Dispensa di Semiologia del cinema e degli audiovisivi

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Dispensa di Semiologia del cinema e degli audiovisivi
Dispensa di
Semiologia del cinema e degli audiovisivi
A cura del prof. Francesco Linguiti
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IL TESTO
La comunicazione è un complesso di attività che agisce su coordinate di inversione. Se l’emissione è
sintetizzabile in emittente→messaggio→destinatario, nel processo di interpretazione del testo, della
sua lettura (termine che indica la ricezione, la decodifica e l’interpretazione del testo) il percorso si
inverte in emittente←messaggio←lettore. La comunicazione, almeno fino a questo punto della nostra
introduzione, si manifesta come bidirezionale e resa possibile attraverso le capacità di inferenza del
lettore.
La comunicazione è data da testi. Prendiamo una definizione schematica e parziale che può permetterci di avvicinarci al concetto di testo.
Si può intendere per testo: qualsiasi enunciato o più generalmente qualsiasi atto o unità di comunicazione, composto da un numero variabile di segni, organizzati mediante un numero variabile di
codici, che mette in relazione elementi posti sul piano dell’espressione e elementi posti sul piano del
contenuto, in vista di un fine comunicativo.
Il testo è un sistema. Un sistema in cui sono messe in relazione unità di contenuto, a cui vengono
attribuite forme differenti, a seconda dei codici e dei linguaggi adoperati, e di grandezza variabile. È
un testo una semplice ed essenziale frase linguistica verbale o scritta, è testo una novella, un romanzo,
un film, un quadro, un brano musicale, le istruzioni di un televisore, i gradi di una divisa militare.
Sono testi tutte le unita isolabili che possiamo inferire come appartenenti ad un sistema codificato
dell’espressione. Ovviamente il corpo è un testo, così come lo sono gli abiti e come lo è la gestualità.
Ovunque vi sia una forma dell’espressione correlata ad una forma del contenuto, vi è un testo. In
quest’ottica la tastiera del computer con cui si sta scrivendo questo saggio, in quanto determinata
da segni oggettuali e grafici che rimandano a delle funzioni (il contenuto) è un testo. A questo punto
bisogna approfondire i termini chiave di questa definizione.
Enunciato
L’enunciato, in linguistica, è una “Sequenza che forma un segmento reale di discorso (orale o scritto),
prodotta in una determinata situazione comunicativa e delimitata da due interpunzioni forti o da due
pause importanti.” ( Beccaria 1996:268). Questa definizione ci chiarifica l’identificazione dell’enunciato come elemento linguistico, e ci permette di tradurlo nelle sue metafore non attinenti alle lingue
propriamente dette, e, per cui, in un’accezione più ampia, un enunciato è una unità testuale, isolabile
mediante l’identificazione di un inizio ed una fine. Enunciato può essere una sequenza definita di un
testo, ma enunciato è anche il testo nel suo insieme, nel suo avere un inizio, una fine, una autonomia.
Per quanto riguarda il termine unità comunicativa la spiegazione è molto semplice; se enunciato,
come dicevamo prima, ha un significato legato all’espressione linguistica, con unità comunicativa
ci possiamo riferire a qualsiasi oggetto della comunicazione, una automobile per esempio, che non
è gestita ed organizzata linguisticamente nella sua significazione, ma che comunque sottintende dei
codici ( di produzione, di fruizione, di determinazioni simboliche) e comunica circa se stessa e chi la
adopera.
Segni
«La semiotica guarda ai suoi oggetti di studio dal punto di vista delle loro proprietà segniche, cioè
delle loro capacità di trasmettere significati attraverso la diffusione di materiali significanti» (Ferraro
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1981:14), ed inoltre, «L’uomo comunica e dialoga anche con se stesso attraverso lunghe e complesse
concatenazioni segniche. Ovvero attraverso i testi. Dal momento che l’uomo parla e scrive per testi,
per la semiotica non è stato più il singolo segno, ma solo il testo, nella sua totalità, ad avere un senso
compiuto» (Magli 2004:15). Il segno sembrerebbe essere il primo elemento caratterizzante del testo,
che in quanto elemento privilegiato nell’analisi della significazione, si manifesta, in modo solistico
e nella sua totalità, come una agglomerazione di segni. Un segno, in alcuni casi, non basta di per se
stesso per essere un testo, ce ne vogliono più di uno ed in rapporto di relazione strutturata. Ma forse
la riflessione è riduttiva, basti pensare al logo della Nike, un singolo, unico segno, che anche se lo
leggessimo come segno isolato, sarebbe già, di per se stesso un testo. Ma che cosa è un segno? E quale
disciplina studia il segno?
Il termine segno e la sua concettualizzazione come elemento del significato e già compiutamente implicato nella riflessione filosofica nell’antica grecia; il termine semiologia è stato usato per la prima
volta da Ferdinand De Saussurre (1857-1913) nelle sue lezioni di Linguistica generale (1907-1911)
ed essa si presenta come “scienza dei segni” dal greco semeion = segno (stiamo citando Avalle, 1972).
Il termine semiotica, invece, è usato per la prima volta nell’ottocento da filosofo americano Charles
S. Peirce ( 1838-1914), in una serie di lavori la cui importanza si è rivelata più tardi negli anni 19311935, quando le sue opere furono pubblicate con il titolo di “Collected Paper”.
Una prima distinzione tra le due terminologie la si può rintracciare nel fatto che la semiologia presenta
una chiara matrice applicativa di tipo linguistico formale mentre la semiotica per vocazione si è spinta
maggiormente verso la scienza del significato, in ottica semantica, i modi dell’enunciazione, in ottica
pragmatica, e verso tutti i fenomeni culturali in quanto processi di significazione entrando così in relazione diretta con l’antropologia, la sociologia ed altre scienze sociali. Fatto sta che nella tradizione
francese, e di altre culture accademiche, la scienza dei segni la si è continuata a chiamare semiologia,
in altre semiotica. Nel presente le dicitura di semiotica ha comunque preso il sopravvento.
Saussurre individua una coppia oppositiva fondamentale nell’analisi e nell’inquadramento dei fatti
linguistici: la coppia è langue\parole. Con langue si intende l’insieme astratto di norme e regole delle
lingue naturali a cui ogni individuo è assoggettato ed a cui si deve far ricorso per poter effettuare qualsiasi atto comunicativo linguistico. La langue è la lingua nella sua dimensione totale ed immanente.
Essa è autonoma, non può essere cambiata dall’uso che ne fa il singolo parlante, la langue ha un’impronta di istituzione (in quanto sistema di riferimento e di adesione) ed una determinazione sociale
perché è condivisa e radicata socialmente come insieme di elementi linguistici e di norme e regole
per poterli articolare. La langue è la potenzialità della lingua (dimensione astratta) unitamente alle sue
regole (dimensione normativa.).
La parole è da intendersi in due accezioni:
a) «l’insieme delle caratteristiche fisiche e sensoriali di un atto di parole (la fonazione) e, per
estensione, l’insieme dei fattori fisici concreti che permettono la produzione della comunicazione linguistica ( canale, contesto), quindi, in ultima analisi, l’insieme dei meccanismi che
permette di utilizzare la lingua» (Caprettini 1978:23)
b) Il modo in cui il singolo parlante adopera a propri fini di comunicazione i paradigmi, norme
e regole della langue. Le potenzialità e le normative della langue che diventano il singolo
discorso, il singolo enunciato. La langue ( nella sua dimensione di totalità) si riduce alla
parzialità di singolo testo attraverso le scelte del singolo produttore del testo; questa pratica
di produzione testuale , soggettiva, fatta pescando nelle possibilità che sono implicite nella
langue, è la parole. L’uso soggettivo della lingua a fine di comunicazione.
