N.27 data editoriale 7 luglio 2016
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N.27 data editoriale 7 luglio 2016
Fondato il 15 dicembre 1969 Settimanale Nuova serie - Anno XL - N. 27 - 7 luglio 2016 Risultato del Referendum La Gran Bretagna esce dalla UE. SI’ 51,9% No 48,1%. Durissimo colpo a alta finanza, banche e City Cameron si è dimesso. I governanti europei prendono misure per evitare il tracollo della Unione e la fuga dei popoli da essa. Per Renzi l’Europa imperialista è “la nostra casa che va ristrutturata” Se vuoi abbattere il capitalismo e il suo governo diretto dal nuovo Mussolini Renzi Indire il referendum anche in Italia PAG. 2 Prendendo a pretesto la democraticità e la trasparenza La Camera approva una legge che impone la concezione borghese del partito, istituzionalizza i partiti e ficca il naso dello Stato al loro interno Se vuoi conquistare il socialismo e il potere politico da parte del proletariato I partiti devono rimanere Associazioni non riconosciute PAGG. 4-5 Con la “Costituente comunista” a Bologna Nasce un nuovo PCI revisionista Entra nel PMLI! “Si ispira ai valori della Costituzione e si richiama al miglior patrimonio politico ed ideologico dell’esperienza storica del PCI, da Gramsci a Berlinguer, e in particolar modo al pensiero gramsciano e togliattiano” PAG. 7 PRENDI CONTATTO CON IL stampato in proprio Che i sinceri comunisti valutino attentamente la nuova-vecchia proposta revisionista 6 201 os i pr d gna pa Cam o ism elit PARTITO MARXISTA-LENINISTA ITALIANO Sede centrale: Via Antonio del Pollaiolo, 172a - 50142 FIRENZE Tel. e fax 055.5123164 e-mail: [email protected] A Modena, Napoli e Fucecchio www.pmli.it Banchini e volantinaggi del PMLI per il No alla controriforma piduista e fascista del SenatoPAG. 15 2 il bolscevico / brexit N. 27 - 7 luglio 2016 Risultato del Referendum La Gran Bretagna esce dalla UE. SI’ 51,9% No 48,1%. Durissimo colpo a alta finanza, banche e City Cameron si è dimesso. I governanti europei prendono misure per evitare il tracollo della Unione e la fuga dei popoli da essa. Per Renzi l’Europa imperialista è “la nostra casa che va ristrutturata” La mossa opportunista di Cameron Il referendum sulla permanenza della Gran Bretagna nella Ue è entrato nel programma di Cameron, che fino al 2013 era contrario, quando i conservatori erano all’opposizione e vedevano sottrarsi l’elettorato anti Ue dalla crescita dell’Ukip di Farage che risultò il primo partito alle europee del 2014. La mossa è servita a Cameron per vincere le politiche del 2015 e a dover mantenere la promessa del referendum. Lo scorso 22 febbraio Cameron si presentava alla Camera dei Comuni per illustrare la posizione del suo governo sull’accordo appena definito al vertice Ue di Bruxelles, che aveva Il vertice del direttorio Germania, Francia e Italia “Italia, Germania e Francia sono i Paesi più popolati dell’Ue, inoltre siamo tre Paesi fondatori. Dal momento che la Gran Bretagna uscirà, è importante che l’Ue sia unita sulle responsabilità da prendere”, affermava il presidente francese François Hollande per giustificare l’ennesimo direttorio dei paesi più forti della Ue al termine dell’incontro di Berlino del 27 giugno con la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente del Consiglio Matteo Renzi. Stiamo uniti era il primo messaggio dell’incontro a tre che preparava il primo vertice europeo dopo il referendum che aveva sancito la decisione della Gran Bretagna di uscire dalla Ue col 51,9% dei voti contro il 48,1%. L’incontro a dire la verità era stato preparato una settimana prima a due sull’asse negoziato con Londra e delineava i contenuti delle misure che i governanti europei dovranno prendere per evitare il tracollo tica neoliberista e affamatrice. Questo è il sostanziale significato del referendum nonostante l’affanno dei delusi cantori Fuori l’Italia dalla UE L’UNIONE EUROPEA IMPERIALISTA NON SI PUO’ CAMBIARE VA DISTRUTTA grazione economica e militare approfittando tra l’altro del fatto che non ci saranno più i veti di Londra. I capi della diplomazia dei sei Paesi fondatori dell’Ue (Italia, Germania, Francia, Olanda, Lussemburgo e Belgio) si erano riuniti il 25 giugno a Berlino e indicavano che la Gran Bretagna deve richiedere “al più presto possibile” l’attivazione dell’articolo 50. Mentre a Bruxelles nominavano subito Didier Seeuws, diplomatico belga, ex capo di gabinetto dell’ex presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy fino alla fine del 2014 negoziatore capo della cosiddetta Brexit Task Force del Consiglio dei ministri Ue per il processo di uscita della Gran Bretagna dalla Ue. Indire il referendum anche in Italia per delegittimarla e isolare le sue istituzioni e i suoi governi. Solo il socialismo può realizzare l’Europa dei Popoli PARTITO MARXISTA-LENINISTA ITALIANO Sede centrale: Via Antonio del Pollaiolo, 172a - 50142 FIRENZE Tel. e fax 055.5123164 e-mail: [email protected] Committente responsabile: M. MARTENGHI (art. 3 - Legge 10.12.93 n. 515) concesso un “status speciale” alla Gran Bretagna per farla rimanere agganciata al sistema dell’euro e evitare la cosiddetta Brexit, l’uscita dalla Ue. “Ho negoziato un accordo per dare al Regno Unito uno speciale status nella Ue” esultava Cameron, “ora posso raccomandare di votare per la permanenza della Gran Bretagna nella Ue” nel referendum del 23 giugno. Nell’occasione affermava che “lasciare l’Europa minaccerebbe la nostra sicurezza economica e nazionale”; la prima di una serie di motivazioni tra il minaccioso e il ricattatorio per sostenere il voto contro la Brexit che passavano dal “se uscissimo dall’Ue tornerebbe il rischio guerra” a “sarebbe una bomba economica”, a “se lasciamo Ue pensioni a rischio”. Riscuoteva l’appoggio da Obama ai leader della Ue, alle istituoni finanziarie imperialiste, col G7 che definiva la “Brexit una minaccia per l’economia mondiale”. Un impressionante schieramento che non è servito. Il 24 giugno Cameron prendeva atto del voto e annunciava le sue dimissioni; sarebbe rimasto a Downing Street altri tre mesi per dare il tempo alla formazione di un nuovo esecutivo che desse il via ai negoziati con l’Ue. Il colpo all’Europa dei monopoli era parato con attestati di fedeltà da dichiarazioni come quella di Renzi: “l’Europa è la nostra casa, la casa nostra e dei nostri figli e nipoti. Lo diciamo oggi più che mai, convinti che la casa vada ristrutturata, forse rinfrescata: ma è la casa del nostro domani”. E dipingeva l’Ue imperialista per quello che non è ricordando che “il mondo ha molto bisogno dell’Ue, di un’Europa del lavoro, del coraggio, della libertà, della democrazia. In un parola il mondo che verrà ha molto bisogno dell’umanesimo europeo”. Stampato in proprio I popoli della Gran Bretagna hanno conseguito una grande vittoria contro l’UE imperialista votando per l’uscita dall’Unione. Questa vittoria storica costituisce un potente incoraggiamento per tutti i popoli dei paesi membri dell’UE per richiedere un analogo referendum. I risultati del referendum del 23 giugno sono chiari e inappellabili: dei 46,5 milioni di elettori se ne sono recati alle urne oltre 33 milioni, il 72,2%. 17,4 milioni si sono espressi per il Sì contro i 16,1 milioni di consensi andati al No. Si tratta di un voto contro l’Europa della grande finanza e delle banche, un No all’Europa del grande capitale e non dei popoli. Un voto generato da crescenti disuguaglianze, l’esclusione sociale, l’impoverimento, gli affitti da capogiro, le ferrovie privatizzate carissime e inefficienti, lo smantellamento del sistema sanitario nazionale, da tutti quegli effetti della politica applicata dal governo di Londra, in piena sintonia con quello di Bruxelles, che hanno caricato anche in Gran Bretagna il peso della crisi finanziaria e economica capitalistica sulle spalle delle masse popolari. Il “divorzio” inizierà con la notifica dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona che recita: “ogni Stato membro può decidere di recedere dall’Unione conformemente alle proprie norme costituzionali”. La procedura prevede la notifica della decisione al Consiglio europeo e da quel momento l’inizio del negoziato sull’accordo che definirà le modalità del ritiro. L’accordo dovrà essere approvato dal Consiglio Ue a maggioranza qualificata, previa approvazione del Parlamento. In mancanza di intesa, l’uscita diventerà comunque effettiva a due anni dalla notifica a meno che lo Stato interessato e il Consiglio europeo non concordino nel prorogare quel termine. Indire il referendum anche in Italia www.pmli.it Il manifesto del PMLI contro l’Unione europea imerialista per le elezioni del 2014 Berlino-Parigi ma la cancelliera ha invitato anche Renzi, dato l’esito del voto e con un Hollande indebolito dalla rivolta contro la Loi Travail, cioè la legge del lavoro (il Jobs Act in salsa francese). Renzi con la consueta faccia di bronzo sosteneva tra l’altro che “l’Unione europea non ha un direttorio”, ma era come di consueto la Merkel a illustrare la linea concordata nel direttorio e da portare al vertice Ue del 28 e 29 giugno a Bruxelles. “Per avviare i negoziati – affermava la cancelliera - serve la richiesta ufficiale del Regno Unito. A settembre ci rivedremo per poter parlare delle misure concrete. Dovremo procedere nel modo più rapido possibile per la procedura di uscita”, e al fine di “evitare ogni movimento centrifugo nella Ue, fare una proposta concreta agli stati membri circa le misure concrete da prendere nei prossimi mesi”. La Merkel scandiva i tempi del dell’Unione e la fuga dei popoli da essa. Il premier britannico David Cameron dopo le sue dimissioni aveva annunciato che il 28 giugno non avrebbe chiesto l’attivazione dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona per uscire dall’Unione Europa e dare il via formale al negoziato, compito che lasciava al nuovo esecutivo che entrerà in carica a ottobre; la Merkel accorciava i tempi indicando settembre come momento di avvio del negoziato. Ma non è tanto il crollo momentaneo delle borse, per un evento tra l’altro non certo imprevisto, che preoccupa i principali paesi imperialisti europei quanto il durissimo colpo assestato dall’elettorato alla Ue dell’alta finanza, delle banche e della City. Un esempio di come la pensano i popoli della Ue quando gli viene data la possibilità di farlo, un segnale chiaro contro l’Unione europea imperialista e la sua poli- dell’Unione europea imperialista nell’evidenziare oltremisura il contributo che pure c’è stato da parte dei partiti e delle posizioni ultranazionaliste, razziste e xenofobe per una uscita da destra dalla Ue. Come quelle cavalcate dal conservatore Boris Johnson ex sindaco di Londra, “convertito” da non molto al no alla Ue anche per fare le scarpe a Cameron, o l’Ukip del reazionario Nigel Farage, alleato di Grillo e del M5S, che anche nei momenti migliori, vedi le elezioni europee del 2014, è rimasta attorno al 10% dell’elettorato, cioè sui 4 milioni di voti. Il direttorio riunito il 27 giugno a Berlino delineava il possibile percorso per la costruzione di una unità europea a più velocità, per tenere insieme i cosiddetti euroscettici che vogliono mantenere una certa autonomia degli Stati nazionali, come la Polonia, con quelli che vogliono procedere più speditamente verso una maggiore inte- Ci sarebbero i veti dei popoli, come quello espresso in Gran Bretagna o come quello espresso dalla diserzione delle urne per l’elezione dell’europarlamento nel 2014. Ci vorrebbe un referendum anche negli altri paesi. A partire dall’Italia, nonostante la Costituzione vigente non preveda la consultazione popolare per la ratifica dei Trattati internazionali, allora fu ritenuto meglio non fornire strumenti alle masse popolari che potevano far saltare l’alleanza col fronte imperialista occidentale. Un referendum per restare o uscire dalla Ue, non certo per quello parziale e fuorviante per uscire dall’euro rilanciato opportunisticamente adesso dal M5S, che però, tramite Di Maio e Di Battista, ha confermato che non chiede che l’Italia esca dall’Unione. Nella campagna elettorale astensionista per le elezioni dell’europarlamento del 25 maggio 2014 il PMLI sottolineava che “occorre battersi per la totale sovranità e indipendenza nazionale dall’Ue. Solo questo creerebbe migliori condizioni per lo sviluppo della lotta di classe contro il capitalismo, per il socialismo e per la conquista del potere politico da parte del proletariato. I marxisti-leninisti italiani non sono nazionalisti, bensì internazionalisti. Come ha detto Lenin, il 28 dicembre 1919, ‘Aspiriamo alla stretta alleanza e alla fusione completa degli operai e dei contadini di tutte le nazioni del mondo in una unica repubblica sovietica mondiale’. Ma per arrivare a questo bisogna distruggere in tutti i paesi il capitalismo e il suo Stato borghese, compresa l’Ue, che anche se fosse riformabile continuerebbe a sfruttare e opprimere i popoli, a essere razzista e antimigranti e a fare unicamente gli interessi dei monopoli e della borghesia”. imperialismo italiano / il bolscevico 3 N. 27 - 7 luglio 2016 Costati all’Italia oltre un miliardo di euro Renzi schiera missili per difendere la Turchia del fascista Erdogan Se non ne avesse parlato la stampa turca niente avremmo saputo in Italia: Renzi e Pinotti hanno inviato nel sud della Turchia del fascista Erdogan una batteria di missili terra-aria SAMP/T e un contingente militare, nell’ambito della missione Nato “Active Fence”, per “proteggere” il confine turco con la Siria. In una zona cioè caldissima, dove sono in corso aspri combattimenti a terra e dove i rischi di incidenti con gli aerei russi che sfrecciano nella zona sono altissimi, così come la possibilità di un coinvolgimento del nostro Paese in un conflitto più vasto. E tutto questo praticamente all’insaputa della stampa e dell’opinione pubblica, che nessuno ha mai informato della grave decisione. Si tratta di una batteria di missili antiaerei e antimissile di ultima generazione, realizzati dal consorzio italo-francese Eurosam (MBDA e Thales), la cui progettazione e produzione è costata al nostro Paese più di un miliardo di euro. Insieme alla batteria il governo italiano ha inviato anche 130 militari provenienti dal 4° reggimento Peschiera di Mantova e dal Comando artiglieria contraerei di Sabaudia. La notizia è trapelata solo perché il 7 giugno scorso la stampa turca e l’agenzia di Stato “Anadolu” hanno pubblicato le foto dell’arrivo dei camion civili che trasportavano i missili nella zona di Kahramanras, a nord di Gaziantep, nel sud del Paese in prossimità della frontiera con la Siria, accompagnati da alcune decine di addetti italiani in abito civile. A bordo del convoglio, partito dal porto di Iskenderun e scor- tato da auto della polizia, erano presenti anche decine di militari. Lo stesso giorno i ministri Gentiloni e Pinotti hanno “informato” le Commissioni Esteri e Difesa della missione, senza che peraltro siano stati chiesti loro ulteriori chiarimenti dai pochi parlamentari presenti. I ministri si sono limitati a comunicare che la missione italiana era prevista da tempo per andare ad avvicendare le batterie di missili Patriot, recentemente ritirate dai tedeschi e dagli americani, e schierate dalla Nato per difendere il confine meridionale della Turchia, su richiesta del governo turco in quanto paese membro dell’alleanza. Oltre ai missili il governo italiano schiera anche un aereo per il rifornimento in volo che andrà a rinforzare il sistema di spionaggio aereo Awacs (Airborne warning and control system). In realtà, come aveva anticipato il 18 maggio la rivista “Analisi Difesa”, la partenza imminente della batteria missilistica italiana era deducibile dallo stanziamento di oltre 7 milioni di euro di qui a fine anno inserito nel decreto missioni approvato a fine 2015 per la partecipazione all’operazione Nato “Active Fence”. Ma nessun altro ne aveva parlato, e il Paese ne è rimasto del tutto all’oscuro fino alle rivelazioni della stampa turca. Il giornale “Daily Sabah” ha parlato del dispiegamento di un “sistema di difesa aerea avanzato italiano per combattere lo Stato islamico”, che però tutti sanno che non dispone di missili o velivoli di sorta. E allora a che servono i missili italiani? Quello che si sa è che batterie di missili antiaerei della Nato, Ecco i missili italiani già sul suolo della Turchia soprattutto americane, e a rotazione anche olandesi, tedesche e spagnole, erano state installate fin dal 2013 a ridosso della Siria su richiesta del fascista Erdogan, evidentemente come minaccia nei confronti del governo di Assad e come deterrente verso eventuali risposte militari all’appoggio turco ad alcune fazioni ribelli e per coprire le operazioni militari e i bombardamenti contro i curdi del PKK. Dopo la provocazione di Erdogan che ordinò l’abbattimento del cacciabombardiere russo il 24 novembre scorso, cercando evidentemente l’escalation per schierare più decisamente la Nato in difesa della sua strategia egemonica nella regione, ostacolata dall’intervento militare di Putin in difesa di Assad, gli americani hanno deciso di ritirare le loro batterie e farsi sostituire dagli al- leati europei: forse a causa dell’inaffidabilità di Erdogan e per diminuire il rischio di uno scontro diretto con i russi. Sta di fatto che ora la patata bollente è nelle mani degli italiani, e non si sa con quali regole d’ingaggio (perché sono top secret), e nemmeno quale sia esattamente la catena di comando, se saranno cioè i militari italiani che operano al confine turco a decidere se e quando lanciare i missili, magari contro aerei russi, e in base a quali regole, o se debbano semplicemente obbedire agli ordini provenienti dal comando Nato unificato di Ramstein in Germania. Che è come dire direttamente dal governo americano, che tra l’altro in questo momento è impegnato in un confronto muscolare assai duro e pericoloso con la Russia di Putin. E non soltanto nell’esplosivo scacchiere mediorientale, ma anche a ridosso degli stessi confini della Russia: nel Baltico, nei paesi dell’Est europeo e nel Mar Nero. I missili SAMP/T sono un sistema d’arma nuovissimo e sofisticatissimo, ma anche molto pericoloso da maneggiare: è in grado di lanciare fino a 8 missili in 10 secondi con un tempo di reazione di 8 secondi. Può operare su 360° e ingaggiare fino a 10 bersagli contemporaneamente. Facile capire che può bastare un minimo errore di valutazione per provocare un incidente internazionale di proporzioni catastrofiche. Anche perché pure i russi, dopo l’abbattimento del loro Sukhoi 24, dalla loro base siriana hanno schierato batterie di missili antiaerei puntati sul confine