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IL MARGINE
ISSN 2037-4240
Mensile
dell’associazione
culturale
Oscar A. Romero
Anno 35 (2015)
n. 2
IL MARGINE
2
Piergiorgio Cattani
3
Al servizio delle istituzioni
Francesco Ghia
6
«Monsieur, ce n’est pas compliqué…
C’est la guerre!».
Istantanee parigine
Massimo Campanini
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La venerazione del profeta
e il diritto di satira
18
Fraternità e libertà.
Il Comunicato del Comitato interreligioso
della Famiglia Francescana francese
Urbano Tocci
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Comunicazione Non Violenta.
Uno strumento per l’implementazione
del metodo dell’integrazione.
Parte seconda: limiti e usi deviati
Matteo Prodi
27
L’articolo nove, tra natura e cultura
Piergiorgio Cattani
AL SERVIZIO DELLE
ISTITUZIONI
Francesco Ghia
«MONSIEUR,
CE N’EST PAS
COMPLIQUÉ…
C’EST LA GUERRE!»
Massimo Campanini
LA VENERAZIONE
DEL PROFETA
E IL DIRITTO
DI SATIRA
FRATERNITÀ
E LIBERTÀ
Urbano Tocci
COMUNICAZIONE
NON VIOLENTA (2)
Matteo Prodi
L’ARTICOLO NOVE,
TRA NATURA
E CULTURA
FEBBRAIO 2015
IL MARGINE
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Il Margine 35 (2015), n. 2
Al servizio delle istituzioni
PIERGIORGIO CATTANI
C
onfesso subito di essere di parte. Sono molto soddisfatto della nomina
di Sergio Mattarella a Presidente della Repubblica. Ho conosciuto di
persona l’onorevole Mattarella, ricordo pure una telefonata che mi fece
quando era ministro della difesa nel secondo Governo presieduto da Giuliano Amato. Io ero un giovanissimo militante dell’ex Partito Popolare Italiano
(diventato poi Margherita e quindi confluito nel Pd). Eravamo nel 2001, alla
vigilia delle elezioni politiche che videro il trionfo di Berlusconi. Vigeva
ancora il “Mattarellum” e il suo ideatore era stato catapultato in TrentinoAlto Adige come capolista della quota proporzionale per il PPI. Un seggio
sicuro. Di primo acchito non mi era piaciuta quella scelta. Ma il candidato
proposto a livello locale era molto, molto peggio di Mattarella. Ci fu uno
scontro molto duro all’interno del partito. L’allora Presidente della Provincia autonoma di Trento, Lorenzo Dellai, si era opposto fieramente alla candidatura del ministro, arrivando a impedire l’accesso alla sede del partito ai
sostenitori di Mattarella. Addirittura il segretario provinciale del Partito, Vittorio Fravezzi (oggi senatore plaudente e votante il nuovo Presidente della
Repubblica), era giunto a ostacolare quasi fisicamente la raccolta delle firme
necessarie per la candidatura dell’allora ministro della difesa. Questi però
sono vecchi litigi di periferia… Oggi tutto è cambiato, tutti hanno dimenticato.
Lo sguardo del politico siciliano mi colpì subito. Come la sua pacatezza,
i suoi modi gentili, la sua cultura. Il suo modo di parlare. Tutto sempre improntato alla misura e all’ascolto. Stare in silenzio è una delle sue maggiori
virtù. Nel 2008 ha lasciato la politica: da allora si trovano pochissime sue
interviste. Sparuti interventi. Dal 2013, quando è stato nominato membro
della Corte costituzionale, non si rintracciano sue dichiarazioni: come si dice, il giudice “parla con le sentenze”. Da questo punto di vista è davvero
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l’opposto del guascone Renzi e degli odierni politici che blaterano soltanto
per finire in televisione.
Così si è dimostrato essere anche durante la cerimonia di investitura. Pochissimi sorrisi, anzi un volto quasi contrito, carico di responsabilità. Nel
suo primo discorso da Presidente ha citato la seconda parte dell’art. 3 della
Costituzione in cui si parla del compito di «rimuovere gli ostacoli», per garantire l’effettiva uguaglianza dei cittadini. Uno Stato che si articola non
esclusivamente nelle istituzioni politiche, ma negli ospedali, nelle scuole,
nei musei, insomma in tutto quello che è “pubblico”. Molti richiami sono
stati fatti alla società i cui legami devono essere ricostruiti per assicurare
l’unità del Paese.
Il suo è un portamento “nobile”, di quella nobiltà repubblicana caratteristica della famiglia Mattarella. Il padre Bernardo, padre costituente, al governo come sottosegretario o ministro dal 1945 al 1966, è considerato colui
che ha traghettato il separatismo siciliano al porto sicuro della Balena bianca: citò per diffamazione Danilo Dolci che aveva insinuato suoi collegamenti con la mafia. Bernardo Mattarella vinse il processo ma alcune ombre su di
lui non si sono mai dissolte. Forse per dissiparle il figlio Piersanti, divenuto
Presidente della Regione siciliana, si è collocato sul versante di una dura lotta per la legalità: per questo fu ucciso il 6 gennaio 1980. Il taciturno e schivo
fratello Sergio, fino ad allora professore universitario, ne raccolse l’eredità.
Sergio Mattarella divenne così uno dei pochi volti puliti della Democrazia Cristiana nella sua fase peggiore, quella che avrebbe portato al crollo definitivo. Non solo la sua opposizione al regalo a Berlusconi operato con la
famigerata legge Mammì del 1990 (da ministro annunciò le sue dimissioni e
poi si dimise veramente) ma si ricorda anche la sua coerente azione nel partito – negli anni Ottanta appoggiando il fallito tentativo riformista di Zaccagnini, poi negli anni Novanta a fianco di Martinazzoli. Divenne così un
esponente di punta dei “cattolici democratici”. Si distinse in una situazione
difficilissima. Ma non sopravvisse come un relitto. Capì che una fase politica era finita. Nessuna nostalgia dunque. Un lavoro sempre al servizio delle
istituzioni.
Fu di nuovo ministro nel governo D’Alema, al dicastero della difesa.
Anche in questo caso riuscì a mantenere un alto profilo istituzionale. Già il
governo nasceva nei modi peggiori in seguito alla defenestrazione di Prodi
(ma Mattarella fu capace di rivelarsi un “pontiere” con gli “ulivisti”), ma
furono le circostanze internazionali a mettere al centro dell’attenzione il sobrio ministro. Durante la guerra del Kossovo Mattarella si comportò bene,
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Il Margine 35 (2015), n. 2
ovviamente avvallando le scelte interventiste dell’esecutivo (senza presentarsi però in mimetica come hanno fatto suoi predecessori e successori), incontrando anche il fronte “pacifista”. Ricoprì lo stesso incarico con il secondo governo Amato: in questo frangente vide la luce la legge che, in capo a
pochi anni, portò alla fine della leva obbligatoria.
Credo che nessuno discuta l’autorevolezza di Mattarella. Ci si potrebbe
domandare se la sua elezione possa resuscitare la cultura cattolico democratica, un vessillo custodito in questi anni da pochi reduci. Tra i punti di riferimento del nuovo Presidente siamo contenti e orgogliosi di ricordare la
“Rosa bianca” con gli appuntamenti di Brentonico, benché all’epoca il simbolo del rinnovamento democristiano fosse il sindaco di Palermo Leoluca
Orlando.
Certamente l’elezione di Mattarella segna la rivincita di una cultura politica, divenuta una riserva e una miniera per le istituzioni repubblicane. Si
capirà nei prossimi mesi se, all’interno del Partito Democratico, questa sensibilità ritroverà forza. Intanto il vincitore è ancora una volta Matteo Renzi.
Sappiamo che le sue rievocazioni del passato e la sua sbandierata appartenenza al filone politico di Dossetti, Moro, La Pira e appunto Mattarella sono
spesso strumentali. La sua idea di partito è molto diversa da quella degli statisti del passato, e pure i suoi tentativi di riforme destano più di una perplessità. Il giudizio su Renzi rimane sospeso. Per fortuna però ci sarà un Presidente degno, capace di fargli da angelo custode.
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«Monsieur, ce n’est pas
compliqué… C’est la guerre!»
Istantanee parigine
FRANCESCO GHIA
«Tra i fanatici della rivoluzione ci fu chi propose di trasformare Parigi in un mappamondo, di cambiare i nomi di tutte le strade e le piazze e di ribattezzarle con nuovi nomi presi da luoghi e oggetti curiosi
da tutto il mondo. Si cerchi di immaginare tutto questo e, dalla sconvolgente impressione prodotta da una tale immagine ottica e fonetica
della città, si comprenderà la grande importanza dei nomi delle strade». (Walter Benjamin)
P
arigi. È la sera del 7 gennaio. Al mattino, la città ha vissuto una tragedia che difficilmente dimenticherà: un commando di quattro uomini, al
grido di «Allah è grande», ha fatto irruzione nella redazione del settimanale
satirico “Charlie Hebdo”, che aveva pubblicato alcune vignette irriverenti
sul profeta Maometto, e ha ucciso, tra giornalisti, caricaturisti e poliziotti,
dodici persone.
Atterrando all’aeroporto, mi chiedo che città troverò. Spaventata, indignata, offesa? Ora sono sul taxi che mi porterà all’albergo. La sera è mite,
ma umida; la pioggerellina che cade fine sembra solcare il finestrino di lacrime trattenute a stento. Non posso fare a meno di notare il contrasto tra la
malinconia struggente e triste della scena e lo sfavillio esageratamente lussureggiante delle luminarie natalizie che ancora campeggiano lungo i boulevards. Getto un’occhiata furtiva al mio tassista. Mi colpiscono infatti e, lo
devo vergognosamente ammettere, anche un poco inquietano i suoi tratti
inequivocabilmente mediorientali.
«Hélas, Monsieur», abbozzo, «aujourd’hui a été une journée terrible
pour Paris… vraiment terrible…».
