N.27 data editoriale 7 luglio 2016

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N.27 data editoriale 7 luglio 2016
Fondato il 15 dicembre 1969
Settimanale
Nuova serie - Anno XL - N. 27 - 7 luglio 2016
Risultato del Referendum
La Gran Bretagna esce dalla UE.
SI’ 51,9% No 48,1%. Durissimo
colpo a alta finanza, banche e City
Cameron si è dimesso. I governanti
europei prendono misure per evitare
il tracollo della Unione e la fuga dei
popoli da essa. Per Renzi l’Europa
imperialista è “la nostra casa che va
ristrutturata”
Se vuoi abbattere il capitalismo
e il suo governo diretto dal nuovo
Mussolini Renzi
Indire il referendum
anche in Italia
PAG. 2
Prendendo a pretesto la democraticità
e la trasparenza
La Camera approva una
legge che impone la
concezione borghese del
partito, istituzionalizza i
partiti e ficca il naso dello
Stato al loro interno
Se vuoi
conquistare
il socialismo e il potere politico
da parte del proletariato
I partiti devono rimanere
Associazioni non riconosciute
PAGG. 4-5
Con la “Costituente comunista” a Bologna
Nasce un
nuovo PCI
revisionista
Entra nel PMLI!
“Si ispira ai valori della Costituzione e si richiama
al miglior patrimonio politico ed ideologico
dell’esperienza storica del PCI, da Gramsci a
Berlinguer, e in particolar modo al pensiero
gramsciano e togliattiano”
PAG. 7
PRENDI CONTATTO CON IL
stampato in proprio
Che i sinceri comunisti valutino
attentamente la nuova-vecchia
proposta revisionista
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elit
PARTITO MARXISTA-LENINISTA ITALIANO
Sede centrale: Via Antonio del Pollaiolo, 172a - 50142 FIRENZE
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A Modena, Napoli e Fucecchio
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Banchini e volantinaggi del PMLI per il No alla
controriforma piduista e fascista del SenatoPAG. 15
2 il bolscevico / brexit
N. 27 - 7 luglio 2016
Risultato del Referendum
La Gran Bretagna esce dalla UE.
SI’ 51,9% No 48,1%. Durissimo
colpo a alta finanza, banche e City
Cameron si è dimesso. I governanti europei prendono misure per evitare il tracollo della Unione e la
fuga dei popoli da essa. Per Renzi l’Europa imperialista è “la nostra casa che va ristrutturata”
La mossa
opportunista di
Cameron
Il referendum sulla permanenza della Gran Bretagna nella Ue è entrato nel programma
di Cameron, che fino al 2013
era contrario, quando i conservatori erano all’opposizione
e vedevano sottrarsi l’elettorato anti Ue dalla crescita dell’Ukip di Farage che risultò il primo
partito alle europee del 2014.
La mossa è servita a Cameron
per vincere le politiche del 2015
e a dover mantenere la promessa del referendum.
Lo scorso 22 febbraio Cameron si presentava alla Camera
dei Comuni per illustrare la posizione del suo governo sull’accordo appena definito al vertice Ue di Bruxelles, che aveva
Il vertice del
direttorio Germania,
Francia e Italia
“Italia, Germania e Francia sono i Paesi più popolati
dell’Ue, inoltre siamo tre Paesi fondatori. Dal momento che
la Gran Bretagna uscirà, è importante che l’Ue sia unita sulle responsabilità da prendere”,
affermava il presidente francese François Hollande per giustificare l’ennesimo direttorio dei
paesi più forti della Ue al termine dell’incontro di Berlino del 27
giugno con la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente del Consiglio Matteo Renzi.
Stiamo uniti era il primo messaggio dell’incontro a tre che
preparava il primo vertice europeo dopo il referendum che
aveva sancito la decisione della Gran Bretagna di uscire dalla
Ue col 51,9% dei voti contro il
48,1%. L’incontro a dire la verità era stato preparato una settimana prima a due sull’asse
negoziato con Londra e delineava i contenuti delle misure che
i governanti europei dovranno
prendere per evitare il tracollo
tica neoliberista e affamatrice.
Questo è il sostanziale significato del referendum nonostante l’affanno dei delusi cantori
Fuori l’Italia dalla UE
L’UNIONE EUROPEA
IMPERIALISTA NON SI
PUO’ CAMBIARE
VA DISTRUTTA
grazione economica e militare
approfittando tra l’altro del fatto
che non ci saranno più i veti di
Londra.
I capi della diplomazia dei
sei Paesi fondatori dell’Ue (Italia, Germania, Francia, Olanda,
Lussemburgo e Belgio) si erano riuniti il 25 giugno a Berlino
e indicavano che la Gran Bretagna deve richiedere “al più
presto possibile” l’attivazione
dell’articolo 50. Mentre a Bruxelles nominavano subito Didier
Seeuws, diplomatico belga, ex
capo di gabinetto dell’ex presidente del Consiglio europeo
Herman Van Rompuy fino alla
fine del 2014 negoziatore capo
della cosiddetta Brexit Task
Force del Consiglio dei ministri
Ue per il processo di uscita della Gran Bretagna dalla Ue.
Indire il referendum
anche in Italia
per delegittimarla e
isolare le sue istituzioni
e i suoi governi.
Solo il socialismo può realizzare
l’Europa dei Popoli
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concesso un “status speciale”
alla Gran Bretagna per farla rimanere agganciata al sistema
dell’euro e evitare la cosiddetta
Brexit, l’uscita dalla Ue. “Ho negoziato un accordo per dare al
Regno Unito uno speciale status nella Ue” esultava Cameron, “ora posso raccomandare di votare per la permanenza
della Gran Bretagna nella Ue”
nel referendum del 23 giugno.
Nell’occasione
affermava
che “lasciare l’Europa minaccerebbe la nostra sicurezza economica e nazionale”; la prima di
una serie di motivazioni tra il minaccioso e il ricattatorio per sostenere il voto contro la Brexit
che passavano dal “se uscissimo dall’Ue tornerebbe il rischio
guerra” a “sarebbe una bomba
economica”, a “se lasciamo Ue
pensioni a rischio”. Riscuoteva
l’appoggio da Obama ai leader
della Ue, alle istituoni finanziarie imperialiste, col G7 che definiva la “Brexit una minaccia per
l’economia mondiale”. Un impressionante schieramento che
non è servito.
Il 24 giugno Cameron prendeva atto del voto e annunciava le sue dimissioni; sarebbe rimasto a Downing Street altri tre
mesi per dare il tempo alla formazione di un nuovo esecutivo
che desse il via ai negoziati con
l’Ue.
Il colpo all’Europa dei monopoli era parato con attestati di
fedeltà da dichiarazioni come
quella di Renzi: “l’Europa è la
nostra casa, la casa nostra e
dei nostri figli e nipoti. Lo diciamo oggi più che mai, convinti
che la casa vada ristrutturata,
forse rinfrescata: ma è la casa
del nostro domani”. E dipingeva
l’Ue imperialista per quello che
non è ricordando che “il mondo ha molto bisogno dell’Ue, di
un’Europa del lavoro, del coraggio, della libertà, della democrazia. In un parola il mondo che
verrà ha molto bisogno dell’umanesimo europeo”.
Stampato in proprio
I popoli della Gran Bretagna
hanno conseguito una grande
vittoria contro l’UE imperialista
votando per l’uscita dall’Unione. Questa vittoria storica costituisce un potente incoraggiamento per tutti i popoli dei paesi
membri dell’UE per richiedere
un analogo referendum.
I risultati del referendum del
23 giugno sono chiari e inappellabili: dei 46,5 milioni di elettori
se ne sono recati alle urne oltre
33 milioni, il 72,2%. 17,4 milioni
si sono espressi per il Sì contro
i 16,1 milioni di consensi andati
al No. Si tratta di un voto contro
l’Europa della grande finanza e
delle banche, un No all’Europa
del grande capitale e non dei
popoli.
Un voto generato da crescenti disuguaglianze, l’esclusione sociale, l’impoverimento,
gli affitti da capogiro, le ferrovie
privatizzate carissime e inefficienti, lo smantellamento del sistema sanitario nazionale, da
tutti quegli effetti della politica
applicata dal governo di Londra, in piena sintonia con quello
di Bruxelles, che hanno caricato
anche in Gran Bretagna il peso
della crisi finanziaria e economica capitalistica sulle spalle
delle masse popolari.
Il “divorzio” inizierà con la
notifica dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona che recita: “ogni
Stato membro può decidere di
recedere dall’Unione conformemente alle proprie norme costituzionali”. La procedura prevede la notifica della decisione
al Consiglio europeo e da quel
momento l’inizio del negoziato
sull’accordo che definirà le modalità del ritiro. L’accordo dovrà
essere approvato dal Consiglio
Ue a maggioranza qualificata,
previa approvazione del Parlamento. In mancanza di intesa,
l’uscita diventerà comunque effettiva a due anni dalla notifica
a meno che lo Stato interessato
e il Consiglio europeo non concordino nel prorogare quel termine.
Indire il referendum anche in Italia
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Il manifesto del PMLI contro l’Unione europea imerialista per le elezioni del 2014
Berlino-Parigi ma la cancelliera ha invitato anche Renzi, dato
l’esito del voto e con un Hollande indebolito dalla rivolta contro
la Loi Travail, cioè la legge del
lavoro (il Jobs Act in salsa francese).
Renzi con la consueta faccia di bronzo sosteneva tra l’altro che “l’Unione europea non
ha un direttorio”, ma era come
di consueto la Merkel a illustrare la linea concordata nel direttorio e da portare al vertice Ue
del 28 e 29 giugno a Bruxelles.
“Per avviare i negoziati – affermava la cancelliera - serve
la richiesta ufficiale del Regno
Unito. A settembre ci rivedremo
per poter parlare delle misure
concrete. Dovremo procedere
nel modo più rapido possibile per la procedura di uscita”,
e al fine di “evitare ogni movimento centrifugo nella Ue, fare
una proposta concreta agli stati
membri circa le misure concrete
da prendere nei prossimi mesi”.
La Merkel scandiva i tempi del
dell’Unione e la fuga dei popoli da essa.
Il premier britannico David
Cameron dopo le sue dimissioni aveva annunciato che il
28 giugno non avrebbe chiesto
l’attivazione dell’articolo 50 del
Trattato di Lisbona per uscire
dall’Unione Europa e dare il via
formale al negoziato, compito
che lasciava al nuovo esecutivo
che entrerà in carica a ottobre;
la Merkel accorciava i tempi indicando settembre come momento di avvio del negoziato.
Ma non è tanto il crollo momentaneo delle borse, per un
evento tra l’altro non certo imprevisto, che preoccupa i principali paesi imperialisti europei quanto il durissimo colpo
assestato dall’elettorato alla
Ue dell’alta finanza, delle banche e della City. Un esempio di
come la pensano i popoli della Ue quando gli viene data la
possibilità di farlo, un segnale chiaro contro l’Unione europea imperialista e la sua poli-
dell’Unione europea imperialista nell’evidenziare oltremisura
il contributo che pure c’è stato
da parte dei partiti e delle posizioni ultranazionaliste, razziste
e xenofobe per una uscita da
destra dalla Ue. Come quelle
cavalcate dal conservatore Boris Johnson ex sindaco di Londra, “convertito” da non molto
al no alla Ue anche per fare le
scarpe a Cameron, o l’Ukip del
reazionario Nigel Farage, alleato di Grillo e del M5S, che anche nei momenti migliori, vedi
le elezioni europee del 2014, è
rimasta attorno al 10% dell’elettorato, cioè sui 4 milioni di voti.
Il direttorio riunito il 27 giugno a Berlino delineava il possibile percorso per la costruzione
di una unità europea a più velocità, per tenere insieme i cosiddetti euroscettici che vogliono
mantenere una certa autonomia degli Stati nazionali, come
la Polonia, con quelli che vogliono procedere più speditamente verso una maggiore inte-
Ci sarebbero i veti dei popoli, come quello espresso in
Gran Bretagna o come quello
espresso dalla diserzione delle
urne per l’elezione dell’europarlamento nel 2014. Ci vorrebbe
un referendum anche negli altri paesi. A partire dall’Italia, nonostante la Costituzione vigente non preveda la consultazione
popolare per la ratifica dei Trattati internazionali, allora fu ritenuto meglio non fornire strumenti alle masse popolari che
potevano far saltare l’alleanza
col fronte imperialista occidentale. Un referendum per restare o uscire dalla Ue, non certo
per quello parziale e fuorviante per uscire dall’euro rilanciato opportunisticamente adesso
dal M5S, che però, tramite Di
Maio e Di Battista, ha confermato che non chiede che l’Italia
esca dall’Unione.
Nella campagna elettorale astensionista per le elezioni dell’europarlamento del 25
maggio 2014 il PMLI sottolineava che “occorre battersi per la
totale sovranità e indipendenza nazionale dall’Ue. Solo questo creerebbe migliori condizioni per lo sviluppo della lotta di
classe contro il capitalismo, per
il socialismo e per la conquista
del potere politico da parte del
proletariato.
I marxisti-leninisti italiani non
sono nazionalisti, bensì internazionalisti. Come ha detto Lenin,
il 28 dicembre 1919, ‘Aspiriamo alla stretta alleanza e alla
fusione completa degli operai
e dei contadini di tutte le nazioni del mondo in una unica
repubblica sovietica mondiale’. Ma per arrivare a questo bisogna distruggere in tutti i paesi il capitalismo e il suo Stato
borghese, compresa l’Ue, che
anche se fosse riformabile continuerebbe a sfruttare e opprimere i popoli, a essere razzista
e antimigranti e a fare unicamente gli interessi dei monopoli
e della borghesia”.
imperialismo italiano / il bolscevico 3
N. 27 - 7 luglio 2016
Costati all’Italia oltre un miliardo di euro
Renzi schiera missili per difendere
la Turchia del fascista Erdogan
Se non ne avesse parlato la
stampa turca niente avremmo saputo in Italia: Renzi e Pinotti hanno inviato nel sud della Turchia
del fascista Erdogan una batteria di missili terra-aria SAMP/T e
un contingente militare, nell’ambito della missione Nato “Active
Fence”, per “proteggere” il confine turco con la Siria. In una zona
cioè caldissima, dove sono in
corso aspri combattimenti a terra e dove i rischi di incidenti con
gli aerei russi che sfrecciano nella zona sono altissimi, così come
la possibilità di un coinvolgimento del nostro Paese in un conflitto
più vasto. E tutto questo praticamente all’insaputa della stampa
e dell’opinione pubblica, che nessuno ha mai informato della grave
decisione.
Si tratta di una batteria di missili antiaerei e antimissile di ultima generazione, realizzati dal
consorzio italo-francese Eurosam
(MBDA e Thales), la cui progettazione e produzione è costata
al nostro Paese più di un miliardo di euro. Insieme alla batteria il
governo italiano ha inviato anche
130 militari provenienti dal 4° reggimento Peschiera di Mantova e
dal Comando artiglieria contraerei di Sabaudia.
La notizia è trapelata solo perché il 7 giugno scorso la stampa turca e l’agenzia di Stato
“Anadolu” hanno pubblicato le
foto dell’arrivo dei camion civili che trasportavano i missili nella zona di Kahramanras, a nord
di Gaziantep, nel sud del Paese
in prossimità della frontiera con
la Siria, accompagnati da alcune
decine di addetti italiani in abito
civile. A bordo del convoglio, partito dal porto di Iskenderun e scor-
tato da auto della polizia, erano
presenti anche decine di militari.
Lo stesso giorno i ministri Gentiloni e Pinotti hanno “informato” le
Commissioni Esteri e Difesa della
missione, senza che peraltro siano stati chiesti loro ulteriori chiarimenti dai pochi parlamentari presenti.
I ministri si sono limitati a comunicare che la missione italiana era prevista da tempo per andare ad avvicendare le batterie di
missili Patriot, recentemente ritirate dai tedeschi e dagli americani,
e schierate dalla Nato per difendere il confine meridionale della Turchia, su richiesta del governo turco in quanto paese membro
dell’alleanza. Oltre ai missili il governo italiano schiera anche un
aereo per il rifornimento in volo
che andrà a rinforzare il sistema di
spionaggio aereo Awacs (Airborne warning and control system).
In realtà, come aveva anticipato il 18 maggio la rivista “Analisi Difesa”, la partenza imminente
della batteria missilistica italiana
era deducibile dallo stanziamento di oltre 7 milioni di euro di qui a
fine anno inserito nel decreto missioni approvato a fine 2015 per
la partecipazione all’operazione
Nato “Active Fence”. Ma nessun
altro ne aveva parlato, e il Paese
ne è rimasto del tutto all’oscuro
fino alle rivelazioni della stampa
turca. Il giornale “Daily Sabah” ha
parlato del dispiegamento di un
“sistema di difesa aerea avanzato italiano per combattere lo Stato islamico”, che però tutti sanno
che non dispone di missili o velivoli di sorta. E allora a che servono i missili italiani?
Quello che si sa è che batterie di missili antiaerei della Nato,
Ecco i missili italiani già sul suolo della Turchia
soprattutto americane, e a rotazione anche olandesi, tedesche
e spagnole, erano state installate
fin dal 2013 a ridosso della Siria
su richiesta del fascista Erdogan,
evidentemente come minaccia
nei confronti del governo di Assad
e come deterrente verso eventuali risposte militari all’appoggio turco ad alcune fazioni ribelli
e per coprire le operazioni militari e i bombardamenti contro i curdi del PKK. Dopo la provocazione
di Erdogan che ordinò l’abbattimento del cacciabombardiere
russo il 24 novembre scorso, cercando evidentemente l’escalation
per schierare più decisamente la
Nato in difesa della sua strategia
egemonica nella regione, ostacolata dall’intervento militare di Putin in difesa di Assad, gli americani hanno deciso di ritirare le loro
batterie e farsi sostituire dagli al-
leati europei: forse a causa dell’inaffidabilità di Erdogan e per diminuire il rischio di uno scontro
diretto con i russi.
Sta di fatto che ora la patata
bollente è nelle mani degli italiani, e non si sa con quali regole
d’ingaggio (perché sono top secret), e nemmeno quale sia esattamente la catena di comando, se
saranno cioè i militari italiani che
operano al confine turco a decidere se e quando lanciare i missili, magari contro aerei russi, e in
base a quali regole, o se debbano semplicemente obbedire agli
ordini provenienti dal comando
Nato unificato di Ramstein in Germania. Che è come dire direttamente dal governo americano,
che tra l’altro in questo momento è impegnato in un confronto
muscolare assai duro e pericoloso con la Russia di Putin. E non
soltanto nell’esplosivo scacchiere
mediorientale, ma anche a ridosso degli stessi confini della Russia: nel Baltico, nei paesi dell’Est
europeo e nel Mar Nero.
I missili SAMP/T sono un sistema d’arma nuovissimo e sofisticatissimo, ma anche molto
pericoloso da maneggiare: è in
grado di lanciare fino a 8 missili in 10 secondi con un tempo di
reazione di 8 secondi. Può operare su 360° e ingaggiare fino a
10 bersagli contemporaneamente. Facile capire che può bastare un minimo errore di valutazione per provocare un incidente
internazionale di proporzioni catastrofiche. Anche perché pure i
russi, dopo l’abbattimento del loro
Sukhoi 24, dalla loro base siriana
hanno schierato batterie di missili
antiaerei puntati sul confine turco,
e hanno già avvertito che stavolta
risponderanno per le rime in caso
di un nuovo abbattimento di uno
dei loro aerei.