turco, e hanno già avvertito che stavolta risponderanno per le rime in caso di un nuovo abbattimento di uno dei loro aerei. Non è dunque affatto vero che Renzi non si vuole far coinvolgere nel conflitto siriano. Come l’invio del contingente a “proteggere” la diga di Mosul serve a mascherare l’escalation dell’interventismo italiano in Iraq contro l’IS, così l’invio di soppiatto dei missili a “proteggere” il confine turco-siriano maschera l’interventismo italiano in quest’altra area, schierando l’Italia a fianco del boia fascista Erdogan e della sua politica egemonica regionale basata sul massacro dei curdi e l’ingerenza nel conflitto siriano. E anche con seri pericoli di un coinvolgimento in un conflitto molto più vasto, potenzialmente anche mondiale se ci dovesse essere uno scontro Nato-Russia. Nel 2016 oltre 13 miliardi per l’acquisto di nuovi armamenti L’esercito imperialista italiano costa alle masse 50 milioni di euro al giorno L’Air Force di Renzi ci costa 15 milioni di euro l’anno Mentre le masse popolari sono ridotte al lastrico dalla macelleria sociale del nuovo duce Renzi, il parlamento del regime neofascista ha approvato nei giorni scorsi il nuovo Documento programmatico pluriennale della Difesa (2016-2018) che già nel 2016 contempla un aumento di spesa dell’1,3% rispetto all’anno scorso portando il costo totale dell’esercito imperialista italiano (esclusi i carabinieri) a quota 17,7 contro i 17,5 del 2015. Praticamente 50 milioni di euro al giorno impegnati in spese militari (48 nel 2016 per la precisione) di cui quasi 13 per l’acquisto di nuovi armamenti: cacciabombardieri, F-35, una portaerei e le nuove fregate. Spese che continuano a crescere, immuni da tagli, nonostante la Difesa continui a sostenere il contrario. Come ad esempio i costi della parata imperialista e guerrafondaia del 2 giugno che ogni anno ci costa almeno due milioni di euro. Le cifre, messe nero su bianco, prevedono: 13,36 miliardi di spese nel 2016 (carabinie- ri esclusi), l’1,3 per cento in più rispetto all’anno scorso. Cifra che sale a 17,7 miliardi (contro i 17,5 del 2015) se si considerano i finanziamenti del mini- stero dell’Economia e delle Finanze alle missioni militari (1,27 miliardi, contro gli 1,25 miliardi dell’anno precedente) e quelli del ministero per lo Sviluppo Economico ai programmi di riarmo (2,54 miliardi, nel 2015 erano 2,50). Finanziamenti, quelli del Mise, che anche quest’anno ga- Un cacciabombardiere Eurofighter typhoon e la sua impressionante dotazione di missili rantiscono alla Difesa una continuità di budget per l’acquisto di nuovi armamenti per un totale di 4,6 miliardi di euro (contro i 4,7 del 2015). Le spese maggiori per quest’anno riguardano i cacciabombardieri Eurofighter (677 milioni), gli F-35 (630 milioni), la nuova portaerei Trieste e le nuove fregate Ppa (472 milioni), le fregate Fremm (389 milioni), gli elicotteri Nh-90 (289 milioni), il programma di digitalizzazione dell’Esercito Forza Nec (203 milioni), i nuovi carri Freccia (170 milioni), i nuovi elicotteri Ch-47f (155 milioni), i caccia M-346 (125 milioni), i sommergibili U-212 (113 milioni). A tutto ciò si potrebbero presto aggiungere anche gli acquisti dei nuovi blindati Centauro 2, gli elicotteri da attacco successori dei Mangusta, il drone europeo Male2025 o il “programma urgente” (Mission Need Urgent Requirement) per la protezione degli avamposti di combattimento in prima linea (Forward Operating Base) “nei teatri operativi”. In aumento anche la spesa per il personale che, invece di di- minuire come previsto dalla riforma Di Paola, nel 2016 aumenta del 2,7 per cento rispetto all’anno scorso: 10 miliardi di euro per pagare 90mila ufficiali e sottufficiali e 82mila soldati di truppa. Per non parlare della famigerata pensione ausiliaria (regalìa residuata della guerra fredda, ridotta ma non abolita) che continua a costare oltre 400 milioni all’anno o dei 200 preti-generali e preti- colonnelli che pesano ancora per 20 milioni l’anno tra stipendi e pensioni. Tra le pieghe del Documento è inserita anche la classica ciliegina sulla torta che prevede un aumento del 21,6 per cento delle spese per “funzioni esterne” della Difesa (118 milioni contro i 97 del 2015), comprendenti il rifornimento idrico delle isole minori, l’attività a supporto dell’aviazione civile, il soccorso aereo di malati gravi e i voli militari di Stato, compreso – questa è la ragione dell’aumento – il nuovo lussuoso Air Force Renzi, il cui costo di leasing, secretato dal premier, è stimato in almeno 15 milioni di euro l’anno. 4 il bolscevico / regime neofascista N. 27 - 7 luglio 2016 Prendendo a pretesto la democraticità e la trasparenza La Camera approva una legge che impone la concezione borghese del partito, istituzionalizza i partiti e ficca il naso dello Stato al loro interno I partiti devono rimanere Associazioni non riconosciute L’approvazione della legge sui partiti da parte della Camera, avvenuta l’8 giugno, richiede una premessa stori- ca. I partiti politici nascono nella storia moderna con le rivoluzioni borghesi, in modo particolare durante gli avvenimenti che portarono alla Rivoluzione inglese del 1689 (Whigs e Tories) e ricevono un ulteriore impulso con la Rivoluzione americana e la nascita degli Stati Uniti d’America nel 1776 (Partito De- mocratico-Repubblicano e Partito Federalista) e con la Rivoluzione francese a partire dal 1789 (i più importan- ti furono i Club dei Giacobini, dei Cordiglieri, dei Foglianti, dei Girondini e dei Montagnardi). Quando e come sono nati storicamente i partiti Nell’ambito delle tre menzionate rivoluzioni le rispettive borghesie nazionali, che comunque detenevano ampiamente il potere economico da secoli, crearono i partiti politici, che in origine erano semplicemente movimenti di opinione senza una delineata forma giuridica, con un chiaro scopo rivoluzionario al fine di imporre ai rispettivi monarchi organi rappresentativi dove, tramite i partiti appunto, i rappresentanti della borghesia avrebbero discusso e approvato le leggi, e ciò quindi in radicale contrapposizione all’ordinamento giuridico della monarchia assoluta dove l’apparato che faceva capo al re non prevedeva organi rappresentativi. Pertanto i partiti politici si connotano sin dall’origine come istanze di carattere rivoluzionario o comunque totalmente svincolate dall’apparato statale che faceva capo ai rispettivi monarchi. Negli Stati Uniti i partiti nascono come organismi di contrapposizione democratico-borghese all’apparato dei singoli Stati e a quello dello Stato federale, ossia agli elementi autoritari che ricalcavano, in ambito repubblicano, il potere di governo già monarchico. Ma la frattura più radicale nell’ambito della concezione di partito politico si ha nel 1848 con la pubblicazione del Manifesto del Partito Comunista dove Marx ed Engels chiariscono che l’organizzazione che prende il nome di Partito Comunista deve essere il fattore decisivo ver- so la Rivoluzione socialista che ha lo scopo di portare al potere il proletariato, abbattere il capitalismo, il potere della classe borghese e l’apparato statale borghese che si era delineato a partire dalle rivoluzioni dei due secoli precedenti. La differenza maggiore rispetto ai partiti borghesi sta nel fatto che i primi nascono, ad opera della borghesia, per la gestione di un potere politico che è strumento, a sua volta, della gestione di un potere economico che già la borghesia aveva da secoli, mentre il Partito comunista nasce per consentire al proletariato la conquista sia del potere politico sia del potere economico, non avendo il proletariato mai avuto nella storia né l’uno né l’altro di tali poteri. Lenin settanta anni più tardi rafforza tale concezione rivoluzionaria di partito elaborando, in contrapposizione con la concezione dominante dei partiti politici borghesi, il concetto di ‘centralismo democratico’ per cui “la linea, le indicazioni, le direttive e le misure del Partito vanno applicate comunque, anche ciò su cui, eventualmente, non siamo d’accordo. Chi dissente ha il diritto di porre la questione nelle sedi di Partito attraverso la critica e l’autocritica, in modo dialettico e costruttivo, usando la formula unità-critica-unità, cercando di non trasformare una contraddizione in seno al popolo in una contraddizione antagonista. Ciò all’interno della propria istanza, investendo successivamente le istanze superiori, qua- Roma, 28 marzo 2015. Manifestazione nazionale della FIOM (foto Il Bolscevico) lora lo ritenga necessario e se si tratta di questioni di carattere generale” (G. Scuderi, La linea del PMLI sul centralismo democratico, in Il Bolscevico n. 27 del 12 luglio 2012, p. 8). Esiste quindi una contraddizione tra la concezione borghese e la concezione marxista-leninista di partito dovuta al fatto che quest’ultima prevede non dibattiti finalizzati alla conservazione del sistema economico e dell’ordinamento politico esistente, ma unità di azione finalizzata all’abbattimento rivoluzionario di entrambi. Accanto a tale contraddizione tra le due concezioni di partito sopra esposte, ve ne è anche un’altra, tutta interna al campo borghese, dovuta al fatto che i partiti politici borghesi, nati tra il XVII e il XVIII secolo per rappresentare l’interesse peculiare della borghesia (fino ai primi decenni del XX secolo il voto era censitario e le donne erano escluse dal voto), si dovettero scontrare con la concezione della democrazia proletaria introdotta dal pensiero socialista e attuata prima con la Comune di Parigi del 1871 e qualche decennio più tardi con la Rivoluzione di Ottobre del 1917. La borghesia reagì a tale pressione democratica in modo diversificato a seconda della situazione nazionale, in alcuni casi introducendo una variante istituzionale sotto forma di Stato autoritario a partito unico (dittatura terroristica aperta realizzata nel fascismo, nazismo, franchismo, ecc.) per continuare a detenere il potere economico, mettendo al bando tutti i partiti eccetto uno o (come nel caso della Repubblica di Vichy) consentendo l’esistenza solo a partiti politici conservatori, in ogni caso introducendo norme che regolamentavano la vita del partito unico o dei partiti di regime. Il fenomeno della regolamentazione pubblica della vita interna dei partiti politici da parte dello Stato (e quindi della loro istituzionalizzazione) è un fenomeno recente (risalente agli anni Venti e Trenta del Novecento) rispetto alla loro vita plurisecolare, e deve considerarsi un fatto che si verifica nei momenti di grave crisi del sistema stesso, quando vi è un calo di consenso verso il sistema politico stesso, e proprio per rispondere a tale calo di consenso il sistema politico si organizza per investire di prerogative pubblicistiche i partiti stessi (prerogative che, come si è visto, erano totalmente estranee alla nascita dei partiti e alla loro vita fino a Novecento inoltrato). Il controllo dello Stato sui partiti che vuole Renzi Quindi la seconda contraddizione, tutta interna al sistema economico capitalista e all’ordinamento giuridico che ne è sovrastruttura, è quella per cui lo Stato borghese impone un controllo a quei partiti politici che sono, al contrario, nate come contrappeso liberale al potere assoluto dello Stato stesso, ed è di quest’ultima contraddizione che si occuperà questo articolo. In Italia sta attualmente avvenendo tale seconda contraddizione, che snatura il ruolo dei partiti all’interno dell’ordinamento giuridico borghese nato con la Costituzione del 1948. Il nostro giornale è sempre stato molto attento ai tentativi che ormai da anni si stanno attuando per istituzionalizzare i partiti politici (si vedano, tra gli altri, Il Bolscevico n. 30 del 1° agosto 2013, p. 9 e n. 25 del 25 giugno 2015, p. 2 dedicati rispettivamente alle discussioni nell’ambito dell’Assemblea costituente in relazione al dise- gno di legge n. 260 FinocchiaroZanda e al disegno di legge n. 1938 a firma, tra gli altri, del deputato PD Guerini), tentativi che smascherano una linea politica coerente perpetrata prima dal gruppo dirigente bersaniano del PD, poi proseguita dall’attuale gruppo dirigente renziano dello stesso partito, di istituzionalizzare i partiti politici con il chiaro fine di metterli sotto il controllo del ministero dell’Interno (e quindi della polizia), una linea politica nella quale si sono inseriti anche gli altri partiti e persino il Movimento 5 Stelle. Con l’ascesa al potere di Renzi, decaduto definitivamente il disegno di legge n. 260 a firma di Finocchiaro e Zanda, sono invece proseguiti i lavori alla Camera del disegno di legge n. 1938 a firma del renziano Guerini che impone alle liste, quale condizione per poter partecipare a elezioni nazionali, di dotarsi di uno statuto regolato dalla legge, acquisire la per- sonalità giuridica e iscriversi in un apposito registro (al contenuto di tale proposta legislativa si rimanda all’esaustiva disamina fatta ne il Bolscevico n. 25 del 25 giugno 2015), tanto che lo scorso marzo non soltanto da parte del Movimento 5 Stelle (come era prevedibile) ma anche da parte di altre formazioni politiche c’è stata alla Camera una chiara presa di posizione contro il progetto politico renziano, e le critiche sono venute non solo dall’opposizione ma anche dalla maggioranza: infatti a sollevare dubbi sul testo messo nero su bianco da Guerini ci hanno pensato i deputati Alfredo D’Attorre (Sinistra Italiana) e Andrea Mazziotti (Scelta Civica), quest’ultimo rappresentante della maggioranza che sostiene il governo. Il tema più spinoso è quello relativo al riconoscimento giuridico dei partiti, vero fulcro della proposta legislativa che fa capo a Guerini che ritiene, come si legge nella relazione introduttiva della proposta di legge indispensabile “la necessaria acquisizione della personalità giuridica per i partiti che intendano prendere parte alle elezioni politiche nazionali e candidarsi alla guida del Paese” per conseguire la quale le stesse formazioni politiche dovranno necessariamente dotarsi “di un atto costitutivo e di uno statuto redatti nella forma dell’atto pubblico”, fatto che da solo sarebbe sufficiente a eliminare dalla scena politica il Movimento 5 Stelle che, almeno nella sua forma attuale, è privo di statuto. Alfredo D’Attorre ha proposto, pur senza escludere il principio del riconoscimento giuridico dei partiti, un doppio regime, il primo, applicabile ai movimenti che intendano presentarsi esclusivamente alle elezioni, con una regolamentazione interna meno stringente, ed un secondo, più rigoroso, che al contrario impone di ac- quisire la personalità giuridica e norme più vincolanti ai partiti che intendano accedere a qualsiasi forma di finanziamento pubblico. Anche Mazziotti ha ritenuto che “la libertà di associarsi liberamente non può significare assenza di disciplina” pur esprimendo la forte preoccupazione che “una regolamentazione troppo rigida che porti addirittura all’esclusione di un partito dalle elezioni oltre a non vedermi d’accordo, rischia di stringere troppo i cordoni della partecipazione elettorale, impedendo, ad esempio, la possibilità per i cittadini di presentare liste civiche”, come si legge nella relazione introduttiva al suo disegno di legge. In modo particolare la sua proposta prevede che quello che il deputato di Scelta Civica chiama “accordo associativo” (che equivale allo statuto nei tradizionali partiti politici), sul quale il partito o il movimento politico si fonda e che può essere liberamente determinato, debba solo essere pubblico e accessibile agli iscritti o a chi volesse aderirvi, altrimenti si rinvia alla disciplina del codice civile. Come si vede, entrambe le proposte alternative a quella del PD, pur comprendendo le implicazioni antidemocratiche del disegno di legge Guerini, non escludono affatto l’interferenza statale nella vita politica dei partiti, poiché accolgono il principio della necessaria democraticità interna, e quindi dei necessari controlli esterni sulla loro vita interna. Agli inizi di aprile anche il Movimento 5 Stelle, a firma del suo deputato Toninelli, ha presentato in commissione Affari costituzionali della Camera una sua proposta di legge sulla trasparenza dei partiti e dei movimenti politici, tutta incentrata sulla problematica della gestione finanziaria da parte dei partiti, e in essa non c’è traccia della regime neofascista / il bolscevico 5 N. 27 - 7 luglio 2016 questione del necessario riconoscimento. Il testo proposto da Toninelli introduce il divieto, per i partiti e i movimenti politici, “di accettare contributi o altre forme di sostegno”, anche tramite “la messa a disposizione di servizi”, da parte “di persone fisiche o giuridiche che non acconsen- tano alla pubblicità dei relativi dati” o che provengano “da Stati esteri o da persone giuridiche aventi sede in uno Stato estero o da persone fisiche non iscritte nelle liste elettorali o comunque private del diritto di voto alle elezioni nazionali”, introducendo anche precisi limiti ai contributi e prevedendo sanzioni pe- cuniarie (che dovrà irrogare una apposita “commissione” statale) nei confronti del movimento politico che violi tali norme di trasparenza. A ben guardare, anche il testo del Movimento 5 Stelle prevede una pesante interferenza statale nella vita interna dei partiti. Infine, agli inizi di maggio Matteo Richetti (PD) ha presentato un nuovo testo base della riforma relativa alla regolamentazione dei partiti, e da tale testo è stata esclusa la necessità dell’obbligo dell’iscrizione all’albo dei partiti ai fini della partecipazione alla competizione elettorale, obbligo che invece era il punto principale del disegno di legge a firma di Guerini. Il nuovo testo del PD prevede che per i movimenti che intendano partecipare alla competizione elettorale sia previsto solo il vincolo della presentazione di una dichiarazione di trasparenza che dovrà contenere alcuni elementi fondamentali, pena la ricusazio- ne delle liste, si dovrà indicare il “legale rappresentante del partito o del gruppo politico e la sede legale nel territorio dello Stato; gli organi del partito o del gruppo politico, la loro composizione nonché le relative attribuzioni; le modalità di selezione dei candidati per la presentazione delle liste”. iscritti in un apposito Registro, ma non si comprende quale sia l’organo deputato a emettere il giudizio circa la democraticità interna o meno. Infatti all’articolo 2 il testo di legge si limita a stabilire che “la vita interna dei partiti, movimenti e gruppi politici organizzati e la loro iniziativa politica sono improntate al metodo democratico”. Altra grave limitazione alla libertà di autodeterminazione dei