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Il tassista è un uomo corpulento, il sedile del suo Peugeot lo contiene a
malapena. Guida a scatti, tradisce un certo nervosismo, come a scaricare una
aggressività vanamente repressa. Le mie parole hanno su di lui l’effetto di
una scossa elettrica. Convulsivamente, abbassa l’aletta parasole sopra il parabrezza: nella taschina abitualmente adibita a riporre il ticket
dell’autostrada trova alloggio una mezza dozzina di immaginette di Nostra
Signora del Libano e di Santa Genoveffa, la patrona di Parigi. Dalla tasca
dei pantaloni estrae un rosario che deve aver visto giorni migliori. Evidentemente è molto usato.
E il tassista (scoprirò poi che si chiama Joseph) comincia in breve, nel
suo francese paratattico e sgrammaticato, a raccontarmi la sua storia. È un
libanese. Cristiano maronita. Il padre e due fratelli uccisi durante la guerra
del 1982. Per lui il musulmano è il nemico, «l’ennemi, tout simplement ça».
«Voyez Monsieur», mi dice, «ormai qui a Parigi è impossibile vivere per un
cristiano. Il est impossible de vivre, il n’y a rien à faire. Moschee, solo moschee. Le chiese? Toujours fermées. Chiuse. Sempre chiuse. Les cloches…
Tu dans l’église ne peux plus faire un coup de cloche. Interdit. E noi dobbiamo chinare la testa, perché il governo tace. Muto. La police? Muette ellemême…C’est fou!».
Con una goffa frase di circostanza provo a togliermi dall’imbarazzo generato in me da una esagerazione tanto sgradevole. «Oui, Monsieur, je sais:
c’est compliqué…». «Compliqué, Monsieur?», mi risponde con tono di
scherno. «Compliqué? Ah non, pas du tout… Monsieur, ce n’est pas compliqué... C’est simple: c’est la guerre! ».
Il deserto intorno alla moschea
E bravo il mio tassista, penso con disagio entrando nell’hotel: devoto alla
Vierge Marie, a Geneviève e a… Marine (Le Pen)…
Ma quel «c’est la guerre!» è una sentenza inappellabile che ha l’effetto
di un pugno nello stomaco. La mattina successiva esco presto. Prima
dell’inizio del convegno voglio camminare lungo le strade parigine, per provare a capire. E scrollarmi di dosso il suono cupo di quella perentoria sentenzia. Non è in fondo questa la città che, come mirabilmente descritto da
Walter Benjamin, ha creato il tipo del flâneur? Di colui che, come colto da
una sorta di strana ebbrezza, cammina a lungo per le strade senza meta?
«A ogni passo l’andatura acquista una forza crescente, la seduzione dei negozi,
dei bistrots, delle donne sorridenti diminuisce sempre più e sempre più irresistibile si fa, invece, il magnetismo del prossimo angolo della strada, di un lontano
mucchio di foglie, del nome di una strada. Poi sopravviene la fame. Egli, il
flâneur, non vuol saper nulla dei mille modi per placarla. Come un animale ascetico si aggira per quartieri sconosciuti, finché sfinito crolla nella sua camera, che
lo accoglie estranea e fredda»1.
Così, vagando anch’io come un affamato animale ascetico, mi ritrovo,
quasi senza volerlo, nei pressi della Grande Mosquée. Incastonata in un
quadrilatero di vie, non la si può non notare. Si staglia in tutto il suo biancore, elegante e al tempo stesso austera nel suo minareto alto oltre trenta metri.
Ma quel che mi colpisce, stamane, è l’ideale cordone di isolamento che le è
stato eretto tutt’intorno. Nelle vie che la costeggiano, ferve già la vita della
grande città che si prepara al nuovo giorno. La gente corre, ancora per lo più
insonnolita, verso i luoghi di lavoro. Le preoccupazioni, se ci sono, e in questi giorni eccome se ci sono!, bisogna lasciarle alle spalle. Vista dall’alto,
Parigi, al pari di ogni metropoli, apparirebbe ora come un formicaio. Gente
che corre frenetica, avanti e indietro, senza posa. Il quadrilatero attorno alla
Grande Mosquée, invece, no. È spettralmente deserto. Non si incontra anima viva. Come se fosse suonato il coprifuoco.
Sembra quasi che l’isolamento fisico attorno alla Grande Mosquée sia il
correlato simbolico di un processo collettivo di rimozione.
Posso considerare il musulmano l’ennemi par excellence, come fa il tassista Joseph: semplificazione insopportabile sotto il profilo razionale, ma
psicologicamente rassicurante. La paura, ossia il terrore che provo di fronte
a qualcosa che presumo di conoscere e al quale ho comunque dato un nome,
è pur sempre meglio dell’angoscia, ossia il terrore che provo di fronte a
qualcosa di ignoto e senza nome.
Oppure, posso rimuovere il problema, sperando, come nella pubblicità di
un “miracoloso” olio d’oliva di anni fa, di svegliarmi una bella mattina e accorgermi che ciò che m’assillava in sogno (nel caso della pubblicità era la
pancia) ora non c’è più… Dileguato come la foschia notturna all’apparire
del primo sole…
1
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8
W. Benjamin, I “passages” di Parigi, a cura di R. Tiedemann, ed. it. a cura di E. Ganni,
vol. I, Einaudi, Torino 20073, p. 466.
Agnolotti e cous-cous
La gente di Parigi che corre indaffarata verso le occupazioni quotidiane
pare aver scelto la soluzione all’olio di oliva. Rimuoviamo. Magari domattina ci svegliamo e scopriamo che è stato solo un brutto incubo.
Ma la politica no. Monsieur le Président François Hollande ha il volto
visibilmente teso quando compare in televisione. Con toni incomparabilmente più composti e raffinati nei modi – in fondo, come mi spiegheranno i
miei interlocutori francesi, privi di timore reverenziale verso la più alta carica dello Stato, monsieur le Président, prima, pour ainsi dire, di tomber malade par la syndrome de Clérambault [in pratica, prima di diventare erotomane… mi sento di doverli rassicurare: «Oui, je sais, on connait bien le
problème en Italie aussi …»], ha pur sempre insegnato a Sciences Po! –, tuttavia non dissimili nella sostanza da quelli del tassista Joseph, Hollande
chiama a raccolta l’intera Europa. Mes vieux, è la sintesi del suo messaggio,
ciò a cui abbiamo assistito non è un attacco contro la Francia soltanto; no, è
un attacco contro la civiltà e la cultura europea, anzi occidentale. Insomma,
anche per Hollande ce n’est pas compliqué: c’est la guerre…
Lo confesso. Fin da quando nel 1996 uscì il famoso libro di Samuel
Huntington, la tesi del «clash of civilisations» mi ha sempre persuaso molto
poco. Troppo semplificatoria. Troppo, appunto, all’insegna del «ce n’est pas
compliqué». Che cosa significa «scontro di culture»? La cultura di un singolo, di un gruppo, di un popolo, di una nazione è qualcosa di monolitico o
non è piuttosto qualcosa di proteiforme, di sempre mutevole? Esiste una sola
definizione di Occidente, di Oriente, di Europa, di Asia, di mondo arabo? O
non è forse vero che tutte queste entità si dicono in molti modi? Che l’islam,
al pari del cristianesimo o dell’ebraismo non esistono in quanto tali e in
forma assolutamente pura, e che esistono piuttosto infiniti modi, anche
estremamente diversi tra loro, di intendere l’essenza islamica, cristiana o
ebraica?
Se guardo alla mia storia personale, penso che, pur essendo un cattolico
praticante, potrei senz’altro trovare maggiori affinità nel mio modo di vivere
la dimensione del religioso con un mistico sufi, che si riconosce nella galassia dell’islam, che non con un legionario di Cristo, benché quest’ultimo si
professi cattolico altrettanto quanto me. E ciò sia detto senza il minimo indulgere civettuolo a forme più o meno estetizzanti di sincretismo new age…
La cultura, intesa nel senso di civiltà fossilizzata in una definizione immutabile, è spesso una mera astrazione, una semplificazione a uso e consumo so-
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lo dei pigri. Nel concreto, non esiste una cultura che non sia sottoposta a un
processo di continuo rinnovamento, di trasformazione, di “imbastardimento”
meticcio. Per questo, è sempre opportuno diffidare di chi parla con troppa
disinvoltura di «identità culturale». Infatti, ogni operazione di proclamazione dell’identità non può che essere, sotto il profilo storico, posticcia. È solo
al termine di un processo culturale che abbia esaurito la sua spinta di rinnovamento che posso fissarne l’identità; finché esso è in fieri, in movimento,
le culture si mescolano e ogni operazione di questo genere è destinata al fallimento.
Nel suo bel libro Eccessi di culture, l’antropologo Marco Aime racconta
a mo’ di aneddoto un episodio avvenuto in una scuola materna di San Salvario, un quartiere di Torino ad alto tasso di immigrazione straniera. Le maestre avevano deciso, per una festa multiculturale e multietnica, di preparare
il cous-cous con i bimbi della scuola. Si procurano la ricetta “originale” e si
mettono al lavoro. Dopo averne mangiato, un bambino maghrebino dice:
«Sì, è buono, ma quello che fa la mia mamma è più buono. Lei lo prepara
così: uno strato di cous-cous, uno di agnolotti, un altro di cous-cous, un altro
di agnolotti…». Commenta significativamente Aime: «negli anni venti Robert Lowie, celebre antropologo americano, sosteneva che la cultura era un
insieme di toppe e stracci: oggi, quel bambino di San Salvario ha forse disegnato, con le sue parole, un’altra bellissima metafora della cultura»2.
Il cinismo e la paura
La politica si avvale spesso dei cortocircuiti. Quello dello «scontro di civiltà» paventato da Monsieur le Président è, plasticamente, uno di questi.
Perché?
Che in questa scelta vi sia – quanto consapevolmente non è qui il caso di
indagare – del cinismo, mi pare indubbio e, del resto, piaccia o non piaccia,
il cinismo è pur sempre un importante strumento di costruzione del consenso
politico. Del resto, lo diceva bene un aforisma di Cioran (riferito in quel caso a Talleyrand): «quando si è praticato il cinismo solo a parole, si è pieni di
ammirazione per qualcuno che l’ha tradotto magistralmente in atti»3.
