giovanni paganin

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giovanni paganin
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L’ECCELLENZA IMPRENDITORIALE
DI UN TERRITORIO CHE, ATTRAVERSO
L’ARTE E IL DESIGN, TROVA NUOVI
LINGUAGGI DI COMUNICAZIONE E
AGGREGAZIONE
Editoriale
Il corpo dipinto. Body art di massa
I
l tatuaggio – il termine deriva dal samoano “tatau” – è una tecnica di decorazione
pittorica permanente del corpo molto antica e trasversale a diverse culture. Incidere
la pelle immettendo nelle micro ferite o punture sostanze coloranti era una pratica
in uso già nell’antico Egitto, a Roma e poi presso le comunità paleocristiane dove gli
adepti si tatuavano sulla pelle simboli religiosi per marcare la propria identità spirituale.
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L’uso ne venne vietato dall’imperatore Costantino, dopo la sua conversione al Cristianesimo, quando all’inizio del IV sec questa religione divenne non solo lecita ma anche
“di stato”. Il divieto venne motivato in quanto ”deturpava ciò che era stato creato ad
immagine di Dio”.
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E tuttavia l’abitudine non si estinse, tanto che nel Medioevo i pellegrini si tatuavano
con simboli religiosi dei santuari visitati, o con piccole croci o con soggetti marinareschi, visto che erano proprio i marinai i primi difensori della costa adriatica contro gli
invasori turchi. Gli attacchi dei pirati inducevano anche gli abitanti della costa a tatuarsi
segni cristiani poiché, in caso di morte violenta, sarebbero stati riconosciuti come fedeli
e dunque sepolti in terra consacrata.
La religione ebraica invece vietava ogni incisione o marca indelebile di inchiostro,
come pure l’Islam, tranne che con l’henna, colore superficiale con cui nella tradizione
araba e anche in quella indiana ancor oggi le donne son solite tatuarsi le mani e i piedi.
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Caduto in disuso per secoli, il tatuaggio venne reintrodotto, a seguito delle esplorazioni oceaniche del XVIII secolo e alla fine del XIX secolo, l’uso di tatuarsi si diffuse anche
fra le classi aristocratiche europee; addirittura lo fecero lo Zar Nicola II e Sir Winston
Churchill. E ciò malgrado il criminologo Cesare Lombroso con la pubblicazione, nel
1876, del saggio L’uomo delinquente avesse associato l’uso del tatuaggio a personalità
delinquenziale: secondo la sua tesi, l’atto di tatuarsi di criminali recidivi costituiva il
sintomo di una regressione allo stato primitivo e selvaggio.
In seguito alla diffusione delle teorie di Cesare Lombroso, il tatuaggio subisce comunque un’ulteriore censura che ne inibisce a lungo l’uso fino alla fine degli anni ‘60 e inizio
anni ‘70 del Novecento, con una progressiva diffusione, prima nelle culture hippy e fra
i gruppi di motociclisti e poi conquistando progressivamente ogni strato sociale e ogni
fascia d’età.
Patrocini
Sorta di pratica body art, dunque, in quei decenni l’uso del tatuaggio era considerato
segno di anticonformismo. Ma oggi? Attualmente i “tatoo” e gli studi che li eseguono
si sono moltiplicati esponenzialmente. Viene il dubbio che, da carattere distintivo ed
eccentrico, l’idea di tatuarsi sia divenuta un atteggiamento di massa e le forme – simboliche e non – della sua iconografia non di rado esprimono un gusto kitsch.
PROVINCIA AUTONOMA DI TRENTO
Giovanna Grossato
[3]
percorrevano le valli a chiedere penitenza e preghiera e, insieme, a lanciare anatemi e a invocar fuoco e fiamme sulla falsità e
sulla corruzione del mondo), Paganin pare a me, ogniqualvolta
lo vedo aggirarsi tra le sue opere, bruciato da un orgoglio che
si pone al limite stesso della sostenibilità e, insieme, umiliato,
annichilito, affranto; quasi che, sapendo benissimo ciò che il suo
lavoro rappresenta nel nostro vile e maldestro tempo, avverta altrettanto bene cosa lui e lui solo aveva in animo che, quel lavoro,
diventasse; se appunto il tempo, il secolo o, forse, i secoli fossero
stati altri; se una fede; se, ecco, l’antichissima e mai abbastanza
infangata “religione” (mai abbastanza perché possa considerarsi,
come pur si vorrebbe, sepolta) reggesse ancora la vita. Invece,
ecco, vi geme; trema; balbetta; povera capra o “cavretta” come
quella invocata dal mio Macbetto nell’ora della morte o come
quella che accompagna l’anonimo recitante della Conversazione
(per altro non ancora a stampa, né a scenica pronuncia).
La sproporzione che corre dentro lo studio e dentro ogni opera
di Paganin é, in verità, un enorme sussulto; un terremoto; un
sisma; di rivolta e d’amore; anzi, di rivolta per troppo amore di
cosa la vita avrebbe potuto essere e, ahimè, per noi non fu; certo,
non é. Su quel sussulto, su quel sisma e sulla sproporzione che ne
deriva plana una sorta di virile, ma non per questo meno dolente
malinconia; é la malinconia per come un tempo la vita, forse,
era stata... Quel forse implica la possibilità che tale malinconia
derivi da un sogno; o che essa scenda da chissà che lontanissimo
Eden, non di felicità, ma di verità. Per parte mia penso che quel
tempo sia localizzabile nei momenti in cui il disegno di Dio
reggeva ogni città e ogni borgo; nei momenti in cui quel disegno
ritmava ogni ora dell‘umano esistere; e l’artista, ecco, abdicava
al suo nome per entrare nel coro della comunità; tuttavia, facendosi anonimo, egli realizzava se stesso fino all’ultima goccia
del suo sangue; il “tutto” in cui entrava senza più particolari gli
faceva ritrovare la sua vera, sola e garante identità.
Giovanni Paganin nello studio milanese di via Savona | 1967
Giovanni Paganin
G i o v a n n i Te s t o r i
L’ostaggio | 1960
Bronzo
cm 167 x 45 x 41
O
gniqualvolta m’è accaduto di visitare lo studio di Paganin, anzi uno dei suoi studi (dislocati sempre alla periferia di Milano, tra i duri e tragici capannoni dell’industria), ho avuto l’impressione che vi pulsasse qualcosa di troppo compresso,
qualcosa, ecco, d’eccedente e di non contenibile; di non contenibile non solo a quegli enormi stanzoni (fin a poco prima, forse, anonimi
o abbandonati magazzini), ma anche alle dimensioni concesse al nostro miserevole vivere quotidiano.
Tra i rari bronzi, i molti gessi e le moltissime crete (fasciate, quest’ultime, da veli di carta oleata come da altrettante sindoni) m’é sempre parso che Paganin si muovesse malissimo; come se l’artrite che lo insegue da anni lo volesse rendere ancor più estraneo, non solo
allo studio o all’insieme dei capannoni dove lo studio aveva sede, bensì alla città che da anni lo ospita e, in definitiva, al paese; che dico?
alla vita; alla vita, intendo, come luogo; quasi gli fosse fatalmente impossibile trovar un metro di terra in cui, non dirò sistemarsi, ma,
ecco, sopportarsi; e sopportare. Eppure conosco pochi artisti così disperatamente attaccati alla vita come Paganin; attaccati non già per
salvaguardarvi il proprio passaggio, ma per redimere lei, proprio lei, la vita. Uso la parola redimere, ancorché sia ridotta oggi ad oggetto
di derisione; anzi, l’uso proprio ed esattamente per questa specifica ragione. Sdegnoso, collerico, spesso inavvicinabile, con ingenuità e
tenerezze da bambino e con accensioni e rivolte da vecchio, ferito orso anarchico o da cupo predicatore medievale (quelli che, un tempo,
[4]
Giovanni Paganin con una delle sue Ossesse | 1990
[5]
Prigioniero | 1965
Bronzo patinato
cm 43,5 x 10,5 x 10,5
[6]
Il portatore di luce | 1973
Gesso
cm 196 x 63 x 57
La madre I | 1962
Bronzo
cm 163 x 55 x 48
Eva (Lamentazione) | 1974-77
Bronzo
cm 177,5 x 43 x 44
[7]
Cacciata di Eva | 1948
Legno
cm 61,5 x 30 x 24
Cacciata di Eva | 1946-47
Legno di noce
cm 98 x 37 x 50
Oggi, in un periodo in cui l’anonimato é della peggior natura
che possa immaginarsi (quella consumistica), l’unica possibilità
di cui un artista dispone per diventar anonimo é di non esserlo
per nulla; d’identificarsi talmente con la propria difficoltà, col
proprio malessere e con la propria impossibilità ad accettare il
baro e il falso della vita, da risultare quasi abnorme...
avervi pianto sopra; per avervi immesso, dentro, il dolore dell’umana dignità e coscienza tradite all’atto stesso del nascere.
Ed ecco che la parola maledetta (o benedetta) torna in causa. Paganin é, se Dio vuole (e certamente lo vuole), fuori dalle
odierne proporzioni. Mettete una sua opera in una mostra antologica e vedrete; vi parrà che un bue sia entrato in un salotto o
dentro una vetrina espositiva delle odierne, plastificate bellezze.
Eppure la bellezza, anche la bellezza vera, é lì, nel passo del bue;
nei suoi movimenti sempre eguali ma, a guardar bene, sempre
diversi; nel volgere lentissimo del suo muso; e così la musica, sì,
anche lei, è lì, nel suo profondo e come ancestrale muggito; un
muggito che risulta un infinito lamento.Fuori dalla modernità
(se modernità é ciò che ha formato la storia ufficiale e apparente
di questi anni); e, altresì, fuori dal tempo connesso alla modernità; ma per aver toccato la creta con cui un giorno siamo stati
fatti anche noi; abitanti di questa turpe modernità e di questo
turpe tempo; per averla toccata, premuta, stretta fra le dita; per
[8]
Quello che, nella scultura di Paganin, più colpisce e determina
come una stretta qui, alla gola, é proprio questo trascinarsi dietro tutto, assolutamente tutto, di quel terribile ed immenso momento: venir alla luce, sì. Ma perché? E per andare dove? E per
vivere come? Qui? In questa che han chiamato società? Fosse per
vivere in una valle di lagrime, gli uomini e le donne di Paganin
accetterebbero; anzi, voi li vedete, han già accettato questo loro
essere terra e luce, anima e creta. Ma di ciò che, poi, sulla terra si
fa e si costruisce, anzi di ciò che, costruendo, si distrugge? Questo mondo dove Dio é cancellato, cancellata l’impronta dell’eterno e dove tutto é ridotto al perituro, dove anzi del perituro si
cerca di fare il continuum e nello stesso tempo l’unico e possibile
significato? Macerate, squassate come dolomitici frammenti o
come vulcaniche larve, le figure di Paganin guardano l’orrore
della vita fattasi società; talvolta hanno un gesto di sdegno; tal
altra di maledizione; spesso l’abisso su cui posano i loro trogloditici piedi le chiude in una morsa di silenzio. In quel silenzio
rantola l’ultima speranza che resta all’uomo; o s’aderge la sua
ultima rivolta.
La caduta II | 1975-78
Bronzo
cm 190 x 130 x 100
Così le facce che nelle grandi sculture paiono anonimizzate
dall’indignazione e dallo spavento, Paganin se le va a cercare nei
Ritratti […]che egli esegue a memoria.
Il segreto, il miracolo del futuro di Paganin sarebbe che, ad un
certo punto, l’intensità fisionomica dei Ritratti s’impastasse con
l’enormità della sua selva di nudi e di nude; oltre che il segreto
e il miracolo, ne sarebbe la logica e come fatale conclusione;
l’apoteosi dura e selvaggia; amarissima eppur umanamente indefettibile.
Che nudi e nude risultassero anonimi ed insieme nominati e
che la testa in forma di ritratto che in due sculture va, per la prima volta, a collocarsi sui corpi dei camminanti o dei fulminati
sia quella dello scrivente prova, con l’imbarazzato orgoglio che
ne deriva per esserne stato involontario tramite, che a cominciare quel suo totalizzante atto di fusione (e di nominazione) aveva
bisogno d’una delle poche facce cui permette meno infrequentemente di rompere la sua solitudine; anzi, cui talvolta chiede che
quella rottura o lacerazione operi e dietro invito […].
(da Giovanni Paganin, catalogo della mostra organizzata dal Comune di Milano alla Rotonda di via Besana, a cura di Giovanni Testori – Electa, Milano, 1978)
Galleria d’arte Nino Sindoni
Viale Matteotti 44/8
36012 Asiago ( VI)
www.ninosindoni.com
Associazione Alberto Buffetti
[email protected]
[9]
El Greco
Metamorfosi di un genio
Casa
dei
Carraresi
U
na straordinaria esplorazione sull’opera e sulla vita del pittore cretese Dominikos Theotokopoulos,
divenuto famoso come “El Greco” (Candia, l’odierna Iraklion,
1541 – Toledo, 1614), con i suoi misteri, alcuni dei quali forse
destinati a rimanere tali, e la stupefacente originalità della sua
pittura, sono oggetto della mostra El Greco in Italia. Metamorfosi di un Genio, la più importante retrospettiva sul pittore mai
realizzata nel nostro Paese.
Essa giunge a coronamento delle iniziative che hanno da poco commemorato il quarto centenario della morte dell’artista in
Grecia e in Spagna e si pone come obiettivo svelare al pubblico,
attraverso i dipinti e inedite indagini scientifiche, l’affascinante
avventura umana e artistica che il maestro del ‘500 ha vissuto
durante il periodo della sua permanenza in Italia.
E’ proprio attraverso gli incontro con altri famosi pittori italiani e le conseguenti scoperte e passioni che tali rapporti suscitarono, che la pittura di El Greco è maturata al punto di fare di
lui un personaggio capace di ispirare una generazione di artisti e
letterati del XIX secolo, tra cui Baudelaire e Delacroix, Manet,
Cézanne, fino a Picasso.
a
Tr e v i s o
di Tiziano, Bassano, Tintoretto e Veronese. Il contatto con l’arte del maturo Rinascimento veneziano lo spinse ad addentrarsi
ulteriormente nel modo artistico italiano e a recarsi anche a Roma, dove, nel 1570, aprì una propria bottega.
Poi, nel 1577, il pittore si trasferì a Toledo, in Spagna, e nella
città castigliana visse e lavorò fino al giorno della morte. Proprio
a Toledo El Greco ricevette numerose importanti commissioni
e realizzò alcune delle sue opere più importanti che fanno di
lui uno degli artisti più significativi del Rinascimento spagnolo.
Ora, studi aggiornati che la mostra pone in primo piano nello sviluppo del percorso espositivo, evidenziano anche come lo
stile del maestro abbia sovrapposto alla matrice neo bizantina
cretese del primo periodo le successive esperienze della cultura
figurativa italiana della prima metà del ‘500 e del Manierismo,
dando giustificazione del linguaggio originalissimo, unico nella
storia dell’arte.
Furono questi artisti a scoprire la modernità di El Greco, diventandone appassionati studiosi e traendo ispirazione dalla sua
visionarietà, dall’uso antinaturalistico che egli faceva dei colori,
dal movimento ascensionale delle figure, dalla tensione psicologica dei suoi ritratti, dagli sprazzi di luce rubati alle tenebre.
Ciò, come si è detto, attraverso l’esperienza diretta dei maestri
veneti e, anche, soprattutto sul piano compositivo, grazie alla
lezione michelangiolesca e romana. Tutto ciò, inoltre, dimostra
come l’artista possedesse un’educazione archeologica, letteraria
ed estetico-filosofica raffinata che si manifesta in scelte espressive incredibilmente eccentriche per la sua epoca, di cui si sono
potute ipotizzare le fonti nell’ambito di circoli intellettuali attivi
a Venezia e a Roma negli anni in cui il pittore vi si trovava ad
operare.
Il decennio italiano, dal 1567 al 1576, fu per lui fondamentale
e gli permise di confrontarsi in modo diretto con la coeva pittura
Alcuni laconici documenti di Toledo ci informano solo, oltre
che della data di nascita, del fatto che nel 1566 egli già operava
Domenikos aveva compiuto il suo apprendistato a Creta, sua
isola natale, a quell’epoca ancora ancora possedimento della
Repubblica di Venezia in qualità di “stato da mar”, e centro di
un importante movimento pittorico post-bizantino, noto come
Scuola cretese, della quale era divenuto maestro. A 26 anni intraprese un viaggio a Venezia che era quasi d’obbligo per il completamento formativo di un artista, forse anche nella speranza di
ottenere nella Serenissima nuovi sbocchi alla sua carriera.
Rimangono tuttavia ancora poco noti alcuni particolari della
vita e dei contesti entro i quali El Greco realizzò le sue opere.
Come ad esempio le committenze del decennio italiano e i luoghi specifici dove egli abitò e dipinse, sia a Venezia che a Roma.
Le certezze esistono solo nei ritratti di alcuni personaggi assai
famosi, come il Cardinale Alessandro Farnese, il suo segretario
Fulvio Orsini e Giulio Clovio che, per conto di Tiziano, lo aveva
raccomandato al primo.
Nella pagina seguente:
Ritratto di giovane gentiluomo
Olio su tela,
cm 56,5 x 43
Courtesy of Maison d’Art , Montecarlo
[ 10 ]
[ 11 ]
Adorazione dei Pastori | 1568-69
Tempera su tavola
cm 63,5 x 76
J.F. Willumsens Museum, Danimarca
Adorazione dei Magi
Olio su rame
cm 21 x 16,5
collezione privata, Montecarlo
[ 12 ]
con la qualifica professionale di “maistro” e di “sgourafos”, ma
a tutt’oggi non si sa ancora se alla pratica tradizionale bizantina di pittore di icone, egli accompagnasse, come altri artisti
veneto-cretesi suoi contemporanei, sperimentazioni o esercizi
alla “maniera occidentale”. Sempre relativamente all’anno 1566,
è documentato che il 26 dicembre Theotokopoulos mise all’asta
un dipinto sulla Passione, forse per procurarsi il denaro necessario a compiere il trasferimento a Venezia, dove però la sua
presenza è segnalata solo il 18 agosto 1568.
Dopo l’arrivo a Roma nell’autunno del 1570, è noto che il pittore era già un ritrattista famoso, probabilmente per aver conosciuto il miniatore croato Giulio Clovio, allora al servizio dei
Farnese, il quale designandolo “allievo di Tiziano”, lo raccomanda, con una lettera datata 16 novembre 1570, al “gran cardinale” che lo accoglie e inserisce nel suo circolo. Ma si ignora
presso chi Dominikos si fosse stabilito.