Non è dunque affatto vero che
Renzi non si vuole far coinvolgere
nel conflitto siriano. Come l’invio
del contingente a “proteggere” la
diga di Mosul serve a mascherare l’escalation dell’interventismo
italiano in Iraq contro l’IS, così l’invio di soppiatto dei missili a “proteggere” il confine turco-siriano
maschera l’interventismo italiano in quest’altra area, schierando l’Italia a fianco del boia fascista Erdogan e della sua politica
egemonica regionale basata sul
massacro dei curdi e l’ingerenza
nel conflitto siriano. E anche con
seri pericoli di un coinvolgimento in un conflitto molto più vasto,
potenzialmente anche mondiale
se ci dovesse essere uno scontro
Nato-Russia.
Nel 2016 oltre 13 miliardi per l’acquisto di nuovi armamenti
L’esercito imperialista italiano costa alle masse
50 milioni di euro al giorno
L’Air Force di Renzi ci costa 15 milioni di euro l’anno
Mentre le masse popolari
sono ridotte al lastrico dalla macelleria sociale del nuovo duce
Renzi, il parlamento del regime
neofascista ha approvato nei
giorni scorsi il nuovo Documento
programmatico pluriennale della
Difesa (2016-2018) che già nel
2016 contempla un aumento di
spesa dell’1,3% rispetto all’anno scorso portando il costo totale dell’esercito imperialista italiano (esclusi i carabinieri) a quota
17,7 contro i 17,5 del 2015.
Praticamente 50 milioni di
euro al giorno impegnati in spese militari (48 nel 2016 per la
precisione) di cui quasi 13 per
l’acquisto di nuovi armamenti: cacciabombardieri, F-35, una
portaerei e le nuove fregate.
Spese che continuano a crescere, immuni da tagli, nonostante la Difesa continui a sostenere il contrario. Come ad
esempio i costi della parata imperialista e guerrafondaia del 2
giugno che ogni anno ci costa almeno due milioni di euro.
Le cifre, messe nero su bianco, prevedono: 13,36 miliardi
di spese nel 2016 (carabinie-
ri esclusi), l’1,3 per cento in più
rispetto all’anno scorso. Cifra
che sale a 17,7 miliardi (contro
i 17,5 del 2015) se si considerano i finanziamenti del mini-
stero dell’Economia e delle Finanze alle missioni militari (1,27
miliardi, contro gli 1,25 miliardi
dell’anno precedente) e quelli del ministero per lo Sviluppo
Economico ai programmi di riarmo (2,54 miliardi, nel 2015 erano 2,50).
Finanziamenti, quelli del
Mise, che anche quest’anno ga-
Un cacciabombardiere Eurofighter typhoon e la sua impressionante dotazione di missili
rantiscono alla Difesa una continuità di budget per l’acquisto
di nuovi armamenti per un totale di 4,6 miliardi di euro (contro i
4,7 del 2015). Le spese maggiori
per quest’anno riguardano i cacciabombardieri Eurofighter (677
milioni), gli F-35 (630 milioni), la
nuova portaerei Trieste e le nuove fregate Ppa (472 milioni), le
fregate Fremm (389 milioni), gli
elicotteri Nh-90 (289 milioni), il
programma di digitalizzazione
dell’Esercito Forza Nec (203 milioni), i nuovi carri Freccia (170
milioni), i nuovi elicotteri Ch-47f
(155 milioni), i caccia M-346
(125 milioni), i sommergibili U-212 (113 milioni). A tutto ciò
si potrebbero presto aggiungere
anche gli acquisti dei nuovi blindati Centauro 2, gli elicotteri da
attacco successori dei Mangusta, il drone europeo Male2025
o il “programma urgente” (Mission Need Urgent Requirement)
per la protezione degli avamposti di combattimento in prima linea (Forward Operating Base)
“nei teatri operativi”.
In aumento anche la spesa
per il personale che, invece di di-
minuire come previsto dalla riforma Di Paola, nel 2016 aumenta
del 2,7 per cento rispetto all’anno scorso: 10 miliardi di euro per
pagare 90mila ufficiali e sottufficiali e 82mila soldati di truppa.
Per non parlare della famigerata
pensione ausiliaria (regalìa residuata della guerra fredda, ridotta ma non abolita) che continua
a costare oltre 400 milioni all’anno o dei 200 preti-generali e preti- colonnelli che pesano ancora
per 20 milioni l’anno tra stipendi
e pensioni.
Tra le pieghe del Documento
è inserita anche la classica ciliegina sulla torta che prevede un
aumento del 21,6 per cento delle
spese per “funzioni esterne” della Difesa (118 milioni contro i 97
del 2015), comprendenti il rifornimento idrico delle isole minori, l’attività a supporto dell’aviazione civile, il soccorso aereo
di malati gravi e i voli militari di
Stato, compreso – questa è la
ragione dell’aumento – il nuovo
lussuoso Air Force Renzi, il cui
costo di leasing, secretato dal
premier, è stimato in almeno 15
milioni di euro l’anno.
4 il bolscevico / regime neofascista
N. 27 - 7 luglio 2016
Prendendo a pretesto la democraticità e la trasparenza
La Camera approva una legge che impone la
concezione borghese del partito, istituzionalizza
i partiti e ficca il naso dello Stato al loro interno
I partiti devono rimanere Associazioni non riconosciute
L’approvazione della legge sui partiti da parte della
Camera, avvenuta l’8 giugno,
richiede una premessa stori-
ca.
I partiti politici nascono
nella storia moderna con le
rivoluzioni borghesi, in modo
particolare durante gli avvenimenti che portarono alla
Rivoluzione inglese del 1689
(Whigs e Tories) e ricevono
un ulteriore impulso con la
Rivoluzione americana e la
nascita degli Stati Uniti d’America nel 1776 (Partito De-
mocratico-Repubblicano
e
Partito Federalista) e con la
Rivoluzione francese a partire dal 1789 (i più importan-
ti furono i Club dei Giacobini,
dei Cordiglieri, dei Foglianti, dei Girondini e dei Montagnardi).
Quando e come sono nati storicamente i partiti
Nell’ambito delle tre menzionate rivoluzioni le rispettive borghesie nazionali, che comunque detenevano ampiamente
il potere economico da secoli, crearono i partiti politici, che
in origine erano semplicemente movimenti di opinione senza
una delineata forma giuridica,
con un chiaro scopo rivoluzionario al fine di imporre ai rispettivi
monarchi organi rappresentativi
dove, tramite i partiti appunto, i
rappresentanti della borghesia
avrebbero discusso e approvato le leggi, e ciò quindi in radicale contrapposizione all’ordinamento giuridico della monarchia
assoluta dove l’apparato che
faceva capo al re non prevedeva organi rappresentativi. Pertanto i partiti politici si connotano sin dall’origine come istanze
di carattere rivoluzionario o comunque totalmente svincolate
dall’apparato statale che faceva
capo ai rispettivi monarchi.
Negli Stati Uniti i partiti nascono come organismi di contrapposizione democratico-borghese all’apparato dei singoli
Stati e a quello dello Stato federale, ossia agli elementi autoritari che ricalcavano, in ambito
repubblicano, il potere di governo già monarchico.
Ma la frattura più radicale
nell’ambito della concezione di
partito politico si ha nel 1848
con la pubblicazione del Manifesto del Partito Comunista dove
Marx ed Engels chiariscono che
l’organizzazione che prende il
nome di Partito Comunista deve
essere il fattore decisivo ver-
so la Rivoluzione socialista che
ha lo scopo di portare al potere il proletariato, abbattere il capitalismo, il potere della classe
borghese e l’apparato statale
borghese che si era delineato a
partire dalle rivoluzioni dei due
secoli precedenti. La differenza
maggiore rispetto ai partiti borghesi sta nel fatto che i primi nascono, ad opera della borghesia, per la gestione di un potere
politico che è strumento, a sua
volta, della gestione di un potere
economico che già la borghesia
aveva da secoli, mentre il Partito comunista nasce per consentire al proletariato la conquista
sia del potere politico sia del potere economico, non avendo il
proletariato mai avuto nella storia né l’uno né l’altro di tali poteri. Lenin settanta anni più tardi
rafforza tale concezione rivoluzionaria di partito elaborando, in
contrapposizione con la concezione dominante dei partiti politici borghesi, il concetto di ‘centralismo democratico’ per cui “la
linea, le indicazioni, le direttive e
le misure del Partito vanno applicate comunque, anche ciò su
cui, eventualmente, non siamo
d’accordo. Chi dissente ha il diritto di porre la questione nelle
sedi di Partito attraverso la critica e l’autocritica, in modo dialettico e costruttivo, usando la
formula unità-critica-unità, cercando di non trasformare una
contraddizione in seno al popolo
in una contraddizione antagonista. Ciò all’interno della propria
istanza, investendo successivamente le istanze superiori, qua-
Roma, 28 marzo 2015. Manifestazione nazionale della FIOM (foto Il Bolscevico)
lora lo ritenga necessario e se
si tratta di questioni di carattere
generale” (G. Scuderi, La linea
del PMLI sul centralismo democratico, in Il Bolscevico n. 27 del
12 luglio 2012, p. 8).
Esiste quindi una contraddizione tra la concezione borghese e la concezione marxista-leninista di partito dovuta al fatto
che quest’ultima prevede non
dibattiti finalizzati alla conservazione del sistema economico
e dell’ordinamento politico esistente, ma unità di azione finalizzata all’abbattimento rivoluzionario di entrambi.
Accanto a tale contraddizione tra le due concezioni di partito sopra esposte, ve ne è anche
un’altra, tutta interna al campo
borghese, dovuta al fatto che i
partiti politici borghesi, nati tra
il XVII e il XVIII secolo per rappresentare l’interesse peculiare della borghesia (fino ai primi
decenni del XX secolo il voto
era censitario e le donne erano escluse dal voto), si dovettero scontrare con la concezione
della democrazia proletaria introdotta dal pensiero socialista
e attuata prima con la Comune
di Parigi del 1871 e qualche decennio più tardi con la Rivoluzione di Ottobre del 1917.
La borghesia reagì a tale
pressione democratica in modo
diversificato a seconda della situazione nazionale, in alcuni
casi introducendo una variante
istituzionale sotto forma di Stato
autoritario a partito unico (dittatura terroristica aperta realizzata nel fascismo, nazismo, franchismo, ecc.) per continuare a
detenere il potere economico,
mettendo al bando tutti i partiti eccetto uno o (come nel caso
della Repubblica di Vichy) consentendo l’esistenza solo a partiti politici conservatori, in ogni
caso introducendo norme che
regolamentavano la vita del partito unico o dei partiti di regime.
Il fenomeno della regolamentazione pubblica della vita interna dei partiti politici da parte
dello Stato (e quindi della loro
istituzionalizzazione) è un fenomeno recente (risalente agli
anni Venti e Trenta del Novecento) rispetto alla loro vita plurisecolare, e deve considerarsi
un fatto che si verifica nei momenti di grave crisi del sistema
stesso, quando vi è un calo di
consenso verso il sistema politico stesso, e proprio per rispondere a tale calo di consenso il
sistema politico si organizza per
investire di prerogative pubblicistiche i partiti stessi (prerogative
che, come si è visto, erano totalmente estranee alla nascita dei
partiti e alla loro vita fino a Novecento inoltrato).
Il controllo dello Stato sui partiti che vuole Renzi
Quindi la seconda contraddizione, tutta interna al sistema
economico capitalista e all’ordinamento giuridico che ne è sovrastruttura, è quella per cui lo
Stato borghese impone un controllo a quei partiti politici che
sono, al contrario, nate come
contrappeso liberale al potere
assoluto dello Stato stesso, ed
è di quest’ultima contraddizione
che si occuperà questo articolo.
In Italia sta attualmente avvenendo tale seconda contraddizione, che snatura il ruolo dei
partiti all’interno dell’ordinamento giuridico borghese nato con
la Costituzione del 1948.
Il nostro giornale è sempre
stato molto attento ai tentativi che ormai da anni si stanno attuando per istituzionalizzare i partiti politici (si vedano,
tra gli altri, Il Bolscevico n. 30
del 1° agosto 2013, p. 9 e n. 25
del 25 giugno 2015, p. 2 dedicati rispettivamente alle discussioni nell’ambito dell’Assemblea
costituente in relazione al dise-
gno di legge n. 260 FinocchiaroZanda e al disegno di legge n.
1938 a firma, tra gli altri, del deputato PD Guerini), tentativi che
smascherano una linea politica
coerente perpetrata prima dal
gruppo dirigente bersaniano del
PD, poi proseguita dall’attuale
gruppo dirigente renziano dello
stesso partito, di istituzionalizzare i partiti politici con il chiaro fine di metterli sotto il controllo del ministero dell’Interno (e
quindi della polizia), una linea
politica nella quale si sono inseriti anche gli altri partiti e persino
il Movimento 5 Stelle.
Con l’ascesa al potere di
Renzi, decaduto definitivamente il disegno di legge n. 260 a
firma di Finocchiaro e Zanda,
sono invece proseguiti i lavori
alla Camera del disegno di legge n. 1938 a firma del renziano Guerini che impone alle liste, quale condizione per poter
partecipare a elezioni nazionali,
di dotarsi di uno statuto regolato dalla legge, acquisire la per-
sonalità giuridica e iscriversi in
un apposito registro (al contenuto di tale proposta legislativa
si rimanda all’esaustiva disamina fatta ne il Bolscevico n. 25
del 25 giugno 2015), tanto che
lo scorso marzo non soltanto da
parte del Movimento 5 Stelle
(come era prevedibile) ma anche da parte di altre formazioni politiche c’è stata alla Camera una chiara presa di posizione
contro il progetto politico renziano, e le critiche sono venute non solo dall’opposizione ma
anche dalla maggioranza: infatti
a sollevare dubbi sul testo messo nero su bianco da Guerini ci
hanno pensato i deputati Alfredo D’Attorre (Sinistra Italiana) e
Andrea Mazziotti (Scelta Civica), quest’ultimo rappresentante della maggioranza che sostiene il governo.
Il tema più spinoso è quello
relativo al riconoscimento giuridico dei partiti, vero fulcro della
proposta legislativa che fa capo
a Guerini che ritiene, come si
legge nella relazione introduttiva della proposta di legge indispensabile “la necessaria acquisizione della personalità
giuridica per i partiti che intendano prendere parte alle elezioni politiche nazionali e candidarsi alla guida del Paese” per
conseguire la quale le stesse
formazioni politiche dovranno
necessariamente dotarsi “di un
atto costitutivo e di uno statuto
redatti nella forma dell’atto pubblico”, fatto che da solo sarebbe
sufficiente a eliminare dalla scena politica il Movimento 5 Stelle
che, almeno nella sua forma attuale, è privo di statuto.
Alfredo D’Attorre ha proposto, pur senza escludere il
principio del riconoscimento
giuridico dei partiti, un doppio
regime, il primo, applicabile ai
movimenti che intendano presentarsi esclusivamente alle
elezioni, con una regolamentazione interna meno stringente,
ed un secondo, più rigoroso,
che al contrario impone di ac-
quisire la personalità giuridica
e norme più vincolanti ai partiti che intendano accedere a
qualsiasi forma di finanziamento pubblico.
Anche Mazziotti ha ritenuto
che “la libertà di associarsi liberamente non può significare
assenza di disciplina” pur esprimendo la forte preoccupazione che “una regolamentazione
troppo rigida che porti addirittura all’esclusione di un partito
dalle elezioni oltre a non vedermi d’accordo, rischia di stringere troppo i cordoni della partecipazione elettorale, impedendo,
ad esempio, la possibilità per
i cittadini di presentare liste
civiche”, come si legge nella relazione introduttiva al suo
disegno di legge. In modo particolare la sua proposta prevede che quello che il deputato di
Scelta Civica chiama “accordo
associativo” (che equivale allo
statuto nei tradizionali partiti politici), sul quale il partito o il movimento politico si fonda e che
può essere liberamente determinato, debba solo essere pubblico e accessibile agli iscritti o
a chi volesse aderirvi, altrimenti
si rinvia alla disciplina del codice civile.
Come si vede, entrambe le
proposte alternative a quella del
PD, pur comprendendo le implicazioni antidemocratiche del
disegno di legge Guerini, non
escludono affatto l’interferenza
statale nella vita politica dei partiti, poiché accolgono il principio
della necessaria democraticità
interna, e quindi dei necessari controlli esterni sulla loro vita
interna.
Agli inizi di aprile anche il Movimento 5 Stelle, a firma del suo
deputato Toninelli, ha presentato in commissione Affari costituzionali della Camera una sua
proposta di legge sulla trasparenza dei partiti e dei movimenti politici, tutta incentrata sulla
problematica della gestione finanziaria da parte dei partiti,
e in essa non c’è traccia della
regime neofascista / il bolscevico 5
N. 27 - 7 luglio 2016
questione del necessario riconoscimento.
Il testo proposto da Toninelli introduce il divieto, per i partiti e i movimenti politici, “di accettare contributi o altre forme
di sostegno”, anche tramite “la
messa a disposizione di servizi”, da parte “di persone fisiche
o giuridiche che non acconsen-
tano alla pubblicità dei relativi
dati” o che provengano “da Stati esteri o da persone giuridiche
aventi sede in uno Stato estero
o da persone fisiche non iscritte nelle liste elettorali o comunque private del diritto di voto alle
elezioni nazionali”, introducendo anche precisi limiti ai contributi e prevedendo sanzioni pe-
cuniarie (che dovrà irrogare una
apposita “commissione” statale)
nei confronti del movimento politico che violi tali norme di trasparenza.
A ben guardare, anche il testo del Movimento 5 Stelle prevede una pesante interferenza statale nella vita interna dei
partiti.
Infine, agli inizi di maggio
Matteo Richetti (PD) ha presentato un nuovo testo base della
riforma relativa alla regolamentazione dei partiti, e da tale testo è stata esclusa la necessità
dell’obbligo dell’iscrizione all’albo dei partiti ai fini della partecipazione alla competizione elettorale, obbligo che invece era il
punto principale del disegno di
legge a firma di Guerini. Il nuovo testo del PD prevede che per
i movimenti che intendano partecipare alla competizione elettorale sia previsto solo il vincolo
della presentazione di una dichiarazione di trasparenza che
dovrà contenere alcuni elementi
fondamentali, pena la ricusazio-
ne delle liste, si dovrà indicare il
“legale rappresentante del partito o del gruppo politico e la sede
legale nel territorio dello Stato;
gli organi del partito o del gruppo politico, la loro composizione
nonché le relative attribuzioni; le
modalità di selezione dei candidati per la presentazione delle liste”.
iscritti in un apposito Registro,
ma non si comprende quale sia
l’organo deputato a emettere il
giudizio circa la democraticità
interna o meno. Infatti all’articolo 2 il testo di legge si limita a
stabilire che “la vita interna dei
partiti, movimenti e gruppi politici organizzati e la loro iniziativa
politica sono improntate al metodo democratico”.
Altra grave limitazione alla libertà di autodeterminazione dei
partiti politici è quella che prevede l’obbligo di affidare l’uso
del simbolo e del nome al partito e non a un singolo, con la
conseguenza che “ogni modifica e ogni atto di disposizione o
di concessione in uso della denominazione e del simbolo è di
competenza dell’assemblea degli associati o iscritti”, e i simbo-
li verranno pubblicati sul sito internet del Ministero dell’Interno,
e in caso di mancato deposito
dello statuto o della dichiarazione di trasparenza, le liste sono
ricusate dall’Ufficio centrale circoscrizionale.
Si prevede poi la “trasparenza degli organi, delle regole interne e delle modalità di selezione delle candidature” anche per
quei movimenti politici che non
siano iscritti al registro dei partiti, e sono state introdotte precise regole per l’istituzione e
per l’accesso all’anagrafe degli
iscritti e per l’indicazione dei criteri di ripartizione delle risorse
tra organi centrali e le eventuali articolazioni territoriali, con la
comminatoria della sanzione di
30.000,00 euro per i partiti che
non pubblicano i dati su internet.