Per Saussurre il segno si realizza nella relazione assoluta, nella indivisibilità tra significante (Sn) e
significato(St). Sono le due facce di una stessa moneta, l’una rimanda all’altra, una moneta, così come
un segno non si possono dividere.
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Da Saussurre in poi, il significante è sempre stato considerato come la parte che consente al segno di
manifestarsi percettivamente [ NdR ad esempio i suoni ( fonemi) nella lingua orale, i simboli grafici
nella lingua scritta]. In questo senso, il significante, in rapporto al significato, è da considerarsi il
piano esterno del linguaggio: è dotato di qualità sensibili che lo rendono manifesto ai nostri sensi (
Magli op.cit:17)
Se il significante è tutto questo, se è ciò che del segno si percepisce, ciò che possiamo vedere, sentire,
toccare, annusare, percepire sensorialmente, anche in una dimensione di contemporaneità dei sensi
adoperati, non rimane che interpretare il significato come ciò che è oltre la facciata del segno, oltre la
suo forma, il significato di un segno è tutto quello a cui la sua forma ci rimanda, facendole da sponda.
E’ il dato immateriale del segno, la sua dimensione concettuale, psichica, il valore semantico che si
attribuisce al segno. Bisogna chiarire alcune questioni relative alla funzione del segno:
«Bisogna distinguere chiaramente tra stati del mondo (referenti) [le cose, i fatti e le concettualizzazioni a cui il significato è in riferimento]e contenuti comunicativi: gli oggetti reali non significano
alcunché almeno fino a quando non sono percepiti come cose autonome da una società, diventando
così delle unità culturali che si possono nominare». (Volli 2003:21), nel senso che qualsiasi ambito,
oggetto, luogo, atteggiamento della nostra vita può essere definito in qualità di segno appartenente ad
un sistema di significazione dotato di codici, purché la nostra osservazione implichi questa volontà
e forma mentis di analisi, un agire semiotico. La semiosi è il processo di determinazione, produzione, circolazione ed interpretazione del senso ed essa « interviene solo nel momento in cui qualcuno
(un interprete) istituisce un nesso tra un’unità, che in questo modo diventa espressione (un suono,
un fenomeno atmosferico, un immagine), e un’unità che funge da contenuto». (ibidem). Un segno
possiede un qualsivoglia valore se gestito dall’interpretazione che è l’attività necessaria, del lettore,
che si occupa di creare una relazione mentale tra l’espressione, il suo contenuto-significato. Peirce
introduce il concetto di semiosi illimitata (o infinita ), ovvero, «il processo per cui i segni si riferiscono continuamente solo ad altri segni, così che il significato viene continuamente rinviato. Questo
differimento va a costituire un’infinità di segni che non dipende più direttamente da alcun oggetto o
referente» (Stam 1999:14).
Non c’è modo, nel processo di semiosi illimitata che Peirce descrive e fonda, di stabilire il significato
di una espressione, e cioè di interpretare quella espressione, se non traducendola in altri segni ( appartengano o no allo stesso sistema semiotico) e in modo che l’interpretante non solo renda ragione
dell’interpretato sotto qualche aspetto, ma dell’interpretato faccia conoscere qualcosa in più. (Eco
1984:107) ( per il significato del termine interpretante vedi sotto)
Nell’opera di Peirce il segno ha una valenza diversa: un segno, o rapresentamen, è qualcosa che sta
per qualcuno in luogo di qualcosa in qualche rispetto o capacità. Il rapresentamen è la faccia esteriore, formale, del segno. Questo segno è situato da qualche parte, per essere letto da qualcuno, e per
rimandarlo, concettualmente, a qualche altra cosa, con cui il representamen si incarica di instaurare
una relazione di un qualche tipo. Il rapresentamen fa si che nella mente del lettore si crei un segno
mentale, più sviluppato ed articolato, che è l’interpretante del representamen, ovvero un suo primo
livello di significato. L’interpretante, a sua volta, rimanda ad un suo oggetto di riferimento. Ecco, di
seguito, un modello di triangolo semiotico nell’ottica teorica di Peirce.
Segno interpretante, segno oggetto, il representamen
In altre parole, la parola bicicletta è il representamen, è un segno arbitrario, una serie di lettere e suoni
( grafemi e fonemi) che costituiscono la faccia formale del segno. Questa forma (representamen) mi
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rimanda ad un concetto, il concetto di bicicletta. Io leggo la parola bicicletta e nella mia mente (si
crea l’interpretante ) penso alla bicicletta. [in relazione agli elementi di esperienza del singolo lettore,
che istituiscono nella sua mente gli interpretanti di un segno] Potremmo dire che tra gli interpretanti
della parola bambino, non vi sono solo immagini di bambini o definizioni tipo “maschio umano non
adulto” ma anche, per esempio, la vicenda della strage degli innocenti. ( Eco 1979:35)
Il concetto di bicicletta, soggettivo e legato alla mia esperienza, che si crea nella mia mente, puro
pensiero, mi rimanda, a sua volta, ad un oggetto concreto, reale, possibile, ovvero, la bicicletta in
quanto oggetto della realtà e fatto di ruote, sellino, manubrio ecc. Ovviamente l’oggetto bicicletta non
è concreto nella mia mente, sarebbe difficile farcela entrare, ma è da qualche altra parte, in qualche
altro luogo fisico, materiale, e insondabile nella sua possibilità di essere un oggetto dalle fattezze, colori e materiali infiniti, dando per implicito che anche la bicicletta in quanto oggetto, non è una entità
singola ( a meno che non si tratti della mia bicicletta o di quella data bicicletta) ma, bicicletta è un
insieme di significati, l’oggetto è una sommatoria di sue possibilità semantiche, tante quante possono
essere le accezione del concetto bicicletta.
Ecco quindi la scansione dimensione formale del segno o percettiva → dimensione mentale del segno
o soggettiva → dimensione oggettuale(concettuale) del segno.
Abbiamo detto che la dimensione mentale del segno, ovviamente, è immateriale, ma anche la sua
dimensione oggettuale può essere immateriale. Altro esempio: la parola amore. Tutto come con la
bicicletta: leggo amore ( segno grafico, percezione visiva, forma del segno), penso ad amore (creazione di un concetto mentale, soggettivo ed esperenziale di amore), ma il terzo elemento, l’oggetto, non
è materiale bensì immateriale. La dimensione oggettuale del segno ( essendo l’amore una questione
psichica-neurologica) è in realtà concettuale, come è concettuale l’amore in quanto oggetto; «(..) è
chiaro che l’oggetto non è necessariamente una cosa o uno stato del mondo: è piuttosto una regola,
una legge, una prescrizione ( potremmo dire: una istruzione semantica). E’ la descrizione operativa di
una classe di possibili esperienze» (Eco 1979:29).
Vi è un terzo elemento il ground: è un concetto implicato nella nostra definizione di dimensione mentale del segno o soggettiva: il ground è l’idea, l’esperienza, l’immagine culturale, la connotazione che
il lettore ha dell’oggetto. Quella relativa e soggettiva percezione mentale che, rispetto alla mia cognizione e cultura e caratteri psicologici, io lettore posso avere della bicicletta e dell’amore in quanto
oggetti del segno.
