partecipazione personale degli studenti anche nella realizzazione di progetti propri. La preparazione si basa su varie materie: alle ore dedicate al laboratorio di mosaico e di terrazzo, si affiancano lezioni di disegno e teoria del colore, informatica, computer grafica, storia del mosaico, tecnologia dei materiali, modellazione digitale e geometria applicata, per far sì che il mosaicista qualificato sia autonomo nelle scelte e nelle proposte, e in grado di cimentarsi in modo creativo e versatile su superfici bidimensionali e su elementi tridimensionali, valorizzando la natura del mosaico (texture scabre, dinamiche, in un continuo dialogo tra tessere e fughe, pieni e vuoti, ritmi e alternanze). La Scuola Mosaicisti del Friuli frequentata da allievi che rap[ 25 ] presentano circa venti nazionalità, è anche una galleria di opere musive che attirano ogni anno migliaia di visitatori. Vi si confrontano mosaici storici e mosaici di nuova ideazione, pensati, progettati e realizzati nella Scuola. Sono emblemi di un’arte che non dimentica il rapporto con lo spazio e con la luce; un mosaico curioso anche per l’uso dei materiali diversi (oltre a marmi, sassi, smalti e oro, materie usuali come carta, plastica, metalli, legno). Accanto ai corsi professionali triennali, la Scuola organizza anche corsi brevi d’introduzione al mosaico per amatori, frequentati da persone provenienti da paesi diversi. Le opere prodotte dalla Scuola, oltre ad implementare la galleria espositiva, partecipano a mostre e manifestazioni che ne sottolineano il ruolo promozionale. Eventi espositivi hanno visto la Scuola protagonista a Parigi e Marsiglia in Francia; a Toronto in Canada; a Melbourne e Sydney in Australia; a Mosca in Russia; alla Biennale del Design a Gwaingju in Corea del Sud; a Basilea e Friburgo in Svizzera; a Vienna in Austria; a Roma. Ogni estate nei locali della Scuola si apre la mostra “Mosaico&Mosaici”, una vetrina di tutte le opere musive realizzate dagli allievi nel corso dell’anno scolastico, ma anche un’occasione imperdibile per visitare i locali della Scuola Mosaicisti del Friuli e la galleria di opere che ne tracciano la storia e ne dimostrano la vitalità. Quest’anno l’esposizione sarà aperta dal 25 luglio al 30 agosto, con inaugurazione venerdì 24 luglio alle ore 18.00. Parigi, Opéra Garnier, Foyer (1875) Mosaici parietali e pavimentali realizzati da Gian Domenico Facchina (mosaicista originario di Sequals/PN), noto per aver messo a punto la tecnica a rovescio su carta, tecnica musiva moderna Santo Sepolcro, mosaico della cupola | 1998 Realizzazione musiva della Scuola Mosaicisti del Friuli su ideazione di Blasios Tsotsonis Gerusalemme Sacra Famiglia | 2013 Realizzazione musiva della Scuola Mosaicisti del Friuli su ideazione di Stefano Jus Pordenone, Chiesa “Sacra Famiglia”, mosaico interno SCUOL A MOSAICISTI DEL FRIULI Via Corrridoni 6, Spilimbergo (PN) www.scuolamosaicistifriuli.it Spilimbergo, Scuola Mosaicisti del Friuli. Aule dedicate al laboratorio musivo. Allievi all’opera Hotel Kawakyu, mosaici pavimentali con motivi orientali | 1991 Realizzazione musiva della Scuola Mosaicisti del Friuli su progetto di Yuzo Nagata Giappone, Shiriama presso Osaka [ 26 ] Riflessi (Particolari e insieme)| 2010 Realizzazione musiva della Scuola Mosaicisti del Friuli su ideazione di Stefano Jus Gorizia, Scuola Edile, atrio [ 27 ] GEMINIS 1 | 2011 Acrilico su tela cm 80 x 60 GEMINIS | 2011 Acrilico su tela cm 80 x 60 M anuel Pablo Pace è un pittore nato in provincia di Vicenza che si trasferisce in Spagna dopo gli studi all’Accademia di Belle Arti di Venezia. La sua carriera inizia nel 2010 e oggi la sua produzione è assai nota non solo nella sua terra d’origine per l’originalità sofisticata e apparentemente “iperrealista” che nasconde invece spesso messaggi lanciati in punta di...pennello con un’ironia stringente e con una delicata sensibilità estetica. Il suo interesse fondamentale sembra quello di fissare della realtà dei momenti estratti da essa, ma non necessariamente ideali, che si danno in un’attitudine particolare, curiosamente casuale e persino irrilevante di cui solo l’artista, con la complicità del modello, ha precisa consapevolezza. Spesso si ricava la sensazione che esista nei dipinti di Pace una verità nascosta che sfugge all’attenzione generale, nonostante la chiarezza dell’immagine (Vittoria: nome di donna o soluzione di un gioco? Tic tac: casualità di un orologio all’interno di un ritratto o memento mori?). E non importa se la figura dipinta sia una persona specifica, un amico, una committente che ha scelto il pittore per farsi rappresentare o piuttosto qualcuno cui il pittore abbia chiesto di prestargli corpo e volto per carpirne un gesto, uno sguardo uno solo - tra i cento, i mille, i diecimila, gli infiniti possibili. AUTO PORTRAIT | 2011 Acrilico su tela cm 100 x 100 Manuel Pablo Pace Lo spostamento del senso Ta z i o C i r r i [ 28 ] RAPA | 2012 Acrilico su tela cm 24 x 30 Il punto è che, a volte, le figure e i volti, le situazioni non appartengono nemmeno ad un repertorio reale, ma sono immagini stereotipe tratte dalla pubblicità (Memento, acrilico su carta 2011) o nascono dall’immaginazione dell’artista, come la descrizione di una normale passeggiata con il cane in un viottolo di campagna, che si trasforma in un ben più concettualmente complesso gioco di specchi (The house, olio su tela 2014). E questo [ 29 ] allontana Pablo Pace dalla definizione di “pittore della realtà”: dietro l’apparente nitidezza e precisione delle figure, degli oggetti, dei paesaggi, degli abiti trattati con una precisione che restituisce la qualità tattile delle stoffe. Dentro la figuratività oggettiva di straordinaria verisimiglianza si nasconde l’astrazione più sfacciatamente lontana dal reale. L’illusione di stare davanti ad una riproduzione del vero, si frantuma ad una attenta analisi e mette piuttosto in luce il fatto che in scena sta, non il soggetto ritratto ma l’ironia, il gusto del calembour, lo scherzo mordace, il “trucco” del prestigiatore, la decisione di dominare attraverso la pittura proprio la stessa realtà. Soggetti come corpi intermedi. MEMENTO | 2011 Acrilico su carta cm45x45 L’ULTIMA CENA | 2012 Olio su tela cm 100 x 100 [ 30 ] Plinio il Vecchio nella sua opera Naturalis Historia, racconta che in una gara tra due pittori, Parrasio e Zeusi, quest’ultimo si presentò con dell’uva dipinta così bene che gli uccelli si misero a svolazzare sul quadro cercando di beccarla. E quando egli, inorgoglito per il giudizio degli uccelli, chiese a Parrasio di togliere il telo che copriva la sua opera, in modo da poter fare un confronto, quello rispose che la tenda stessa era il dipinto. Zeusi dovette così ammettere che la vittoria era di Parrasio, visto che il proprio realismo aveva ingannato degli uccellini ma quello di Parrasio aveva tratto in inganno lui stesso, un pittore. L’apologo sembra avere attinenza, oltre che con la bravura tecnica di un artista, soprattutto con la sua capacità di suggestionare, attraverso il realismo, chi guarda. Il dialogo serrato che la pittura di Manuel Pace ha col naturalismo possiede dunque al suo interno una forza di segno opposto: pur non negando la realtà, ne rappresenta alcuni aspetti in modo trasfigurato, o lenticolare, o deviato e sovente in conflitto con una logica lineare. Il risultato è un’apertura a tutto campo con qualsiasi tipo di situazione che non sia ma semplicemente appaia compatibile con le forme convenzionali del vero. E’ un’opportunità che si apre ad imbuto per accogliere le mille deliziose aporie dei sogni e dell’immaginazione, in un teatro dell’assurdo e del surreale che lascia precipitare dolcemente chi guarda come attraverso lo specchio di Alice nel Paese delle Meraviglie. “È una ben povera memoria quella che funziona solo all’indietro” afferma infatti Lewis Carrol in quel meraviglioso e stravagante romanzo: ciò che si conosce del mondo per mezzo della memoria e dell’esperienza è solamente ciò che viene dato per sconta- to. Implicitamente Pablo Pace, con i suoi dipinti vuole proiettare della realtà ciò che la realtà non dice, ciò che potrebbe essere se fossimo capaci di un guizzo di indipendenza dalla consuetudine della memoria. La natura così si trasforma e diviene il nonsense poetico, l’aspetto assurdo che attrae prodigiosamente la mente attraverso lo sguardo. Lo spostamento del senso, ossia la trasformazione di immagini che siamo abituati a percepire secondo il senso comune, ci trasmettono l’idea di un diverso ordine della realtà. E’ la forza insistente dell’immagine, bellezza: “Questo ve l’ho detto tre volte, e perciò è vero” dice, ancora, Lewis Carrol in un’altra sua surreale opera, The Hunting of the Snark. Rifare accuratamente la realtà ed abilitarla ad essere l’unica realtà possibile non è poi la sola abilità di Pablo Pace. In occasione della sua mostra di questo autunno 2015 a Parigi, l’artista ha realizzato un lavoro inedito: una personale interpretazione de Le Allegorie dell’Amore di Paolo Veronese (1570 ca). Il famoso ciclo dei quattro dipinti ad olio su tela conservati oggi alla National Gallery di Londra, con le figure monumentali fortemente scorciate in un taglio prospettico da sott’insù, rappresentano, specularmente, l’Infedeltà, il Disinganno, il Rispetto e l’Unione felice. Una sfida per Pace che – al pari di Veronese ma in termini contemporanei – usa la pittura per sviscerare le aporie dell’umano sentire. VITTORIA | 2015 Olio su tela cm 100 x 150 I cambiamenti più significativi rispetto agli originali veronesiani riguardano, oltre che la forma delle tele, una ridimensionamento concettuale della monumentalità delle figure e il loro adattamento ad un contesto attuale. La mostra a Parigi è la prima esposizione personale dell’artista in Francia. Nella galleria Neri Contemporary Art, ospitata negli spazi di Volumes Coworking e composta da un lungo e largo corridoio e da un open space, l’allestimento è suddiviso in una prima parte, dedicata all’esposizione cronologica delle opere, mentre nell’open space sono presenti solo le quattro tele delle Allegorie dell’amore. La scelta vuole evidenziare la distanza tra questi due gruppi di lavori: le Allegorie dell’amore, per l’intensità del soggetto necessitano di un grande spazio non condiviso da altri lavori, mentre le altre opere si avvantaggiano dal gioco di rimandi e riferimenti, supportandosi reciprocamente. Pace non è nuovo alla reinterpretazione (radicale) di opere classiche, come per l’ariostesca Angelica e Medoro (olio su tela, 2012) o addirittura l’Ultima Cena (olio su tela, 2012) irriverente, tragicomico ossimoro contemporaneo sul senso della Vita e della Morte. Persino il concetto rinascimentale e moderno di “autoritratto” è posto in una dimensione surreale: un piccolo medaglione, suscettibile di passare inosservato al collo di un grande ritratto femminile, induce ad una riflessione acuminata sulla predominanza dell’ego in epoca contemporanea (Auto portrait, olio su tela 2011). Spesso sono i titoli, parte integrante dell’opera, a mettere chi guarda, con segnali sibillini, sulla pista da seguire in una instancabile “caccia all’uomo” e alle sue mille incongruenze, tic, idiosincrasie; nel rifiuto sistematico dell’ovvio e nella continua ricerca degli aspetti inediti che la realtà può offrire di se stessa, se accuratamente, argutamente esperita. The house | 2014 Olio su tela cm 80 x 100 Manuel Pablo Pace vive e lavora a Bassano del Grappa ( VI) www.manuelpablopace.com [ 31 ] Siderforgerossi Tr a p r e s e n t e e f u t u r o a t t r a v e r s o l a t e c n o l o g i a , l a c u lt u r a e l ’a r t e A i piedi delle colline che degradano dalle Piccole Dolomiti, in una delle molte, suggestive valli del Veneto, si trova una moderna officina, la Siderforgerossi Group S.p.a., risultato di una serie di trasformazioni industriali originate, all’inizio del secolo, da una semplice fucina che produceva strumenti e attrezzi necessari alle attività minerarie ed agricole dei territori circonvicini. Fondata nel 1908 da Coriano Rossi, quel maglio si è trasformato, nel corso di