Poi, accadde qualcosa di inatteso: una lettera del 6 luglio 1572
ci informa che El Greco venne licenziato in modo irrevocabile dal suo protettore e che, per poter continuare a lavorare, si
iscrisse alla corporazione dei mestieri come miniatore.
Di questo periodo non si conosce altro per quattro anni, fino
alla data del 1577, quando si trova l’artista già insediato in Spagna. Se prima di allora egli fosse rimasto a Roma o rientrato a
Venezia non è dato sapere e rimane uno dei punti oscuri della
sua biografia.
L’evento espositivo italiano, mettendo in sequenza le recenti
analisi storico -artistiche, documentarie e tecniche così da rendere più facile una comprensione organica dell’attività del pittore in Italia, coinvolge il pubblico in uno stimolante dibattito che
tocca diversi ambiti di indagine: dalla fede religiosa di El Greco
al suo orientamento politico, dai rapporti familiari all’evidenza
di una profonda cultura umanistica.
[ 13 ]
L’aggiornamento critico è risultato di lunghe indagini, pregresse e recenti, del curatore Lionello Puppi, affiancato da un
Comitato scientifico internazionale composto da studiosi di prestigiose realtà accademiche tra cui Serena Baccaglini.
Tale ricognizione propone oggi un catalogo ragionevolmente
certo e definito dell’attività di Dominikos Theotokopoulos. Un
regesto che ha superato lo scompiglio causato intorno agli anni
Quaranta e Cinquanta dall’immissione sul mercato antiquario
di una gran quantità di modeste tavole prodotte nelle botteghe
artigiane attive a Creta, nelle isole adriatiche, in Dalmazia e nei
Balcani.
Organizzato da Kornice, di Andrea Brunello, con la collaborazione di Art for Public e Fondazione Cassamarca, El Greco in
Italia. Metamorfosi di un Genio apre i battenti dal 24 ottobre
2015 al 10 aprile 2016, presso Casa dei Carraresi di Treviso.
Passione di Cristo | 1566
Tempera su tavola
cm33,5 x 26,5 (icona), 68,7 x 45 x 2,5 cm (tabernacolo)
© The Velimezis Collection, Atene
El Greco. Metamorfosi di un genio
24-10 -2015 / 10 - 04-2016
Casa dei Carraresi
Via Palestro 33, 35 Treviso
info e prenotazioni: +39 0422 513150
e-mail: [email protected]
www.elgrecotreviso.it
Ufficio Stampa
[email protected]
cell. 338 6047174
Salvatore benedicente
Olio su tela
cm 73 x 55,5
Galleria Parmegiani Musei Civici Reggio Emilia
[ 14 ]
Ritratto di Giulio Clovio
Olio su tela
cm 62,5 x 51 cm
Schorr Collection, Londra
© Mathew Hollow
[ 15 ]
O
ggetto di numerose mostre, ultima delle quali la
Biennale di arte contemporanea “PRIA 2015” di
Biella, i dipinti per gli arazzi di Aubusson della collezione AlVy
rappresentano una rara ed interessantissima raccolta capace di
raccontare ai giorni nostri una delle più antiche tradizioni tessili
d’Europa. Una selezione di “cartoni” appartenenti a quella che
è la più importante collezione italiana di ‘Cartons de Tapisserie
d’Aubusson’ è stata infatti esposta con il titolo “I dipinti nascosti
degli arazzi di Aubusson” dal 14 al 28 giugno 2015 presso l’Ex
Lanificio Pria, in una delle più famose patrie dell’artigianato e
dell’industria tessile italiana, Biella.
L’obiettivo era quello - comune alle molte altre occasioni espositive in cui i bellissimi cartoni, recuperati e restaurati da Aldo
Giurietto e dalla moglie Valérie – non solo di condividere con il
pubblico le preziose e rare pitture realizzate per essere trasferite
in stoffa, ma anche di far ripercorrere ai visitatori la secolare
vicenda delle arazzerie della città francese di Aubusson, celebre
in tutto il mondo per le sue manifatture tessili.
Sebbene la data delle origini di questa lavorazione artigianale
non sia certa, si ritiene di farne risalire la genesi al VIII secolo
d. C ad opera dei Saraceni che avrebbero eseguito la prima manifattura con un particolare telaio, “a basso liccio”.
Come per altri famosi arazzi, ad esempio i Gobelins, questi telai hanno la caratteristica di avere l’apertura della bocca d’ordito
azionata da pedali, cosa che permette tempi di lavorazione più
brevi, pur non consentendo la realizzazione di pezzi di grandi
dimensioni.
Carton de Tapisserie
modello per schienale poltrona | sec. XIX
Olio su tela
cm 62 x 62
Collezione AlVy
E’ certo comunque che la cittadina di Aubusson possiede fin
dal XIV secolo le prime fabbriche, tanto che gli arazzi tipici qui
prodotti ne assumono il toponimo e diverranno famosi come
Arazzi di Aubusson. Richiesti in tutta Europa e intensamente
prodotti dal XVI al XVIII secolo, questi arazzi costituiscono
dei pezzi unici che si possono ammirare nei musei internazionali
o in grandi collezioni d’arte pubbliche e private e che l’Unesco
ha inscritto nella lista del Patrimonio Culturale Immateriale
dell’Umanità.
A realizzare i dipinti sulla cui traccia veniva ricavata la tessitura erano artigiani specializzati, i ‘peintres cartonniers‘, che
contribuirono con la loro maestria a creare una leggenda. C’è
una storia antica che racconta di questi abili tessitori e dei pittori che, pur destinati a rimanere nell’anonimato, passarono alla
storia attraverso le loro opere.
Particolare di un Carton de Tapisserie
modello per arazzo “Le coffret a bijoux”, genere “millefiori” | sec. XIX
Tempera su carta
cm 195 x 160
Collezione AlVy
I Cartons de Tapisserie
d’Aubusson
A r t e d i c a r t a s o t t o l ’a r t e d i s t of f a
G i ova n n a G r o s s at o
[ 16 ]
Da qualche anno il mondo del collezionismo ha iniziato a puntare gli occhi non sulle opere finite ma su quelli che ne costituiscono l’antefatto, i “cartons de tapisserie”, appunto, su cui arazzi,
tappeti e tappezzerie venivano creati. Svelare ai visitatori cosa si
nasconde dietro gli arazzi, diventa dunque l’obiettivo di queste
mostre che si svolgono ormai da diversi anni.
I “cartons de tapisserie” erano dipinti a olio o a tempera realizzati su carta o tela che i ‘peintres cartonniers’ creavano negli
ate-lier delle manifatture di Aubusson su genere o su commissione, per essere poi utilizzati come modelli dai tessitori.
Particolare di un Carton de Tapisserie
modello per arazzo, genere millefiori | sec. XIX
Tempera su carta
cm 150 x 100
Collezione AlVy
Il cartone in scala 1/1 veniva inchiodato direttamente sotto il
telaio e il tessitore, passaggio dopo passaggio, incrociando i filati di vari colori realizzava in lana o seta il soggetto dipinto. Il
fascino dei cartoni, che sono comunque dei bellissimi quadri, sta
proprio anche nel fatto di essere stati vivi strumenti di lavoro:
lungo il perimetro sono ancora presenti i piccoli fori dei chiodi
serviti per fissarli a telaio, qua e là si leggono frasi con appunti
e indicazioni tecniche minuziose del pittore per i tessitori che li
avrebbero realizzati.
[ 17 ]
E’ probabilmente irrilevante che nessuno di questi piccoli capolavori cartacei rechi la firma del suo esecutore che
evidentemente si considerava e veniva
con-siderato parte integrante di una filiera artigianale. Solo in qualche caso
viene apposto a margine dei dipinti il
nome “Aubusson” come autenticazione
d’origine, perchè comunque, come scrive Silva Menetto “fra queste “verdures”,
questi paesaggi boschivi, tra castelli dipinti e corsi d’acqua, fiori e piccoli animali che sembrano usciti da una fiaba si
coglie una rara sensibilità e un raffinato
gusto per il bello.
E poco importa, alla fine, se i tessuti,
le tappezzerie e gli arazzi realizzati su
questi “cartons” preparatori sono scomparsi: attraverso l’opera di divulgazione
di alcuni collezionisti, i “cartons de tapisserie” stanno conoscendo una nuova
giovinezza come opere d’arte a sé stanti,
tanto che in Francia sta prendendo corpo l’idea di creare un museo ad hoc.
I “cartons de tapisserie”, sottoposti ad
un restauro e ad un successivo intervento
di intelaiatura, diventano quadri di piccole o grandi dimensioni che raccontano
storie di un’epoca e di un mestiere ormai
scomparsi.” (Sole 24 Ore, 5 aprile 2012)
I collezionisti di AlVy da molto tempo
raccolgono questi “gioielli” e si adoperano per riproporli come originali elementi di arredo in ambienti classici e
moderni dopo un attento restauro conservativo che nulla toglie al fascino del
loro vissuto.
Chi si avvicina agli arazzi di Aubusson
ha dinanzi a sé non solo opere di alto artigianato ma anche veri e propri dipinti.
Racconti secolari fatti di passione e maestria, di abilità e tradizione.
Essi infatti sono costruiti secondo solide conoscenze della prospettiva e del chiaro-scuro, esattamente come i quadri su tela o su legno a loro contemporanei, e le atmosfere che
evocano sono la pace e la tranquillità pastorale e idilliaca delle campagne e dei boschi
della Francia. I motivi da cui traevano ispirazione erano destinati a creare a loro volta
sugli arazzi che avrebbero ricoperto le pareti dei palazzi e dei castelli un senso di serena
accoglienza.
Nel contempo i paesaggi rappresentati, con acque e animali, suggerivano una relazione con le tenute e le proprietà dei ricchi proprietari che le possedevano. L’obiettivo di
abbellire e rendere confortevoli e calde, ospitali le stanze delle ampie magioni si univa
a quello di dimostrare il potere, la ricchezza e la cultura di chi ne aveva commissionato
il decoro. Piante e fiori avevano spesso anche un significato simbolico che faceva riferimento alle virtù e a un ricco rimando iconografico che era ben noto ai frequentatori e
agli ospiti, patrimonio culturale comune di una lunga epoca.
I candidi mughetti metafora della felicità che ritorna con la primavera e annuncia la
fine dell’inverno, attesa dall’usignolo che al suo primo fiorire vola nel bosco a celebrare
i suoi amori, mentre per i monaci il fiore rappresentava la scala per il paradiso ed era
ornamento primaverile degli altari; i lillà, segno sempre di intenso sentimento amoroso;
i papaveri simbolo di consolazione, di serenità, di sogni felici e premonitori, dell’abbandono dell’orgoglio e dell’attesa di sorprese; la rosa, da sempre sinonimo di bellezza ma
anche riferimento cristologico per la presenza delle spine.
Anche le lunghe prospettive percorse da fiumi e campi, intervallate da manieri e castelli e popolate da pastori o contadinelle e da piccoli animali rappresentano il ricco
patrimonio naturalistico presente nella “grande” arte pittorica dei secoli tra la fine del
Medioevo, attraverso il Rinascimento e fino alle soglie del Romanticismo. Spesso i temi
fanno riferimento alla letteratura, alla favolistica coeva o antica, come le favole di La
Fontaine o anche, più raramente, rappresentavano copie o rifacimenti d’après di opere
pittoriche famose.
ALV Y di Aldo Giurietto
Via Dante Alighieri 106, 36100 Vicenza
www.alvy.it
Insieme di Cartons de Tapisserie d’Aubusson
“Opere d’arte come strumenti di lavoro”
Collezione AlVy
Carton de Tapisserie
modello per arazzo | sec. XIX
Tempera su carta
cm 164 x56
Collezione AlVy
Particolare di un Carton de Tapisserie
modello per arazzo, genere “verdure” |
sec. XIX
Tempera su carta
cm 90 x 90
Collezione AlVy
Particolare di un Carton de Tapisserie
modello per arazzo | sec. XX
Tempera su carta
cm 246 x 97
Collezione AlVy
Particolare di un Carton de Tapisserie
modello per arazzo “Le Bergeres”, genere
“millefiori” | sec. XIX
Tempera su carta
cm 186 x 112
Collezione AlVy
[ 18 ]
[ 19 ]
Simon Ostan Simone
My land ES | 2010
Terra impastata su tela
cm 60 x 60
L’o p e r a d ’a r t e c o m e “ f a t t o c o m u n i c a t i v o ”
A l e s s a n d r o B e n e tt i
S
imon Ostan Simone o, sinteticamente, SOS (Portogruaro, 1977) si auto-definisce con l’epiteto complesso
di multimedial artist. Culturalmente, Simon proviene da un percorso di formazione articolato in due momenti principali, fondamentali nel definire i due poli attorno ai quali si sviluppa la
sua creatività. Inizialmente studia alla scuola d’arte La soffitta,
fondata da Aldo Mori, tra le figure più importanti della scena
culturale portogruarese del Novecento.
È sotto la sua guida carismatica che Simon approfondisce le
tecniche pittoriche e figurative del passato, apprendendo le nozioni fondamentali per preservarle non in quanto memoria inattuale ma come pratiche vive del presente artistico. Si concentra
in particolar modo sulle pale d’altare, testimonianza diffusa di
un sapere tramandato di generazione in generazione e presenza
Simon Ostan Simone con alcune opere del ciclo Hands
comune nel paesaggio degli edifici religiosi del Nord Italia.
Parallelamente, negli anni ’90 s’iscrive alla scuola di grafica di
Venezia, dove si diploma nel 1997. È nel capoluogo veneto che
arricchisce il suo bagaglio culturale di una serie ricchissima di
stimoli strettamente contemporanei e provenienti da un ambito
più ampio di quello propriamente artistico. In particolare, si avvicina alla grafica pubblicitaria, proiettandosi nella dimensione
di sintesi e urgenza comunicativa che le è propria. A partire dai
primi premi vinti già a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 (come il
Premio Paesaggio, nel 1989, e il primo premio al concorso nazionale indetto dall’AIDO per la propria campagna pubblicitaria),
i lavori di Simon sono esposti in numerose mostre personali e
collettive (a Roma, Milano, Torino, Venezia, Udine, Brugge)
ed entrano a far parte di alcune importanti collezioni personali.
Dal suo percorso di formazione complesso e non lineare, Simon eredita una profondità di sguardo e riflessione non comune,
che s’interroga continuamente sul legame tra la possibile “aura”
dell’opera d’arte e la strategicità del mezzo pubblicitario: SOS
è un “artista comunicatore” che, in effetti, lavora correntemente
anche come art director. Andy Warhol è, inevitabilmente, la figura di riferimento principale di Simon, che dal padre della pop
art eredita l’interesse per il ripensamento del rapporto reciproco
tra artista e osservatore, e del posizionamento di ciascuno nei
confronti dell’opera d’arte.
Quest’ultima non ha certamente valore come pezzo unico autoriale: piuttosto, la sua “riproducibilità tecnica” ne amplifica il
potenziale perché è proprio la serialità a garantirle di raggiungere un pubblico il più possibile vasto. Negli infiniti stimoli visivi
a cui siamo soggetti nel mondo contemporaneo lo spettatore è
un osservatore rapido e distratto, che può essere impressionato
unicamente attraverso un linguaggio immediato, di facile leggibilità, estremamente sintetico.
È sulla base di questi presupposti che si costruisce la poetica
di Simon. Come scrive Lara Bortolussi: «Le sue opere s’impongono (…) per essere caratterizzate da forme semplici, nitide,
espressive, comunicative, “libere”, non imbrigliate in una prigione capillare di segni. Il suo linguaggio è talmente “manifesto” e
al tempo stesso talmente “personale” e “svincolato” che elude sia
il campo figurativo che quello astratto».
Si colloca, invece, in una posizione intermedia tra i due, che
include la realtà ma la trasforma in «segno danzante» (ancora
Bortolossi). L’obiettivo, infatti, non è la forma in sé, né la sua
riconduzione fine a sé stessa alla sfera della figuratività o dell’astrazione ma la definizione di un mezzo materiale attrattivo con
cui veicolare un messaggio capace di catturare l’attenzione.
Simona Tesio, citando Umberto Eco e il suo saggio La
definizione dell’arte evidenzia l’importanza nella vita dell’opera
d’arte della dialettica tra finitezza (quale realizzazione dell’in[ 20 ]
My land | 2010
Terra impastata su tela
cm 40 x 60
[ 21 ]
tenzionalità dell’artista) e apertura (ossia la disponibilità ad essere interpretata
dai fruitori). I lavori di Simon vivono
ampiamente di questa dialettica, perché
proprio essa ne garantisce e amplifica il
valore di “fatti comunicativi”.
Simon compone questi fatti a partire
da simbologie elementari, come la contrapposizione tra il bianco e il nero e tra
la linea retta, che rappresenta la finitezza della condizione umana, e linea curva, che si proietta verso il trascendente.
Queste coordinate di base, poi, si arricchiscono d’infinite sovrapposizioni
e imprevisti: presenze eteree in trasparenza – come i frequenti volti umani o,
meglio, frammenti di essi; segni grafici
più complessi, come la ricorrente lettera
A; variazioni cromatiche, quando la dicotomia tra bianco e nero si stempera nel
grigio o include pochi brillanti tocchi di
rosso. Nella serie My Land, infine, il
supporto liscio dell’opera bidimensionale si trasforma in materia, vera e propria
argilla, con le sue crepe, la sua texture
caratteristica e i chiaroscuri irregolari,
che contrasta con l’outline preciso delle
campiture bianche che sembrano deformarsi fino ad esplodere, a sgretolarsi.
Primordial Storm | 2015
Olio su tela
cm 100 x 100
Evohandaction | 2009
Acrilico su tela
cm 200 x 100
Le opere di Simon, però, non vivono
unicamente delle proprie caratteristiche
intrinseche, ma si relazionano strettamente con il contesto in cui sono presentate e vissute dal pubblico. L’intorno
dell’opera è uno strumento fondamentale per “congestionare” l’esperienza
dell’osservatore di ulteriori stimoli e per
indirizzarne sottilmente le capacità interpretative. Così, a Portogruaro Simon
collabora con il dj Christian Martini per
la presentazione di Orchestrazione 21, un
omaggio al manifesto dell’Arte dei Rumori, composto da Luigi Russolo nel
1913, che mette in discussione il pregiudizio negativo sul “rumore” inteso come
suono unicamente fastidioso.