Invertendo i termini della questione, ovvero, non più dal segno all’oggetto, ma dall’oggetto al segno,
la riflessione su segno e identificazione è inquadrabile anche con seguente accezione teorica ( non
impropria e superficiale come gli esempi che abbiamo fatto per dovere didascalico):
Ogni segno (o representamen) esprime immediatamente un Oggetto Immediato ( che si potrebbe definire il suo contenuto) ma per rendere ragione di un Oggetto Dinamico.
L’Oggetto immediato è il modo in cui l’oggetto Dinamico viene preso dal segno (…). L’Oggetto dinamico che stimola la produzione del segno, è la cosa in sé: (…) l’Oggetto Dinamico determina i modi
di organizzazione dell’Oggetto Immediato? Siccome Peirce credeva alla costanza delle leggi generali
in natura, evidentemente l’Oggetto Immediato rende ragione di un senso già implicato nell’Oggetto
Dinamico. Il significato semiotico è legato al significato conoscitivo.(Eco 1984:107)
Peirce (1931 in tr.it.1980) individua tre tipologie basilari di simbolo(e la nozione è da ricollegare a
quella di codice): simbolo: è un segno convenzionale, arbitrario, nel senso che rimanda al suo concetto ed oggetto ( sta per il suo concetto ed oggetto) in base ad una codificazione formale che non ha
alcuna ragione formale se non quella della convenzione. La parola è il simbolo di cui l’uomo si serve
maggiormante nella sua comunicazione. Il fatto che l’oggetto ed il concetto bicicletta si esprimano
attraverso la parola bicicletta, non ha alcuna ragione naturale. Bicicletta in quanto segno-simbolo del
linguaggio (parola fatta da grafemi e fonemi) è una convenzione linguistica istituzionalizzata dall’uso
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sociale e testuale che ne si fa, ma la scelta di dare alla bicicletta il nome di bicicletta è assolutamente
arbitrario. E’ una scelta della lingua. Un altro esempio potrebbe essere fornito dal colore verde nei
semafori ed in alcuni impianti tecnologici. Nei semafori verde vuol dire “via libera” in alcuni impianti
tecnologici o nei cruscotti delle automobile vuol dire “acceso”; “via libera” ed “acceso” hanno una
radice di significazione comune che sta per “in attività”( sia per l’automobilista che può passare al
semaforo sia per il flusso di elettricità che accende lo stereo o i fari dell’automobile): il fatto che il
verde indichi l’attività in corso, mentre il rosso la non attività, è una convenzione linguistica. Si sarebbe potuto scegliere qualsiasi altro colore o simbolo per indicare questa proprietà.
Icona: è un segno che presenta una somiglianza formale con il significato a cui rimanda. In poche
parole l’icona espone una forma simile a quella del suo oggetto. Nel concetto di somiglianza, per cui,
ricadono le immagini, intese come segni che attraverso tecnologie ( pittura, fotografia, scultura, disegno, digitalizzazione ecc.) hanno il compito di presentare forme che, in un modo o nell’altro, siano
analogiche alle forme dell’oggetto reale , o di equivalenza formale, o di parafrasi formale. Un uomo,
se è in una fotografia, è un segno ( iconico) che attraverso una traduzione tecnologica ( la tecnologia fotografica) e dei codici di composizione dell’immagine, manifesta alcuni tratti di somiglianza
formale con il suo oggetto di riferimento, ovvero, l’uomo reale-concreto che non è nella fotografia
(testo, fittizio, fatto di segni analogici) ma nel mondo reale, e di cui la fotografia è solo un tentativo di
traduzione segnica, immateriale, senza alcuna sostanza umana.
Indizio (o indice): è un segno che palesa un rapporto d’implicazione con un altro oggetto (o soggetto
dell’azione testuale), gli indizi Legano la presenza o l’assenza di un oggetto a comportamenti possibili del loro probabile possessore: ciuffi di peli biancastri su di un divano sono indizio del passaggio
di un gatto d’angora. Di solito però rinviano a una classe di possibili possessori e per essere usati
estensionalmente richiedono meccanismi abduttivi (Eco 1984:46)
Vale per cui anche il classico esempi della cenere che rimanda alla sigaretta, o dell’asfalto bagnato
che rimanda ad un qualche temporale ormai terminato. L’indizio sembrerebbe modellarsi più sui termini di oggetto assente che presente.
Difficilmente l’indizio, in un testo, è adoperato per rimandate ad un suo oggetto, anch’esso, contemporaneamente, presente nello stesso momento, nello stesso enunciato. Inoltre: (..) sono indizi anche
i tratti stilistici ( verbali, visivi, sonori) la cui ricorrenza ( o assenza) permette di stabilire la paternità
di un testo. (idem:47)
Ovviamente, in ottica semiotica, possiamo tranquillamente scavalcare questa classica tripartizione
e riflettere sul segno inteso come: qualsiasi manifestazione di qualsiasi forma - materia - modo ed
entità - che sia sottoposta ad interpretazione. Se noi vogliamo analizzare l’organizzazione spaziale e
l’arredamento di un’aula universitaria come oggetto semiotico, dobbiamo analizzarne la disposizione
delle mura (progettate mediante codici spaziali-architettonici), la dislocazione e la tipologia costruttiva della cattedra, dei banchi, delle sedie, degli impianti tecnologici, tutti questi vari oggetti nella loro
singolarità e nel loro essere elementi di un sistema aula: tutto ciò sono segni, articolabili (come emissione) ed interpretabili (come fruizione) in quanto apparati semantici, dotati di un significato di uso
( funzionale) ma anche di un significato simbolico ed ideologico. La sola altezza della cattedra è di
per se stessa una categorizzazione oggettuale del concetto sociale di istituzione e potere. Se nell’aula
dovesse essere presente un crocifisso, esso diventerebbe un potentissimo segno di comprensione circa
la vocazione culturale del luogo.
Se oltre al crocifisso vi fosse presente un computer, la messa in relazione tra tradizione valoriale e
contemporaneità sociale, sarebbe un’inferenza obbligata da parte dello studente destinatario ( lettore)
dell’aula in quanto testo. Se c’è qualcuno che la interpreta un’aula è un testo ( dato da codici e segni),
come lo è un cruscotto di una automobile, una scarpa, un sigaro, un tombino. Qualsiasi oggetto o
luogo determinato dall’uomo, in quest’ottica, diventa testo fatto di segni.
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Inferenze
Per comprendere l’azione di un segno inserito in un testo, o emesso in quanto testo, bisogna considerare il concetto di codice, ma ancora prima comprendere attraverso quale percorso logico, il lettore
metta in atto la traduzione di un significante nel suo significato. L’inferenza è la possibilità logica che
fa sì che l’uomo possa realizzare il suo processo di interpretazione, a partire da un sistema di segni.