più di un secolo di mutamenti storici, sociali e politici, in una importante realtà siderurgica, generatasi dall’ultima recente fusione, nel 2013, di due principali produttori italiani del settore: Forgerossi e Metallurgica Siderforge. Il nome stesso del paese in cui l’azienda è insediata, Arsiero, in provincia di Vicenza – le cui origini risalgono 975 d.C. – parla di un’attitudine del luogo alla lavorazione del metallo, attività favorita dalla presenza di numerosi corsi d’acqua e del fiume Astico. Il toponimo, infatti, probabilmente deriva dal latino ars aeris (arte del rame) dovuto dalla presenza locale di alcuni antichi magli per la lavorazione del rame. La fucinatura è ovviamente la prima vocazione della Società, ma forgiare in acciaio i pezzi che vengono esportati in tutto il mondo non è il suo impegno esclusivo: da anni infatti Sider- forgerossi si interessa alla cultura, all’arte, alla formazione dei giovani. Uno dei primi progetti locali sostenuti dal Gruppo è costituito dal Concorso “Raccontami una storia”. Ideato inizialmente dall’associazione SOS Scuola-Famiglia e sviluppato poi da Siderforgerossi Group s.p.a. Per la sua realizzazione la Ditta mette a disposizione alcune borse di studio per alunni dell’istituto comprensivo di Arsiero. I ragazzi presentano i loro lavori che vengono vagliati da una qualificata giuria esterna composta da ex insegnanti, che stila una classifica finale suddivisa per classi. La premiazione dei vincitori avviene al termine dell’anno scolastico nel corso di una cerimonia in cui sono presenti tutti i partecipanti e i promotori del concorso. Inoltre, a partire dall’anno accademico 2010-2011, Forgerossi s.p.a. prima e, dal 2014, Siderforgerossi Group s.p.a. sponsorizza la facoltà di Ingegneria Economia dell’Università di Vicenza con un contributo per l’acquisto di strumenti per i laboratori e le classi, con l’obiettivo di contribuire alla formazione dei laureandi. Dall’anno scolastico 2011-12, poi, la Società sostiene il Liceo “A. Pigafetta” di Vicenza mettendo a disposizione 4 terminali di Il Presidente Luciano Giacomelli con l’amministratore delegato dr. Canale in riunione con collaboratori [ 32 ] La nuova palazzina uffici [ 33 ] l’arte che, nel suo significato più intimo, sollecita la parte emotiva più autentica dell’individuo, stimola un sentire più intenso e idee creative che potrebbero rivelarsi interessanti proprio anche nell’ambito lavorativo. Oltre a questo aspetto è interessante sottolineare quanto tale iniziativa dia la possibilità a nuovi talenti, locali e non, di emergere e di essere fruiti dal pubblico vasto e dinamico, rappresentato da clienti e fornitori di ogni parte del mondo che frequentano di continuo questo luogo. L’azienda ha voluto investire in modo del tutto disinteressato su idee e creatività artistica per farle conoscere e crescere. La collezione, ideata e curata dall’architetto Gaia Giulia Giacomelli, raccoglie opere di pittura, scultura, fotografia di artisti locali e non, che si misurano con l’aspetto affascinantissimo della trasformazione del metallo che, fuso alle alte temperature nei forni da un fuoco che sembra danzare, si ricompone poi nei vari forgiati di diverse forme. MOVIMENTI FORGIATI (dettaglio) | 2011 Lorenzo Brasco Installazione fotografica dopo le riprese in back stage di ballerina in ambienti di produzione di FORGEROSSI registrazione delle presenze scolastiche. Anche questa attività è collegata al territorio e ai giovani che studiano nella prospettiva di un futuro della nostra società. Siderforgerossi Group, infine, credendo appunto nell’importanza della formazione scolastica di figure tecniche di rilievo nella nostra area, ha voluto contribuire in modo sostanziale al rinnovamento tecnologico delle attrezzature informatiche presso l’istituto superiore I.T.I.S. “De Pretto” di Schio ed in stretta collaborazione con i docenti ha provveduto all’acquisto di 30 PC Notebook di ultima generazione. Ma l’ulteriore interessante impegno dell’Azienda è anche quello legato all’arte. Nel settembre del 2012 inaugurava una propria collezione d’opere d’arte, organizzata in un percorso espositivo dal carattere di mostra permanente. L’attenzione all’arte da parte della famiglia Rossi era iniziata già un paio d’anni prima, con la progettazione e realizzazione della nuova sede degli uffici, un progetto architettonico abilmente concertato, in risposta ad importanti preesistenze di carattere storico e naturale. L’attuale collezione, oltre ad essere espressione della passione dei Rossi per l’arte, ha assunto anche una dimensione esplorativa: quella di osservare l’efficacia dell’accostamento dell’arte al lavoro quotidiano di tutti i dipendenti dell’azienda. Chi frequenta ogni giorno questi ambienti, si trova a partecipare ad un’esperienza continua di confronto con [ 34 ] MOVIMENTI FORGIATI | 2011 Lorenzo Brasco Installazione fotografica dopo le riprese in back stage di ballerina in ambienti di produzione di FORGEROSSI, composizione di pannelli cm 65 x 65,30 x 30 Le opere d’arte si pongono così in dialogo stretto con il protagonista vero e proprio dell’azienda, il prodotto di forgiatura, a cui da sempre l’Azienda dedica qualità e innovazione. Gli artisti hanno saputo interpretare magistralmente questo atto creativo del fuoco, già in sé opera d’arte, e confrontarsi tra loro offrendo, ognuno, il proprio originale linguaggio artistico. L’intera iniziativa è stata raccolta e raccontata dalla curatrice in un catalogo dal titolo Forge ad Arte, che l’azienda ha pubblicato per diffondere quanto più possibile i risultati di questo progetto d’arte. In considerazione di questi aspetti, l’iniziativa di Forgerossi di sviluppare un possibile rapporto tra l’Impresa e l’Arte, rappresenta un intelligente e sensibile contributo alla cultura. Il 24 Novembre 2012, nel corso di un incontro con Bruno Tamiello, direttore del Museo dell’Antico Maglio di Breganze, al workshop ‘Musei d’impresa’ organizzato durante il ‘Meeting della cultura delle Venezie’, è nata l’idea di creare un gemellaggio tra una realtà di storica importanza, come quella preservata e custodita con amore all’Antico Maglio di Breganze, e una realtà aziendale in consistente sviluppo a livello internazionale come SIDERFORGEROSSI. Due contesti connessi da un motivo fondamentale, la lavorazione del ferro. L’ultimo fabbro artigiano dell’Antico Maglio, Angelo Giusto Tamiello, era attivo ancora nel 1980, quando il Attesa 1 Graziano dal Zotto cm 200 x 150 [ 35 ] ASCOLTO | 2008 Franco Ruaro Olio su tela cm 200 x 100 GUSCIO 1 | 2009 Fabio Guerra Tecnica mista su carta pressata cm 115 x 115 GUSCIO 2 | 2011 Fabio Guerra Tecnica mista su carta pressata cm 115 x 115 maglio si presentava esattamente così com’è conservato dal figlio Bruno. Da parte sua, invece, SIDERFORGEROSSI sta continuamente espandendo la propria attività sia a livello di territorio sia dal punto di vista dell’innovazione. Ed ecco dunque l’idea di celebrare un incontro tra il passato, con le sue tradizioni e il presente, in continua espansione, utilizzando l’arte. All’interno della sala d’ingresso del Museo dell’Antico Maglio è stata inserita, per iniziativa di SIDERFORGEROSSI group, un’installazione ideata e progettata da Gaia Giulia Giacomelli, che si propone di celebrare questo gemellaggio tra antiche tradizioni e saperi e la moderna azienda che si sviluppa guardando al futuro. ne del Maglio un supporto economico per il mantenimento di questo luogo magico, il meglio conservato del Veneto, nonché uno dei più importanti d’Europa. L’installazione è costituita da un telaio metallico appeso al soffitto che prende forma in base allo sviluppo di moduli quadrati di 20 x 20 cm di lato, e relativi multipli. Inseriti in questi moduli vuoti vi sono piastrelle in plexiglas colorato con testi di citazioni, stampe fotografiche e un video. Il tutto a raccontare l’arte in azienda come è stata ideata e realizzata nella sede di Arsiero. ‘SIDERFORGEROSSIgroupINART’ è il titolo di tale installazione che misura circa 1,8x3,00m. Il video è costruito per mettere in evidenza il rapporto tra arte e spazi di lavoro, sia attualmente sia nel prezioso passato custodito in Breganze. L’iniziativa è sostenuta dall’Azienda che mette a disposizio- SIDERFORGEROSSI GROUP S.p.A Via Cartiera di Mezzo 38, 36011 ARSIERO ( VI) – ITALY www.siderforgerossi.coma [ 36 ] RIAPPARIRE | 2008 Franco Ruaro Olio su tela cm 200 x 100 TRAS-FORM-AZIONE | 2011 Graziano dal Zotto Fotografia cm 200 x 300 [ 37 ] I luoghi che parlano cussione costruiti ed intonati per suonare e vibrare all’unisono. Anche questi quadri allineati in sequenze tonali e timbriche come un insieme di pezzi separati emettono ciascuno una nota che riunite producono un suono a cento voci. L’esotismo e la pluralità di suoni e colori è anche la tessitura di Purnama. 50 Variazioni Balinesi, serie di cinquanta acrilici su tela di cm. 50 x 50, esposta nel 2012 presso la Galleria Niselli Arte a Bassano del Grappa (VI). Te r r i t o r i , c u l t u r e , t e c n i c h e nella pittura di Chester Stella G i ova n n a G r o s s at o “Purnama” è, nella lingua e nella tradizione indonesiana il giorno della Luna Piena, considerato sacro: un giorno in cui gli dei scendono sulla terra e offrono agli uomini il loro favore. Stella, intrecciando la cultura figurativa occidentale a quella mediorientale, dipinge con colori lunari questo periodo di tempo propizio per le preghiere ma anche per le azioni buone e dedicate alla bellezza perché esse vengano moltiplicate. Nel caso di questa serie Stella fissa in 50 momenti ciò che l’anima più profonda dell’isola offre: sono le vibrazioni, i suoni, i misteri e le magie del plenilunio. Nel 2013 l’Artista realizzava Jari Menari, espressione che in balinese significa “dita dan- C apita non di rado che i lavori di Chester Stella sviluppino un tema, un soggetto o una tecnica specifica, particolarmente adatta, in quel momento, ad esprimere determinati contenuti espressivi. Sono motivi di volta in volta legati alla musica, alle danze, ai territori, ai paesaggi e la loro realizzazione può avvalersi tanto di spesse texture materiche potentemente cromatiche quanto di delicata pittura ad acqua, magari campita con sapienti sovrapposizioni, come nel gruppo di alcuni recentissimi lavori (2015) raccolti come Acquerelli. Si intitolava Gamelan la serie, in mostra nel 2011 alla Galleria Ghelfi di Vicenza, realizzata con una grande tela in acrilico e oro di metri 3 x 3, suddivisa in 100 pezzi separati, ciascuno di 30 cm di lato e disposti come tessere di un mosaico bizantino, vibrante di musica e di luce: semplice e complessa ad un tempo, antica e contemporanea. Compendiava alcune caratteristiche del tracciato artistico di Stella, autore eclettico nei suoi saperi e nei suoi interessi, incisore e pittore, studioso e scopritore di culture esotiche, capace di creare fusioni artistiche nel tempo e nello spazio. L’Oriente, del resto, nelle sue diverse direttrici spazio-temporali è una delle componenti costanti dell’espressività di Stella. Il “gamelan”, infatti, è un’orchestra di antica origine indonesiana, composta di strumenti a per- Olio su intonaco | 2014 cm 60 x 60 zanti”. L’accezione più comune e diffusa si riferisce ad un particolare tipo di massaggio, praticato in punta di dita da terapeuti indonesiani. Ma le “dita che ballano” sono anche quelle sugli strumenti musicali della tradizione delle isole e altre dita capaci di stendere sulla tela gli stessi colori che grondano dalle penombre fiorite della giungla e dalle notti profumate di stelle, la cui luce si infrange sulla battigia. Il colore della risacca e dei mitici fiori di cui è ricca Bali, degli uccelli dai fantasmagorici piumaggi, dei movimenti dall’innata eleganza disegnati nell’aria dalle mani delle danzatrici vennero esposti in un allestimento assai suggestivo nello spazio espositivo del Castello Inferiore di Marostica. Acquarello e oro | 2014 cm 27 x 18 [ 38 ] Alle scuderie del Castello Porto Colleoni di Thiene, nel 2014, un’altra serie, Canone Rosso, viene allestita come situazione performativa integrata con un video in cui