L’approvazione della Camera
In totale sono state presentate ben 18 diverse proposte
legislative da quasi tutte le forze politiche presenti alla Camera prima che, l’8 giugno, fosse
approvato alla Camera il disegno di legge proposto dal PD,
originariamente da Guerini con
gli emendamenti di Richetti,
che, pur escludendo la necessità di iscrizione ad apposito registro per presentarsi alle elezioni, non risolve certamente tutti i
problemi che il PMLI ha da molto tempo denunciato.
Così, dopo ben 222 emendamenti presentati da quasi tutte le forze politiche rappresentate alla Camera, hanno votato
a favore del disegno di legge
268 deputati (Partito Democratico, Alleanza Popolare, Scelta
Civica e il presidente del grup-
po Misto Pino Pisicchio), hanno
votato contro 36 parlamentari
(Sinistra Italiana e Conservatori e Riformisti) mentre si sono
astenuti i 114 rappresentanti del
Movimento 5 Stelle, Forza Italia,
Lega Nord e Democrazia Solidale-Centro Democratico. Rientrate quindi le riserve di Scelta
Civica (che alla fine ha votato a favore), e rimaste isolate
le posizioni di Forza Italia (che
si è limitata a richiedere l’innalzamento, per le donazioni, da
100mila a 200mila euro l’anno)
le maggiori critiche al testo del
PD sono venute dal M5S e da
SI, peraltro per motivi molto diversi e con diverse modalità di
manifestazione del dissenso,
in quanto il primo si è astenuto mentre il secondo ha votato
contro: per il M5S infatti la po-
sta in gioco è quella di evitare
statuti o regole che possano interferire con le loro logiche interne tutt’altro che chiare, perché non bisogna dimenticare
che il loro simbolo è di proprietà di Beppe Grillo e la loro organizzazione è in gran parte regolamentata dalla Casaleggio
Associati srl, un’azienda privata,
mentre la scelta di Sinistra Italiana è stata soprattutto quella di
lamentare la debolezza, nel disegno di legge del PD, dei meccanismi volti a regolamentare la
vita dei partiti stessi, invocando
quindi un maggiore intervento
pubblico sugli stessi e auspicando una netta, quanto artificiosa
nonché certamente interessata,
differenziazione all’interno delle
forze politiche nazionali tra partiti riconosciuti pubblicamente (e
che possono accedere ai finanziamenti pubblici) e partiti non
riconosciuti (che non possono
accedervi). Del resto è mancata, da parte non solo delle due
ultime forze politiche ricordate,
ma anche da tutte le altre che
hanno dibattuto il disegno di legge, una analisi, anche minima,
sulla questione del sempre più
accentuato distacco delle masse popolari italiane dalle istituzioni, nonché dell’ormai cronica
sfiducia verso i partiti del regime, come dimostra il massiccio
astensionismo nelle ultime elezioni comunali. Innanzitutto, secondo il testo
passato alla Camera, solo i partiti che hanno uno statuto che
garantisce la democrazia interna possono avere dei benefici fiscali come il 2 per mille e sono
Partiti e associazioni diventano appendici statali
Tale previsione è disposta
dall’art. 5 del testo di legge, che
limita pesantemente l’autonomia e autoregolamentazione
dei partiti e li obbliga a sottostare a pesanti procedure burocratiche alle quali sovraintende il ministero dell’Interno, con
la lunga mano ovviamente della sua polizia. L’art. 5 prevede
nel suo primo comma che “nei
rispettivi siti internet i partiti,
movimenti e gruppi politici organizzati istituiscono un’apposita sezione, denominata ‘Trasparenza’, che rispetti i princìpi
di elevata accessibilità, anche
da parte delle persone disabili, di completezza di informazione, di chiarezza di linguaggio,
di affidabilità e di semplicità di
consultazione. In tale sezione
sono pubblicati lo statuto, ove
il partito sia iscritto nel registro
dei partiti politici, il rendiconto di
esercizio e tutti gli altri dati indicati dall’articolo 5, comma 2,
del decreto-legge 28 dicembre
2013, n. 149, convertito, con
modificazioni, dalla legge 21
febbraio 2014, n. 13, nonché
l’elenco dei beni di cui all’articolo 6, comma 1, e le erogazioni
di cui all’articolo 6, comma 11,
della presente legge”. Tutto ciò
che dispone il menzionato primo comma è dettato per partiti, movimenti e gruppi organizzati che siano iscritti nel registro
dei partiti politici di cui all’art. 4
del decreto legge n. 149/2013
convertito in legge n. 13/2014,
ossia delle formazioni politiche
che possano accedere al finanziamento pubblico, e ciò ha anche una certa logica, in quanto
lo Stato richiede, a fronte di fi-
nanziamenti pubblici che eroga
a favore di una formazione giuridica di diritto privato (il partito)
precise garanzie e specifica trasparenza affinché quest’ultimo
non dilapidi denaro pubblico,
come in passato è accaduto.
Ma il fatto gravissimo è che tali
penetranti controlli siano estesi anche a formazioni politiche
che non siano ricomprese nel
menzionato art. 4 del decreto
legge n. 149/2013, e che quindi
non ricevano soldi pubblici dallo Stato, infatti il secondo comma dell’art. 5 del testo di legge
approvato alla Camera dispone che “per i partiti, movimenti
e gruppi politici organizzati non
iscritti nel registro dei partiti politici di cui all’articolo 4 del decreto-legge 28 dicembre 2013,
n. 149, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 febbraio 2014, n. 13, fermo restando
quanto previsto dal comma 1
del presente articolo, sono pubblicati nella medesima sezione
del sito internet di cui al citato
comma 1 le procedure richieste
per l’approvazione degli atti che
impegnano il partito, movimento o gruppo politico organizzato, il numero, la composizione
e le attribuzioni degli organi deliberativi, esecutivi e di controllo, le modalità della loro elezione e la loro durata, le modalità
di selezione delle candidature
nonché l’organo comunque investito della rappresentanza legale. È inoltre pubblicata l’indicazione del soggetto titolare del
simbolo del partito, movimento
o gruppo politico organizzato;
se il soggetto titolare del simbolo è diverso dal partito, mo-
vimento o gruppo politico organizzato, sono pubblicati anche i
documenti che abilitano il partito, movimento o gruppo politico organizzato ad utilizzare il
simbolo”. Insomma, se il dise-
missione di cui all’articolo 9,
comma 3, della legge 6 luglio
2012, n. 96, verifica il rispetto degli obblighi di cui al comma 2 del presente articolo e,
ove ravvisi un inadempimento
pra citato, istituita dalla legge n.
96/2012, è la Commissione per
la trasparenza e il controllo dei
rendiconti dei partiti e dei movimenti politici,è composta da
cinque componenti, di cui uno
Roma, 25 ottobre 2014. Manifestazione nazionale CGIL (foto Il Bolscevico)
gno di legge approvato alla Camera supererà anche il voto del
Senato, tutta la vita interna di
una qualsiasi formazione politica, in ogni suo minimo dettaglio, dovrà essere sottoposta
al controllo di organi dello Stato, che potrà quindi interferire
in modo penetrante e invasivo
nella vita politica dei partiti e dei
movimenti di opposizione. Infatti il terzo comma dell’art. 5 del
disegno di legge approvato alla
Camera dispone che “la Com-
totale o parziale, indica al partito, movimento o gruppo politico organizzato quali integrazioni siano necessarie. Il partito,
movimento o gruppo politico organizzato deve conformarsi alle
suddette indicazioni entro i successivi quindici giorni. Ove l’inadempimento permanga, la
Commissione applica una sanzione amministrativa pecuniaria
da euro 5.000 a euro 15.000”.
La commissione alla quale fa
riferimento il terzo comma so-
designato dal primo presidente della Cassazione, uno designato dal presidente del Consiglio di Stato e tre designati dal
presidente della Corte dei conti. Si va quindi verso un regime
di sottoposizione dei partiti politici allo Stato, e con ciò si snatura l’essenza stessa delle formazioni politiche che, come si è
detto, nacquero negli scorsi secoli proprio per garantire la rappresentanza politica - prima di
un ristretto ceto borghese e poi,
con l’estendersi del suffragio, a
sempre più estese masse popolari - in contrapposizione dialettica con lo stesso Stato.
Gravemente lesiva della libertà dei partiti politici è anche
l’articolo 9 del testo di legge, che
introduce sanzioni amministrative pecuniarie ai partiti iscritti nel
registro in caso di mancata pubblicazione sul sito dei propri bilanci, da 20.000,00 a 40.000,00
euro, e la stessa sanzione si applica in caso di omissione o di
dati difformi rispetto alle scritture e ai documenti contabili.
Come si vede, anche se è
stato scongiurato il pesante fardello dell’imposizione del riconoscimento, di fatto il testo approvato alla Camera prevede
una pesante interferenza nella
vita interna di qualsiasi formazione politica che in tal modo
viene comunque istituzionalizzata e la cui vita interna viene
comunque esposta al controllo
dell’autorità pubblica, una variante autoritaria del terzo millennio della concezione borghese del partito che ha trovato
storicamente corpo negli Stati
autoritari come l’Italia fascista,
la Germania nazista, la Spagna
franchista o la Repubblica di Vichy del maresciallo Petain, e
forse è quest’ultimo modello di
Stato borghese quello che più
di tutti si assomiglia al sistema
voluto dal PD in Italia, in quanto anche allora sedevano in parlamento alcune formazioni politiche, tutte di estrema destra e
tutte rigorosamente sotto il controllo dell’esecutivo, che era il
vero arbitro della vita politica di
tale Stato fantoccio.
Perché i partiti devono rimanere Associazioni non riconosciute
È quindi evidente che la riforma iniziata da Bersani e
proseguita da Renzi risponde
all’esigenza di stabilità richiesta a gran voce dalla borghesia italiana in un momento in
cui, i risultati elettorali parlano
chiaro, la sovrastruttura rappresentativa dello Stato borghese è in assoluta crisi di
credibilità e di rappresentatività. Al termine di questa ampia
disamina del testo di legge ap-
provato dalla Camera, anche
le sue disposizioni sono certamente differenti rispetto a
quelle del disegno di legge n.
260 Finocchiaro-Zanda (commentato ne Il Bolscevico n. 30
del 1° agosto 2013) e anche rispetto all’originario disegno di
legge che ha dato vita alla riforma votata l’8 giugno scorso, ossia il n. 1938 Guerini
(commentato ne Il Bolscevico
n. 25 del 25 giugno 2015), è
indispensabile ribadire a chiare lettere la posizione politica assunta dal Partito marxista leninista italiano, secondo
la quale i partiti devono rimanere, nei confronti dello Stato
borghese, associazioni non riconosciute, ed essere regolamentati e disciplinati solo ed
esclusivamente dagli articoli
36 e seguenti del codice civile, e deve essere respinto con
vigore il tentativo di introdurre
norme di diritto pubblico che
interferiscano sulla vita interna delle organizzazioni politiche le quali, con il pretesto di
un controllo della loro democraticità interna e trasparenza
esterna, vengono in realtà sottomessi a un penetrante controllo istituzionale da parte di
quell’apparato statale borghese nei cui confronti devono rimanere rigorosamente indipendenti.
Questa linea politica infatti
deriva da una plurisecolare tradizione di democrazia borghese intaccata soltanto dai regimi
autoritari di stampo nazifascista, come si è visto, e non è un
caso che tale linea politica è
risultata predominante anche
nelle ampie discussioni che sul
tema si svolsero in seno all’Assemblea costituente (per un
ampio esame di esse si veda Il
Bolscevico n. 30/2013) dove la
linea fermamente antifascista
e antiautoritaria portata avanti
da PCI, PSIUP e da gran parte della DC ebbe la meglio nel
dare corpo e sostanza all’art.
49 della Costituzione, nel quale non vi è traccia di regolamentazione pubblica come
negli ultimi anni fortemente voluta soprattutto dal PD e come
da ultimo introdotta dal testo di
legge votato lo scorso 8 giugno alla Camera.
6 il bolscevico / interni
N. 27 - 7 luglio 2016
Secondo il rapporto Eurostat sul primo trimestre 2016
In Italia i salari più bassi
d’Europa per effetto del Jobs Act
Il “costo del lavoro” è diminuito dello 0,5% in Italia mentre mediamente è cresciuto dell’1,7%
Quello che viene comunemente definito “costo del lavoro” ha raggiunto in Italia livelli
così bassi da registrare un vero
e proprio record negativo. Ci riferiamo al salario direttamente corrisposto al lavoratore più
quello differito (ad esempio il
TFR), ai contributi previdenziali
e assistenziali che il capitalista
è obbligato a versare agli enti
preposti e altri oneri accessori.
Quindi non ci si riferisce solamente all’ammontare del salario netto o lordo del lavoratore,
che nel sistema capitalistico
sarà sempre più basso del suo
valore reale, ma ai costi complessivi legati alla prestazione
lavorativa che il capitalista deve
sostenere. Si tratta in ogni caso
di un termine per noi inaccettabile ma che useremo per comodità anche noi.
Ebbene, gli effetti del Jobs
Act sorridono alle imprese,
molto meno ai lavoratori. Secondo Eurostat (ente di statistica a livello europeo) il “costo del lavoro”, in calo già da
un anno, ha toccato a dicembre il minimo storico, dando
all’Italia il record della maggiore diminuzione in Europa. I dati
Eurostat raccontano di un calo
della retribuzione oraria in Italia – nel primo trimestre 2016
– dello 0,5% rispetto allo stesso periodo del 2015. Il calo del
salario orario è più contenuto
nel settore pubblico (-0,1%)
mentre nel settore privato si
registra un -0,7%. Dati legati strettamente agli interventi del governo del nuovo duce
Renzi, ottenuti soprattutto con
il blocco dei contratti nella pubblica amministrazione e con
L’andamento del costo del lavoro nel primo trimestre del 2016 comparato allo stesso periodo del 2015 nei vari Paesi della UE, la media dell’intera Unione (EU 28) e quella dei Paesi che
adottano l’euro (EA 19). Fonte Eurostat.
l’introduzione del Jobs Act.
Se si guarda ai singoli comparti privati, è l’industria che segna il calo maggiore sia per il
“costo del lavoro” nel complesso (-2,6% a fronte del +1,9%
nell’Ue a 28) sia per il salario
per ora lavorata (-1,4% a fronte
del +2% in Ue). Nelle costruzioni si registra un calo del 3,1%
del costo del lavoro trainato da
un -8% dei costi non salariali (-0,9% il salario orario). Nei
servizi, il calo del salario orario
registrato in Italia è dello 0,2%
(+1,5% l’Ue a 28) mentre il costo del lavoro complessivo segna un -1,6%.
Il dato italiano è in netta controtendenza perché in Europa
c’è stato un aumento dell’1,7%
tendenziale e l’Italia, assieme
a Cipro, è l’unico Paese dove
cala. Ad alleggerirsi sono soprattutto i “costi non salariali”
(-3,9%), grazie agli sgravi contributivi introdotti dal Jobs Act.
La voce include i contributi sociali versati dal datore di lavoro,
più le tasse sul lavoro stesso
al netto dei sussidi ricevuti. In
Europa, dice ancora Eurostat,
le differenza tra i diversi Paesi
sono ancora molto elevate. Si
va da un minimo di 4,10 ad un
massimo di 41,30 euro. Il primato per il più basso costo è riservato a Bulgaria e Romania
mentre dal lato opposto della
classifica ci sono Danimarca e
gli effetti della controriforma del
“mercato del lavoro” rimangono a lungo termine. Permane
la libertà di licenziamento senza giusta causa, la possibilità
di demansionamento e quindi
di un quadro ricattatorio che di
fatto blocca le rivendicazioni salariali dei lavoratori e di conseguenza le loro buste paga. Un
fattore che spinge ancora più
in basso gli stipendi dei lavoratori italiani che già da tempo si
trovavano agli ultimi posti della
classifica europea.
“Dopo avere propagandato il
calo delle tasse, ci attendiamo
che il governo commenti anche
il calo dei salari... non rinnova
i contratti scaduti a 8 milioni di
Belgio. Per l’anno 2015, la media del costo orario del lavoro è
stata pari a 25 euro per l’Unione europea e a 29,50 euro per
la Zona euro. Riguardo alle variazioni verificate tra il 2014 e il
2015, si sono registrati aumenti
del 2% per l’Unione europea e
dell’1,5% per la zona euro.
Ma i dati di Eurostat ci dicono chiaramente che le conseguenze del Jobs Act non fanno
solo risparmiare soldi alle imprese attraverso la decontribuzione. Nonostante questa sia
stata quasi del tutto annullata,
facendo crollare le assunzioni
a tempo indeterminato (o per
meglio dire a “tutele crescenti”
senza la tutela dell’articolo 18),
dipendenti e sostituisce gli aumenti mancanti con il bonus Irpef degli 80 euro”, ha dichiarato polemicamente il segretario
confederale della Cgil, Franco
Martini. Ma tagliare i salari non
è un effetto collaterale bensì un
obiettivo perseguito sistematicamente dal governo Renzi e
sostenuto dall’Unione Europea
che ha sempre auspicato anche per il nostro Paese meno
vincoli per le imprese e più flessibilità del mondo del lavoro per
dare “competitività” alle aziende italiane. Un compito che
Renzi ha svolto diligentemente togliendo diritti ai lavoratori
e comprimendo ulteriormente i
loro salari.
Lo certifica la Fondazione Di Vittorio della Cgil
I lavoratori immigrati guadagnano il 27% in meno degli italiani
E coprono il 63% dei lavori più umili e faticosi
Sono i risultati di uno studio
della Fondazione Di Vittorio della Cgil: gli immigrati, e qui parliamo di coloro tra questi che
hanno un regolare contratto e
dunque di una minima parte di
essi, producono l’8,6% del PIL
italiano, ma il loro salario è in
media il 27% inferiore a quello dei lavoratori italiani (-24,2%
per gli uomini e -27,6% per le
donne). Tradotte le percentuali in moneta, un lavoratore immigrato dipendente a tempo
pieno guadagna in media 362
euro netti al mese in meno di
un italiano: -350 euro gli uomini e -385 euro le donne. A ciò va
aggiunto il fatto che i lavoratori stranieri sono più di quelli italiani segregati in mansioni poco
qualificate: pulizie, servizi domestici, facchinaggio, bracciantato agricolo. Queste mansioni
coprono quasi due terzi dell’occupazione straniera (63%) a
fronte di poco più di un quinto di
quella italiana (21%).
Tra l’altro “Dal punto di vista
della “segregazione occupazionale” - osserva Sally Kane, responsabile del Dipartimento politiche immigrazione della Cgil
- gli immigrati fanno anche i lavori più pericolosi, basti vedere
i dati degli infortuni sul lavoro”.
Con la crisi poi sono loro i
primi a essere espulsi dal mercato del lavoro, mentre, dove
l’occupazione è stata mantenuta, come nel bracciantato agricolo, è aumentato il lavoro nero
o il ricorso a forme “contrattuali”
superprecarie, come i voucher.
Ciò ha dato luogo ad un incremento della distanza retributiva
tra immigrati e lavoratori autoctoni.
Anche per quanto riguarda il tasso di disoccupazione
la discrepana è notevole. Quello dei migranti nel 2015 è stato
più alto di quasi cinque punti rispetto alla forza lavoro autoctona (16,2% contro 11,4%). Il tasso di sofferenza occupazionale,
altro indicatore che comprende disoccupati, cassintegrati e
scoraggiati disponibili a lavorare, riguardante gli immigrati, è stato nel 2015 pari al 15%,
contro il 3,2% degli autoctoni. In
totale in questa categoria rientrano ben 604 mila persone arrivate sul territorio italiano e che
hanno difficoltà a trovare un lavoro o a mantenerlo.