La serie degli eventi di Anime, invece,
coinvolge ogni volta personalità di ambiti diversi attorno al nucleo centrale di
Signs and forms | 2015
organizzatori di cui fanno parte, oltre a
Olio su tela
cm 100 x 100
Simon, lo scultore Max Solinas e il giornalista Fabrizio Nonis. In questo caso,
protagonista è l’arte culinaria, come
performance che fa da complemento alle opere statiche dei tre. Infine, a Marrakech, Simon “libera” alcune delle sue tele nella piscina
di un grand hotel, percorsa da una corrente leggera ma continua. Il flusso incontrollabile delle acque determina accostamenti sempre
diversi e ogni volta inediti tra le opere, veri e propri “frammenti” di un discorso possibile, di cui il caso imprevedibile ridefinisce senza
sosta il messaggio.
Simon Ostan Simone
Performance Artistica “together” | 2012
Forme intagliate e proiettate su maxi schermo
cm 400 x 300
presso Cison di Valmarino
vive e lavora a Gruaro - Venezia
www.simonostansimone.it
[ 22 ]
[ 23 ]
La Scuola di Mosaicisti
del Friuli
L
a Scuola Mosaicisti del Friuli è una realtà unica e
originale, difficilmente incasellabile in una categoria
didattica precisa sia per la sua storia, sia per le diversificate attività che in essa si concentrano. Viaggiando nel tempo e nello spazio, si contano numerose installazioni, esposizioni, opere
musive realizzate dalla Scuola nel mondo. Opere che scaturiscono dall’energia di persone che nel mosaico investono un sogno,
la sapienza tecnica, lo spirito di ricerca, la voglia di guardare
le cose attraverso le tessere e di lavorarci. Il mosaico è un’arte
nobile, antica e contemporanea ad un tempo, dove è sottile la
separazione tra dimensione artistica e artigianale (ammesso che
esista), che vicendevolmente si rinforzano. La Scuola Mosaicisti del Friuli nasce nel nord-est dell’Italia, in Friuli Venezia
Giulia, a Spilimbergo (PN), vicino ad Aquileia (culla del mosaico romano e paleocristiano) e a Venezia (polo di respiro musivo
bizantino). I riferimenti storici del passato e la particolare configurazione del territorio pedemontano, con i suoi Magredi (una
sorta di Land Art Musiva) hanno mantenuto viva nella memoria
collettiva l’arte del pavimentare e del mosaicare le superfici con
i materiali messi a disposizione dalla natura (sassi, pietre). Ne è
nata una tradizione e una prospettiva di lavoro. Il Friuli - terra d’emigranti tra ‘500 e ‘800 - ha esportato idee e creazioni
che hanno trovato terreno fertile in luoghi stimolanti e pieni
di risorse, come a Venezia e a Parigi. A Venezia è documentata
- fin dagli albori del Rinascimento - la nutrita presenza di maestranze friulane: si tratta sia di terrazzieri (artefici esperti nella
realizzazione di pavimenti in seminato, fatti di pietre e sassi
raccolti lungo il greto dei fiumi Tagliamento, Cellina, Meduna),
sia di mosaicisti attivi nel cantiere della Basilica di San Marco
(tra loro Domenico Bianchini, interprete anche di bozzetti di
Passeggiata in RGB | 2013
Realizzazione musiva della Scuola Mosaicisti del Friuli su ideazione di Cristina De Leoni
Saetta Iridescente | 2004
Mosaico parietale
Realizzazione musiva della Scuola Mosaicisti del Friuli su ideazione di Giulio Candussio
New York, Ground Zero
Jacopo Tintoretto) dove l’uso di smalti e oro stimolò nei Maestri friulani la sensibilità per un nuovo materiale, per il colore e
per i riflessi. A Parigi, invece, capitale europea dell’arte - nella seconda metà dell’Ottocento – il mosaicista e imprenditore
friulano Gian Domenico Facchina fu celebrato in riviste d’arte
per il successo ottenuto dai suoi mosaici pavimentali e parietali
realizzati per l’Opéra Garnier di Parigi, inaugurata nel 1875.
Le esperienze maturate nei cantieri musivi friulani diffuse nel
mondo sono confluite nella Scuola Mosaicisti del Friuli, nata
nel 1922 con la responsabilità morale e culturale di ampliare
la formazione dei maestri mosaicisti attraverso un percorso didattico che ne rafforzasse la loro abilità e il ruolo propositivo,
con corsi formativi teorici e pratici (una sorta di scuola d’arte
“globale”). La Scuola fin dalle origini ha il suo punto di forza
nell’esecuzione di opere di alta qualità che non si limitano alla
produzione di saggi didattici, ma puntano alla realizzazione di
progetti compositi destinati agli spazi della contemporaneità. In
questo modo è garantita agli studenti una formazione completa,
con l’impegno di curare non solo l’aspetto formale del mosaico,
ma anche l’organizzazione del lavoro. Con questa apertura la
Scuola Mosaicisti del Friuli s’inserisce dai suoi esordi nei circuiti artistico-culturali: solo a un anno dall’inizio della sua attività didattica partecipa alla Biennale di Monza del 1923, vetrina
nazionale di arti decorative e primo embrione di quello che poi
sarà la Triennale di Milano. La Scuola cresce nel tempo realizzando opere musive le cui tracce sono dislocate nel mondo: al
Foro Italico di Roma negli anni Trenta, con i mosaici delle Centrali Idroelettriche in Friuli e in Veneto negli anni Cinquanta,
con l’esecuzione e posa dei mosaici dell’Hotel Kawakyu di Shi[ 24 ]
rihama in Giappone e del Santo Sepolcro di Gerusalemme negli
anni Ottanta e Novanta, senza dimenticare gli interventi musivi
più attuali, capaci di valorizzare il mosaico come espressione
della contemporaneità. Lo testimoniano, ad esempio, Saetta iridescente nel Ground Zero di New York; Cielo e laguna a Graz in
Austria; La Sacra Famiglia per l’omonima Chiesa di Pordenone.
La Scuola, gestita da un consorzio di enti pubblici, è riconosciuta dalla Legge regionale L.R.15/1988 e l’autonomia di gestione
che ne deriva ha permesso in tempi recenti un suo considerevole
sviluppo, così che oggi la Scuola viene considerata un centro
formativo unico, capace di puntare sulla ricerca e sulla promozione del mosaico, favorendo lo sviluppo anche economico del
settore. La formazione prevede tre anni di corso, all’interno dei
quali gli allievi entrano in contatto con la particolare dimensione dell’arte e della tecnica del mosaico, dando senso alla storia
(mosaico romano, bizantino, moderno) e spazio alle soluzioni
contemporanee con un particolare riguardo per la ricerca, la creatività, la partecipazione personale degli studenti anche nella
realizzazione di progetti propri. La preparazione si basa su varie
materie: alle ore dedicate al laboratorio di mosaico e di terrazzo,
si affiancano lezioni di disegno e teoria del colore, informatica,
computer grafica, storia del mosaico, tecnologia dei materiali,
modellazione digitale e geometria applicata, per far sì che il mosaicista qualificato sia autonomo nelle scelte e nelle proposte, e
in grado di cimentarsi in modo creativo e versatile su superfici
bidimensionali e su elementi tridimensionali, valorizzando la
natura del mosaico (texture scabre, dinamiche, in un continuo
dialogo tra tessere e fughe, pieni e vuoti, ritmi e alternanze).
La Scuola Mosaicisti del Friuli frequentata da allievi che rap[ 25 ]
presentano circa venti nazionalità, è anche una galleria di opere
musive che attirano ogni anno migliaia di visitatori. Vi si confrontano mosaici storici e mosaici di nuova ideazione, pensati,
progettati e realizzati nella Scuola. Sono emblemi di un’arte che
non dimentica il rapporto con lo spazio e con la luce; un mosaico curioso anche per l’uso dei materiali diversi (oltre a marmi,
sassi, smalti e oro, materie usuali come carta, plastica, metalli,
legno). Accanto ai corsi professionali triennali, la Scuola organizza anche corsi brevi d’introduzione al mosaico per amatori,
frequentati da persone provenienti da paesi diversi.
Le opere prodotte dalla Scuola, oltre ad implementare la galleria espositiva, partecipano a mostre e manifestazioni che ne sottolineano il ruolo promozionale. Eventi espositivi hanno visto la
Scuola protagonista a Parigi e Marsiglia in Francia; a Toronto in
Canada; a Melbourne e Sydney in Australia; a Mosca in Russia;
alla Biennale del Design a Gwaingju in Corea del Sud; a Basilea
e Friburgo in Svizzera; a Vienna in Austria; a Roma. Ogni estate nei locali della Scuola si apre la mostra “Mosaico&Mosaici”,
una vetrina di tutte le opere musive realizzate dagli allievi nel
corso dell’anno scolastico, ma anche un’occasione imperdibile
per visitare i locali della Scuola Mosaicisti del Friuli e la galleria di opere che ne tracciano la storia e ne dimostrano la vitalità.
Quest’anno l’esposizione sarà aperta dal 25 luglio al 30 agosto,
con inaugurazione venerdì 24 luglio alle ore 18.00.
Parigi, Opéra Garnier, Foyer (1875)
Mosaici parietali e pavimentali realizzati da Gian Domenico Facchina (mosaicista
originario di Sequals/PN), noto per aver messo a punto la tecnica a rovescio su carta,
tecnica musiva moderna
Santo Sepolcro, mosaico della cupola | 1998
Realizzazione musiva della Scuola Mosaicisti del Friuli su ideazione di Blasios Tsotsonis
Gerusalemme
Sacra Famiglia | 2013
Realizzazione musiva della Scuola Mosaicisti del Friuli su ideazione di Stefano Jus
Pordenone, Chiesa “Sacra Famiglia”, mosaico interno
SCUOL A MOSAICISTI DEL FRIULI
Via Corrridoni 6, Spilimbergo (PN)
www.scuolamosaicistifriuli.it
Spilimbergo, Scuola Mosaicisti del Friuli. Aule dedicate al laboratorio musivo. Allievi all’opera
Hotel Kawakyu, mosaici pavimentali con motivi orientali | 1991
Realizzazione musiva della Scuola Mosaicisti del Friuli su progetto di Yuzo Nagata
Giappone, Shiriama presso Osaka
[ 26 ]
Riflessi (Particolari e insieme)| 2010
Realizzazione musiva della Scuola Mosaicisti del Friuli su ideazione di Stefano Jus
Gorizia, Scuola Edile, atrio
[ 27 ]
GEMINIS 1 | 2011
Acrilico su tela
cm 80 x 60
GEMINIS | 2011
Acrilico su tela
cm 80 x 60
M
anuel Pablo Pace è un pittore nato in provincia
di Vicenza che si trasferisce in Spagna dopo gli
studi all’Accademia di Belle Arti di Venezia. La sua carriera inizia nel 2010 e oggi la sua produzione è assai nota non solo nella
sua terra d’origine per l’originalità sofisticata e apparentemente
“iperrealista” che nasconde invece spesso messaggi lanciati in
punta di...pennello con un’ironia stringente e con una delicata
sensibilità estetica.
Il suo interesse fondamentale sembra quello di fissare della
realtà dei momenti estratti da essa, ma non necessariamente
ideali, che si danno in un’attitudine particolare, curiosamente
casuale e persino irrilevante di cui solo l’artista, con la complicità del modello, ha precisa consapevolezza. Spesso si ricava la
sensazione che esista nei dipinti di Pace una verità nascosta che
sfugge all’attenzione generale, nonostante la chiarezza dell’immagine (Vittoria: nome di donna o soluzione di un gioco? Tic
tac: casualità di un orologio all’interno di un ritratto o memento
mori?). E non importa se la figura dipinta sia una persona specifica, un amico, una committente che ha scelto il pittore per farsi
rappresentare o piuttosto qualcuno cui il pittore abbia chiesto di
prestargli corpo e volto per carpirne un gesto, uno sguardo uno
solo - tra i cento, i mille, i diecimila, gli infiniti possibili.
AUTO PORTRAIT | 2011
Acrilico su tela
cm 100 x 100
Manuel Pablo Pace
Lo spostamento del senso
Ta z i o C i r r i
[ 28 ]
RAPA | 2012
Acrilico su tela
cm 24 x 30
Il punto è che, a volte, le figure e i volti, le situazioni non appartengono nemmeno ad un repertorio reale, ma sono immagini stereotipe tratte dalla pubblicità (Memento, acrilico su carta
2011) o nascono dall’immaginazione dell’artista, come la descrizione di una normale passeggiata con il cane in un viottolo di
campagna, che si trasforma in un ben più concettualmente complesso gioco di specchi (The house, olio su tela 2014). E questo
[ 29 ]
allontana Pablo Pace dalla definizione
di “pittore della realtà”: dietro l’apparente nitidezza e precisione delle figure,
degli oggetti, dei paesaggi, degli abiti
trattati con una precisione che restituisce la qualità tattile delle stoffe. Dentro
la figuratività oggettiva di straordinaria
verisimiglianza si nasconde l’astrazione più sfacciatamente lontana dal reale.
L’illusione di stare davanti ad una riproduzione del vero, si frantuma ad una
attenta analisi e mette piuttosto in luce
il fatto che in scena sta, non il soggetto
ritratto ma l’ironia, il gusto del calembour, lo scherzo mordace, il “trucco” del
prestigiatore, la decisione di dominare
attraverso la pittura proprio la stessa realtà. Soggetti come corpi intermedi.
MEMENTO | 2011
Acrilico su carta
cm45x45
L’ULTIMA CENA | 2012
Olio su tela
cm 100 x 100
[ 30 ]
Plinio il Vecchio nella sua opera Naturalis Historia, racconta che in una gara tra due pittori, Parrasio e Zeusi,
quest’ultimo si presentò con dell’uva
dipinta così bene che gli uccelli si misero a svolazzare sul quadro cercando di
beccarla. E quando egli, inorgoglito per
il giudizio degli uccelli, chiese a Parrasio
di togliere il telo che copriva la sua opera, in modo da poter fare un confronto,
quello rispose che la tenda stessa era il
dipinto. Zeusi dovette così ammettere
che la vittoria era di Parrasio, visto che
il proprio realismo aveva ingannato degli uccellini ma quello di Parrasio aveva
tratto in inganno lui stesso, un pittore.
L’apologo sembra avere attinenza, oltre
che con la bravura tecnica di un artista,
soprattutto con la sua capacità di suggestionare, attraverso il realismo, chi
guarda.
Il dialogo serrato che la pittura di Manuel Pace ha col naturalismo possiede
dunque al suo interno una forza di segno
opposto: pur non negando la realtà, ne
rappresenta alcuni aspetti in modo trasfigurato, o lenticolare, o deviato e sovente in conflitto con una logica lineare.
Il risultato è un’apertura a tutto campo
con qualsiasi tipo di situazione che non
sia ma semplicemente appaia compatibile con le forme convenzionali del vero.
E’ un’opportunità che si apre ad imbuto
per accogliere le mille deliziose aporie
dei sogni e dell’immaginazione, in un
teatro dell’assurdo e del surreale che lascia precipitare dolcemente chi guarda
come attraverso lo specchio di Alice nel
Paese delle Meraviglie. “È una ben povera memoria quella che funziona solo
all’indietro” afferma infatti Lewis Carrol in quel meraviglioso e stravagante romanzo: ciò che si conosce del mondo per
mezzo della memoria e dell’esperienza è
solamente ciò che viene dato per sconta-
to. Implicitamente Pablo Pace, con i suoi dipinti vuole proiettare
della realtà ciò che la realtà non dice, ciò che potrebbe essere se
fossimo capaci di un guizzo di indipendenza dalla consuetudine
della memoria. La natura così si trasforma e diviene il nonsense
poetico, l’aspetto assurdo che attrae prodigiosamente la mente
attraverso lo sguardo. Lo spostamento del senso, ossia la trasformazione di immagini che siamo abituati a percepire secondo il
senso comune, ci trasmettono l’idea di un diverso ordine della
realtà. E’ la forza insistente dell’immagine, bellezza: “Questo ve
l’ho detto tre volte, e perciò è vero” dice, ancora, Lewis Carrol in
un’altra sua surreale opera, The Hunting of the Snark.
Rifare accuratamente la realtà ed abilitarla ad essere l’unica
realtà possibile non è poi la sola abilità di Pablo Pace. In occasione della sua mostra di questo autunno 2015 a Parigi, l’artista
ha realizzato un lavoro inedito: una personale interpretazione
de Le Allegorie dell’Amore di Paolo Veronese (1570 ca). Il famoso
ciclo dei quattro dipinti ad olio su tela conservati oggi alla National Gallery di Londra, con le figure monumentali fortemente
scorciate in un taglio prospettico da sott’insù, rappresentano,
specularmente, l’Infedeltà, il Disinganno, il Rispetto e l’Unione
felice. Una sfida per Pace che – al pari di Veronese ma in termini
contemporanei – usa la pittura per sviscerare le aporie dell’umano sentire.
VITTORIA | 2015
Olio su tela
cm 100 x 150
I cambiamenti più significativi rispetto agli originali veronesiani riguardano, oltre che la forma delle tele, una ridimensionamento concettuale della monumentalità delle figure e il loro adattamento ad un contesto attuale. La mostra a Parigi è la
prima esposizione personale dell’artista in Francia. Nella galleria Neri Contemporary Art, ospitata negli spazi di Volumes
Coworking e composta da un lungo e largo corridoio e da un
open space, l’allestimento è suddiviso in una prima parte, dedicata all’esposizione cronologica delle opere, mentre nell’open
space sono presenti solo le quattro tele delle Allegorie dell’amore.
La scelta vuole evidenziare la distanza tra questi due gruppi
di lavori: le Allegorie dell’amore, per l’intensità del soggetto
necessitano di un grande spazio non condiviso da altri lavori,
mentre le altre opere si avvantaggiano dal gioco di rimandi e
riferimenti, supportandosi reciprocamente.
Pace non è nuovo alla reinterpretazione (radicale) di opere
classiche, come per l’ariostesca Angelica e Medoro (olio su tela,
2012) o addirittura l’Ultima Cena (olio su tela, 2012) irriverente,
tragicomico ossimoro contemporaneo sul senso della Vita e della
Morte. Persino il concetto rinascimentale e moderno di “autoritratto” è posto in una dimensione surreale: un piccolo medaglione, suscettibile di passare inosservato al collo di un grande
ritratto femminile, induce ad una riflessione acuminata sulla
predominanza dell’ego in epoca contemporanea (Auto portrait,
olio su tela 2011).