i 30 dipinti su tela 50x50 appartenenti ad una serie di 50 condividono la scena in contrappunto con la musica. Canone Rosso è un insieme in cui la forza assertiva del rosso apre un dialogo profondo ed emozionante non solo con la musica ma, ancora una volta, con i numerosi elementi della natura e della cultura balinese. Canzoni, danze, paro- Olio su intonaco | 2014 cm 60 x 60 [ 39 ] le, gestualità si incardinano nella pittura di Stella con straordinaria armonia e la texture utilizzata per questa serie di tele, base su cui lavora la vorace energia del Rosso, è ricca di asperità orografiche simili ai terrazzamenti acquei ricavati sui dorsi delle colline del sud est asiatico per coltivare il riso e costituisce il tappeto su cui si sviluppa, anche in senso temporale, il percorso narrativo/espressivo. Il “canone” consiste nel dialogo tra l’emozione cromatica dei fiori, dei frutti, dei volti di vecchi solcati dalle rughe come risaie e il ritmo che intercetta la cadenza delle maree, delle danze, del suono metallico degli strumenti a percussione suonati per le strade e negli atri delle “stupa”. Suoni cui il Rosso risponde contemplando le dita incendiate del sole che si immerge nell’oceano Indiano e le rutilanti bucce scabre dei frutti di rambutan. Le contaminazioni culturali del percorso di ricerca dell’artista negli ultimi Acquarello e oro | 2014 cm 28,4 x 20 anni ha prodotto altre interessanti serie di dipinti, oltre a Gamelan, Purnama, Jari Menarie Canone Rosso, Conversazione, del 2011, e Kosmos e Kaos, del 2010. Il paesaggio, nella sua accezione più aperta e fluida, reale e metaforica è stata oggetto fin dal 1996 anche della serie Territori in cui l’artista, traendoli dalla natura e semplificando i segni dei cicli stagionali e i messaggi del tempo interiore, ne restituiva una visione rapida ed intensa. Le opere di quella serie, attraverso pochi ed essenziali elementi, riuscivano a tradurre ciò che si vede in ciò che si sente. Gli intervalli tra un colore e l’altro, tra una visione e l’altra, tra un pensiero e l’altro erano costituiti da un silenzioso bianco sospeso sopra suggestioni invisibili. Nel 2008, un’altra esperienza espositiva che raccoglieva un’ulteriore serie di territori, Il suono del paesaggio, fu realizzata con una decina di oli su intonaco ed altrettanti acquerelli esposti allo spazio Urban Center O.A.S.I. Europa di Thiene (VI): originali composizioni dedicate a Acquarello e oro | 2015 un genere molto particolare di paesaggio cm 40 x 30 che evidenziavano la sensibilità di Stella anche nei confronti della materia, stratificata e domata fino ad ottenere le volute pastosità e consistenze cromatiche: sia nella tessitura densa degli oli che intridono gli spessori dell’intonaco lavorato in solchi e avvallamenti, sia nella leggerezza trasparente degli acquerelli, in cui la giustapposizioni dei campi di colore coagula attorno a sé un fondamentale di saperi e di sapienze risultato di una lunga e attenta sperimentazione di pigmenti e leganti, di carte e tele e, naturalmente, di pratica pittorica. Sono tutte indagini artistiche che hanno radice comune nell’interesse dell’Autore sui luoghi – fisici e metaforici - indagati nei loro aspetti più magici e poetici ma anche antropologicamente connessi con varie tradizioni artistico-culturali, inclusa quella d’origine, oggetto di esplorazione e di riflessione dell’Artista anche nella recentissima serie di Acquerelli esposti nell’autunno 2015, nelle cucine di Villa Godi Malinverni a Lugo (VI), edificio patrimonio dell’umanità dell’UNESCO realizzato da Andrea Palladio nel 1542. Si tratta di una ventina di sofisticati lavori, incorniciati in preziose cornici d’epoca, in cui l’astrazione si muove sul crinale ambivalente delle forme reali utilizzando un linguaggio dal sincretismo affascinante e inclusivo. Chester Stella, è nato a Thiene (VI) nel 1950, si occupa di arte da oltre quarant’anni alternando la sua ricerca in diversi ambiti. E’ però nella grafica e soprattutto nella pittura con varie tecniche che si concentra la sua attività di artista, sviluppata nel corso di un’esperienza che inizia negli anni Settanta e si è avvalsa anche [ 40 ] Acquarello e oro | 2015 cm 25 x 21 Acquarello e oro | 2015 cm 25 x 19,5 Chester Stella nella sua casa studio di Bali delle esperienze di numerosi viaggi e lunghi soggiorni all’estero a contatto con culture diverse, indagando di queste motivi e significati. Le sue opere, esposte in allestimenti pubblici e privati, riconosciute dalla critica internazionale, sono presenti permanentemente nelle collezioni di molti Paesi europei ed extra europei. Chester Stella vive e lavora a Thiene ( VI) e Bali (Indonesia) www.chesterstella.com [ 41 ] Erika Inger Sculture in divenire M a r t i n a G e cc h e l i n L e sculture di Erika Inger (Cermes, Bolzano 1957) catturano una traccia mentale dello spazio in movimento. Le sue opere sono sculture in divenire, in costante trasformazione, abbracciano il terreno su cui si trovano e ne rilevano le geometrie del tempo, aprendosi a nuovi livelli semantici. L’artista non colloca semplicemente le sue sculture nell’ambiente naturale, ma utilizza lo spazio circostante e la natura come materia da plasmare. La sua arte è il frutto di una intensa e intima comunicazione con il luogo scelto per il processo artistico e asseconda l’idea di una scultura da sperimentare direttamente, cioè da vivere, da abitare, entrando in contatto diretto con la costruzione dello spazio che essa propone. In questo senso per una parte dell’itinerario creativo di Erika Inger possiamo parlare di Land Art: un modo di agire artisticamente nell’ambiente naturale con costruzioni site- specific che rimuove la scultura dal piedistallo dove secoli di tradizione l’hanno confinata per lasciarla andare libera per il mondo. Il paesaggio dunque non è lo sfondo entro cui la scultura si staglia, ma diventa il contenuto stesso dell’opera, quello che le dà senso. ...decollare | 2006 Legno, barre in acciaio cm 1200 x 90 x 250 Landart Lilienfeld L’arte di Erika Inger si concentra sul rapporto che l’uomo ha con la natura ed è caratterizzata dalla ricerca di un attento equilibrio tra ciò che è dato dall’ambiente naturale e le infinite possibilità di intervento artistico. La natura così diventa il soggetto che l’artista tratta per segnalarci una dimensione ecologica del vivere. Le sue opere ambientali non sono cornici che mettono in risalto uno spazio, ma sono rilevatrici di proprietà fisiche, misurano il territorio, realizzano un passaggio dal continuo al discontinuo, dalla stasi alla dinamica. L’intervento artistico di Erika Inger è uno strumento che misura le condizioni, la situazione e i mutamenti del territorio, come un barometro del paesaggio rende visibile e sottolinea non solo lo spazio, ma anche la sua struttura nascosta. Lo si percepisce nitidamente nelle opere organizzate nel “Sentiero delle sculture di Lana”, città a pochi chilometri da Merano, dove le sculture di Inger, assieme a quelle di altri artisti provenienti da tutto il mondo, sono organizzate in un percorso da effettuarsi a piedi accanto al fiume Valsuria e concepito a tappe per offrire spunti di riflessione e meditazione. Soltanto camminando infatti, in una sorta di ritorno alla naturale velocità dell’uomo, l’itinerario scultoreo si trasforma in un’opera d’arte. Così Cammino Leggero del 2000 di Erika Inger, una scultura a forma di fluttuante onda di fiume costituita da una fila di pietre di granito di diverse dimensioni che si trova su un’isola del letto del fiume che costeggia il sentiero, suggerisce una reciproca relazione fra il lento movimento delle pietre e il naturale incedere dell’uomo e dà vita ad un ritmo, una forma di ripetizione, che accompagna lo sguardo e invita a procedere lungo il percorso fino a che non si incontra la scultura successiva. Dinette | 2013 Marmo del Krastal cm 220 x 80 x 120 La bestia interiore | 2002 Questa sua scultura ambientale è come Marmo del Krastal, acciaio cm 370 x 120 x 110 un “meccanismo metrico” che integra il luogo preesistente e ne mette in evidenza alcune qualità celandone allo stesso tempo delle altre. Inger non colloca un oggetto in autonomia sul terreno, ma prende coscienza di un luogo e ne compie una lettura critica, sceglie fra gli elementi che lo compongono, sonda tra le pieghe del suo spazio per farlo diventare un crocevia di passaggio e di relazioni. L’osservatore così non si trova solo di fronte ad un’opera, ma in uno spazio vissuto intimamente dall’artista, caricato dalle sue componenti emozionali e di conseguenza messaggero di istanze psichiche e spirituali. Per ogni singolo progetto, Erika Inger comincia la sua ricerca sui materiali presenti sul posto e sulle loro proprietà originali guardando ben al di là dell’immagine convenzionale che solitamente abbiamo di essi. Utilizza la pietra, il legno, l’acciaio e oggetti di recupero, anche di durata effimera. A volte impiega persino il letame di mucca quando ritiene che questo sia il materiale più adatto per il suo intento. Come ad esempio avviene per Dungstrabe (Pronto) del 2000 realizzata presso il Massiccio dello Sciliar in Trentino Alto Adige. In Stoanerne Frauen und Manderlait (Donne e Uomini di Pietra) del 2012, l’artista sceglie la pietra per il carico formale che essa già possiede a livello materiale e per le sue stratificazioni geologiche che registrano lo scorrere del tempo. L’opera si trova in Austria, in uno spiazzo del monte Schmittenhöhe, presso Zell Am See, dove l’artista assembla in un campo grande duecentocinquanta metri quadri, quaranta tonnellate di pietre ammucchiate a cono creando delle figure pietrificate disposte in cerchi concentrici. La struttura fa da eco alla tradizione degli “omini di pietra” che da tempi remoti fungono da segnavia nel brullo paesaggio d’alta montagna e indicano la strada da percorrere. Questi mucchi di pietre, raggruppati in gran numero in un singolo luogo, indivi[ 42 ] [ 43 ] duano uno spazio sacro, segnano la presenza dell’uomo e la sua storia, che si intreccia con quella della natura. L’artista accatasta le pietre con un ordine regolare quasi a formare una griglia di caselle modulari, crea in questo modo una nuova texture che si sovrappone, si armonizza con il paesaggio: questa trama, come formata da tanti tasti di un ipotetico pianoforte, copre lo spazio per dare vita a un tappeto sonoro, un “ritmo visibile”, lasciando a chi osserva il compito di intuirne il suono. Ritmo, movimento e suono dunque accompagnano in maniera fondamentale l’attività artistica di Erika Inger. Secondo l’artista infatti, la natura e l’arte si completano a vicenda come accade per il ritmo e il suono. Una cadenza formale armonica definisce anche Lebensbäume (Alberi di vita) del 2001. Sono tre corpi di sculture modulari formate da dischi di legno infilati in sostegni di acciaio che ricordano le forme archetipe della geometria arborea. Le tre sculture si distendono sottili su di un pendio inclinato tendendo verso l’alto, lasciano fluttuare l’aria nella loro struttura aperta dando l’impressione di muoversi, di avvicinarsi cullandosi. L’arte di Erika Inger è un cauto scandagliare dei punti di intersezione tra natura e cultura. Le sue sculture ambientali perciò sono da intendersi come indicatori che stimolano attimi di riflessione per riconoscere non solo gli aspetti naturali del paesaggio, ma anche il loro divenire culturale. Erika Inger vive e lavora a Vienna (Austria) e Lana (BZ) www.erika-inger.com Coppe tra coppe | 2011 Sette blocchi di granito cm 800 x 80 x 400 Vent Parco Nazionale nella pagina precedente: Pronto | 2000 Sterco di vacca cm 1200 x 500 x 130 Sciliar Donne e uomini di pietra | 2012 Pietre stratiforme Schmittenhöh Zell am See [ 44 ] Alberi di vita | 2001 Legno, acciaio Tre pezzi, altezza cm 700 Zell am See [ 45 ] L’ osservatore e la cosa osservata | 2007 Punzonatura su cuoio dipinto e colorato cm 33 x 27 senza titolo | 2014 Punzonatura su cuoio dipinto e colorato cm 110 x 80 Markus Damini Attraverso la materia M arco Sto ppa A lle porte dell’incantevole centro storico di Bressanone, in una strada secondaria