2
3
M. Aime, Eccessi di culture, Einaudi, Torino 2004, p. 136.
E.M. Cioran, Confessioni e anatemi, tr. it. di M. Bortolotto, Adelphi, Milano 2007, p.
67.
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La “chiamata alle armi” di tutta l’Europa invocata da Monsieur Hollande
contro il rischio rappresentato dal terrorismo islamico ha un forte e incontrovertibile impatto emotivo e, al pari di tutti i discorsi emotivi, distoglie dal
dovere di fermarsi a pensare e ragionare. No, mes amis, non c’è tempo per
pensare: «c’est la guerre!».
Bizzarro e – se non ci trovassimo di fronte a una tragedia – forse anche
ironico che tutto ciò avvenga proprio in Francia. Nel paese cioè che, negli
anni settanta e ottanta del Novecento, ospitava allegramente come rifugiati
politici, nel nome dell’inderogabile principio costituzionale della liberté di
opinione e di pensiero, persone che nella loro patria di origine (l’Italia, per
esempio…) si erano rese protagoniste di attentati altrettanto vili e sanguinosi
quanto quello contro “Charlie Hebdo”…
Certo, potremmo qui un poco sbrigativamente cavarcela col Lucrezio del
De rerum naturae: facile osservare una tempesta quando sei sulla riva tranquillo e al sicuro e sai che quella tempesta non ti colpirà. Ben diversa è invece la prospettiva quando, anziché sulla riva, ti trovi proprio nel bel mezzo
dei marosi.
Ma forse c’è una spiegazione più complessa, che ha a che fare con la
paura. Si può predicare la tolleranza e la comprensione dell’altro quando si
teme che il mio interlocutore politico e culturale non sia, né possa diventare,
tollerante e comprensivo?
Sovviene al riguardo una barzelletta raccontata dal filosofo sloveno Slavoj Žižek e sulla quale ha di recente richiamato la mia attenzione la mia
amica Lorena. Un uomo, racconta dunque Žižek, è in cura presso una clinica
psichiatrica perché affetto da un grave delirio psicotico che gli fa credere di
essere un chicco di grano. La terapia di ricostruzione dell’identità è lunga,
faticosa e complessa, ma sembra alla fine sortire buon esito. «Caro amico»,
dice lo psichiatria all’uomo, «Lei ora è definitivamente guarito e può guardare il mondo con occhi finalmente rasserenati». L’uomo viene dunque dimesso dalla clinica. Ringrazia i medici e il personale, e se ne va. Ma appena
messo il piede fuori dalla clinica, fatti pochi metri, ritorna di corsa nei rassicuranti locali. «Che succede, amico mio?» gli chiede lo psichiatra. «Subito
fuori di qui, ho visto un pollo che attraversava la strada e ho avuto paura che
mi mangiasse». «Ma, amico mio, Lei è guarito. Lei ora sa di non essere un
chicco di grano». «Certo, dottore, io sono guarito e so di non essere un chicco di grano. Ma lo sa anche il pollo?».
L’altro da noi
Quando, il 5 giugno 1968, Robert Kennedy fu assassinato a Los Angeles
dal giordano Sirhan Bishara Sirhan, nessuno all’epoca sostenne che
l’assassino fosse animato da motivazioni religiose, né pensò che in gioco vi
fosse uno scontro tra cultura occidentale e mondo arabo. Per contro, se oggi
accadesse un fatto simile, se cioè una persona proveniente da un paese arabo
uccidesse un politico americano o europeo, tutti affermerebbero senza tema
di smentita, e anche senza attendere eventuali rivendicazioni, che si tratterebbe di un gesto ispirato dal fondamentalismo islamico4.
Nelle società odierne le notizie corrono veloci, a una velocità infinitamente superiore a quella dell’emerodromo Fidippide. Appena succede un
evento mediaticamente rilevante, subito è disponibile on line la foto o il filmato che un testimone “in diretta” ha provvidenzialmente postato. Ma la
velocità e la fretta della trasmissione della notizia mal si conciliano con la
calma necessaria dell’analisi. Servono, al contrario, teorie di immediato
consumo, di “pronta beva”, direbbero gli enologi.
La teoria dello «scontro di civiltà» è appunto una di queste: una teoria
fast-food (non a caso è stata concepita proprio nel paese che il fast-food lo
ha inventato…). Ha un grande vantaggio dalla sua parte, che la rende politicamente assai fungibile: consente di individuare immediatamente chi è il
“nemico”. Come sappiamo dalla psicologia sociale, un gruppo, se ha un
“nemico” a cui contrapporsi, non solo si sente più forte, ma rinsalda anche le
ragioni della coesione interna. Senza troppi distinguo, che disorientano
l’opinione pubblica, il “nemico”, dunque, nella teoria dello «scontro di civiltà», è lì, agevolmente a portata di mano. Stilizzato e imprigionato nello stereotipo mediatico, il “nemico” è colui che – chiunque, anche un bambino,
che diamine!, se ne accorge… – è inevitabilmente e strutturalmente diverso
da noi. Non appartiene al nostro mondo, al nostro modo di pensare, alle nostre tradizioni, alla nostra civiltà. È l’altro da noi.
Nihil novi sub sole. Il fenomeno era già noto presso gli antichi greci. I
quali, di fronte al dilagante fenomeno del contatto con popolazioni straniere,
diverse da loro per usi, costumi, tradizioni e religione, non trovarono di meglio, allo scopo di definirle entro un nome collettivo, di richiamarsi al primo,
4
11
Ricavo l’esempio, e la riflessione che ne consegue, da R. Gritti, La politica del sacro.
Laicità, religione, fondamentalismi nel mondo globalizzato, Guerini e associati,
Milano 2004, pp. 9ss.
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più evidente elemento della loro diversità: la lingua. Queste popolazioni, infatti, non parlavano la lingua armoniosa e melodiosa dell’Attica; emettevano
piuttosto suoni disarticolati, sgraziati e cacofonici come lo stridulo gracchiare degli uccelli. Le lettere si succedevano, all’ascolto, secondo una ritmica
incerta e spezzata come quella di chi, anziché parlare, balbetta. E li chiamarono proprio in tal modo: barbaroi, ossia balbuzienti. Fu così che nacquero i
“barbari”.
La storia ci avrebbe poi insegnato che, in realtà, le epoche connotate dalla presenza dei barbari, lungi dall’essere automaticamente momenti di regressione della civiltà, costituiscono piuttosto l’occasione di una crescita,
cagionata dal confronto con nuovi modelli culturali, nuove forme artistiche,
nuove idee filosofiche. Ma, inevitabilmente, da parte di chi si vede “scippare” il monopolio della civiltà, scattano i meccanismi di difesa. Le idee, gli
usi, le tradizioni e i costumi dei barbari diventano subito sinonimo di rozzezza; persino le loro diverse scelte religiose, anziché costituire occasione di
confronto per una ulteriore ricerca, vengono ‘bollate’ come un pericoloso
veleno da evitare, combattere e sconfiggere: sono “eresie” e su di esse, e su
coloro che le professano, senza se e senza ma, «anathema sit»…
A chiusura ermetica
È la sera dell’8 gennaio. Ho appena tenuto la mia conferenza all’École
Normale Supérieure. Esco, sono di nuovo in strada. Passo davanti alla sede
della Fondazione intitolata a Pierre e Marie Curie, benemerita finanziatrice
di miriadi progetti di ricerca, uno dei santuari della venerazione autentica
che la Francia nutre verso il progredire della cultura e della scienza. Fatte
poche centinaia di metri, eccomi nel cuore del Quartiere Latino, di fronte al
Pantheon, la “cattedrale” di quella religione laica così peculiarmente tipica
dei nostri cugini d’Oltralpe5. Una religione fondata sul dogma della laïcité
5
Il Pantheon, progettato in stile neoclassico, a metà del XVIII secolo, da Jacques Germain
Soufflot, nasce originariamente, sotto Luigi XV, come chiesa intitolata a Santa Genoveffa, viene “laicizzato” nel 1789 dal governo rivoluzionario, “ri-consacrato” come
basilica da Luigi XVIII nel 1821, infine “ri-laicizzato” nel 1885 in occasione della solenne sepoltura di Victor Hugo e quindi destinato a mausoleo degli spiriti magni. In
esso, in ossequio alla spirito laico e assimilazionista che ne ha ispirato la trasformazione in mausoleo, riposano una a fianco dell’altra, ad esempio, le spoglie mortali di
Voltaire e Rousseau che, in vita, non potevano essere definiti propriamente amici…
13
assimilatrice e immunizzatrice, nella quale, come in fondo avveniva anche
per il pantheon romano, possono trovare ospitalità tutti i diversi credo religiosi a patto che questi restino nel dominio del privato e non vengano a interferire con la sfera pubblica.
I nomi delle strade, sostiene Benjamin nel Passagenwerk, sono importanti. La sede del settimanale “Charlie Hebdo”, in cui è avvenuto il sanguinoso attentato, si trova in rue Appert. Nicolas Appert (1749-1841) è in Francia uno degli inventori più famosi. È colui che, ben prima che si apprendessero le tecniche di sterilizzazione, ha scoperto un metodo ingegnoso per la
conservazione dei cibi in recipienti di vetro a chiusura ermetica. La laïcité
assimilatrice e immunizzatrice è una sorta di trasferimento del metodo Appert al dominio del religioso. Si prendono i diversi credo religiosi e li si ripone, idealmente, in un contenitore ermetico. Il contenitore è a chiusura stagna: i credo religiosi al suo interno non possono né contaminarsi con
l’ambiente esterno (fuor di metafora: la sfera pubblica), né contaminarlo. Il
contenitore è di vetro: dall’esterno, dunque, si può agevolmente controllare
lo stato di conservazione di ciò che è contenuto all’interno.
Non c’è che dire. Il fatto che l’attentato a “Charlie Hebdo” sia avvenuto
proprio in rue Appert detiene una forte valenza evocatrice e simbolica. È
come se, tutt’all’improvviso, fosse saltato il tappo della chiusura presuntivamente ermetica della laïcité assimilatrice…
*
Sabato 10 gennaio. Il convegno è finito, è tempo di tornare in Italia.
