Cai Guo-Qiang: Quiero creer/I want to believe

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Cai Guo-Qiang: Quiero creer/I want to believe
Cai Guo-Qiang: Quiero creer/I want to believe
Si è inaugurata il 17 marzo scorso a Bilbao e proseguirà fino al 6 settembre la mostra antologica I
Want to believe, retrospettiva dell’artista cinese Cai Guo- Quiang. Il museo è un’autentica opera
d’arte, dimostrazione del genio architettonico di Frank Gehry e del fatto che un edificio del genere
abbia rilanciato l’economia della città, facendo convergere fiumane di visitatori in un luogo
altrimenti non ricchissimo di attrattive turistiche. Il Guggenheim si autofinanzia al 65% e solo per il
rimanente 25% si affida a sponsor, pubblici e privati. Un successo esemplare. La BBVA (Banco
Bilbao Vizcaya Argentaria), che sponsorizza un evento all’anno e vanta tra l’altro importanti
presenze in Cina, per il 2009 ha finanziato la mostra dell’artista, che da 15 anni si è stabilito a New
York. La mostra è tra l’altro reduce dal successo ottenuto lo scorso anno presso il Guggenheim della
grande mela (vedi D’Ars 194 Tutti pazzi per l’oriente, a firma di Chiara Carfì e della sottoscritta),
anche se la versione “Europea” permette a Cai Guo-Quiang di uscire maggiormente allo scoperto
nella sua ricerca intellettuale ed estetica.
Head on, Cai Guo-Qiang
Cai Guo-Qiang nasce nel 1957 nel sud della provincia di Fujian e cresce nella Cina maoista. Nel 1986
parte per il Giappone dove vivrà diversi anni per poi trasferirsi a New York città nella quale tuttora
vive e lavora, attorniato da un consistente staff che lo segue e lo assiste nelle sue spettacolari
installazioni. È un artista complesso, stratificato, che si avvale di un vocabolario espressivo e
concettuale che spazia su livelli diversi, tutti comunicanti; dall’antica mitologia cinese alla
propaganda politica attraverso l’arte, dalla cosmologia taoista alle tattiche rivoluzionarie maioiste,
dal feng shui alla filosofia buddista, in un altalenante confronto tra oriente e occidente, passato e
futuro, conservazione e distruzione, evidenziando talvolta profonde analogie tra le dinamiche
storiche che prescindono dalle coordinate geografiche per spostarsi direttamente sull’asse
principalmente umano. L’artista parte da mondi culturali conosciuti per decifrare l’inconoscibile
attraverso la sublimazione spettacolare offerta dall’arte e dalla creatività. La creatività come
strumento di catarsi si manifesta spettacolarmente quando organizza le sue “esplosioni” nelle basi
militari per espellere l’energia negativa accumulata. Distruggere per creare. Del resto la polvere da
sparo, invenzione dei suoi antenati, è il suo principale mezzo espressivo che inizia a usare già nel
1984. L’idea guida è sempre quella dell’esplosione, un metodo “rivoluzionario” che rappresenta in
arte quel momento in cui tutto viene azzerato per permettere nuove nascite. Una sorta di big bang
della creazione artistica. A una prima analisi parrebbero operazioni un tantino megalomani. In realtà,
avvicinandosi all’artista, vedendolo da vicino, ascoltandolo parlare, si comprende che in tutto questo
c’è un profonda, sofferta consapevolezza dell’errore che da sempre accompagna l’umano agire.
Errore di valutazione dell’altro, del mondo, del senso. Per questo l’esplosione sembra
simbolicamente ed emotivamente porre fine, cancellare e nello stesso tempo smuovere forze nuove,
purificate e sottratte all’ineluttabile attraverso l’azzeramento del tempo. I want to believe: cosa può
significare se non una tragica, definitiva appropriazione di speranza?
In mostra alcuni video che documentano tali esplosioni. A questi si affiancano enormi superfici
cartacee, “disegnate” dalle bruciature conseguenti alle esplosioni, realizzate in modo complesso e il
cui risultato è poco prevedibile, tanto quanto le azioni umane.
Sempre in questo clima apocalittico, l’atrio del museo ospita una megainstallazione dal titolo
Inopportune: stage one. Otto auto appese nella simulazione di un’esplosione paiono sospese nel
vuoto con un effetto tra il kitch e l’inquietante. Sicuramente l’opera più ammirata e fotografata ma
secondo me la meno interessante, aldilà dell’inevitabile forte impatto visivo-emotivo. Riproposta la
straordinaria Head on, dopo l’esordio a Berlino e la presenza a new york lo scorso anno.
Novantanove lupi e la fallibilità umana della corsa cieca abbagliata dall’ideologia collettiva. Il muro
trasparente contro il quale i lupi (perfettamente ricreati con resine e peli ma non imbalsamati, è
bene chiarirlo) vanno a sbattere contro un muro di vetro, il muro che aspetta le masse furiose del
loro inseguire. Un’opera forse scomoda, per la molteplicità dei piani di lettura, ma sicuramente
quella su cui porre, a mio avviso, maggiore attenzione. L’esposizione spagnola, che riunisce molte
delle opere già esposte a New York, appare sostanzialmente più intensa” di quella americana, più
profonda nel senso che si è dato, che viene trasmesso. Come se il côté americano puntasse
sull’enfatizzazione degli aspetti più spettacolari celando quelli più sommersi, più inquieti. Un
esercizio di rimozione? Forse.
Inopportune: stage one
Altre interessanti opere sono i social project, opere che l’artista realizza in collaborazione con
maestranze locali o con collaboratori del luogo in cui vengono concepite. Tra queste ricordiamo
Bilbao’s Rent Collection Courtyard, 2009, riproposizione dell’installazione che partecipò invitato da
Harald Szemann alla 48.ma biennale di venezia (ricordiamo che Quang vinse pure il leone d’oro alla
biennale del ‘99). Si tratta di un gruppo scultoreo in argilla, realizzato in collaborazione con artisti
cinesi e artisti locali, ispirato a una serie di sculture che riproducono una delle opere d’arte più
famose della Cina maoista: la «Rent Collection Courtyard», creata nel 1965 dai membri della
Sichuan Fine Arts Institute, raffiguranti i maltrattamenti subiti dai contadini cinesi prima
dell’avvento del comunismo. Le sculture si sbricioleranno disintegrandosi durante il corso della
mostra. Il progetto è stato realizzato più volte e riflette sulla caducità delle ideologie e sul significato
della propaganda politica attraverso le immagini. Ma non ci si inganni: sappiamo che queste
rappresentazioni non sono mai finalizzate all’elogio del crollo ma alla nascita del nuovo. Si dà un
ultimo sguardo all’indietro prima di proseguire e poi non ci si volta più a guardare, come avrebbe
dovuto fare Orfeo prima di uscire dagli inferi per salvare Euridice. I want to believe, we want to
believe.
Cristina Trivellin
D’ARS year 49/nr 198/summer 2009