PaTTuGlia Bravo Two zero

Transcript

PaTTuGlia Bravo Two zero
io sono un’arma
David Tell
× Addestramento marines, Parris Island, 1989 ×
Fratelli Guerrieri
Aaron Cohen
× Antiterrorismo israeliano, 1994 ×
Azione Immediata
Andy McNab
× Missioni SAS, 1975-1991 ×
Banda di Fratelli
Stephen E. Ambrose
× Normandia, giugno 1944 ×
Pattuglia Bravo Two Zero
Andy McNab
× Guerra del Golfo, gennaio 1991 ×
Andy McNab
Pattuglia Bravo Two Zero
Titolo originale
Bravo Two Zero
Traduzione di Isabella Bolech Russo
© 2015 Edizione speciale per Il Giornale
Pubblicato su licenza di Longanesi & C. S.r.l.
© 1997 Longanesi & C. Milano
Gruppo editoriale Mauri Spagnol
Proprietà letteraria riservata
www.longanesi.it
© 1993 by Andy McNab
This edition is published by arrangements
with Transword Publishers Ltd, London
Supplemento al numero odierno de Il Giornale
Direttore Responsabile: Alessandro Sallusti
Reg. Trib. Milano n. 215 del 29.05.1982
Tutti i diritti riservati
S t o r i e
d i
g u e r r a
pattuglia
bravo two zero
andy mcnab
Ai tre che non sono tornati
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Poche ore dopo che le truppe e i blindati iracheni avevano varcato il confine con il Kuwait – alle 02.00 ora locale del 2 agosto
1990 – il Reggimento cominciò i preparativi per effettuare operazioni nel deserto.
In quanto membri della squadra antiterrorismo di stanza a
Hereford, il mio gruppo e io non eravamo coinvolti. Restammo
a guardare con occhi un po’ gelosi i ragazzi della prima squadra
che prendevano il loro equipaggiamento da deserto e partivano.
Il nostro turno di nove mesi stava per terminare e aspettavamo
il cambio con ansia; ma con il passare delle settimane cominciarono a circolare voci di un rinvio, se non addirittura di un
annullamento dell’operazione. Mangiai il tacchino natalizio
con rabbia e preoccupazione. Non volevo perdere quell’opportunità.
Poi, il 10 gennaio 1991, a metà dello squadrone fu dato un
preavviso di tre giorni prima della partenza per l’Arabia Saudita.
Con nostro grande sollievo, il gruppo cui appartenevo era compreso tra i prescelti. Ci demmo un gran daffare a preparare l’equipaggiamento, a provare le armi e a correre in città per comprarci
nuove scarpe da deserto e ogni tipo di creme solari a fattore protettivo 20 « schermo totale » per il naso.
Dovevamo partire nelle prime ore di domenica mattina. Passai
la notte in città con Jilly, la mia ragazza, ma lei era troppo turbata
per divertirsi. Fu una serata di falsa allegria, dominata dal nervosismo di entrambi.
« Andiamo a fare una passeggiata? » le proposi quando arrivammo a casa, sperando di allentare la tensione della serata.
Facemmo qualche giro dell’isolato, e quando rientrammo a casa accesi la televisione. C’era Apocalypse Now. Non eravamo
dell’umore adatto per chiacchierare, cosı̀ ci sedemmo a guardarlo. Due ore di carneficina e mutilazioni non erano esattamente
quanto di più opportuno da mostrare a Jilly. Scoppiò in lacrime.
Lei stava sempre bene, finché non era consapevole dei rischi che
correvo. Conosceva molto poco del mio lavoro e non aveva mai
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fatto molte domande... perché, mi spiegava, non voleva sapere le
risposte.
« Ah, parti... e quando ritorni? » era in sostanza quello che si
limitava regolarmente a chiedermi. Ma adesso era diverso. Per
una volta, sapeva dove stavo andando.