partiti politici è quella che prevede l’obbligo di affidare l’uso del simbolo e del nome al partito e non a un singolo, con la conseguenza che “ogni modifica e ogni atto di disposizione o di concessione in uso della denominazione e del simbolo è di competenza dell’assemblea degli associati o iscritti”, e i simbo- li verranno pubblicati sul sito internet del Ministero dell’Interno, e in caso di mancato deposito dello statuto o della dichiarazione di trasparenza, le liste sono ricusate dall’Ufficio centrale circoscrizionale. Si prevede poi la “trasparenza degli organi, delle regole interne e delle modalità di selezione delle candidature” anche per quei movimenti politici che non siano iscritti al registro dei partiti, e sono state introdotte precise regole per l’istituzione e per l’accesso all’anagrafe degli iscritti e per l’indicazione dei criteri di ripartizione delle risorse tra organi centrali e le eventuali articolazioni territoriali, con la comminatoria della sanzione di 30.000,00 euro per i partiti che non pubblicano i dati su internet. L’approvazione della Camera In totale sono state presentate ben 18 diverse proposte legislative da quasi tutte le forze politiche presenti alla Camera prima che, l’8 giugno, fosse approvato alla Camera il disegno di legge proposto dal PD, originariamente da Guerini con gli emendamenti di Richetti, che, pur escludendo la necessità di iscrizione ad apposito registro per presentarsi alle elezioni, non risolve certamente tutti i problemi che il PMLI ha da molto tempo denunciato. Così, dopo ben 222 emendamenti presentati da quasi tutte le forze politiche rappresentate alla Camera, hanno votato a favore del disegno di legge 268 deputati (Partito Democratico, Alleanza Popolare, Scelta Civica e il presidente del grup- po Misto Pino Pisicchio), hanno votato contro 36 parlamentari (Sinistra Italiana e Conservatori e Riformisti) mentre si sono astenuti i 114 rappresentanti del Movimento 5 Stelle, Forza Italia, Lega Nord e Democrazia Solidale-Centro Democratico. Rientrate quindi le riserve di Scelta Civica (che alla fine ha votato a favore), e rimaste isolate le posizioni di Forza Italia (che si è limitata a richiedere l’innalzamento, per le donazioni, da 100mila a 200mila euro l’anno) le maggiori critiche al testo del PD sono venute dal M5S e da SI, peraltro per motivi molto diversi e con diverse modalità di manifestazione del dissenso, in quanto il primo si è astenuto mentre il secondo ha votato contro: per il M5S infatti la po- sta in gioco è quella di evitare statuti o regole che possano interferire con le loro logiche interne tutt’altro che chiare, perché non bisogna dimenticare che il loro simbolo è di proprietà di Beppe Grillo e la loro organizzazione è in gran parte regolamentata dalla Casaleggio Associati srl, un’azienda privata, mentre la scelta di Sinistra Italiana è stata soprattutto quella di lamentare la debolezza, nel disegno di legge del PD, dei meccanismi volti a regolamentare la vita dei partiti stessi, invocando quindi un maggiore intervento pubblico sugli stessi e auspicando una netta, quanto artificiosa nonché certamente interessata, differenziazione all’interno delle forze politiche nazionali tra partiti riconosciuti pubblicamente (e che possono accedere ai finanziamenti pubblici) e partiti non riconosciuti (che non possono accedervi). Del resto è mancata, da parte non solo delle due ultime forze politiche ricordate, ma anche da tutte le altre che hanno dibattuto il disegno di legge, una analisi, anche minima, sulla questione del sempre più accentuato distacco delle masse popolari italiane dalle istituzioni, nonché dell’ormai cronica sfiducia verso i partiti del regime, come dimostra il massiccio astensionismo nelle ultime elezioni comunali. Innanzitutto, secondo il testo passato alla Camera, solo i partiti che hanno uno statuto che garantisce la democrazia interna possono avere dei benefici fiscali come il 2 per mille e sono Partiti e associazioni diventano appendici statali Tale previsione è disposta dall’art. 5 del testo di legge, che limita pesantemente l’autonomia e autoregolamentazione dei partiti e li obbliga a sottostare a pesanti procedure burocratiche alle quali sovraintende il ministero dell’Interno, con la lunga mano ovviamente della sua polizia. L’art. 5 prevede nel suo primo comma che “nei rispettivi siti internet i partiti, movimenti e gruppi politici organizzati istituiscono un’apposita sezione, denominata ‘Trasparenza’, che rispetti i princìpi di elevata accessibilità, anche da parte delle persone disabili, di completezza di informazione, di chiarezza di linguaggio, di affidabilità e di semplicità di consultazione. In tale sezione sono pubblicati lo statuto, ove il partito sia iscritto nel registro dei partiti politici, il rendiconto di esercizio e tutti gli altri dati indicati dall’articolo 5, comma 2, del decreto-legge 28 dicembre 2013, n. 149, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 febbraio 2014, n. 13, nonché l’elenco dei beni di cui all’articolo 6, comma 1, e le erogazioni di cui all’articolo 6, comma 11, della presente legge”. Tutto ciò che dispone il menzionato primo comma è dettato per partiti, movimenti e gruppi organizzati che siano iscritti nel registro dei partiti politici di cui all’art. 4 del decreto legge n. 149/2013 convertito in legge n. 13/2014, ossia delle formazioni politiche che possano accedere al finanziamento pubblico, e ciò ha anche una certa logica, in quanto lo Stato richiede, a fronte di fi- nanziamenti pubblici che eroga a favore di una formazione giuridica di diritto privato (il partito) precise garanzie e specifica trasparenza affinché quest’ultimo non dilapidi denaro pubblico, come in passato è accaduto. Ma il fatto gravissimo è che tali penetranti controlli siano estesi anche a formazioni politiche che non siano ricomprese nel menzionato art. 4 del decreto legge n. 149/2013, e che quindi non ricevano soldi pubblici dallo Stato, infatti il secondo comma dell’art. 5 del testo di legge approvato alla Camera dispone che “per i partiti, movimenti e gruppi politici organizzati non iscritti nel registro dei partiti politici di cui all’articolo 4 del decreto-legge 28 dicembre 2013, n. 149, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 febbraio 2014, n. 13, fermo restando quanto previsto dal comma 1 del presente articolo, sono pubblicati nella medesima sezione del sito internet di cui al citato comma 1 le procedure richieste per l’approvazione degli atti che impegnano il partito, movimento o gruppo politico organizzato, il numero, la composizione e le attribuzioni degli organi deliberativi, esecutivi e di controllo, le modalità della loro elezione e la loro durata, le modalità di selezione delle candidature nonché l’organo comunque investito della rappresentanza legale. È inoltre pubblicata l’indicazione del soggetto titolare del simbolo del partito, movimento o gruppo politico organizzato; se il soggetto titolare del simbolo è diverso dal partito, mo- vimento o gruppo politico organizzato, sono pubblicati anche i documenti che abilitano il partito, movimento o gruppo politico organizzato ad utilizzare il simbolo”. Insomma, se il dise- missione di cui all’articolo 9, comma 3, della legge 6 luglio 2012, n. 96, verifica il rispetto degli obblighi di cui al comma 2 del presente articolo e, ove ravvisi un inadempimento pra citato, istituita dalla legge n. 96/2012, è la Commissione per la trasparenza e il controllo dei rendiconti dei partiti e dei movimenti politici,è composta da cinque componenti, di cui uno Roma, 25 ottobre 2014. Manifestazione nazionale CGIL (foto Il Bolscevico) gno di legge approvato alla Camera supererà anche il voto del Senato, tutta la vita interna di una qualsiasi formazione politica, in ogni suo minimo dettaglio, dovrà essere sottoposta al controllo di organi dello Stato, che potrà quindi interferire in modo penetrante e invasivo nella vita politica dei partiti e dei movimenti di opposizione. Infatti il terzo comma dell’art. 5 del disegno di legge approvato alla Camera dispone che “la Com- totale o parziale, indica al partito, movimento o gruppo politico organizzato quali integrazioni siano necessarie. Il partito, movimento o gruppo politico organizzato deve conformarsi alle suddette indicazioni entro i successivi quindici giorni. Ove l’inadempimento permanga, la Commissione applica una sanzione amministrativa pecuniaria da euro 5.000 a euro 15.000”. La commissione alla quale fa riferimento il terzo comma so- designato dal primo presidente della Cassazione, uno designato dal presidente del Consiglio di Stato e tre designati dal presidente della Corte dei conti. Si va quindi verso un regime di sottoposizione dei partiti politici allo Stato, e con ciò si snatura l’essenza stessa delle formazioni politiche che, come si è detto, nacquero negli scorsi secoli proprio per garantire la rappresentanza politica - prima di un ristretto ceto borghese e poi, con l’estendersi del suffragio, a sempre più estese masse popolari - in contrapposizione dialettica con lo stesso Stato. Gravemente lesiva della libertà dei partiti politici è anche l’articolo 9 del testo di legge, che introduce sanzioni amministrative pecuniarie ai partiti iscritti nel registro in caso di mancata pubblicazione sul sito dei propri bilanci, da 20.000,00 a 40.000,00 euro, e la stessa sanzione si applica in caso di omissione o di dati difformi rispetto alle scritture e ai documenti contabili. Come si vede, anche se è stato scongiurato il pesante fardello dell’imposizione del riconoscimento, di fatto il testo approvato alla Camera prevede una pesante interferenza nella vita interna di qualsiasi formazione politica che in tal modo viene comunque istituzionalizzata e la cui vita interna viene comunque esposta al controllo dell’autorità pubblica, una variante autoritaria del terzo millennio della concezione borghese del partito che ha trovato storicamente corpo negli Stati autoritari come l’Italia fascista, la Germania nazista, la Spagna franchista o la Repubblica di Vichy del maresciallo Petain, e forse è quest’ultimo modello di Stato borghese quello che più di tutti si assomiglia al sistema voluto dal PD in Italia, in quanto anche allora sedevano in parlamento alcune formazioni politiche, tutte di estrema destra e tutte rigorosamente sotto il controllo dell’esecutivo, che era il vero arbitro della vita politica di tale Stato fantoccio. Perché i partiti devono rimanere Associazioni non riconosciute È quindi evidente che la riforma iniziata da Bersani e proseguita da Renzi risponde all’esigenza di stabilità richiesta a gran voce dalla borghesia italiana in un momento in cui, i risultati elettorali parlano chiaro, la sovrastruttura rappresentativa dello Stato borghese è in assoluta crisi di credibilità e di rappresentatività. Al termine di questa ampia disamina del testo di legge ap- provato dalla Camera, anche le sue disposizioni sono certamente differenti rispetto a quelle del disegno di legge n. 260 Finocchiaro-Zanda (commentato ne Il Bolscevico n. 30 del 1° agosto 2013) e anche rispetto all’originario disegno di legge che ha dato vita alla riforma votata l’8 giugno scorso, ossia il n. 1938 Guerini (commentato ne Il Bolscevico n. 25 del 25 giugno 2015), è indispensabile ribadire a chiare lettere la posizione politica assunta dal Partito marxista leninista italiano, secondo la quale i partiti devono rimanere, nei confronti dello Stato borghese, associazioni non riconosciute, ed essere regolamentati e disciplinati solo ed esclusivamente dagli articoli 36 e seguenti del codice civile, e deve essere respinto con vigore il tentativo di introdurre norme di diritto pubblico che interferiscano sulla vita interna delle organizzazioni politiche le quali, con il pretesto di un controllo della loro democraticità interna e trasparenza esterna, vengono in realtà sottomessi a un penetrante controllo istituzionale da parte di quell’apparato statale borghese nei cui confronti devono rimanere rigorosamente indipendenti. Questa linea politica infatti deriva da una plurisecolare tradizione di democrazia borghese intaccata soltanto dai regimi autoritari di stampo nazifascista, come si è visto, e non è un caso che tale linea politica è risultata predominante anche nelle ampie discussioni che sul tema si svolsero in seno all’Assemblea costituente (per un ampio esame di esse si veda Il Bolscevico n. 30/2013) dove la linea fermamente antifascista e antiautoritaria portata avanti da PCI, PSIUP e da gran parte della DC ebbe la meglio nel dare corpo e sostanza all’art. 49 della Costituzione, nel quale non vi è traccia di regolamentazione pubblica come negli ultimi anni fortemente voluta soprattutto dal PD e come da ultimo introdotta dal testo di legge votato lo scorso 8 giugno alla Camera. 6 il bolscevico / interni N. 27 - 7 luglio 2016 Secondo il rapporto Eurostat sul primo trimestre 2016 In Italia i salari più bassi d’Europa per effetto del Jobs Act Il “costo del lavoro” è diminuito dello 0,5% in Italia mentre mediamente è cresciuto dell’1,7% Quello che viene comunemente definito “costo del lavoro” ha raggiunto in Italia livelli così bassi da registrare un vero e proprio record negativo. Ci riferiamo al salario direttamente corrisposto al lavoratore più quello differito (ad esempio il TFR), ai contributi previdenziali e assistenziali che il capitalista è obbligato a versare agli enti preposti e altri oneri accessori. Quindi non ci si riferisce solamente all’ammontare del salario netto o lordo del lavoratore, che nel sistema capitalistico sarà sempre più basso del suo valore reale, ma ai costi complessivi legati alla prestazione lavorativa che il capitalista deve sostenere. Si tratta in ogni caso di un termine per noi inaccettabile ma che useremo per comodità anche noi. Ebbene, gli effetti del Jobs Act sorridono alle imprese, molto meno ai lavoratori. Secondo Eurostat (ente di statistica a livello europeo) il “costo del lavoro”, in calo già da un anno, ha toccato a dicembre il minimo storico, dando all’Italia il record della maggiore diminuzione in Europa. I dati Eurostat raccontano di un calo della retribuzione oraria in Italia – nel primo trimestre 2016 – dello 0,5% rispetto allo stesso periodo del 2015. Il calo del salario orario è più contenuto nel settore pubblico (-0,1%) mentre nel settore privato si registra un -0,7%. Dati legati strettamente agli interventi del governo del nuovo duce Renzi, ottenuti soprattutto con il blocco dei contratti nella pubblica amministrazione e con L’andamento del costo del lavoro nel primo trimestre del 2016 comparato allo stesso periodo del 2015 nei vari Paesi della UE, la media dell’intera Unione (EU 28) e quella dei Paesi che adottano l’euro (EA 19). Fonte Eurostat. l’introduzione del Jobs Act. Se si guarda ai singoli comparti privati, è l’industria che segna il calo maggiore sia per il “costo del lavoro” nel complesso (-2,6% a fronte del +1,9% nell’Ue a 28) sia per il salario per ora lavorata (-1,4% a fronte del +2% in Ue). Nelle costruzioni si registra un calo del 3,1% del costo del lavoro trainato da un -8% dei costi non salariali (-0,9% il salario orario). Nei servizi, il calo del salario orario registrato in Italia è dello 0,2% (+1,5% l’Ue a 28) mentre il costo del lavoro complessivo segna un -1,6%. Il dato italiano è in netta controtendenza perché in Europa c’è stato un aumento dell’1,7% tendenziale e l’Italia, assieme a Cipro, è l’unico Paese dove cala. Ad alleggerirsi sono soprattutto i “costi non salariali” (-3,9%), grazie agli sgravi contributivi introdotti dal Jobs Act. La voce include i contributi sociali versati dal datore di lavoro, più le tasse sul lavoro stesso al netto dei sussidi ricevuti. In Europa, dice ancora Eurostat, le differenza tra i diversi Paesi sono ancora molto elevate. Si va da un minimo di 4,10 ad un massimo di 41,30 euro. Il primato per il più basso costo è riservato a Bulgaria e Romania mentre dal lato opposto della classifica ci sono Danimarca e gli effetti della controriforma del “mercato del lavoro” rimangono a lungo termine. Permane la libertà di licenziamento senza giusta causa, la possibilità di demansionamento e quindi di un quadro ricattatorio che di fatto blocca le rivendicazioni salariali dei lavoratori e di conseguenza le loro buste paga. Un fattore che spinge ancora più in basso gli stipendi dei lavoratori italiani che già da tempo si trovavano agli ultimi posti della classifica europea. “Dopo avere propagandato il calo delle tasse, ci attendiamo che il governo commenti anche il calo dei salari... non rinnova i contratti scaduti a 8 milioni di Belgio. Per l’anno 2015, la media del costo orario del lavoro è stata pari a 25 euro per l’Unione europea e a 29,50 euro per la Zona euro. Riguardo alle variazioni verificate tra il 2014 e il 2015, si sono registrati aumenti del 2% per l’Unione europea e dell’1,5% per la zona euro. Ma i dati di Eurostat ci dicono chiaramente che le conseguenze del Jobs Act non fanno solo risparmiare soldi alle imprese attraverso la decontribuzione. Nonostante questa sia stata quasi del tutto annullata, facendo crollare le assunzioni a tempo indeterminato (o per meglio dire a “tutele crescenti” senza la tutela dell’articolo 18), dipendenti e sostituisce gli aumenti mancanti con il bonus Irpef degli 80 euro”, ha dichiarato polemicamente il segretario confederale della Cgil, Franco Martini. Ma tagliare i salari non è un effetto collaterale bensì un obiettivo perseguito sistematicamente dal governo Renzi e sostenuto dall’Unione Europea che ha sempre auspicato anche per il nostro Paese meno vincoli per le imprese e più flessibilità del mondo del lavoro per dare “competitività” alle aziende italiane. Un compito che Renzi ha svolto diligentemente togliendo diritti ai lavoratori e comprimendo ulteriormente i loro salari. Lo certifica la Fondazione Di Vittorio della Cgil I lavoratori immigrati guadagnano il 27% in meno degli italiani E coprono il 63% dei lavori più umili e faticosi Sono i risultati di uno studio della Fondazione Di Vittorio della Cgil: gli immigrati, e qui parliamo di coloro tra questi che hanno un regolare contratto e dunque di una minima parte di essi, producono l’8,6% del PIL italiano, ma il loro salario è in media il 27% inferiore a quello dei lavoratori italiani (-24,2% per gli uomini e -27,6% per le donne). Tradotte le percentuali in moneta, un lavoratore immigrato dipendente a tempo pieno guadagna in media 362 euro netti al mese in meno di un italiano: -350 euro gli uomini e -385 euro le donne. A ciò va aggiunto il fatto che i lavoratori stranieri sono più di quelli italiani segregati