di fronte al Ponte Aquila che attraversa il freddo fiume Isarco, si nasconde timidamente dagli sguardi quotidiani della gente la galleria-atelier dell’artista Markus Damini. Chi ha la fortuna o la curiosità di scoprire questo angolo suggestivo al numero 17 di via Stufles, non può non essere catturato, o quanto meno “distratto”, dalla singolare finestra-vetrina allestita dall’artista con poche opere e qualche oggetto curioso, che invita ad oltrepassare l’angusta soglia dell’entrata laterale. Una volta al suo interno, lo spettatore rimarrà disorientato da un mondo vivace e colorato fatto di superfici e segni dal sapore [ 46 ] ancestrale custoditi all’interno di un rustico ambiente in pietra coperto da un basso soffitto a botte. In totale antitesi con il contesto territoriale e culturale delle Dolomiti, le opere dell’artista tirolese sembrano nascere da continue escursioni negli spazi più reconditi della vita, alla ricerca della materia primigenia. Non sono casuali i frequenti riferimenti all’acqua e al mare, inteso come luogo primordiale che contiene in sé le più elementari forme di vita. Nell’opera L’osservatore e la cosa osservata, il colore blu domina sull’intera composizione nella quale si muovono liberamente curiose strutture a forma d’occhio dal sapore surreale. Ma non vengono meno i richiami all’energia primordiale in Rosso vivo, agli spazi siderali o, per contrasto, alle forme micro Rosso vivo (Dettaglio) | 2013 Punzonatura su cuoio dipinto cm 100 x 75 [ 47 ] organiche della grande opera Senza titolo del 2014, in un continuo viaggio alla scoperta delle leggi universali che governano la materia. In lavori come Attraverso lo specchio, o Idrogeno, il riferimento agli elementi fondamentali che compongono la materia è palese. L’artista rappresenta una struttura atomica con i suoi legami chimici, attraversata dalla luce sotto forma di spettro cromatico. In Cane di luce, invece, il legame tra luce e materia si manifesta visivamente sotto forma di una cane che vibra di luce propria come una costellazione di stelle. cane di luce | 2001 Punzonatura su cuoio dipinto e colorato cm 90 x 60 Eppure l’approccio di Damini non è scientifico, sebbene in parte riconosca l’influenza e il fascino delle teorie quantistiche, ma piuttosto empirico e spirituale. Nasce cioè dall’osservazione della natura circostante, con la quale fin da piccolo ha instaurato un legame molto solido. In essa percepiscono le leggi universali che governano il mondo, l’attrazione e la repulsione che creano le dinamiche fondamentali, ripercuotendosi all’infinito. Più di ogni altra cosa sono le onde del mare ad ispirarlo: esse rappresentano il movimento della materia, e in esse riconosce la polarità che governa il tutto, comprese le leggi umane. È curioso come l’attenzione dell’artista si sia spesso rivolta all’elemento acquatico, così lontano dall’ambiente in cui vive, sebbene sia lo stesso artista a ricordarci che “le dolomiti sono emerse dal mare, e portano i segni della propria origine”. Imago | 2005 Cuoio inciso, colorato e dipinto cm 50 x 34 Le cime delle montagne sono per Damini il punto d’osservazione previlegiato per viaggiare con la mente oltre lo sguardo, oltre i limiti del fenomeno e ”attraversare con l’immaginazione la materia” per arrivare alla sua essenza. Se l’origine del processo creativo di Markus Damini è mentale, pienamente fisico risulta essere il rapporto con il materiale che più utilizza per le sue superfici: il cuoio. L’artista riconosce in esso una “intelligenza intrinseca”, soggetta cioè a continue rigenerazioni. La pelle rappresenta la parte più robusta e allo stesso tempo più sensibile di un essere vivente, ma soprattutto contiene in sé gli elementi primi della vita, come le cellule. Lavorare sul cuoio per Damini vuol dire allora rappresentarne la natura più intima, la struttura interna, e renderla manifesta. Ma vuol dire anche fondere il gesto con la materia, i segni e i colori con il supporto, fino a renderli intrinseci. Per ottenere questo risultato l’artista adotta abilmente la tecnica dell’incisione su pelle per mezzo di un chiodo o, più frequentemente, di un punzone, tracciando senza uno schema prestabilito i contorni e le forme, con immediatezza e lucidità compositiva. Ciclo | 2003 Cuoio inciso, colorato e dipinto con applicazioni con resina e specchio 4 elementi da cm 39 x 39 Mentre il colore liquido – una soluzione realizzata dallo stesso artista per resistere nel tempo - è steso manualmente con un pezzo di stoffa imbevuto, ottenendo delicate sfumature di tinte dominanti che impregnano le pieghe e le venature del cuoio. Ciò che distingue l’arte di Markus Damini è la capacita di guardare la sostanza delle cose in un perfetto equilibrio tra tecnica e immaginazione, tra uomo e natura. Markus Damini vive e lavora a Bressanone (BZ) www.io-damini.it pelle molecolare | 2009 Cuoio inciso, colorato e dipinto cm 85 x 85 pelle molecolare 2 | 2014 Cuoio inciso, colorato e dipinto cm 123 x 44 [ 48 ] [ 49 ] E’ questa un’immagine che crea nella mia mente scenari e pensieri. Non ho un piano preciso quando dipingo, ma so dove voglio arrivare e dove vorrei che l’occhio si addentrasse. Davanti a una tela o a una matrice la natura diventa specchio di uno stato emotivo, ma può essere anche solo un frammento e quel che lo circonda o affianca è in un nuovo piano. Cerco un equilibrio tra natura e concetto, tra immagine e pensiero. Ogni opera è il risultato del tempo, del cambiamento, dei dubbi, un’atmosfera. Neri di abissi, luce all’orizzonte, deserti, acqua, tracce, strada, mare, madre, carta, olio, acrilico, china, grafite, colla, tela, legno, punte, colori liquidi, materia ... gli elementi del lavoro. Il pensiero si fa segno. Il segno è racconto del passare, del migrare. Migrare dalla luce alle tenebre, dalla morte alla vita e dalla vita alla morte, dentro il mare madre, sotto a una barca. PENSIERI DI UN UOMO | 2013 Incisione sperimentale cm 70 x 50 L’UOMO QUESTO SCONOSCIUTO | 2012 Scultura cm 28 x 13 x 5 Le tecniche diventano momenti essenziali di sperimentazione e di colloquio fra i diversi materiali che così sono messi in grado di emettere proprie sonorità e racconti. L’intervento dell’artista si manifesta nella creazione di sintesi costruttive fondate su ricomposizioni di frammenti, ricuciture di strappi, quasi metafora delle lacerate esistenze umane e delle loro complicate relazioni. Debora Antonello Contaminazioni P iù intensamente di molte analisi estetiche sono le stesse parole dell’artista a dire di sé, di un sentire poetico che poi viene trasferito sui suoi lavori sotto forma di colore, di segni, di materia. Ed è un canto all’immaginazione creativa che si auto alimenta in presenza dei materiali di cui l’arte si serve per esprimere visivamente se stessa, alla capacità, tutta tipica di un artista, di carpire da un’idea errabonda o dall’immagine di un attimo la suggestione e il suggerimento per procedere, per estendere e reificare sulla tela, sulla lastra calcografica o su qualunque superficie idonea al proprio sentire. Partendo da un’affermazione di Attilio Bolzoni, giornalista attento ai problemi siciliani, di mafia e non solo, “Non si possono alzare muri sul mare”, scrive: [ 50 ] Riflette sui significati di queste parole e sul loro portato, oltre che, ovviamente, sui lavori dell’artista, Carla Chiara Frigo in un recente testo su di lei: “Debora Antonello nel suo composito percorso personale alterna l’arte incisoria alla pittura e alla loro feconda contaminazione, sempre ottenendo esiti sorprendenti che trovano meditati consensi e lodi per la qualità del suo lavoro. MIGRANTI, NOI RACCOGLIEMMO IL MARE A BRACCIA APERTE | 2014 Olio e collage su tela cm 100 x 120 Il senso dell’unicità dei soggetti o attori dei rapporti umani, si proietta nell’arte incisoria attraverso il fatto che le stesse matrici non restituiscono mai le stesse immagini, ma sono materia viva in continua evoluzione per l’aggiunta o sottrazione di elementi e sostanze come colle, carte, collages, eterogenei, vernici, smalti, sabbie; nella pittura invece si manifesta nella ricerca e riconquista dell’unità dopo la scissione e per la commistione, scambi e trapassi tra i mate[ 51 ] ERA SOLO VENTO, in grigio | 2014 Incisione sperimentale cm 70 x 50 riali di cui le opere sono costituite per creare un tutt’uno inteso come totalità. Essenziale è poi il linguaggio che si affida ai segni oltre alle campiture, orizzontali e più spesso verticali, che si accostano o si sovrappongono, si accendono di intensa luminosità [ 52 ] ERA SOLO VENTO 2 | 2014 Incisione sperimentale cm 70 x 50 o affondano nell’ombra più profonda. I suoi segni sono essenzialmente degli scavi, metafora di indagini interiori che l’artista traduce con scritture psichiche alternate a delle illuminazioni, lampi di luce che attraversano le superfici come meteore e porta- no alla rivelazione. Nei suoi lavori la traccia è infatti protagonista, si identifica con il segno che è ottenuto con uno strumento appuntito, ma la cui manifestazione nasce nell’affondamento nella materia, nell’insinuarsi nelle sue pieghe più segrete. I segni sono dunque sorta di rizomi che percorrono le profondità ctonie per poi, imbevuti di umori, riemergere in superficie. Segni pregni ed espansi, dolorosamente graffiati o liricamente dilatati: impronte che enunciano il vissuto esistenziale nelle polarità opposte dell’assenza, del vuoto e del [ 53 ] des, Patricia Segnan. silenzio così come della presenza e della pienezza, del sibilo perforante o del soave canto. Le sue opere creano delle sequenze di trasmutazioni, varianti di significazioni emerse durante i tempi lunghi della gestazione, che stimolano il pensiero e toccano le aree nascoste ed inesplorate della nostra memoria facendo vibrare il nostro spirito. Dopo aver tenuto personali a Bassano del Grappa, Marostica (VI), Valdagno (VI), Recoaro (VI) Cittadella (PD), Dobbiaco (BZ) nel 2005 vince il Premio Arte Pisanello per la pittura della fondazione Toniolo di Verona, dove è poi invitata ad esporre. Inizia così un’intensa attività espositiva che la vede esporre, oltre che in Veneto, anche in altre città italiane e all’estero, continuando a tenere corsi di xilografia per l’Istituto d’Arte di Nove (VI), per il settore Cultura del Comune di Padova, ai Musei civici e corsi di pittura presso la Casa Circondariale di Padova. Nei dipinti che costituiscono il ciclo dedicato al tema della “migrazione” dunque si attua l’epifania delle sue più riposte intuizioni e delle sue più intime visioni sul tema del passaggio dell’uomo/ corpo/materia verso la sua spiritualità, verso la sua ‘salvezza’. Questa epopea, di cui ogni popolo è stato protagonista nel passato e ora anche nel presente, è un percorso di riscatto dalla miseria, è un’aspirazione alla metamorfosi della crisalide in farfalla che si trasforma in tragedia storica e quotidiana della vita umana perché può venire contrastato, ingiustamente negato. Ecco allora il colore steso con la violenza del grido di sofferenza e dolore, il trascorrere dei fotogrammi del vissuto custodito nella memoria in punto di morte, i paesaggi degli aperti spazi azzurri dei cieli e dei mari, i colori ocra dei deserti e quelli argentei delle spiagge che si librano nell’aria come desideri di coscienze finalmente liberate dalle catene e dall’oppressione del peso dell’ottusità e dell’egoismo cieco. Nel 2008 realizza per la Cappella della Chiesa di Sant’Anna di Piove di Sacco (PD), l’altare e il leggio ed in seguito la parete absidale della stessa parrocchiale con un dipinto di 5x12 metri. L’anno seguente è chiamata, assieme ad altri 9 incisori padovani, a rappresentare l’Italia alla VI Biennale di Incisione di Novosibirsk, in Russia, e poi a Guernica, in Spagna, presenta con gli artisti di Atelier Aperto il libro e la mostra “Venezia e le feste”. Il respiro ampio del colore si espande come un’irradiazione di energia o si liquefa nel calore della voce più accorata; i veli si discostano, le nebbie di addensano o si diradano per proteggere o per mostrare la nostra nudità: siamo l’unità riflessa nella molteplicità, l’umanità negli uomini.”