Domani, in una sorta di grande rito purificatorio collettivo, ci sarà la manifestazione di solidarietà nazionale e di ritrovato orgoglio patriottico (mai
come in queste ore la Marsigliese rinnova i suoi antichi fasti di gloria)
all’insegna del «nous sommes tous Charlie»…
All’aeroporto (sono a Beauvais, in Picardie, a non molti chilometri di distanza dal supermercato kosher nel quale sono state barbaramente uccise
quattro persone) i controlli sono più accurati che mai. Non c’è valigia che
non venga impietosamente aperta, sezionata e scandagliata. Per non essere
da meno, come cantava Jannacci, sacrifico sull’altare dei controlli per la sicurezza un pericoloso tubetto di dentifricio, seminuovo. In sala d’imbarco
una giovane coppia italiana commenta costernata i tragici fatti degli ultimi
tre giorni: «certo, rispetto alle altre volte, l’atmosfera a Eurodisney non era
più la stessa…».
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Il Margine 35 (2015), n. 2
La venerazione del profeta
e il diritto di satira
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MASSIMO CAMPANINI
A
fferma il Corano che «Voi [si riferisce agli uomini tutti] avete nel Messaggero di Dio [cioè Muhammad/Maometto] un esempio buono per
chiunque speri in Dio e nell’ultimo giorno e molto menzioni Iddio» (33,21).
Dunque, Muhammad costituisce il punto di riferimento per l’azione del credente, a tal punto che la sua imitazione risulta indispensabile per conseguire
la salvezza eterna. Il grande teologo medievale al-Ghazali (+ 1111) diceva
che l’imitazione del Profeta purifica l’esteriorità del credente per renderlo
idoneo alla purificazione interiore dell’anima. Così bisogna fare come il
Profeta anche nei gesti quotidiani della vita, come lo scendere dal letto o il
tagliarsi le unghie o il non mangiare cibi che lui non consumava. E non bisogna sorridere di ciò, ammoniva al-Ghazali, perché nessuno può pretendere
di essere puro dentro se non osserva un comportamento esteriore adeguato.
E siccome Muhammad è stato l’uomo perfetto, si capisce quanta importanza
abbia la sua sunna (ovvero il suo modo di essere e di pensare).
La venerazione per il Profeta ha raggiunto nell’Islam punti estremi. Alcuni mistici lo hanno descritto come il compasso che equilibra
l’ordinamento cosmico. Vi è una tradizione mistico-teologica secondo la
quale dalla pre-eternità esiste una sostanza muhammadica che costituisce in
certo senso il modello della profezia, cui tutti gli altri profeti riconosciuti
dalla tradizione islamica (come Adamo, Noè, Abramo, Mosè, Gesù…) si
sono conformati. È importante ricordare che queste esagerazioni, che arrivano quasi alla divinizzazione di Muhammad, non sono coraniche, ma sono
state elaborate nei secoli dalla pietà musulmana. Il Corano, da parte sua, dice più volte che Muhammad è solo un uomo con capacità e abilità ordinarie
*
Originariamente pubblicato in “Azione”, settimanale di informazione e cultura della
Cooperativa Migros Ticino. Per gentile concessione dell’editore e dell’autore.
15
(per esempio 7, 188 e molti altri luoghi ancora), sebbene abbia avuto il dono
straordinario di ricevere in modo diretto la rivelazione. I musulmani, sulla
base di un oscuro accenno coranico (capitolo 7, 157-158), credono che Muhammad fosse analfabeta e ciò per dimostrare la veridicità della sua missione profetica: com’è possibile, infatti, che un uomo analfabeta abbia potuto
ricevere e recitare un Libro così santo e perfetto come il Corano se non per
miracolo di Dio? La stessa festa del compleanno del Profeta (mawlid), oggi
molto sentita dai musulmani, fu istituita tardi, su imitazione del natale cristiano, e non esisteva nei primi tempi dell’Islam.
Quanto detto spiega come mai molti musulmani si possano sentire profondamente feriti e offesi da vignette satiriche che dileggiano il loro Profeta.
Da una parte, tengo a precisare che a mio avviso il dileggio dei personaggi
sacri delle altre religioni non rappresenta in alcun modo “libertà di pensiero”. Dall’altra, un musulmano non si permetterebbe mai di dileggiare Gesù
Cristo, proprio perché lo ritiene un grandissimo profeta inserito nella storia
della rivelazione.
La questione è ulteriormente complicata dal divieto di raffigurare la persona di Muhammad. È ben noto che l’Islam, come del resto l’Ebraismo,
proibisce di farsi rappresentazioni di Dio: disegnare Dio come ha fatto Michelangelo nella Cappella Sistina è, per un ebreo o un musulmano,
un’empietà blasfema. Nell’Ebraismo si arriva al punto di vietare la pronuncia del nome stesso di Dio (il tetragramma YHWH) sostituendolo con altre
espressioni lecite. Per analogia, la regola è che neppure Muhammad possa
essere raffigurato. Questo non vuol dire che nell’Islam non ci sia stata una
tradizione iconica che ha voluto rappresentare il Profeta. Ma caratteristicamente si tratta di una tradizione tarda e non araba (oserei dire non semitica,
tenendo conto che arabi ed ebrei sono entrambi semiti). Sono stati infatti
prima i persiani e poi i turchi ad ammettere, soprattutto nelle loro miniature,
la possibilità di raffigurare il corpo di Muhammad. Solo il corpo, però, non
la testa, il volto, che viene sostituito da una fiamma. Oggidì, in alcuni paesi
musulmani come l’Iran, circolano “immaginette” che riproducono un presunto, bellissimo, volto di un Muhammad giovane e sorridente. Naturalmente, nessuna raffigurazione del genere è ammessa in moschea, le cui pareti
possono ospitare solo i grafemi artistici della calligrafia araba, e questo, ovviamente, non solo per gli arabi, ma anche per i persiani e i turchi. Questa è
anche la ragione per cui la cinematografia musulmana, pur assai prolifica,
dall’Egitto all’Iran, non abbia mai girato un film sul Profeta, laddove moltissime pellicole sono state girate in Occidente con Gesù, regolarmente mostra-
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Il Margine 35 (2015), n. 2
to, come protagonista. Un’unica volta un regista siriano ha osato raccontare
al cinema la vita di Muhammad (il film si intitola Il messaggio), ma, a parte
il fatto che la pellicola sostanzialmente non ha circolato nei paesi musulmani
ed è stata vista da pochissime persone per una sorta di naturale ritrosia, il
regista ha dovuto escogitare trucchi diversi per non mostrare in alcun modo
la persona del Profeta.
Ancor di più, credo, si comprende perché la sensibilità musulmana riguardo alle vignette satiriche sia stata provocata. L’irrisione del Profeta è
una blasfemia che offende sanguinosamente la coscienza del credente. Ciò,
è ovvio, non giustifica né il terrorismo né l’omicidio, ma può costituire un
motivo di profonda rabbia per un estremista, già convinto, a ragione o a torto, che l’Occidente lo colonizzi e lo sfrutti.
Peraltro, è difficile trovare giustificazione per la punizione della blasfemia nei testi sacri. Innanzi tutto, bisogna ricordare che la bestemmia è inesistente nell’Islam; è un non-problema. Nessuno, nemmeno un ateo convinto,
si permetterebbe di bestemmiare il nome di Dio o di Muhammad. La pronuncia continua, ritmata, del nome di Dio (Allah) è anzi un mezzo assai praticato per entrare in comunicazione spirituale con Lui. Si spiega così perché
il Corano (almeno per quanto io lo conosco – ma il Corano è un oceano senza limiti, come dice al-Ghazali) non si occupa neppure di denunciare e sanzionare la blasfemia. Piuttosto, il Corano si occupa più di una volta di denunciare l’apostasia, l’abbandono della religione. Ma anche in questo caso,
non prevede alcuna punizione “fisica”. Sarà Dio nell’aldilà, al momento del
giudizio, a sanzionare l’apostata con la punizione che vorrà. Alcuni dottori
conservatori, già nel Medioevo, hanno invece deciso che l’apostasia sia passibile di pena di morte: ma appunto, non vi è alcuna base coranica per giustificare una simile prescrizione. E lo stesso vale per la blasfemia. L’estremista
che pretendesse di punire con la morte l’autore blasfemo di una vignetta satirica non troverebbe conforto dottrinale nel Corano.
Fraternità e libertà
Il Comunicato del Comitato interreligioso
della Famiglia Francescana francese*
Q
uanto è accaduto lo scorso 7 e 9 gennaio 2015 nel nostro paese, nella
sua capitale, Parigi, in due luoghi simbolici, l’uno dell’esercizio
estremo della libertà d’espressione e l’altro della comunità ebraica, non può
essere in nessun caso giustificato o scusato. Si può trovare che un certo
umorismo non è affatto divertente, o anche francamente offensivo, ma questo non giustifica l’assassinio, che è la sola vera profanazione religiosa, specialmente, come in questo caso, quando avviene in nome di Dio.
Quanto all’antisemitismo, questa è una piaga da combattere in tutte le
sue forme e con tutte le nostre forze. Noi siamo solidali con tutte le vittime e
denunciamo la violenza ovunque essa si eserciti.
Dall’umorismo ebraico fino ai racconti di Nasreddin Hodja (Joha in
Africa del Nord)1, senza dimenticare Golia2, la dimensione tradizionale
dell’autoderisione viene esercitata nelle società o comunità relativamente
omogenee, dove l’identità religiosa è sufficientemente affermata e stabile.
Non prendersi troppo sul serio fa parte del cammino spirituale. L’umorismo
è indispensabile per combattere ogni forma di religiosità, o meglio di bigotteria, nella quale l’amore dell’Uno rischi di trasformarsi nell’odio dell’altro
– l’odio della diversità. Il fondamentalismo ne è il nemico principale.