in mansioni poco qualificate: pulizie, servizi domestici, facchinaggio, bracciantato agricolo. Queste mansioni coprono quasi due terzi dell’occupazione straniera (63%) a fronte di poco più di un quinto di quella italiana (21%). Tra l’altro “Dal punto di vista della “segregazione occupazionale” - osserva Sally Kane, responsabile del Dipartimento politiche immigrazione della Cgil - gli immigrati fanno anche i lavori più pericolosi, basti vedere i dati degli infortuni sul lavoro”. Con la crisi poi sono loro i primi a essere espulsi dal mercato del lavoro, mentre, dove l’occupazione è stata mantenuta, come nel bracciantato agricolo, è aumentato il lavoro nero o il ricorso a forme “contrattuali” superprecarie, come i voucher. Ciò ha dato luogo ad un incremento della distanza retributiva tra immigrati e lavoratori autoctoni. Anche per quanto riguarda il tasso di disoccupazione la discrepana è notevole. Quello dei migranti nel 2015 è stato più alto di quasi cinque punti rispetto alla forza lavoro autoctona (16,2% contro 11,4%). Il tasso di sofferenza occupazionale, altro indicatore che comprende disoccupati, cassintegrati e scoraggiati disponibili a lavorare, riguardante gli immigrati, è stato nel 2015 pari al 15%, contro il 3,2% degli autoctoni. In totale in questa categoria rientrano ben 604 mila persone arrivate sul territorio italiano e che hanno difficoltà a trovare un lavoro o a mantenerlo. La condizione dei lavoratori immigrati in Italia altro non è che il risultato della legge di stampo nazista Bossi-Fini che obbliga i migranti alla disperazione e alla miseria materiale e sociale. Ma anche degli attacchi ai diritti sindacali delle masse proletarie e popolari, condannate dal governo del nuovo duce Renzi ad una condizione lavorativa ottocentesca. Per questo, passaggi imprescindibili per migliorare la condizione lavorativa delle masse italiane e migranti sono l’abrogazione della BossiFini e del Jobs Act. È la prima sentenza della Corte che riconosce questo diritto Via libera della Cassazione all’adozione da parte di coppie gay Il 22 giugno la 1a Sezione civile della Corte di Cassazione ha accolto definitivamente la domanda di adozione di una minore da parte della partner della madre. Si tratta di un evento storico perché, riconoscendo l’adozione dei figli del partner in una coppia omosessuale (conosciuta come stepchild adoption) poi rimossa dalla legge sulle unioni civili, il massimo organo giudiziario dello Stato apre concretamente questa possibilità per le famiglie gay. Il caso riguardava una bambina di ormai sette anni, nata nel 2009 in Spagna con la procreazione assistita eterologa. La donna compagna della madre, con la quale vive stabilmente da oltre 10 anni, aveva richiesto l’adozione. Accol- ta dal Tribunale dei minori di Roma nel 2014 e confermata dalla Corte d’appello nel 2015, contro la richiesta aveva fatto ricorso il procuratore generale Giovanni Salvi. La Cassazione si è quindi pronunciata affermando che l’adozione del figlio del partner omosessuale “non determina in astratto un conflitto di interessi fra il genitore biologico e il minore” e “può esse- re ammessa sempreché, alla luce di una rigorosa indagine di fatto svolta dal giudice, realizzi effettivamente il preminente interesse del minore”. Arcigay tramite il segretario nazionale Gabriele Piazzoni ha salutato la sentenza come “un giorno di festa, in cui restituiamo lo schiaffo umiliante di chi voleva discriminare i nostri figli e le nostre figlie: per loro possiamo finalmente progettare un futuro uguale a quello di tutti gli altri bambini”. La presidente di Famiglie arcobaleno, Marilena Grassadonia, dal canto suo stigmatizza il comportamento del governo e del parlamento: “è una vittoria per i nostri figli e le nostre figlie ed è solo merito nostro esserci affidati ai giudici a fronte di una politica incapace di legiferare nell’interesse dei minori”. A riconferma che lo stralcio della stepchild adoption non riflette i desideri delle masse ma è stato un’offesa ai diritti civili, frutto di un bieco calcolo politico del governo Renzi per non scontentare la destra clericofascista. Ora vanno riconosciute adozioni e riconoscimento dei figli alla nascita per tutte le coppie omosessuali. un nuovo PCI revisionista / il bolscevico 7 N. 27 - 7 luglio 2016 Con la “Costituente comunista” a Bologna Nasce un nuovo PCI revisionista “Si ispira ai valori della Costituzione e si richiama al miglior patrimonio politico ed ideologico dell’esperienza storica del PCI, da Gramsci a Berlinguer, e in particolar modo al pensiero gramsciano e togliattiano” Che i sinceri comunisti valutino attentamente la nuova-vecchia proposta revisionista All’insegna dello slogan “Ricostruiamo il Partito comunista” si è tenuta dal 24 al 26 giugno a San Lazzaro di Savena (Bologna) l’“Assemblea nazionale costituente comunista”. Vi hanno partecipato 571 delegati, provenienti per la maggior parte dal PCdI (Partito comunista d’Italia, ex PdCI di Oliviero Diliberto) e da spezzoni del PRC di Paolo Ferrero, con l’intento dichiarato di dare vita, o meglio di ridare vita ad un partito in tutto e per tutto identico, anche nel nome, al vecchio PCI, rivendicandone tutta la storia da Gramsci e Togliatti fino a Berlinguer. Fino cioè alla Bolognina dell’89 che ne annunciò la liquidazione, celebrata due anni dopo a Rimini con la sua trasformazione nel PDS liberale di Occhetto. Questa “Costituente comunista” fa seguito quindi all’appello lanciato due anni fa dall’“Associazione per la ricostruzione del Partito comunista nel quadro ampio della sinistra di classe”, e firmato allora da falsi comunisti come Angelo D’Orsi, Gianni Vattimo e gli ex “maoisti” Domenico Losurdo e Manlio Dinucci. Alcuni dei quali, come quest’ultimo, e come il noto trotzkista Fausto Sorini (ex PRC corrente “Ernesto” poi PdCI), l’ex PRC Gianni Favaro e gli ex PdCI Vladimiro Ghiacchè e Marina Alfier, si sono nel frattempo ritirati dall’iniziativa, sembra soprattutto per dissensi sulla forma partito di massa che la maggioranza proponeva di costruire da subito, anziché cominciare con la costituzione di un gruppo di avanguardia come proponevano i suddetti dissenzienti. Tra gli invitati anche una delegazione di Sinistra italiana, guidata da Stefano Fassina che ha anche rivolto un saluto all’assemblea. Presente in sala anche l’opportunista e manovratore Giorgio Cremaschi che gioca su più tavoli. Tra gli invitati stranieri c’erano il segretario dei comunisti siriani, gli ambasciatori di Vietnam e Cina e delegazioni di partiti revisionisti cubani, palestinesi e brasiliani. Anche il simbolo del nuovo PCI è praticamente identico a quello del vecchio partito revisionista disegnato da Guttuso, salvo la mancanza dei puntini tra le tre lettere della sigla e le aste delle bandiere con la falce e martello e italiana di colore nero: simbolo che già il PCdI di Diliberto, che ne usa una versione appena leggermente diversa, secondo Marco Rizzo avrebbe avuto in “concessione” da D’Alema, che ne detiene di fatto la proprietà tramite l’Associazione Berlinguer creata da Ugo Sposetti. Persino la struttura organizzativa del nuovo partito ricalca fedelmente quella del PCI togliattiano e berlingueriano, con la strutturazione territoriale in cellule, sezioni, federazioni, comitati federali e regionali, fino al Comitato centrale, la Direzione e la Segreteria. E perfino con la rico- struzione della FGCI (Federazione giovanile comunista). Riesumati il vecchio PCI e la Costituzione Del resto l’intento di ridare vita non solo ad un nuovo partito comunista revisionista, ma se possibile ad una copia conforme del vecchio PCI, è conclamata in tutti i modi e in tutti i documenti costituenti, a partire dallo Statuto del PCI che, si legge, nasce per il “superamento della vasta diaspora comunista italiana determinata dallo scioglimento del PCI e dalle successive scissioni del movimento comunista italiano”, e si ispira “ai valori della Costituzione repubblicana, della Resistenza e dell’antifascismo, e si richiama al miglior patrimonio politico e ideologico dell’esperienza storica del PCI, da Gramsci a Berlinguer, e in particolar modo al pensiero gramsciano e togliattiano”. Tra l’altro, tra gli inni ufficiali, oltre all’Internazionale e Bandiera Rossa, il nuovo PCI adotta anche l’Inno dei lavoratori del socialriformista Turati e nientemeno che il nazionalista e patriottardo Inno di Mameli. Nel documento con le venti Tesi per la Costituente, le prime due sono dedicate proprio alla riesumazione e assunzione a modello del vecchio PCI, a partire da Gramsci e dalla sua concezione revisionista dell’“egemonia”, che sostituiva la rivoluzione socialista e la dittatura del proletariato con la conquista progressiva da parte delle masse lavoratrici di “trincee e casematte” della società borghese in vista della loro trasformazione in “classe dirigente”. Sviluppata poi da Togliatti nel dopoguerra con la sua linea socialdemocratica e riformista della “Via italiana al socialismo”, e i suoi tre capisaldi del “partito nuovo”, della “democrazia progressiva” e delle “riforme di struttura”. Tutto ciò, secondo il documento, delineava “un progetto di società socialista che garantisce pluralismo e libertà personali, individuando una sua leva nel modello ‘democratico-sociale’ descritto dalla Costituzione”. Non il socialismo, infatti, ma la Costituzione del 1948, di cui si chiede espressamente il “rilancio”, rappresenta l’unico orizzonte chiaro e definito del nuovo PCI revisionista, al punto dall’affermare che se i suoi principi fossero stati attuati ci sarebbe oggi “un modello di società a democrazia partecipata in grado di progredire verso il socialismo”. Salvo poi, riguardo alla posizione da prendere sul referendum costituzionale di ottobre, limitarsi a parlare ambiguamente di “contrastare l’attuale (contro) riforma costituzionale a partire dal referendum”. Senza denunciarne il carattere fascista e piduista e senza chiedere di mandare a casa Renzi (fra l’altro neanche nominato), ma proponendo addirittura delle proprie controriforme del tutto simili, a partire da “una legge di revisione costituzionale che corregga il bicameralismo perfetto”. “La costruzione di una prospettiva socialista” deve avvenire “dentro un sistema di democrazia costituzionale e rappresentativa”, chiosa infatti il documento. ‘rifondare’ il PCI”, e che alle elezioni “sono andati in supporto al voto di Sinistra italiana …o direttamente alleati col PD come a Cagliari, Marino e Genzano (Rm)”. Socialismo “prospettiva di superamento” del capitalismo Evidentemente l’aumento dell’astensionismo di sinistra e i non trascurabili voti presi anche dalle pur poche liste di Rizzo hanno confermato alla borghesia l’esistenza in Italia di migliaia e migliaia di sinceri comunisti ancora in cerca di un partito autenticamente comunista, e che potrebbero trovare nel PMLI, una volta venuteni a conoscenza e aperto un confronto con esso. Per questo la classe dominante borghese ha bisogno ancora di creare degli specchietti per le allodole come il nuovo PCI, rivestiti con il simbolo della falce e martello, per ingannare e tenere ingabbiati gli anticapitalisti e i fautori del socialismo nell’elettoralismo e nel parlamentarismo borghesi. Nessuna meraviglia, quindi, se a condurre questa operazione teleguidata dalla borghesia ci siano falsi comunisti di lungo corso come Diliberto, che anche se mai nominato ne è palesemente il “grande vecchio”, mentre il trotzkista Paolo Ferrero per ora sta alla finestra a guardare. Questi imbroglioni politici non solo non fanno un doveroso bilancio storico critico del PCI revisionista, come ha fatto il PMLI (vedi il documento che ripubblichiamo in questo giornale), ma non fanno neanche un bilancio autocritico di sé stessi, visto che come Rifondazione comunista hanno sostenuto i governi Prodi e il “pacchetto Treu”, che è il padre del Jobs Act di Renzi, e come PdCI hanno sostenuto senza battere ciglio i bombardamenti di D’Alema sull’ex Jugoslavia, da cui ha preso storicamente slancio l’attuale interventismo dell’imperialismo italiano. Falsi comunisti e imbroglioni politici come Losurdo, già “maoisti” e fautori della Grande Rivoluzione Culturale Proletaria, poi passati al soldo del socialimperialismo sovietico, di cui hanno difeso i suoi crimini internazionali, e che oggi appoggiano entusiasticamente il socialimperialismo cinese della cricca revisionista e fascista che ha usurpato il potere in Cina dopo la morte di Mao. Per tutto ciò invitiamo i sinceri comunisti a valutare attentamente questa nuova-vecchia proposta politica e avere il coraggio di fare il bilancio della storia del PCI e del revisionismo moderno a livello internazionale e nazionale e quindi di fare una scelta meditata e consapevole per l’autentico partito del proletariato, il PMLI. Per il bene supremo del proletariato, della lotta di classe e del socialismo. Ne consegue che se da una parte si conferma genericamente che ancora oggi il socialismo è la “soluzione alla crisi capitalistica strutturale”, dall’altra il socialismo è ridotto a una non meglio precisata “prospettiva”, la “prospettiva di un superamento del fallimentare e ingiusto sistema economico vigente”. I capisaldi marxisti-leninisti - la lotta di classe, la rivoluzione socialista, l’abbattimento dello Stato borghese e la dittatura del proletariato - non sono neanche nominati. Della madre di tutte le questioni, il potere politico al proletariato, neanche si parla. Anzi, non si parla proprio del proletariato, né tanto meno della necessità di fargli riacquistare la coscienza di classe per sé, di classe generale, che ha perduto proprio grazie all’azione nefasta del PCI revisionista e delle sue filiazioni liberali, riformiste e falso comuniste, ma solo di “ricostruire una coscienza di classe tra coloro che vivono del proprio lavoro”. Lavoro - si sottolinea - come “motore di riscatto, benessere e crescita dei cittadini”: evidentemente all’interno del sistema capitalistico, che continua ad esistere in attesa di un suo futuro “superamento” per grazia ricevuta. Tanto è vero questo che si cita a vanvera la Nep (Nuova politica economica) di Lenin per dimostrare che oggi è possibile ispirarsi ad essa per “coniugare elementi di mercato e socializzazione”, di rapporto possibile tra economia pianificata e mercato, tra economia pubblica e privata, durante una “lunga fase di transizione prima del passaggio a forme più avanzate di socializzazione”. Il modello da seguire sarebbero le economie di paesi considerati ancora socialisti, come Cina, Vietnam e Cuba. In particolare la Cina socialimperialista, che secondo il documento sarebbe ancora “un paese ad orientamento socialista”, la cui “poderosa ascesa” non è dovuta ad “una presunta conversione al neoliberismo”, dove conviverebbero piano e mercato e il pubblico avrebbe un ruolo centrale. Dove la cricca fascista di Xi Jinping, tramite il PCC revisionista, “governa un’economia controllata dallo Stato”, la povertà è stata “sradicata”, e dove esiste un Operazione teleguidata dalla borghesia Il simbolo del “nuovo” PCI revisionista legato alla grafica che unisce Gramsci, Castro, Guevara a Lenin, come sono comparsi sul documento di tale partito pubblicato a tutta pagina su il manifesto del 22 giugno 2016 “solido sistema di Stato sociale” e di “politiche di aumento del reddito e dei diritti dei lavoratori”. E via favoleggiando, secondo la dottrina revisionista del “marxismo innovativo” esaltata in una scheda tematica presentata da un “alto dirigente” e professore dell’Accademia delle scienze cinese, Cheng Enfu. A riprova che il revisionismo è il fondamento del nuovo PCI è dimostrato anche dal fatto che nessuno dei suoi documenti, tanto meno la relazione congressuale introduttiva di Bruno Steri e le conclusioni di Mauro Alboresi, eletto segretario nazionale, parla della restaurazione del capitalismo in Urss a partire dal XX Congresso kruscioviano e della lotta di Mao contro il revisionismo moderno. Al servizio del socialimperialismo cinese Non soltanto la Cina non è individuata come una superpotenza socialimperialista in concorrenza con le superpotenze imperialiste americana, giapponese ed europea per il dominio del globo, ma è vista, insieme alla Russia del nuovo zar Putin e alle altre potenze emergenti del gruppo BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) come il “nuovo contrappeso nella gerarchia del potere planetario”. In altre parole oggi l’imperialismo e le minacce di guerra sarebbero rappresentati solo dagli Usa (con una alleanza in posizione subalterna di Ue e Giappone), mentre secondo anche la scheda presentata dall’imbroglione e opportunista Losurdo, “oggi è la Cina, diretta da un forte e sperimentato Partito comunista, a costituire il punto di riferimento della lotta contro l’imperialismo, il colonialismo, il neocolonialismo e la guerra”. Ciononostante si tiene un at- teggiamento ambiguo anche nei confronti della Ue imperialista, dalla quale non si chiede affatto l’uscita, come coerenza imporrebbe, ma solo di lottare contro “questa Europa”, contro la sua “attuale configurazione”, e solo per un’“uscita da sinistra dall’euro”. E in tutto ciò ritenendo che “un ruolo centrale debba essere svolto dal Gruppo della sinistra unitaria europea (Gue-Ngl)”, che “dovrà impegnarsi per studiare e promuovere forme di liberazione dal giogo liberista della Ue”: ossia accettandone le istituzioni e le regole parlamentari per cambiarla dall’“interno”, come sostiene del resto anche il nuovo duce Renzi. Ce ne sarebbero tante altre di queste perle revisioniste, liberali e riformiste disseminate nei documenti costituenti presentati da questi imbroglioni politici, ma lo spazio non basta. E comunque quanto detto ci sembra basti e avanzi per smascherare questa operazione come un’ennesima operazione della classe dominante borghese diretta a ricreare un “nuovo soggetto” a sinistra del PD che di comunista ha solo il nome e la falce e martello, ma che serve in realtà a drenare i voti degli astensionisti di sinistra e riportali nell’alveo dell’elettoralismo, del parlamentarismo e delle istituzioni borghesi. Dopo le ripetute batoste elettorali, come quella della “Sinistra arcobaleno” nel 2008, e le successive spaccature, diaspore e rimescolamenti, questi falsi comunisti si erano dissolti come neve al sole, ma oggi ricompaiono per costituire questo nuovo partito revisionista che si colloca appena a sinistra di SI di Vendola e Fassina e appena più a destra del Partito comunista dell’imbroglione trotzkista Rizzo, al quale tentano di rosicchiare terreno e che non a caso li attacca bollandoli come “un gruppetto di furbacchioni che vorrebbe 8 il