Spesso sono i titoli, parte integrante dell’opera, a mettere chi
guarda, con segnali sibillini, sulla pista da seguire in una instancabile “caccia all’uomo” e alle sue mille incongruenze, tic,
idiosincrasie; nel rifiuto sistematico dell’ovvio e nella continua
ricerca degli aspetti inediti che la realtà può offrire di se stessa,
se accuratamente, argutamente esperita.
The house | 2014
Olio su tela
cm 80 x 100
Manuel Pablo Pace
vive e lavora a Bassano del Grappa ( VI)
www.manuelpablopace.com
[ 31 ]
Siderforgerossi
Tr a p r e s e n t e e f u t u r o a t t r a v e r s o
l a t e c n o l o g i a , l a c u lt u r a e l ’a r t e
A
i piedi delle colline che degradano dalle Piccole
Dolomiti, in una delle molte, suggestive valli del
Veneto, si trova una moderna officina, la Siderforgerossi Group
S.p.a., risultato di una serie di trasformazioni industriali originate, all’inizio del secolo, da una semplice fucina che produceva
strumenti e attrezzi necessari alle attività minerarie ed agricole
dei territori circonvicini.
Fondata nel 1908 da Coriano Rossi, quel maglio si è trasformato, nel corso di più di un secolo di mutamenti storici, sociali e
politici, in una importante realtà siderurgica, generatasi dall’ultima recente fusione, nel 2013, di due principali produttori italiani del settore: Forgerossi e Metallurgica Siderforge.
Il nome stesso del paese in cui l’azienda è insediata, Arsiero, in
provincia di Vicenza – le cui origini risalgono 975 d.C. – parla
di un’attitudine del luogo alla lavorazione del metallo, attività favorita dalla presenza di numerosi corsi d’acqua e del fiume
Astico. Il toponimo, infatti, probabilmente deriva dal latino ars
aeris (arte del rame) dovuto dalla presenza locale di alcuni antichi magli per la lavorazione del rame.
La fucinatura è ovviamente la prima vocazione della Società,
ma forgiare in acciaio i pezzi che vengono esportati in tutto il
mondo non è il suo impegno esclusivo: da anni infatti Sider-
forgerossi si interessa alla cultura, all’arte, alla formazione dei
giovani.
Uno dei primi progetti locali sostenuti dal Gruppo è costituito dal Concorso “Raccontami una storia”. Ideato inizialmente
dall’associazione SOS Scuola-Famiglia e sviluppato poi da Siderforgerossi Group s.p.a. Per la sua realizzazione la Ditta mette a disposizione alcune borse di studio per alunni dell’istituto
comprensivo di Arsiero.
I ragazzi presentano i loro lavori che vengono vagliati da una
qualificata giuria esterna composta da ex insegnanti, che stila una classifica finale suddivisa per classi. La premiazione dei
vincitori avviene al termine dell’anno scolastico nel corso di una
cerimonia in cui sono presenti tutti i partecipanti e i promotori
del concorso.
Inoltre, a partire dall’anno accademico 2010-2011, Forgerossi
s.p.a. prima e, dal 2014, Siderforgerossi Group s.p.a. sponsorizza la facoltà di Ingegneria Economia dell’Università di Vicenza
con un contributo per l’acquisto di strumenti per i laboratori e
le classi, con l’obiettivo di contribuire alla formazione dei laureandi.
Dall’anno scolastico 2011-12, poi, la Società sostiene il Liceo
“A. Pigafetta” di Vicenza mettendo a disposizione 4 terminali di
Il Presidente Luciano Giacomelli con l’amministratore delegato dr. Canale in riunione con collaboratori
[ 32 ]
La nuova palazzina uffici
[ 33 ]
l’arte che, nel suo significato più intimo,
sollecita la parte emotiva più autentica
dell’individuo, stimola un sentire più
intenso e idee creative che potrebbero rivelarsi interessanti proprio anche
nell’ambito lavorativo.
Oltre a questo aspetto è interessante
sottolineare quanto tale iniziativa dia la
possibilità a nuovi talenti, locali e non,
di emergere e di essere fruiti dal pubblico vasto e dinamico, rappresentato da
clienti e fornitori di ogni parte del mondo che frequentano di continuo questo
luogo. L’azienda ha voluto investire in
modo del tutto disinteressato su idee e
creatività artistica per farle conoscere e
crescere.
La collezione, ideata e curata dall’architetto Gaia Giulia Giacomelli, raccoglie opere di pittura, scultura, fotografia
di artisti locali e non, che si misurano
con l’aspetto affascinantissimo della trasformazione del metallo che, fuso alle
alte temperature nei forni da un fuoco
che sembra danzare, si ricompone poi
nei vari forgiati di diverse forme.
MOVIMENTI FORGIATI (dettaglio) | 2011
Lorenzo Brasco
Installazione fotografica dopo le riprese in back stage di ballerina in ambienti di produzione di FORGEROSSI
registrazione delle presenze scolastiche. Anche questa attività è
collegata al territorio e ai giovani che studiano nella prospettiva
di un futuro della nostra società.
Siderforgerossi Group, infine, credendo appunto nell’importanza della formazione scolastica di figure tecniche di rilievo
nella nostra area, ha voluto contribuire in modo sostanziale al
rinnovamento tecnologico delle attrezzature informatiche presso l’istituto superiore I.T.I.S. “De Pretto” di Schio ed in stretta
collaborazione con i docenti ha provveduto all’acquisto di 30 PC
Notebook di ultima generazione.
Ma l’ulteriore interessante impegno dell’Azienda è anche quello legato all’arte. Nel settembre del 2012 inaugurava una propria
collezione d’opere d’arte, organizzata in un percorso espositivo
dal carattere di mostra permanente.
L’attenzione all’arte da parte della famiglia Rossi era iniziata
già un paio d’anni prima, con la progettazione e realizzazione
della nuova sede degli uffici, un progetto architettonico abilmente concertato, in risposta ad importanti preesistenze di carattere storico e naturale. L’attuale collezione, oltre ad essere
espressione della passione dei Rossi per l’arte, ha assunto anche una dimensione esplorativa: quella di osservare l’efficacia
dell’accostamento dell’arte al lavoro quotidiano di tutti i dipendenti dell’azienda. Chi frequenta ogni giorno questi ambienti, si
trova a partecipare ad un’esperienza continua di confronto con
[ 34 ]
MOVIMENTI FORGIATI | 2011
Lorenzo Brasco
Installazione fotografica dopo le riprese in back stage di ballerina in ambienti di produzione di FORGEROSSI, composizione di pannelli
cm 65 x 65,30 x 30
Le opere d’arte si pongono così in dialogo stretto con il protagonista vero e
proprio dell’azienda, il prodotto di forgiatura, a cui da sempre l’Azienda dedica qualità e innovazione. Gli artisti
hanno saputo interpretare magistralmente questo atto creativo del fuoco, già
in sé opera d’arte, e confrontarsi tra loro
offrendo, ognuno, il proprio originale
linguaggio artistico. L’intera iniziativa è
stata raccolta e raccontata dalla curatrice
in un catalogo dal titolo Forge ad Arte,
che l’azienda ha pubblicato per diffondere quanto più possibile i risultati di questo progetto d’arte. In considerazione di
questi aspetti, l’iniziativa di Forgerossi
di sviluppare un possibile rapporto tra
l’Impresa e l’Arte, rappresenta un intelligente e sensibile contributo alla cultura.
Il 24 Novembre 2012, nel corso di un
incontro con Bruno Tamiello, direttore
del Museo dell’Antico Maglio di Breganze, al workshop ‘Musei d’impresa’
organizzato durante il ‘Meeting della
cultura delle Venezie’, è nata l’idea di
creare un gemellaggio tra una realtà di
storica importanza, come quella preservata e custodita con amore all’Antico
Maglio di Breganze, e una realtà aziendale in consistente sviluppo a livello
internazionale come SIDERFORGEROSSI. Due contesti connessi da un
motivo fondamentale, la lavorazione del
ferro. L’ultimo fabbro artigiano dell’Antico Maglio, Angelo Giusto Tamiello,
era attivo ancora nel 1980, quando il
Attesa 1
Graziano dal Zotto
cm 200 x 150
[ 35 ]
ASCOLTO | 2008
Franco Ruaro
Olio su tela
cm 200 x 100
GUSCIO 1 | 2009
Fabio Guerra
Tecnica mista su carta pressata
cm 115 x 115
GUSCIO 2 | 2011
Fabio Guerra
Tecnica mista su carta pressata
cm 115 x 115
maglio si presentava esattamente così com’è conservato dal figlio
Bruno. Da parte sua, invece, SIDERFORGEROSSI sta continuamente espandendo la propria attività sia a livello di territorio
sia dal punto di vista dell’innovazione. Ed ecco dunque l’idea
di celebrare un incontro tra il passato, con le sue tradizioni e il
presente, in continua espansione, utilizzando l’arte. All’interno della sala d’ingresso del Museo dell’Antico Maglio è stata
inserita, per iniziativa di SIDERFORGEROSSI group, un’installazione ideata e progettata da Gaia Giulia Giacomelli, che si
propone di celebrare questo gemellaggio tra antiche tradizioni e
saperi e la moderna azienda che si sviluppa guardando al futuro.
ne del Maglio un supporto economico per il mantenimento di
questo luogo magico, il meglio conservato del Veneto, nonché
uno dei più importanti d’Europa. L’installazione è costituita da
un telaio metallico appeso al soffitto che prende forma in base
allo sviluppo di moduli quadrati di 20 x 20 cm di lato, e relativi multipli. Inseriti in questi moduli vuoti vi sono piastrelle
in plexiglas colorato con testi di citazioni, stampe fotografiche
e un video. Il tutto a raccontare l’arte in azienda come è stata
ideata e realizzata nella sede di Arsiero. ‘SIDERFORGEROSSIgroupINART’ è il titolo di tale installazione che misura circa
1,8x3,00m. Il video è costruito per mettere in evidenza il rapporto tra arte e spazi di lavoro, sia attualmente sia nel prezioso
passato custodito in Breganze.
L’iniziativa è sostenuta dall’Azienda che mette a disposizio-
SIDERFORGEROSSI GROUP S.p.A
Via Cartiera di Mezzo 38, 36011 ARSIERO ( VI) – ITALY
www.siderforgerossi.coma
[ 36 ]
RIAPPARIRE | 2008
Franco Ruaro
Olio su tela
cm 200 x 100
TRAS-FORM-AZIONE | 2011
Graziano dal Zotto
Fotografia
cm 200 x 300
[ 37 ]
I luoghi che parlano
cussione costruiti ed intonati per suonare e vibrare all’unisono. Anche questi
quadri allineati in sequenze tonali e
timbriche come un insieme di pezzi separati emettono ciascuno una nota che
riunite producono un suono a cento voci.
L’esotismo e la pluralità di suoni e colori
è anche la tessitura di Purnama. 50 Variazioni Balinesi, serie di cinquanta acrilici
su tela di cm. 50 x 50, esposta nel 2012
presso la Galleria Niselli Arte a Bassano
del Grappa (VI).
Te r r i t o r i , c u l t u r e , t e c n i c h e
nella pittura di Chester Stella
G i ova n n a G r o s s at o
“Purnama” è, nella lingua e nella tradizione indonesiana il giorno della Luna
Piena, considerato sacro: un giorno in
cui gli dei scendono sulla terra e offrono
agli uomini il loro favore. Stella, intrecciando la cultura figurativa occidentale a
quella mediorientale, dipinge con colori
lunari questo periodo di tempo propizio
per le preghiere ma anche per le azioni buone e dedicate alla bellezza perché
esse vengano moltiplicate. Nel caso di
questa serie Stella fissa in 50 momenti
ciò che l’anima più profonda dell’isola
offre: sono le vibrazioni, i suoni, i misteri e le magie del plenilunio. Nel 2013
l’Artista realizzava Jari Menari, espressione che in balinese significa “dita dan-
C
apita non di rado che i lavori di Chester Stella sviluppino un tema, un soggetto o una tecnica specifica, particolarmente
adatta, in quel momento, ad esprimere determinati contenuti espressivi. Sono motivi di volta in volta legati alla musica, alle
danze, ai territori, ai paesaggi e la loro realizzazione può avvalersi tanto di spesse texture materiche potentemente cromatiche quanto di
delicata pittura ad acqua, magari campita con sapienti sovrapposizioni, come nel gruppo di alcuni recentissimi lavori (2015) raccolti come Acquerelli. Si intitolava Gamelan la serie, in mostra nel 2011 alla Galleria Ghelfi di Vicenza, realizzata con una grande tela in acrilico
e oro di metri 3 x 3, suddivisa in 100 pezzi separati, ciascuno di 30 cm di lato e disposti come tessere di un mosaico bizantino, vibrante
di musica e di luce: semplice e complessa ad un tempo, antica e contemporanea. Compendiava alcune caratteristiche del tracciato artistico di Stella, autore eclettico nei suoi saperi e nei suoi interessi, incisore e pittore, studioso e scopritore di culture esotiche, capace di
creare fusioni artistiche nel tempo e nello spazio. L’Oriente, del resto, nelle sue diverse direttrici spazio-temporali è una delle componenti costanti dell’espressività di Stella. Il “gamelan”, infatti, è un’orchestra di antica origine indonesiana, composta di strumenti a per-
Olio su intonaco | 2014
cm 60 x 60
zanti”. L’accezione più comune e diffusa
si riferisce ad un particolare tipo di massaggio, praticato in punta di dita da terapeuti indonesiani. Ma le “dita che ballano” sono anche quelle sugli strumenti
musicali della tradizione delle isole e
altre dita capaci di stendere sulla tela
gli stessi colori che grondano dalle penombre fiorite della giungla e dalle notti
profumate di stelle, la cui luce si infrange sulla battigia. Il colore della risacca e
dei mitici fiori di cui è ricca Bali, degli
uccelli dai fantasmagorici piumaggi, dei
movimenti dall’innata eleganza disegnati nell’aria dalle mani delle danzatrici vennero esposti in un allestimento
assai suggestivo nello spazio espositivo
del Castello Inferiore di Marostica.
Acquarello e oro | 2014
cm 27 x 18
[ 38 ]
Alle scuderie del Castello Porto Colleoni di Thiene, nel 2014, un’altra serie,
Canone Rosso, viene allestita come situazione performativa integrata con un
video in cui i 30 dipinti su tela 50x50
appartenenti ad una serie di 50 condividono la scena in contrappunto con la
musica. Canone Rosso è un insieme in cui
la forza assertiva del rosso apre un dialogo profondo ed emozionante non solo
con la musica ma, ancora una volta, con
i numerosi elementi della natura e della
cultura balinese. Canzoni, danze, paro-
Olio su intonaco | 2014
cm 60 x 60
[ 39 ]
le, gestualità si incardinano nella pittura
di Stella con straordinaria armonia e la
texture utilizzata per questa serie di tele,
base su cui lavora la vorace energia del
Rosso, è ricca di asperità orografiche simili ai terrazzamenti acquei ricavati sui
dorsi delle colline del sud est asiatico per
coltivare il riso e costituisce il tappeto su
cui si sviluppa, anche in senso temporale, il percorso narrativo/espressivo. Il
“canone” consiste nel dialogo tra l’emozione cromatica dei fiori, dei frutti, dei
volti di vecchi solcati dalle rughe come
risaie e il ritmo che intercetta la cadenza delle maree, delle danze, del suono
metallico degli strumenti a percussione
suonati per le strade e negli atri delle
“stupa”. Suoni cui il Rosso risponde contemplando le dita incendiate del sole che
si immerge nell’oceano Indiano e le rutilanti bucce scabre dei frutti di rambutan.
Le contaminazioni culturali del percorso
di ricerca dell’artista negli ultimi
Acquarello e oro | 2014
cm 28,4 x 20
anni ha prodotto altre interessanti serie
di dipinti, oltre a Gamelan, Purnama, Jari
Menarie Canone Rosso, Conversazione,
del 2011, e Kosmos e Kaos, del 2010. Il
paesaggio, nella sua accezione più aperta
e fluida, reale e metaforica è stata oggetto fin dal 1996 anche della serie Territori
in cui l’artista, traendoli dalla natura e
semplificando i segni dei cicli stagionali
e i messaggi del tempo interiore, ne restituiva una visione rapida ed intensa. Le
opere di quella serie, attraverso pochi ed
essenziali elementi, riuscivano a tradurre ciò che si vede in ciò che si sente. Gli
intervalli tra un colore e l’altro, tra una
visione e l’altra, tra un pensiero e l’altro
erano costituiti da un silenzioso bianco
sospeso sopra suggestioni invisibili. Nel
2008, un’altra esperienza espositiva che
raccoglieva un’ulteriore serie di territori,
Il suono del paesaggio, fu realizzata con
una decina di oli su intonaco ed altrettanti acquerelli esposti allo spazio Urban Center O.A.S.I. Europa di Thiene
(VI): originali composizioni dedicate a
Acquarello e oro | 2015
un genere molto particolare di paesaggio
cm 40 x 30
che evidenziavano la sensibilità di Stella
anche nei confronti della materia, stratificata e domata fino ad ottenere le volute pastosità e consistenze cromatiche: sia nella tessitura densa degli oli che intridono gli spessori
dell’intonaco lavorato in solchi e avvallamenti, sia nella leggerezza trasparente degli acquerelli, in cui la giustapposizioni dei campi
di colore coagula attorno a sé un fondamentale di saperi e di sapienze risultato di una lunga e attenta sperimentazione di pigmenti e
leganti, di carte e tele e, naturalmente, di pratica pittorica.