La condizione dei lavoratori immigrati in Italia altro non
è che il risultato della legge di
stampo nazista Bossi-Fini che
obbliga i migranti alla disperazione e alla miseria materiale e
sociale. Ma anche degli attacchi
ai diritti sindacali delle masse
proletarie e popolari, condannate dal governo del nuovo duce
Renzi ad una condizione lavorativa ottocentesca. Per questo,
passaggi imprescindibili per migliorare la condizione lavorativa
delle masse italiane e migranti
sono l’abrogazione della BossiFini e del Jobs Act.
È la prima sentenza della Corte che riconosce questo diritto
Via libera della Cassazione all’adozione da parte di coppie gay
Il 22 giugno la 1a Sezione
civile della Corte di Cassazione ha accolto definitivamente la domanda di adozione
di una minore da parte della
partner della madre. Si tratta di un evento storico perché, riconoscendo l’adozione
dei figli del partner in una coppia omosessuale (conosciuta come stepchild adoption)
poi rimossa dalla legge sulle
unioni civili, il massimo organo giudiziario dello Stato apre
concretamente questa possibilità per le famiglie gay.
Il caso riguardava una bambina di ormai sette anni, nata
nel 2009 in Spagna con la procreazione assistita eterologa. La donna compagna della
madre, con la quale vive stabilmente da oltre 10 anni, aveva richiesto l’adozione. Accol-
ta dal Tribunale dei minori di
Roma nel 2014 e confermata
dalla Corte d’appello nel 2015,
contro la richiesta aveva fatto
ricorso il procuratore generale
Giovanni Salvi. La Cassazione
si è quindi pronunciata affermando che l’adozione del figlio
del partner omosessuale “non
determina in astratto un conflitto di interessi fra il genitore biologico e il minore” e “può esse-
re ammessa sempreché, alla
luce di una rigorosa indagine
di fatto svolta dal giudice, realizzi effettivamente il preminente interesse del minore”.
Arcigay tramite il segretario
nazionale Gabriele Piazzoni
ha salutato la sentenza come
“un giorno di festa, in cui restituiamo lo schiaffo umiliante di
chi voleva discriminare i nostri
figli e le nostre figlie: per loro
possiamo finalmente progettare un futuro uguale a quello
di tutti gli altri bambini”. La presidente di Famiglie arcobaleno, Marilena Grassadonia, dal
canto suo stigmatizza il comportamento del governo e del
parlamento: “è una vittoria per
i nostri figli e le nostre figlie ed
è solo merito nostro esserci affidati ai giudici a fronte di una
politica incapace di legiferare
nell’interesse dei minori”.
A riconferma che lo stralcio
della stepchild adoption non riflette i desideri delle masse ma
è stato un’offesa ai diritti civili,
frutto di un bieco calcolo politico del governo Renzi per non
scontentare la destra clericofascista. Ora vanno riconosciute adozioni e riconoscimento
dei figli alla nascita per tutte le
coppie omosessuali.
un nuovo PCI revisionista / il bolscevico 7
N. 27 - 7 luglio 2016
Con la “Costituente comunista” a Bologna
Nasce un nuovo
PCI revisionista
“Si ispira ai valori della Costituzione e si richiama al miglior patrimonio politico ed ideologico dell’esperienza
storica del PCI, da Gramsci a Berlinguer, e in particolar modo al pensiero gramsciano e togliattiano”
Che i sinceri comunisti valutino attentamente
la nuova-vecchia proposta revisionista
All’insegna dello slogan “Ricostruiamo il Partito comunista”
si è tenuta dal 24 al 26 giugno a
San Lazzaro di Savena (Bologna)
l’“Assemblea nazionale costituente comunista”. Vi hanno partecipato 571 delegati, provenienti per
la maggior parte dal PCdI (Partito comunista d’Italia, ex PdCI di
Oliviero Diliberto) e da spezzoni del PRC di Paolo Ferrero, con
l’intento dichiarato di dare vita, o
meglio di ridare vita ad un partito
in tutto e per tutto identico, anche
nel nome, al vecchio PCI, rivendicandone tutta la storia da Gramsci
e Togliatti fino a Berlinguer. Fino
cioè alla Bolognina dell’89 che ne
annunciò la liquidazione, celebrata due anni dopo a Rimini con la
sua trasformazione nel PDS liberale di Occhetto.
Questa “Costituente comunista” fa seguito quindi all’appello lanciato due anni fa
dall’“Associazione per la ricostruzione del Partito comunista nel
quadro ampio della sinistra di classe”, e firmato allora da falsi comunisti come Angelo D’Orsi, Gianni
Vattimo e gli ex “maoisti” Domenico Losurdo e Manlio Dinucci.
Alcuni dei quali, come quest’ultimo, e come il noto trotzkista Fausto Sorini (ex PRC corrente “Ernesto” poi PdCI), l’ex PRC Gianni
Favaro e gli ex PdCI Vladimiro
Ghiacchè e Marina Alfier, si sono
nel frattempo ritirati dall’iniziativa, sembra soprattutto per dissensi
sulla forma partito di massa che la
maggioranza proponeva di costruire da subito, anziché cominciare
con la costituzione di un gruppo di
avanguardia come proponevano i
suddetti dissenzienti.
Tra gli invitati anche una delegazione di Sinistra italiana, guidata da Stefano Fassina che ha anche
rivolto un saluto all’assemblea.
Presente in sala anche l’opportunista e manovratore Giorgio Cremaschi che gioca su più tavoli. Tra
gli invitati stranieri c’erano il segretario dei comunisti siriani, gli
ambasciatori di Vietnam e Cina e
delegazioni di partiti revisionisti
cubani, palestinesi e brasiliani.
Anche il simbolo del nuovo PCI è praticamente identico a
quello del vecchio partito revisionista disegnato da Guttuso, salvo la mancanza dei puntini tra le
tre lettere della sigla e le aste delle bandiere con la falce e martello e italiana di colore nero: simbolo che già il PCdI di Diliberto, che
ne usa una versione appena leggermente diversa, secondo Marco
Rizzo avrebbe avuto in “concessione” da D’Alema, che ne detiene di fatto la proprietà tramite
l’Associazione Berlinguer creata
da Ugo Sposetti. Persino la struttura organizzativa del nuovo partito ricalca fedelmente quella del
PCI togliattiano e berlingueriano,
con la strutturazione territoriale in
cellule, sezioni, federazioni, comitati federali e regionali, fino al Comitato centrale, la Direzione e la
Segreteria. E perfino con la rico-
struzione della FGCI (Federazione giovanile comunista).
Riesumati il vecchio
PCI e la Costituzione
Del resto l’intento di ridare vita
non solo ad un nuovo partito comunista revisionista, ma se possibile ad una copia conforme del
vecchio PCI, è conclamata in tutti i modi e in tutti i documenti costituenti, a partire dallo Statuto del
PCI che, si legge, nasce per il “superamento della vasta diaspora comunista italiana determinata dallo
scioglimento del PCI e dalle successive scissioni del movimento
comunista italiano”, e si ispira “ai
valori della Costituzione repubblicana, della Resistenza e dell’antifascismo, e si richiama al miglior
patrimonio politico e ideologico
dell’esperienza storica del PCI, da
Gramsci a Berlinguer, e in particolar modo al pensiero gramsciano
e togliattiano”. Tra l’altro, tra gli
inni ufficiali, oltre all’Internazionale e Bandiera Rossa, il nuovo
PCI adotta anche l’Inno dei lavoratori del socialriformista Turati e
nientemeno che il nazionalista e
patriottardo Inno di Mameli.
Nel documento con le venti
Tesi per la Costituente, le prime
due sono dedicate proprio alla riesumazione e assunzione a modello del vecchio PCI, a partire
da Gramsci e dalla sua concezione revisionista dell’“egemonia”,
che sostituiva la rivoluzione socialista e la dittatura del proletariato con la conquista progressiva
da parte delle masse lavoratrici di
“trincee e casematte” della società borghese in vista della loro trasformazione in “classe dirigente”.
Sviluppata poi da Togliatti nel dopoguerra con la sua linea socialdemocratica e riformista della “Via
italiana al socialismo”, e i suoi tre
capisaldi del “partito nuovo”, della “democrazia progressiva” e delle “riforme di struttura”. Tutto ciò,
secondo il documento, delineava “un progetto di società socialista che garantisce pluralismo e libertà personali, individuando una
sua leva nel modello ‘democratico-sociale’ descritto dalla Costituzione”.
Non il socialismo, infatti, ma
la Costituzione del 1948, di cui
si chiede espressamente il “rilancio”, rappresenta l’unico orizzonte
chiaro e definito del nuovo PCI revisionista, al punto dall’affermare
che se i suoi principi fossero stati
attuati ci sarebbe oggi “un modello di società a democrazia partecipata in grado di progredire verso
il socialismo”. Salvo poi, riguardo alla posizione da prendere sul
referendum costituzionale di ottobre, limitarsi a parlare ambiguamente di “contrastare l’attuale (contro) riforma costituzionale
a partire dal referendum”. Senza
denunciarne il carattere fascista e
piduista e senza chiedere di mandare a casa Renzi (fra l’altro neanche nominato), ma proponendo
addirittura delle proprie controriforme del tutto simili, a partire
da “una legge di revisione costituzionale che corregga il bicameralismo perfetto”. “La costruzione
di una prospettiva socialista” deve
avvenire “dentro un sistema di democrazia costituzionale e rappresentativa”, chiosa infatti il documento.
‘rifondare’ il PCI”, e che alle elezioni “sono andati in supporto al
voto di Sinistra italiana …o direttamente alleati col PD come a Cagliari, Marino e Genzano (Rm)”.
Socialismo
“prospettiva di
superamento” del
capitalismo
Evidentemente
l’aumento
dell’astensionismo di sinistra e i
non trascurabili voti presi anche
dalle pur poche liste di Rizzo hanno confermato alla borghesia l’esistenza in Italia di migliaia e migliaia di sinceri comunisti ancora
in cerca di un partito autenticamente comunista, e che potrebbero trovare nel PMLI, una volta
venuteni a conoscenza e aperto un
confronto con esso. Per questo la
classe dominante borghese ha bisogno ancora di creare degli specchietti per le allodole come il nuovo PCI, rivestiti con il simbolo
della falce e martello, per ingannare e tenere ingabbiati gli anticapitalisti e i fautori del socialismo
nell’elettoralismo e nel parlamentarismo borghesi.
Nessuna meraviglia, quindi,
se a condurre questa operazione
teleguidata dalla borghesia ci siano falsi comunisti di lungo corso come Diliberto, che anche se
mai nominato ne è palesemente il
“grande vecchio”, mentre il trotzkista Paolo Ferrero per ora sta
alla finestra a guardare. Questi
imbroglioni politici non solo non
fanno un doveroso bilancio storico
critico del PCI revisionista, come
ha fatto il PMLI (vedi il documento che ripubblichiamo in questo
giornale), ma non fanno neanche
un bilancio autocritico di sé stessi,
visto che come Rifondazione comunista hanno sostenuto i governi Prodi e il “pacchetto Treu”, che
è il padre del Jobs Act di Renzi, e
come PdCI hanno sostenuto senza battere ciglio i bombardamenti
di D’Alema sull’ex Jugoslavia, da
cui ha preso storicamente slancio
l’attuale interventismo dell’imperialismo italiano.
Falsi comunisti e imbroglioni
politici come Losurdo, già “maoisti” e fautori della Grande Rivoluzione Culturale Proletaria, poi
passati al soldo del socialimperialismo sovietico, di cui hanno difeso i suoi crimini internazionali,
e che oggi appoggiano entusiasticamente il socialimperialismo cinese della cricca revisionista e fascista che ha usurpato il potere in
Cina dopo la morte di Mao.
Per tutto ciò invitiamo i sinceri
comunisti a valutare attentamente
questa nuova-vecchia proposta politica e avere il coraggio di fare il
bilancio della storia del PCI e del
revisionismo moderno a livello internazionale e nazionale e quindi
di fare una scelta meditata e consapevole per l’autentico partito del
proletariato, il PMLI. Per il bene
supremo del proletariato, della lotta di classe e del socialismo.
Ne consegue che se da una parte si conferma genericamente che
ancora oggi il socialismo è la “soluzione alla crisi capitalistica strutturale”, dall’altra il socialismo è
ridotto a una non meglio precisata “prospettiva”, la “prospettiva di
un superamento del fallimentare
e ingiusto sistema economico vigente”. I capisaldi marxisti-leninisti - la lotta di classe, la rivoluzione socialista, l’abbattimento dello
Stato borghese e la dittatura del
proletariato - non sono neanche
nominati. Della madre di tutte le
questioni, il potere politico al proletariato, neanche si parla. Anzi,
non si parla proprio del proletariato, né tanto meno della necessità
di fargli riacquistare la coscienza
di classe per sé, di classe generale, che ha perduto proprio grazie
all’azione nefasta del PCI revisionista e delle sue filiazioni liberali,
riformiste e falso comuniste, ma
solo di “ricostruire una coscienza
di classe tra coloro che vivono del
proprio lavoro”. Lavoro - si sottolinea - come “motore di riscatto, benessere e crescita dei cittadini”: evidentemente all’interno del
sistema capitalistico, che continua
ad esistere in attesa di un suo futuro “superamento” per grazia ricevuta.
Tanto è vero questo che si cita
a vanvera la Nep (Nuova politica
economica) di Lenin per dimostrare che oggi è possibile ispirarsi
ad essa per “coniugare elementi di
mercato e socializzazione”, di rapporto possibile tra economia pianificata e mercato, tra economia
pubblica e privata, durante una
“lunga fase di transizione prima
del passaggio a forme più avanzate di socializzazione”.
Il modello da seguire sarebbero le economie di paesi considerati ancora socialisti, come Cina,
Vietnam e Cuba. In particolare la
Cina socialimperialista, che secondo il documento sarebbe ancora “un paese ad orientamento
socialista”, la cui “poderosa ascesa” non è dovuta ad “una presunta conversione al neoliberismo”,
dove conviverebbero piano e mercato e il pubblico avrebbe un ruolo
centrale. Dove la cricca fascista di
Xi Jinping, tramite il PCC revisionista, “governa un’economia controllata dallo Stato”, la povertà è
stata “sradicata”, e dove esiste un
Operazione
teleguidata dalla
borghesia
Il simbolo del “nuovo” PCI revisionista legato alla grafica che unisce
Gramsci, Castro, Guevara a Lenin, come sono comparsi sul documento di tale partito pubblicato a tutta pagina su il manifesto del 22
giugno 2016
“solido sistema di Stato sociale” e
di “politiche di aumento del reddito e dei diritti dei lavoratori”. E
via favoleggiando, secondo la dottrina revisionista del “marxismo
innovativo” esaltata in una scheda
tematica presentata da un “alto dirigente” e professore dell’Accademia delle scienze cinese, Cheng
Enfu.
A riprova che il revisionismo è
il fondamento del nuovo PCI è dimostrato anche dal fatto che nessuno dei suoi documenti, tanto
meno la relazione congressuale introduttiva di Bruno Steri e le conclusioni di Mauro Alboresi, eletto
segretario nazionale, parla della
restaurazione del capitalismo in
Urss a partire dal XX Congresso
kruscioviano e della lotta di Mao
contro il revisionismo moderno.
Al servizio del
socialimperialismo
cinese
Non soltanto la Cina non è individuata come una superpotenza
socialimperialista in concorrenza
con le superpotenze imperialiste
americana, giapponese ed europea
per il dominio del globo, ma è vista, insieme alla Russia del nuovo
zar Putin e alle altre potenze emergenti del gruppo BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica)
come il “nuovo contrappeso nella
gerarchia del potere planetario”.
In altre parole oggi l’imperialismo
e le minacce di guerra sarebbero
rappresentati solo dagli Usa (con
una alleanza in posizione subalterna di Ue e Giappone), mentre secondo anche la scheda presentata dall’imbroglione e opportunista
Losurdo, “oggi è la Cina, diretta
da un forte e sperimentato Partito
comunista, a costituire il punto di
riferimento della lotta contro l’imperialismo, il colonialismo, il neocolonialismo e la guerra”.
Ciononostante si tiene un at-
teggiamento ambiguo anche nei
confronti della Ue imperialista,
dalla quale non si chiede affatto
l’uscita, come coerenza imporrebbe, ma solo di lottare contro “questa Europa”, contro la sua “attuale configurazione”, e solo per
un’“uscita da sinistra dall’euro”. E
in tutto ciò ritenendo che “un ruolo centrale debba essere svolto dal
Gruppo della sinistra unitaria europea (Gue-Ngl)”, che “dovrà impegnarsi per studiare e promuovere forme di liberazione dal giogo
liberista della Ue”: ossia accettandone le istituzioni e le regole
parlamentari per cambiarla dall’“interno”, come sostiene del resto anche il nuovo duce Renzi.
Ce ne sarebbero tante altre di
queste perle revisioniste, liberali e riformiste disseminate nei
documenti costituenti presentati da questi imbroglioni politici,
ma lo spazio non basta. E comunque quanto detto ci sembra basti e avanzi per smascherare questa operazione come un’ennesima
operazione della classe dominante borghese diretta a ricreare un
“nuovo soggetto” a sinistra del PD
che di comunista ha solo il nome
e la falce e martello, ma che serve in realtà a drenare i voti degli
astensionisti di sinistra e riportali
nell’alveo dell’elettoralismo, del
parlamentarismo e delle istituzioni borghesi.
Dopo le ripetute batoste elettorali, come quella della “Sinistra
arcobaleno” nel 2008, e le successive spaccature, diaspore e rimescolamenti, questi falsi comunisti
si erano dissolti come neve al sole,
ma oggi ricompaiono per costituire questo nuovo partito revisionista che si colloca appena a sinistra
di SI di Vendola e Fassina e appena più a destra del Partito comunista dell’imbroglione trotzkista
Rizzo, al quale tentano di rosicchiare terreno e che non a caso li
attacca bollandoli come “un gruppetto di furbacchioni che vorrebbe
8 il bolscevico / la lotta del PMLI contro il revisionismo del PCI
N. 27 - 7 luglio 2016
Bilancio della storia del PCI
E’ finito un inganno
durato 70 anni
La storia del proletariato italiano non finisce con la liquidazione del PCI
ma continua col PMLI
Documento del CC del PMLI
Riproduciamo l’importante
Documento del Comitato centrale del PMLI del 21 Gennaio
1991 sul bilancio della storia
del PCI.
Nel momento in cui col XX
congresso Occhetto sta per celebrare il funerale del PCI e tenere
arrivasse
all’autoscioglimento,
all’ammissione di fatto del suo
fallimento storico, al rinnegamento persino del suo simbolo.
Per 23 anni, ricordiamo in particolare il numero monografico de
Il Bolscevico dedicato al 50° anniversario del PCI, ci siamo seccati la gola per spiegare che tale
partito era un partito revisionista
le Gorbaciov, all’imperialismo e
al capitalismo, dimostrano il fallimento totale a livello storico, ideologico, strategico, economico e
pratico del revisionismo moderno,
la sua inconsistenza, la sua incapacità di durare nel tempo, finanche
rispetto alla stessa socialdemocrazia, che invece continua ancora ad
esistere.
difendere il sistema capitalistico e
la democrazia borghese e integrare in essi la classe operaia.
Per tutti questi anni il PCI non
ha fatto che spargere nella classe
operaia revisionismo, riformismo,
liberalismo, elettoralismo, parlamentarismo, pacifismo, legalitarismo, al posto del marxismo-leninismo e della strategia e della
il proletariato sulla via dell’Ottobre.