. SCOGLI DI ACQUA E DI LAME | 2015 Olio e collage su tela cm 100 x 70 Nata a Cittadella (PD) nel 1967, dopo il diploma di scuola superiore, Debora Antonelli si specializza nell’insegnamento per soggetti con disturbi psicofisici e lavora quindi nella scuola frequentando contemporaneamente lo studio del padre pittore. Nel 1992 lascia l’insegnamento e inizia a lavorare a tempo pieno in ambito artistico prevalentemente su tecniche pittoriche, grafiche e su oggetti d’arte. Alla Scuola Internazionale di Grafica di Venezia partecipa ai corsi di Pittura Astratta e, dal 2001 frequenta regolarmente l’Atelier Aperto di Venezia, dove sperimenta varie tecniche incisorie sotto la guida di Nicola Sene. Ha partecipato ai vari seminari tenuti da Rina Riva, Riccardo Licata, Elias Garcia Benavi[ 54 ] Nel settembre è invitata dall’Istituto di cultura italo-tedesco di Braunschweig, in Bassa Sassonia, ad allestire una personale presso la Volkshochschule e a tenere un workshop di incisione presso la scuola italo-tedesca di Wolfsburg (Germania). Nel novembre presenta una personale di grafica alla galleria Venezia Viva (Venezia). DESERTI 3 | 2015 Olio e collage su tela cm 40 x 40 Nel 2010 e nel 2012, 2013 ha esposto e tenuto alcuni workshop a Tokyo e invitata al Prints Tokyo 2012, presso il Metropolitan Museum di Tokyo. Membro dal 2013 dell’Associazione Incisori Contemporanei, insegna tecniche sperimentali pittoriche all’Accademia Aperta di Cittadella. Debora Antonello vive e lavora tra Cittadella (PD) e Venezia www.deboraantonello.com DESERTI 2 | 2015 Olio e collage su tela cm 40 x 40 [ 55 ] Di fronte a questo cambio di rotta sorge la curiosità di capire il percorso, il motivo che lo ha condotto in questa direzione. C’è un legame tra queste tematiche apparentemente lontane? E l’idea di riutilizzare nelle opere ciò che gli altri hanno scartato, interpretandolo come risorsa da inglobare e trasformare come parte integrante dell’opera, assume significato al di là dell’intenzionalità estetica? L’utilizzo di “materiali di riciclo” pone in evidenza un tema più volte trattato nella storia dell’arte contemporanea attraverso approcci e motivazioni anche molto diversi tra loro. L’idea della trasformazione, del riuso e del recupero può acquisire significati intrinseci che partono dalla volontà di conservare e dare nuova vita a cose che hanno concluso il loro ciclo, fino a variazioni di significato più profonde. Può assumere il valore di contestazione verso la società della sovrapproduzione dove ogni cosa, comprese le idee, sono concepite nel modo “usa e getta”, oppure diventare “memoria”: vecchi oggetti e immagini vengono recuperati perché ciascuno di loro conserva le tracce del passato di chi li ha posseduti o in senso più lato dell’umanità che li ha creati (come ad esempio gli objet trouvè). Inoltre la ripresa di immagini tratte dalla carta stampata e dalla pubblicità può riferirsi anche al senso di reportage urbano, come nel famoso caso dei cartelli pubblicitari strappati di Rotella e Hains: i cartelli pubblicitari sono un aspetto transitorio ma importante del paesaggio cittadino, vengono infatti riproposti come effimeri e scaduti perché dietro a tutto ciò coesiste l’allusione del rapido mutare del volto della città. In ciascuna di queste varianti (solo alcuni tra i mille volti del- ZOE’ | 2014 Tecnica mista su tela cm 94 x 72 Ore 5 | 2012 Tecniche sperimentali cm 72 x 93 Luciano Gasparin Tr a m a t e r i a e f o r m a E r i k a F e r r e tt o O sservando le opere di Luciano Gasparin ci si rende conto della varietà di soggetti e tecniche messa in campo dall’artista. Da una produzione prettamente figurativa, dove protagonista è “l’uomo”, ripreso come in un'istantanea che lo blocca di scorcio o intento in un gesto e in un attimo significativi, egli passa a rappresentazioni sempre meno figurative e sempre più incentrate sul gusto per l'indagine materica e la sperimentazione di varie tecniche. É come se prendesse il sopravvento un'intenzionalità operativa fatta di esuberanze materiche, pittura tradizionale e accostamenti di immagini fotografiche, lacerti di riviste e giornali fino a oggetti della vita quotidiana (come nell’installazione Riflessione 2015, dove sedie dipinte di un brillante blu Klein compongono l’opera che per ora rimane un unicum nella produzione di Gasparin, maggiormente concentrato sul riutilizzo di immagini e carta stampata). [ 56 ] Dress Home | 2014 Tecnica mista su tela cm 94 x 72 Decomposizione floreale | 2012 Tecniche sperimentali cm 72 x 93 [ 57 ] la “poetica del riciclo”) è ravvisabile la predominanza della materia rispetto alla forma, che ha portato, talvolta, a una volontà di demistificazione della pittura, nel senso tradizionale del termine, quale mezzo rappresentativo primario. Analizzando l’aspetto estetico si può affermare che oggi la varietà di mezzi, compreso l’impiego ormai conclamato di elementi estranei all’arte, permette l’utilizzo simultaneo di più tecniche che diventano interscambiabili e paritarie; nessuna prevale sulle altre perché tutte concorrono alla finalità espressiva dell’opera. Si avvia così un fecondo dialogo tra la pennellata gestuale e l’immagine meccanicamente riprodotta, tra il lavoro dell’artista e oggetti di uso comune. modo disomogeneo così da creare un effetto simile a una combustione. I tronchi stilizzati di queste alberature sono realizzati con carta di giornale e collage creando un ideale contrasto tra la tematica legata al mondo naturale e la sua realizzazione tramite materiale di scarto. Se nelle opere appena descritte è ancora riconoscibile il soggetto, in Foresta 2015 scompare del tutto, lacerti della carta stampata e porzioni di colore conformano lo spazio, si annulla la forma ma permane un pittoricismo reso attraverso materiali alternativi. E’ chiaro che l’innesto sulla tela di materiali diversi dal colore, permette di ottenere determinati effetti cromatici e formali, evidenziando un fine prevalentemente estetico che non esclude l’interesse verso ciò che altrimenti avrebbe concluso la sua utilità. Non a caso Gasparin utilizza la carta dei quotidiani nei quali la parola scritta viene, sia pur in lacerti non più leggibili, lasciata in evidenza quasi a riprova del nuovo “effetto” che può assumere. Compaiono in Dress Home come in Vita immagini in bianco e nero tratte da vecchie riviste, esse non vengono alterate ma semplicemente posizionate un po’ defilate lungo i bordi come vecchie foto di famiglia. La loro discreta monocromia contrasta con l’elemento pittorico centrale dai colori accesi e ridondanti, paradossalmente proprio questo contrasto sembra accentuare la curiosità e l’attenzione verso quelle immagini di personaggi d’altri tempi ridandogli vita. Luciano Gasparin In questo inconsueto sposalizio ha lasciato un segno indelebile, già negli anni ’50, Rauschenberg con i suoi Combines paintings. Questa sovrapposizione e mescolanza rispecchia il carattere della società attuale abituata alla varietà delle fonti dalle quali poter trarre le proprie informazioni e alla ridondanza iconica che proviene dai media; in questo contesto l’arte può assumere atteggiamenti diversi ma certamente non può rimanere indifferente. vive e lavora a Thiene ( VI) www.lucianogasparin.com In Gasparin si ritrova un costante interesse, mai declinato, verso la materia pittorica che rimane l’essenziale “collante” anche quando accanto ad essa compaiono nuovi materiali e presenze, e anche quando procede verso una graduale astrazione. La forma intesa come rappresentazione del reale non scompare mai del tutto, é sempre riconoscibile dentro gli strati della materia come nella serie Esplorazioni dove alberi, tronchi e foreste si ritrovano stilizzati, accennati e colti nell'essenza. Alberi d’inverno, alberi d’estate e d’autunno sono una rivisitazione del medesimo tema nel quale la cupa chioma degli alberi è resa attraverso una corposa materia che a prima vista appare come materiale bruciato. Di fatto quest’ultima è il risultato di una sperimentazione: un agglomerato di colla, gesso ed altri materiali che esiccandosi molto lentamente permettono al colore di penetrare in Bosco d’estate | 2012 Acrilico su tela cm 57 x 59 Rovi nel vento | 2015 Tecnica mista su tela cm 90 x 90 [ 58 ] Controccorrente | 2009 Olio e collage cm 80 x 110 [ 59 ] TRITTICO NERO | 2012 Semirefrattario marrone lavorato a lastra cm 18 x 33 Cesare Sartori Ceramica come laboratorio di vita G i ova n n a G r o s s at o foto di A entrare nel suo ampio studio-museo che condivide con la vigorosa e creativa figlia Vania, che si occupa su più fronti dei vari aspetti del laboratorio di famiglia, oltre che delle proprie ceramiche, ci si trova a ripercorrere la storia di una vita. Vita artisticamente assai ricca, che inizia precoce nei primi anni Cinquanta, assieme a numerosi altri artisti, locali e non: lunghi anni in una stagione culturalmente e politicamente importante e assai vivace. In questa officina permanentemente in attività, in cui nascono idee, progetti, schizzi, in cui i forni cuociono opere ceramiche anche per altri artisti, ad ogni ora si trovano ospiti di vario genere e a vario titolo: giovani aspiranti ceramisti e adulti appassionati che si aggirano nei locali ingom[ 60 ] F a b i o B a gg i o bri di bozzetti, disegni, progetti per grandi pannelli, foto di realizzazioni che attualmente appartengono – allocate in musei di tutto il mondo, in luoghi pubblici e chiese – alla storia della ceramica novese e italiana. Molte sono anche le “presenze” umane non fisiche, altrettanto consistenti e molteplici: quella della moglie Maddalena, anche lei raffinata decoratrice e provenente da una antica famiglia di ceramisti, sposata nel 1960. Del giorno del loro matrimonio Cesare conserva qui un pannello di cui le fece dono in quella circostanza e che raffigura due sposi all’altare. Poi ci sono gli amici – anche loro scomparsi - con cui ha condiviso passioni e idee, committenti sensibili o difficili. Tra i nuovissimi disegni - appuntati con spilli e scotch su ogni super- ALBERI COMBUSTI | 2001 Semirefrattario lavorato a lastra h 160 x 8 cm TORRE | 2006 Semirefrattario a lastre sovrapposte h 160 cm ficie verticale libera - si affacciano vecchie foto di Pompeo Pianezzola, di Federico Bonaldi che spesso arrivava in studio di buonora con la scusa di cuocere nei forni di Sartori le sue sculture, ma specialmente per riprendere ragionamenti sull’arte interrotti il giorno prima o per essere invitato alla loro tavola per una pastasciutta improvvisata ma ricca di chiacchiere sul mondo in cui entrambi erano impegnati. Cesare nasce, ultimo di otto fratelli, il 16 marzo 1930 a Nove, paese da cui non si è mai allontanato per lungo tempo, pure avendo visto il mondo da questo osservatorio privilegiato in cui sono state create ceramiche tra le più belle e da cui è riuscito a presidiare, nonostante la marginalità del luogo, qualsiasi evento nel mondo dell’arte. Gli raccontavo, poco tempo fa, degli azulejos che avevo ammirato al museo di Lisbona, brani antichi del mondo incantato della terracotta invetriata e lui, guardandomi con i suoi azzurrissimi occhi sornioni da ragazzo, mi faceva capire di conoscere assai bene il soggetto… Adolescente, la sua famiglia lo fece frequentare la locale Scuola d’Arte, con il magistero dei due ceramisti Andrea Parini (di Caltagirone) e Giovanni Petucco (novese). Nel contempo Cesare lavorava presso alcune fabbriche locali di cristallina e poi, con l’amico Federico Bonaldi, prosegue gli studi presso l’istituto d’Arte dei Carmini di Venezia dove, nel 1954, si diploma. A Venezia incontrerà anche Carlo Scarpa e i vetrai muranesi, Emilio Vedova e l’avanguardia dell’arte informale italiana; rapporti che non saranno ininfluenti nella sua [ 61 ] FAGLIA | 2008 Terraglia lavorata su blocco cm 60 x 15 FAGLIA | 2008 Terraglia lavorata su blocco cm 37 x 15 poetica, come pure la frequenza, in Accademia, alle lezioni di nudo e di composizione pittorica. Tutte esperienze che emergono, fortemente trasformate dalla sua personale visione del mondo pittorico e formale, già a partire dagli anni Cinquanta. E’ infatti questo il momento in cui egli inizia ad affermare un suo stile e una predilezione per alcuni temi che saranno poi ricorrenti, legati ad una quotidianità semplice ma trasfigurata dalla sua fantasia vivace con un linguaggio incisivo e a volte espressionista, in cui il segno si impone spesso a discapito del colore. Figure, ritratti, scene di vita, animali e vegetali, tutto si reifica nel duttile materiale plastico in cui Sartori mette in scena il suo teatro del mondo. Un radicato spirito laico non gli impedisce di realizzare molti grandi lavori con soggetti religiosi su commissioni chiesastiche, come per il cimitero di Nove, dove elabora il portale e il cenotafio e dove, per la cappella Michelon, realizza grandi porte monolitiche in materiale refrattario, mentre per la chiesa dell’Immacolata di Montecchio Maggiore (VI) compone nel 2005 La porta dell’Angelo (di cui conserva decine di bozzetti e schizzi che testimoniano più di un anno di ricerca), la cappella battesimale, una cappella Mariana e una Via Crucis, come pure per la chiesa della Madonna degli Immagrati di Berna. FONTE BATTESIMALE | 2005 Chiesa dei Padri Giuseppini a Montecchio Maggiore (VI) 32 mq [ 62 ] Altri soggetti stimolano ugualmente la sua fantasia, come I racconti del Brenta, elaborati per il ristorante Contarini, o La porta Federico Fellini, omaggio a un grande regista che “non aveva paura di sbagliare”, in cui le due F del monogramma sembrano occhi che guardano il mondo con la stessa libertà di visione dei due uccelli in volo che li circondano. Oltre alle lastre smarginate che contengono oscuri crittogrammi, alle formelle dalla narratività fluente, ai ritratti, ai vasi, gli alberi sono uno dei temi prediletti che ancora dominano l’universo artistico di Sartori, attualmente realizzati con gli sfridi della lavorazione di altri elementi, che con le loro forme diseguali suggeriscono tronchi e rami ma anche il meno esplicito messaggio di lasciare sempre una porta aperta agli spunti casuali, o apparentemente casuali, che la vita offre e alla possibilità che uno “scarto” possa ancora diventare “opera”. Questa attitudine di Sartori a immaginare fusioni di forme e referenzialità di materiali e soggetti è del resto un carattere molto radicato del suo stile, come ebbe a notare Fernando Rigon: “Non sarà mai sufficientemente sottolineato il merito di Sartori di aver introdotto, nell’ambito della produzione novese e bassanese della ceramica, un elemento estraneo alla ceramica stessa come il vetro. […] Lo schema dei suoi oggetti è programmaticamente sempre uguale: un “modulo” di partenza e di base in refrattario molto grezzo, dal colore ruvido e brutale di tinta variabile, all’interno del quale una fusione vetrosa significa da se stessa i più svariati accordi cromatici, inglobando conglomerati di ceramica che suggeriscono o aggregano macchie di differenti intensità e spessore. Sono appunto questi accordi interni a costituire la infinita indefinibile casistica di variazioni sul tema con dei risultati che per la loro spontanea immediatezza – pur essen- do scaturiti da una operazione virtuosistica e raffinata – ci fanno ritornare alla “natura” dell’occhio di un insetto, del ventre di un rettile, della squama di un pesce. Ciò accade perché il materiale veramente continua a rimandare a se stesso, a significarsi, riassorbendo nel suo interno, e nascondendolo, l’intervento dell’uomo”. (Fernando Rigon, “Cesare Sartori”, in Ceramica Veneta, n.4, marzo 1988). Sull’uso che Sartori fa della materia ceramica in senso plastico, scriverà, nel 1991, anche la critica Nelida Silič Nemec, nel testo a catalogo della Mostra di Ceramica alla Galleria Meblo di Nova Gorica (Slovenia), Nel 2011, in occasione della tradizionale Festa della Ceramica di Nove, viene presentata nello spazio espositivo dell’Antico Mulino Antonibon una delle più recenti personali dell’Artista, “Cesare Sartori: un viaggio nell’arte degli Anni Cinquanta ad oggi” in cui vengono esposti, oltre i “portali, gli “alberi”, le “faglie” e alcuni dipinti e quadri a tecnica mista, anche oggetti di design che rappresentano un filone di ricerca molto interessante cui il maestro novese si dedica particolarmente a partire dalla fine degli anni Settanta, a conclusione della sua attività didattica che era durata dal 1954 al 1978. Sono ceramiche d’uso e d’arredamento che ancora oggi “tengono”: per originalità di forma, accuratezza di esecuzione e scelta cromatica. CESARE SARTORI Vive e lavora a Nove ( VI) [email protected] [ 63 ] da vedere Giulio Candussio S pilimbergo (PN) La Galleria - Dorothea van der Koelen V enezia Alberto Lanzaretti Quando la luce prende forma ›Towards the Future …‹ Pittore privo di retroterra accademico, si è formato a contatto con l'arte contemporanea ed ha assimilato la coscienza artistica attraverso l'osservazione di forme e spazi, ha maturato nel corso degli anni un equilibrato controllo del colore e della sua espressione, artista attento ed accurato, usa la sua arte per trasformare sogni in strutturate geometrie che manifestano leggerezza. Le sue opere esigono un'osservazione attenta e approfondita che superi il primo colpo d'occhio, che senz'altro rimane accattivato da queste originali tarsie, abilità un tempo dalla critica considerata minore ed ora presa in maggior considerazione ed attenzione grazie all’abilità di alcuni artisti, tra cui Lanzaretti; i suoi quadri non sono solo da vedere ma grazie anche alla particolare tecnica utilizzata, si possono anche toccare, leggere con le dita come in una specie di "lettura Braille". Da anni nel panorama artistico nazionale, si propone con lavori la cui elaborata esecuzione è il risultato di: manualità, armonia e fantasia. Nella ultime creazioni usa i minerali per dare vita a opere che omaggino la natura, partendo dalla pietra sviluppa il vincolo sentimentale con la natura in modo che sia la gemma stessa la principale protagonista, osservando la pietra coglie la visione per espandere intorno ad essa il colore, la struttura e la forma dell' opera. L'idea è nata dalle fotografie delle miniere dismesse, ha visto i disegni e i colori delle terrazze che penetravano la terra, uno spettacolo che ha tradotto in una realtà fatta di legni laccati. Un artista che riflette sulla propria identità, non può fare a meno, negli anni della consapevolezza, di guardarsi attorno e mettere la sua immagine in relazione con quella di altri artisti. L’arte che uno ha cercato di fare credendosi solo, diventa un punto in una ”mappa” circondato qua e là da altri punti che corrispondono ad altri artisti. Così diventa più chiara e inevitabile la valutazione di quello che abbiamo fatto.. La nostra coscienza ci impone di accettare la nostra dimensione vera che è quella di una piccola tessera in un grande mosaico, dentro il quale ci siamo inseriti per tendenza naturale o per volontà, in una zona che non ci sarà consentito cambiare. Senza saperlo, eravamo come siamo adesso, parte di un “insieme” più grande, di un repertorio linguistico o estetico, che coincide con l’arte di questo secolo. Nel fare pittura, ho cercato sempre di mettere a confronto il rapporto tra le molteplici, esperienze pittoriche e le avanzate tematiche che sfiorano i diversi codici simbolici della luce e del colore, cercando di costruire dei valori linguistici ed estetici nell’ ambito della tradizione europea dell’ astrattismo.. Non seguendo le mode, ho cercato di portare avanti da molti anni, una concezione dell’arte come disciplina della forma, come analisi poetica delle strutture linguistiche della percezione, fondata sui reciproci rapporti di colore, luce spazio e movimento. Credo che l’estetica sia un’ aspirazione umana e che questo termine debba tornare ad arricchire le nostre esperienze di vita e di cultura. L’uomo contemporaneo, ha bisogno di ritrovare la vita percettiva e fantastica, è sempre più alienato da una civiltà sfrenatamente tecnologica, artificiale e inquinata. Le pitture che danno “figura” alla luce sono comparabili a sorgenti di energia che emettono “radiazioni” trasmettendo un messaggio vitale e ottimistico. Partecipano all'esposizione rinomati artisti internazionali: l'installazione After Here and There di Lawrence Weiner è pars pro toto per l'intera esposizione; il noto artista francese Daniel Buren presenta l'opera in vetro 12 B 5 (violet) appartenente alla famosa serie Cadre Décadré del 2006; Mohammed Kazem (che ha rappresentato gli Emirati Arabi durante la 55. Biennale) espone l'opera in alluminio Fixing Nothing, personale riflessione sulla non funzionalità dell'arte; Fabrizio Plessi è presente con uno dei suoi celebri disegni-progetto dedicato a La Barca, una delle sue più rinomate video-sculture. In esposizione si trova anche l'opera su tela Blanc dell'artista austriaco Heinz Gappmayr, noto rappresentante della poesia visiva. L'artista tedesca Lore Bert presenta invece uno dei suoi grandi lavori in carta di color magenta, segnale di luminosa positività per l'avvenire. Partecipano alla mostra anche l'artista tedesca Vera Röhm, il giapponese Kisho Mukaiyama, l'artista austriaco Hellmut Bruch e l'artista belga Arne Quinze. All'interno della Galleria è inoltre possibile visitare lo studio dell'artista Lore Bert e ammirare alcune delle sue nuove splendide opere in carta giapponese e foglia d'oro. L'artista, già protagonista con i suoi preziosi lavori dell'evento collaterale Art & Knowledge (highlight della 55. Biennale d'Arte) presso la Biblioteca Marciana, quest'anno partecipa anche alla collettiva Personal Structures - Crossing Borders allestita a Palazzo Bembo sempre in occasione della Biennale. Per tutta la durata dell'esposizione La Galleria accoglie inoltre gruppi di visitatori, su appuntamento, offrendo la possibilità di prendere un aperitivo nel giardino e di godere del piacere dell'arte in un'evocativa atmosfera veneziana. Thiene (VI) Manuela Bedeschi Lonigo (VI) Tobia Ravà Venezia Museo del Paesaggio T orre di Mosto (VE) “CODICI TRASCENDENTALI“ a Trieste Villa Pisani Bonetti ospita un evento correlato all’ XI Festival Biblico dal titolo ‘Custodire il Creato, coltivare l’Umano’ in cui sei artisti interpretano il tema di quest’anno : Manuela Bedeschi propone una installazione inedita in cui mescola ad elementi naturali opere precedenti dedicate all’iconografia religiosa; Mats Bergquist usa la modernità del monocromo all’antica tecnica dell’encausto su legno per parlare di infinito; Giuliano Dal Molin espone opere su legno dipinte a tecnica mista sulle quali la contrapposizione netta dei colori riprende il movimento vitale della natura; Manlio Onorato allestisce una installazione che unisce delicati acquerelli dedicati ai colori dei giardini fioriti e poesie di Francesca Ruth Brandes; Gino Prandina presenta opere a tecnica mista dedicate al tema delle Quattro Stagioni; Fulvio Testa dipinge il deserto in oli ed acquerelli. Dal catalogo : ‘’…Si riconosce in Manuela Bedeschi l’afflato di una spiritualità mossa dalla natura e riflessa nell’arte, che risalta in alcune travi recuperate e dalle immagini del Sacro Cuore di Gesù trafitto da uno stiletto, illuminati soffusamente da una rossa luce neon, tale da trasformare lo spazio circoscritto in un luogo votato al sacro. Nell’installazione dal titolo Il Bosco e l’anima, le travi di legno recuperano la memoria della natura e custodiscono la presenza discreta e ripetitiva del santino in legame con un’oscura chiesa dipinta su uno sfondo rosso… In unità con questo spirito anche la musica, di sottofondo conduce con il suono e il suo ritmo ai rapporti interni di un’installazione, che suggerisce per la dimensione spirituale di non avere confini….’’ Maria Lucia Ferraguti Tobia Ravà con la sua arte numerica ci trasporta in un mondo surreale, dove un fitto intreccio di numeri e lettere ebraiche danzano sulla musica della ghematrià, creando significative composizioni pittoriche. Le forme che l’artista riesce a comporre con i suoi numeri sono le più svariate, tra queste ve ne sono alcune ricorrenti nella sua poetica, come i vortici trascinanti, e delicate vedute di Venezia, i boschi matematici e gli animali che popolano il suo fantastico parco kabalistico. Queste opere a cui è facile avvicinarsi per la loro bellezza e per l’impatto emotivo che suscitano, lasciano subito intendere la profondità del loro significato, come un invito che l’artista rivolge allo spettatore ad addentrarsi nella decifrazione dell’opera. Attraverso la ghematrià ci si avvicina ad un percorso di decriptazione dell’opera che porta alla scoperta della mistica ebraica e allo stesso tempo ci fa’ riscoprire parole del nostro linguaggio, mostrandone il significato più vero e profondo. I suoi dipinti svelano nuovi aspetti di concetti e valori universali, quali amore, speranza, gioia, ed esprimono una incrollabile e sconfinata fede nella riqualificazione dell’uomo. Le sue opere da un lato possiedono una bellezza che si può apprezzare nell’immediato, dall’altro diventano validi strumenti per elevarsi spiritualmente nella comprensione di noi stessi e del creato. Ma come afferma lo stesso artista, non è necessario comprendere tutti i percorsi di senso che compongono l’opera, l’importante è creare una piccola breccia nell’animo delle persone. In particolare le opere esposte alla sede dell’Università Popolare di Trieste - dal 6 settembre al 6 ottobre - fanno parte di un ciclo poetico in cui l’artista concentra il suo interesse sull’uomo, sul mistero della creazione e sull’essenza della vita. Alice Toffolo Il Museo del Paesaggio di Torre di Mosto è stato inaugurato nel 2008. Da allora sono state organizzate 25 esposizioni d’arte con catalogo; una parte, di carattere storico, è stata indirizzata al tema del Paesaggio nella pittura veneta del primo novecento; dal 2010 abbiamo attivato una sezione del Contemporaneo che indaga le ricerche spaziali e paesaggistiche a partire dagli anni ’60 ad oggi, in un dialogo continuo tra artisti veneti e artisti, movimenti e ricerche nazionali. Il Museo ha una propria collezione sull’arte del novecento veneto e contemporanea, frutto di donazioni e di comodati con Istituti culturali e collezionisti privati. Nel suo sito, oltre all’informazione sulle mostre e cataloghi on line sulla sua passata attività, è in corso di costruzione un archivio di opere e artisti del novecento veneto. Dal 2013 è sede dell’Osservatorio della Bonifica del Veneto Orientale, collegato alla rete degli osservatori di paesaggio della Regione del Veneto. Dallo scorso anno è stata attivata una nuova sezione riguardante il cinema del paesaggio e un’intensa attività seminariale e workshop. Le iniziative svolte, assieme alle pubblicazioni critiche e storiche che le hanno accompagnate, hanno l’obiettivo di creare una diffusa cultura del paesaggio a fini culturali e turistici. Essa è tanto più necessaria oggi, nel tempo della crisi contemporanea del rapporto tra uomo e natura e, per quanto riguarda l’Italia e il Veneto, crisi della relazione con la propria identità e valenza storica che ha prodotto sul tema del paesaggio alcune delle più significative esperienze dell’occidente, sia nel campo pittorico che in quello architettonico e urbanistico. A iniziare da settembre e per l’intero 2016 sarà sviluppata una serie di mostre tematiche intorno ai “paesaggi” nelle arti (poesia e musica) e di mostre monografiche tra le quali una grande antologica su Gianquinto. Giulio Candussio La Galleria di Dorothea van der Koelen Alberto Lanzaretti Manuela Bedeschi Tobia Ravà Museo del Paesaggio di Torre di Mosto vive e lavora a Spilimbergo (PN) www.giuliocandussio.com San Marco 2566, 30124 Venezia Tel. +39 041 5207415 e-mail: [email protected] www.galerie.vanderkoelen.de vive e lavora a Thiene (VI) www.lanzarettialberto.it vive e lavora a Lonigo (VI) [email protected] vive e lavora tra Venezia e Mirano www.tobiarava.com Località Boccafossa, 30020 Torre di Mosto (VE) www.museodelpaesaggio.ve.it [ 64 ] [ 65 ] Nelio Sonego C oncordia Sagittaria (VE) Silvia Martignago As olo (TV) Raffaella Guarnieri B assano del Grappa (VI) IDA HARM P adova i “quadripoesia” di Carlo Invernizzi e Nelio Sonego Trascendere la realtà per creare emozioni allo stato puro Gioielli in viaggio Gli alberi D I lettori di AREAARTE hanno già conosciuto la ricerca di Nelio Sonego, a cui è stato dedicato un articolo nel numero 161. Non conoscono forse un altro aspetto del suo lavoro, che ha sempre affiancato la produzione pittorica: il rapporto con la poesia. Già a partire dai primi anni ‘80 Sonego si è infatti dedicato al libro d’artista, collaborando con l’editrice romana Orolontano2. Ai primi anni ‘90 risale l’incontro con il poeta Carlo Invernizzi, con il quale Sonego condivide una comunanza di visione, sancita dalla firma del manifesto Tromboloide e disquarciata. Natura Naturans3. “L’uomo per la sua costituzione fisica è parte intrinseca della Natura Naturans” recita l’incipit del manifesto. Anche l’uomo dunque non è altro che un insieme di particelle subatomiche in continuo divenire, parte di quella Natura naturans che di continuo crea, trasforma e distrugge. In questa radicale “finitudine” “l’arte – scrive ancora Invernizzi – è ansia noetica dell’uomo in disquarcio del tuttonulla”: ansia di attingere al sostrato immenso e totale del mondo in cui ognuno è compreso. È allora che, nell’“infondo senza fondo precipiti”, il buio si fa “buioluce”, compartecipazione vitale all’energia del Tutto. Ed è quest’energia che accomuna la poesia di Invernizzi – così tesa, ardua, intrisa di neologismi – e il segno di Sonego, guizzante oltre la soglia del visibile. È quest’energia che ha trovato compiuta espressione in una serie di lavori a quattro mani che potrebbero definirsi “quadripoesia”: bianche tele che ospitano, in una libera partitura, il segno scritto e il segno visivo, il nero e il colore, gli “idiolemmi sempre elusivi” di Sonego e la parola rivelante, epifanica e liberatrice di Invernizzi. Il confronto con i dipinti di Silvia Martignago ci costringe da subito ad una visione ricca di colori di grande intensità e ricchezza di tonalità che, però, non ci impedisce di cogliere quel carattere che la contraddistingue: l’essere, cioè, un’artista che si è totalmente persa nelle profonde ascendenze dell’arte di queste terre venete. È profondamente convinta che sia possibile esprimere sé stessa nella totalità, perché il supporto su cui colloca il suo pensiero e la sua azione ha la necessità di poter dire la “verità”, tutta la verità del suo animo. Così, come avviene anche per le altre espressioni dell’agire umano, l’arte di Silvia Martignago ha un compito fondamentale, quello di saper emozionare e trasmettere un messaggio ricco di positività. Ciò che conta per l’arte è il fatto che la rappresentazione susciti una determinata partecipazione, dunque, una certa emotività e soprattutto quello che importa è la capacità di gettare luce sulla realtà, su quella realtà che ci passa davanti agli occhi, che è molto spesso, opaca, quotidiana e non percepibile. È una realtà che non sappiamo guardare, alla quale siamo abituati, e che l’artista ci invita a osservare altrimenti. Senza dimenticare che le opere d’arte parlano dei loro autori, introducono alla conoscenza del loro mondo interiore e rivelano l’originale contributo da essi offerto alla ‘storia della cultura’. Lo stesso modo è utilizzato da Silvia Martignago la cui arte è in un certo senso una metafora della vita e, nel contempo, una sorta di strategia verso la ricerca della sua finitezza. Il suo dipingere è una sorta di ‘viaggio’ mentale, molto creativo, alle volte coinvolgente, è un mondo curioso, che ci avvicina alla ricchezza di un universo profondamente pregno di convinzioni. Mario Guderzo Sono una viaggiatrice curiosa. Curiosa della gente che incontro nei miei viaggi, delle storie che le persone sanno raccontare anche solo con uno sguardo. La mia curiosità attraversa non solo paesi diversi, ma anche materiali e tecniche diverse, che in qualche modo cerco di conoscere ed imparare. Le mie creazioni nascono da qualche cosa che mi emoziona e questa emozione spero passi, attraverso le mie opere, a chi le osserva o le indossa. Collezione “ Sounds and Movements” In ogni viaggio ho raccolto alcuni sassi, quelli che più mi colpivano per forme e sensazione tattile. Un giorno, guardandoli, ho pensato di dar loro una vita. Da qui è nata l’idea di utilizzarli per i gioielli. Ho cominciato da un anello, mettendo al centro un bellissimo sasso che sembrava disegnato per quanto era stato lavorato dal tempo. In ogni mio gioiello i sassi sono mobili per contrapporre la pesantezza alla leggerezza e, muovendosi, suonano. Mi piace il concetto che il sasso, attraverso i movimenti del nostro corpo, possa ricordarci la sua presenza, quasi fosse “vivo”. Per evidenziare la sensazione di leggerezza, ho abbinato, all’argento e ai sassi, filati preziosi come la seta grezza e il lino”. Collezione “ The hidden side” i gioielli si ispirano alle geometrie, all’architettura e alle luci ed ombre della fotografia. Il punto di rosso serve per rompere le geometrie, per creare imperfezione, per distrarre lo sguardo. I gioielli di “ the hidden side” esprimono qualcosa che sento molto vicino a me, c’è in essi una parte nascosta ma contemporaneamente quella che osa, sperimenta, esprime, a volte provoca. Ci sono finestre, ci sono tagli nel metallo, ci sono linee che rompono, per invitare lo sguardo a non fermarsi, ad andare oltre, ad incuriosirsi. Italo Bressan T rento Lucio Perin T rieste Fotografia e colore, fotografia e bianco e nero, questo è il tema apparentemente semplice, in realtà complesso e ricco d’implicazioni, che affronta Lucio Perini. Forse. Quale rapporto fra sensi e fotografia, sembra chiedersi l’autore? Labile, inesistente, congelato dal mezzo ormai tecnologico, digitale? Nonostante l’uso spregiudicato quanto sofisticato del mezzo e degli effetti che consente, questo rapporto è intenso nella resa fotografica di Perini, che sente la nostalgia della carta, della sua texture, il profumo dell’inchiostro, il rimpianto dell’oggetto reale e della sua concretezza. Il richiamo del corpo, dei corpi veri. Le sue immagini sono sinestesiche, alludono a combinazioni di sensi che trovano nel colore un “correlativo oggettivo” potente, in grado di trasmettere emotività. Quell’emotività che all’artista, di formazione accademica, allievo di Bruno Saetti, Carmelo Zotti e Italo Zannier, piace, poiché gli consente di attivare un rapporto diretto con la vita nella sua pulsazione, gli prospetta la possibilità di lasciarsi vincere e vivere dall’emozione, dall’altro da sé. Lasciarsi vivere significa uscire dalla fragilità della dimensione virtuale dello scatto in bianco e nero per rielaborarlo e vivificarlo attraverso il colore: un colore violento, frutto di solarizzazioni e bruciature, che paradossalmente nella sua antireferenzialità tecnologica si associa a sensazioni fisiche o psichiche: il colore della pittura prestato alla fotografia. Più impressionista che espressionista, se vale il “lasciarsi vivere” di fondo. Più espressionista che impressionista, se vale il work in progress dello scavo analitico, dell’apporto di correttivi e ripensamenti continui che Lucio definisce “dolorosi”. Dolorosi, e perciò veri. Ida Harm inizia il suo viaggio artistico fra gli alberi 15 anni fa. I primi lavori, simbolici, essenziali, dai colori della terra, si fanno via via ricchi di pigmenti e pennellate di ispirazione impressionista ma dal taglio fotografico. Il focus dei suoi dipinti e l'amore per i grandi alberi secolari rimane immutato nel tempo ma la Harm sa declinare in vari modi i suoi soggetti, sempre alla ricerca di nuovi significati, e nuovo stupore per questi viventi. Dagli alberi solitari delle brughiere Irlandesi, agli alberi da frutto dei giardini antichi, all'infanzia che gioca sull'albero, alle panchine dei parchi dove meditare. Il tutto profuma di corteccia, di foglie verdi e linfatiche; il tutto risuona di uccelli, stormisce al vento, si rigenera nei chiari scuri delle fronde sulla terra. E' proprio la luce, che la Harm sa dare ai suoi dipinti, che colpisce. Le pennellate puntuali, quasi a scomporre i colori, fanno vibrare la tela restituendo