Sono tutte indagini artistiche che hanno radice comune nell’interesse dell’Autore sui luoghi – fisici e metaforici - indagati nei loro
aspetti più magici e poetici ma anche antropologicamente connessi con varie tradizioni artistico-culturali, inclusa quella d’origine,
oggetto di esplorazione e di riflessione dell’Artista anche nella recentissima serie di Acquerelli esposti nell’autunno 2015, nelle cucine di
Villa Godi Malinverni a Lugo (VI), edificio patrimonio dell’umanità dell’UNESCO realizzato da Andrea Palladio nel 1542. Si tratta
di una ventina di sofisticati lavori, incorniciati in preziose cornici d’epoca, in cui l’astrazione si muove sul crinale ambivalente delle
forme reali utilizzando un linguaggio dal sincretismo affascinante e inclusivo. Chester Stella, è nato a Thiene (VI) nel 1950, si occupa
di arte da oltre quarant’anni alternando la sua ricerca in diversi ambiti. E’ però nella grafica e soprattutto nella pittura con varie tecniche che si concentra la sua attività di artista, sviluppata nel corso di un’esperienza che inizia negli anni Settanta e si è avvalsa anche
[ 40 ]
Acquarello e oro | 2015
cm 25 x 21
Acquarello e oro | 2015
cm 25 x 19,5
Chester Stella nella sua casa studio di Bali
delle esperienze di numerosi viaggi e lunghi soggiorni all’estero a contatto con culture diverse, indagando di queste motivi e significati.
Le sue opere, esposte in allestimenti pubblici e privati, riconosciute dalla critica internazionale, sono presenti permanentemente nelle
collezioni di molti Paesi europei ed extra europei.
Chester Stella
vive e lavora a Thiene ( VI) e Bali (Indonesia)
www.chesterstella.com
[ 41 ]
Erika Inger
Sculture in divenire
M a r t i n a G e cc h e l i n
L
e sculture di Erika Inger (Cermes, Bolzano 1957) catturano una traccia mentale dello spazio in movimento. Le sue opere
sono sculture in divenire, in costante trasformazione, abbracciano il terreno su cui si trovano e ne rilevano le geometrie del
tempo, aprendosi a nuovi livelli semantici.
L’artista non colloca semplicemente le sue sculture nell’ambiente naturale, ma utilizza lo spazio circostante e la natura come materia
da plasmare. La sua arte è il frutto di una intensa e intima comunicazione con il luogo scelto per il processo artistico e asseconda l’idea
di una scultura da sperimentare direttamente, cioè da vivere, da abitare, entrando in contatto diretto con la costruzione dello spazio
che essa propone. In questo senso per una parte dell’itinerario creativo di Erika Inger possiamo parlare di Land Art: un modo di agire
artisticamente nell’ambiente naturale con costruzioni site- specific che rimuove la scultura dal piedistallo dove secoli di tradizione l’hanno confinata per lasciarla andare libera per il mondo. Il paesaggio dunque non è lo sfondo entro cui la scultura si staglia, ma diventa il
contenuto stesso dell’opera, quello che le dà senso.
...decollare | 2006
Legno, barre in acciaio
cm 1200 x 90 x 250
Landart Lilienfeld
L’arte di Erika Inger si concentra sul
rapporto che l’uomo ha con la natura ed
è caratterizzata dalla ricerca di un attento equilibrio tra ciò che è dato dall’ambiente naturale e le infinite possibilità di
intervento artistico. La natura così diventa il soggetto che l’artista tratta per
segnalarci una dimensione ecologica del
vivere. Le sue opere ambientali non sono
cornici che mettono in risalto uno spazio, ma sono rilevatrici di proprietà fisiche, misurano il territorio, realizzano un
passaggio dal continuo al discontinuo,
dalla stasi alla dinamica. L’intervento
artistico di Erika Inger è uno strumento
che misura le condizioni, la situazione e
i mutamenti del territorio, come un barometro del paesaggio rende visibile e
sottolinea non solo lo spazio, ma anche
la sua struttura nascosta.
Lo si percepisce nitidamente nelle opere organizzate nel “Sentiero delle sculture di Lana”, città a pochi chilometri
da Merano, dove le sculture di Inger, assieme a quelle di altri artisti provenienti
da tutto il mondo, sono organizzate in
un percorso da effettuarsi a piedi accanto al fiume Valsuria e concepito a tappe
per offrire spunti di riflessione e meditazione. Soltanto camminando infatti,
in una sorta di ritorno alla naturale velocità dell’uomo, l’itinerario scultoreo si
trasforma in un’opera d’arte.
Così Cammino Leggero del 2000 di
Erika Inger, una scultura a forma di
fluttuante onda di fiume costituita da
una fila di pietre di granito di diverse
dimensioni che si trova su un’isola del
letto del fiume che costeggia il sentiero, suggerisce una reciproca relazione
fra il lento movimento delle pietre e il
naturale incedere dell’uomo e dà vita ad
un ritmo, una forma di ripetizione, che
accompagna lo sguardo e invita a procedere lungo il percorso fino a che non si
incontra la scultura successiva.
Dinette | 2013
Marmo del Krastal
cm 220 x 80 x 120
La bestia interiore | 2002
Questa sua scultura ambientale è come
Marmo del Krastal, acciaio
cm 370 x 120 x 110
un “meccanismo metrico” che integra il
luogo preesistente e ne mette in evidenza alcune qualità celandone allo stesso tempo delle altre. Inger non colloca un oggetto in autonomia sul terreno, ma prende coscienza
di un luogo e ne compie una lettura critica, sceglie fra gli elementi che lo compongono, sonda tra le pieghe del suo spazio per farlo
diventare un crocevia di passaggio e di relazioni. L’osservatore così non si trova solo di fronte ad un’opera, ma in uno spazio vissuto
intimamente dall’artista, caricato dalle sue componenti emozionali e di conseguenza messaggero di istanze psichiche e spirituali.
Per ogni singolo progetto, Erika Inger comincia la sua ricerca sui materiali presenti sul posto e sulle loro proprietà originali guardando
ben al di là dell’immagine convenzionale che solitamente abbiamo di essi. Utilizza la pietra, il legno, l’acciaio e oggetti di recupero,
anche di durata effimera. A volte impiega persino il letame di mucca quando ritiene che questo sia il materiale più adatto per il suo
intento. Come ad esempio avviene per Dungstrabe (Pronto) del 2000 realizzata presso il Massiccio dello Sciliar in Trentino Alto Adige.
In Stoanerne Frauen und Manderlait (Donne e Uomini di Pietra) del 2012, l’artista sceglie la pietra per il carico formale che essa già
possiede a livello materiale e per le sue stratificazioni geologiche che registrano lo scorrere del tempo.
L’opera si trova in Austria, in uno spiazzo del monte Schmittenhöhe, presso Zell Am See, dove l’artista assembla in un campo grande
duecentocinquanta metri quadri, quaranta tonnellate di pietre ammucchiate a cono creando delle figure pietrificate disposte in cerchi
concentrici. La struttura fa da eco alla tradizione degli “omini di pietra” che da tempi remoti fungono da segnavia nel brullo paesaggio
d’alta montagna e indicano la strada da percorrere. Questi mucchi di pietre, raggruppati in gran numero in un singolo luogo, indivi[ 42 ]
[ 43 ]
duano uno spazio sacro, segnano la presenza dell’uomo e la sua
storia, che si intreccia con quella della natura. L’artista accatasta
le pietre con un ordine regolare quasi a formare una griglia di
caselle modulari, crea in questo modo una nuova texture che si
sovrappone, si armonizza con il paesaggio: questa trama, come
formata da tanti tasti di un ipotetico pianoforte, copre lo spazio
per dare vita a un tappeto sonoro, un “ritmo visibile”, lasciando
a chi osserva il compito di intuirne il suono.
Ritmo, movimento e suono dunque accompagnano in maniera
fondamentale l’attività artistica di Erika Inger. Secondo l’artista
infatti, la natura e l’arte si completano a vicenda come accade
per il ritmo e il suono. Una cadenza formale armonica definisce
anche Lebensbäume (Alberi di vita) del 2001. Sono tre corpi di
sculture modulari formate da dischi di legno infilati in sostegni di acciaio che ricordano le forme archetipe della geometria
arborea. Le tre sculture si distendono sottili su di un pendio
inclinato tendendo verso l’alto, lasciano fluttuare l’aria nella loro
struttura aperta dando l’impressione di muoversi, di avvicinarsi cullandosi. L’arte di Erika Inger è un cauto scandagliare dei
punti di intersezione tra natura e cultura. Le sue sculture ambientali perciò sono da intendersi come indicatori che stimolano
attimi di riflessione per riconoscere non solo gli aspetti naturali
del paesaggio, ma anche il loro divenire culturale.
Erika Inger
vive e lavora a Vienna (Austria) e Lana (BZ)
www.erika-inger.com
Coppe tra coppe | 2011
Sette blocchi di granito
cm 800 x 80 x 400
Vent Parco Nazionale
nella pagina precedente:
Pronto | 2000
Sterco di vacca
cm 1200 x 500 x 130
Sciliar
Donne e uomini di pietra | 2012
Pietre stratiforme Schmittenhöh
Zell am See
[ 44 ]
Alberi di vita | 2001
Legno, acciaio
Tre pezzi, altezza cm 700
Zell am See
[ 45 ]
L’ osservatore e la cosa osservata | 2007
Punzonatura su cuoio dipinto e colorato
cm 33 x 27
senza titolo | 2014
Punzonatura su cuoio dipinto e colorato
cm 110 x 80
Markus Damini
Attraverso la materia
M arco Sto ppa
A
lle porte dell’incantevole centro storico di Bressanone, in una strada secondaria di fronte al Ponte
Aquila che attraversa il freddo fiume Isarco, si nasconde timidamente dagli sguardi quotidiani della gente la galleria-atelier
dell’artista Markus Damini.
Chi ha la fortuna o la curiosità di scoprire questo angolo suggestivo al numero 17 di via Stufles, non può non essere catturato, o quanto meno “distratto”, dalla singolare finestra-vetrina
allestita dall’artista con poche opere e qualche oggetto curioso,
che invita ad oltrepassare l’angusta soglia dell’entrata laterale.
Una volta al suo interno, lo spettatore rimarrà disorientato da
un mondo vivace e colorato fatto di superfici e segni dal sapore
[ 46 ]
ancestrale custoditi all’interno di un rustico ambiente in pietra
coperto da un basso soffitto a botte. In totale antitesi con il contesto territoriale e culturale delle Dolomiti, le opere dell’artista
tirolese sembrano nascere da continue escursioni negli spazi più
reconditi della vita, alla ricerca della materia primigenia.
Non sono casuali i frequenti riferimenti all’acqua e al mare, inteso come luogo primordiale che contiene in sé le più elementari
forme di vita. Nell’opera L’osservatore e la cosa osservata, il colore
blu domina sull’intera composizione nella quale si muovono liberamente curiose strutture a forma d’occhio dal sapore surreale. Ma non vengono meno i richiami all’energia primordiale in
Rosso vivo, agli spazi siderali o, per contrasto, alle forme micro
Rosso vivo (Dettaglio) | 2013
Punzonatura su cuoio dipinto
cm 100 x 75
[ 47 ]
organiche della grande opera Senza titolo del 2014, in un continuo viaggio alla
scoperta delle leggi universali che governano la materia.
In lavori come Attraverso lo specchio,
o Idrogeno, il riferimento agli elementi
fondamentali che compongono la materia è palese. L’artista rappresenta una
struttura atomica con i suoi legami chimici, attraversata dalla luce sotto forma
di spettro cromatico. In Cane di luce, invece, il legame tra luce e materia si manifesta visivamente sotto forma di una
cane che vibra di luce propria come una
costellazione di stelle.
cane di luce | 2001
Punzonatura su cuoio dipinto e colorato
cm 90 x 60
Eppure l’approccio di Damini non è
scientifico, sebbene in parte riconosca
l’influenza e il fascino delle teorie quantistiche, ma piuttosto empirico e spirituale. Nasce cioè dall’osservazione della
natura circostante, con la quale fin da
piccolo ha instaurato un legame molto
solido.
In essa percepiscono le leggi universali
che governano il mondo, l’attrazione e la
repulsione che creano le dinamiche fondamentali, ripercuotendosi all’infinito.
Più di ogni altra cosa sono le onde del
mare ad ispirarlo: esse rappresentano il
movimento della materia, e in esse riconosce la polarità che governa il tutto,
comprese le leggi umane.
È curioso come l’attenzione dell’artista si sia spesso rivolta all’elemento acquatico, così lontano dall’ambiente in
cui vive, sebbene sia lo stesso artista a
ricordarci che “le dolomiti sono emerse
dal mare, e portano i segni della propria
origine”.
Imago | 2005
Cuoio inciso, colorato e dipinto
cm 50 x 34
Le cime delle montagne sono per Damini il punto d’osservazione previlegiato
per viaggiare con la mente oltre lo sguardo, oltre i limiti del fenomeno e ”attraversare con l’immaginazione la materia”
per arrivare alla sua essenza.
Se l’origine del processo creativo di
Markus Damini è mentale, pienamente
fisico risulta essere il rapporto con il materiale che più utilizza per le sue superfici: il cuoio. L’artista riconosce in esso
una “intelligenza intrinseca”, soggetta
cioè a continue rigenerazioni.
La pelle rappresenta la parte più robusta e allo stesso tempo più sensibile di un
essere vivente, ma soprattutto contiene
in sé gli elementi primi della vita, come
le cellule.
Lavorare sul cuoio per Damini vuol
dire allora rappresentarne la natura più
intima, la struttura interna, e renderla
manifesta.
Ma vuol dire anche fondere il gesto con
la materia, i segni e i colori con il supporto, fino a renderli intrinseci.
Per ottenere questo risultato l’artista
adotta abilmente la tecnica dell’incisione su pelle per mezzo di un chiodo o, più
frequentemente, di un punzone, tracciando senza uno schema prestabilito i
contorni e le forme, con immediatezza e
lucidità compositiva.
Ciclo | 2003
Cuoio inciso, colorato e dipinto con applicazioni con resina e specchio
4 elementi da cm 39 x 39
Mentre il colore liquido – una soluzione realizzata dallo stesso artista per resistere nel tempo - è steso manualmente
con un pezzo di stoffa imbevuto, ottenendo delicate sfumature di tinte dominanti che impregnano le pieghe e le
venature del cuoio.
Ciò che distingue l’arte di Markus Damini è la capacita di guardare la sostanza delle cose in un perfetto equilibrio
tra tecnica e immaginazione, tra uomo
e natura.
Markus Damini
vive e lavora a Bressanone (BZ)
www.io-damini.it
pelle molecolare | 2009
Cuoio inciso, colorato e dipinto
cm 85 x 85
pelle molecolare 2 | 2014
Cuoio inciso, colorato e dipinto
cm 123 x 44
[ 48 ]
[ 49 ]
E’ questa un’immagine che crea nella mia
mente scenari e pensieri.
Non ho un piano preciso quando dipingo,
ma so dove voglio arrivare e dove vorrei che
l’occhio si addentrasse.
Davanti a una tela o a una matrice la
natura diventa specchio di uno stato emotivo, ma può essere anche solo un frammento e
quel che lo circonda o affianca è in un nuovo
piano. Cerco un equilibrio tra natura e concetto, tra immagine e pensiero.
Ogni opera è il risultato del tempo, del
cambiamento, dei dubbi, un’atmosfera.
Neri di abissi, luce all’orizzonte,
deserti,
acqua,
tracce, strada,
mare, madre,
carta, olio, acrilico, china, grafite, colla,
tela, legno, punte, colori liquidi,
materia ... gli elementi del lavoro.
Il pensiero si fa segno.
Il segno è racconto del passare, del migrare.
Migrare dalla luce alle tenebre, dalla
morte alla vita e dalla vita alla morte,
dentro il mare madre,
sotto a una barca.
PENSIERI DI UN UOMO | 2013
Incisione sperimentale
cm 70 x 50
L’UOMO QUESTO SCONOSCIUTO | 2012
Scultura
cm 28 x 13 x 5
Le tecniche diventano momenti essenziali di sperimentazione e di colloquio
fra i diversi materiali che così sono messi in grado di emettere proprie sonorità e racconti. L’intervento dell’artista
si manifesta nella creazione di sintesi
costruttive fondate su ricomposizioni di
frammenti, ricuciture di strappi, quasi
metafora delle lacerate esistenze umane
e delle loro complicate relazioni.
Debora Antonello
Contaminazioni
P
iù intensamente di molte analisi estetiche sono le stesse parole dell’artista a dire di sé, di un sentire poetico che poi viene
trasferito sui suoi lavori sotto forma di colore, di segni, di materia. Ed è un canto all’immaginazione creativa che si auto
alimenta in presenza dei materiali di cui l’arte si serve per esprimere visivamente se stessa, alla capacità, tutta tipica di un artista, di
carpire da un’idea errabonda o dall’immagine di un attimo la suggestione e il suggerimento per procedere, per estendere e reificare
sulla tela, sulla lastra calcografica o su qualunque superficie idonea al proprio sentire. Partendo da un’affermazione di Attilio Bolzoni,
giornalista attento ai problemi siciliani, di mafia e non solo, “Non si possono alzare muri sul mare”, scrive:
[ 50 ]
Riflette sui significati di queste parole
e sul loro portato, oltre che, ovviamente,
sui lavori dell’artista, Carla Chiara Frigo in un recente testo su di lei: “Debora
Antonello nel suo composito percorso
personale alterna l’arte incisoria alla pittura e alla loro feconda contaminazione,
sempre ottenendo esiti sorprendenti che
trovano meditati consensi e lodi per la
qualità del suo lavoro.
MIGRANTI, NOI RACCOGLIEMMO IL MARE A BRACCIA APERTE | 2014
Olio e collage su tela
cm 100 x 120
Il senso dell’unicità dei soggetti o
attori dei rapporti umani, si proietta
nell’arte incisoria attraverso il fatto che
le stesse matrici non restituiscono mai le
stesse immagini, ma sono materia viva
in continua evoluzione per l’aggiunta o
sottrazione di elementi e sostanze come
colle, carte, collages, eterogenei, vernici, smalti, sabbie; nella pittura invece
si manifesta nella ricerca e riconquista
dell’unità dopo la scissione e per la commistione, scambi e trapassi tra i mate[ 51 ]
ERA SOLO VENTO, in grigio | 2014
Incisione sperimentale
cm 70 x 50
riali di cui le opere sono costituite per creare un tutt’uno inteso
come totalità. Essenziale è poi il linguaggio che si affida ai segni
oltre alle campiture, orizzontali e più spesso verticali, che si accostano o si sovrappongono, si accendono di intensa luminosità
[ 52 ]
ERA SOLO VENTO 2 | 2014
Incisione sperimentale
cm 70 x 50
o affondano nell’ombra più profonda. I suoi segni sono essenzialmente degli scavi, metafora di indagini interiori che l’artista
traduce con scritture psichiche alternate a delle illuminazioni,
lampi di luce che attraversano le superfici come meteore e porta-
no alla rivelazione. Nei suoi lavori la traccia è infatti protagonista, si identifica con il segno che è ottenuto con uno strumento appuntito,
ma la cui manifestazione nasce nell’affondamento nella materia, nell’insinuarsi nelle sue pieghe più segrete. I segni sono dunque sorta
di rizomi che percorrono le profondità ctonie per poi, imbevuti di umori, riemergere in superficie. Segni pregni ed espansi, dolorosamente graffiati o liricamente dilatati: impronte che enunciano il vissuto esistenziale nelle polarità opposte dell’assenza, del vuoto e del
[ 53 ]
des, Patricia Segnan.
silenzio così come della presenza e della pienezza, del sibilo perforante o del
soave canto. Le sue opere creano delle
sequenze di trasmutazioni, varianti di
significazioni emerse durante i tempi
lunghi della gestazione, che stimolano
il pensiero e toccano le aree nascoste ed
inesplorate della nostra memoria facendo vibrare il nostro spirito.