Nel buio dell’auto, mentre mi accompagnava alla base, le suggerii: « Perché non ti prendi quel cane che volevi? Potrebbe tenerti compagnia ».
Avevo le migliori intenzioni del mondo, ma lei scoppiò di nuovo a piangere. Le chiesi di farmi scendere a una certa distanza dal
cancello principale.
« Ora continuo a piedi, bella », le dissi con un sorriso teso.
« Ho bisogno di fare un po’ di moto. »
Né lei né io amavamo gli addii prolungati.
La prima cosa che colpisce quando si entra nelle linee dello squadrone (l’area degli alloggi del campo) è il rumore: veicoli che
fanno manovra, uomini che urlano per farsi restituire pezzi di
equipaggiamento, e da tutti gli alloggi degli scapoli un tipo di
musica diverso... ma sempre al massimo del volume. Questa volta la musica era ancora più forte perché molti di noi stavano per
partire.
Incontrai Dinger, Mark il Kiwi (cioè il neozelandese) e Stan,
gli altri membri del mio gruppo. Alcuni sfortunati che non sarebbero partiti per il Golfo entravano comunque negli alloggi e si
univano agli sfottò e ai piccoli scherzi.
Caricammo sulle macchine il nostro equipaggiamento e ci dirigemmo verso il limite della base, dove i mezzi di trasporto ci
aspettavano per trasferirci a Brize Norton. Come al solito, mi
portai sull’aereo il sacco a pelo, oltre al mio walkman, al necessario per lavarmi e radermi e al fornellino per gli infusi. Dinger
portò duecento sigarette Benson & Hedges. Se ci fossimo trovati
impastoiati nel bel mezzo del nulla o avessimo dovuto trascinarci
su una pista deserta per lunghi, interminabili giorni, non sarebbe
stata la prima volta.
Volammo su un VC-10 della raf. Fumai in modo passivo le
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venti e più sigarette che Dinger si fece fuori durante le sette ore di
volo, urlandogli dietro tutto il tempo; ma, come al solito, le mie
lamentele non sortirono effetto. Bisogna dire che lui era sempre
una compagnia eccellente, nonostante quella disgustosa abitudine. Originariamente inquadrato nel Reggimento dei paracadutisti,
Dinger era un veterano delle Falkland. Incarnava bene il tipo: rude e tosto, con una voce che metteva paura e due occhi che ne
mettevano ancora di più. Ma dietro la sua faccia da hooligan c’era un cervello acuto e analitico. Dinger era in grado di spazzare
via il cruciverba del Daily Telegraph in un baleno... con mio
grande rammarico. Da civile, era anche un eccellente giocatore di cricket e di rugby, mentre a ballare faceva assolutamente
schifo. Dinger ballava come camminava Virgil Tracy. Quando però si trattava di gestire una crisi, era tetragono e imperturbabile.
Quando atterrammo a Riyad fummo salutati dal clima piacevole tipico di quel periodo dell’anno in Medio Oriente: ma non
ci fu tempo per prendere il sole. Sull’asfalto ci stavano aspettando dei camion coperti, e fummo dirottati in una base isolata dalle
altre truppe della coalizione.
Il gruppo che ci aveva preceduto aveva fatto le cose in modo da
saper rispondere alle prime tre domande che si pongono sempre
quando si arriva in un posto nuovo: dove dormo, dove mangio e
dov’è il cesso.
Scoprimmo che l’alloggio riservato al nostro mezzo squadrone
era un hangar lungo circa cento metri e largo cinquanta. All’interno erano ammassati quaranta uomini e ogni tipo di provviste
ed equipaggiamento, inclusi i veicoli, le armi e le munizioni. C’erano cataste di materiale ovunque: di tutto, dal repellente per gli
insetti alle razioni di cibo, fino ai tracciatori laser per i bersagli e
alle casse di esplosivo ad alto potenziale. Era solo questione di
districarsi fra tutto e cercare di crearsi il proprio piccolo mondo
quanto meglio possibile. Il mio era costituito da parecchie grandi
casse contenenti motori fuoribordo, sistemate in modo da garantirmi uno spazio a parte che ricoprii con una tela cerata per ripa-
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rarmi dalle potenti luci sopra la mia testa.