bolscevico / la lotta del PMLI contro il revisionismo del PCI N. 27 - 7 luglio 2016 Bilancio della storia del PCI E’ finito un inganno durato 70 anni La storia del proletariato italiano non finisce con la liquidazione del PCI ma continua col PMLI Documento del CC del PMLI Riproduciamo l’importante Documento del Comitato centrale del PMLI del 21 Gennaio 1991 sul bilancio della storia del PCI. Nel momento in cui col XX congresso Occhetto sta per celebrare il funerale del PCI e tenere arrivasse all’autoscioglimento, all’ammissione di fatto del suo fallimento storico, al rinnegamento persino del suo simbolo. Per 23 anni, ricordiamo in particolare il numero monografico de Il Bolscevico dedicato al 50° anniversario del PCI, ci siamo seccati la gola per spiegare che tale partito era un partito revisionista le Gorbaciov, all’imperialismo e al capitalismo, dimostrano il fallimento totale a livello storico, ideologico, strategico, economico e pratico del revisionismo moderno, la sua inconsistenza, la sua incapacità di durare nel tempo, finanche rispetto alla stessa socialdemocrazia, che invece continua ancora ad esistere. difendere il sistema capitalistico e la democrazia borghese e integrare in essi la classe operaia. Per tutti questi anni il PCI non ha fatto che spargere nella classe operaia revisionismo, riformismo, liberalismo, elettoralismo, parlamentarismo, pacifismo, legalitarismo, al posto del marxismo-leninismo e della strategia e della il proletariato sulla via dell’Ottobre. Rimangono comunque agli atti i nostri sforzi tesi a smascherare, quantomeno a livello ideologico, teorico, storico e strategico, il più forte partito revisionista non al potere e uno dei più grossi partiti revisionisti in assoluto in Europa e nel mondo, nonché Gramsci visionista promosso da Cossutta, Garavini, Libertini, Russo Spena, Salvato, Vinci ecc., tenderebbe comunque a riversarsi all’interno del nostro Partito, via via che nuove forze vi entreranno ed esso si espanderà a livello nazionale. La nostra lotta contro il revisionismo è stata una lotta teorica e politica, ma anche sindacale Rimini, 31 gennaio 1991. Un’immagine della storica presenza del PMLI con le sue insegne in occasione dell’apertura del XX e ultimo congresso del PCI. Nell’occasione fu diffuso il documento del CC del PMLI “È finito un inganno durato 70 anni” (foto Il Bolscevico) a battesimo quel mostriciattolo del PDS, noi auspichiamo che i militanti di questo partito che credono ancora nel socialismo e vogliono restare comunisti come lo intendeva Lenin sappiano trarre un serio e approfondito bilancio della storia del PCI, per capire perché e come si è arrivati alla sua liquidazione, per evitare che nel futuro si ripeta una simile amara esperienza, per stabilire che cosa devono fare per proseguire nella lotta di classe per la conquista del potere politico da parte del proletariato. Per aiutarli in questo fondamentale bilancio che investe l’avvenire del proletariato italiano e delle masse popolari, quindi anche lo stesso avvenire del nostro Partito, offriamo loro questo documento e il numero speciale de Il Bolscevico sul PCI che lo riporta. Noi marxisti-leninisti italiani non siamo sorpresi dalla liquidazione del PCI, sapevamo da sempre che prima o poi sarebbe crollato. Solo che pensavamo che sarebbe stato abbattuto da sinistra sotto i nostri colpi e di quelli delle compagne e dei compagni di base del PCI una volta che avessero preso coscienza del tradimento del gruppo dirigente. Fino all’89 infatti era impensabile che il PCI e che i suoi dirigenti non avevano alcun interesse a guidare il proletariato ad abbattere il capitalismo, conquistare il potere politico e realizzare il socialismo. Ora, paradossalmente, è il liquidatore di origine trotzkista Occhetto, proprio colui che nel Sessantotto ci disputava il terreno rivoluzionario, che ci dà ragione. Meglio così, una fatica in meno per sgombrare il campo di un partito che ostruiva la strada verso il socialismo. Bisogna essere contenti, visto che è finito un inganno durato 70 anni. Se si capisce questo non c’è alcun motivo per disperarsi, per ritenersi scippati di un nome, quello comunista, che non ha mai avuto nel PCI la sostanza ideologica e politica sperate e per cui i nostri padri hanno dato anche la vita. Il punto vero perciò non è il cambio del nome, quanto il bilancio della storia del PCI. Solo così si potranno scoprire le fondamenta revisioniste di questo partito, e quindi capire perché è finito nelle grinfie della borghesia, della socialdemocrazia e del neoduce Craxi. La liquidazione del PCI, nonché la capitolazione dei regimi revisionisti dell’Est, sull’esempio e l’impulso dell’Urss del neolibera- Per lungo tempo il revisionismo moderno ha ingannato il proletariato e i popoli dei vari paesi ma alla fine ha fatto bancarotta, e ha dovuto rinnegare se stesso, autoliquidandosi e ritornando al liberalismo borghese dal quale era provenuto. Non c’è da stupirsi quindi se la socialdemocrazia gli è sopravvissuta, visto che essa fin dall’inizio della sua storia, da quando cioè Lenin la denunciò, si era già saldamente attestata sul liberalismo borghese e capitalistico a cui oggi tutti i partiti revisionisti si stanno omologando. 1 - L’elemento fondamentale del bilancio della storia del PCI è l’inganno politico L’elemento fondamentale che caratterizza la storia del PCI è l’inganno politico. Infatti il PCI si è costituito nel ’21 per abbattere il capitalismo e realizzare il socialismo, tramite la lotta di classe e la rivoluzione socialista, mentre in realtà in tutto il corso della sua storia ha lavorato per sabotare la lotta di classe, per tattica proletarie e rivoluzionarie. Questo inganno è stato possibile grazie a un lento, graduale e pilotato processo di deideologizzazione, decomunistizzazione e socialdemocratizzazione dei militanti, del proletariato e dei lavoratori, delle masse femminili, giovanili e popolari. Attraverso mille sotterfugi, mille piccoli e grandi cambiamenti sempre diretti a spostare a destra l’asse del partito, il PCI ha finito col depotenziare sul piano ideologico, politico e organizzativo la carica rivoluzionaria del proletariato, col decomunistizzare le nuove generazioni, col sradicare la concezione marxista-leninista dell’emancipazione della donna dalla coscienza delle masse femminili. Il PMLI ha fatto quanto ha potuto per evitare questo mostruoso crimine, ma purtroppo non ci è riuscito, poiché ci sono mancati la forza organizzativa e i mezzi economici per far giungere la nostra voce alla grande massa dei militanti del PCI, del proletariato e dei giovani, e poiché nessun dirigente di quel partito, che oggi si riempie la bocca di comunismo, sia pure “moderno’’ e “rifondato’’, ha mai mosso un solo capello per tenere e Togliatti, tra i maggiori capofila storici del revisionismo mondiale, paragonabili per statura e influenza rispettivamente a un Kautsky e a un Krusciov: Gramsci, il cui pensiero liberal-riformista è stato preso a modello da molti partiti revisionisti e trotzkisti di tutto il mondo, e tuttora gode di una vasta pubblicistica a livello nazionale, europeo e internazionale, e Togliatti, uno dei capi revisionisti unanimemente riconosciuto tra i più abili e manovrieri, capace di coprirsi per anni dietro Stalin e la III Internazionale, mentre portava avanti subdolamente la sua strategia revisionista di destra. È a questa posizione e a questa analisi che bisognerà rifarsi e da cui occorrerà ripartire per continuare d’ora in avanti la lotta contro il revisionismo trasformatosi in neorevisionismo. Infatti, anche se attualmente il revisionismo non ha ancora un’unica centrale organizzativa a livello mondiale, la battaglia contro di esso non è finita, sia perché il revisionismo continuerà ad esistere sotto forma di riformismo, di parlamentarismo, di costituzionalismo, ecc., sia perché anche se esso non arrivasse a ricostituirsi organizzativamente attraverso un partito neore- all’interno delle fabbriche e della CGIL, pratica (nelle piazze, nei quartieri, nelle scuole e nelle università), e finanche fisica, dal momento che spesso abbiamo dovuto affrontare anche duri scontri fisici perché le masse, ingannate dai dirigenti revisionisti, non comprendevano né accettavano le nostre denunce del revisionismo del PCI e dell’Urss di Breznev ritenendoli comunisti. In questa lotta non ci siamo fatti condizionare, al contrario dei falsi marxisti-leninisti e degli opportunisti-trotzkisti di ogni specie, dal rapporto di forza schiacciante a nostro sfavore; non abbiamo avuto paura di affrontare a viso aperto, come ci hanno insegnato Lenin e Mao, chi apparentemente era infinitamente più forte, più autorevole e più seguito dalle masse di noi, perché eravamo coscienti che si trattava di un gigante dai piedi d’argilla; perché eravamo nel giusto, dalla parte del marxismo-leninismo-pensiero di Mao, sicuri che la verità alla fine avrebbe trionfato, e che se anche fossimo stati distrutti, il fuoco ormai era stato acceso, quel che era scritto era scritto, e niente sarebbe più stato come prima. Quel che conta è che l’inganno è comunque finito, e che in N. 27 - 7 luglio 2016 Italia c’è stato un Partito che ha avuto il coraggio di combatterlo e smascherarlo: ciò è stato possibile, proprio perché il nostro è un proletariato di grande forza, prestigio ed esperienza, ed ha saputo esprimere dal suo seno, pur avendo subito 70 anni di inganni e menzogne, la sua parte più cosciente e organizzata che ha rotto col revisionismo e gli ha dato battaglia fino in fondo. Il nostro proletariato esce dunque a testa alta dalla vergognosa disfatta del revisionismo italiano, poiché ha avuto chi lo ha degnamente rappresentato nello scontro storico a livello interno e internazionale tra il marxismo-leninismo-pensiero di Mao e il revisionismo moderno. 2 - Le fasi del grande inganno Storicamente il grande inganno del PCI ai danni del proletariato ha avuto tre grandi fasi: la fase sotto il controllo di Lenin, Stalin e della III Internazionale (dalla fondazione del PCI all’VIII congresso: 21/1/1921 - 8/12/1956); la fase della “via italiana al socialismo’’ (dall’VIII al XVII congresso, alle dimissioni di Natta: 14/12/1956 - 21/6/1988); la fase del “nuovo corso’’ neoliberale (dall’elezione di Occhetto a segretario generale al XX congresso: 21/6/1988 - 29/1/1991). Anche se, va detto, queste fasi non sono da considerare rigidamente demarcate ma, come vedremo, concatenate e conseguenziali tra di loro. La caratteristica peculiare del PCI è che fin dall’indomani della sua giusta e necessaria fondazione, avvenuta su impulso di Lenin e della III Internazionale, questo partito è caduto nelle mani della borghesia, dapprima tramite la direzione opportunista di “sinistra’’ di Bordiga, e poi, dopo la sconfitta definitiva di quest’ultima nel ’26, tramite la direzione revisionista di destra di Gramsci e successivamente di Togliatti. Gramsci, con le sue teorie liberal-riformiste che sostituivano la costruzione dei consigli a quella del partito, il concetto di “blocco storico’’ a quello di lotta di classe, il concetto di “egemonia’’ a quello della dittatura del proletariato, e il concetto di “guerra di posizione’’ a quello di insurrezione rivoluzionaria per il socialismo, pose per primo le fondamenta revisioniste del PCI. Togliatti riprese, sviluppò e applicò quelle teorie con la “via italiana al socialismo’’, che sta a sua volta all’origine dell’ulteriore passaggio revisionista del partito negli anni ’70 e ’80, fino all’attuale liquidazione all’insegna del neoliberalismo. Finché c’erano Lenin e poi Stalin e la III Internazionale, quest’anima revisionista della direzione del PCI veniva combattuta ed era costretta a camuffarsi e restare al coperto. Il revisionismo di destra di Gramsci fu capito e isolato di fatto dalla direzione marxista-leninista dell’allora movimento comunista internazionale guidato da Stalin. Lo stesso Togliatti dovette a lungo rimanere coperto all’ombra di Stalin, preferendo portare avanti le sue trame dietro le quinte. Ma dopo lo scioglimento della III Internazionale Togliatti rompe gli indugi, e con la “svolta di Salerno’’ esce allo scoperto rivelando in maniera più marcata la sua antica vocazione revisionista, riformista e borghese. E con l’VIII congresso del ’56 - non a caso tenuto dopo il XX congresso del PCUS in cui Krusciov attuò il colpo di Stato che pose fine alla dittatura del proletariato in Urss e attaccò frontalmente la gigantesca opera di Stalin - Togliatti sviluppò e sistematizzò compiutamente tale la lotta del PMLI contro il revisionismo del PCI / il bolscevico 9 svolta lanciando la “via italiana al socialismo’’, fondata sul rinnegamento della dittatura del proletariato e della rivoluzione socialista, l’accettazione della democrazia parlamentare borghese, l’accettazione piena della Costituzione borghese come confine all’azione del partito del proletariato. Successivamente questa linea di socialdemocratizzazione e di omologazione al sistema capitalistico del PCI è stata ulteriormente portata avanti da Longo e ancora più da Berlinguer, col “compromesso storico’’ e la “solidarietà nazionale’’ e completata dalla segreteria Natta - sia pure dopo una lunga fase di incertezze seguita al declino elettorale del PCI - col XVII congresso dell’aprile ’86, in cui il PCI celebra la sua Bad-Godesberg, si rifonda come “moderno partito riformatore’’ e approda alla socialdemocrazia europea, con la complicità dei sedicenti e ridicoli “comunisti democratici’’ Ingrao, Cossutta, Garavini, Libertini, Salvato, Serri. Da questo momento, accentuatosi il declino elettorale del PCI, intensificatisi i diktat del neoduce Craxi per inglobarlo nell’”unità socialista’’ sotto la sua egemonia, abbandonata definitivamente la classe operaia e sposati completamente la democrazia borghese e l’economia di mercato, è il neoliberalismo l’ideologia guida di Botteghe Oscure. A tappe forzate Occhetto e la sua combriccola di tecnocrati borghesi lanciano prima il “nuovo corso’’ neoliberale al XVIII congresso del PCI (marzo ’89) che chiude definitivamente i conti con l’esperienza storica del movimento operaio e dello stesso PCI, poi (novembre ’89) avanzano la proposta di cambiare nome e simbolo del PCI, proposta formalizzata il 10 ottobre ’90 col nuovo nome, Partito democratico della sinistra (PDS), e col nuovo simbolo del partito, infine arrivano alla liquidazione vera e propria del PCI al XX congresso. Questa, a grandissime linee, la storia delle tre fasi del grande inganno del PCI durato 70 anni, dalla quale emerge, nonostante la complessità dei vari momenti storico-politici attraversati, che c’è un unico filo nero, un’unica strategia revisionista che le attraversa. In particolare dalla “svolta di Salerno’’ alla “solidarietà nazionale’’ (e con arretramenti e giravolte anche dopo) la linea revisionista è sempre la stessa: quella dell’”unità nazionale’’, cioè l’incontro governativo tra PCI, DC e PSI: si tratta della linea classica socialdemocratica e riformista della collaborazione del proletariato al governo della borghesia. Attualmente, tale linea ha assunto la forma della “alternativa’’, vale a dire dell’alleanza PDS-PSI e altri partiti per escludere la DC dal governo; ma non è detto che l’alleanza con lo scudocrociato non rientri dalla finestra in un prossimo futuro, come è già successo altre volte nel corso degli anni ’80 (per es. con la “rivoluzione copernicana’’ di Occhetto). Tutto sommato anche l’”alternativa’’ persegue lo stesso obiettivo di fondo della “via italiana al socialismo’’, del “compromesso storico’’ e della “solidarietà nazionale’’, che è quello della partecipazione subalterna della classe operaia al governo borghese. Una partecipazione che significa rinuncia per sempre da parte del proletariato al potere politico e al socialismo per servire gli interessi del capitalismo. Anche perché, come l’affare “Gladio’’ dimostra, nell’Italia capitalistica la via parlamentare e pacifica al potere effettivo è sbarrata con le armi e col sangue davanti al proletariato; solo quando la classe dominante ha in pugno il partito che lo rappresenta e lo controlla, l’ha addomesticato, lo ha reso inoffensivo e fedele appieno allo Stato borghese, allora si mostra disposta a schiudergli le porte del governo. Così si è comportata col PSI di Nenni e Lombardi (che pure, nonostante avesse dato ampia prova nella storia di aver tradito la classe operaia, quando arrivò al governo con la DC provocò un tentativo di colpo di Stato ordito da Segni-De Lorenzo), e così probabilmente si comporterà anche col PDS del voltagabbana Occhetto. Quello che è più grave è che la linea dell’inserimento governativo del PDS - linea su cui fra l’altro concordano guarda caso tutte e tre le mozioni al XX congresso - è quella della “rifondazione democratica dello Stato’’: una parola d’ordine fuorviante e reazionaria, perché con essa l’intero gruppo dirigente dell’ex PCI rigetta implicitamente la stessa Repubblica nata dalla Resistenza su cui fino a ieri si era invece appiattito e di conseguenza si sposta armi e bagagli sul terreno della repubblica presidenziale, della P2, di Craxi e della vecchia e nuova destra, tant’è vero che anche il MSI invoca ora la “rifondazione dello Stato’’. Mao, dopo la sua morte e il colpo di Stato dell’omuncolo arcirevisionista e fascista Deng, ha finito per precipitare nel capitalismo più spregevole e in una nera e sanguinaria dittatura fascista. 