Il lettore, in quanto interprete È tenuto a rimettere continuamente in gioco le sue congetture, rielaborandole e correggendole attraverso una serie di aggiustamenti di tiro. Questo processo di costante
revisione delle ipotesi di senso è un esempio di quel principio generale detto circolo ermeneutico che
consiste nel fatto paradossale ma necessario di interpretare le parti alla luce del tutto e il tutto alla
luce delle parti.(Volli 2000:136)
Peirce teorizza che l’esperienza sia il risultato di inferenze: le nostre percezioni non si realizzano
nella mera ricezione passiva di un dato, ma implicano un ‘giudizio percettivo’ sui contenuti dell’esperienza. Ad esempio, quando dico che un oggetto é giallo, devo già possedere il concetto di giallo per
poterlo applicare al caso particolare, devo cioè formulare un ‘giudizio’, anche se, a differenza dei
giudizi intellettuali, esso viene espresso inconsapevolmente. Dell’attivita inferenziale fanno parte
tre dimensioni ( regola-caso-risultato) e tre categorie (deduzione-induzione-abduzione) oltre alle due
forme tradizionali di inferenza: la deduzione (che va dal generale al particolare) e l’induzione (che
va dal particolare al generale), Peirce inserisce una terza possibilità il ‘ragionamento ipotetico’ o
abduzione. Essa consiste nel formulare un’ipotesi causale partendo da un effetto dato: Se c’é cenere
(effetto), ci deve essere stato un fuoco (causa); la validità del ragionamento abduttivo può comunque
essere garantita dal metodo sperimentale: solo accendendo un fuoco posso effettivamente appurare
se esso genera cenere.
Le dimensioni di regola, caso e risultato sono facilmente riassumibili. Di ogni fenomeno che l’uomo
percepisce, esso considera il fenomeno come caso (una situazione appartenente ad una regola), come
regola (la categoria di appartenenza del caso con le sue prassi e norme) e per cui individuando il
caso e mettendolo in relazione con la regola, l’uomo riesce a giungere ad un risultato, una risultanza
(plausibile) logica.
Deduzione
regola: io so che le automobili senza cinghia di trasmissione non possono muoversi
→ caso: se la mia automobile non ha la cinghia
→ risultato: la mia automobile ( sicuramente) non potrà muoversi
induzione
risultato: la mia automobile non può muoversi
→ caso: mi accorgo che la mia automobile non ha la cinghia
→ regola:(probabilmente) le automobili senza cinghia non possono muoversi
abduzione
risultato:la mia automobile non può muoversi
→regola:(ipotizzo) che le automobili senza cinghia non possano muoversi.
→ caso: (ipotizzo) che la mia automobile non abbia la cinghia
L’abduzione è «la forma più ardita di inferenza» (Eco 1984:40). La regola a cui si fa riferimento per
rendere logico il ragionamento è una invenzione del lettore (interprete del testo o della situazione),
che, implicitamente, nel suo processo al significato, si ritrova senza prove. L’abduzione è una con7/
gettura che poi ci spingerà a rintracciare, nel testo, elementi che possano avallare la nostra interpretazione, che rimane, come sospesa (ma plausibile) in attesa di poterla comprovare attraverso nuovi
indizi. Il lettore si avvicina al testo, incomincia a reperire alcuni segni ed a raggrupparli per categorie
mentali, li mette in relazione, ed inizia a produrre un calcolo in cui questi segni, a mo di equazioni
di significato, possano portarlo a dei risultati plausibili ed intermedi. Questi significati ( risultati)
intermedi sono il frutto della messa in relazione che il lettore compie, tra i segni, a cui il lettore attribuisce maggiore densità di significazione, e l’esperienza, che il lettore possiede, del genere testuale
di riferimento.
Il lettore realizza questo calcolo: segni (relativi ad una sequenza testuale) + esperienza testuale del
lettore = significato potenziale (da avallare e dimostrare) di quella sequenza testuale. Dove per esperienza testuale si intende quale possa essere il tipo di pratica testuale posseduta dal lettore. Immaginiamo una inquadratura cinematografica. Si vede un uomo a cavallo con un cappello a falde larghe,
tipo cowboy, e stivali alla messicana ( primo insieme di segni), un deserto ( secondo), delle montagne
sullo sfondo ( terzo), una carcassa di un animale da pascolo morto ( quarto), il film è senza musica,
non sappiamo di cosa si tratti e non abbiamo visto i titoli di testa. Dopo aver visto le prime poche immagini, ci diciamo: “potrebbe essere un film western, probabilmente ambientato nel deserto dell’Arizona”. Ma qualcuno di noi è mai andato in Arizona? Molti pochi, e poi l’Arizona reale è concreta,
mentre quella cinematografica è la sua traduzione (tecnologico-linguistica) fotografica ed iconica,
per cui tutto potrei riscontrare nell’inquadratura tranne tracce dell’Arizona reale che qualcuno di
noi potrebbe aver visto. Inoltre, ciò che a me potrebbe sembrare Arizona in realtà potrebbe essere la
Spagna o l’Abruzzo visto che nessuno vieta di girare un film in un luogo ( per ragioni economiche o
espressive) per poi, da un punto di vista testuale, spacciarlo per un altro. E poi, in quanti di noi hanno
mai visto un cowboy? E soprattutto chi può dire di averlo mai potuto vedere tra fine ‘800 e primi del
‘900, ovvero, le età storiche di ambientazione del film western. Per quanto riguarda il cappello a falde
larghe, tipo cowboy, e gli stivali, alla messicana, ebbene, lo stesso tipo di cappello, molto simile, è
usato in Toscana, in Sudafrica, in Australia, e quegli stivali sono usati, abbastanza simili, in tutto il
centro e sud America. E poi il deserto potrebbe essere quello marocchino, il Riff con le sue montagne
sullo sfondo può ricordare certi scorci statunitensi. Il film potrebbe essere la storia di un contadino
abruzzese ex emigrante in Australia che, amante del Sud America, si trova in vacanza in Marocco.
Nella mia sequenza testuale, fino a questo momento, non c’è nulla che possa farmi pensare il contrario. Il testo propone delle ipotesi di relazione semantica tra i suoi segni costitutivi, ma non fornisce
mai una soluzione certa alle inferenze del lettore. Il testo per certi versi è reticente, i suoi segni sono,
come in alcuni giochi, degli incastri, delle tessere fatte per essere incastrate l’un l’altra, ma nel testo
sono sciolte, separate pur se agiscono in un territorio comune ( l’orizzonte testuale). L’incastro, il
significato, è di esclusiva competenza del lettore, esso deve prendere tutte le tessere e sperimentarne
le possibilità di connessione. Ed ecco che entra in gioco l’esperienza del lettore.
Torniamo alla nostra sequenza, al brano del nostro film, e iniziamo a mettere in relazione le quattro
forme iconiche (uomo a cavallo, deserto, montagna, carcassa): incrociamo i dati che abbiamo estratto
dai vari insiemi di segni e li addizioniamo alla nostra esperienza che abbiamo maturato nella fruizione
del genere “testo cinematografico” e della sua suddivisibilà in sottogeneri della narrazione. Tra questi
sottogeneri noi abbiamo esperienza di quello convenzionalmente definito “Western”.
Abbiamo visto molti (alcuni) film western dai quali abbiamo imparato che nei film western ( testi)
gli uomini hanno, spesso, come elementi di riconoscimento che: a) indossano cappelli e stivali di un
certo tipo e vanno a cavallo b) spesso agiscono in luoghi tra il desertico ed il montuoso spesso nominati come Arizona c) si occupano di bestiame e noi sappiamo che le bestie se non bevono muoiono e
diventano carcasse, ma abbiamo mai visto una bestia morte di sete in un deserto? Forse no ma, sicuramente, in qualche testo ( film, foto, romanzo, articolo di rivista) abbiamo letto che la cosa accade.