C’erano varie isole separate di attività, ognuna con il proprio
rumore specifico: radio sintonizzate sul Servizio Internazionale
della bbc, walkman con gli auricolari da cui rimbombavano musica folk, rap e heavy metal. Si sentiva un odore pungente di gasolio, benzina e gas di scarico. I veicoli andavano avanti e indietro tutto il tempo, mentre i ragazzi uscivano per andare a esplorare altre parti della base e vedere cosa riuscivano ad arraffare. E
naturalmente, mentre erano assenti, il loro equipaggiamento veniva a sua volta rovistato da altri. « Chi dorme, non piglia pesci »: è
cosı̀ che funziona. Il possesso equivale alla proprietà. Lascia il
tuo spazio incustodito troppo a lungo e, quando tornerai, scoprirai
che ti manca una sedia... a volte perfino il letto!
Nell’hangar le tisane si sprecavano. Stan aveva portato un pacchetto di tè all’arancia e Dinger e io, dopo avere vagato un po’,
andammo a sederci sul suo letto con le nostre tazze vuote.
« Tè, ragazzo », ordinò Dinger porgendogli la tazza.
« Sı̀, buana », rispose Stan.
Nato in Sudafrica da madre svedese e padre scozzese, Stan si
era trasferito in Rhodesia poco prima della dichiarazione unilaterale d’indipendenza dalla Gran Bretagna. Restò subito coinvolto
nella guerra che ne seguı̀, e quando più tardi la sua famiglia si
trasferı̀ in Australia si arruolò nell’esercito. Superò gli esami di
ammissione alla facoltà di medicina, ma amava troppo la vita all’aperto, e abbandonò quasi subito la facoltà. Il suo sogno era andare in Gran Bretagna e arruolarsi nel Reggimento, quindi passò
un anno nel Galles a prepararsi per la selezione. Naturalmente fu
tra i prescelti.
Qualunque genere di attività fisica era una bazzecola per Stan,
sesso compreso. Era alto un metro e novanta, di corporatura imponente e di bell’aspetto: insomma, le faceva attizzare tutte. Jilly
mi disse che a Hereford il suo soprannome era Dottor Sesso, e
che quel nomignolo compariva piuttosto di frequente sulle pareti
dei bagni delle donne. Per sua stessa ammissione, la donna ideale
di Stan era una che non mangiasse troppo – per cui portarla fuori
non costasse granché – e avesse auto e casa proprie, cioè fosse un
tipo indipendente che non gli si sarebbe attaccata troppo. In qua-
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lunque parte del mondo si trovasse, le donne se lo mangiavano
con gli occhi e sbavavano per lui. Nella veste di seduttore era affascinante e soave come Roger Moore nella parte di James Bond.
A parte il successo con le donne, la cosa più notevole e sorprendente di Stan era il suo senso dell’abbigliamento: ne era
del tutto privo. Fino a quando lo squadrone non aveva messo
le mani su di lui, andava sempre in giro con sahariane di acrilico
antipiega e pantaloni che non gli arrivavano alla caviglia. Una
volta si presentò a una festa elegante con una giacca a quadri
che debordava da tutte le parti e pantaloni modello acqua alta.
Aveva viaggiato molto, e ovviamente si era fatto molte amicizie
femminili. Gli arrivavano proposte di matrimonio da tutte le parti
del mondo, ma le lettere non ricevevano mai risposta. Stan non
svuotava nemmeno la cassetta postale. Per essere uno di trentacinque anni, aveva un carattere molto spensierato, oltre che amichevole: non c’era niente che non avrebbe preso alla leggera. Se
non fosse stato nel Reggimento, avrebbe fatto lo yuppie o la
spia... anche se naturalmente in completo di acrilico.