Rimangono comunque agli atti
i nostri sforzi tesi a smascherare,
quantomeno a livello ideologico,
teorico, storico e strategico, il più
forte partito revisionista non al
potere e uno dei più grossi partiti revisionisti in assoluto in Europa e nel mondo, nonché Gramsci
visionista promosso da Cossutta,
Garavini, Libertini, Russo Spena,
Salvato, Vinci ecc., tenderebbe
comunque a riversarsi all’interno
del nostro Partito, via via che nuove forze vi entreranno ed esso si
espanderà a livello nazionale.
La nostra lotta contro il revisionismo è stata una lotta teorica e politica, ma anche sindacale
Rimini, 31 gennaio 1991. Un’immagine della storica presenza del PMLI con le sue insegne in occasione dell’apertura del XX e ultimo congresso del PCI. Nell’occasione fu diffuso il documento del CC del PMLI “È finito
un inganno durato 70 anni” (foto Il Bolscevico)
a battesimo quel mostriciattolo del
PDS, noi auspichiamo che i militanti di questo partito che credono
ancora nel socialismo e vogliono
restare comunisti come lo intendeva Lenin sappiano trarre un serio e
approfondito bilancio della storia
del PCI, per capire perché e come
si è arrivati alla sua liquidazione,
per evitare che nel futuro si ripeta
una simile amara esperienza, per
stabilire che cosa devono fare per
proseguire nella lotta di classe per
la conquista del potere politico da
parte del proletariato.
Per aiutarli in questo fondamentale bilancio che investe l’avvenire del proletariato italiano e
delle masse popolari, quindi anche lo stesso avvenire del nostro
Partito, offriamo loro questo documento e il numero speciale de Il
Bolscevico sul PCI che lo riporta.
Noi marxisti-leninisti italiani
non siamo sorpresi dalla liquidazione del PCI, sapevamo da sempre che prima o poi sarebbe crollato. Solo che pensavamo che
sarebbe stato abbattuto da sinistra
sotto i nostri colpi e di quelli delle compagne e dei compagni di
base del PCI una volta che avessero preso coscienza del tradimento
del gruppo dirigente. Fino all’89
infatti era impensabile che il PCI
e che i suoi dirigenti non avevano alcun interesse a guidare il proletariato ad abbattere il capitalismo, conquistare il potere politico
e realizzare il socialismo. Ora, paradossalmente, è il liquidatore di
origine trotzkista Occhetto, proprio colui che nel Sessantotto ci
disputava il terreno rivoluzionario, che ci dà ragione.
Meglio così, una fatica in meno
per sgombrare il campo di un partito che ostruiva la strada verso il
socialismo. Bisogna essere contenti, visto che è finito un inganno durato 70 anni. Se si capisce
questo non c’è alcun motivo per
disperarsi, per ritenersi scippati di un nome, quello comunista,
che non ha mai avuto nel PCI la
sostanza ideologica e politica sperate e per cui i nostri padri hanno
dato anche la vita. Il punto vero
perciò non è il cambio del nome,
quanto il bilancio della storia del
PCI. Solo così si potranno scoprire
le fondamenta revisioniste di questo partito, e quindi capire perché
è finito nelle grinfie della borghesia, della socialdemocrazia e del
neoduce Craxi.
La liquidazione del PCI, nonché la capitolazione dei regimi revisionisti dell’Est, sull’esempio e
l’impulso dell’Urss del neolibera-
Per lungo tempo il revisionismo moderno ha ingannato il proletariato e i popoli dei vari paesi
ma alla fine ha fatto bancarotta,
e ha dovuto rinnegare se stesso,
autoliquidandosi e ritornando al
liberalismo borghese dal quale
era provenuto. Non c’è da stupirsi quindi se la socialdemocrazia
gli è sopravvissuta, visto che essa
fin dall’inizio della sua storia, da
quando cioè Lenin la denunciò, si
era già saldamente attestata sul liberalismo borghese e capitalistico
a cui oggi tutti i partiti revisionisti
si stanno omologando.
1 - L’elemento
fondamentale
del bilancio
della storia del PCI
è l’inganno politico
L’elemento fondamentale che
caratterizza la storia del PCI è
l’inganno politico.
Infatti il PCI si è costituito nel
’21 per abbattere il capitalismo e
realizzare il socialismo, tramite la
lotta di classe e la rivoluzione socialista, mentre in realtà in tutto il
corso della sua storia ha lavorato
per sabotare la lotta di classe, per
tattica proletarie e rivoluzionarie.
Questo inganno è stato possibile grazie a un lento, graduale e
pilotato processo di deideologizzazione, decomunistizzazione e
socialdemocratizzazione dei militanti, del proletariato e dei lavoratori, delle masse femminili, giovanili e popolari.
Attraverso mille sotterfugi,
mille piccoli e grandi cambiamenti sempre diretti a spostare
a destra l’asse del partito, il PCI
ha finito col depotenziare sul piano ideologico, politico e organizzativo la carica rivoluzionaria del
proletariato, col decomunistizzare le nuove generazioni, col sradicare la concezione marxista-leninista dell’emancipazione della
donna dalla coscienza delle masse
femminili.
Il PMLI ha fatto quanto ha potuto per evitare questo mostruoso
crimine, ma purtroppo non ci è riuscito, poiché ci sono mancati la
forza organizzativa e i mezzi economici per far giungere la nostra
voce alla grande massa dei militanti del PCI, del proletariato e dei
giovani, e poiché nessun dirigente
di quel partito, che oggi si riempie
la bocca di comunismo, sia pure
“moderno’’ e “rifondato’’, ha mai
mosso un solo capello per tenere
e Togliatti, tra i maggiori capofila
storici del revisionismo mondiale,
paragonabili per statura e influenza rispettivamente a un Kautsky
e a un Krusciov: Gramsci, il cui
pensiero liberal-riformista è stato preso a modello da molti partiti revisionisti e trotzkisti di tutto il mondo, e tuttora gode di una
vasta pubblicistica a livello nazionale, europeo e internazionale, e
Togliatti, uno dei capi revisionisti
unanimemente riconosciuto tra i
più abili e manovrieri, capace di
coprirsi per anni dietro Stalin e la
III Internazionale, mentre portava
avanti subdolamente la sua strategia revisionista di destra.
È a questa posizione e a questa
analisi che bisognerà rifarsi e da
cui occorrerà ripartire per continuare d’ora in avanti la lotta contro il revisionismo trasformatosi
in neorevisionismo. Infatti, anche se attualmente il revisionismo
non ha ancora un’unica centrale
organizzativa a livello mondiale,
la battaglia contro di esso non è
finita, sia perché il revisionismo
continuerà ad esistere sotto forma di riformismo, di parlamentarismo, di costituzionalismo, ecc.,
sia perché anche se esso non arrivasse a ricostituirsi organizzativamente attraverso un partito neore-
all’interno delle fabbriche e della CGIL, pratica (nelle piazze, nei
quartieri, nelle scuole e nelle università), e finanche fisica, dal momento che spesso abbiamo dovuto
affrontare anche duri scontri fisici
perché le masse, ingannate dai dirigenti revisionisti, non comprendevano né accettavano le nostre
denunce del revisionismo del PCI
e dell’Urss di Breznev ritenendoli comunisti. In questa lotta non ci
siamo fatti condizionare, al contrario dei falsi marxisti-leninisti
e degli opportunisti-trotzkisti di
ogni specie, dal rapporto di forza
schiacciante a nostro sfavore; non
abbiamo avuto paura di affrontare
a viso aperto, come ci hanno insegnato Lenin e Mao, chi apparentemente era infinitamente più forte,
più autorevole e più seguito dalle
masse di noi, perché eravamo coscienti che si trattava di un gigante dai piedi d’argilla; perché eravamo nel giusto, dalla parte del
marxismo-leninismo-pensiero di
Mao, sicuri che la verità alla fine
avrebbe trionfato, e che se anche
fossimo stati distrutti, il fuoco ormai era stato acceso, quel che era
scritto era scritto, e niente sarebbe
più stato come prima.
Quel che conta è che l’inganno è comunque finito, e che in
N. 27 - 7 luglio 2016
Italia c’è stato un Partito che ha
avuto il coraggio di combatterlo
e smascherarlo: ciò è stato possibile, proprio perché il nostro è
un proletariato di grande forza,
prestigio ed esperienza, ed ha saputo esprimere dal suo seno, pur
avendo subito 70 anni di inganni
e menzogne, la sua parte più cosciente e organizzata che ha rotto
col revisionismo e gli ha dato battaglia fino in fondo. Il nostro proletariato esce dunque a testa alta
dalla vergognosa disfatta del revisionismo italiano, poiché ha avuto
chi lo ha degnamente rappresentato nello scontro storico a livello
interno e internazionale tra il marxismo-leninismo-pensiero di Mao
e il revisionismo moderno.
2 - Le fasi del
grande inganno
Storicamente il grande inganno del PCI ai danni del proletariato ha avuto tre grandi fasi: la fase
sotto il controllo di Lenin, Stalin e
della III Internazionale (dalla fondazione del PCI all’VIII congresso: 21/1/1921 - 8/12/1956); la fase
della “via italiana al socialismo’’
(dall’VIII al XVII congresso, alle
dimissioni di Natta: 14/12/1956
- 21/6/1988); la fase del “nuovo
corso’’ neoliberale (dall’elezione di Occhetto a segretario generale al XX congresso: 21/6/1988
- 29/1/1991). Anche se, va detto,
queste fasi non sono da considerare rigidamente demarcate ma,
come vedremo, concatenate e conseguenziali tra di loro.
La caratteristica peculiare del
PCI è che fin dall’indomani della
sua giusta e necessaria fondazione, avvenuta su impulso di Lenin
e della III Internazionale, questo
partito è caduto nelle mani della
borghesia, dapprima tramite la direzione opportunista di “sinistra’’
di Bordiga, e poi, dopo la sconfitta
definitiva di quest’ultima nel ’26,
tramite la direzione revisionista di
destra di Gramsci e successivamente di Togliatti.
Gramsci, con le sue teorie liberal-riformiste che sostituivano la
costruzione dei consigli a quella
del partito, il concetto di “blocco
storico’’ a quello di lotta di classe,
il concetto di “egemonia’’ a quello
della dittatura del proletariato, e il
concetto di “guerra di posizione’’
a quello di insurrezione rivoluzionaria per il socialismo, pose per
primo le fondamenta revisioniste
del PCI. Togliatti riprese, sviluppò
e applicò quelle teorie con la “via
italiana al socialismo’’, che sta a
sua volta all’origine dell’ulteriore
passaggio revisionista del partito
negli anni ’70 e ’80, fino all’attuale liquidazione all’insegna del neoliberalismo.
Finché c’erano Lenin e poi Stalin e la III Internazionale, quest’anima revisionista della direzione
del PCI veniva combattuta ed era
costretta a camuffarsi e restare al
coperto. Il revisionismo di destra
di Gramsci fu capito e isolato di
fatto dalla direzione marxista-leninista dell’allora movimento comunista internazionale guidato da
Stalin. Lo stesso Togliatti dovette
a lungo rimanere coperto all’ombra di Stalin, preferendo portare
avanti le sue trame dietro le quinte.
Ma dopo lo scioglimento della
III Internazionale Togliatti rompe
gli indugi, e con la “svolta di Salerno’’ esce allo scoperto rivelando in maniera più marcata la sua
antica vocazione revisionista, riformista e borghese. E con l’VIII
congresso del ’56 - non a caso tenuto dopo il XX congresso del
PCUS in cui Krusciov attuò il colpo di Stato che pose fine alla dittatura del proletariato in Urss e attaccò frontalmente la gigantesca
opera di Stalin - Togliatti sviluppò
e sistematizzò compiutamente tale
la lotta del PMLI contro il revisionismo del PCI / il bolscevico 9
svolta lanciando la “via italiana al
socialismo’’, fondata sul rinnegamento della dittatura del proletariato e della rivoluzione socialista,
l’accettazione della democrazia
parlamentare borghese, l’accettazione piena della Costituzione
borghese come confine all’azione
del partito del proletariato.
Successivamente questa linea
di socialdemocratizzazione e di
omologazione al sistema capitalistico del PCI è stata ulteriormente
portata avanti da Longo e ancora
più da Berlinguer, col “compromesso storico’’ e la “solidarietà
nazionale’’ e completata dalla segreteria Natta - sia pure dopo una
lunga fase di incertezze seguita
al declino elettorale del PCI - col
XVII congresso dell’aprile ’86, in
cui il PCI celebra la sua Bad-Godesberg, si rifonda come “moderno partito riformatore’’ e approda alla socialdemocrazia europea,
con la complicità dei sedicenti e
ridicoli “comunisti democratici’’
Ingrao, Cossutta, Garavini, Libertini, Salvato, Serri.
Da questo momento, accentuatosi il declino elettorale del PCI,
intensificatisi i diktat del neoduce Craxi per inglobarlo nell’”unità
socialista’’ sotto la sua egemonia,
abbandonata definitivamente la
classe operaia e sposati completamente la democrazia borghese
e l’economia di mercato, è il neoliberalismo l’ideologia guida di
Botteghe Oscure. A tappe forzate Occhetto e la sua combriccola di tecnocrati borghesi lanciano
prima il “nuovo corso’’ neoliberale al XVIII congresso del PCI
(marzo ’89) che chiude definitivamente i conti con l’esperienza storica del movimento operaio e dello stesso PCI, poi (novembre ’89)
avanzano la proposta di cambiare
nome e simbolo del PCI, proposta
formalizzata il 10 ottobre ’90 col
nuovo nome, Partito democratico
della sinistra (PDS), e col nuovo
simbolo del partito, infine arrivano alla liquidazione vera e propria
del PCI al XX congresso.
Questa, a grandissime linee,
la storia delle tre fasi del grande
inganno del PCI durato 70 anni,
dalla quale emerge, nonostante la
complessità dei vari momenti storico-politici attraversati, che c’è
un unico filo nero, un’unica strategia revisionista che le attraversa. In particolare dalla “svolta di
Salerno’’ alla “solidarietà nazionale’’ (e con arretramenti e giravolte anche dopo) la linea revisionista è sempre la stessa: quella
dell’”unità nazionale’’, cioè l’incontro governativo tra PCI, DC
e PSI: si tratta della linea classica socialdemocratica e riformista
della collaborazione del proletariato al governo della borghesia.
Attualmente, tale linea ha assunto
la forma della “alternativa’’, vale
a dire dell’alleanza PDS-PSI e altri partiti per escludere la DC dal
governo; ma non è detto che l’alleanza con lo scudocrociato non rientri dalla finestra in un prossimo
futuro, come è già successo altre
volte nel corso degli anni ’80 (per
es. con la “rivoluzione copernicana’’ di Occhetto). Tutto sommato
anche l’”alternativa’’ persegue lo
stesso obiettivo di fondo della “via
italiana al socialismo’’, del “compromesso storico’’ e della “solidarietà nazionale’’, che è quello della partecipazione subalterna della
classe operaia al governo borghese.
Una partecipazione che significa rinuncia per sempre da parte
del proletariato al potere politico
e al socialismo per servire gli interessi del capitalismo. Anche perché, come l’affare “Gladio’’ dimostra, nell’Italia capitalistica la via
parlamentare e pacifica al potere
effettivo è sbarrata con le armi e
col sangue davanti al proletariato;
solo quando la classe dominante
ha in pugno il partito che lo rappresenta e lo controlla, l’ha addomesticato, lo ha reso inoffensivo
e fedele appieno allo Stato borghese, allora si mostra disposta a
schiudergli le porte del governo.
Così si è comportata col PSI di
Nenni e Lombardi (che pure, nonostante avesse dato ampia prova
nella storia di aver tradito la classe
operaia, quando arrivò al governo
con la DC provocò un tentativo di
colpo di Stato ordito da Segni-De
Lorenzo), e così probabilmente
si comporterà anche col PDS del
voltagabbana Occhetto.
Quello che è più grave è che la
linea dell’inserimento governativo del PDS - linea su cui fra l’altro concordano guarda caso tutte
e tre le mozioni al XX congresso
- è quella della “rifondazione democratica dello Stato’’: una parola
d’ordine fuorviante e reazionaria,
perché con essa l’intero gruppo dirigente dell’ex PCI rigetta implicitamente la stessa Repubblica nata
dalla Resistenza su cui fino a ieri
si era invece appiattito e di conseguenza si sposta armi e bagagli
sul terreno della repubblica presidenziale, della P2, di Craxi e della
vecchia e nuova destra, tant’è vero
che anche il MSI invoca ora la “rifondazione dello Stato’’.
Mao, dopo la sua morte e il colpo
di Stato dell’omuncolo arcirevisionista e fascista Deng, ha finito
per precipitare nel capitalismo più
spregevole e in una nera e sanguinaria dittatura fascista.
3 - Che occorre lottare affinché
il Partito sia sempre marxista-leninista.
Poiché il revisionismo continuerà ad esistere finché esisteranno la borghesia e l’imperialismo, ed esisterà sempre in forma
latente o palese la lotta tra le due
linee in seno al Partito, poiché la
borghesia non rinuncerà mai a far
cambiare di colore al Partito e fargli abbandonare la via rivoluzionaria, occorre non cessare mai la
lotta per salvaguardare il carattere
marxista-leninista del Partito eser-
Nel ’21 i rivoluzionari si separarono dai riformisti seguendo
il grande insegnamento di Lenin
che dice: “Quando la classe dirigente di un partito operaio viene meno alla propria funzione
e tradisce, tocca alla classe operaia costruire il proprio partito
capace di guidarla in modo rivoluzionario, nella lotta contro
il proprio nemico di classe, per
il socialismo’’ (citato da Stalin in
“Principi del leninismo’’).
Oggi che i revisionisti, divenuti neoliberali, si smascherano da
se stessi e si ricongiungono con i
vecchi riformisti ricomponendo di
fatto la scissione del ’21, occorre
rifarsi a quella lontana esperienza, che è ancora viva nel cuore
del proletariato e conserva ancora
continua ad esistere, e finché esso
esisterà esisterà insopprimibilmente la sua lotta per l’emancipazione dalla schiavitù salariata e per il socialismo. In secondo
luogo perché c’è il suo Partito, il
PMLI, che lo rappresenta, che ne
sintetizza l’esperienza e gli ideali,
che lo guida e che perciò ne continua la gloriosa storia.
Come ha chiarito il Segretario
generale del nostro Partito, compagno Giovanni Scuderi, nel suo
Rapporto al 2° Congresso nazionale del PMLI (6-8 novembre
1982), “La fondazione del PMLI
ha aperto storicamente la terza
fase della storia del movimento
operaio italiano organizzato, quella del trionfo del marxismo-leninismo-pensiero di Mao nella clas-
3 - Gli insegnamenti
da trarre dal bilancio
della storia del PCI
Dal bilancio della storia del
PCI si possono dunque trarre i seguenti cinque insegnamenti:
1 - Che per non essere ingannati, occorre conoscere a fondo il
marxismo-leninismo-pensiero di
Mao e applicarlo nella pratica, anche dentro il partito.
Ciò significa che per prevenire nuovi, tragici inganni nel futuro occorre che tutti i militanti del
Partito assimilino a fondo il marxismo-leninismo-pensiero di Mao
e educhino la classe operaia e le
nuove generazioni a questa scienza proletaria rivoluzionaria, alla
sua conoscenza e alla sua applicazione pratica nella lotta di classe,
trasmettendogli il marxismo-leninismo-pensiero di Mao nella sua
interezza e genuinità.
In Italia il marxismo-leninismo
è sempre stato gestito, mediato e
trasmesso in maniera opportunistica, revisionistica, ad uso e consumo della borghesia, e questo sia
nel 1892, quando si è formato il
PSI, sia nel 1921, quando è stato
fondato il PCI. Solo con la nascita del PMLI il proletariato ha avuto per la prima volta una corretta e
fedele trasmissione del marxismoleninismo-pensiero di Mao.