Dopo aver tenuto personali a Bassano
del Grappa, Marostica (VI), Valdagno
(VI), Recoaro (VI) Cittadella (PD),
Dobbiaco (BZ) nel 2005 vince il Premio
Arte Pisanello per la pittura della fondazione Toniolo di Verona, dove è poi
invitata ad esporre.
Inizia così un’intensa attività espositiva
che la vede esporre, oltre che in Veneto,
anche in altre città italiane e all’estero,
continuando a tenere corsi di xilografia
per l’Istituto d’Arte di Nove (VI), per il
settore Cultura del Comune di Padova,
ai Musei civici e corsi di pittura presso la
Casa Circondariale di Padova.
Nei dipinti che costituiscono il ciclo dedicato al tema della “migrazione”
dunque si attua l’epifania delle sue più
riposte intuizioni e delle sue più intime
visioni sul tema del passaggio dell’uomo/
corpo/materia verso la sua spiritualità,
verso la sua ‘salvezza’. Questa epopea,
di cui ogni popolo è stato protagonista
nel passato e ora anche nel presente, è
un percorso di riscatto dalla miseria, è
un’aspirazione alla metamorfosi della
crisalide in farfalla che si trasforma in
tragedia storica e quotidiana della vita
umana perché può venire contrastato,
ingiustamente negato.
Ecco allora il colore steso con la violenza del grido di sofferenza e dolore,
il trascorrere dei fotogrammi del vissuto custodito nella memoria in punto di
morte, i paesaggi degli aperti spazi azzurri dei cieli e dei mari, i colori ocra
dei deserti e quelli argentei delle spiagge
che si librano nell’aria come desideri di
coscienze finalmente liberate dalle catene e dall’oppressione del peso dell’ottusità e dell’egoismo cieco.
Nel 2008 realizza per la Cappella della
Chiesa di Sant’Anna di Piove di Sacco
(PD), l’altare e il leggio ed in seguito la
parete absidale della stessa parrocchiale
con un dipinto di 5x12 metri.
L’anno seguente è chiamata, assieme ad
altri 9 incisori padovani, a rappresentare
l’Italia alla VI Biennale di Incisione di
Novosibirsk, in Russia, e poi a Guernica, in Spagna, presenta con gli artisti di
Atelier Aperto il libro e la mostra “Venezia e le feste”.
Il respiro ampio del colore si espande
come un’irradiazione di energia o si liquefa nel calore della voce più accorata;
i veli si discostano, le nebbie di addensano o si diradano per proteggere o per
mostrare la nostra nudità: siamo l’unità
riflessa nella molteplicità, l’umanità negli uomini.”.
SCOGLI DI ACQUA E DI LAME | 2015
Olio e collage su tela
cm 100 x 70
Nata a Cittadella (PD) nel 1967, dopo il diploma di scuola superiore, Debora Antonelli si specializza nell’insegnamento per soggetti con disturbi
psicofisici e lavora quindi nella scuola
frequentando contemporaneamente lo
studio del padre pittore. Nel 1992 lascia
l’insegnamento e inizia a lavorare a tempo pieno in ambito artistico prevalentemente su tecniche pittoriche, grafiche e
su oggetti d’arte.
Alla Scuola Internazionale di Grafica
di Venezia partecipa ai corsi di Pittura
Astratta e, dal 2001 frequenta regolarmente l’Atelier Aperto di Venezia, dove
sperimenta varie tecniche incisorie sotto
la guida di Nicola Sene. Ha partecipato ai vari seminari tenuti da Rina Riva,
Riccardo Licata, Elias Garcia Benavi[ 54 ]
Nel settembre è invitata dall’Istituto di
cultura italo-tedesco di Braunschweig,
in Bassa Sassonia, ad allestire una personale presso la Volkshochschule e a
tenere un workshop di incisione presso la scuola italo-tedesca di Wolfsburg
(Germania). Nel novembre presenta una
personale di grafica alla galleria Venezia
Viva (Venezia).
DESERTI 3 | 2015
Olio e collage su tela
cm 40 x 40
Nel 2010 e nel 2012, 2013 ha esposto e tenuto alcuni workshop a Tokyo
e invitata al Prints Tokyo 2012, presso il
Metropolitan Museum di Tokyo. Membro dal 2013 dell’Associazione Incisori
Contemporanei, insegna tecniche sperimentali pittoriche all’Accademia Aperta
di Cittadella.
Debora Antonello
vive e lavora tra Cittadella (PD) e Venezia
www.deboraantonello.com
DESERTI 2 | 2015
Olio e collage su tela
cm 40 x 40
[ 55 ]
Di fronte a questo cambio di rotta sorge la curiosità di capire
il percorso, il motivo che lo ha condotto in questa direzione.
C’è un legame tra queste tematiche apparentemente lontane? E
l’idea di riutilizzare nelle opere ciò che gli altri hanno scartato,
interpretandolo come risorsa da inglobare e trasformare come
parte integrante dell’opera, assume significato al di là dell’intenzionalità estetica?
L’utilizzo di “materiali di riciclo” pone in evidenza un tema
più volte trattato nella storia dell’arte contemporanea attraverso
approcci e motivazioni anche molto diversi tra loro. L’idea della
trasformazione, del riuso e del recupero può acquisire significati
intrinseci che partono dalla volontà di conservare e dare nuova
vita a cose che hanno concluso il loro ciclo, fino a variazioni di
significato più profonde.
Può assumere il valore di contestazione verso la società della
sovrapproduzione dove ogni cosa, comprese le idee, sono concepite nel modo “usa e getta”, oppure diventare “memoria”: vecchi
oggetti e immagini vengono recuperati perché ciascuno di loro
conserva le tracce del passato di chi li ha posseduti o in senso
più lato dell’umanità che li ha creati (come ad esempio gli objet
trouvè).
Inoltre la ripresa di immagini tratte dalla carta stampata e dalla pubblicità può riferirsi anche al senso di reportage urbano,
come nel famoso caso dei cartelli pubblicitari strappati di Rotella e Hains: i cartelli pubblicitari sono un aspetto transitorio ma
importante del paesaggio cittadino, vengono infatti riproposti
come effimeri e scaduti perché dietro a tutto ciò coesiste l’allusione del rapido mutare del volto della città.
In ciascuna di queste varianti (solo alcuni tra i mille volti del-
ZOE’ | 2014
Tecnica mista su tela
cm 94 x 72
Ore 5 | 2012
Tecniche sperimentali
cm 72 x 93
Luciano Gasparin
Tr a m a t e r i a e f o r m a
E r i k a F e r r e tt o
O
sservando le opere di Luciano Gasparin ci si rende conto della varietà di soggetti e tecniche messa in campo dall’artista.
Da una produzione prettamente figurativa, dove protagonista è “l’uomo”, ripreso come in un'istantanea che lo blocca di
scorcio o intento in un gesto e in un attimo significativi, egli passa a rappresentazioni sempre meno figurative e sempre più incentrate
sul gusto per l'indagine materica e la sperimentazione di varie tecniche.
É come se prendesse il sopravvento un'intenzionalità operativa fatta di esuberanze materiche, pittura tradizionale e accostamenti di
immagini fotografiche, lacerti di riviste e giornali fino a oggetti della vita quotidiana (come nell’installazione Riflessione 2015, dove
sedie dipinte di un brillante blu Klein compongono l’opera che per ora rimane un unicum nella produzione di Gasparin, maggiormente
concentrato sul riutilizzo di immagini e carta stampata).
[ 56 ]
Dress Home | 2014
Tecnica mista su tela
cm 94 x 72
Decomposizione floreale | 2012
Tecniche sperimentali
cm 72 x 93
[ 57 ]
la “poetica del riciclo”) è ravvisabile la
predominanza della materia rispetto alla forma, che ha portato, talvolta, a una
volontà di demistificazione della pittura,
nel senso tradizionale del termine, quale
mezzo rappresentativo primario.
Analizzando l’aspetto estetico si può
affermare che oggi la varietà di mezzi,
compreso l’impiego ormai conclamato
di elementi estranei all’arte, permette
l’utilizzo simultaneo di più tecniche che
diventano interscambiabili e paritarie;
nessuna prevale sulle altre perché tutte
concorrono alla finalità espressiva dell’opera. Si avvia così un fecondo dialogo
tra la pennellata gestuale e l’immagine
meccanicamente riprodotta, tra il lavoro
dell’artista e oggetti di uso comune.
modo disomogeneo così da creare un effetto simile a una combustione. I tronchi stilizzati di queste alberature sono realizzati
con carta di giornale e collage creando un ideale contrasto tra la
tematica legata al mondo naturale e la sua realizzazione tramite
materiale di scarto.
Se nelle opere appena descritte è ancora riconoscibile il soggetto, in Foresta 2015 scompare del tutto, lacerti della carta
stampata e porzioni di colore conformano lo spazio, si annulla
la forma ma permane un pittoricismo reso attraverso materiali
alternativi.
E’ chiaro che l’innesto sulla tela di materiali diversi dal colore, permette di ottenere determinati effetti cromatici e formali,
evidenziando un fine prevalentemente estetico che non esclude
l’interesse verso ciò che altrimenti avrebbe concluso la sua utilità. Non a caso Gasparin utilizza la carta dei quotidiani nei quali
la parola scritta viene, sia pur in lacerti non più leggibili, lasciata
in evidenza quasi a riprova del nuovo “effetto” che può assumere.
Compaiono in Dress Home come in Vita immagini in bianco
e nero tratte da vecchie riviste, esse non vengono alterate ma
semplicemente posizionate un po’ defilate lungo i bordi come
vecchie foto di famiglia.
La loro discreta monocromia contrasta con l’elemento pittorico
centrale dai colori accesi e ridondanti, paradossalmente proprio
questo contrasto sembra accentuare la curiosità e l’attenzione
verso quelle immagini di personaggi d’altri tempi ridandogli vita.
Luciano Gasparin
In questo inconsueto sposalizio ha lasciato un segno indelebile, già negli anni
’50, Rauschenberg con i suoi Combines
paintings. Questa sovrapposizione e
mescolanza rispecchia il carattere della
società attuale abituata alla varietà delle
fonti dalle quali poter trarre le proprie
informazioni e alla ridondanza iconica
che proviene dai media; in questo contesto l’arte può assumere atteggiamenti
diversi ma certamente non può rimanere
indifferente.
vive e lavora a Thiene ( VI)
www.lucianogasparin.com
In Gasparin si ritrova un costante interesse, mai declinato, verso la materia
pittorica che rimane l’essenziale “collante” anche quando accanto ad essa
compaiono nuovi materiali e presenze,
e anche quando procede verso una graduale astrazione. La forma intesa come
rappresentazione del reale non scompare mai del tutto, é sempre riconoscibile
dentro gli strati della materia come nella
serie Esplorazioni dove alberi, tronchi e
foreste si ritrovano stilizzati, accennati e
colti nell'essenza.
Alberi d’inverno, alberi d’estate e d’autunno sono una rivisitazione del medesimo tema nel quale la cupa chioma degli alberi è resa attraverso una corposa
materia che a prima vista appare come
materiale bruciato. Di fatto quest’ultima
è il risultato di una sperimentazione: un
agglomerato di colla, gesso ed altri materiali che esiccandosi molto lentamente permettono al colore di penetrare in
Bosco d’estate | 2012
Acrilico su tela
cm 57 x 59
Rovi nel vento | 2015
Tecnica mista su tela
cm 90 x 90
[ 58 ]
Controccorrente | 2009
Olio e collage
cm 80 x 110
[ 59 ]
TRITTICO NERO | 2012
Semirefrattario marrone lavorato a lastra
cm 18 x 33
Cesare Sartori
Ceramica come laboratorio di vita
G i ova n n a G r o s s at o
foto di
A
entrare nel suo ampio studio-museo che condivide
con la vigorosa e creativa figlia Vania, che si occupa
su più fronti dei vari aspetti del laboratorio di famiglia, oltre
che delle proprie ceramiche, ci si trova a ripercorrere la storia di
una vita. Vita artisticamente assai ricca, che inizia precoce nei
primi anni Cinquanta, assieme a numerosi altri artisti, locali e
non: lunghi anni in una stagione culturalmente e politicamente
importante e assai vivace. In questa officina permanentemente
in attività, in cui nascono idee, progetti, schizzi, in cui i forni
cuociono opere ceramiche anche per altri artisti, ad ogni ora si
trovano ospiti di vario genere e a vario titolo: giovani aspiranti
ceramisti e adulti appassionati che si aggirano nei locali ingom[ 60 ]
F a b i o B a gg i o
bri di bozzetti, disegni, progetti per grandi pannelli, foto di realizzazioni che attualmente appartengono – allocate in musei
di tutto il mondo, in luoghi pubblici e chiese – alla storia della
ceramica novese e italiana. Molte sono anche le “presenze” umane non fisiche, altrettanto consistenti e molteplici: quella della
moglie Maddalena, anche lei raffinata decoratrice e provenente
da una antica famiglia di ceramisti, sposata nel 1960. Del giorno
del loro matrimonio Cesare conserva qui un pannello di cui le
fece dono in quella circostanza e che raffigura due sposi all’altare. Poi ci sono gli amici – anche loro scomparsi - con cui ha
condiviso passioni e idee, committenti sensibili o difficili. Tra i
nuovissimi disegni - appuntati con spilli e scotch su ogni super-
ALBERI COMBUSTI | 2001
Semirefrattario lavorato a lastra
h 160 x 8 cm
TORRE | 2006
Semirefrattario a lastre sovrapposte
h 160 cm
ficie verticale libera - si affacciano vecchie foto di Pompeo Pianezzola, di Federico Bonaldi che spesso arrivava in studio di buonora con
la scusa di cuocere nei forni di Sartori le sue sculture, ma specialmente per riprendere ragionamenti sull’arte interrotti il giorno prima o
per essere invitato alla loro tavola per una pastasciutta improvvisata ma ricca di chiacchiere sul mondo in cui entrambi erano impegnati.
Cesare nasce, ultimo di otto fratelli, il 16 marzo 1930 a Nove, paese da cui non si è mai allontanato per lungo tempo, pure avendo visto
il mondo da questo osservatorio privilegiato in cui sono state create ceramiche tra le più belle e da cui è riuscito a presidiare, nonostante
la marginalità del luogo, qualsiasi evento nel mondo dell’arte. Gli raccontavo, poco tempo fa, degli azulejos che avevo ammirato al museo di Lisbona, brani antichi del mondo incantato della terracotta invetriata e lui, guardandomi con i suoi azzurrissimi occhi sornioni
da ragazzo, mi faceva capire di conoscere assai bene il soggetto…
Adolescente, la sua famiglia lo fece frequentare la locale Scuola d’Arte, con il magistero dei due ceramisti Andrea Parini (di Caltagirone) e Giovanni Petucco (novese). Nel contempo Cesare lavorava presso alcune fabbriche locali di cristallina e poi, con l’amico Federico
Bonaldi, prosegue gli studi presso l’istituto d’Arte dei Carmini di Venezia dove, nel 1954, si diploma. A Venezia incontrerà anche Carlo
Scarpa e i vetrai muranesi, Emilio Vedova e l’avanguardia dell’arte informale italiana; rapporti che non saranno ininfluenti nella sua
[ 61 ]
FAGLIA | 2008
Terraglia lavorata su blocco
cm 60 x 15
FAGLIA | 2008
Terraglia lavorata su blocco
cm 37 x 15
poetica, come pure la frequenza, in Accademia, alle lezioni di
nudo e di composizione pittorica. Tutte esperienze che emergono, fortemente trasformate dalla sua personale visione del mondo pittorico e formale, già a partire dagli anni Cinquanta. E’
infatti questo il momento in cui egli inizia ad affermare un suo
stile e una predilezione per alcuni temi che saranno poi ricorrenti, legati ad una quotidianità semplice ma trasfigurata dalla
sua fantasia vivace con un linguaggio incisivo e a volte espressionista, in cui il segno si impone spesso a discapito del colore.
Figure, ritratti, scene di vita, animali e vegetali, tutto si reifica
nel duttile materiale plastico in cui Sartori mette in scena il suo
teatro del mondo. Un radicato spirito laico non gli impedisce di
realizzare molti grandi lavori con soggetti religiosi su commissioni chiesastiche, come per il cimitero di Nove, dove elabora il
portale e il cenotafio e dove, per la cappella Michelon, realizza
grandi porte monolitiche in materiale refrattario, mentre per la
chiesa dell’Immacolata di Montecchio Maggiore (VI) compone
nel 2005 La porta dell’Angelo (di cui conserva decine di bozzetti
e schizzi che testimoniano più di un anno di ricerca), la cappella
battesimale, una cappella Mariana e una Via Crucis, come pure
per la chiesa della Madonna degli Immagrati di Berna.
FONTE BATTESIMALE | 2005
Chiesa dei Padri Giuseppini a Montecchio Maggiore (VI)
32 mq
[ 62 ]
Altri soggetti stimolano ugualmente la sua fantasia, come I
racconti del Brenta, elaborati per il ristorante Contarini, o La
porta Federico Fellini, omaggio a un grande regista che “non aveva paura di sbagliare”, in cui le due F del monogramma sembrano occhi che guardano il mondo con la stessa libertà di visione dei due uccelli in volo che li circondano. Oltre alle lastre
smarginate che contengono oscuri crittogrammi, alle formelle
dalla narratività fluente, ai ritratti, ai vasi, gli alberi sono uno
dei temi prediletti che ancora dominano l’universo artistico di
Sartori, attualmente realizzati con gli sfridi della lavorazione
di altri elementi, che con le loro forme diseguali suggeriscono
tronchi e rami ma anche il meno esplicito messaggio di lasciare
sempre una porta aperta agli spunti casuali, o apparentemente
casuali, che la vita offre e alla possibilità che uno “scarto” possa
ancora diventare “opera”.