Ma la caricatura, l’ironia, la derisione non possono esercitare il loro effetto pedagogico, salutare, incisivo, che attribuisce loro un valore, se non in
un contesto fraterno. Per noi, membri del Comitato interreligioso della famiglia francescana, il rispetto assoluto delle persone, nella loro storia e nella
*
Riceviamo e volentieri pubblichiamo. Traduzione dal francese di p. Cesare Vaiani ofm,
S. Antonio di Milano. Il titolo è redazionale.
1
Nasreddin fu un sufi vissuto nell’attuale Turchia nel XIII secolo; saggio filosofo popolare, è famoso per i suoi racconti spesso buffi, le battute umoristiche, tanto da diventare
un personaggio simbolico dell’arguzia popolare (n.d.t.).
2
Si fa riferimento all’Apocalisse di Golia, un testo satirico latino del XII secolo, con una
feroce satira della gerarchia ecclesiastica del tempo e dei suoi vizi (n.d.t.).
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18
Il Margine 35 (2015), n. 2
loro identità, viene prima di ogni altra considerazione, compresa quella di
una pretesa libertà che crede che tutto le sia permesso.
Come dice il nostro motto repubblicano, la fraternità equilibra la libertà
e a sua volta le dona la sua ragion d’essere e il suo ambito di esercizio, che è
infinito.
Gli assassini del 7 e 9 gennaio 2015 sono figli della nostra Repubblica,
accolti, allevati, educati in una nazione che oggi è in lutto e indignata, e speriamo a doppio titolo. Perché al di là di questa indignazione, bisognerà riflettere tutti su un esercizio della libertà più responsabile, sulla presa in carico, nel nostro corpo sociale, delle identità rese fragili non soltanto da una
concezione angusta di laicità, ma soprattutto da disuguaglianze sociali crescenti, fonte di risentimento, di violenza sorda di squilibri insopportabili.
Era facile puntare il dito sul terrorismo venuto dall’estero. Che cosa dire di
quello nato nelle nostre famiglie, nelle nostre scuole, nelle nostre università?
Questo dramma ci rimanda alla costruzione modesta, paziente e responsabile di un nuovo vivere insieme.
Dapprima, molto concretamente, giorno dopo giorno, parola dopo parola, pagina dopo pagina, gesto dopo gesto.
In un secondo momento attraverso l’elaborazione di una visione comune
del nostro destino collettivo.
Il mondo attende da un paese come il nostro che inventi ancora, anche
attraverso il mezzo della caricatura e dell’autoironia, ma soprattutto grazie al
suo motto e alle sue risorse spirituali, in senso ampio, una maniera di vivere
insieme in pluralità che lo trascenda e mostri la via. Noi crediamo che questo è possibile!
Il C.I.F.F. sostiene e invita a partecipare a tutte le manifestazioni di domenica 11 gennaio in tutta la Francia in memoria delle vittime di questi
odiosi assassinii.
Il Comitato interreligioso della famiglia francescana: Amina Maret, musulmana
della Scuola Sufi internazionale, Le Plessis-Trévise; Christine Delmas, membro della
Fraternità Francescana Secolare, Paris; Emmanuel Ollivier, buddista di tradizione
zen, Issy les Moulineaux; Gabriel Hagaï, rabbino cabbalista e universitario, Paris;
Gabrielle Marguin, Suora francescana della propagazione della fede, Francheville;
Jasvir Singh, sikh, Bobigny; Jean-Marie Landrin, frate minore francescano, Fontenay
s/bois; Justine Ramon, membro del Mouvement Juif Libéral de France, Torcy;Karim
Ifrak, musulmano universitario, Paris; Lucette Anthonioz-Blanc, buddista di tradizione tibetana, Lentigny; Michel Dubois, buddista di tradizione zen, Montreuil; Pascal Aude, frate minore cappuccino, Villeneuve-Saint-Georges; Rany Rouabah, musulmano della confraternita Al ‘Alawiya, Yerres.
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Comunicazione Non Violenta
Uno strumento per l’implementazione
del metodo dell’integrazione.
Parte seconda: limiti e usi deviati*
URBANO TOCCI
M
algrado l’entusiasmo espresso nella prima parte di questo articolo,
non credo sia necessario chiarire che la Comunicazione Non Violenta
non è la chiave del paradiso e praticarla non risolverà tutti i nostri problemi.
È una tecnica (neanche particolarmente innovativa, essendo la sistematizzazione di una serie di altre tecniche e concetti già noti) e come tale di per sé
non è né buona né cattiva e può essere usata per raggiungere fini opposti. È
sicuramente un potente mezzo di analisi di sé e del mondo e quindi è importante conoscerlo per poter quantomeno individuare quando è usato contro di
noi.
Quello che abbiamo imparato da Wikileaks (di cui oggi casualmente non
si parla più) è l’importanza fondamentale che i servizi danno ai profili psicologici dei proprî alleati e avversari per poterli meglio manipolare, spessissimo facendo leva sui loro punti di forza e sulle loro attitudini trasformandole
in altrettante debolezze, in quella che possiamo definire un’applicazione dei
principi del judo alla vita. La stragrande maggioranza dei cablogrammi resi
pubblici nello scandalo contenevano infatti informazioni su episodi al limite
del pettegolezzo, episodi a prima vista poco importanti ma indispensabili
come base per ricavare i profili psicologici dei personaggi coinvolti. Analo*
Seconda parte dell’introduzione al workshop di Comunicazione Empatica tenuto da Meri Ciuti nel corso della XXXIV Scuola di Politica della Rosa Bianca: Ri-amare la politica, Ribelli e resistenti di fronte alle sfide dell’iniquità (Terzolas, agosto 2014). La
prima parte è stata pubblicata su “Il Margine”, 25 (2015), n. 1. I contenuti di
quest’articolo riflettono unicamente posizioni e convinzioni personali dell’autore, e
non possono in alcun modo essere ricondotte né all’Unione Europea né alla Direzione
Generale Ricerca ed Innovazione.
20
go approccio, appoggiandosi alla psicologia sociale, è quotidianamente riservato alle società civili e alle loro articolazioni: partiti politici, movimenti,
religioni, stati…
La CNV è un’arma pericolosa se utilizzata a scopi impropri. Educando
alla comprensione dei bisogni dell’interlocutore facilita una rimodulazione
della loro scala di priorità o, nel caso che fra i varî bisogni non ce ne sia alcuno adatto al manipolatore, aiuta l’induzione artificiale di nuovi pseudobisogni abbassando le difese psicologiche della controparte.
Un esempio paradigmatico
Un esempio paradigmatico che gran parte di noi ha sperimentato in prima persona è stato l’interessantissimo “intervento promozionale” di Elsa
Fornero a favore della sua futura riforma delle pensioni durante la XXXI
scuola di politica della Rosa Bianca (“Il diritto al lavoro va al mercato”,
Terzolas, 2011).
Analizziamo ora brevemente come il ministro in pectore nel suo intervento abbia seguito le quattro fasi della CNV descritte nella prima parte di
questo articolo: osservazione – analisi dei sentimenti – analisi dei bisogni –
espressione delle richieste.
1) La futura ministro è partita dall’osservazione della realtà: il rilevante
peso della spesa pensionistica sul bilancio dello stato e le presunte differenze fra i pigri italiani ed i virtuosi tedeschi
2) Ha continuato rilevando i sentimenti d’inquietudine, preoccupazione
per il futuro dei nostri figli e vergogna al confronto con i nostri diligenti vicini, sentimenti che sia la Fornero che noi provavamo nei confronti della situazione appena descritta
3) Ha analizzato i bisogni, solleticando il nostro bisogno di essere più
bravi degli altri e farci carico dei problemi della collettività. «Noi non siamo
come la destra che non ha a cuore né i bisogni del paese né la sua immagine
internazionale», ci è stato più volte ripetuto, «noi siamo migliori perché scegliamo di sacrificarci1 [o sacrificare i nostri elettori] per la collettività».
4) Ha chiuso, in perfetto stile CNV, con precise richieste/azioni. Nel caso specifico quella di essere moderni, rottamare le nostre prevenzioni ideologiche ed appoggiare i progetti di riforma già da tempo pianificati dal futuro governo Monti.
Ovviamente la Fornero ha abusato dell’impalcatura della CNV facendo
tutte quelle cose che Wendell Johnson e Rosemberg raccomandano di non
fare se si vuole avere una comunicazione mirata alla crescita e alla creazione
di fiducia e quindi a risolvere i problemi nel lungo periodo invece che
all’ottenimento di effimere vittorie foriere solo di nuovi, più violenti, conflitti. Parlando del peso della spesa pensionistica l’ha definita insostenibile,
con-fondendo osservazione e giudizio, ipotecando così l’opinione
dell’ascoltatore. Ha fatto paragoni con i tedeschi virtuosi, generando non
solo rabbia nei loro confronti, ma prescrivendoci obiettivi imposti dall’alto,
mentre per la crescita di un individuo come di una collettività gli obiettivi
devono essere tarati sui propri bisogni (di cui bisogna essere coscienti) e non
dall’invidia nei confronti degli altri2 e dalla paura di essere puniti se ci si
dimostra più deboli.
La Fornero ha in ogni passaggio del suo discorso praticato quella che in
gergo scientifico viene chiamata selective evidence, in cui si prendono in
considerazione solo i dati che corroborano le tesi da dimostrare3, e questo
sia nei passaggi appena esaminati che nella scelta di sentimenti, bisogni e
soluzioni da analizzare, non cercando di far emergere i nostri veri sentimenti
e bisogni, ma forzando un appiattimento dei nostri sui suoi4. Anche le richieste erano solo apparentemente negoziabili, essendo le condizioni al contorno da lei sapientemente scelte così stringenti da lasciare “purtroppo” pochissimi margini di libertà. La strada percorsa in questi casi è allora quella
inversa a quella della CNV, un percorso in cui, come in un concorso meritocratico truccato, si parte dalle conclusioni e si pongono premesse ad hoc per
2
3
1
Parlare del ruolo dell’educazione cattolica preconciliare, magari riscaldata e servita in
salsa wojtyłiana, nel renderci facile preda della retorica della Fornero ci porterebbe
troppo lontano.