Occorre quindi che i combattenti per il socialismo ritornino
ad assimilare il marxismo-leninismo sfrondato e ripulito da tutte
le velenose incrostazioni revisioniste, riformiste, socialdemocratiche, trotzkiste e liberali che in
Italia lo hanno ricoperto per quasi 100 anni; per far questo devono
attingere alle fonti limpide e pure
dei grandi maestri del proletariato
internazionale, Marx, Engels, Lenin, Stalin e Mao, e dei documenti
del PMLI.
2 - Che il revisionismo è la causa principale del cambiamento di
colore del partito e della deviazione e dell’abbandono della via della Rivoluzione d’Ottobre.
Tutta la storia del PCI è un’amara conferma di questa verità,
cosiccome la storia della gloriosa
Urss di Lenin e Stalin, che a causa
delle cricche revisioniste di Krusciov e Breznev prima, e adesso
del neoliberale Gorbaciov, ha finito per rinnegare totalmente il socialismo e la via dell’Ottobre per
sposare il capitalismo e inginocchiarsi all’imperialismo occidentale; e così pure la grande Cina di
Rimini, 31 gennaio 1991. La compagna ‘Lucia’ Nerina Paoletti, uno dei primi quattro pionieri del PMLI,
partecipa alla storica diffusione ai partecipanti al congresso che sancì la morte del PCI (foto Il Bolscevico)
citando una ferrea vigilanza e una
forte e tempestiva critica e autocritica contro gli elementi di revisionismo e i loro portatori che nello sviluppo della vita del Partito
certamente si manifesteranno.
Questa consegna vale in particolare per i nuovi giovani militanti
che entreranno nel PMLI dai quali, come successori della causa rivoluzionaria, dipende se il Partito
continuerà sulla via dell’Ottobre e
se il proletariato potrà conquistare
il socialismo.
4 - Che non bisogna mai allontanarsi dalla via del marxismoleninismo-pensiero di Mao, del
socialismo e della Rivoluzione
d’Ottobre.
Questo insegnamento è strettamente complementare ai due precedenti. Il marxismo-leninismopensiero di Mao, il socialismo e
la Rivoluzione d’Ottobre rappresentano i punti cardinali dell’orizzonte strategico universale del
proletariato internazionale. Se si
revisiona o si rigetta uno dei tre,
inevitabilmente si rigettano tutti e
tre e si cade in braccio alla borghesia e all’imperialismo.
Diverso è il discorso degli aggiustamenti tattici da apportare necessariamente alla linea del Partito
nel corso della lotta per il socialismo, in base alle caratteristiche
specifiche paese per paese, momento per momento, ma in nessun
caso ciò deve comportare revisione o anche soltanto una parziale
rinuncia ai suddetti principi fondamentali. A tal fine occorre vigilare attentamente affinché, come
l’esperienza storica insegna, dietro certe proposte di aggiustamenti tattici della linea del Partito non
si nascondano in realtà attacchi e
snaturamenti dei principi che possono portare passo dopo passo al
loro completo ribaltamento.
5- Che quando la direzione del
partito tradisce la causa del socialismo e non è più possibile rovesciarla e prendere il potere, occorre rompere con essa e ricostruire
il partito.
oggi tutta la sua validità, occorre
scindersi di nuovo dai riformisti e
dai neoliberali e dare tutta la forza
al PMLI, il Partito che rappresenta
nelle condizioni attuali la continuità della centenaria lotta per il socialismo del proletariato italiano.
Sarebbe una grave iattura se
questa forza venisse ancora una
volta ingabbiata, neutralizzata e
mantenuta nell’area riformista, il
che potrebbe succedere se i combattenti per il socialismo, magari
nell’illusione di ripetere un nuovo
’21, dessero credito alle proposte
demagogiche della “rifondazione
comunista’’ e della costituzione di
un partito neorevisionista “federato’’ o meno col PDS, avanzata da
un coacervo di opportunisti, trotzkisti e operaisti come Cossutta,
Garavini, Libertini, Salvato e DP.
4 - La storia
del proletariato
italiano non finisce
con la liquidazione
del PCI ma continua
col PMLI
Con la liquidazione del PCI finisce la storia di un partito ma non
la storia della classe operaia. Noi
neghiamo decisamente l’identificazione fatta ad arte dalla borghesia e dai revisionisti tra la storia
del PCI e quella del proletariato
italiano.
Infatti il proletariato italiano
è sempre stato convinto di lottare per il socialismo, e solo perché
ingannato dai dirigenti revisionisti ha potuto dare fiducia al PCI
e considerarlo il proprio partito.
Ma in realtà il proletariato e il PCI
sono andati per due strade opposte, perché il primo è stato di fatto una classe antagonista alla borghesia, il secondo invece ne ha
sempre difeso occultamente gli interessi strategici.
La storia del proletariato continua, prima di tutto perché esso
se operaia. La prima fase, che va
dal 1892 al 1920, è stata dominata dalla socialdemocrazia predicata dal PSI; la seconda fase, che è
iniziata il 21 gennaio 1921, è stata ed è dominata dal revisionismo
predicato dal PCI. Il rafforzamento e lo sviluppo del nostro Partito
consentirà che la terza fase si realizzi concretamente nella pratica,
ponendo così fine al predominio
dell’ideologia borghese e socialdemocratica del revisionismo’’.
Nell’aprile del ’77, con la fondazione del PMLI, si è dunque
aperta storicamente e idealmente
la 3ª fase della storia del proletariato italiano. Si tratta adesso di realizzarla anche sul piano politico,
organizzativo e pratico, e qui sta
l’importanza del ruolo storico che
hanno da giocare i sinceri combattenti per il socialismo, donne e uomini, già del PCI: sta a loro, dopo
aver compiuto quel serio bilancio critico e autocritico della storia del PCI che auspicavamo all’inizio, scegliere di continuare la
storia della classe operaia e della
lotta per il socialismo in Italia, abbandonando al suo destino il PDS
di Occhetto - ma anche tutti coloro che si propongono di coprirlo
a “sinistra’’ - e cominciando, ora
e non domani, a prendere contatto con il PMLI, a dialogare e collaborare con esso, meglio ancora
ad entrare nelle sue file e a militarvi attivamente per renderlo forte e per svilupparlo in tutta Italia.
Le nostre speranze le riponiamo
soprattutto nelle ragazze e nei ragazzi rivoluzionari che aspirano a
un nuovo mondo.
Oggi non è possibile restare comunisti senza diventare marxistileninisti e militanti del PMLI.
È questo il solo modo per aprire sul piano soggettivo, quello decisivo, la terza fase della storia del
proletariato italiano, che è quella
della lotta per il socialismo.
Il Comitato centrale
del PMLI
Firenze, 21 Gennaio 1991
2 il bolscevico / documento dell’UP del PMLI
stampato in proprio - committente responsabile: M. MARTENGHI (art. 3 - Legge 10.12.93 n. 515)
PARTITO MARXISTA-LENINISTA ITALIANO
Sede centrale: Via Antonio del Pollaiolo, 172a - 50142 FIRENZE
Tel. e fax 055.5123164 e-mail: [email protected]
www.pmli.it
N. 3 - 22 gennaio 2015
interni / il bolscevico 11
N. 27 - 7 luglio 2016
Sicilia in fiamme
Cinquecento roghi nell’Isola, cento sfollati e diversi intossicati da fumo. A Monreale evacuati 30 bambini
dell’asilo. A Palermo brucia un ecomostro pieno di amianto. In fumo riserve naturali. Colpite strutture turistiche
‡‡Dal nostro corrispondente
della Sicilia
Il problema degli incendi in
Sicilia è antico, ma questa volta è innegabile che il danno è di
entità enorme: riseve bruciate,
palazzi, case, scuole e ospedali evacuati, un centinaio di sfollati e decine di intossicati, collegamenti stradali e ferroviari
interrotti. Cinquecento, hanno
calcolato i Vigili del fuoco e la
Protezione civile, sono stati i roghi che hanno imperversato tra
le province di Palermo, Messina, dove sono bruciati ettari
del parco dei Nebrodi, Trapani,
Agrigento, Ragusa e Caltanissetta nella giornata di giovedì
17 giugno. In fiamme nella provincia di Palermo grandi comuni
come Cefalù, Terrasini, Monreale, San Martino delle Scale e la
riserva di Monte Pellegrino nel
capoluogo.
La provincia più colpita è
dunque stata quella di Palermo.
Qui si è rischiato il peggio. Diversi gli intossicati. Tutte le ambulanze della provincia erano
mobilitate. Sono state decine
le persone trasportate dai sanitari del 118 negli ospedali. Una
trentina a Palermo, alcuni provenienti dal rogo dell’Arenella,
dove è bruciato un ecomostro
pieno di amianto, e dello Sperone, frazioni del capoluogo. Dieci
i pazienti soccorsi a Cefalù, altri
due a Monreale. A questo bilancio, vanno aggiunti i trenta bambini dell’asilo di Monreale, evacuati dalla loro scuola, soccorsi
e trasportati all’ospedale Ingrassia di Palermo.
Devastato il territorio di Cefalù, la perla normanna in provincia, dove le fiamme hanno
divorato ettari di vegetazione e
attaccato case e villette. L’ospedale ha dovuto sospendere ricoveri e esami. Cancellato il Village Mediterranée.
A Trapani è stata emergenza
in tutta la provincia, soprattutto
nella zona tra Castellammare e
Alcamo. In provincia di Messina
segnalati incendi diffusi nei comuni di Gioiosa Marea, Sant’Agata di Militello, Rometta Marea
e Motta d’Affermo. In provincia
di Agrigento incendio a Santo
Stefano di Quisquina, a Caltanissetta fiamme nei comuni di
Bompensiere e Caltanissetta.
La viabilità siciliana è impazzita per l’intera giornata e l’isola
è rimasta spaccata a metà. Interrotti i treni tra Palermo e Termini Imerese e tra Messina e
Sant’Agata. Chiusa l’autostrada
Palermo-Messina e la Ss 113,
che si snoda sul litorale settentrionale della Sicilia.
Le procure di Palermo e Termini Imerese hanno deciso di
acquisire le informative di polizia e carabinieri, al fine di aprire
un’inchiesta sull’origine dei roghi. Certamente una parte degli
incendi è dolosa, ma le dichiarazioni dei politicanti borghesi siciliani rendono chiaro che essi
non hanno il polso della situazione.
Il ministro degli interni Angelino Alfano, NCD, promette di “investire in tecnologie satellitari”.
Ma di che parla Alfano? Tecnologie satellitari? Ma se in Sicilia non c’è neanche un parco di
Canadair adeguato, le autobotti
dei Vigili del Fuoco sono obsolete e, a causa dell’inadeguatezza
delle vie di comunicazione, non
riescono a raggiungere i luoghi
colpiti.
Per il governatore Rosario
Crocetta, PD, i roghi appiccati
sono un attacco mafioso diretto
al suo governo “che combatte la
mafia”. Ma a noi non risulta che
stia mettendo in campo chissà
quale operazione politica antimafia, anzi ci risulta che pezzi della mafia se li è anche tirati dentro il governo, vedi il caso
Confindustria e i vari scandali che hanno portato alle dimissioni di più di un assessore antimafioso. È evidente certo che
dietro i roghi ci sono interessi mafiosi, ma è altrettanto evidente che il governatore non ha
messo in campo alcuna azione
preventiva, dal momento che si
conosce da anni ormai l’entità
del problema.
Per il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, IDV, un altro imbroglione patentato, è colpa di
ro un forestale. Il forestale non
ha nessun interesse a bruciare
i boschi perché questo non aumenta le loro giornate di lavoro,
che sono previste da una legge
regionale e quelle rimangono.
Se brucia un bosco, al contrario
operai forestali di Monreale abbiano appiccato l’icendio vicino
all’asilo, rischiando di bruciare
vivi 30 bambini del paese? Orlando è un demente politico e
dovrebbe chiedere scusa. Ma
con quell’ignoranza spocchio-
Palermo. L’incendio di Monte Pellegrino lambisce la città nella notte fra il 24 e il 25 giugno 2016
“qualche farabutto tra i forestali che ritiene di garantirsi affari e posti di lavoro distruggendo
il territorio siciliano”. Lo hanno
zittito il segretario della Cgil Palermo, Enzo Campo, e il segretario della Flai Cgil, Tonino Russo. “Non accettiamo – dichiara il
sindacato – che i forestali vengano additati ancora una volta come colpevoli rispetto a un
fenomeno per il quale non ricavano nessun vantaggio. Per
ogni pezzettino di territorio che
si brucia, perde il posto di lavo-
rischiano di lavorare meno”.
Peraltro, come fa notare la
CGIL, gli incendi, nel 90% dei
casi, non vengono appiccati nei
demani forestali, ma partono dai
terreni di privati, che non vengono ripuliti e sistemati. E poi da
lì si propagano. Cosa c’entrano gli operai forestali? Come si
può poi immaginare che schiere di operai forestali appicchino
il fuoco con l’intenzione di bruciare mezza Sicilia, mettendo a
rischio l’incolumità della gente?
Si può immaginare che gli
sa che lo contraddistingue siamo abbastanza certi che non lo
farà.
Dietro questi roghi si nascondono certamente la mafia degli allevatori e quella delle costruzioni, che hanno interesse
a bruciare i boschi, per ricavarne pascoli o le aree boschive limitrofe alle grandi città per
ricavare, con l’aiuto delle istituzioni borghesi, terreni edificabili,
cambiando le destinazioni d’uso nei piani regolatori. E’ solo la
mafia che in Sicilia può delibera-
tamente compiere una tale ampia e devastante operazione criminale, senza curarsi di mettere
a rischio la vita e la salute della
popolazione.
Non dimentichiamo poi un’altra causa: l’incuria del territorio, correlata alla privatizzazione della gestione delle riserve
naturali. Un esempio per tutti,
quel Monte Pellegrino che sovrasta Palermo, andato in fumo
il 17 giugno, è stato consegnato in gestione all’associazione di
volontariato Ranger d’Italia nel
1996. Il promontorio, una volta uno dei luoghi più suggestivi
della città, adesso è in completo
abbandono. Basta fare una passeggiata, sconsigliabile d’estate, tempo di roghi, per scoprire
l’incuria in cui è tenuto: stratificazioni decennali di rami caduti
e mai rimossi, alberi secchi mai
abbattuti, sentieri non più praticabili per i rovi e le stoppie, che
quando il fuoco parte, doloso
o meno, tutta la riserva rischia
di andare in fumo in tre minuti.
Nel 1996, quando Monte Pellegrino, andò ai volontari dei Ranger, il sindaco era Leoluca Orlando. Certo la decisione partiva
dai vertici regionali, ma Orlando
non si è mai accorto in tutti questi anni a cosa è stata ridotta il
più noto monte palermitano?
Non ha niente da dire sui ranger
“volontari” privati che prendono i
soldi dalla regione per fare cosa
non si capisce?
Il PMLI chiede maggiore manutenzione pubblica del territorio montano e agricolo siciliano
demaniale e privato; ripubblicizzazione di tutte le riserve demaniali consegnate ai privati o ai
“volontari”; confisca dei terreni
privati incendiati dolosamente;
divieto permanente di pascolo
ed edificazione sui terreni demaniali o privati incendiati; un
parco Canadair e autobotti più
ampio e moderno; un adeguato numero di forestali a contratto stabile a tempo pieno e sindacalmente tutelato.
Il neosindaco PD di Bolzano sdogana
i fascisti di Casapound
Forti proteste dell’Anpi e degli antifascisti
“Casapound siede in Consiglio, ha tre consiglieri, ha ottenuto tanti voti: dunque, quale
sarebbe il problema?”.
Sono le sconcertanti parole
con cui il neosindaco PD di Bolzano, Renzo Caramaschi, eletto alle recenti amministrative
grazie anche al sostegno di Svp
e Verdi, ha di fatto sdoganato e
riconosciuto legittimità politica
ai fascisti di Casapound.
“Nessuna preclusione a priori, sono stati eletti”, ha aggiunto Caramaschi a margine della
sua seconda riunione giunta a
chi gli chiedeva conto del fatto che per la prima volta nella
storia amministrativa di Bolzano i tre “fascisti del terzo millennio”, come amano definirsi i
militanti di Casapound, si sono
presentati alla seduta del Con-
siglio comunale indossando la
camicia nera e, anziché votare
contro la maggioranza che sostiene il sindaco, si sono astenuti ufficializzando di fatto il loro
appoggio esterno alla maggioranza di “centro-sinistra”.
Un connubio politico che certamente prefigura accordi sottobanco fra PD e Casapound che
addirittura potrebbe fruttare ai
fascisti bolzanini anche la guida
di qualche commissione. Eventualità che lo stesso Caramaschi non esclude dal momento
che ha già fatto sapere che “Le
presidenze delle commissioni saranno decise dai gruppi e
dai capigruppo riuniti. Alcune le
vorrei riservare alle opposizioni.
Dunque se un gruppo di opposizione si accorda (devono essere almeno 4 consiglieri ndr)
potrà capitare che Casapound
possa ottenere una presidenza.
Se accadesse ne prenderei atto
e sicuramente non potrei oppormi”.
Il primo nell’amministrazione
a guida piddina ad aprire a Casapound era stato qualche giorno prima il vicesindaco Christoph Baur (Svp): “Voglio capire la
ragione del loro successo nei
quartieri, e, perché no, parlare
anche con i loro consiglieri. E
scambiarci impressioni”. Subito
supportato da Caramaschi che
ha aggiunto: “Siamo la giunta
del ‘fare’. E se qualcuno propone di ‘fare qualcosa’ perché non
ascoltarlo anche se marcia sul
Comune, decidendo di volta in
volta se merita una convergenza?”.
Un autentico invito a nozze
per i fascisti che tramite il capogruppo Maurizio Puglisi Ghizzi
hanno subito ringraziato e rilanciato: “Se il comportamento del
sindaco Caramaschi o del vice
Baur è costruttivo, se da settimane non ci sbattono la porta
in faccia come altri in passato,
perché non dobbiamo collaborare?”.
Parole e fatti che giustamente hanno suscitato le immediate
proteste degli antifascisti bolzanini e della sezione provinciale
dell’Anpi che a nome del suo
presidente Orfeo Donatini ha
diffuso una nota in cui tra l’altro
si dice: “sconcertato e allarmato per lo sdoganamento di Casapound. Nessuna intesa ma
anche nessun ipotetico dialogo
con partiti neofascisti e figli del
populismo perché si possono ri-
creare mostri. L’Anpi è sempre
al fianco di Innerhofer, Egarter
e Thaler, delle vittime sudtirolesi delle dittature... Dal vicesindaco sono arrivate infatti delle
aperture sorprendenti, in nome
di una presunta concretezza
amministrativa, che non tengono affatto conto della pericolosità sociale e politica di un movimento come Casapound di
chiara impostazione razzista e
xenofoba oltre che fascista, per
sua stessa ammissione. Non
credo serva ricordare che non
siamo in presenza di un gruppo di bravi ragazzi dediti al volontariato, quanto ad un gruppuscolo che al proprio interno
ospita esponenti del più triste
e violento squadrismo, come le
denunce penali a carico di due
suoi esponenti (uno dei quali
addirittura membro anche delle istituzioni) per le aggressioni
avvenute ai danni di altrettanti
ragazzi in città, stanno a dimostrare. Così come non siamo in
presenza di manifestazioni di
colore o in qualche misura folckloristiche quando i tre consiglieri eletti marciano sul Comune assieme ai propri sostenitori:
si tratta semmai di iniziative politiche che richiamano la tragica
marcia del 24 aprile 1921 quando il gerarca Starace compì la
medesima marcia in città poche
ore prima che venisse trucidato dalle camicie nere il maestro
Franz Innerhofer. Per parte nostra nessuna apertura politica
è e sarà mai possibile nei confronti di un simile partito estremista che contempla la violenza
come strumento politico”.
