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Materiali per discussione (tratto da Serra Borneto, Qui è la nostra lingua in
Publielli, Bonvino e Frascarelli (a cura di) Qui è la nostra lingua)
Qui di seguito sono riportati alcuni casi (veri e di fantasia) di competenze
linguistiche plurali.
1) A Londra, all'inizio del mese di giugno del 1929, l'antiquario Joseph
Cartaphilus, di Smirne, offrì alla principessa di Lucinge i sei volumi in quarto
minore (1715-1720) dell'Iliade di Pope. La principessa li acquistò; e in
quell'occasione scambiò qualche parola con lui. Era, ci dice, un uomo consunto
e terroso, grigio d'occhi e di barba, dai tratti singolarmente vaghi. Si
destreggiava con scioltezza e ignoranza in diverse lingue; in pochi minuti passò
dal francese all'inglese e dall'inglese a una misteriosa mescolanza di spagnolo
di Salonicco e portoghese di Macao. (J.L. Borges, L’immortale)
2) Fra di loro i miei genitori parlavano tedesco, lingua di cui io non dovevo
capire nulla. Con noi bambini, come coi parenti e con gli amici, parlavano
spagnolo, che era poi la nostra vera lingua quotidiana; ma si trattava di uno
spagnolo piuttosto antiquato, che ho udito spesso anche in seguito e non ho
mai più dimenticato. Le ragazzine che lavoravano in casa parlavano soltanto
bulgaro ed è probabile che questa lingua io l’abbia imparata soprattutto con
loro. Ma poiché non frequentai mai una scuola bulgara e lasciai Rustschuk
quando avevo solo sei anni, il bulgaro l’ho ben presto completamente
dimenticato. Tutti gli eventi di quei miei primi anni si svolsero dunque in
spagnolo o in bulgaro. In seguito mi si sono in gran parte tradotti in tedesco.
Solo eventi particolarmente drammatici, delitti e morti per intenderci, nonché i
più grandi spaventi della mia infanzia, mi sono rimasti impressi nella loro
fraseologia spagnola, ma in modo estremamente preciso e indistruttibile.
Tutto il resto, vale a dire il più, e specialmente tutto ciò che era bulgaro, come
appunto le favole, me le porto in testa in tedesco. (Canetti, la lingua salvata,
22).
3) Gelb, nel 1927, descrisse la storia clinica di un ufficiale divenuto afasico per
una lesione di arma da fuoco subita durante la prima guerra mondiale. La
lesione interessava il lobo frontale dell’emisfero sinistro e il paziente venne
sottoposto a un intervento neurochirurgico per ripulire e medicare la ferita
interna. Dopo l’intervento il paziente non era più in grado si parlare, ma
riusciva ancora a leggere mentalmente libri di filosofia e a comprenderli. Prima
della guerra l’ufficiale era stato un insegnante di lingue classiche e dopo
l’intervento egli si accorse che, oltre a essere ancora capace di leggere,
riusciva anche a esprimersi correttamente in latino. Decise allora di rieducare
se stesso preparando mentalmente le frasi che voleva esprimere prima in
latino e poi, sempre a livello mentale, traducendole in tedesco mediante
l’applicazione di regole grammaticali. Questo metodo di riabilitazione della
lingua madre, che utilizzava come intermediaria una seconda lingua “morta”
permise al paziente di ritornare a parlare in tedesco. In base a questo caso
Gelb concluse che le afasie tendono a colpire con maggiore gravità le lingue più
automatizzate, quelle cioè che usiamo senza riflettere, mentre le lingue
straniere o le lingue morte, che per essere usate necessitano di una maggiore
consapevolezza e riflessione, resistono maggiormente a un insulto afasico.
(Fabbro M., Il cervello bilingue)
4) Circa un mese dopo, mentre desinava con la sorella vedova e il nipote,
Cristoforo Golisch improvvisamente stravolse gli occhi, storse la bocca quasi
per uno sbadiglio mancato; e il capo gli cadde sul petto e la faccia sul piatto.
Una toccatina, lieve lieve, anche a lui. Perdette lì per lì la parola e mezzo lato
del corpo: il destro. Cristoforo Golisch era nato in Italia, da genitori tedeschi;
non era mai stato in Germania, e parlava romanesco come un romano di
Roma. Da un pezzo gli amici gli avevano italianizzato anche il cognome,
chiamandolo Golicci, e gl’intimi anche Golaccia, in considerazione del ventre e
del formidabile appetito. Solo con la sorella egli soleva di tanto in tanto
scambiare qualche parola in tedesco, perché gli altri non intendessero. Ebbene,
riacquistato a stento, in capo a poche ore, l’uso della parola, Cristoforo Golisch
offrì al medico un curioso fenomeno da studiare; non sapeva piú parlare in
italiano: parlava tedesco. Aprendo gli occhi insanguati, pieni di paura,
contraendo quasi in un mezzo sorriso la sola guancia sinistra e aprendo
alquanto la bocca da questo lato, dopo essersi piú volte provato a snodar la
lingua inceppata, alzò la mano illesa verso il capo e balbettò, rivolto al
medico:- Ih...ihr... wie ein Faustschlag... Il medico non comprese, e bisognò
che la sorella, mezzo istupidita dall’improvvisa sciagura, gli facesse da
interprete. Era divenuto tedesco a un tratto, Cristoforo Golisch: cioè, un altro;
perché tedesco veramente, lui, non era mai stato. Soffiata via, come niente,
dal suo cervello ogni memoria della lingua italiana, anzi tutta quanta l’italianità
sua.
(Luigi Pirandello, La toccatina)