21
4
Leggere in proposito l’ironico Dan Greenburg, How to Make Yourself Miserable, Random House Trade Paperbacks, 1976 o la conclusione sulla parabola del vignaiolo
nell’articolo di Matteo Prodi: Che fare della ricchezza? Alcune riflessioni sul libro di
Thomas Piketty, Il capitale nel XXI secolo, “Il Margine” 34 (2014), n. 9.
Si osservi per inciso che la Germania ha abbassato con ampissimo consenso l’età pensionabile per i lavori usuranti a 63 anni ed allargato i diritti pensionistici alle casalinghe, notizie che a quanto mi risulta non sono state molto pubblicizzate dalla stampa
italiana.
Andreotti probabilmente avrebbe malignato che anche le ostentate lacrime pubbliche
della Fornero non sono state casuali.
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arrivare a quelle conclusioni. Un percorso in cui i lati positivi della CNV
vengono usati in negativo facendo prevalere “il lato oscuro della forza”,
come direbbe Obi-Wan Kenobi, al fine di mantenere o condurre
l’interlocutore in una condizione di disconnessione dal suo vero io e dal
creato.
Simili usi distorti della CNV vengono quotidianamente applicati da
grosse organizzazioni burocratiche, pubbliche e private, per far accettare le
proprie decisioni con la minore resistenza possibile ad ogni livello.
Allora l’ascolto dello spot della Fornero mi provocò un profondo disagio
che rapidamente si trasformò in frustrazione e poi in rabbia inespressa. I
sentimenti tipici di chi si sente raggirato, preso in trappola senza avere gli
strumenti per capire e razionalizzare quello che gli sta accadendo. Sentimenti analoghi a quelli di tanti elettori del nostro continente che di fronte
all’atteggiamento paternalisticamente manipolativo di troppi governi europei voltano le spalle ai partiti tradizionali e votano Alternative für Deutschland o Marine le Pen5.
Torniamo sui banchi
Oggi, dopo un anno intensivo di CNV, ripensare a quell’episodio mi dà
soddisfazione e forza di agire. Soddisfazione perché sono finalmente in grado di decodificare i meccanismi che erano stati posti in essere a nostro danno, voglia di fare perché vedo la necessità, come Rosa Bianca, di riappropriarsi di uno dei lasciti centrali di Don Milani, quello di acquisire strumenti
culturali per leggere il presente. Per chi come molti di noi ha avuto la fortuna (per censo e/o intelligenza) di studiare e ha quasi sempre svolto lavori
intellettuali è difficile accettare di essere nelle condizioni dei bambini di
Barbiana, ma dobbiamo avere l’umiltà di capire di essere ormai analfabeti in
molti campi. Dobbiamo rialfabetizzarci e contribuire alla rialfabetizzazione
della sinistra se vogliamo evitare di cadere vittima di manipolazioni e riusci5
Sentimenti capaci di trasformare in un paio di anni un paese come l’Italia da “punta di
diamante” dell’europeismo ad uno dei paesi più euroscettici del continente. Reazioni
prevedibili e previste da chi ci governa, e quindi la questione che ci si dovrebbe iniziare a porre è discernere quali forze abbiano messo in conto questo esito e lo abbiano
accettato come male minore e quali invece come Donald Rumsfeld, ex ministro repubblicano e pupillo di J. W. Bush, lo abbiano fortemente voluto mirando ad un indebolimento del peculiare modello di democrazia e di capitalismo presente in Europa.
23
re a condividere con altri i nostri ottimi contenuti. È ovviamente un discorso
che va al di là della CNV e comprende altre tecniche di base quali la CNL6,
corsi di retorica7, corsi di improvvisazione teatrale, qualitative analysis
tools, solo per citare alcune fra le tante possibilità. Tutte tecniche che sono
fra l’altro eccellenti strumenti di team-building di cui i nostri gruppi e la sinistra in generale hanno sicuramente bisogno.
Non credo sia necessario specificare che il nostro approccio non sarà
quello di manipolare la controparte8, ma decodificarne le mosse e chiarire ad
eventuali ignari spettatori di una discussione l’intento manipolatore della
retorica dominante.
L’insegnamento di Ágnes Heller
Quello descritto prima comunque è solo uno, neanche il più pericoloso,
dei possibili usi deviati della CNV. Come affermavo in precedenza, la sua
maggiore forza – come nel caso dello judo, disciplina sincretistica che armonizza al suo interno elementi della tradizione orientale ed occidentale –
può essere trasformata nella sua maggiore debolezza.
La maggior parte delle religioni hanno sempre avuto un forte potenziale
di crescita individuale e quindi di liberazione. Per poter snaturare questo
messaggio ed educarci ad atti di fede acritici ed all’obbedienza come virtù il
potere ha sempre cooptato la casta sacerdotale, trasformando così scale e
funi pensati per elevarci in sbarre per gabbie in cui rinchiuderci e corde con
cui legarci. Malgrado queste strategie non siano mai riuscite ad intaccare il
cuore del messaggio di liberazione di gran parte degli insegnamenti religiosi
e periodicamente nella storia nascano movimenti con l’obiettivo di tornare
6
Comunicazione Neuro-Linguistica, sviluppata negli anni settanta da Richard Bandler e
John Grinder e non a caso insegnata da Berlusconi nei circoli di Forza Italia già
vent’anni fa al momento della fondazione del partito. Disciplina di cui la CNV costituisce la risposta tecnico-valoriale più avanzata. Illuminante ad esempio: Richard
Bandler, PNL per la Persuasione. Come la Programmazione Neuro-Linguistica può
aumentare le tue vendite, Alessio Roberti Editore, 2003.
7
Raccomando per quelli che hanno la fortuna di vivere in una città dove lo possano seguire quello dei Toastmasters: http://en.wikipedia.org/wiki/Toastmasters_International.
8
Tra l’altro il partito-azienda ed i suoi spin-off organizzano spessissimo corsi di comunicazione (sia essa vis à vis, sui media tradizionali o anche sul web a giudicare dal numero di troll circolanti) per i propri quadri e quindi non avremmo speranze di manipolare nessuno.
24
alle vere radici, la funzione sociale svolta dalle religioni per secoli è stata
ben sintetizzata da Marx nella formula di “oppio dei popoli”9.
Quella della religione civile non è una tentazione esclusiva delle religioni del libro. Spesso paradossalmente anche il collettivismo delle società
orientali si esprime nell’atteggiamento dell’individuo a farsi carico da solo
della responsabilità di quello che lo circonda, ponendo in secondo piano il
ruolo delle strutture esterne, prevenendo così l’indignazione e la rabbia, che
come ci ricordava Stéphane Hessel10, sono un impulso indispensabile per la
trasformazione della realtà.
Non è infatti casuale che delle varie sintesi delle idee della Cina preunitaria (il Taoismo, il confucianesimo delle scuole di Mencio e Xunzi, il
buddhismo cinese o il magistero di Nichiren in Giappone) si sia infine imposto come religione delle masse il confucianesimo tradizionale, che proclama la responsabilità personalissima dell’individuo ed il suo dover sempre
e comunque sostenere il potere costituito, custode dell’armonia
dell’universo e quindi anche della pace terrena e del bene del singolo e della
sua famiglia11.
In quanto pratica centrata sulla responsabilità del singolo nella creazione
e gestione dei proprî sentimenti e dell’ambiente che lo circonda, la CNV
corre il pericolo di essere strumentalizzata per una colpevolizzazione del
9
Definizione che nella mia adolescenza, avendo conosciuto solo un cattolicesimo conciliare, mi sembrava ormai ingiusta ed antiquata, dovendo purtroppo ricredermi osservando la politica di Ruini e le non-reazioni della gerarchia alle perorazioni dell’ateo
devoto Giuliano Ferrara in favore del cristianesimo quale “religione civile” occidentale.
10
Indignez-vous!, Indigène éditions, collection «Ceux qui marchent contre le vent»,
Montpellier, 2010.
11
Echi di questa strategia possono essere ritrovati persino all’inaugural address di un insospettabile come John F. Kennedy: “ask not what your country can do for you — ask
what you can do for your country”. I nostri padri latini avrebbero certamente ammirato la retorica ed il patriottismo di questo discorso ed in cuor loro avrebbero concordato che gli altri si sarebbero dovuti attenere a questo precetto. Avrebbero altresì dissentito sulla sua applicazione a livello delle loro singole persone, essendo un discorso
privo della virtù dell’equilibrio tanto cara ai classici. Come in ogni rapporto fra adulti
in buona salute le due domande vanno sempre poste insieme: cosa posso fare io per
l’altro (lo stato in questo caso) e cosa può fare l’altro per me. Altrimenti alla lunga lo
Stato diventa solo un peso di cui si spera di poter fare a meno, come non a caso sta
accadendo negli Stati Uniti e come sta accadendo in molti paesi europei nei confronti
dell’Unione.
25
singolo e per isolarlo dagli altri tramite un sentimento di inadeguatezza e
vergogna12.
I cristiani conciliari applicando la CNV non dovrebbero mai dimenticare
il ruolo delle leggi, delle regole e delle “strutture di peccato”13. Riconoscere
il ruolo di queste strutture, esercitare una critica costante ed impedirne la
crescita è, come ricordava Ágnes Heller al Pisa Book Festival14, un lascito
centrale dell’individualismo occidentale e delle religioni del libro cui non
bisogna mai rinunciare.
Wendell Johnson e Rosemberg erano pienamente consci di questo pericolo ed un uso corretto della CNV ne tiene debitamente conto: affrontando
un conflitto la disciplina si prefigge di portarne alla luce le vere radici, le
motivazioni profonde che animano gli attori coinvolti in modo da trovare il
giusto equilibrio fra i due estremi: l’assunzione individuale di responsabilità
da una parte e la tensione a cercare un colpevole esterno (la colpa è di Eva,
la colpa è del serpente) dall’altra. Atteggiamento quest’ultimo tipico dei
bambini e del linguaggio arcaicamente violento comunemente usato che la
CNV, ricordiamolo, si prefigge di superare. Ma come ho già detto il pericolo
di strumentalizzazione esiste e va sempre tenuto presente.