12 il bolscevico / ballottaggi del 19 giugno
N. 27 - 7 luglio 2016
Ballottaggio a Milano
Un elettore su due si astiene. Sala diventa
sindaco col minimo storico dei consensi
‡‡Redazione di Milano
Al 2° turno delle elezioni comunali a Milano del 19 giugno
l’astensionismo vola al 49,18%
confermando il suo record storico anche all’elezione plebiscitaria
del sindaco.
Escludendo i 73 voti contestati
e non ancora assegnati, gli astenuti (elettori che hanno disertato
le urne e che hanno annullato o
lasciato in bianco la scheda) ammontano a 495.095, ben 162.226
in più rispetto al ballottaggio delle
comunali di 5 anni fa.
Giuseppe Sala, candidato dal
PD e sponsorizzato dalla maggioranza della borghesia meneghina
e nazionale, si è aggiudicato la
carica di sindaco col 51,70% dei
voti validi ottenendo 264.481 preferenze, equivalenti ad appena il
26,27% dell’elettorato ossia poco
più di 1/4 degli aventi diritto (mentre Pisapia, spargendo a piene
mani illusioni “arancioni” poi disattese durante i suoi cinque anni
di giunta, ottenne il 36,7%, ossia
più di 1/3 dell’elettorato, superando l’astensionismo che si attestò
al 33,4%); Sala risulta quindi essere il sindaco di Milano con il più
basso consenso elettorale nella
storia della seconda repubblica!
Nonostante l’apparentamento ufficiale del partito Radicale
del pannelliano Marco Cappato
(che al 1° turno ha attirato circa
10 mila voti) e l’appoggio “personale” dell’ex presidente del
Consiglio comunale, candidato a
sindaco al 1° turno dai falsi partiti comunisti PRC e PCdI, Basilio
Rizzo (che ha ottenuto quasi 20
mila consensi), nonostante oltre
un milione di euro a sostegno
della sua campagna elettorale
proveniente dalla maggioranza
della grande borghesia, Giuseppe Sala la spunta per soli 17.429
voti sul candidato sindaco del
“centro-destra” di Berlusconi e
Salvini, Stefano Parisi (che ottiene 247.052 voti ossia il 24,54%
dell’elettorato e il 48,3% dei voti
validi).
Decisivi i voti del M5S – il cui
direttorio non ha dato indicazione
di disertare le urne contro i due
candidati della “casta” lasciando
“libertà di coscienza” al suo elettorato - che presumibilmente in
base a certe analisi si sono spartiti in circa 20 mila per Parisi, circa
10 mila per Sala e altri circa 20
mila confluiti nell’astensionismo.
I marxisti-leninisti milanesi
hanno coerentemente propagandato con forza l’astensionismo
anche per il secondo turno motivandolo contro il capitalismo, i
suoi governi, istituzioni e partiti,
per il socialismo, proponendo la
creazione delle Assemblee popolari e dei Comitati popolari basati
sulla democrazia diretta come
mezzo più efficace per combattere i governi e le amministrazioni
locali borghesi e per difendere gli
interessi delle masse lavoratrici e
popolari.
Il vero cambiamento certo non
passa né dal trasversale Movimento 5 Stelle né dalla fraudolenta illusione della “rivoluzione
arancione” del sindaco uscente
Giuliano Pisapia e dei falsi partiti comunisti del PRC e del PCdI,
tantomeno da esponenti più o
meno “nuovi” proposti dal PD di
Renzi come il manager di EXPO
Giuseppe Sala. Costui non così
“nuovo” se si pensa che tra il
2009 e il 2010 fu direttore generale del Comune di Milano sotto
la giunta della destra del regime
neofascista guidata dalla berlusconiana Letizia Moratti. Quasi
metà dell’elettorato milanese ha
già dimostrato oggettivamente
di capirlo scegliendo l’astensionismo come uno spontaneo voto
di rifiuto di questi imbrogli.
Occorre ora che maturi, fra le
elettrici e gli elettori di sinistra, la
coscienza dell’astensionismo tattico usato anche come un voto
propositivo di consenso al PMLI e
al socialismo, perché esprimendo
questo voto l’elettorato di sinistra
potrà impegnarsi attivamente nella lotta per la conquista del potere
politico da parte del proletariato,
al fine di rovesciare il capitalismo
e la dittatura della borghesia che
lo sorregge (che oggi sta completando la sua metamorfosi piduista
e neofascista), e quindi realizzare
l’obbiettivo strategico e storico
dell’Italia unita, rossa e socialista!
Vittoria astensionista
alle elezioni comunali di Varese
Tra primo turno e ballottaggi la metà dei varesini non si è recata alle urne delegittimando con l’astensione i partiti e le istituzioni borghesi. Il
renziano Galimberti candidato PD della “sinistra” borghese è il nuovo sindaco di Varese dopo 23 anni di dominio fascioleghista
‡‡Dal corrispondente
dell’Organizzazione di
Viggiù del PMLI
Sonora bocciatura per tutti i
partecipanti alla corsa di sindaco
per la città di Varese travolti da
un astensionismo crescente che
ha spinto quasi la metà dei varesini a non recarsi alle urne.
Questo è quanto rivelano i dati
riguardanti le elezioni comunali di
Varese del 5 e 19 giugno. Una votazione che ha punito trasversalmente tutti gli schieramenti politici borghesi da destra a “sinistra”.
Analizzando i dati dell’affluenza alle urne e le percentuali
ottenute dai vari blocchi politici,
calcolandoli però non in base al
numero dei votanti come riportato in pratica da tutti i mass media
borghesi ma sulla base dell’intero
corpo elettorale, cioè gli aventi diritto al voto, possiamo farci
un’idea del reale peso rappresentativo dei partiti borghesi sul
territorio cittadino.
Malgrado gli inviti e gli appelli
unitari dei candidati sindaco, sul
“diritto-dovere” dell’esercizio del
voto, nel tentativo di limitare così
l’astensionismo, su 65.663 aventi diritto, solo in 36.702 si sono
recati alle urne. 28.961 elettori
(45,9%) hanno deciso di astenersi. Una percentuale di quasi otto
punti più alta rispetto alle comunali del 2011 quando gli astensionisti furono il 38,06%.
A perdere maggiormente
consensi sono stati i partiti della
coalizione, dichiarata vincente al
primo turno a sostegno di Paolo
Orrigoni che comprende tutti i
partiti della destra borghese cittadina. La Lega Nord rispetto al
2011 perde 3.198 voti arrivando
all’8,14%, Forza Italia con 3.670
voti esce fortemente ridimensionata e con la perdita di oltre
5.000 elettori si ferma al 5,58%.
Meglio non va agli altri partiti della coalizione tra cui i fascisti di
Fratelli d’Italia–Alleanza nazionale, che arrivano a uno striminzito
1,73% raccogliendo poco più di
un migliaio di voti. Nel complesso
la coalizione della destra borghese raccoglie 15.737 voti pari al
23,96% degli aventi diritto. Calcolando che nel 2011 quando ci
fu l’elezione dell’uscente neopo-
destà Attilio Fontana la coalizione della destra borghese formata
dalla sola Lega Nord e Popolo
della libertà (FI+AN) arrivò a prendere 17.207 voti, e paragonandola alla coalizione odierna formata
da ben 7 forze in campo tra partiti e liste civiche ben si delinea il
terreno perso dai partiti di destra.
Non è servita a fermare questa
emorragia elettorale neanche la
presenza come capolista per la
Lega dell’inquisito Roberto Maroni, presidente della Regione
Lombardia che raccoglie solo
328 preferenze.
Meglio non è andata alla coalizione di “centro-sinistra” guidata
dal renziano Davide Galimberti
che pur crescendo in numeri rispetto al 2011 e conquistandosi
la posizione di prima forza politica cittadina con 7.997 voti, non
va oltre il 20,59% con la sua coalizione.
Fossilizzati i partiti a “sinistra”
del PD, Rifondazione Comunista,
Comunisti Italiani e Sinistra ecologia e libertà (SEL) che pur coalizzandosi (SEL nel 2011 sostenne la candidatura della PD Luisa
Oprandi) racimolano 600 voti arrivando allo 0,92%. Se si pensa
che nel 2011 la sola SEL aveva
ottenuto 1.466 voti si assiste a
un vero e proprio tonfo dei partiti falso comunisti che pagano lo
scotto di una politica puramente
elettoralistica e riformistica di false promesse di miglioramenti sociali, alla quale le masse oramai
non credono più.
Al terzo posto si piazza l’ultra
liberista presidente del Rugby Varese, Stefano Malerba, con la sua
“Lega Civica” che pur impegnatosi in una pressante e dispendiosa campagna elettorale fatta
di enormi manifesti affissi per la
città tutta incentrata sulla critica
ai partiti e sulla supremazia della
proprietà privata e del mercato
capitalistico sullo Stato, raccoglie
il 3,85% dei voti.
Le altre liste Varese civica
e Fronte nazionale per l’Italia
non superano l’1% e si fermano rispettivamente allo 0,65% e
0,30%.
Ai ballottaggi Orrigoni e Galiberti, staccati di appena 1.850
voti, hanno affilato le proprie armi
e si sono preparati allo scontro
per accaparrarsi la poltrona di
Palazzo Estense. Orrigoni, fiducioso che al ballottaggio sarebbe
riuscito a scalzare il candidato del
PD recuperando voti a destra, in
particolare da chi al primo turno
aveva deciso di votare Malerba, Galimberti programmando
maratone elettorali nei principali
quartieri popolari di Varese nel
tentativo di strappare qualche
voto all’astensionismo e puntare
sui voti che potrebbero arrivare a
sinistra del PD.
Alla fine l’ha spuntata il candidato della “sinistra” borghese Davide Galimberti staccando il suo
avversario Orrigoni di un migliaio
di voti. Una batosta per il “centro-destra” e in particolare per la
Lega Nord che pur mettendo in
campo i suoi pezzi da novanta tra
cui il caporione Roberto Maroni,
perde dopo 23 anni di dominio
ininterrotto la prima città che l’ha
vista al governo nel lontano 1993.
La vittoria di Galimberti è arrivata
grazie anche al sostegno che il
candidato PD ha ricevuto dal destro Stefano Malerba.
Pur “vincendo” le elezioni comunali, Galimberti esce tuttavia
fortemente ridimensionato nella
sua rappresentanza tra le masse
varesine dall’altissimo astensionismo che al ballottaggio è cresciuto ulteriormente attestandosi, calcolando anche le schede
bianche e nulle, al 50,60% così
aumentando di 5 punti rispetto al
primo turno e che di fatto risulta
il vero vincitore di questa tornata elettorale. A conti fatti solo il
25,60% degli aventi diritto hanno
votato per Galiberti pari a 16.814
cittadini su una popolazione di oltre 65mila persone.
Staremo a vedere, dopo ventitre anni di dominio fascioleghista, quali politiche la “sinistra”
borghese metterà in campo per
amministrare la città, anche se
analizzando che il sindaco Galimberti è figlio del vivaio politico
renziano, ci aspettiamo a livello
territoriale politiche antioperaie e
antipopolari degne di quelle che
il suo padre padrone di Palazzo
Chigi Renzi ha sviluppato a livello
nazionale.
A Sesto Fiorentino (Firenze)
L’astensionismo punisce Renzi e il suo partito
Un voto contro l’inceneritore e l’ampliamento dell’aeroporto di Firenze
‡‡Da una compagna sestese
del PMLI
Domenica 19 giugno a Sesto
Fiorentino 16.502 elettori (43,16%
sul corpo elettorale) hanno disertato le urne confermando l’astensionismo quale primo “partito”.
Questo comune alle porte di
Firenze è diventato un “caso” nazionale poiché le elezioni sono
coincise con le contraddizioni all’interno del PD reduce dal
commissariamento pochi mesi
prima della giunta comunale della
sindaca Sara Biagiotti, renziana
di ferro, tanto per la cronaca lei
insieme alla Boschi e alla Bonafè
ha organizzato la campagna elettorale delle primarie del 2012 al
nuovo duce.
La Biagiotti a fine 2015 è stata sfiduciata con il voto determinante di una parte dei suoi stessi
colleghi di partito (8 PD dei 20
voti favorevoli alla sfiducia) ac-
cusata di non saper amministrare la città e soprattutto contro il
suo sì ai cantieri dell’inceneritore
di Case Passerini e all’ampliamento dell’aeroporto di Peretola,
due grandi opere osteggiate dalle
popolazioni sia di Sesto che del
resto dell’hinterland fiorentino ma
fortemente volute da Renzi e dal
PD dell’area metropolitana, Rossi
e Nardella compresi. Per levarla
dall’imbarazzante figuraccia Renzi pochi mesi dopo l’ha chiamata a Roma a far parte della sua
squadra di fedelissimi.
L’astensionismo, 38,2% al
primo turno e salito al 43,16% al
secondo turno, unito alla scelta di
votare alleanze opposte a quelle
del PD, esprimono il netto rifiuto
alla politica antipopolare di Renzi e del suo partito, il netto rifiuto
alla realizzazione delle due “grandi opere” volute da Renzi quando era sindaco di Firenze che
mettono in pericolo la salute di
migliaia di abitanti della piana fra
il capoluogo toscano e Prato. L’astensionismo ha prevalso anche
sull’input che alcuni esponenti
dei movimenti No inceneritore
avevano dato: “andate a votare
purché non voglia l’inceneritore”.
Una fetta di sestesi che ancora è intrappolata dall’elettoralismo e non ha maturato la scelta
di esprimere il proprio voto con la
diserzione ha seguito questo input e ne ha beneficiato chi della
salute ha fatto il cavallo di battaglia della sua campagna elettorale: il neo sindaco Lorenzo Falchi,
36 anni bancario di un istituto di
credito di Siena, sostenuto da Sinistra italiana e da una lista civica
“Per Sesto”. Falchi ha prevalso
su Lorenzo Zambini (PD ed ex vicesindaco dell’era Biagiotti) con
13.879 voti rispetto ai 7.323 del
suo avversario. Falchi, al ballot-
taggio, ha potuto beneficiare anche dei voti offerti dall’ex dirigente del PCI revisionista Maurizio
Quercioli, che si era presentato
alla competizione per diventare
sindaco di Sesto, sostenuto dalla
lista civica “per Sesto Bene Comune” e dalla lista “Insieme”, che
radunava Possibile, Rifondazione
comunista e Alternativa libera, e
che al primo turno aveva raccolto
4.540 voti.
Nei giorni seguenti alla sua
elezione Falchi ha costituito il comune di Sesto Fiorentino al Tar
nei due ricorsi presentati al Tribunale amministrativo dal Wwf, Forum Ambientalista e Italia Nostra
contro la costruzione dell’inceneritore a Case Passerini. Un minimo atto dovuto a chi per ora gli
ha dato fiducia. Staremo a vedere
però quanto sarà coerente il neo
sindaco.
Sesto Fiorentino - comunali 2016 (1° turno)
CORPO ELETTORALE
38.239
CORPO E
VOTI VALIDI
21.812
VOTI VAL
1.830
VOTI SOL
VOTI SOLO SINDACO
COMUNALI 2016
PARTITI
ASTENUTI
PD
Sinistra italiana
M5S
Per Sesto bene comune
Per Sesto
Fratelli d'It.-AN-Lega N.
Rifondazione e altre
Forza Italia
Sesto siamo noi
Sesto civica
Voti
0
0
0
14.597
6.252
3.826
2.369
2.287
2.085
1.294
1.330
1.138
831
400
-
% sugli
elettori
38,2
16,3
10,0
6,2
6,0
5,5
3,4
3,5
3,0
2,2
1,0
-
% sui
voti
validi
66,9
28,7
17,5
10,9
10,5
9,6
5,9
6,1
5,2
3,8
1,8
-
COMU
Voti
-
%
e
cronache locali / il bolscevico 13
N. 27 - 7 luglio 2016
200mila al
Milano Pride per
i diritti di Lgbt
Apprezzata presenza della Cellula
“Mao” di Milano del PMLI
‡‡Redazione di Milano
A Milano, nel pomeriggio
di sabato 25 giugno, 200mila
manifestanti hanno partecipato al corteo festoso e colorato del Milano Pride partito da piazza Duca D’Aosta
e conclusosi in piazza Oberdan.
Militanti della Cellula
“Mao” di Milano del PMLI
hanno diffuso centinaia di
copie del volantino dal titolo
“I diritti e le battaglie LGBT,
il matrimonio e la “maternità
surrogata”, riportante estratti
del documento del Comitato
centrale del PMLI del quale,
nello stesso volantino, se ne
proponeva la lettura integrale dal Sito internet del Parti-
to. I compagni erano presenti con la rossa bandiera del
Partito e nei corpetti esibivano la riproduzione dei manifesti del Partito: “Solidarietà per i gay uccisi e feriti
a Orlando. No all’omofobia,
“Estendere i diritti del matrimonio per le coppie LGBT.
Abrogare l’art. 29 della costituzione adozione del figlio del partner”. Molti manifestanti hanno fotografato i
sopraccitati manifesti e letto
con interesse il volantino del
PMLI, Partito sempre presente con le proprie insegne
a sostenere apertamente e
coerentemente le lotte per
i diritti sociali, civili e politici
degli LGBT.
Voto di scambio a Vittoria (Ragusa)
Indagati il neosindaco Moscato di “centrodestra” e il candidato PD al ballottaggio
‡‡Dal nostro corrispondente
della Sicilia
Parte con un’inchiesta per
voto di scambio politico-mafioso
l’amministrazione del neoeletto
sindaco di Vittoria (Ragusa),
Giovanni Moscato del “centrodestra”, già consigliere comunale nel 2006 e nel 2011.
Insieme a lui e con la stessa accusa è indagato il candidato del PD al ballottaggio,
Francesco Aiello, di Sicilia Futura, la formazione dell’ex-ministro Salvatore Cardinale. Aiello,
esponente del PCI siciliano, deputato regionale per tre legislature, è anche stato assessore
regionale all’Agricoltura. Indagata anche Lisa Pisani, la candidata del PD al primo turno.
L’inchiesta per reati di natura
elettorale riguarda anche il sindaco uscente Giuseppe Nicosia, “centro-sinistra”, e il fratello, oltre che Cesare Campailla,
della lista Forza Vittoria e Raffaele Giunta, di Nuove idee-I democratici, entrambi candidati
al consiglio comunale. La presenza di quest’ultimo in una lista civica vicina al PD, dove
era candidato anche Francesco Cannizzo, segretario cittadino del partito di Renzi, aveva
sollevato non poche polemiche
durante la campagna elettora-
L’inestimabile contributo
di Lenin alla lotta contro
i falsi comunisti
25 giugno 2016. La partecipazione del PMLI alla manifestazione
del Milano Pride (foto Il Bolscevico)
La coerente e logica posizione
antimperialista del PMLI
Studiando l’opuscolo n. 14
di Giovanni Scuderi “Avanti con forza e fiducia verso l’Italia unita, rossa e socialista”
non può non saltare all’occhio
e alla mente la profonda coerenza del nostro Partito: “I politicanti della ‘sinistra’ borghese ne inventano di tutte pur di
evitare che le contraddizioni
di classe sfocino nella rivoluzione socialista. Ma non possono farci niente. Prima o poi
essa esploderà e sarà inevitabilmente vittoriosa”.