3 - Che occorre lottare affinché il Partito sia sempre marxista-leninista. Poiché il revisionismo continuerà ad esistere finché esisteranno la borghesia e l’imperialismo, ed esisterà sempre in forma latente o palese la lotta tra le due linee in seno al Partito, poiché la borghesia non rinuncerà mai a far cambiare di colore al Partito e fargli abbandonare la via rivoluzionaria, occorre non cessare mai la lotta per salvaguardare il carattere marxista-leninista del Partito eser- Nel ’21 i rivoluzionari si separarono dai riformisti seguendo il grande insegnamento di Lenin che dice: “Quando la classe dirigente di un partito operaio viene meno alla propria funzione e tradisce, tocca alla classe operaia costruire il proprio partito capace di guidarla in modo rivoluzionario, nella lotta contro il proprio nemico di classe, per il socialismo’’ (citato da Stalin in “Principi del leninismo’’). Oggi che i revisionisti, divenuti neoliberali, si smascherano da se stessi e si ricongiungono con i vecchi riformisti ricomponendo di fatto la scissione del ’21, occorre rifarsi a quella lontana esperienza, che è ancora viva nel cuore del proletariato e conserva ancora continua ad esistere, e finché esso esisterà esisterà insopprimibilmente la sua lotta per l’emancipazione dalla schiavitù salariata e per il socialismo. In secondo luogo perché c’è il suo Partito, il PMLI, che lo rappresenta, che ne sintetizza l’esperienza e gli ideali, che lo guida e che perciò ne continua la gloriosa storia. Come ha chiarito il Segretario generale del nostro Partito, compagno Giovanni Scuderi, nel suo Rapporto al 2° Congresso nazionale del PMLI (6-8 novembre 1982), “La fondazione del PMLI ha aperto storicamente la terza fase della storia del movimento operaio italiano organizzato, quella del trionfo del marxismo-leninismo-pensiero di Mao nella clas- 3 - Gli insegnamenti da trarre dal bilancio della storia del PCI Dal bilancio della storia del PCI si possono dunque trarre i seguenti cinque insegnamenti: 1 - Che per non essere ingannati, occorre conoscere a fondo il marxismo-leninismo-pensiero di Mao e applicarlo nella pratica, anche dentro il partito. Ciò significa che per prevenire nuovi, tragici inganni nel futuro occorre che tutti i militanti del Partito assimilino a fondo il marxismo-leninismo-pensiero di Mao e educhino la classe operaia e le nuove generazioni a questa scienza proletaria rivoluzionaria, alla sua conoscenza e alla sua applicazione pratica nella lotta di classe, trasmettendogli il marxismo-leninismo-pensiero di Mao nella sua interezza e genuinità. In Italia il marxismo-leninismo è sempre stato gestito, mediato e trasmesso in maniera opportunistica, revisionistica, ad uso e consumo della borghesia, e questo sia nel 1892, quando si è formato il PSI, sia nel 1921, quando è stato fondato il PCI. Solo con la nascita del PMLI il proletariato ha avuto per la prima volta una corretta e fedele trasmissione del marxismoleninismo-pensiero di Mao. Occorre quindi che i combattenti per il socialismo ritornino ad assimilare il marxismo-leninismo sfrondato e ripulito da tutte le velenose incrostazioni revisioniste, riformiste, socialdemocratiche, trotzkiste e liberali che in Italia lo hanno ricoperto per quasi 100 anni; per far questo devono attingere alle fonti limpide e pure dei grandi maestri del proletariato internazionale, Marx, Engels, Lenin, Stalin e Mao, e dei documenti del PMLI. 2 - Che il revisionismo è la causa principale del cambiamento di colore del partito e della deviazione e dell’abbandono della via della Rivoluzione d’Ottobre. Tutta la storia del PCI è un’amara conferma di questa verità, cosiccome la storia della gloriosa Urss di Lenin e Stalin, che a causa delle cricche revisioniste di Krusciov e Breznev prima, e adesso del neoliberale Gorbaciov, ha finito per rinnegare totalmente il socialismo e la via dell’Ottobre per sposare il capitalismo e inginocchiarsi all’imperialismo occidentale; e così pure la grande Cina di Rimini, 31 gennaio 1991. La compagna ‘Lucia’ Nerina Paoletti, uno dei primi quattro pionieri del PMLI, partecipa alla storica diffusione ai partecipanti al congresso che sancì la morte del PCI (foto Il Bolscevico) citando una ferrea vigilanza e una forte e tempestiva critica e autocritica contro gli elementi di revisionismo e i loro portatori che nello sviluppo della vita del Partito certamente si manifesteranno. Questa consegna vale in particolare per i nuovi giovani militanti che entreranno nel PMLI dai quali, come successori della causa rivoluzionaria, dipende se il Partito continuerà sulla via dell’Ottobre e se il proletariato potrà conquistare il socialismo. 4 - Che non bisogna mai allontanarsi dalla via del marxismoleninismo-pensiero di Mao, del socialismo e della Rivoluzione d’Ottobre. Questo insegnamento è strettamente complementare ai due precedenti. Il marxismo-leninismopensiero di Mao, il socialismo e la Rivoluzione d’Ottobre rappresentano i punti cardinali dell’orizzonte strategico universale del proletariato internazionale. Se si revisiona o si rigetta uno dei tre, inevitabilmente si rigettano tutti e tre e si cade in braccio alla borghesia e all’imperialismo. Diverso è il discorso degli aggiustamenti tattici da apportare necessariamente alla linea del Partito nel corso della lotta per il socialismo, in base alle caratteristiche specifiche paese per paese, momento per momento, ma in nessun caso ciò deve comportare revisione o anche soltanto una parziale rinuncia ai suddetti principi fondamentali. A tal fine occorre vigilare attentamente affinché, come l’esperienza storica insegna, dietro certe proposte di aggiustamenti tattici della linea del Partito non si nascondano in realtà attacchi e snaturamenti dei principi che possono portare passo dopo passo al loro completo ribaltamento. 5- Che quando la direzione del partito tradisce la causa del socialismo e non è più possibile rovesciarla e prendere il potere, occorre rompere con essa e ricostruire il partito. oggi tutta la sua validità, occorre scindersi di nuovo dai riformisti e dai neoliberali e dare tutta la forza al PMLI, il Partito che rappresenta nelle condizioni attuali la continuità della centenaria lotta per il socialismo del proletariato italiano. Sarebbe una grave iattura se questa forza venisse ancora una volta ingabbiata, neutralizzata e mantenuta nell’area riformista, il che potrebbe succedere se i combattenti per il socialismo, magari nell’illusione di ripetere un nuovo ’21, dessero credito alle proposte demagogiche della “rifondazione comunista’’ e della costituzione di un partito neorevisionista “federato’’ o meno col PDS, avanzata da un coacervo di opportunisti, trotzkisti e operaisti come Cossutta, Garavini, Libertini, Salvato e DP. 4 - La storia del proletariato italiano non finisce con la liquidazione del PCI ma continua col PMLI Con la liquidazione del PCI finisce la storia di un partito ma non la storia della classe operaia. Noi neghiamo decisamente l’identificazione fatta ad arte dalla borghesia e dai revisionisti tra la storia del PCI e quella del proletariato italiano. Infatti il proletariato italiano è sempre stato convinto di lottare per il socialismo, e solo perché ingannato dai dirigenti revisionisti ha potuto dare fiducia al PCI e considerarlo il proprio partito. Ma in realtà il proletariato e il PCI sono andati per due strade opposte, perché il primo è stato di fatto una classe antagonista alla borghesia, il secondo invece ne ha sempre difeso occultamente gli interessi strategici. La storia del proletariato continua, prima di tutto perché esso se operaia. La prima fase, che va dal 1892 al 1920, è stata dominata dalla socialdemocrazia predicata dal PSI; la seconda fase, che è iniziata il 21 gennaio 1921, è stata ed è dominata dal revisionismo predicato dal PCI. Il rafforzamento e lo sviluppo del nostro Partito consentirà che la terza fase si realizzi concretamente nella pratica, ponendo così fine al predominio dell’ideologia borghese e socialdemocratica del revisionismo’’. Nell’aprile del ’77, con la fondazione del PMLI, si è dunque aperta storicamente e idealmente la 3ª fase della storia del proletariato italiano. Si tratta adesso di realizzarla anche sul piano politico, organizzativo e pratico, e qui sta l’importanza del ruolo storico che hanno da giocare i sinceri combattenti per il socialismo, donne e uomini, già del PCI: sta a loro, dopo aver compiuto quel serio bilancio critico e autocritico della storia del PCI che auspicavamo all’inizio, scegliere di continuare la storia della classe operaia e della lotta per il socialismo in Italia, abbandonando al suo destino il PDS di Occhetto - ma anche tutti coloro che si propongono di coprirlo a “sinistra’’ - e cominciando, ora e non domani, a prendere contatto con il PMLI, a dialogare e collaborare con esso, meglio ancora ad entrare nelle sue file e a militarvi attivamente per renderlo forte e per svilupparlo in tutta Italia. Le nostre speranze le riponiamo soprattutto nelle ragazze e nei ragazzi rivoluzionari che aspirano a un nuovo mondo. Oggi non è possibile restare comunisti senza diventare marxistileninisti e militanti del PMLI. È questo il solo modo per aprire sul piano soggettivo, quello decisivo, la terza fase della storia del proletariato italiano, che è quella della lotta per il socialismo. Il Comitato centrale del PMLI Firenze, 21 Gennaio 1991 2 il bolscevico / documento dell’UP del PMLI stampato in proprio - committente responsabile: M. MARTENGHI (art. 3 - Legge 10.12.93 n. 515) PARTITO MARXISTA-LENINISTA ITALIANO Sede centrale: Via Antonio del Pollaiolo, 172a - 50142 FIRENZE Tel. e fax 055.5123164 e-mail: [email protected] www.pmli.it N. 3 - 22 gennaio 2015 interni / il bolscevico 11 N. 27 - 7 luglio 2016 Sicilia in fiamme Cinquecento roghi nell’Isola, cento sfollati e diversi intossicati da fumo. A Monreale evacuati 30 bambini dell’asilo. A Palermo brucia un ecomostro pieno di amianto. In fumo riserve naturali. Colpite strutture turistiche Dal nostro corrispondente della Sicilia Il problema degli incendi in Sicilia è antico, ma questa volta è innegabile che il danno è di entità enorme: riseve bruciate, palazzi, case, scuole e ospedali evacuati, un centinaio di sfollati e decine di intossicati, collegamenti stradali e ferroviari interrotti. Cinquecento, hanno calcolato i Vigili del fuoco e la Protezione civile, sono stati i roghi che hanno imperversato tra le province di Palermo, Messina, dove sono bruciati ettari del parco dei Nebrodi, Trapani, Agrigento, Ragusa e Caltanissetta nella giornata di giovedì 17 giugno. In fiamme nella provincia di Palermo grandi comuni come Cefalù, Terrasini, Monreale, San Martino delle Scale e la riserva di Monte Pellegrino nel capoluogo. La provincia più colpita è dunque stata quella di Palermo. Qui si è rischiato il peggio. Diversi gli intossicati. Tutte le ambulanze della provincia erano mobilitate. Sono state decine le persone trasportate dai sanitari del 118 negli ospedali. Una trentina a Palermo, alcuni provenienti dal rogo dell’Arenella, dove è bruciato un ecomostro pieno di amianto, e dello Sperone, frazioni del capoluogo. Dieci i pazienti soccorsi a Cefalù, altri due a Monreale. A questo bilancio, vanno aggiunti i trenta bambini dell’asilo di Monreale, evacuati dalla loro scuola, soccorsi e trasportati all’ospedale Ingrassia di Palermo. Devastato il territorio di Cefalù, la perla normanna in provincia, dove le fiamme hanno divorato ettari di vegetazione e attaccato case e villette. L’ospedale ha dovuto sospendere ricoveri e esami. Cancellato il Village Mediterranée. A Trapani è stata emergenza in tutta la provincia, soprattutto nella zona tra Castellammare e Alcamo. In provincia di Messina segnalati incendi diffusi nei comuni di Gioiosa Marea, Sant’Agata di Militello, Rometta Marea e Motta d’Affermo. In provincia di Agrigento incendio a Santo Stefano di Quisquina, a Caltanissetta fiamme nei comuni di Bompensiere e Caltanissetta. La viabilità siciliana è impazzita per l’intera giornata e l’isola è rimasta spaccata a metà. Interrotti i treni tra Palermo e Termini Imerese e tra Messina e Sant’Agata. Chiusa l’autostrada Palermo-Messina e la Ss 113, che si snoda sul litorale settentrionale della Sicilia. Le procure di Palermo e Termini Imerese hanno deciso di acquisire le informative di polizia e carabinieri, al fine di aprire un’inchiesta sull’origine dei roghi. Certamente una parte degli incendi è dolosa, ma le dichiarazioni dei politicanti borghesi siciliani rendono chiaro che essi non hanno il polso della situazione. Il ministro degli interni Angelino Alfano, NCD, promette di “investire in tecnologie satellitari”. Ma di che parla Alfano? Tecnologie satellitari? Ma se in Sicilia non c’è neanche un parco di Canadair adeguato, le autobotti dei Vigili del Fuoco sono obsolete e, a causa dell’inadeguatezza delle vie di comunicazione, non riescono a raggiungere i luoghi colpiti. Per il governatore Rosario Crocetta, PD, i roghi appiccati sono un attacco mafioso diretto al suo governo “che combatte la mafia”. Ma a noi non risulta che stia mettendo in campo chissà quale operazione politica antimafia, anzi ci risulta che pezzi della mafia se li è anche tirati dentro il governo, vedi il caso Confindustria e i vari scandali che hanno portato alle dimissioni di più di un assessore antimafioso. È evidente certo che dietro i roghi ci sono interessi mafiosi, ma è altrettanto evidente che il governatore non ha messo in campo alcuna azione preventiva, dal momento che si conosce da anni ormai l’entità del problema. Per il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, IDV, un altro imbroglione patentato, è colpa di ro un forestale. Il forestale non ha nessun interesse a bruciare i boschi perché questo non aumenta le loro giornate di lavoro, che sono previste da una legge regionale e quelle rimangono. Se brucia un bosco, al contrario operai forestali di Monreale abbiano appiccato l’icendio vicino all’asilo, rischiando di bruciare vivi 30 bambini del paese? Orlando è un demente politico e dovrebbe chiedere scusa. Ma con quell’ignoranza spocchio- Palermo. L’incendio di Monte Pellegrino lambisce la città nella notte fra il 24 e il 25 giugno 2016 “qualche farabutto tra i forestali che ritiene di garantirsi affari e posti di lavoro distruggendo il territorio siciliano”. Lo hanno zittito il segretario della Cgil Palermo, Enzo Campo, e il segretario della Flai Cgil, Tonino Russo. “Non accettiamo – dichiara il sindacato – che i forestali vengano additati ancora una volta come colpevoli rispetto a un fenomeno per il quale non ricavano nessun vantaggio. Per ogni pezzettino di territorio che si brucia, perde il posto di lavo- rischiano di lavorare meno”. Peraltro, come fa notare la CGIL, gli incendi, nel 90% dei casi, non vengono appiccati nei demani forestali, ma partono dai terreni di privati, che non vengono ripuliti e sistemati. E poi da lì si propagano. Cosa c’entrano gli operai forestali? Come si può poi immaginare che schiere di operai forestali appicchino il fuoco con l’intenzione di bruciare mezza Sicilia, mettendo a rischio l’incolumità della gente? Si può immaginare che gli sa che lo contraddistingue siamo abbastanza certi che non lo farà. Dietro questi roghi si nascondono certamente la mafia degli allevatori e quella delle costruzioni, che hanno interesse a bruciare i boschi, per ricavarne pascoli o le aree boschive limitrofe alle grandi città per ricavare, con l’aiuto delle istituzioni borghesi, terreni edificabili, cambiando le destinazioni d’uso nei piani regolatori. E’ solo la mafia che in Sicilia può delibera- tamente compiere una tale ampia e devastante operazione criminale, senza curarsi di mettere a rischio la vita e la salute della popolazione. Non dimentichiamo poi un’altra causa: l’incuria del territorio, correlata alla privatizzazione della gestione delle riserve naturali. Un esempio per tutti, quel Monte Pellegrino che sovrasta Palermo, andato in fumo il 17 giugno, è stato consegnato in gestione all’associazione di volontariato Ranger d’Italia nel 1996. Il promontorio, una volta uno dei luoghi più suggestivi della città, adesso è in completo abbandono. Basta fare una passeggiata, sconsigliabile d’estate, tempo di roghi, per scoprire l’incuria in cui è tenuto: stratificazioni decennali di rami caduti e mai rimossi, alberi secchi mai abbattuti, sentieri non più praticabili per i rovi e le stoppie, che quando il fuoco parte, doloso o meno, tutta la riserva rischia di andare in fumo in tre minuti. Nel 1996, quando Monte Pellegrino, andò ai volontari dei Ranger, il sindaco era Leoluca Orlando. Certo la decisione partiva dai vertici regionali, ma Orlando non si è mai accorto in tutti questi anni a cosa è stata ridotta il più noto monte palermitano? Non ha niente da dire sui ranger “volontari” privati che prendono i soldi dalla regione per fare cosa non si capisce? Il PMLI chiede maggiore manutenzione pubblica del territorio montano e agricolo siciliano demaniale e privato; ripubblicizzazione di tutte le riserve demaniali consegnate ai privati o ai “volontari”; confisca dei terreni privati incendiati dolosamente; divieto permanente di pascolo ed edificazione sui terreni demaniali o privati incendiati; un parco Canadair e autobotti più ampio e moderno; un adeguato numero di forestali a contratto stabile a tempo pieno e sindacalmente tutelato. Il neosindaco PD di Bolzano sdogana i fascisti di Casapound Forti proteste dell’Anpi e degli antifascisti “Casapound siede in Consiglio, ha tre consiglieri, ha ottenuto tanti voti: dunque, quale sarebbe il problema?”. Sono le sconcertanti parole con cui il neosindaco PD di Bolzano, Renzo Caramaschi, eletto alle recenti amministrative grazie anche al sostegno di Svp e Verdi, ha di fatto sdoganato e riconosciuto legittimità politica ai fascisti di Casapound. “Nessuna preclusione a priori, sono stati eletti”, ha aggiunto Caramaschi a margine della sua seconda riunione giunta a chi gli chiedeva conto del fatto che per la prima volta nella storia amministrativa di Bolzano i tre “fascisti del terzo millennio”, come amano definirsi i militanti di Casapound, si sono presentati alla seduta del Con- siglio comunale indossando la camicia nera e, anziché votare contro la maggioranza che sostiene il sindaco, si sono astenuti ufficializzando di fatto il loro appoggio esterno alla maggioranza di “centro-sinistra”. Un connubio politico che certamente prefigura accordi sottobanco fra PD e Casapound che addirittura potrebbe fruttare ai fascisti bolzanini anche la guida di qualche commissione. Eventualità che lo stesso Caramaschi non esclude dal momento che ha già fatto sapere che “Le presidenze delle commissioni saranno decise dai gruppi e dai capigruppo riuniti. Alcune le vorrei riservare alle opposizioni. Dunque se un gruppo di opposizione si accorda (devono essere almeno 4 consiglieri ndr) potrà capitare che Casapound possa ottenere una presidenza. Se accadesse ne prenderei atto e sicuramente non potrei oppormi”. Il primo nell’amministrazione a guida piddina ad aprire a Casapound era stato qualche giorno prima il vicesindaco Christoph Baur (Svp): “Voglio capire la ragione del loro successo nei quartieri, e, perché no, parlare anche con i loro consiglieri. E scambiarci impressioni”. Subito supportato da Caramaschi che ha aggiunto: “Siamo la giunta del ‘fare’. E se qualcuno propone di ‘fare qualcosa’ perché non ascoltarlo anche se marcia sul Comune, decidendo di volta in volta se merita una convergenza?”. Un autentico invito a nozze per i fascisti che tramite il capogruppo Maurizio Puglisi Ghizzi hanno subito ringraziato e rilanciato: “Se il comportamento del sindaco Caramaschi o del vice Baur è costruttivo, se da settimane non ci sbattono la porta in faccia come altri in passato, perché non dobbiamo collaborare?”