Per insaporire le razioni, la maggior parte dei ragazzi si porta
senape o pasta al curry, perciò dalle zone in cui si stavano preparando pasti supplementari giungevano penetranti aromi speziati.
Io feci un giro e assaggiai qua e là. Tutti si portano sempre dietro
un cucchiaio da viaggio. La regola non scritta è che chi ha la lattina o sta cucinando ha il diritto di assaggiare per primo, e divide
il resto con gli altri. Si immerge il proprio cucchiaio da viaggio in
verticale e ci si serve. Se il cucchiaio è grosso, si può prendere di
più dalla lattina, ma se è troppo grosso – per esempio un cucchiaio di legno con il manico rotto – non si riesce nemmeno a infilarlo. Insomma, la caccia al cucchiaio da viaggio di dimensioni
ideali è sempre aperta.
C’era un casino bestiale. Se non ti piaceva la musica che qualcuno stava ascoltando, lui assente gli sostituivi le pile con dei sassi. Quando aprı̀ lo zaino, Mark scoprı̀ di essersi portato da Hereford una pietra di dieci chili. Sospettando a torto che fossi stato
io, mi sostituı̀ il dentifricio con la crema solare Uvistat. Quando
feci per usarlo mi incazzai.
Avevo incontrato Mark per la prima vola a Brisbane nel 1989,
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allorché alcuni di noi furono ospitati dai sas (Special Air Service)
australiani. Giocò contro di noi in una partita di rugby e fu
proprio l’uomo del match, con quelle gambe muscolose che
gli permisero di segnare tutte le mete della sua squadra. Era
la prima volta che perdevamo, e lo odiai: odiai quel bastardo
in tutto il suo metro e sessantasei. L’anno seguente ci rincontrammo. Stava passando la selezione, e il giorno che lo vidi
era appena ritornato alla base dopo una corsa di quindici chilometri con tutto l’equipaggiamento.
« Metti una buona parola per me », ridacchiò quando mi riconobbe. « Vi sarebbe molto utile un cazzutissimo buon mediano di
mischia! »
Mark superò la selezione e si unı̀ al nostro squadrone appena
prima di partire per il Golfo.
« È una cazzutissima goduria essere qui, amico », dichiarò entrando nella mia stanza per stringermi la mano.
Mi ero scordato che esisteva un solo aggettivo nel vocabolario
del Kiwi, e cominciava per « c ».
Nel nostro hangar l’atmosfera era gioviale e movimentata. Il
Reggimento non era più stato a ranghi completi dai tempi della
seconda guerra mondiale. Era meraviglioso essere cosı̀ in tanti
e tutti assieme. Generalmente operiamo a piccoli gruppi e in condizioni di massima segretezza: qui invece c’era la possibilità di
andare allo scoperto in gran numero. Non avevamo ancora ricevuto istruzioni, ma in cuor nostro sapevamo che la guerra avrebbe
fornito a ciascuno di noi una grande occasione di fare del « lavoro
vero », cioè le operazioni militari classiche dei sas dietro le linee
nemiche. Era questo lo scopo per cui inizialmente David Stirling
aveva creato il Reggimento, e adesso, a quasi cinquant’anni di distanza, ci ritrovavamo al punto di partenza. A quanto intuivo, in
Iraq le maggiori difficoltà probabilmente sarebbero state determinate dal nemico e dalla logistica: esaurimento delle scorte di munizioni e di acqua. Mi sentivo come un muratore che aveva passato la vita a costruire bungalow, e adesso qualcuno mi dava la
possibilità di costruire un grattacielo. Speravo solo che la guerra
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non finisse prima che riuscissi a posare il mio primo mattone.