Realizziamo l’addizione segni + esperienza e giungiamo ad un risultato parziale, ovvero, “potrebbe
essere un film western, probabilmente ambientato nel deserto dell’Arizona”. Ma da cosa è fatta la no8/
stra esperienza di lettori? Dalla lettura e dalla pratica che abbiamo di altri testi,ovvero, gli elementi di
cui noi siamo esperti ( nel caso del nostro film gli elementi a, b, c ) sono elementi che hanno solo ed
esclusivamente a che fare con la loro propria convenzionalizzazione di genere testuale, appartengono
alla realtà dei testi, non a quella concreta, il west (quello esistito nella storia, concreto, umano ) ha ben
poco a che fare con la sua rappresentazione e narrazione testuale, con la sua codificazione in quanto
genere cinematografico, con le sue simbolicità, mitizzazioni, convenzioni e luoghi comuni cinematografiche. Per cui la nostra esperienza è una esperienza meta-testuale. Decodifichiamo testi, attraverso
la pratica di altri testi. Un mondo di segni, legati all’immaginario, e rielaborati, messi in relazione e
ricontestualizzati attraverso l’immaginario; un immaginario testuale per l’appunto.
I testi sono una realtà a se stante, la cui percezione, spesso, confondiamo con la percezione ed esperienza della nostra altra realtà, umana, della natura. Fondamentale non confondere testo e natura o
Natura e Cultura, tanto per citare Lèvi-Strauss (1964).
Tutte queste ipotesi, abduzioni, le realizziamo in modo diacronico, nel senso che sono necessari dei
tempi di analisi e di calcolo. Durante queste operazione e questi tempi morti del significato, la nostra
posizione nei confronti del significato testuale, è di sospensione. Siamo in attesa di ottenere riscontri
che possano dare per buone le nostre inferenze, ed aspettiamo, basandoci su ipotesi di significato,
temporanee, che per il momento possono andarci bene, ci garantiscono una certa plausibilà. La nostra
ipotesi temporanea di decodifica “potrebbe essere un film western, probabilmente ambientato nel deserto dell’Arizona” la terremo con noi, ma insieme ad essa manterremo aperte anche tutte le altre ipotesi di significato, secondarie e meno convincenti, che nel mentre possiamo aver fatto, e che facciamo,
in tempi rapidissimi. Poi, se compare un indiano apache, allora daremo per assodata e certificata la
nostra ipotesi, se invece dovesse comparire un pullmann o un disco volante, allora, cambieremmo immediatamente la nostra ipotesi di partenza per formularne di altre, già previste tra quelle secondarie,
o nuove di zecca. Tutto ciò implica tempi. Tempi di lettura dei segni, di formulazione di calcolo e di
inferenza. Sono operazioni automatiche, per certi versi subconscie. A lettura avvenuta dimentichiamo
di aver investito tutte queste energie nei nostri calcoli inferenziali e, probabilmente, potremmo dire “
Ho capito subito che si trattasse di un film western”.
Intertestualità
In questo gioco, continuo, di messa in relazione di codici e significati appartenenti a testi diversi, è
fondamentale il concetto di intertestualità, ovvero, del fatto che un testo abbia in sé, impliciti, rimandi
ad altri testi, intesi tutti, nell’insieme, in un’ottica di genere. L’intertestualità non è un concetto univoco, ma piuttosto è un insieme di pratiche è «una relazione di copresenza fra due o più testi, vale
a dire, eideticamente e come avviene nella maggior parte dei casi, come la presenza effettiva di un
testo in un altro». (Genette 1997:4). L’intertestualità è una sorta di compartecipazione, strutturale o
semantica, che si instaura tra i testi. «Nella sua forma più esplicita e più letterale si tratta della pratica
letterale della citazione (..)» (ibidem); citazione, per cui, quando in un testo vi sono chiari riferimenti
ad uno più altri testi ( x rimanda a y e z), e questi riferimenti sono palesi e, anzi, necessari per la decodifica dei contenuto (senza y e z non capiremmo x) , addirittura, sono la ragione stessa del contenuto
( il testo x viene progettato per comunicare circa i testi y e z) . Può essere plagio, quando «in forma
meno esplicita e meno canonica» (ibidem) un testo copia un altro testo o altri testi ( x assume le forme
di y).Può essere allusione, quando si tratta di «un enunciato la cui piena intelligenza presuppone la
percezione di un rapporto con un altro enunciato al quale rinvia necessariamente l’una o l’altra delle
sue inflessioni, altrimenti inaccettabile» (ibidem) (per essere verosimile k nel testo x, devo conoscere
la funzione che k assume nel testo y).
L’intertestualita è una delle radici della nozione di sistemi testuali, in cui il singolo testo si può intendere come una parte, relativa, in un agglomerato più ampio di interdipendenze testuali. Il mio
personale testo, raggiungerà la sua propria compiutezza e ricchezza semantica, se decodificato come
9/
elemento appartenente ad un sistema, un corpo molto più grande ed espanso rispetto a quello del mio
singolo testo, in cui il senso di ogni singolo testo è dato dal calcolo di tutti i sensi disponibili e presenti
nel sistema di relazioni. Il significato è dato ed è implicato dalla messa in relazione, ovvero, i significati di un testo x sono dati dal testo x più gli altri testi con cui x è in corrispondenza, rapporto.
Codice
Nella lunga digressione del paragrafo precedente, abbiamo dato per implicite alcune dimensioni del
testo di cui non si è ancora fatta menzione in questa introduzione, e tra le tante la connotazione (di cui
parleremo oltre) ed il codice, di cui invece parliamo subito.
Il codice in una lingua è:
a) un numero variabile di simboli, raggruppati in un insieme (repertorio) e che sono distinguibili
per opposizione reciproca
b) l’insieme di simboli è organizzato da regole combinatorie di tipo grammaticale e sintattico
c) ogni simbolo è in corrispondenza ad un significato
Il codice è l’insieme delle norme e delle regole attraverso il quale (ed attraverso le cui prassi) si giunge all’organizzazione del messaggio ( come creazione, come produzione di esso) ed alla sua decodifica ( come ricezione e lettura ).Il codice appartiene ad un sistema. Il sistema, in questa accezione, è
da intendersi come un insieme di elementi, che in un ambito testuale, in forma solidale e convenzionalizzata, intrattengono rapporti regolati e resi possibili da un codice (Caprettini 1980). Il sistema è il
luogo di azione del codice, che ne regola le scansioni, le interconnessioni. Nel caso di un sistema di
segni il codice presiede:
1) all’istituzione dei rapporti che associano i segni in classi di segni;
2) all’istituzione dei rapporti che aggregano i segni in catene comunicanti, ossia in messaggi.
Il codice si presenta quindi come l’elemento astratto che rende possibile la comunicazione
(idem:47)
Un testo, qualsiasi testo, si sviluppa su due assi complementari, un’asse sintagmatica ( che possiamo
immaginare come orizzontale) ed un asse paradigmatica ( che possiamo immaginare come verticale
e definire anche come asse di sistema). L’asse sintagmatica è la successione degli elementi testuali,
questa successione è, ovviamente, organizzata in modo tale che ognuno di questi elementi sia in un
rapporto funzionale con gli elementi che lo precedono e con quelli che lo seguono, in quanto successione organizzata quest’asse è definibile come asse di processo. L’asse sintagmatica ( essendo
successione e processione testuale) di elementi, è paragonabile al concetto di sintassi linguistica. In
un testo narrativo, ad esempio un film, l’asse di processo di una scena è data dalla successione delle
singole inquadrature, inquadrature che verranno messe in relazione l’un l’altra mediante dei sistemi
di codici sintattici. Ma non solo, anche la singola inquadratura verrà organizzata in base a dei codici
dell’immagine (di tipo grammaticale). Queste (i codici) sono le scelte dell’asse verticale di sistema
che equivale al concetto di permutazione. Facciamo un esempio Inquadratura 1→ Inquadratura 2→
inquadratura 3→ inquadratura 4 e così via, costituisce l’asse di processo. Mentre tutte le scelte che
opererò sul come realizzare la singola inquadratura (ad esempio la numero 1), quale particolare immagine scegliere, come articolare l’immagine che ho scelto, che tipo di attributi dargli (ecc.), tutto
questo riguarderà l’asse di sistema. E’ chiaro che le scelte che realizzerò nell’asse di sistema, sono
organizzate dai codici. I codici servono a fornire repertori condivisi, per mezzo dei quali poter gestire
le possibilità espressive del testo. Per cui possiamo sintetizzare così:
Asse di processo: congiunzione (e)
Asse di sistema: congiunzione (o)
10/
Parola 1 (e) parola 2 (e) parola 3 = processo.