. Parole e fatti che giustamente hanno suscitato le immediate proteste degli antifascisti bolzanini e della sezione provinciale dell’Anpi che a nome del suo presidente Orfeo Donatini ha diffuso una nota in cui tra l’altro si dice: “sconcertato e allarmato per lo sdoganamento di Casapound. Nessuna intesa ma anche nessun ipotetico dialogo con partiti neofascisti e figli del populismo perché si possono ri- creare mostri. L’Anpi è sempre al fianco di Innerhofer, Egarter e Thaler, delle vittime sudtirolesi delle dittature... Dal vicesindaco sono arrivate infatti delle aperture sorprendenti, in nome di una presunta concretezza amministrativa, che non tengono affatto conto della pericolosità sociale e politica di un movimento come Casapound di chiara impostazione razzista e xenofoba oltre che fascista, per sua stessa ammissione. Non credo serva ricordare che non siamo in presenza di un gruppo di bravi ragazzi dediti al volontariato, quanto ad un gruppuscolo che al proprio interno ospita esponenti del più triste e violento squadrismo, come le denunce penali a carico di due suoi esponenti (uno dei quali addirittura membro anche delle istituzioni) per le aggressioni avvenute ai danni di altrettanti ragazzi in città, stanno a dimostrare. Così come non siamo in presenza di manifestazioni di colore o in qualche misura folckloristiche quando i tre consiglieri eletti marciano sul Comune assieme ai propri sostenitori: si tratta semmai di iniziative politiche che richiamano la tragica marcia del 24 aprile 1921 quando il gerarca Starace compì la medesima marcia in città poche ore prima che venisse trucidato dalle camicie nere il maestro Franz Innerhofer. Per parte nostra nessuna apertura politica è e sarà mai possibile nei confronti di un simile partito estremista che contempla la violenza come strumento politico”. 12 il bolscevico / ballottaggi del 19 giugno N. 27 - 7 luglio 2016 Ballottaggio a Milano Un elettore su due si astiene. Sala diventa sindaco col minimo storico dei consensi Redazione di Milano Al 2° turno delle elezioni comunali a Milano del 19 giugno l’astensionismo vola al 49,18% confermando il suo record storico anche all’elezione plebiscitaria del sindaco. Escludendo i 73 voti contestati e non ancora assegnati, gli astenuti (elettori che hanno disertato le urne e che hanno annullato o lasciato in bianco la scheda) ammontano a 495.095, ben 162.226 in più rispetto al ballottaggio delle comunali di 5 anni fa. Giuseppe Sala, candidato dal PD e sponsorizzato dalla maggioranza della borghesia meneghina e nazionale, si è aggiudicato la carica di sindaco col 51,70% dei voti validi ottenendo 264.481 preferenze, equivalenti ad appena il 26,27% dell’elettorato ossia poco più di 1/4 degli aventi diritto (mentre Pisapia, spargendo a piene mani illusioni “arancioni” poi disattese durante i suoi cinque anni di giunta, ottenne il 36,7%, ossia più di 1/3 dell’elettorato, superando l’astensionismo che si attestò al 33,4%); Sala risulta quindi essere il sindaco di Milano con il più basso consenso elettorale nella storia della seconda repubblica! Nonostante l’apparentamento ufficiale del partito Radicale del pannelliano Marco Cappato (che al 1° turno ha attirato circa 10 mila voti) e l’appoggio “personale” dell’ex presidente del Consiglio comunale, candidato a sindaco al 1° turno dai falsi partiti comunisti PRC e PCdI, Basilio Rizzo (che ha ottenuto quasi 20 mila consensi), nonostante oltre un milione di euro a sostegno della sua campagna elettorale proveniente dalla maggioranza della grande borghesia, Giuseppe Sala la spunta per soli 17.429 voti sul candidato sindaco del “centro-destra” di Berlusconi e Salvini, Stefano Parisi (che ottiene 247.052 voti ossia il 24,54% dell’elettorato e il 48,3% dei voti validi). Decisivi i voti del M5S – il cui direttorio non ha dato indicazione di disertare le urne contro i due candidati della “casta” lasciando “libertà di coscienza” al suo elettorato - che presumibilmente in base a certe analisi si sono spartiti in circa 20 mila per Parisi, circa 10 mila per Sala e altri circa 20 mila confluiti nell’astensionismo. I marxisti-leninisti milanesi hanno coerentemente propagandato con forza l’astensionismo anche per il secondo turno motivandolo contro il capitalismo, i suoi governi, istituzioni e partiti, per il socialismo, proponendo la creazione delle Assemblee popolari e dei Comitati popolari basati sulla democrazia diretta come mezzo più efficace per combattere i governi e le amministrazioni locali borghesi e per difendere gli interessi delle masse lavoratrici e popolari. Il vero cambiamento certo non passa né dal trasversale Movimento 5 Stelle né dalla fraudolenta illusione della “rivoluzione arancione” del sindaco uscente Giuliano Pisapia e dei falsi partiti comunisti del PRC e del PCdI, tantomeno da esponenti più o meno “nuovi” proposti dal PD di Renzi come il manager di EXPO Giuseppe Sala. Costui non così “nuovo” se si pensa che tra il 2009 e il 2010 fu direttore generale del Comune di Milano sotto la giunta della destra del regime neofascista guidata dalla berlusconiana Letizia Moratti. Quasi metà dell’elettorato milanese ha già dimostrato oggettivamente di capirlo scegliendo l’astensionismo come uno spontaneo voto di rifiuto di questi imbrogli. Occorre ora che maturi, fra le elettrici e gli elettori di sinistra, la coscienza dell’astensionismo tattico usato anche come un voto propositivo di consenso al PMLI e al socialismo, perché esprimendo questo voto l’elettorato di sinistra potrà impegnarsi attivamente nella lotta per la conquista del potere politico da parte del proletariato, al fine di rovesciare il capitalismo e la dittatura della borghesia che lo sorregge (che oggi sta completando la sua metamorfosi piduista e neofascista), e quindi realizzare l’obbiettivo strategico e storico dell’Italia unita, rossa e socialista! Vittoria astensionista alle elezioni comunali di Varese Tra primo turno e ballottaggi la metà dei varesini non si è recata alle urne delegittimando con l’astensione i partiti e le istituzioni borghesi. Il renziano Galimberti candidato PD della “sinistra” borghese è il nuovo sindaco di Varese dopo 23 anni di dominio fascioleghista Dal corrispondente dell’Organizzazione di Viggiù del PMLI Sonora bocciatura per tutti i partecipanti alla corsa di sindaco per la città di Varese travolti da un astensionismo crescente che ha spinto quasi la metà dei varesini a non recarsi alle urne. Questo è quanto rivelano i dati riguardanti le elezioni comunali di Varese del 5 e 19 giugno. Una votazione che ha punito trasversalmente tutti gli schieramenti politici borghesi da destra a “sinistra”. Analizzando i dati dell’affluenza alle urne e le percentuali ottenute dai vari blocchi politici, calcolandoli però non in base al numero dei votanti come riportato in pratica da tutti i mass media borghesi ma sulla base dell’intero corpo elettorale, cioè gli aventi diritto al voto, possiamo farci un’idea del reale peso rappresentativo dei partiti borghesi sul territorio cittadino. Malgrado gli inviti e gli appelli unitari dei candidati sindaco, sul “diritto-dovere” dell’esercizio del voto, nel tentativo di limitare così l’astensionismo, su 65.663 aventi diritto, solo in 36.702 si sono recati alle urne. 28.961 elettori (45,9%) hanno deciso di astenersi. Una percentuale di quasi otto punti più alta rispetto alle comunali del 2011 quando gli astensionisti furono il 38,06%. A perdere maggiormente consensi sono stati i partiti della coalizione, dichiarata vincente al primo turno a sostegno di Paolo Orrigoni che comprende tutti i partiti della destra borghese cittadina. La Lega Nord rispetto al 2011 perde 3.198 voti arrivando all’8,14%, Forza Italia con 3.670 voti esce fortemente ridimensionata e con la perdita di oltre 5.000 elettori si ferma al 5,58%. Meglio non va agli altri partiti della coalizione tra cui i fascisti di Fratelli d’Italia–Alleanza nazionale, che arrivano a uno striminzito 1,73% raccogliendo poco più di un migliaio di voti. Nel complesso la coalizione della destra borghese raccoglie 15.737 voti pari al 23,96% degli aventi diritto. Calcolando che nel 2011 quando ci fu l’elezione dell’uscente neopo- destà Attilio Fontana la coalizione della destra borghese formata dalla sola Lega Nord e Popolo della libertà (FI+AN) arrivò a prendere 17.207 voti, e paragonandola alla coalizione odierna formata da ben 7 forze in campo tra partiti e liste civiche ben si delinea il terreno perso dai partiti di destra. Non è servita a fermare questa emorragia elettorale neanche la presenza come capolista per la Lega dell’inquisito Roberto Maroni, presidente della Regione Lombardia che raccoglie solo 328 preferenze. Meglio non è andata alla coalizione di “centro-sinistra” guidata dal renziano Davide Galimberti che pur crescendo in numeri rispetto al 2011 e conquistandosi la posizione di prima forza politica cittadina con 7.997 voti, non va oltre il 20,59% con la sua coalizione. Fossilizzati i partiti a “sinistra” del PD, Rifondazione Comunista, Comunisti Italiani e Sinistra ecologia e libertà (SEL) che pur coalizzandosi (SEL nel 2011 sostenne la candidatura della PD Luisa Oprandi) racimolano 600 voti arrivando allo 0,92%. Se si pensa che nel 2011 la sola SEL aveva ottenuto 1.466 voti si assiste a un vero e proprio tonfo dei partiti falso comunisti che pagano lo scotto di una politica puramente elettoralistica e riformistica di false promesse di miglioramenti sociali, alla quale le masse oramai non credono più. Al terzo posto si piazza l’ultra liberista presidente del Rugby Varese, Stefano Malerba, con la sua “Lega Civica” che pur impegnatosi in una pressante e dispendiosa campagna elettorale fatta di enormi manifesti affissi per la città tutta incentrata sulla critica ai partiti e sulla supremazia della proprietà privata e del mercato capitalistico sullo Stato, raccoglie il 3,85% dei voti. Le altre liste Varese civica e Fronte nazionale per l’Italia non superano l’1% e si fermano rispettivamente allo 0,65% e 0,30%. Ai ballottaggi Orrigoni e Galiberti, staccati di appena 1.850 voti, hanno affilato le proprie armi e si sono preparati allo scontro per accaparrarsi la poltrona di Palazzo Estense. Orrigoni, fiducioso che al ballottaggio sarebbe riuscito a scalzare il candidato del PD recuperando voti a destra, in particolare da chi al primo turno aveva deciso di votare Malerba, Galimberti programmando maratone elettorali nei principali quartieri popolari di Varese nel tentativo di strappare qualche voto all’astensionismo e puntare sui voti che potrebbero arrivare a sinistra del PD. Alla fine l’ha spuntata il candidato della “sinistra” borghese Davide Galimberti staccando il suo avversario Orrigoni di un migliaio di voti. Una batosta per il “centro-destra” e in particolare per la Lega Nord che pur mettendo in campo i suoi pezzi da novanta tra cui il caporione Roberto Maroni, perde dopo 23 anni di dominio ininterrotto la prima città che l’ha vista al governo nel lontano 1993. La vittoria di Galimberti è arrivata grazie anche al sostegno che il candidato PD ha ricevuto dal destro Stefano Malerba. Pur “vincendo” le elezioni comunali, Galimberti esce tuttavia fortemente ridimensionato nella sua rappresentanza tra le masse varesine dall’altissimo astensionismo che al ballottaggio è cresciuto ulteriormente attestandosi, calcolando anche le schede bianche e nulle, al 50,60% così aumentando di 5 punti rispetto al primo turno e che di fatto risulta il vero vincitore di questa tornata elettorale. A conti fatti solo il 25,60% degli aventi diritto hanno votato per Galiberti pari a 16.814 cittadini su una popolazione di oltre 65mila persone. Staremo a vedere, dopo ventitre anni di dominio fascioleghista, quali politiche la “sinistra” borghese metterà in campo per amministrare la città, anche se analizzando che il sindaco Galimberti è figlio del vivaio politico renziano, ci aspettiamo a livello territoriale politiche antioperaie e antipopolari degne di quelle che il suo padre padrone di Palazzo Chigi Renzi ha sviluppato a livello nazionale. A Sesto Fiorentino (Firenze) L’astensionismo punisce Renzi e il suo partito Un voto contro l’inceneritore e l’ampliamento dell’aeroporto di Firenze Da una compagna sestese del PMLI Domenica 19 giugno a Sesto Fiorentino 16.502 elettori (43,16% sul corpo elettorale) hanno disertato le urne confermando l’astensionismo quale primo “partito”. Questo comune alle porte di Firenze è diventato un “caso” nazionale poiché le elezioni sono coincise con le contraddizioni all’interno del PD reduce dal commissariamento pochi mesi prima della giunta comunale della sindaca Sara Biagiotti, renziana di ferro, tanto per la cronaca lei insieme alla Boschi e alla Bonafè ha organizzato la campagna elettorale delle primarie del 2012 al nuovo duce. La Biagiotti a fine 2015 è stata sfiduciata con il voto determinante di una parte dei suoi stessi colleghi di partito (8 PD dei 20 voti favorevoli alla sfiducia) ac- cusata di non saper amministrare la città e soprattutto contro il suo sì ai cantieri dell’inceneritore di Case Passerini e all’ampliamento dell’aeroporto di Peretola, due grandi opere osteggiate dalle popolazioni sia di Sesto che del resto dell’hinterland fiorentino ma fortemente volute da Renzi e dal PD dell’area metropolitana, Rossi e Nardella compresi. Per levarla dall’imbarazzante figuraccia Renzi pochi mesi dopo l’ha chiamata a Roma a far parte della sua squadra di fedelissimi. L’astensionismo, 38,2% al primo turno e salito al 43,16% al secondo turno, unito alla scelta di votare alleanze opposte a quelle del PD, esprimono il netto rifiuto alla politica antipopolare di Renzi e del suo partito, il netto rifiuto alla realizzazione delle due “grandi opere” volute da Renzi quando era sindaco di Firenze che mettono in pericolo la salute di migliaia di abitanti della piana fra il capoluogo toscano e Prato. L’astensionismo ha prevalso anche sull’input che alcuni esponenti dei movimenti No inceneritore avevano dato: “andate a votare purché non voglia l’inceneritore”. Una fetta di sestesi che ancora è intrappolata dall’elettoralismo e non ha maturato la scelta di esprimere il proprio voto con la diserzione ha seguito questo input e ne ha beneficiato chi della salute ha fatto il cavallo di battaglia della sua campagna elettorale: il neo sindaco Lorenzo Falchi, 36 anni bancario di un istituto di credito di Siena, sostenuto da Sinistra italiana e da una lista civica “Per Sesto”. Falchi ha prevalso su Lorenzo Zambini (PD ed ex vicesindaco dell’era Biagiotti) con 13.879 voti rispetto ai 7.323 del suo avversario. Falchi, al ballot- taggio, ha potuto beneficiare anche dei voti offerti dall’ex dirigente del PCI revisionista Maurizio Quercioli, che si era presentato alla competizione per diventare sindaco di Sesto, sostenuto dalla lista civica “per Sesto Bene Comune” e dalla lista “Insieme”, che radunava Possibile, Rifondazione comunista e Alternativa libera, e che al primo turno aveva raccolto 4.540 voti. Nei giorni seguenti alla sua elezione Falchi ha costituito il comune di Sesto Fiorentino al Tar nei due ricorsi presentati al Tribunale amministrativo dal Wwf, Forum Ambientalista e Italia Nostra contro la costruzione dell’inceneritore a Case Passerini. Un minimo atto dovuto a chi per ora gli ha dato fiducia. Staremo a vedere però quanto sarà coerente il neo sindaco. Sesto Fiorentino - comunali 2016 (1° turno) CORPO ELETTORALE 38.239 CORPO E VOTI VALIDI 21.812 VOTI VAL 1.830 VOTI SOL VOTI SOLO SINDACO COMUNALI 2016 PARTITI ASTENUTI PD Sinistra italiana M5S Per Sesto bene comune Per Sesto Fratelli d'It.-AN-Lega N. Rifondazione e altre Forza Italia Sesto siamo noi Sesto civica Voti 0 0 0 14.597 6.252 3.826 2.369 2.287 2.085 1.294 1.330 1.138 831 400 - % sugli elettori 38,2 16,3 10,0 6,2 6,0 5,5 3,4 3,5 3,0 2,2 1,0 - % sui voti validi 66,9 28,7 17,5 10,9 10,5 9,6 5,9 6,1 5,2 3,8 1,8 - COMU Voti - % e cronache locali / il bolscevico 13 N. 27 - 7 luglio 2016 200mila al Milano Pride per i diritti di Lgbt Apprezzata presenza della Cellula “Mao” di Milano del PMLI Redazione di Milano A Milano, nel pomeriggio di sabato 25 giugno, 200mila manifestanti hanno partecipato al corteo festoso e colorato del Milano Pride partito da piazza Duca D’Aosta e conclusosi in piazza Oberdan. Militanti della Cellula “Mao” di Milano del PMLI hanno diffuso centinaia di copie del volantino dal titolo “I diritti e le battaglie LGBT, il matrimonio e la “maternità surrogata”, riportante estratti del documento del Comitato centrale del PMLI del quale, nello stesso volantino, se ne proponeva la lettura integrale dal Sito internet del Parti- to. I compagni erano presenti con la rossa bandiera del Partito e nei corpetti esibivano la riproduzione dei manifesti del Partito: “Solidarietà per i gay uccisi e feriti a Orlando. No all’omofobia, “Estendere i diritti del matrimonio per le coppie LGBT. Abrogare l’art. 29 della costituzione adozione del figlio del partner”. Molti manifestanti hanno fotografato i sopraccitati manifesti e letto con interesse il volantino del PMLI, Partito sempre presente con le proprie insegne a sostenere apertamente e coerentemente le lotte per i diritti sociali, civili e politici degli LGBT. Voto di scambio a Vittoria (Ragusa) Indagati il neosindaco Moscato di “centrodestra” e il candidato PD al ballottaggio Dal nostro corrispondente della Sicilia Parte con un’inchiesta per voto di scambio politico-mafioso l’amministrazione del neoeletto sindaco di Vittoria (Ragusa), Giovanni Moscato del “centrodestra”, già consigliere comunale nel 2006 e nel 2011. Insieme a lui e con la stessa accusa è indagato il candidato del PD al ballottaggio, Francesco Aiello, di Sicilia Futura, la formazione dell’ex-ministro Salvatore Cardinale. Aiello, esponente del PCI siciliano, deputato regionale per tre legislature, è anche stato assessore regionale all’Agricoltura. Indagata anche Lisa Pisani, la candidata del PD al primo turno. L’inchiesta per reati di natura elettorale riguarda anche il sindaco uscente Giuseppe Nicosia, “centro-sinistra”, e il fratello, oltre che Cesare Campailla, della lista Forza Vittoria e Raffaele Giunta, di Nuove idee-I democratici, entrambi candidati al consiglio comunale. La presenza di quest’ultimo in una lista civica vicina al PD, dove era candidato anche Francesco Cannizzo, segretario cittadino del partito di Renzi, aveva sollevato non poche polemiche durante la campagna elettora- L’inestimabile contributo di Lenin alla lotta contro i falsi comunisti 25 giugno 2016. La partecipazione del PMLI alla manifestazione del Milano Pride (foto Il Bolscevico) La coerente e logica posizione antimperialista del PMLI Studiando l’opuscolo