Oggi certi politicanti della
“sinistra” borghese che magari
ieri gridavano a squarciagola
“Fuori l’Italia dalla Nato, fuori
la Nato dall’Italia”, si stracciano le vesti nell’invocare più interventi Nato contro l’Isis “terrorista”.
La segretaria alla difesa
statunitense Ashton Carter ha
invitato gli alleati Nato “a fare
di più per aiutare la coalizione
a guida americana contro l’Isis
a finire il lavoro”, in Iraq, in Siria, distruggendo le forze jihadiste.
I ministri della difesa
dell’Alleanza atlantica imperialista, l’Italia rappresentata
dalla ministra Pinotti, hanno
già concordato di estendere l’addestramento delle truppe irachene e hanno deciso
di prendere in considerazione
il dispiegamento di ricognitori
Awacs. “Vorrei vedere la Nato
fare di più” ha detto Carter ai
giornalisti dopo che i ministri si
sono incontrati nel quartier generale della Nato a Bruxelles.
La gran parte dei 28 Paesi Nato contribuisce individualmente alla coalizione, ma l’alleanza non ha un ruolo diretto
nella campagna. La Pinotti ha
anche anticipato che al vertice
della Nato, che si terrà l’8 e il
9 luglio a Varsavia, l’Italia presenterà “un documento tecnico” per un “coordinamento
strategico e non solo tecnico
tra Ue e Nato nel Mediterraneo centrale e che non prevede comunque strutture aggiuntive”.
Cari compagni della “sinistra” borghese,
ieri come oggi o si sta dalla parte della borghesia, dalla
parte della Nato, dalla parte
degli imperialisti, o si sta dalla
parte del proletariato. La scelta del nostro Partito di appoggiare l’Is non è “farneticante”
ma coerente, logica, antimperialista e anti-Nato.
Coi Maestri e il PMLI vinceremo!
Da un rapporto interno
dell’Organizzazione di Civitavecchia (Roma) del PMLI
Cari compagni,
il PMLI ci fa sempre dei bellissimi regali, con gli editoriali, gli articoli de “Il Bolscevico”, le dichiarazioni del compagno Segretario
generale, eccetera. Uno di questi
è senz’altro il libro (librone) “Lenin, la vita e l’opera”, della Piccola Biblioteca Marxista-Leninista,
nel quarantesimo Anniversario
di fondazione de “Il Bolscevico”.
Un’antologia veramente completa degli scritti di Lenin, dove troviamo affermazioni del grande
Maestro sempre valide, che sembrano scritte non ieri (l’altro ieri,
visto che la morte del nostro Maestro, prematuramente sopraggiunta, risale a quasi un secolo
fa) ma oggi o domani o anche dopodomani.
Pensiamo, per esempio, già
allo scritto “Che cosa sono gli amici del popolo e come lottano contro i socialdemocratici?” del 1893,
quando Lenin afferma (parlando
della duplicità della piccola borghesia): “La piccola borghesia
le, dato che il candidato del PD,
che alla fine ha deciso di ritirare
la propria candidatura, è titolare
di alcuni precedenti penali. Gli
altri indagati, Maurizio Di Stefano, Raffaele Di Pietro, sono
indicati come vicini al sindaco
uscente di “centro-sinistra”.
L’indagine, coordinata dall’ex
procuratore aggiunto di Catania, Amedeo Bertone, e dal sostituto, Valentina Sincero, nasce dalle dichiarazioni di due
collaboratori di giustizia, Biagio
Gravina e Rosario Avila. Le dichiarazioni non riguardano soltanto le elezioni del 2016, ma
anche quelle che nel maggio
del 2011 portarono all’elezione
di Giuseppe Nicosia. I collaboratori di giustizia hanno raccontato delle promesse elettorali
dei candidati ad esponenti mafiosi della zona, che avrebbero
garantito in cambio di favori e
posti di lavoro il loro appoggio
nelle urne.
L’indagine sta dunque mettendo in evidenza la fitta trama di interessi e scambi politico-mafiosi, trasversali ai partiti,
presentatisi alle consultazioni
elettorali. La pressione elettorale sulle masse popolari è stata
evidentemente molto forte. Eppure, dati alla mano, esse sempre meno, anche a Vittoria, si
lasciano imbrigliare da promesse che non hanno mai alcun
concreto seguito. Infatti, nonostante il patto elettorale tra istituzioni borghesi e mafia fosse
in vigore, a Vittoria la più forte
delle forme di astensionismo, la
diserzione dalle urne, è aumentata, rispetto alle elezioni del
2011, di ben 5,03 punti percentuali. Dei 50.525 elettori hanno disertato ben 17.771 pari al
30,14% degli aventi diritto.
Il dato più evidente è il suicidio politico del PD di Renzi, che
a Vittoria aveva una delle sue
roccaforti siciliane. Riesce a raccogliere appena 2.350, quando
nel 2011 ne aveva 3.519. Cioè,
pur avendo in mano le redini del
potere borghese, ha perso per
strada 989 elettori, sul fronte
della crisi agricola irrisolta nel
maggiore centro agricolo della
sicilia, sul fronte del tasso di disoccupazione e dell’emigrazone in ascesa, e non da ultimo
sul fronte degli intrallazzi filomafiosi, di cui il partito di Renzi
tira le fila.
Alle masse popolari è ormai
chiaro che il PD è un partito che
ha completato la sua metamorfosi in senso neofascista e filomafioso e oggi è uno di quelli
che ha le maggiori responsabilità nella gestione del vermina-
io politico-mafioso dentro il Comune di Vittoria. Ma aver punito
il PD, cominciando a togliergli
l’appoggio elettorale, non basta. La corruzione, benché oggi
il PD di Renzi ne incarni il volto
più odioso, insopportabile e ipocrita, in questi ultimi anni ha assunto dimensioni impressionanti, coinvolgendo con scandali
tutti i partiti borghesi. Nessun
partito ne è esente. La corruzione infatti è connaturata al sistema capitalista e alla proprietà privata che rappresenta e di
cui cura gli interessi e pertanto
è inestirpabile, finché non saranno aboliti il capitalismo e la
proprietà privata stessi. La corruzione non è infatti un’anomalia del sistema, ma un suo costituente indispensabile, senza il
quale la sua economia e la sua
macchina statale non potrebbero funzionare.
Noi marxisti-leninisti italiani invitiamo le masse lavoratrici e popolari vittoriesi ad alzare il tiro contro il corrotto PD di
Renzi e nel contempo contro la
nuova amministrazione di “centro-destra”, guidata da un indagato per scambio di voto politico-mafioso, Giovanni Moscato,
costringendolo subito alle dimissioni.
è progressiva in quanto avanza rivendicazioni democratiche
generali, cioè lotta contro ogni
residuo dell’epoca medievale
e del servaggio; è reazionaria
in quanto lotta contro per conservare la propria condizione
di piccola borghesia, tentando
di arrestare e di far retrocedere l’evoluzione del paese nella
direzione del regime borghese” (op.cit., p.12, Opere complete, Roma, Editori Riuniti). Ora,
che cosa c’è di più vero: la piccola borghesia (almeno una sua
parte) è con noi contro i residui
medievali che, anche nell’Italia
post-2000, sono tanti: per esempio per i diritti delle persone con
orientamento sessuale gay, lesbico, bisessuale, transgender,
per la libertà d’opinione, eccetera, ma quando si tratta di lottare
contro, per esempio le leggi infami come il Jobs Act si ritira o meglio tutela anche violentemente i
propri interessi.
Idem vale per “Un passo avanti e due indietro” (1904), in cui, in
polemica con il “marxista” (meglio “socialista della cattedra”, socialrevisionista) Plekhanov, Lenin afferma senza mezzi termini:
“Per quanto è facile la lotta teorica contro le infantili sciocchezze anarchiche, per tanto
è difficile il lavoro pratico con
un individualista anarchico in
uno stesso organismo” (cit., p.
52). Basti pensare alla storia ma
anche all’attualità del PMLI, con
la difficoltà di lavorare/collaborare con partiti sedicenti marxistileninisti, in realtà pieni di revanscismo individualista, anarcoide,
trotzkista, eccetera.
Non posso qui proporre commenti e “crestomazie” a tutto il
libro, che peraltro li meriterebbe per ogni singola frase (sul valore assoluto di Lenin, delle sue
analisi e intuizioni non si discute), ma accennerò ancora al problema, che nessuno prima di Lenin ha esaminato ampiamente e
chiaramente (all’epoca di Marx
ed Engels si configurava diversamente, era ancora primordiale,
più che altro capitalismo), quello
dell’imperialismo: “I sociaIdemocratici (lo scritto è del 1915, dunque prima della definitiva rottura con il marxismo da parte della
“Seconda Internazionale” e dell’“Internazionale due e mezzo”,
quella di Zimmerwald) dei paesi
oppressori (in modo particolare delle cosiddette ‘grandi potenze’) riconoscano e difendano il diritto di autodecisione
delle nazioni oppresse... i socialisti (vale quanto detto sopra
per “socialdemocratici”, ovviamente) delle nazioni oppresse,
da parte loro, devono lottare incondizionatamente per la completa unità (anche organizzativa) tra gli operai delle nazioni
oppresse e di quelle che op-
primono” (da “Il socialismo e la
guerra” in op. cit., p.177).
Basti pensare, oggi, all’imperialismo terribile degli Usa e della Federazione Russa, ma anche
dell’Unione Europea, che si servono della guerra contro l’ISIS,
come contro ogni realtà “resistente” (vedansi le minacce contro gli immigrati messicani da parte di Trump e non solo negli Usa,
le minacce velate o esplicite degli europei agli immigrati, in specie islamici). Al tempo stesso vale
l’invito al proletariato delle nazioni
oppresse a non disperdersi in lotte nazionaliste ed etniciste, ritrovando invece l’internazionalismo
proletario.
Sono solo alcuni esempi ma,
credo, molto significativi della
grandezza e attualità dell’opera
omnia di Lenin, da riscoprire e ristudiare continuamente.
Eugen Galasso - Firenze
CALENDARIO
DELLE MANIFESTAZIONI
E DEGLI SCIOPERI
LUGLIO
5
5
5
8
Contatto il PMLI in
quanto sono da sempre
comunista
Sono uno studente e vorrei saperne di più sul PMLI a Biella.
Ho conosciuto Il PMLI per la
prima volta attraverso un volantino fatto circolare nella mia precedente scuola. In quel frangente
lo lessi interessato anche perché
sono sempre stato comunista.
Ma vi conobbi meglio solo dopo,
informandomi, di recente vidi il
sito e lì trovai l’indirizzo e-mail per
contattarvi.
Un 16enne biellese
Anpac, Anpav, Usb-Lp - Trasporto Aereo - Gruppo Alitalia
Sai - CityLiner – Sciopero personale navigante (Piloti e
Assistenti di volo
Cub-Trasporti - Trasporto Aereo - Alitalia Sai SpA – Sciopero
personale soc. Airport Handlin di Milano Linate e Malpensa
Filt-Cgil, Fit-Cisl, Uiltrasporti, Ugl-Trasporto Aereo – Sciopero
lavoratori Gruppo Alitalia Sai - CityLiner - Personale
Navigante Tecnico e di Cabina
Slc-Cgil, Fistel-Cisl, Uilcom-Uil, Ugl-Tlc – Telecomunicazioni –
Sciopero lavoratori Ericsson Telecomunicazioni SpA
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e-mail [email protected]
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Iscritto al n. 2142 del Registro della stampa del Tribunale di Firenze. Iscritto come giornale
murale al n. 2820 del Registro della stampa del Tribunale di Firenze
Editore: PMLI
ISSN: 0392-3886
chiuso il 29/6/2016
ore 16,00
FERMIAMO
6 il bolscevico / interni
N. 20 - 19 maggio 2016
IL
Manna
per i grandi
monopoli e
fonte di nuovi
danni e sventure
per i popoli
Lottiamo
contro l'imperialismo
CACCIAMO IL NUOVO
MUSSOLINI RENZI
PARTITO
MARXISTA-LENINISTA
ITALIANO
Committente responsabile: M. MARTENGHI (art. 3 - Legge 10.12.93 n. 515)
Stampato in proprio
Sede centrale: Via Antonio del Pollaiolo, 172a - 50142 FIRENZE Tel. e fax 055.5123164
e-mail: [email protected] -- www.pmli.it
PMLI / il bolscevico 15
N. 27 - 7 luglio 2016
Contro l’Italicum e la riforma “costituzionale”
Il PMLI entra ufficialmente nel Comitato
per il No e continua la raccolta firme
Fronte unito con il Comitato di Modena per il No al referendum. Una ragazza del Comitato a fianco dei marxisti-leninisti durante
il banchino della raccolta firme promosso dal PMLI. Si registra di continuo il dissenso delle masse contro il governo Renzi
‡‡Dal corrispondente
dell’Organizzazione di
Modena del PMLI
Dopo aver aderito ufficialmente al Comitato di Modena per il
No, l’Organizzazione locale ha
comunicato il calendario dei banchini nonché la sua presenza alla
riunione del 4 luglio.
In pieno centro storico, domenica 26 giugno, l’Organizzazione
di Modena del PMLI ha continuato la propaganda anti-Renzi e la
raccolta firme contro l’Italicum e
contro la “riforma” costituzionale.
Ringraziamo una ragazza del
Comitato che ha collaborato serenamente con noi durante il banchino e un ragazzo dell’USI, attivi
entrambi nello spronare i modenesi a firmare e a combattere il
nuovo duce Renzi, consegnando
volantini.
Il fronte unito ha funzionato
alla perfezione; si sono raccolte
molte firme e si sono intrecciate molte interessanti discussioni
contro il governo dove i compagni modenesi hanno esposto la
linea anticapitalista e antimperialista del Partito, smascherando
Modena, 26 giugno 2016. Un gruppo di giovani si intrattiene al banchino
del PMLI per il No (foto Il Bolscevico)
Renzi, raccogliendo il gradimento di coloro che si fermavano al
banchino. Come nel precedente
banchino sono stati consegna-
ti molti volantini di Partito unitamente ai volantini del Comitato;
in questa occasione era presente un opuscolo informativo realiz-
zato dall’Organizzazione modenese su tutte le pessime “riforme”
di Renzi e su quello che succederà se non fermiamo il suo governo neofascista e piduista; un elemento di discussione questo che
è servito anche ai modenesi per
capire meglio il senso della controriforma “costituzionale” in atto.
Un’altra vittoria del PMLI nella
città emiliana, dove stiamo facendo passi avanti sul fronte unito.
Solo radicandosi il PMLI crescerà anche nel corpo. La strada per
il socialismo è lunga e tortuosa
ma lavorando sodo e con fiducia conquisteremo il consenso e
l’appoggio delle masse e dei giovani. Noi dobbiamo, come disse
Mao “Servire il popolo con tutto il cuore e non solo con metà,
o due terzi”. A Modena il PMLI
porge e stringe la mano ai comitati locali di lotta di massa e sarà
sempre a fianco e in prima linea
in tutte le battaglie comuni contro
il capitalismo e il suo governo guidato dall’emulo di Mussolini Renzi, per conquistare il potere politico da parte del proletariato, per il
socialismo.
Al festival “Marea” di Fucecchio (Firenze)
Esordio in pieno centro con un banchino
La Cellula “Vesuvio Rosso” di
Napoli del PMLI aderisce al
Comitato per il No al referendum
sulla controriforma del Senato
Napoli, 21 giugno 2016. Il banchino per il No in via Toledo a cui hanno
partecipato i compagni del PMLI (foto Il Bolscevico)
‡‡Dal corrispondente della
Cellula “Vesuvio Rosso” di
Napoli
Martedì 21 giugno la Cellula “Vesuvio Rosso” di Napoli del
PMLI, all’indomani della campagna elettorale delle amministrative, ha immediatamente aderito
al Comitato per il No alla controriforma del Senato svolgendo un
banchino nella centralissima Via
Toledo all’altezza di via ponte di
Tappia, dalle 15.30 alle 17.30, per
Diffusi centinaia di volantini del PMLI contro la controriforma del Senato
Discussioni e scambi di opinioni, in particolare con i giovani
‡‡Redazione di Fucecchio
Centinaia di volantini che invitano a votare NO alla controriforma piduista e fascista del Senato
hanno invaso il prato della festa
“Marea”. L’edizione 2016 del festival annuale che si svolge a fine
giugno a Fucecchio è stata in discussione fino all’ultimo per mancanza di volontari e per i tagli ai
finanziamenti operati dall’amministrazione comunale PD. Tra le
serate un dibattito sul referendum
istituzionale di ottobre e il concerto del gruppo musicale Modena
City Ramblers.
In queste date i compagni della Cellula “Vincenzo Falzarano” di
Fucecchio del PMLI hanno diffuso
molte copie del volantino che riportava la parola d’ordine sul referendum di ottobre “Vota NO alla
controriforma piduista e fascista
del Senato”. Uno slogan chiaro e
conciso e una grafica raffigurante
Renzi con stivali e fez mussoliniani
a troneggiare sul parlamento che
hanno attirato l’attenzione dei frequentatori. Non sono mancate le
discussioni e gli scambi di opinione, in particolare con i giovani affluiti al concerto.
La tendenza generale è quella
di una radicata insofferenza verso
il nuovo duce Renzi che non gode
più del passato sostegno da parte del “popolo di sinistra”, almeno
da quella parte che noi abbiamo
incontrato. Nessuno ha criticato il
nostro volantino, semmai ci è stato
richiesto ed ha ricevuto consensi,
sintomo che ha colpito nel segno.
Più soft i toni del dibattito dove il
fronte del NO era rappresentato
da Francesco “Pancho” Pardi, anche se non sono mancati interventi battaglieri da parte del pubblico
contro la “riforma” di Renzi.
Fucecchio, diffusione del volantino del PMLI per il No a Marea il
18 giugno 2016 (foto Il Bolscevico)
propagandare il No al referendum
di ottobre. Nel contempo i compagni hanno invitato le masse a firmare la proposta di un referendum
contro lo scempio della Costituzione e contro la legge elettorale “Italicum” fascistissimum.
I marxisti-leninisti hanno fatto
fronte unito con i componenti del
Comitato per il No al referendum,
raccogliendo le firme e discutendo
con i passanti sulle ragioni del No.
Nei brevi ma significativi confronti
con i passanti si è riscontrato un
pensiero su tutti: non solo l’attuale governo non è stato eletto dal
popolo e fa spirare un’aria apertamente “antidemocratica”, ma anche la contrarietà a voler ritoccare
in questa maniera la Costituzione
del 1948.
Una passante, letteralmente schifata dal nuovo duce Renzi
e dal suo esecutivo, ha dichiarato
che era d’accordo con noi quando affermiamo che stiamo in pieno
neofascismo.
Il pomeriggio di propaganda si
chiudeva in un clima di confronto
e unità con le masse napoletane
per esprimere un netto e fermo No
alla controriforma del Senato e per
il voto conseguente al referendum.
La piazza è il nostro ambiente naturale di lotta e di propaganda,
assieme a quello delle fabbriche,
dei campi, delle scuole e
delle università.
STARE
IN PIAZZA
Frequentiamola
il più possibile per diffondere i messaggi del
Partito, per raccogliere le rivendicazioni, le idee, le proposte
e le informazioni delle masse e per stringerci sempre più a esse.
Al referendum di ottobre
6 il bolscevico / interni
N. 20 - 19 maggio 2016
VOTA NO
Committente responsabile: M. MARTENGHI (art. 3 - Legge 10.12.93 n. 515)
Stampato in proprio
alla
piduista
controriforma piduista
alla controri
ee fascista
senato
del senato
fascista del
PARTITO MARXISTA-LENINISTA ITALIANO
Sede centrale: Via Antonio del Pollaiolo, 172a - 50142 FIRENZE Tel. e fax 055.5123164
e-mail: [email protected] -- www.pmli.it