Identificazione della parola 1 in x (o) in y (o) in k =sistema ( mediante la conoscenza ed il vaglio dei
vari sinonimi che una parola può avere).
I codici si occupano della regolazione del singolo elemento testuale della catena testuale, ma in realtà si occupano anche della loro messa in relazione: avrò codici che mi permetteranno la scelta più
adeguata per l’inserimento della parola 1 e avrò codici che mi permetteranno di scegliere la parola 1
progettandone una relazione significativa con la parola 2, 3 e così via.
Il concetto di processo è avvicinabile al concetto di struttura testuale. La struttura è l’organizzazione
interna di un sistema semiotico ed essa è data dalla totalità degli elementi del testo e dalle loro relazioni. Elementi e relazione in ottica di significanza.
La struttura è di un singolo testo, è la sua impalcatura, la sua rete di interdipendenze dei singoli elementi, la loro familiarità. Il sistema, invece, è ciò che è comune a tutti i testi, il sistema e l’insieme di
consuetudini e norme ( per quei codici) che riguardano le singole lingue ed i singoli linguaggi nelle
loro generalità. I codici riguardano tutti i testi delle singole lingue e linguaggi, la struttura riguarda
quel singolo testo di quella singola lingua o linguaggio, anche se, e questo è fondamentale, strutture
simili o identiche si riscontrano e si possono riscontrare in testi diversi in quanto a codici di sistema
adoperati. La stessa struttura, o molto simile, si riscontra in testi che formalmente sono dissimili. La
struttura, per sua vocazione e conformazione, in alcuni casi è meno visibile dei codici adoperati nel
sistema. Se io ho due giacche da pantalone, una viola accesissimo, in pelle, con un taglio contemporaneo, ed un’altra marrone scura, in tweed, con un taglio anni ’40, da un punto di vista di codici
di sistema sono diversissime (diverse per codici del tessuto, del colore, del taglio, della funzione
estetico-culturale) ma da un punto di vista strutturale ( in quanto tutte e due giacche con maniche e
dotate di medesime caratteristiche di uso e di connessione degli elementi che le compongono ) saranno esattamente la stessa cosa.
( sE ) fE , fC ( sC )
Ritorniamo al concetto di significante e significato. Louis Hjelmslev ( tr.it.1968) sviluppa la bipolarità
del rapporto binario tra i due termini, ritiene linguisticamente insostenibile il dato per cui un segno sia
sostanzialmente un rimando ad un contenuto esterno ad esso ( il segno non può essere scisso dal suo
significato) ed allo stesso tempo non si accontenta della nozione saussurriana di segno. Sposta i due
termini della questione sul piano del linguaggio e definisce il significante come piano dell’espressione, la dimensione materiale del segno con cui entriamo in contatto mediante la percezione, ed il
significato come piano del contenuto, il significato del segno che equivale alla concezione mentale
che di esso ne fa il lettore.
Il segno diventa una funzione, il segno è la funzione segnica. La funzione segnica è di per se una
solidarietà.
Espressione e contenuto sono solidali, si presuppongono reciprocamente in maniera necessaria.
Un’espressione è espressione solo grazie al fatto che è espressione di un contenuto, e un contenuto è
un contenuto solo grazie al fatto che è contenuto di un espressione. Non ci può dunque essere, tranne, che per un artificiale separazione, un contenuto senza un’espressione, né un’espressione senza
un contenuto. Se pensiamo senza parlare, il pensiero non è un contenuto linguistico, non è un funtivo di una funzione segnica; se parliamo senza pensare, producendo una serie di suoni a cui nessun
ascoltatore può attribuire un contenuto, il nostro discorso sarà un abracadabra, non un’espressione
linguistica, non un funtivo di una funzione segnica. Naturalmente mancanza di contenuto non si deve
confondere con mancanza di senso: un’espressione può benissimo avere un contenuto che da qualche
punto di vista (per esempio quello della logica normativa o del fiscalismo) si può caratterizzare come
privo di senso, ma che resta, ciò nonostante, un contenuto. (Hjelmslev 1968:52, corsivo nostro)
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Il teorico danese, inoltre, identifica la suddivisione in forma e sostanza, sia per quanto riguarda il
piano dell’espressione, sia per quanto riguarda il piano del contenuto. Per cui abbiamo
(E) Espressione
(fE) forma dell’espressione: l’organizzazione formale e strutturale della sostanza dell’espressione,
che il lettore può identificare attraverso l’identificazione delle marche testuali, ovvero, funzioni (
operatori) e indici dell’organizzazione formale di un testo.
(sE) sostanza dell’espressione: il segno come materia, corpo, entità fisica percettibile.
(C) Contenuto
(fC) forma del contenuto: l’organizzazione formale del contenuto, che il lettore può identificare attraverso l’identificazione delle marche semantiche, ovvero, funzioni (operatori) e indici dell’organizzazione semantica di un testo.
(sC) sostanza del contenuto: «l’aspetto antropologico o più generalmente il fondamento ideologico
del contenuto di un testo; è in altre parole il significato ultimo di un testo che una cultura veicola in
esso, storicamente individuato, traendolo dal suo universo tematico» ( Caprettini 1978:4)
Facciamo un esempio, brutalizziamo la teoria con una banalizzazione didascalica, e prendiamo in
considerazione un film:
testo=film
(fE) Il film come discorso, come scelte relative ai codici di linguaggio e soluzioni narrative di superficie adoperate nel singolo film. Il come si è espresso.
(sE) Il cinema come sistema di tecnologie, materialità, linguaggi e soluzioni narrative, tutte a un livello potenziale, non ancora espresse, non ancora rese testo, non ancora diventate film. La massa delle
potenzialità dell’espressione.
(fC) Il sistema dei personaggi, delle situazioni, gli argomenti, i temi del singolo film, la sua struttura.
Il cosa si è comunicato.
(sC) Il singolo film come elemento di un sistema cinema, dalle dimensioni antropologiche ed ideologiche di riflessione sulle società, culture, psicologie e conflitti, e in definitiva, sulle realtà ( reali o
presunte o immaginarie) dell’uomo. Tutto ciò che sarebbe possibile narrare e rappresentare in un film,
a livello potenziale. Il cosa si potrebbe comunicare, il comunicabile.
Qualunque segno, qualunque sistema di segni, qualunque sistema di figure organizzate in funzione
di segni, qualunque lingua contiene in sé una forma dell’espressione e una forma del contenuto. Il
primo stadio dell’analisi di un testo dev’essere, dunque, un analisi in queste due entità (Hjelmslev
op.cit:64)
Un testo è dato dalla organizzazione, in struttura, di unità della forma dell’espressione e unità della
forma del contenuto. Esse diventano la struttura testuale e si presentano, in essa, in forma gerarchizzata, ognuna al suo posto deputato e con un compito ed un valore strutturale ben definito e necessario.