n. 14 di Giovanni Scuderi “Avanti con forza e fiducia verso l’Italia unita, rossa e socialista” non può non saltare all’occhio e alla mente la profonda coerenza del nostro Partito: “I politicanti della ‘sinistra’ borghese ne inventano di tutte pur di evitare che le contraddizioni di classe sfocino nella rivoluzione socialista. Ma non possono farci niente. Prima o poi essa esploderà e sarà inevitabilmente vittoriosa”. Oggi certi politicanti della “sinistra” borghese che magari ieri gridavano a squarciagola “Fuori l’Italia dalla Nato, fuori la Nato dall’Italia”, si stracciano le vesti nell’invocare più interventi Nato contro l’Isis “terrorista”. La segretaria alla difesa statunitense Ashton Carter ha invitato gli alleati Nato “a fare di più per aiutare la coalizione a guida americana contro l’Isis a finire il lavoro”, in Iraq, in Siria, distruggendo le forze jihadiste. I ministri della difesa dell’Alleanza atlantica imperialista, l’Italia rappresentata dalla ministra Pinotti, hanno già concordato di estendere l’addestramento delle truppe irachene e hanno deciso di prendere in considerazione il dispiegamento di ricognitori Awacs. “Vorrei vedere la Nato fare di più” ha detto Carter ai giornalisti dopo che i ministri si sono incontrati nel quartier generale della Nato a Bruxelles. La gran parte dei 28 Paesi Nato contribuisce individualmente alla coalizione, ma l’alleanza non ha un ruolo diretto nella campagna. La Pinotti ha anche anticipato che al vertice della Nato, che si terrà l’8 e il 9 luglio a Varsavia, l’Italia presenterà “un documento tecnico” per un “coordinamento strategico e non solo tecnico tra Ue e Nato nel Mediterraneo centrale e che non prevede comunque strutture aggiuntive”. Cari compagni della “sinistra” borghese, ieri come oggi o si sta dalla parte della borghesia, dalla parte della Nato, dalla parte degli imperialisti, o si sta dalla parte del proletariato. La scelta del nostro Partito di appoggiare l’Is non è “farneticante” ma coerente, logica, antimperialista e anti-Nato. Coi Maestri e il PMLI vinceremo! Da un rapporto interno dell’Organizzazione di Civitavecchia (Roma) del PMLI Cari compagni, il PMLI ci fa sempre dei bellissimi regali, con gli editoriali, gli articoli de “Il Bolscevico”, le dichiarazioni del compagno Segretario generale, eccetera. Uno di questi è senz’altro il libro (librone) “Lenin, la vita e l’opera”, della Piccola Biblioteca Marxista-Leninista, nel quarantesimo Anniversario di fondazione de “Il Bolscevico”. Un’antologia veramente completa degli scritti di Lenin, dove troviamo affermazioni del grande Maestro sempre valide, che sembrano scritte non ieri (l’altro ieri, visto che la morte del nostro Maestro, prematuramente sopraggiunta, risale a quasi un secolo fa) ma oggi o domani o anche dopodomani. Pensiamo, per esempio, già allo scritto “Che cosa sono gli amici del popolo e come lottano contro i socialdemocratici?” del 1893, quando Lenin afferma (parlando della duplicità della piccola borghesia): “La piccola borghesia le, dato che il candidato del PD, che alla fine ha deciso di ritirare la propria candidatura, è titolare di alcuni precedenti penali. Gli altri indagati, Maurizio Di Stefano, Raffaele Di Pietro, sono indicati come vicini al sindaco uscente di “centro-sinistra”. L’indagine, coordinata dall’ex procuratore aggiunto di Catania, Amedeo Bertone, e dal sostituto, Valentina Sincero, nasce dalle dichiarazioni di due collaboratori di giustizia, Biagio Gravina e Rosario Avila. Le dichiarazioni non riguardano soltanto le elezioni del 2016, ma anche quelle che nel maggio del 2011 portarono all’elezione di Giuseppe Nicosia. I collaboratori di giustizia hanno raccontato delle promesse elettorali dei candidati ad esponenti mafiosi della zona, che avrebbero garantito in cambio di favori e posti di lavoro il loro appoggio nelle urne. L’indagine sta dunque mettendo in evidenza la fitta trama di interessi e scambi politico-mafiosi, trasversali ai partiti, presentatisi alle consultazioni elettorali. La pressione elettorale sulle masse popolari è stata evidentemente molto forte. Eppure, dati alla mano, esse sempre meno, anche a Vittoria, si lasciano imbrigliare da promesse che non hanno mai alcun concreto seguito. Infatti, nonostante il patto elettorale tra istituzioni borghesi e mafia fosse in vigore, a Vittoria la più forte delle forme di astensionismo, la diserzione dalle urne, è aumentata, rispetto alle elezioni del 2011, di ben 5,03 punti percentuali. Dei 50.525 elettori hanno disertato ben 17.771 pari al 30,14% degli aventi diritto. Il dato più evidente è il suicidio politico del PD di Renzi, che a Vittoria aveva una delle sue roccaforti siciliane. Riesce a raccogliere appena 2.350, quando nel 2011 ne aveva 3.519. Cioè, pur avendo in mano le redini del potere borghese, ha perso per strada 989 elettori, sul fronte della crisi agricola irrisolta nel maggiore centro agricolo della sicilia, sul fronte del tasso di disoccupazione e dell’emigrazone in ascesa, e non da ultimo sul fronte degli intrallazzi filomafiosi, di cui il partito di Renzi tira le fila. Alle masse popolari è ormai chiaro che il PD è un partito che ha completato la sua metamorfosi in senso neofascista e filomafioso e oggi è uno di quelli che ha le maggiori responsabilità nella gestione del vermina- io politico-mafioso dentro il Comune di Vittoria. Ma aver punito il PD, cominciando a togliergli l’appoggio elettorale, non basta. La corruzione, benché oggi il PD di Renzi ne incarni il volto più odioso, insopportabile e ipocrita, in questi ultimi anni ha assunto dimensioni impressionanti, coinvolgendo con scandali tutti i partiti borghesi. Nessun partito ne è esente. La corruzione infatti è connaturata al sistema capitalista e alla proprietà privata che rappresenta e di cui cura gli interessi e pertanto è inestirpabile, finché non saranno aboliti il capitalismo e la proprietà privata stessi. La corruzione non è infatti un’anomalia del sistema, ma un suo costituente indispensabile, senza il quale la sua economia e la sua macchina statale non potrebbero funzionare. Noi marxisti-leninisti italiani invitiamo le masse lavoratrici e popolari vittoriesi ad alzare il tiro contro il corrotto PD di Renzi e nel contempo contro la nuova amministrazione di “centro-destra”, guidata da un indagato per scambio di voto politico-mafioso, Giovanni Moscato, costringendolo subito alle dimissioni. è progressiva in quanto avanza rivendicazioni democratiche generali, cioè lotta contro ogni residuo dell’epoca medievale e del servaggio; è reazionaria in quanto lotta contro per conservare la propria condizione di piccola borghesia, tentando di arrestare e di far retrocedere l’evoluzione del paese nella direzione del regime borghese” (op.cit., p.12, Opere complete, Roma, Editori Riuniti). Ora, che cosa c’è di più vero: la piccola borghesia (almeno una sua parte) è con noi contro i residui medievali che, anche nell’Italia post-2000, sono tanti: per esempio per i diritti delle persone con orientamento sessuale gay, lesbico, bisessuale, transgender, per la libertà d’opinione, eccetera, ma quando si tratta di lottare contro, per esempio le leggi infami come il Jobs Act si ritira o meglio tutela anche violentemente i propri interessi. Idem vale per “Un passo avanti e due indietro” (1904), in cui, in polemica con il “marxista” (meglio “socialista della cattedra”, socialrevisionista) Plekhanov, Lenin afferma senza mezzi termini: “Per quanto è facile la lotta teorica contro le infantili sciocchezze anarchiche, per tanto è difficile il lavoro pratico con un individualista anarchico in uno stesso organismo” (cit., p. 52). Basti pensare alla storia ma anche all’attualità del PMLI, con la difficoltà di lavorare/collaborare con partiti sedicenti marxistileninisti, in realtà pieni di revanscismo individualista, anarcoide, trotzkista, eccetera. Non posso qui proporre commenti e “crestomazie” a tutto il libro, che peraltro li meriterebbe per ogni singola frase (sul valore assoluto di Lenin, delle sue analisi e intuizioni non si discute), ma accennerò ancora al problema, che nessuno prima di Lenin ha esaminato ampiamente e chiaramente (all’epoca di Marx ed Engels si configurava diversamente, era ancora primordiale, più che altro capitalismo), quello dell’imperialismo: “I sociaIdemocratici (lo scritto è del 1915, dunque prima della definitiva rottura con il marxismo da parte della “Seconda Internazionale” e dell’“Internazionale due e mezzo”, quella di Zimmerwald) dei paesi oppressori (in modo particolare delle cosiddette ‘grandi potenze’) riconoscano e difendano il diritto di autodecisione delle nazioni oppresse... i socialisti (vale quanto detto sopra per “socialdemocratici”, ovviamente) delle nazioni oppresse, da parte loro, devono lottare incondizionatamente per la completa unità (anche organizzativa) tra gli operai delle nazioni oppresse e di quelle che op- primono” (da “Il socialismo e la guerra” in op. cit., p.177). Basti pensare, oggi, all’imperialismo terribile degli Usa e della Federazione Russa, ma anche dell’Unione Europea, che si servono della guerra contro l’ISIS, come contro ogni realtà “resistente” (vedansi le minacce contro gli immigrati messicani da parte di Trump e non solo negli Usa, le minacce velate o esplicite degli europei agli immigrati, in specie islamici). Al tempo stesso vale l’invito al proletariato delle nazioni oppresse a non disperdersi in lotte nazionaliste ed etniciste, ritrovando invece l’internazionalismo proletario. Sono solo alcuni esempi ma, credo, molto significativi della grandezza e attualità dell’opera omnia di Lenin, da riscoprire e ristudiare continuamente. Eugen Galasso - Firenze CALENDARIO DELLE MANIFESTAZIONI E DEGLI SCIOPERI LUGLIO 5 5 5 8 Contatto il PMLI in quanto sono da sempre comunista Sono uno studente e vorrei saperne di più sul PMLI a Biella. Ho conosciuto Il PMLI per la prima volta attraverso un volantino fatto circolare nella mia precedente scuola. In quel frangente lo lessi interessato anche perché sono sempre stato comunista. Ma vi conobbi meglio solo dopo, informandomi, di recente vidi il sito e lì trovai l’indirizzo e-mail per contattarvi. Un 16enne biellese Anpac, Anpav, Usb-Lp - Trasporto Aereo - Gruppo Alitalia Sai - CityLiner – Sciopero personale navigante (Piloti e Assistenti di volo Cub-Trasporti - Trasporto Aereo - Alitalia Sai SpA – Sciopero personale soc. Airport Handlin di Milano Linate e Malpensa Filt-Cgil, Fit-Cisl, Uiltrasporti, Ugl-Trasporto Aereo – Sciopero lavoratori Gruppo Alitalia Sai - CityLiner - Personale Navigante Tecnico e di Cabina Slc-Cgil, Fistel-Cisl, Uilcom-Uil, Ugl-Tlc – Telecomunicazioni – Sciopero lavoratori Ericsson Telecomunicazioni SpA Direttrice responsabile: MONICA MARTENGHI e-mail [email protected] sito Internet http://www.pmli.it Redazione centrale: via A. del Pollaiolo, 172/a - 50142 Firenze - Tel. e fax 055.5123164 Iscritto al n. 2142 del Registro della stampa del Tribunale di Firenze. Iscritto come giornale murale al n. 2820 del Registro della stampa del Tribunale di Firenze Editore: PMLI ISSN: 0392-3886 chiuso il 29/6/2016 ore 16,00 FERMIAMO 6 il bolscevico / interni N. 20 - 19 maggio 2016 IL Manna per i grandi monopoli e fonte di nuovi danni e sventure per i popoli Lottiamo contro l'imperialismo CACCIAMO IL NUOVO MUSSOLINI RENZI PARTITO MARXISTA-LENINISTA ITALIANO Committente responsabile: M. MARTENGHI (art. 3 - Legge 10.12.93 n. 515) Stampato in proprio Sede centrale: Via Antonio del Pollaiolo, 172a - 50142 FIRENZE Tel. e fax 055.5123164 e-mail: [email protected] -- www.pmli.it PMLI / il bolscevico 15 N. 27 - 7 luglio 2016 Contro l’Italicum e la riforma “costituzionale” Il PMLI entra ufficialmente nel Comitato per il No e continua la raccolta firme Fronte unito con il Comitato di Modena per il No al referendum. Una ragazza del Comitato a fianco dei marxisti-leninisti durante il banchino della raccolta firme promosso dal PMLI. Si registra di continuo il dissenso delle masse contro il governo Renzi Dal corrispondente dell’Organizzazione di Modena del PMLI Dopo aver aderito ufficialmente al Comitato di Modena per il No, l’Organizzazione locale ha comunicato il calendario dei banchini nonché la sua presenza alla riunione del 4 luglio. In pieno centro storico, domenica 26 giugno, l’Organizzazione di Modena del PMLI ha continuato la propaganda anti-Renzi e la raccolta firme contro l’Italicum e contro la “riforma” costituzionale. Ringraziamo una ragazza del Comitato che ha collaborato serenamente con noi durante il banchino e un ragazzo dell’USI, attivi entrambi nello spronare i modenesi a firmare e a combattere il nuovo duce Renzi, consegnando volantini. Il fronte unito ha funzionato alla perfezione; si sono raccolte molte firme e si sono intrecciate molte interessanti discussioni contro il governo dove i compagni modenesi hanno esposto la linea anticapitalista e antimperialista del Partito, smascherando Modena, 26 giugno 2016. Un gruppo di giovani si intrattiene al banchino del PMLI per il No (foto Il Bolscevico) Renzi, raccogliendo il gradimento di coloro che si fermavano al banchino. Come nel precedente banchino sono stati consegna- ti molti volantini di Partito unitamente ai volantini del Comitato; in questa occasione era presente un opuscolo informativo realiz- zato dall’Organizzazione modenese su tutte le pessime “riforme” di Renzi e su quello che succederà se non fermiamo il suo governo neofascista e piduista; un elemento di discussione questo che è servito anche ai modenesi per capire meglio il senso della controriforma “costituzionale” in atto. Un’altra vittoria del PMLI nella città emiliana, dove stiamo facendo passi avanti sul fronte unito. Solo radicandosi il PMLI crescerà anche nel corpo. La strada per il socialismo è lunga e tortuosa ma lavorando sodo e con fiducia conquisteremo il consenso e l’appoggio delle masse e dei giovani. Noi dobbiamo, come disse Mao “Servire il popolo con tutto il cuore e non solo con metà, o due terzi”. A Modena il PMLI porge e stringe la mano ai comitati locali di lotta di massa e sarà sempre a fianco e in prima linea in tutte le battaglie comuni contro il capitalismo e il suo governo guidato dall’emulo di Mussolini Renzi, per conquistare il potere politico da parte del proletariato, per il socialismo. Al festival “Marea” di Fucecchio (Firenze) Esordio in pieno centro con un banchino La Cellula “Vesuvio Rosso” di Napoli del PMLI aderisce al Comitato per il No al referendum sulla controriforma del Senato Napoli, 21 giugno 2016. Il banchino per il No in via Toledo a cui hanno partecipato i compagni del PMLI (foto Il Bolscevico) Dal corrispondente della Cellula “Vesuvio Rosso” di Napoli Martedì 21 giugno la Cellula “Vesuvio Rosso” di Napoli del PMLI, all’indomani della campagna elettorale delle amministrative, ha immediatamente aderito al Comitato per il No alla controriforma del Senato svolgendo un banchino nella centralissima Via Toledo all’altezza di via ponte di Tappia, dalle 15.30 alle 17.30, per Diffusi centinaia di volantini del PMLI contro la controriforma del Senato Discussioni e scambi di opinioni, in particolare con i giovani Redazione di Fucecchio Centinaia di volantini che invitano a votare NO alla controriforma piduista e fascista del Senato hanno invaso il prato della festa “Marea”. L’edizione 2016 del festival annuale che si svolge a fine giugno a Fucecchio è stata in discussione fino all’ultimo per mancanza di volontari e per i tagli ai finanziamenti operati dall’amministrazione comunale PD. Tra le serate un dibattito sul referendum istituzionale di ottobre e il concerto del gruppo musicale Modena City Ramblers. In queste date i compagni della Cellula “Vincenzo Falzarano” di Fucecchio del PMLI hanno diffuso molte copie del volantino che riportava la parola d’ordine sul referendum di ottobre “Vota NO alla controriforma piduista e fascista del Senato”. Uno slogan chiaro e conciso e una grafica raffigurante Renzi con stivali e fez mussoliniani a troneggiare sul parlamento che hanno attirato l’attenzione dei frequentatori. Non sono mancate le discussioni e gli scambi di opinione, in particolare con i giovani affluiti al concerto. La tendenza generale è quella di una radicata insofferenza verso il nuovo duce Renzi che non gode più del passato sostegno da parte del “popolo di sinistra”, almeno da quella parte che noi abbiamo incontrato. Nessuno ha criticato il nostro volantino, semmai ci è stato richiesto ed ha ricevuto consensi, sintomo che ha colpito nel segno. Più soft i toni del dibattito dove il fronte del NO era rappresentato da Francesco “Pancho” Pardi, anche se non sono mancati interventi battaglieri da parte del pubblico contro la “riforma” di Renzi. Fucecchio, diffusione del volantino del PMLI per il No a Marea il 18 giugno 2016 (foto Il Bolscevico) propagandare il No al referendum di ottobre. Nel contempo i compagni hanno invitato le masse a firmare la proposta di un referendum contro lo scempio della Costituzione e contro la legge elettorale “Italicum” fascistissimum. I marxisti-leninisti hanno fatto fronte unito con i componenti del Comitato per il No al referendum, raccogliendo le firme e discutendo con i passanti sulle ragioni del No. Nei brevi ma significativi confronti con i passanti si è riscontrato un pensiero su tutti: non solo l’attuale governo non è stato eletto dal popolo e fa spirare un’aria apertamente “antidemocratica”, ma anche la contrarietà a voler ritoccare in questa maniera la Costituzione del 1948. Una passante, letteralmente schifata dal nuovo duce Renzi e dal suo esecutivo, ha dichiarato che era d’accordo con noi quando affermiamo che stiamo in pieno neofascismo. Il pomeriggio di propaganda si chiudeva in un clima di confronto e unità con le masse napoletane per esprimere un netto e fermo No alla controriforma del Senato e per il voto conseguente al referendum. La piazza è il nostro ambiente naturale di lotta e di propaganda, assieme a quello delle fabbriche, dei campi, delle scuole e delle università. STARE IN PIAZZA Frequentiamola il più possibile per diffondere i messaggi del Partito, per raccogliere le rivendicazioni, le idee, le proposte e le informazioni delle masse e per stringerci sempre più a esse. Al referendum di ottobre 6 il bolscevico / interni N. 20 - 19 maggio 2016 VOTA NO Committente responsabile: M. MARTENGHI (art. 3 - Legge 10.12.93 n. 515) Stampato in proprio alla piduista controriforma piduista alla controri ee fascista senato del senato fascista del PARTITO MARXISTA-LENINISTA ITALIANO Sede centrale: Via Antonio del Pollaiolo, 172a - 50142 FIRENZE Tel. e fax 055.5123164 e-mail: [email protected] -- www.pmli.it