Permettetemi di concludere con un richiamo alla mia sensazioni personali in stile CNV: molto spesso, nel proporre qualcosa agli altri, vengo assalito
dal dubbio che il mio sia un contributo superfluo che nasce da una mia personale esigenza di protagonismo, da un bisogno di giustificare il mio stare al
mondo. Invece, nel caso della CNV, entrando in me stesso ho trovato un
senso di gioiosa gratitudine per la possibilità di un percorso di miglioramento e tranquillità che divulgare questo cammino sia veramente un contributo
che come Rosa Bianca possiamo dare alla nostra crescita come individui e
come comunità ed allo sviluppo della società nel suo complesso.
12
Tecnica usata oggi ad esempio per trasformare ad esempio la disoccupazione o il mobbing da problemi sociali che solo politiche adeguate possono risolvere a problemi del
singolo disoccupato colpevolizzato perché: “se uno vuole lavorare il lavoro si trova
sempre”.
13
Giovanni Paolo II, Enciclica Sollicitudo Rei Socialis, 1987. Ovviamente Wojtyła come
“struttura di peccato” aveva in mente il comunismo, ma grazie alla manzoniana eterogenesi dei fini il concetto ha valenze molto più estese, come dimostrano i documenti delle diocesi meridionali – italiane e mondiali.
14
Per non dimenticare. Conversazione con la filosofa Ágnes Heller sulle ideologie che
hanno costruito e sconvolto il novecento, Edizioni “Il Margine”, Pisa Book Festival
2013.
26
Il Margine 35 (2015), n. 2
L’articolo nove,
tra natura e cultura
MATTEO PRODI
«La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della
Nazione» (Costituzione, art. 9).
L
a carta costituzionale italiana è il patto fondativo che deve regolare la
vita dei cittadini che appartengono alla nostra Repubblica; i principi
fondamentali (gli articoli dall’1 al 12) sono le linee che hanno guidato il venire alla luce di questo testo e sono considerati immutabili. Vorrei soffermare la mia attenzione sull’articolo 9, perché presenta caratteri di particolare
urgenza per l’oggi della nostra Nazione.
La prima osservazione, in sé banale ma gravida di molte conseguenze,
è la presenza di due parti ben distinte ma che, proprio dal loro accostamento,
prendono reciproco vigore. Nel primo comma si parla di sviluppo della cultura e di ricerca scientifica e tecnica; nel secondo si parla di paesaggi e di
patrimonio storico e artistico della Nazione. Il presente desidera promuovere
il futuro e desidera tutelare il passato.
Quale apporto recano queste parole per una sempre più profonda consapevolezza della dignità della persona, obiettivo certo dei principi fondamentali approvati nel 1948? Ricordiamoci che non era possibile un ingenuo
ottimismo sulle capacità dell’uomo, dopo aver assistito agli orrori della seconda guerra mondiale, alla Shoah. Come proiettare verso il futuro il Paese?
Come fare per recuperare la sua storia positiva? Come valorizzare le ricchezze e le bellezze naturali così generosamente presenti davanti agli occhi
degli italiani?
Non esiste la dignità della persona senza cultura, ricerca, paesaggio e
patrimonio storico e artistico; non esiste persona degna di tale nome che non
sia chiamata a costruire il proprio futuro e che non sia chiamata a fare tesoro
del proprio passato. D’altra parte, dobbiamo dire che proprio il centro della
Costituzione, la dignità della persona, ci impone di interpretare anche
27
l’articolo 9 in funzione di una piena fioritura dell’uomo: cultura vorrà significare quindi tutto ciò che davvero fa crescere l’uomo; ricerca tecnica e
scientifica dovrà essere intesa come capace di costruire un bene più grande
per l’uomo, non percorrendo traiettorie che possano nuocere al bene comune. E il paesaggio non sarà certamente un quadro da conservare in un museo
ma qualcosa che porti il dono del bello nella vita delle persone. Nell’articolo
9 si trova dunque il binomio natura-cultura.
Un’immagine biblica potrebbe aiutare a capire la traiettoria di marcia
che i padri costituenti ci hanno lasciato: la Sacra Scrittura inizia con il giardino nel libro della Genesi e si conclude con l’immagine della città di Gerusalemme che scende dall’alto. È vero: l’umanità nuova è un dono proveniente in modo radicale dall’alto, ma ha la forma della città. Il cammino
dell’umanità può essere descritto come il passaggio dal giardino alla città, al
vivere associati che tenda sempre più all’idea di comunione che Dio ha in
mente. Tutto questo significa che l’articolo 9 spinge l’uomo a coltivare, a
esprimere una cultura che sappia far progredire l’umanità verso una convivenza sempre più dettata dalla pace e dalla fraternità.
La cultura per lo sviluppo dell’uomo
Fatte queste osservazioni, è importante notare come al primo posto vi
sia la cultura, senza la quale per l’uomo è impossibile capire il bello, il buono e il vero, senza la quale è impossibile capire la propria storia, la propria
arte e il proprio paesaggio, senza la quale è arduo indirizzare la ricerca
scientifica verso fini radicalmente umanizzanti. In questa ottica è importante
riprendere l’articolo 33, comma 1: «L’arte e la scienza sono libere e libero
ne è l’insegnamento». Appaiono qui due distinte garanzie costituzionali
«relative l’una alla libertà della cultura, l’altra alla libertà di insegnamento, entrambe indispensabili allo sviluppo della società. La norma garantisce la libertà di
espressione artistica, di ricerca scientifica e del relativo insegnamento, contro una
cultura di Stato, imposta e ideologicamente orientata. La Repubblica deve promuovere la cultura senza egemonizzarla. In un sistema plurale che si definisca democratico, non può esistere una cultura unica, una cultura di Stato: indirizzi culturali diversi, anche minoritari, devono trovare spazio e tutela»1.
1 L. Carlassarre, Nel segno della Costituzione. La nostra carta per il futuro, Feltrinelli,
2012, pp. 95-96.
28
Da tutto ciò deriva il dovere dello Stato di istituire scuole statali per tutti gli ordini e gradi, anche se lo Stato non si è attribuito il monopolio
dell’istruzione.
«L’articolo 34 sancisce il diritto alla studio, fattore potente di mobilità sociale,
‘strumento essenziale perché sia assicurata a ciascuno, in una società aperta, la possibilità di sviluppare la propria personalità, secondo i principi espressi negli articoli
2, 3 e 4 della Costituzione’ come lo definisce la Corte costituzionale (sent. N.
219/2002)»2.
In Italia questi problemi sono, se si vuole vederli, ben evidenti: il consenso è gestito tramite i media, la rete è usata per costruire un dibattito
tutt’altro che aperto, si cerca un uomo forte che risolva magicamente i problemi. Non siamo educati ad usare la nostra intelligenza per un vero discernimento. Molti temi economici, dal PIL alla nostra presenza in Europa, sono
gestiti per non farci pensare, per non pensare alla fioritura piena delle persone. Lo scontro di civiltà a cui oggi assistiamo è tra forze che cercano di instillare violenza e disumanità e quelle che vorrebbero costruire una vera cultura del rispetto e dell’eguaglianza.
Le borse di studio e altri tipi di sussidi devono far sì che tali parole diventino realtà.
«La scuola è aperta a tutti è un’affermazione che oggi si carica di valenze nuove e
viene a interessare nuovi soggetti. Anche i figli degli immigrati, almeno in questo,
non potrebbero subire discriminazioni: ‘Il diritto all’istruzione non può essere rifiutato a nessuno’, sanciscono le norme europee, l’istruzione è uno dei principali strumenti per realizzare l’eguaglianza tra le persone e dare a tutti la possibilità di partire, se non in condizioni pari, almeno non del tutto svantaggiati. Il divario culturale e
l’inferiorità che ne deriva è il primo degli ostacoli che la Costituzione (art. 3, comma 2) impone alla Repubblica di rimuovere. Altrimenti le conseguenze, per le persone e il funzionamento della democrazia, possono essere gravissime»3.
Per il pieno funzionamento della democrazia, però, occorre anche interrogarsi sulla qualità e sulla tipologia della cultura che un sistema scolastico
propone.
«Le democrazie hanno grandi risorse di intelligenza e di immaginazione. Ma sono
anche esposte ad alcuni seri rischi: scarsa capacità di ragionamento, provincialismo,
fretta, inerzia, egoismo e povertà di spirito. L’istruzione volta esclusivamente al tornaconto sul mercato globale esalta queste carenze, producendo una ottusa grettezza
e una docilità – in tecnici obbedienti e ammaestrati – che minacciano la vita stessa
della democrazia, e che di sicuro impediscono la creazione di una degna cultura
mondiale»4.
«Se non insistiamo sul valore fondamentale delle lettere e delle arti, queste saranno
accantonate, perché non producono denaro. Ma esse servono a qualcosa di ben più
prezioso, servono cioè a costruire un mondo degno di essere vissuto, con persone
che siano in grado di vedere gli altri esseri umani come persone a tutto tondo, con
pensieri e sentimenti propri che meritano rispetto e considerazione, e con nazioni
che siano in grado di vincere la paura e il sospetto a favore del confronto simpatetico e improntato alla ragione»5.
Sta qui, a mio parere, la forza dell’articolo 9 della Costituzione: creare
il reticolo necessario per comprendere e progettare un vero sviluppo umano,
libero dalla dittatura di indici economici quantitativi, proiettato verso una
pienezza dell’esperienza umana, dove tutte le capacità sono valorizzate e
sono tolti i vincoli che impediscono un reale accesso alla felicità6. Cultura,
ricerca, paesaggio, storia ed arte finalizzate al pieno sviluppo dell’uomo, di
tutto l’uomo. Il problema è che nessuna di queste parole in Italia gode di
buona salute: i tagli alla scuola e, ancor più, alla ricerca, il patrimonio artistico e storico non certamente valorizzato, il paesaggio deturpato in ogni
modo…
Il paesaggio nella Costituzione
Vorrei, ora, proporre alcune riflessioni a partire dalla parola “paesaggio”. La tutela del paesaggio, infatti, compare incastonata nel tema della cultura. Per capire questo passaggio della Costituzione occorre che ci sia un
2 Carlassarre, Nel segno della Costituzione, p. 97.
3 Carlassarre, Nel segno della Costituzione, p. 97.
4 M. Nussbaum, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura
umanistica, il Mulino, 2013, p. 154.