Possiamo, quindi, tornare in modo più articolato al concetto di funzione segnica e dire che essa è data
dalla relazione che s’instaura tra forma del contenuto e forma dell’espressione. Le sostanze (del contenuto e dell’espressione) non sembrano aver parte attiva nel processo di semiosi. Essa può implicare
anche dei fenomeni di slittamento semantico (o sclerotizzazione) in cui il significato condiviso, di
uno stesso testo, si modifica nel tempo, anche perché viene a cambiare, socialmente, l’uso che di quel
testo si fa. Ed infatti: Certe configurazioni espressive, come ad esempio un complesso architettonico,
con il tempo possono svuotarsi della loro funzione originaria per assumerne altre, magari di ordine
ludico, estetico o anche celebrativo. Resti di un acquedotto romano in aperta campagna hanno perduto la loro funzione strumentale per acquistarne una simbolica: sono mute testimonianze di un passato
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(Magli op.cit:18)
Forma dell’espressione e del contenuto sono in interrelazione continua in quanto il contenuto è oggetto dell’espressione e l’espressione è veicolo del contenuto. La forma dell’espressione seleziona unità
( che fino al momento della selezione sono solo potenziali e non testuali) della sostanza dell’espressione, e la forma del contenuto si comporta allo stesso modo nei confronti di unità della sostanza
dell’espressione. Sostanza dell’espressione e sostanza del contenuto, sono una sorta di inconscio
dell’espressione e del contenuto, e sono insiemi non semiotici, nella misura in cui così come l’inconscio non è ancora linguaggio finchè il soggetto non si esprime attraverso il discorso (testo), così sostanza dell’espressione e del contenuto non sono testo ( ma solo potenzialità), finchè alcune loro unità
non verranno selezionate per partecipare all’organizzazione e strutturazione di un discorso (testo).
Ecco come la, apparentemente, enigmatica formula che abbiamo usato per titolare il paragrafo, (sE)
fE , fC (sC), si dimostra essere la semplice formula costitutiva di qualsivoglia tipo di testo.
lavoro semiotico
Siamo partiti da questa definizione del concetto di testo: Qualsiasi enunciato o più generalmente qualsiasi atto o unità di comunicazione, composto da segni, organizzati mediante un codice, che mette in
relazione elementi posti sul piano dell’espressione e elementi posti sul piano del contenuto, in vista
di un fine comunicativo.
Gli ultimi paragrafi sono serviti per introdurre, e cercare di spiegare molto superficialmente, i punti
cardine di questa definizione. In essa si chiarifica che un testo si raggiunge attraverso la produzione e
messa in relazione di segni, quello che Eco (1975) definisce lavoro semiotico, e noi ci serviamo della
sintesi che ne fa Calabrese (1985) per introdurre questo concetto, che può essere di utilità, anche,
come memorandum sintetico sulle operazioni semiotiche per giungere al testo narrativo (ragione del
nostro saggio). Il lavoro semiotico si articola in quattro parametri, I quattro parametri «sono strettamente legati, ed è chiaro che le differenze fra tipi di funzione segnica dipendono dalla loro interrelazione» ( idem:157) il primo, quello del lavoro fisico, è divisibile in undici categorie.
1) Lavoro di produzione fisica dei segnali: cioè produzione di unità facenti parte del piano
dell’espressione.
2) Lavoro di articolazione di unità dell’espressione: cioè organizzazione di un sistema di unità,
oppure adeguazione a un codice, oppure invenzione di elementi nuovi all’interno di un codice
pertinente.
3) Lavoro di istituzione di un codice: cioè correlazione di elementi dell’espressione e elementi
del contenuto.
4) Lavoro di produzione concreta quotidiana: cioè produzione di messaggi che seguono le regole
di un codice preesistente.
5) Lavoro di intervento sui codici: cioè operazione manifesta di intervento sul codice per introdurvi parziali o totali mutazioni.
6) Lavoro retorico e ideologico: si opera sul piano semantico dei codici senza intervento manifesto, ma operando per capire la contraddittorietà dei codici.
7) Lavoro di interpretazione: si interpretano i testi mediante procedimenti inferenziali.
8) Lavoro di articolazione e interpretazione di enunciati il cui contenuto è da verificare: è svolto
da emittente e destinatario.
9) Lavoro di controllo referenziale: si controlla se una espressione si riferisce alle proprietà reali
della cosa di cui si parla.
13/
10)Lavoro di interpretazione inferenziale: cioè interpretazione di una espressione sulla base di
circostanze in qualche modo codificate.
11)Lavoro di stimolo sul destinatario: cioè lavoro svolto dall’emittente per attirare l’attenzione
del destinatario su di sé e sulle proprie intenzioni per provocare una risposta comportamentale.( Calabrese 1985:156)
Altri parametri costitutivi della produzione segnica sono: parametro di manipolazione della materia
espressiva, di correlazione fra espressione e contenuto, di modalità e complessità dell’articolazione
dei sistemi.
Significato fluido
Il nostro è un saggio sul racconto, ed in questa tappa intermedia possiamo tranquillamente affermare
che il racconto è un testo, in tutto e per tutto appartenente e confacente alla definizione di cui sopra.
Ma ci sono ancora alcune caratteristiche del concetto di testo che rimangono da specificare. La prima,
la più urgente è quella relativa alla binarietà del signifato.
Un significato, sia esso sia di un segno, sia esso sia di un testo, è dato da due dimensioni che sono
l’una al servizio dell’altra e sono (vedi Berruto 2001) il significato denotativo ed il significato connotativo.
Se per alcuni denotazione e connotazione vanno fatte corrispondere rispettivamente al valore informazionale [denotazione ] ed a quello emozionale del segno [connotazione ], per altri la contrapposizione è piuttosto quella tra segni di natura convenzionale [ denotazione ]e segni di carattere naturale e
spontaneo[ connotazione ], o tra valori assoluti dell’intera comunità linguistica[ denotazione ]e valori
attribuiti individualmente da ciascun destinatario[connotazione ]. ( Ferraro 1981:15)
Il significato denotativo ( denotazione) è il significato condiviso da tutti il lettori, quello inteso in
senso oggettivo, è la manifestazione formale del segno che si presenta in quanto qualcosa; è ciò che
il segno descrive e rappresenta nel senso di ciò che il segno ( o testo) identifica ad un primo livello
di espressione. Se noi vediamo una fotografia di un’automobile, il livello denotativo dell’immagine
equivale alla sua funzione di farci identificare e di descriverci, attraverso la visione delle sue forme,
quella data automobile e non altre. Quella data automobile in quanto tale. Questo livello di significato, ci permette di riconoscere, isolare e circoscrivere un significato.
Vedere quella automobile, e non altre, implica che il testo sta delimitando uno spazio significante.
Questo spazio è relativo all’automobile in questione. L’automobile è l’oggetto semantico in questione, denotato da segni.
Questa attività di circoscrizione di uno spazio semantico, di identificazione dell’oggetto semantico
del contendere, dell’interpretazione, serve per lanciare la seconda dimensione del significato, il significato connotativo ( o connotazione) «i significati che si generano dalla denotazione ma che costituiscono poi degli scarti differenziali» (Traini 2001:12).