Non avevamo ancora la più pallida idea di quello che avremmo
dovuto fare, cosı̀ passammo i giorni successivi a prepararci per
tutto e niente, dagli attacchi contro bersagli alla costituzione di
posti di osservazione. È sempre una gran soddisfazione fare le
cose più emozionanti – arrampicate, ascensioni in cordata, salti
negli edifici –, ma essenzialmente essere nelle Forze Speciali significa meticolosità e precisione. Il vero motto dei sas non dovrebbe essere « Chi osa vince », ma « Controlla e verifica, controlla e verifica ».
Alcuni di noi avevano bisogno di rinfrescare a spron battuto le
proprie competenze in fatto di esplosivi, movimento con i veicoli
e lettura delle carte in un deserto. Ci portammo dietro anche le
armi pesanti. Alcune di esse, come la mitragliatrice pesante da
12.7 mm, non le usavo da due anni. Seguimmo corsi di aggiornamento tenuti da chiunque fosse il più esperto in un particolare
settore; poteva essere il sergente maggiore come l’ultimo arrivato
dello squadrone. C’erano gli allarmi Scud, quindi tutti erano
comprensibilmente ansiosi di impadronirsi delle nuove tecniche
nbc (nuclear, biological, chemical, « nucleari, biologiche, chimiche ») che non avevano più utilizzato dai tempi in cui erano
nelle loro vecchie unità. L’unico problema era che Pete, l’istruttore proveniente dalle nostre truppe di montagna, aveva
un accento di Newcastle più impenetrabile della nebbia sul
Tyne, e parlava a raffica senza mai mettere la sicura alle parole. Sembrava Gazza Gascoigne nei suoi momenti peggiori.
Cercammo con grande sforzo di capire di cosa stesse parlando,
ma dopo un quarto d’ora la fatica ci vinse. Qualcuno gli fece una
domanda semplicissima, e lui finı̀ per mettersi a parlare ancora
più in fretta. Gli furono poste altre domande, e si innestò un circolo vizioso. Alla fine decidemmo tra noi che, se il kit doveva
funzionare, avrebbe funzionato. Non ci preoccupammo di imparare le tecniche per procurarci acqua e cibo che Pete stava spiegando e dimostrando, perché cosı̀ non avremmo poi dovuto imparare le tecniche per pisciare e cagare; era roba troppo complicata
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per gente come noi. Nel complesso, concluse Pete, mentre la riunione si scioglieva nel caos, non era stata la sua giornata più costruttiva; o, almeno, questo era il senso delle sue parole.
Quando ci distribuirono gli occhiali da sole da aviatore ci piazzammo fuori dell’hangar ad aspettare che passasse qualcuno per
inforcarli da bellimbusti, come facevano nelle pubblicità alla tv.
Dovemmo prendere le pillole contro i gas nervini, ma sospendemmo l’assunzione non appena incominciò a circolare la voce
che rendevano impotenti.
« È falso », ci rassicurò il sergente maggiore un paio di giorni
dopo. « Io mi sono appena fatto una bella sega. »
Guardavamo il telegiornale della cnn e discutevamo dei diversi
scenari possibili.
Immaginammo che i parametri delle nostre operazioni sarebbero stati elastici, anche se questo non significava che avremmo
potuto andarcene semplicemente a spasso a far saltare le linee
elettriche o qualsiasi cosa ci facesse girare i coglioni. Noi siamo
truppe strategiche, quindi ciò che facciamo al di là delle linee nemiche può avere conseguenze importanti. Se, per esempio, vedevamo una centrale petrolifera e la facevamo saltare solo per il gusto perverso di farlo, avremmo anche potuto far entrare in guerra
la Giordania: poteva essere un oleodotto da Baghdad alla Giordania che gli alleati avevano concordato di non distruggere, in modo che la Giordania continuasse ad avere il suo petrolio. Quindi,
se avessimo individuato un bersaglio appetitoso come quello, prima di occuparcene avremmo dovuto ottenere il permesso. Cosı̀
facendo avremmo provocato il massimo danno possibile alla
macchina da guerra irachena, senza però compromettere nessuna
valutazione politica o strategica.