29
5 Nussbaum, Non per profitto, p. 154.
6 Cfr. M. Nussbaum, Creare capacità. Liberarsi dalla dittatura del Pil, il Mulino,
Bologna, 2012.
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popolo formato a capire e valorizzare il bello che circonda i cittadini italiani.
Cosa che non può, alla luce delle tante deturpazioni, essere data per scontata.
Pare che dal XII al XIX secolo, a proposito del paesaggio, si parlasse
un linguaggio largamente condiviso, attinto dal diritto romano:
materia di legislazione concorrente tra Stato e Regioni; l’ambiente compare
sempre più nei dibattiti pubblici e da anni esiste un ministero che si occupa
direttamente dell’ambiente (anche se esistono altri ministeri che si occupano
del nostro articolo 9 come quello della cultura, dei beni forestali e
dell’agricoltura, dei trasporti e delle infrastrutture).
«tanta concordia non nasceva da accordi interstatali (che non vi furono mai) e
nemmeno da una superficiale moda o emulazione, ma aveva radici assai più profonde: una comune, secolare cultura urbana, un identico senso della funzione civile della ‘bellezza’ e dell’’ornato’ delle città, una stessa tensione a trasmettere i valori da
una generazione all’altra … Identità civica e pubblico controllo dello sviluppo urbano (entrambi da intendersi in senso territoriale e diffuso) sono i due poli di questa
viva esperienza di civiltà, che in nessun Paese d’Europa ebbe altrettanta intensità e
consapevolezza»7.
«In seguito a troppi dissennati divorzi, a quel che pare esiste ormai, nei corposi volumi e nelle aule del Parlamento e dei Consigli regionali, l’Italia del paesaggio (che
è di spettanza dello Stato), l’Italia del territorio (il cui governo spetta alle Regioni),
l’Italia dell’ambiente (con competenze distribuite in modo tutt’altro che chiaro).
Almeno due diversi Ministeri, diciannove Regioni, due Provincie autonome e poi la
folla delle Provincie e dei Comuni inseguono ogni briciola di questa Italia che si è
fatta in tre, e per tirar dalla propria parte quel che di volta in volta interessa ne cambiano l’etichetta … perciò non sembra esserci più alcun limite alla cannibalizzazione del territorio, al sacco del paesaggio e dell’ambiente»9.
Il riferimento al diritto romano è davvero interessante: in tante leggi
dell’arco temporale in oggetto si fa riferimento alla publica utilitas che deriva dal principio del legatum ad patriam o dicatio ad patriam,
«cioè il principio giuridico secondo cui quanto venga posto, anche da un privato, in
luogo pubblico (per esempio la facciata di un edificio) ricade almeno in parte nella
condizione giuridica di res populi Romani e comporta la costituzione di una sorta di
servitù di uso pubblico. Secondo questa accezione, viva in Italia da secoli e affinata
da giuristi del Novecento, nel patrimonio culturale convivono due distinte componenti ‘patrimoniali’, perché due sono le utilità che esso genera: una si riferisce alla
proprietà del singolo bene, che può essere privata o pubblica; l’altra ai valori storici
e culturali, sempre e comunque di pertinenza pubblica»8.
In realtà molte sentenze della corte Costituzionale hanno, da tempo, fatto chiarezza: la nozione di ambiente creata dalla Corte si innesta su quella di
territorio ed è consustanziale al paesaggio10. Spetta, quindi, alla politica nazionale fare chiarezza su linee operative che possano davvero tutelare questo
fondamentale diritto, ordinando le normative regionali dentro un quadro di
leggi nazionali chiaro ed efficace e portando tutta la responsabilità che nasce
dall’articolo in esame dentro un unico ministero.
Dal paesaggio alla persona
Il nesso tra tutela del patrimonio culturale e tutela del paesaggio è così
stretto che si inserisce tra i diritti fondamentali sanciti dal testo che entra in
vigore nel 1948. Il nostro Paese fu il primo Stato al mondo a introdurre tale
diritto nella sua carta fondativa, inserendolo tra i pilastri fondanti la vita comune dei cittadini.
Ma che cosa si intende per “paesaggio”? E che rapporto ha questa parola costituzionale con altre due parole come “territorio” e “ambiente”? La
domanda si deve porre in quanto il territorio compare all’articolo 117 come
Con quali altri articoli della Costituzione interagisce la tutela del paesaggio? Innanzitutto, con i grandi articoli che riguardano la persona: non
esiste davvero persona senza un suo rapporto con la natura, con l’ambiente
che lo circonda. L’articolo 32 parla del diritto fondamentale alla salute: fatti
di cronaca ci raccontano come sia impossibile tutelare la salute dei cittadini
senza che vi sia una profonda tutela dell’ambiente. Inquinamento delle città
e delle imprese, gestione dei rifiuti, smaltimento di materiali cancerogeni
sono solo alcuni dei temi che correlano l’articolo 32 con il 9.
7 S. Settis, Paesaggio, Costituzione, Cemento. La battaglia per l’ambiente contro il
degrado civile, Einaudi, Torino, 2010, p. 107.
8 Settis, Paesaggio, Costituzione, Cemento, p. 109.
9 Settis, Paesaggio, Costituzione, Cemento, p. 251.
10 Cfr. Settis, Paesaggio, Costituzione, Cemento, p. 242.
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«In questo sistema di relazioni, di valori e di principi a difesa del cittadino, la priorità dell’interesse pubblico non cancella ma limita i diritti della proprietà privata, come prevede l’articolo 42 c. 2, che si riconnette al principio della publica utilitas con
la sua storia lunghissima, dal diritto romano ai Comuni medievali alla Roma dei Papi. È in nome del pubblico interesse che i diritti del privato proprietario di un determinato bene vanno dunque limitati quando entrino in conflitto con quelli della cittadinanza nel suo insieme»11.
Ma dobbiamo anche ricordare l’articolo 11; non parla solo del ripudio
della guerra, ma anche della necessità di cooperare con la comunità internazionale per costruire scenari di pace e giustizia. L’ambiente è una frontiera
ineludibile per tali prospettive: sappiamo che la dipendenza dai combustibili
fossili crea non solo un inquinamento che, se mantenuto a questi livelli, porterà a danni irreversibili per il nostro pianeta, ma crea anche tensioni geopolitiche tali da sfociare sovente in conflitti armati. Qui occorre che tutti gli
Stati siano portati a cedere sovranità, proprio in vista della pace e della giustizia. Non si può creare un ambiente più umano senza la collaborazione di
tutti.
Occorre ricordare anche l’articolo 41, sull’iniziativa economica che è
libera ma che non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale. Un articolo
che, accanto all’articolo 9, deve essere letto in senso positivo: la libera iniziativa economica deve sviluppare l’utilità sociale.
La tutela del paesaggio può davvero essere un’occasione per un maggiore sviluppo del nostro Paese. L’incredibile intreccio di paesaggio, cultura
e storia di cui siamo depositari deve essere sempre più guardato come una
opportunità, non come un costo da tagliare. Il mercato del turismo, in tutto il
mondo, è in continua espansione; nuovi posti di lavoro potrebbero essere
creati investendo sulla ricchezza che il nostro Paese ci offre gratuitamente.
Anche la manutenzione del territorio può essere fonte di sviluppo, avviandoci verso la produzione di energie rinnovabili ad alta intensità di occupazione. Cultura, ricerca, paesaggio, storia e arte sono indispensabili per il nostro futuro.
Novità della casa editrice “Il Margine”
Emanuela Miconi, Etty Hillesum, la forma perfetta, pp. 120, euro 12,00.
In soli ventinove anni di vita, prima di essere inghiottita come Anna Frank dal
buio del lager, Etty Hillesum (1914-1943) ci ha lasciato un eccezionale tesoro di
pensiero sulla vita offesa, su Dio, sul male e sulla bellezza, sulla speranza che non si
rassegna. Emanuela Miconi, germanista di formazione, rilegge Etty da una prospettiva inedita, sottolineando per esempio i fili che la legano al grande poeta Rainer Maria Rilke, in tre capitoli appassionanti e rivelativi: «Un’anima di fuoco e di cristallo»,
«I costruttori di Dio», «Sulla soglia: le lettere da Westerbork». Racconto della sua
vita breve ma intensissima, e del suo pensiero folgorante, il libro è una chiave che ci
apre i segreti di Etty, quasi inesauribile fonte di illuminazioni e di interrogativi sul
Novecento degli orrori e sul nostro presente.
Odilia Zotta, La sua Africa. Coraggio vocazione cammino di Alcisa Zotta,
pp. 260, euro 15,00.
Alcisa Zotta (Castello Tesino, Trento, 1934 - Camerun 1996) era una bambina
che portava al pascolo le mucche. Era tenace e intelligente, e ha voluto studiare, prima in Gran Bretagna e poi in Francia, per capire le ingiustizie del mondo e poter insegnare ai poveri. Con viaggi avventurosi, quasi pionieristici, attraverso il Medio
Oriente e il Sahara. Prima destinazione, l’Alto Volta (poi Burkina Faso). La storia
emozionante di una credente che anticipava il vento nuovo del Concilio, che - evangelicamente impaziente - scriveva al papa e che, dalla parte delle donne africane, ha
scoperto il senso della sua esistenza. Donna tra le donne. Per l’emancipazione e la
parità. Fino alla morte in un incidente stradale, in Camerun, su un camion che la portava verso la sua nuova missione in Repubblica Centrafricana. La sua nuova giovinezza, a 62 anni, con le donne e con il popolo del cuore nero d’Africa.
Sui prossimi numeri della rivista “Il Margine”
A 100 anni dalla “teoria della relatività”
Continuiamo a seguire il Sinodo dei vescovi sulla famiglia
Cristianesimo, Islam, Laicità, Religione civile
Vive il naturalismo, muore la libertà? Se e come un approccio scientifico
radicale mette in causa il libero arbitrio
11 Settis, Paesaggio, Costituzione, Cemento, p. 129.
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