Questa attitudine di Sartori a immaginare fusioni di forme
e referenzialità di materiali e soggetti è del resto un carattere
molto radicato del suo stile, come ebbe a notare Fernando Rigon: “Non sarà mai sufficientemente sottolineato il merito di
Sartori di aver introdotto, nell’ambito della produzione novese
e bassanese della ceramica, un elemento estraneo alla ceramica
stessa come il vetro. […] Lo schema dei suoi oggetti è programmaticamente sempre uguale: un “modulo” di partenza e di base
in refrattario molto grezzo, dal colore ruvido e brutale di tinta
variabile, all’interno del quale una fusione vetrosa significa da se
stessa i più svariati accordi cromatici, inglobando conglomerati
di ceramica che suggeriscono o aggregano macchie di differenti
intensità e spessore. Sono appunto questi accordi interni a costituire la infinita indefinibile casistica di variazioni sul tema con
dei risultati che per la loro spontanea immediatezza – pur essen-
do scaturiti da una operazione virtuosistica e raffinata – ci fanno
ritornare alla “natura” dell’occhio di un insetto, del ventre di un
rettile, della squama di un pesce. Ciò accade perché il materiale
veramente continua a rimandare a se stesso, a significarsi, riassorbendo nel suo interno, e nascondendolo, l’intervento dell’uomo”. (Fernando Rigon, “Cesare Sartori”, in Ceramica Veneta,
n.4, marzo 1988). Sull’uso che Sartori fa della materia ceramica
in senso plastico, scriverà, nel 1991, anche la critica Nelida Silič
Nemec, nel testo a catalogo della Mostra di Ceramica alla Galleria Meblo di Nova Gorica (Slovenia),
Nel 2011, in occasione della tradizionale Festa della Ceramica di Nove, viene presentata nello spazio espositivo dell’Antico
Mulino Antonibon una delle più recenti personali dell’Artista,
“Cesare Sartori: un viaggio nell’arte degli Anni Cinquanta ad
oggi” in cui vengono esposti, oltre i “portali, gli “alberi”, le “faglie” e alcuni dipinti e quadri a tecnica mista, anche oggetti di
design che rappresentano un filone di ricerca molto interessante
cui il maestro novese si dedica particolarmente a partire dalla
fine degli anni Settanta, a conclusione della sua attività didattica
che era durata dal 1954 al 1978. Sono ceramiche d’uso e d’arredamento che ancora oggi “tengono”: per originalità di forma,
accuratezza di esecuzione e scelta cromatica.
CESARE SARTORI
Vive e lavora a Nove ( VI)
[email protected]
[ 63 ]
da vedere
Giulio Candussio
S pilimbergo (PN)
La Galleria - Dorothea van der Koelen
V
enezia
Alberto Lanzaretti
Quando la luce prende forma
›Towards the Future …‹
Pittore privo di retroterra accademico, si è formato a contatto con l'arte contemporanea ed ha
assimilato la coscienza artistica attraverso l'osservazione di forme e spazi, ha maturato nel corso
degli anni un equilibrato controllo del colore e
della sua espressione, artista attento ed accurato,
usa la sua arte per trasformare sogni in strutturate
geometrie che manifestano leggerezza.
Le sue opere esigono un'osservazione attenta e
approfondita che superi il primo colpo d'occhio,
che senz'altro rimane accattivato da queste originali tarsie, abilità un tempo dalla critica considerata minore ed ora presa in maggior considerazione ed attenzione grazie all’abilità di alcuni artisti,
tra cui Lanzaretti; i suoi quadri non sono solo da
vedere ma grazie anche alla particolare tecnica
utilizzata, si possono anche toccare, leggere con le
dita come in una specie di "lettura Braille".
Da anni nel panorama artistico nazionale, si
propone con lavori la cui elaborata esecuzione
è il risultato di: manualità, armonia e fantasia.
Nella ultime creazioni usa i minerali per dare
vita a opere che omaggino la natura, partendo
dalla pietra sviluppa il vincolo sentimentale con la
natura in modo che sia la gemma stessa la principale protagonista, osservando la pietra coglie la
visione per espandere intorno ad essa il colore, la
struttura e la forma dell' opera.
L'idea è nata dalle fotografie delle miniere
dismesse, ha visto i disegni e i colori delle terrazze
che penetravano la terra, uno spettacolo che ha
tradotto in una realtà fatta di legni laccati.
Un artista che riflette sulla propria identità, non
può fare a meno, negli anni della consapevolezza,
di guardarsi attorno e mettere la sua immagine
in relazione con quella di altri artisti. L’arte che
uno ha cercato di fare credendosi solo, diventa
un punto in una ”mappa” circondato qua e là da
altri punti che corrispondono ad altri artisti. Così
diventa più chiara e inevitabile la valutazione di
quello che abbiamo fatto.. La nostra coscienza ci
impone di accettare la nostra dimensione vera che
è quella di una piccola tessera in un grande mosaico, dentro il quale ci siamo inseriti per tendenza
naturale o per volontà, in una zona che non ci sarà
consentito cambiare. Senza saperlo, eravamo come
siamo adesso, parte di un “insieme” più grande, di
un repertorio linguistico o estetico, che coincide
con l’arte di questo secolo.
Nel fare pittura, ho cercato sempre di mettere a
confronto il rapporto tra le molteplici, esperienze
pittoriche e le avanzate tematiche che sfiorano
i diversi codici simbolici della luce e del colore,
cercando di costruire dei valori linguistici ed
estetici nell’ ambito della tradizione europea dell’
astrattismo.. Non seguendo le mode, ho cercato
di portare avanti da molti anni, una concezione
dell’arte come disciplina della forma, come analisi
poetica delle strutture linguistiche della percezione, fondata sui reciproci rapporti di colore, luce
spazio e movimento.
Credo che l’estetica sia un’ aspirazione umana e
che questo termine debba tornare ad arricchire
le nostre esperienze di vita e di cultura. L’uomo
contemporaneo, ha bisogno di ritrovare la vita
percettiva e fantastica, è sempre più alienato da
una civiltà sfrenatamente tecnologica, artificiale
e inquinata. Le pitture che danno “figura” alla
luce sono comparabili a sorgenti di energia che
emettono “radiazioni” trasmettendo un messaggio
vitale e ottimistico.
Partecipano all'esposizione rinomati artisti
internazionali: l'installazione After Here and
There di Lawrence Weiner è pars pro toto per
l'intera esposizione; il noto artista francese Daniel
Buren presenta l'opera in vetro 12 B 5 (violet)
appartenente alla famosa serie Cadre Décadré del
2006; Mohammed Kazem (che ha rappresentato
gli Emirati Arabi durante la 55. Biennale) espone
l'opera in alluminio Fixing Nothing, personale
riflessione sulla non funzionalità dell'arte; Fabrizio Plessi è presente con uno dei suoi celebri disegni-progetto dedicato a La Barca, una delle sue
più rinomate video-sculture.
In esposizione si trova anche l'opera su tela
Blanc dell'artista austriaco Heinz Gappmayr,
noto rappresentante della poesia visiva. L'artista
tedesca Lore Bert presenta invece uno dei suoi
grandi lavori in carta di color magenta, segnale
di luminosa positività per l'avvenire. Partecipano
alla mostra anche l'artista tedesca Vera Röhm, il
giapponese Kisho Mukaiyama, l'artista austriaco Hellmut Bruch e l'artista belga Arne Quinze.
All'interno della Galleria è inoltre possibile
visitare lo studio dell'artista Lore Bert e ammirare
alcune delle sue nuove splendide opere in carta
giapponese e foglia d'oro.
L'artista, già protagonista con i suoi preziosi lavori
dell'evento collaterale Art & Knowledge (highlight della 55. Biennale d'Arte) presso la Biblioteca
Marciana, quest'anno partecipa anche alla collettiva Personal Structures - Crossing Borders
allestita a Palazzo Bembo sempre in occasione
della Biennale.
Per tutta la durata dell'esposizione La Galleria
accoglie inoltre gruppi di visitatori, su appuntamento, offrendo la possibilità di prendere un aperitivo nel giardino e di godere del piacere dell'arte
in un'evocativa atmosfera veneziana.
Thiene (VI)
Manuela Bedeschi
Lonigo (VI)
Tobia Ravà
Venezia
Museo del Paesaggio
T orre di Mosto (VE)
“CODICI TRASCENDENTALI“ a Trieste
Villa Pisani Bonetti ospita un evento correlato
all’ XI Festival Biblico dal titolo ‘Custodire il
Creato, coltivare l’Umano’ in cui sei artisti interpretano il tema di quest’anno : Manuela Bedeschi
propone una installazione inedita in cui mescola
ad elementi naturali opere precedenti dedicate all’iconografia religiosa; Mats Bergquist usa
la modernità del monocromo all’antica tecnica
dell’encausto su legno per parlare di infinito;
Giuliano Dal Molin espone opere su legno dipinte a tecnica mista sulle quali la contrapposizione
netta dei colori riprende il movimento vitale della
natura; Manlio Onorato allestisce una installazione che unisce delicati acquerelli dedicati ai colori
dei giardini fioriti e poesie di Francesca Ruth
Brandes; Gino Prandina presenta opere a tecnica mista dedicate al tema delle Quattro Stagioni;
Fulvio Testa dipinge il deserto in oli ed acquerelli. Dal catalogo : ‘’…Si riconosce in Manuela
Bedeschi l’afflato di una spiritualità mossa dalla
natura e riflessa nell’arte, che risalta in alcune
travi recuperate e dalle immagini del Sacro Cuore
di Gesù trafitto da uno stiletto, illuminati soffusamente da una rossa luce neon, tale da trasformare
lo spazio circoscritto in un luogo votato al sacro.
Nell’installazione dal titolo Il Bosco e l’anima, le
travi di legno recuperano la memoria della natura
e custodiscono la presenza discreta e ripetitiva del
santino in legame con un’oscura chiesa dipinta
su uno sfondo rosso… In unità con questo spirito anche la musica, di sottofondo conduce con il
suono e il suo ritmo ai rapporti interni di un’installazione, che suggerisce per la dimensione
spirituale di non avere confini….’’
Maria Lucia Ferraguti
Tobia Ravà con la sua arte numerica ci trasporta
in un mondo surreale, dove un fitto intreccio di
numeri e lettere ebraiche danzano sulla musica
della ghematrià, creando significative composizioni pittoriche. Le forme che l’artista riesce a
comporre con i suoi numeri sono le più svariate, tra queste ve ne sono alcune ricorrenti nella
sua poetica, come i vortici trascinanti, e delicate vedute di Venezia, i boschi matematici e
gli animali che popolano il suo fantastico parco
kabalistico. Queste opere a cui è facile avvicinarsi
per la loro bellezza e per l’impatto emotivo che
suscitano, lasciano subito intendere la profondità
del loro significato, come un invito che l’artista
rivolge allo spettatore ad addentrarsi nella decifrazione dell’opera. Attraverso la ghematrià ci si
avvicina ad un percorso di decriptazione dell’opera che porta alla scoperta della mistica ebraica e
allo stesso tempo ci fa’ riscoprire parole del nostro
linguaggio, mostrandone il significato più vero e
profondo. I suoi dipinti svelano nuovi aspetti di
concetti e valori universali, quali amore, speranza,
gioia, ed esprimono una incrollabile e sconfinata fede nella riqualificazione dell’uomo. Le sue
opere da un lato possiedono una bellezza che si
può apprezzare nell’immediato, dall’altro diventano validi strumenti per elevarsi spiritualmente
nella comprensione di noi stessi e del creato. Ma
come afferma lo stesso artista, non è necessario
comprendere tutti i percorsi di senso che compongono l’opera, l’importante è creare una piccola
breccia nell’animo delle persone. In particolare le
opere esposte alla sede dell’Università Popolare di
Trieste - dal 6 settembre al 6 ottobre - fanno parte
di un ciclo poetico in cui l’artista concentra il suo
interesse sull’uomo, sul mistero della creazione e
sull’essenza della vita.
Alice Toffolo
Il Museo del Paesaggio di Torre di Mosto è
stato inaugurato nel 2008. Da allora sono state
organizzate 25 esposizioni d’arte con catalogo;
una parte, di carattere storico, è stata indirizzata al tema del Paesaggio nella pittura veneta del
primo novecento; dal 2010 abbiamo attivato una
sezione del Contemporaneo che indaga le ricerche
spaziali e paesaggistiche a partire dagli anni ’60
ad oggi, in un dialogo continuo tra artisti veneti e
artisti, movimenti e ricerche nazionali.
Il Museo ha una propria collezione sull’arte del
novecento veneto e contemporanea, frutto di
donazioni e di comodati con Istituti culturali e
collezionisti privati.
Nel suo sito, oltre all’informazione sulle mostre
e cataloghi on line sulla sua passata attività, è in
corso di costruzione un archivio di opere e artisti
del novecento veneto.
Dal 2013 è sede dell’Osservatorio della Bonifica del Veneto Orientale, collegato alla rete
degli osservatori di paesaggio della Regione del
Veneto. Dallo scorso anno è stata attivata una
nuova sezione riguardante il cinema del paesaggio
e un’intensa attività seminariale e workshop. Le
iniziative svolte, assieme alle pubblicazioni critiche e storiche che le hanno accompagnate, hanno
l’obiettivo di creare una diffusa cultura del paesaggio a fini culturali e turistici.
Essa è tanto più necessaria oggi, nel tempo della
crisi contemporanea del rapporto tra uomo e
natura e, per quanto riguarda l’Italia e il Veneto,
crisi della relazione con la propria identità e
valenza storica che ha prodotto sul tema del
paesaggio alcune delle più significative esperienze dell’occidente, sia nel campo pittorico che in
quello architettonico e urbanistico.
A iniziare da settembre e per l’intero 2016 sarà
sviluppata una serie di mostre tematiche intorno ai “paesaggi” nelle arti (poesia e musica) e di
mostre monografiche tra le quali una grande antologica su Gianquinto.
Giulio Candussio
La Galleria di Dorothea van der Koelen
Alberto Lanzaretti
Manuela Bedeschi
Tobia Ravà
Museo del Paesaggio di Torre di Mosto
vive e lavora a Spilimbergo (PN)
www.giuliocandussio.com
San Marco 2566, 30124 Venezia
Tel. +39 041 5207415
e-mail: [email protected]
www.galerie.vanderkoelen.de
vive e lavora a Thiene (VI)
www.lanzarettialberto.it
vive e lavora a Lonigo (VI)
[email protected]
vive e lavora tra Venezia e Mirano
www.tobiarava.com
Località Boccafossa, 30020 Torre di Mosto (VE)
www.museodelpaesaggio.ve.it
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Nelio Sonego
C
oncordia Sagittaria (VE)
Silvia Martignago
As
olo (TV)
Raffaella Guarnieri
B
assano del Grappa (VI)
IDA HARM
P
adova
i “quadripoesia” di Carlo Invernizzi e
Nelio Sonego
Trascendere la realtà per creare emozioni allo stato puro
Gioielli in viaggio
Gli alberi D
I lettori di AREAARTE hanno già conosciuto
la ricerca di Nelio Sonego, a cui è stato dedicato
un articolo nel numero 161. Non conoscono forse
un altro aspetto del suo lavoro, che ha sempre
affiancato la produzione pittorica: il rapporto con
la poesia. Già a partire dai primi anni ‘80 Sonego
si è infatti dedicato al libro d’artista, collaborando
con l’editrice romana Orolontano2. Ai primi anni
‘90 risale l’incontro con il poeta Carlo Invernizzi,
con il quale Sonego condivide una comunanza di
visione, sancita dalla firma del manifesto Tromboloide e disquarciata. Natura Naturans3. “L’uomo
per la sua costituzione fisica è parte intrinseca
della Natura Naturans” recita l’incipit del manifesto. Anche l’uomo dunque non è altro che un
insieme di particelle subatomiche in continuo
divenire, parte di quella Natura naturans che di
continuo crea, trasforma e distrugge.
In questa radicale “finitudine” “l’arte – scrive
ancora Invernizzi – è ansia noetica dell’uomo
in disquarcio del tuttonulla”: ansia di attingere
al sostrato immenso e totale del mondo in cui
ognuno è compreso. È allora che, nell’“infondo
senza fondo precipiti”, il buio si fa “buioluce”,
compartecipazione vitale all’energia del Tutto. Ed
è quest’energia che accomuna la poesia di Invernizzi – così tesa, ardua, intrisa di neologismi – e
il segno di Sonego, guizzante oltre la soglia del
visibile. È quest’energia che ha trovato compiuta
espressione in una serie di lavori a quattro mani
che potrebbero definirsi “quadripoesia”: bianche
tele che ospitano, in una libera partitura, il segno
scritto e il segno visivo, il nero e il colore, gli
“idiolemmi sempre elusivi” di Sonego e la parola
rivelante, epifanica e liberatrice di Invernizzi.
Il confronto con i dipinti di Silvia Martignago
ci costringe da subito ad una visione ricca di colori
di grande intensità e ricchezza di tonalità che,
però, non ci impedisce di cogliere quel carattere
che la contraddistingue: l’essere, cioè, un’artista
che si è totalmente persa nelle profonde ascendenze dell’arte di queste terre venete.
È profondamente convinta che sia possibile esprimere sé stessa nella totalità, perché il supporto
su cui colloca il suo pensiero e la sua azione ha la
necessità di poter dire la “verità”, tutta la verità
del suo animo. Così, come avviene anche per le
altre espressioni dell’agire umano, l’arte di Silvia
Martignago ha un compito fondamentale, quello
di saper emozionare e trasmettere un messaggio
ricco di positività.
Ciò che conta per l’arte è il fatto che la rappresentazione susciti una determinata partecipazione,
dunque, una certa emotività e soprattutto quello
che importa è la capacità di gettare luce sulla
realtà, su quella realtà che ci passa davanti agli
occhi, che è molto spesso, opaca, quotidiana e non
percepibile. È una realtà che non sappiamo guardare, alla quale siamo abituati, e che l’artista ci
invita a osservare altrimenti.