l'impressione di trovarsi davanti ad una finestra aperta su un fresco giardino. Altro cardine dei suoi lavori è rappresentato dalla parola scritta che rinforza il messaggio, che dona all'opera il suo spirito. Come un dio che soffia il suo Verbo sulle cose per donare la vita, anche i testi di poeti, filosofi, pensatori arricchiscono le tele di parole sussurrate, mai del tutto svelate Così come è la bellezza- dice l'artista Veneziana. A Marzo 2015 è uscito il libro/catalogo di questo suo viaggio personale con gli alberi introdotto da T. Fratus. Di carta reciclata, pasta legno e lana, Back to the Roots è un alber-alogo che arriva alle radici della poetica della Harm accompagnato da riflessioni, aneddoti, fotografie, schizzi dell'autrice e tutto ciò che restituisce un ritratto completo di questa pittrice degli alberi. La ricerca di Italo Bressan è tesa ad indagare gli elementi fondamentali del linguaggio pittorico: la forma e il colore che si articolano nello spazio dell’opera come energie espressive dinamiche sperimentate nelle loro infinite possibilità dall’impeto emotivo e dalla tensione mentale dell’artista. Il gesto vigoroso genera pennellate energiche e vitali, le stesure di colore per sovrapposizione creano un senso profondo di trasparenza e sospensione. Quella di Bressan è una pittura di luce capace di produrre variazioni cromatiche di grande vivacità. La complessità del suo pensiero si struttura nei mutamenti dell’impianto formale e dei supporti: vetri, tele, tavole, carte, sono dotate di una loro particolare sensibilità e rendono ancora più articolato il rapporto con lo spazio del quadro. Parte della sua più recente produzione riflette sul concetto di luce e ombra, viste ora da una particolare angolazione; le opere si configurano come pagine in cui il segno originario si dispone secondo un preciso ordine ritmico stabilito dall’autore. Per queste opere utilizza un materiale organico come il carbone che rilascia granelli di polvere. Questo ciclo di lavori scaturisce in particolare dall’osservazione delle iscrizioni lapidee di cui conserva il sapore effimero di tracce, prove dello scorrere del tempo. Nelio Sonego Silvia Martignago Raffaella Guarnieri Ida Harm Italo Bressan Lucio Perini vive e lavora a Concordia Sagittaria (VE) [email protected] vive e lavora ad Asolo (TV) www.silviamartignago.it vive e lavora a Bassano del Grappa (VI) www. raffaellaguarnieri.com vive e lavora a Padova www.idaharm.com vive e lavora a Trento e Milano www.italobressan.eu vive e lavora a Trieste www.lucioperini.it [email protected] [ 66 ] [ 67 ] Galleria Civica Cavour P adova Ernesto Bez D ueville (VI) ABBIAMO LETTO... “L’arte della città” di Raffaele Milani Affinità Elettive. Carla Rigato e Maria Pia Camporese 11 settembre - 04 ottobre 2015 Magici frutti per ogni stagione E’ una mostra, a cura di Silvia Prelz della Galleria ARTissima di Abano Terme (PD) in collaborazione con l’Assessorato alla Cultura Settore Attività Culturali del Comune di Padova, che apre al pubblico l’11 settembre e presenta cinquanta opere - dipinti, sculture e installazioni - delle artiste Carla Rigato e Maria Pia Camporese. Le contraddistinguono linguaggi pittorici molto diversi sia nella tecnica che nell’espressione. In Carla Rigato grande vigore emotivo di getti di colore puro sulla tela, in cui prevalgono forza espressiva e spontaneità libera da ogni regola. In Pia Camporese segni forti, graffiati e incisi con colori blu, rossi o solo neri, sono promotori di qualità terapeutiche in grado di coinvolgere chi li osserva in una profonda riflessione esistenziale. Linguaggi diversi uniti però dal bisogno di libertà espressiva, dalla continua ricerca e sperimentazione artistica, da un inconscio ribelle che fa affiorare profondità altrimenti celate. Usano entrambe con forza colori e materia da plasmare perché gli Artisti, come suggerisce Christian Bobin, sono dei rabdomanti o dei guaritori che ci indicano la strada per giungere a delle vene d’acqua. Captano quello che c’è nell’aria in quel momento e lo comunicano al mondo tramite l’immagine. Traiamo dalle loro opere modelli o ispirazioni che fanno eco alla nostra vita in momenti decisivi. Ernesto Bez, nato a Longarone nel 1929 si considera però vicentino d’adozione, essendo approdato a Dueville sessantacinque anni fa, per lavorare in imprese di costruzioni, a capo della squadra di muratori che hanno ricostruito il ponte tra Zugliano e Fara, in provincia di Vicenza, dopo l’alluvione del 1966. Da sempre la sua passione è la pittura che ama al pari della fisarmonica, cui si dedica ogni giorno. Il perfezionamento della tecnica artistica da autodidatta Bez lo ottiene frequentando la scuola di Otello De Maria e con una pratica tenace e costante che dura da decenni e gli ha permesso di rappresentare con una straordinaria precisione iperrealista nature morte e paesaggi, suppellettili tratte dalla realtà semplice e quotidiana che lui ama. Cachi, melograni, arance, zucche, pannocchie, uva, a seconda delle stagioni, sono protagonisti di quadri realizzati ad olio con una tecnica molto particolare, su sfondi preparati con grande accuratezza, in modo che il colore della base si armonizzi con quello che è rappresentato sulla tela. Oltre alla frutta, che l’artista predilige per l’intensità cromatica e che dispone su piatti, taglieri, mensole e sgabelli, altri soggetti scrutati da Bez con l’attenzione di un orologiaio, sono alcuni aspetti della vita reale: paesaggi, soprattutto agresti che gli sono più familiari e ai quali è particolarmente legato, oppure piccoli agglomerati urbani, e suppellettili legate alla vita domestica, oltre a strumenti musicali, in particolare il violino, e i fiori che ugualmente prestano i loro colori intensi alle sue composizioni. La carriera espositiva di Ernesto Bez, pur essendosi svolta eminentemente in ambito regionale, vanta numerosi successi e l’apprezzamento di un gran numero di collezionisti. Una personale di suoi oli è stata recentemente allestita, dal 25 luglio al 9 agosto 2015, negli spazi del Centro giovanile di Dueville (VI). Galleria Civica Cavour Ernesto Bez Piazza Cavour, Padova Orari martedì - domenica 10.00-13.00 e 15.00-19.00 vive e lavora a Dueville (VI) Via Fratelli Rosselli 15 tel. 0444 591048 [ 68 ] Un buon saggio di Raffaele Milani, docente di Estetica all’Università di Bologna dove dirige il laboratorio di ricerca sulle città, L’arte della città, si trova da qualche mese in libreria edito da il Mulino - Saggi. In 170 pagine lo studio compendia un tema di vaste proporzioni e implicazioni in modo tale da rendere praticabile la lettura di molti aspetti dell’argomento “città” con una certa completezza, anche da parte di chi non sia un addetto ai lavori. Tre capitoli scandiscono una premessa fondamentale e cioè che, come afferma Oswald Spengler, tutte le grandi civiltà sono state civiltà cittadine. La storia del mondo è, in sostanza, la storia dell’uomo che costruisce le città. E “Il prodigio vero e proprio è la nascita dell’anima di una città. […] da un insieme di abitazioni da villaggio, ciascuna delle quali aveva una sua storia, si forma un tutto e questo tutto, vive, respira, cresce, assume un volto e una forma interna, inizia un’altra storia”. Raffaele Milani conduce questa premessa lungo un excursus che contempla l’analisi delle città per ciò che esse sono e per essere luogo dell’abitare, e giunge al cuore del problema, l’esistenza di un’arte della città che vive nelle sue manifestazioni fisiche e immateriali, nelle pietre e nelle istituzioni, come prodotto dell’ingegno e del lavoro umano, dell’intervento degli artisti, degli urbanisti, dei politici e dei semplici cittadini. Raffaele Milani è autore anche di L’arte del paesaggio (il Mulino 2001), Il paesaggio è un’avventura (Feltrinelli, 2005), I volti della grazia. Filosofia, arte, natura (il Mulino 2009), Paesaggi del silenzio (Mimesis, 2014). AreAArte Card porta con te la tua voglia di cultura! AA Card ti garantisce l’entrata a costo ridotto nei più prestigiosi Musei del Triveneto ed altri interessanti vantaggi. Scopri di più nel sito www.areaarte.it sezione AA card [ 69 ] Abbonati ed investi nella creatività dei giovani* Abbonamento annuale AREAARTE euro 32,00 (4 numeri) * Per ogni abbonamento, euro 12,00 andranno a favore dei Licei ed Istituti d’Arte del Triveneto sostenuti da AREAARTE Per abbonamenti collegati a www.areaarte.it sezione abbonamenti. Per informazioni scrivi a [email protected] 01 02 03 04 05 06 07 08 09 10 11 12 13 14 Liceo Artistico “Pascoli” Bolzano (BZ) Liceo Artistico “Walter von der Vogelweide” Bolzano (BZ) Liceo Artistico Merano Merano (BZ) Liceo Artistico “Cademia” Ortisei (BZ) Istituto St. d’Arte “Giuseppe Soraperra” Pozza di Fassa (TN) Ist. Liceo delle Arti “A.Vittoria-Bomporti-Depero” Trento e Rovereto (TN) Liceo Artistico “Leonardo da Vinci” Belluno (BL) Ist. d’Arte St. “Polo della Val Boite” Cortina d’Ampezzo (BL) Ist. d’Arte St. “M. Fanoli” Cittadella (PD) Ist. Sup. GB. Ferrari ISA “A. Corradini” Este (PD) Istituto d’Arte “P. Selvatico” Padova (PD) Liceo Artistico “A. Modigliani” Padova (PD) Ist. d’Arte St. “Bruno Munari” Castelmassa (RO) Liceo Statale “Celio -Roccati” Rovigo (RO) 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 Liceo Artistico St. Treviso Treviso (TV) Lic. e Ist. d’Arte “Bruno Munari” Vittorio Veneto (TV) Liceo Artistico St. “M. Guggenheim” Venezia (VE)) Liceo Artistico St. Venezia Venezia (VE) Liceo Artistico St. “Boccioni” Verona (VR) Istituto St. d’Arte “G. De Fabris” Nove (VI) Liceo Artistico “U. Boccioni” Valdagno (VI) Liceo Artistico “A. Martini” Schio (VI) I.I.S. “Bartolomeo Montagna” Vicenza (VI) Istituto St. d’Arte “E. Galvani” Cordenos (PN) Istituto d’Arte “G. D’Annunzio” Gorizia (GO) Istituto St. d’Arte “E. e U. Nordio” Trieste (TS) Istituto St. d’Arte “G. Sello” Udine (UD) AreAArte collabora e sostiene anche Medici con l’Africa Cuamm Per informazioni scrivi a [email protected] oppure a [email protected] Abbonati e potrai sostenere anche tu numerosi progetti per l’Africa AREAARTE N°23 Autunno 2015 Direttore responsabile Giovanna Grossato 3 Il corpo dipinto. Body art di massa Giovanna Grossato 4 Giovanni Paganin Giovanni Testori Redazione Giovanna Grossato Marcello Palminteri Alessandro Benetti Anna Livia Friel Silvia Neri Tazio Cirri Erika Ferretto Marco Stoppa Martina Gecchelin 10 El Greco. Metamorfosi di un genio 16 I Cartons de Tapisserie d’Aubusson. Arte di carta sotto l’arte di stoffa Giovanna Grossato 20 Simon Ostan Simone. L’opera d’arte come “fatto comunicativo” Alessandro Benetti 24 La Scuola di Mosaicisti del Friuli Andrea Gaspari 28 Pablo Manuel Pace. Lo spostamento del senso Tazio Cirri Progetto grafico copertina realizzato da HACKATAO – Sergio Scalet e Nadia Squarci Foto: ISFAV Istituto superiore Fotografia e Arti Visive www.isfav.it 32 Siderforgerossi. Tra presente e futuro attraverso la tecno logia, la cultura e l’arte 38 I luoghi che parlano. Territori, culture, tecniche nella pittura di Chester Stella Giovanna Grossato 42 Erika Inger. Sculture in divenire Martina Gecchelin 46 Markus Damini. Attraverso la materia Marco Stoppa 50 Debora Antonello. Contaminazioni 56 Luciano Gasparin. Tra materia e forma Erika Ferretto 60 Cesare Sartori. Ceramica come laboratorio di vita Giovanna Grossato foto di Fabio Baggio 64 Da Vedere Testi Giovanna Grossato Giovanni Testori Alessandro Benetti Tazio Cirri Martina Gecchelin Marco Stoppa Erika Ferretto Progetto grafico In copertina: Federico Fellini - Podmork Web designer VG7 Stampa GRAFICART Arti Grafiche Srl GRAFICART Arti Grafiche Srl Via Boscalto, 27 - Z.I. 31023 Resana (TV) - Italy Tel +39 0423 717171 r.a.- Fax +39 0423 715326 - 715191 www.graficart.it stampato su - printed on “GardaPAt 13KIARA” Cartiere del Garda S.p.a. | Riva del Garda (TN) www.gardacartiere.it Editore Martini Via Umbria, 31 36061 Bassano del Grappa (VI) www.areaarte.it info@ areaarte.it Anno 6. Numero 23 Registrazione: Tribunale di Vicenza n. 1214 del 19 gennaio 2010 Iscrizione al ROC n. 22289 del 02/05/2012 © 2010 Martini Edizioni, Thiene (VI) [ 70 ] Sommario [ 71 ] www.areaarte.it