Ci chiedevamo se, in caso di cattura, gli iracheni ci avrebbero
uccisi. Se fosse successo, sarebbe stato un vero peccato. La cosa
più importante, però, era che lo facessero in modo rapido, altrimenti avremmo dovuto cercare di accelerare i tempi.
Ce lo avrebbero ficcato nel culo? I maschi arabi sono molto
affettuosi fra loro, si tengono per mano e cose simili. Natural-
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mente è solo un’usanza, non significa necessariamente che siano
omosessuali, ma la domanda era legittima. Io non ero preoccupato di quella prospettiva, perché tanto, se mi fosse successo, non
l’avrei raccontato in giro. L’unica eventualità che mi faceva sudare era che mi tagliassero le palle. Quello proprio sarebbe stato
brutto. Se i beduini mi avessero spogliato e avessero affilato i
coltelli davanti a me, avrei fatto qualunque cosa per provocarli
e indurli a farmi secco.
Non ho mai avuto paura di morire. Il mio atteggiamento verso
il lavoro che ci si aspetta da me nel Reggimento è sempre stato
pensare che a fine mese prendi i soldi, e in cambio sei uno strumento da usare, lo sei fino in fondo. Il Reggimento perde uomini,
quindi questa eventualità viene calcolata. Puoi stipulare un’assicurazione, anche se all’epoca solo la Equity & Law aveva il coraggio di assicurare i sas senza aumentare il premio. Si scrivono
le lettere da consegnare ai parenti prossimi, se ti fanno fuori. Io
ne scrissi quattro e le affidai a un compagno di nome Eno. Ce
n’era una per i miei genitori che diceva: « Grazie per esservi presi
cura di me, per voi non deve essere stato facile, ma ho passato
un’infanzia abbastanza bella. Non preoccupatevi se sono morto,
succede ». Un’altra era per Jilly: « Non stare troppo a piangere,
prendi i soldi e spassatela. p.s. Cinquecento sterline sono per
quelli che finiscono dietro le sbarre per via dei prossimi casini
dello squadrone. p.p.s. Ti amo ». Ce n’era una terza, per la piccola Kate, che Eno le avrebbe dato quando fosse stata più grande, e
diceva: « Ti ho sempre voluto bene, e sempre te ne vorrò ». Infine
la lettera per Eno stesso, che avrebbe dovuto fungere da mio esecutore testamentario; diceva: « Non fregarmi, segaiolo, altrimenti
tornerò indietro a tirarti i piedi ».
Una sera, verso le 19.00, io e Vince, un altro comandante di squadra, fummo chiamati al tavolo dell’ufficiale comandante dello
squadrone. Il comandante stava bevendo qualcosa con il sergente
maggiore dello squadrone.
« Abbiamo una missione per voi », annunciò passandoci una
tazza di tè per ciascuno. « Lavorerete insieme. Andy prenderà
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il comando. Vince sarà il secondo. Il briefing è previsto domattina alle 08.00: ci vediamo qui. Informate i vostri ragazzi. Non ci
muoveremo prima di due giorni. »
I miei ragazzi furono piuttosto contenti delle novità. A parte il
resto, significavano smettere di far la coda per i due soli lavandini
e cessi disponibili. Sul campo, l’odore degli abiti o dei corpi puliti può disturbare gli animali selvatici e compromettere la tua posizione: perciò gli ultimi giorni prima di partire si smette di lavarsi e ci si assicura che gli abiti indossati siano usati.
I ragazzi si dispersero e io andai a sentire le ultime notizie della CNN. Avevano lanciato dei missili Scud su Tel Aviv, ferendo
almeno ventiquattro civili. Alcuni missili erano caduti in zone residenziali e, guardando la lunghezza delle vie e i bambini in pigiama, mi ricordai all’improvviso di Peckham e della mia infanzia. Quella notte, mentre cercavo di dormire, mi ritrovai a ricordare tutte le mie vecchie ossessioni e a pensare ai miei genitori e
a molte altre cose cui non pensavo da tempo.