Senza dimenticare che le opere d’arte parlano dei
loro autori, introducono alla conoscenza del loro
mondo interiore e rivelano l’originale contributo
da essi offerto alla ‘storia della cultura’. Lo stesso
modo è utilizzato da Silvia Martignago la cui arte
è in un certo senso una metafora della vita e, nel
contempo, una sorta di strategia verso la ricerca
della sua finitezza. Il suo dipingere è una sorta di
‘viaggio’ mentale, molto creativo, alle volte coinvolgente, è un mondo curioso, che ci avvicina alla
ricchezza di un universo profondamente pregno di
convinzioni.
Mario Guderzo
Sono una viaggiatrice curiosa. Curiosa della
gente che incontro nei miei viaggi, delle storie
che le persone sanno raccontare anche solo con
uno sguardo. La mia curiosità attraversa non solo
paesi diversi, ma anche materiali e tecniche diverse, che in qualche modo cerco di conoscere ed
imparare. Le mie creazioni nascono da qualche
cosa che mi emoziona e questa emozione spero
passi, attraverso le mie opere, a chi le osserva o le
indossa. Collezione “ Sounds and Movements” In
ogni viaggio ho raccolto alcuni sassi, quelli che
più mi colpivano per forme e sensazione tattile.
Un giorno, guardandoli, ho pensato di dar loro
una vita. Da qui è nata l’idea di utilizzarli per i
gioielli. Ho cominciato da un anello, mettendo al
centro un bellissimo sasso che sembrava disegnato
per quanto era stato lavorato dal tempo. In ogni
mio gioiello i sassi sono mobili per contrapporre la
pesantezza alla leggerezza e, muovendosi, suonano. Mi piace il concetto che il sasso, attraverso i
movimenti del nostro corpo, possa ricordarci la
sua presenza, quasi fosse “vivo”. Per evidenziare
la sensazione di leggerezza, ho abbinato, all’argento e ai sassi, filati preziosi come la seta grezza
e il lino”. Collezione “ The hidden side” i gioielli
si ispirano alle geometrie, all’architettura e alle
luci ed ombre della fotografia. Il punto di rosso
serve per rompere le geometrie, per creare imperfezione, per distrarre lo sguardo. I gioielli di “ the
hidden side” esprimono qualcosa che sento molto
vicino a me, c’è in essi una parte nascosta ma
contemporaneamente quella che osa, sperimenta, esprime, a volte provoca. Ci sono finestre, ci
sono tagli nel metallo, ci sono linee che rompono,
per invitare lo sguardo a non fermarsi, ad andare
oltre, ad incuriosirsi.
Italo Bressan
T
rento
Lucio Perin
T rieste
Fotografia e colore, fotografia e bianco e nero,
questo è il tema apparentemente semplice, in
realtà complesso e ricco d’implicazioni, che
affronta Lucio Perini.
Forse.
Quale rapporto fra sensi e fotografia, sembra chiedersi l’autore?
Labile, inesistente, congelato dal mezzo ormai
tecnologico, digitale?
Nonostante l’uso spregiudicato quanto sofisticato
del mezzo e degli effetti che consente, questo rapporto è intenso nella resa fotografica di Perini, che
sente la nostalgia della carta, della sua texture, il
profumo dell’inchiostro, il rimpianto dell’oggetto
reale e della sua concretezza.
Il richiamo del corpo, dei corpi veri.
Le sue immagini sono sinestesiche, alludono a
combinazioni di sensi che trovano nel colore un
“correlativo oggettivo” potente, in grado di trasmettere emotività.
Quell’emotività che all’artista, di formazione
accademica, allievo di Bruno Saetti, Carmelo
Zotti e Italo Zannier, piace, poiché gli consente
di attivare un rapporto diretto con la vita nella sua
pulsazione, gli prospetta la possibilità di lasciarsi
vincere e vivere dall’emozione, dall’altro da sé.
Lasciarsi vivere significa uscire dalla fragilità
della dimensione virtuale dello scatto in bianco
e nero per rielaborarlo e vivificarlo attraverso il
colore: un colore violento, frutto di solarizzazioni
e bruciature, che paradossalmente nella sua antireferenzialità tecnologica si associa a sensazioni
fisiche o psichiche: il colore della pittura prestato
alla fotografia.
Più impressionista che espressionista, se vale il
“lasciarsi vivere” di fondo.
Più espressionista che impressionista, se vale il
work in progress dello scavo analitico, dell’apporto di correttivi e ripensamenti continui che Lucio
definisce “dolorosi”. Dolorosi, e perciò veri.
Ida Harm inizia il suo viaggio artistico fra gli
alberi 15 anni fa. I primi lavori, simbolici, essenziali, dai colori della terra, si fanno via via ricchi
di pigmenti e pennellate di ispirazione impressionista ma dal taglio fotografico.
Il focus dei
suoi dipinti e l'amore per i grandi alberi secolari rimane immutato nel tempo ma la Harm sa
declinare in vari modi i suoi soggetti, sempre alla
ricerca di nuovi significati, e nuovo stupore per
questi viventi.
Dagli alberi solitari delle brughiere Irlandesi, agli
alberi da frutto dei giardini antichi, all'infanzia
che gioca sull'albero, alle panchine dei parchi
dove meditare. Il tutto profuma di corteccia, di
foglie verdi e linfatiche; il tutto risuona di uccelli, stormisce al vento, si rigenera nei chiari scuri
delle fronde sulla terra. E' proprio la luce, che la
Harm sa dare ai suoi dipinti, che colpisce.
Le pennellate puntuali, quasi a scomporre i colori,
fanno vibrare la tela restituendo l'impressione di
trovarsi davanti ad una finestra aperta su un fresco
giardino.
Altro cardine dei suoi lavori è rappresentato dalla
parola scritta che rinforza il messaggio, che dona
all'opera il suo spirito. Come un dio che soffia il
suo Verbo sulle cose per donare la vita, anche i
testi di poeti, filosofi, pensatori arricchiscono le
tele di parole sussurrate, mai del tutto svelate Così come è la bellezza- dice l'artista Veneziana.
A Marzo 2015 è uscito il libro/catalogo di questo
suo viaggio personale con gli alberi introdotto da
T. Fratus.
Di carta reciclata, pasta legno e lana, Back to the
Roots è un alber-alogo che arriva alle radici della
poetica della Harm accompagnato da riflessioni,
aneddoti, fotografie, schizzi dell'autrice e tutto
ciò che restituisce un ritratto completo di questa
pittrice degli alberi.
La ricerca di Italo Bressan è tesa ad indagare gli
elementi fondamentali del linguaggio pittorico:
la forma e il colore che si articolano nello spazio
dell’opera come energie espressive dinamiche
sperimentate nelle loro infinite possibilità dall’impeto emotivo e dalla tensione mentale dell’artista.
Il gesto vigoroso genera pennellate energiche
e vitali, le stesure di colore per sovrapposizione creano un senso profondo di trasparenza e
sospensione. Quella di Bressan è una pittura di
luce capace di produrre variazioni cromatiche di
grande vivacità. La complessità del suo pensiero
si struttura nei mutamenti dell’impianto formale e dei supporti: vetri, tele, tavole, carte, sono
dotate di una loro particolare sensibilità e rendono
ancora più articolato il rapporto con lo spazio del
quadro. Parte della sua più recente produzione
riflette sul concetto di luce e ombra, viste ora da
una particolare angolazione; le opere si configurano come pagine in cui il segno originario si
dispone secondo un preciso ordine ritmico stabilito dall’autore.
Per queste opere utilizza un materiale organico
come il carbone che rilascia granelli di polvere.
Questo ciclo di lavori scaturisce in particolare
dall’osservazione delle iscrizioni lapidee di cui
conserva il sapore effimero di tracce, prove dello
scorrere del tempo.
Nelio Sonego
Silvia Martignago
Raffaella Guarnieri
Ida Harm
Italo Bressan
Lucio Perini
vive e lavora a Concordia Sagittaria (VE)
[email protected]
vive e lavora ad Asolo (TV)
www.silviamartignago.it
vive e lavora a Bassano del Grappa (VI)
www. raffaellaguarnieri.com
vive e lavora a Padova
www.idaharm.com
vive e lavora a Trento e Milano
www.italobressan.eu
vive e lavora a Trieste
www.lucioperini.it
[email protected]
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Galleria Civica Cavour
P
adova
Ernesto Bez
D
ueville (VI)
ABBIAMO LETTO...
“L’arte della città” di Raffaele Milani
Affinità Elettive.
Carla Rigato e Maria Pia Camporese
11 settembre - 04 ottobre 2015
Magici frutti per ogni stagione
E’ una mostra, a cura di Silvia Prelz
della Galleria ARTissima di Abano Terme (PD)
in collaborazione con l’Assessorato alla Cultura
Settore Attività Culturali del Comune di Padova,
che apre al pubblico l’11 settembre e presenta
cinquanta opere - dipinti, sculture e installazioni
- delle artiste Carla Rigato e Maria Pia Camporese. Le contraddistinguono linguaggi pittorici
molto diversi sia nella tecnica che nell’espressione.
In Carla Rigato grande vigore emotivo di getti
di colore puro sulla tela, in cui prevalgono forza
espressiva e spontaneità libera da ogni regola. In
Pia Camporese segni forti, graffiati e incisi con
colori blu, rossi o solo neri, sono promotori di
qualità terapeutiche in grado di coinvolgere chi
li osserva in una profonda riflessione esistenziale.
Linguaggi diversi uniti però dal bisogno di libertà
espressiva, dalla continua ricerca e sperimentazione artistica, da un inconscio ribelle che fa affiorare profondità altrimenti celate. Usano entrambe
con forza colori e materia da plasmare perché gli
Artisti, come suggerisce Christian Bobin, sono
dei rabdomanti o dei guaritori che ci indicano la
strada per giungere a delle vene d’acqua. Captano quello che c’è nell’aria in quel momento e lo
comunicano al mondo tramite l’immagine. Traiamo dalle loro opere modelli o ispirazioni che
fanno eco alla nostra vita in momenti decisivi.
Ernesto Bez, nato a Longarone nel 1929 si considera però vicentino d’adozione, essendo approdato a Dueville sessantacinque anni fa, per lavorare in imprese di costruzioni, a capo della squadra
di muratori che hanno ricostruito il ponte tra
Zugliano e Fara, in provincia di Vicenza, dopo
l’alluvione del 1966. Da sempre la sua passione è
la pittura che ama al pari della fisarmonica, cui si
dedica ogni giorno.
Il perfezionamento della tecnica artistica da
autodidatta Bez lo ottiene frequentando la scuola
di Otello De Maria e con una pratica tenace e
costante che dura da decenni e gli ha permesso
di rappresentare con una straordinaria precisione
iperrealista nature morte e paesaggi, suppellettili
tratte dalla realtà semplice e quotidiana che lui
ama.
Cachi, melograni, arance, zucche, pannocchie,
uva, a seconda delle stagioni, sono protagonisti
di quadri realizzati ad olio con una tecnica molto
particolare, su sfondi preparati con grande accuratezza, in modo che il colore della base si armonizzi con quello che è rappresentato sulla tela.
Oltre alla frutta, che l’artista predilige per l’intensità cromatica e che dispone su piatti, taglieri,
mensole e sgabelli, altri soggetti scrutati da Bez
con l’attenzione di un orologiaio, sono alcuni
aspetti della vita reale: paesaggi, soprattutto
agresti che gli sono più familiari e ai quali è particolarmente legato, oppure piccoli agglomerati
urbani, e suppellettili legate alla vita domestica,
oltre a strumenti musicali, in particolare il violino, e i fiori che ugualmente prestano i loro colori
intensi alle sue composizioni.
La carriera espositiva di Ernesto Bez, pur essendosi svolta eminentemente in ambito regionale,
vanta numerosi successi e l’apprezzamento di un
gran numero di collezionisti. Una personale di
suoi oli è stata recentemente allestita, dal 25 luglio
al 9 agosto 2015, negli spazi del Centro giovanile
di Dueville (VI).
Galleria Civica Cavour
Ernesto Bez
Piazza Cavour, Padova
Orari martedì - domenica
10.00-13.00 e 15.00-19.00
vive e lavora a Dueville (VI)
Via Fratelli Rosselli 15
tel. 0444 591048
[ 68 ]
Un buon saggio di Raffaele Milani, docente di
Estetica all’Università di Bologna dove dirige il
laboratorio di ricerca sulle città, L’arte della città,
si trova da qualche mese in libreria edito da il
Mulino - Saggi. In 170 pagine lo studio compendia un tema di vaste proporzioni e implicazioni in
modo tale da rendere praticabile la lettura di molti
aspetti dell’argomento “città” con una certa completezza, anche da parte di chi non sia un addetto
ai lavori. Tre capitoli scandiscono una premessa
fondamentale e cioè che, come afferma Oswald
Spengler, tutte le grandi civiltà sono state civiltà
cittadine.
La storia del mondo è, in sostanza, la storia
dell’uomo che costruisce le città. E “Il prodigio vero e proprio è la nascita dell’anima di una
città. […] da un insieme di abitazioni da villaggio, ciascuna delle quali aveva una sua storia, si
forma un tutto e questo tutto, vive, respira, cresce,
assume un volto e una forma interna, inizia un’altra storia”.
Raffaele Milani conduce questa premessa lungo
un excursus che contempla l’analisi delle città per
ciò che esse sono e per essere luogo dell’abitare, e
giunge al cuore del problema, l’esistenza di un’arte
della città che vive nelle sue manifestazioni fisiche
e immateriali, nelle pietre e nelle istituzioni, come
prodotto dell’ingegno e del lavoro umano, dell’intervento degli artisti, degli urbanisti, dei politici e
dei semplici cittadini.
Raffaele Milani è autore anche di L’arte del paesaggio (il Mulino 2001), Il paesaggio è un’avventura
(Feltrinelli, 2005), I volti della grazia. Filosofia,
arte, natura (il Mulino 2009), Paesaggi del silenzio
(Mimesis, 2014).
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ed Istituti d’Arte del Triveneto sostenuti da AREAARTE
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Liceo Artistico “Pascoli”
Bolzano (BZ)
Liceo Artistico “Walter von der Vogelweide”
Bolzano (BZ)
Liceo Artistico Merano
Merano (BZ)
Liceo Artistico “Cademia”
Ortisei (BZ)
Istituto St. d’Arte “Giuseppe Soraperra”
Pozza di Fassa (TN)
Ist. Liceo delle Arti “A.Vittoria-Bomporti-Depero”
Trento e Rovereto (TN)
Liceo Artistico “Leonardo da Vinci”
Belluno (BL)
Ist. d’Arte St. “Polo della Val Boite”
Cortina d’Ampezzo (BL)
Ist. d’Arte St. “M. Fanoli”
Cittadella (PD)
Ist. Sup. GB. Ferrari ISA “A. Corradini”
Este (PD)
Istituto d’Arte “P. Selvatico”
Padova (PD)
Liceo Artistico “A. Modigliani”
Padova (PD)
Ist. d’Arte St. “Bruno Munari”
Castelmassa (RO)
Liceo Statale “Celio -Roccati”
Rovigo (RO)
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Liceo Artistico St. Treviso
Treviso (TV)
Lic. e Ist. d’Arte “Bruno Munari”
Vittorio Veneto (TV)
Liceo Artistico St. “M. Guggenheim”
Venezia (VE))
Liceo Artistico St. Venezia
Venezia (VE)
Liceo Artistico St. “Boccioni”
Verona (VR)
Istituto St. d’Arte “G. De Fabris”
Nove (VI)
Liceo Artistico “U. Boccioni”
Valdagno (VI)
Liceo Artistico “A. Martini”
Schio (VI)
I.I.S. “Bartolomeo Montagna”
Vicenza (VI)
Istituto St. d’Arte “E. Galvani”
Cordenos (PN)
Istituto d’Arte “G. D’Annunzio”
Gorizia (GO)
Istituto St. d’Arte “E. e U. Nordio”
Trieste (TS)
Istituto St. d’Arte “G. Sello”
Udine (UD)
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AREAARTE N°23
Autunno 2015
Direttore responsabile
Giovanna Grossato
3
Il corpo dipinto. Body art di massa
Giovanna Grossato
4
Giovanni Paganin
Giovanni Testori
Redazione
Giovanna Grossato
Marcello Palminteri
Alessandro Benetti
Anna Livia Friel
Silvia Neri
Tazio Cirri
Erika Ferretto
Marco Stoppa
Martina Gecchelin
10
El Greco. Metamorfosi di un genio
16
I Cartons de Tapisserie d’Aubusson.
Arte di carta sotto l’arte di stoffa
Giovanna Grossato
20
Simon Ostan Simone. L’opera d’arte come “fatto comunicativo”
Alessandro Benetti
24
La Scuola di Mosaicisti del Friuli
Andrea Gaspari
28
Pablo Manuel Pace. Lo spostamento del senso
Tazio Cirri
Progetto grafico copertina
realizzato da
HACKATAO – Sergio Scalet e Nadia Squarci
Foto: ISFAV Istituto superiore Fotografia e Arti Visive
www.isfav.it
32
Siderforgerossi. Tra presente e futuro attraverso la tecno logia, la cultura e l’arte
38
I luoghi che parlano. Territori, culture, tecniche
nella pittura di Chester Stella
Giovanna Grossato
42
Erika Inger. Sculture in divenire
Martina Gecchelin
46
Markus Damini. Attraverso la materia
Marco Stoppa
50
Debora Antonello. Contaminazioni
56
Luciano Gasparin. Tra materia e forma
Erika Ferretto
60
Cesare Sartori. Ceramica come laboratorio di vita
Giovanna Grossato
foto di Fabio Baggio
64
Da Vedere
Testi
Giovanna Grossato
Giovanni Testori
Alessandro Benetti
Tazio Cirri
Martina Gecchelin
Marco Stoppa
Erika Ferretto
Progetto grafico
In copertina:
Federico Fellini - Podmork
Web designer
VG7
Stampa
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Via Boscalto, 27 - Z.I.
31023 Resana (TV) - Italy
Tel +39 0423 717171 r.a.- Fax +39 0423 715326 - 715191
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stampato su - printed on “GardaPAt 13KIARA”
Cartiere del Garda S.p.a. | Riva del Garda (TN)
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Martini
Via Umbria, 31
36061 Bassano del Grappa (VI)
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info@ areaarte.it
Anno 6. Numero 23
Registrazione: Tribunale di Vicenza n. 1214 del 19 gennaio 2010
Iscrizione al ROC n. 22289 del 02/05/2012
© 2010 Martini Edizioni, Thiene (VI)
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Sommario
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