Questa è la dimensione soggettiva del significato, connesso alle sensazioni suscitate dal segno ed
alle associazioni a cui esso da luogo nella mente del lettore ( di colui che sta guardando la fotografia
dell’automobile) attraverso i suoi schemi psicologici, culturali ed esperenziali. La denotazione mette
un significato formale alla nostra attenzione, la connotazione lo elabora culturalmente e gli attribuisce
un valore semantico complesso « Si dice poi che il significato denotativo sia univoco, quello connotativo polisemico, l’uno fisso, l’altro fluido; e ancora, che essi stiano tra loro come il senso primo o di
base sta al senso secondo o supplementare (..)» ( Ferraro 1981:16).
Per quanto riguarda le principali posizioni teoriche di studio ed inquadramento circa la connotazione Le linee storiche di riflessione sul concetto di connotazione sono varie, troppe per essere trattate
in una introduzione, ma possiamo far riferimento almeno alle tre principali Hjelmsev è interessato
14/
ai sensi indiretti, principalmente stilistici. Barthes è interessato ai semi connotativi, unità di significazione supplementari. Eco è interessato ai significati aggiunti nell’ottica di un modello semantico
enciclopedico che funzioni per istruzioni.(Traini 2004:67)
Su questi due piani, possono agire degli elementi detti connotatori, ovvero «elementi che vanno costituire un significato differente rispetto a quello denotativo, “laterale”indiretto”, connotativo appunto» (ibidem) dunque se l’espressione E:/casa/, che denota il contenuto C: “edificio di uso privato”,
viene pronunciata con la “c” aspirata toscana, allora contrae una seconda relazione con il contenuto
C: “toscanità”. Proprio in virtù di questi valori “aggiunti” un termine può indicare l’appartenenza di
chi parla a una zona geografica, a una fascia di età, o forse dare informazioni sulla sua provenienza
socio-culturale. ( Traini 2001:49)
L’aspirazione della “c” è un connotatore, e potremmo aggiungere che se a noi fossero antipatici i toscani, questo connotatore avrebbe implicato dei, nostri, ulteriori signifcati aggiunti alla denotazione.
I connotatori sono dei derivati linguistici, che non hanno attinenza con la denotazione ma con i modi,
le caratteristiche della comunicazione. I connotatori possono aver a che fare, tra l’altro, con le scelte
stilistiche (estetiche) della comunicazione, con i toni emotivi della comunicazione, con i mezzi della
comunicazione (i singoli medium nelle loro specificità espressive), con le lingue e linguaggi della
comunicazione . I connotatori sono i diversi modi della denotazione che finiscono per spostare e sviluppare i significati della denotazione stessa.
Per Barthes la connotazione è una sorta di effetto della configurazione dei segni ( Volli 2003). Essi si
manifestano nella loro dimensione di significante→significato, ma a sua volta il significato diventa
significante di un altro segno, un segno connotativo appunto. Per cui Barthes (1966) distingue in
segni denotativi e segni connotativi. Esempio, abbiamo una fotografia e per cui un’immagine: segno
a- significante (un oggetto, una forma geometrica) → significato (questa forma è un computer).
Il segno a è un segno denotativo ed il suo significato è computer. A sua volta, il segno a, nella sua
completezza di significante/significato diventa il significante di un segno b, un segno connotativo
il cui significato sarà dato dalla scansione, dallo sviluppo del concetto di computer. Se ad esempio
fosse una pubblicità cosa potrebbe voler dire computer? Tecnologia e contemporaneità? Bene allora
il segno a il cui significato è computer, è significante di un segno b il cui significato è tecnologia e
contemporaneità, per cui possiamo dire che il segno a serve a veicolare il significato di tecnologia e
contemporaneità. Ovviamente qui si pone il problema ideologico del contesto di uso (produzione e
fruizione) di un segno. Se il nostro segno a in questione sarà una immagine presente in una pubblicità
della Microsoft, allora il segno b connoterà tecnologia e contemporaneità, ma se lo stesso segno (
immagine) sarà pubblicato sulla copertina di una rivista no-global, allora il segno b probabilmente,
ai lettori, connoterà tutt’altro: forse l’imperialismo e l’invadenza delle multinazionali, visto che quasi
tutte le case produttrici di computer sono multinazionali. Il contesto culturale di lettura è diverso,
per cui diventano diverse la funzioni ed i progetti connotativi del segno, e ne risulta diversa la connotazione che si inscena nella mente dei lettori. Per Barthes un significato denotativo presenta degli
elementi aggiuntivi, che possiamo considerare come degli additivi o per certi versi dei parassiti, che
egli denomina semi connotativi:
questi sono i tratti che hanno in sé la funzione di spingere alla connotazione. Diciamo che ogni significato denotativo ha con sé, presenta, dei segni che implicano il segno-secondo, connotativo.
I semi connotativi, i significati simbolici-connotativi, sono parte del progetto comunicativo del mittente del testo, ed essi, presenti nel testo, guidano il lettore verso la lettura del significato di secondo
livello. Sono una sorta di traccia connotativa. Queste tracce non sono tutto il significato denotativo,
ma solo una parte di esso, delle sue porzioni; essi per agire agire, dovranno richiamarsi ( per poter
avere efficacia), sulla configurazione culturale e psicologica del lettore «I significanti connotativi
ritagliano quindi degli elementi per veicolare le connotazioni (...)
La loro interpretazione dipende sostanzialmente dai sottocodici culturali e dai lessici specifici degli
15/
individui, cosicché alcuni significati connotativi possono essere messi in risalto mentre altri possono
passare inosservati» (Traini 2001:72)
Vogliamo spingerci oltre e considerare che nella pratica testuale il nostro segno connotativo b, generato dai semi connotativi presenti nel segno denotativo a, può, a sua volta, diventare il significante di
un segno connotativo c generatosi attraverso delle, ulteriori, tracce semantiche connotative, mentali,
presenti nel segno b, e così via. Ecco che stiamo introducendo il concetto di catena semantica, o se
vogliamo chiamarla così, di connotazione a scalare.
Enciclopedia
Rizoma è un termine che deriva dal greco riza (radice) ed indica un fusto simile ad una radice, sotterraneo o strisciante in superficie, esso si snoda in un disordinato insieme di ramificazioni. Eco adopera
il concetto di rizoma come metafora fisica per l’attività di interpretazione del testo. Egli ( vedi 1979
e 1984) considera che quando interpretiamo un qualsiasi segno, mettiamo in moto un meccanismo
di messa in relazione tra quel segno e tutto ciò, presente nella nostra memoria, che ha qualcosa a che
vedere con quel segno, sia in modo diretto, sia in modo indiretto. Un testo si presenta, come prima
presa di contatto, nella sua manifestazione lineare di espressioni intese come di unità di base di un
lessico e che contengono un significato autonomo ( lessemi). Il lettore deve attualizzare il testo, ovvero, inquadrarne le sue unità mettendole in relazione, in quanto discorso, e applicare «alle espressioni
un dato codice, o meglio un sistema di codici e sottocodici per trasformare le espressioni in un primo
livello di contenuto ( strutture discorsive)» (1979:71). Il lettore deve attivare la macchina testo e renderne operante la struttura ed i significati. Eco riflette sull’attivazione dei significati del testo come il
risultato di movimenti cooperativi che si attuano tra lettore e testo; il testo è una macchina pigra che
solo il lettore con la sua cooperazione riesce a mettere in moto (attualizzare) concretamente.
Non si può non partire dalla manifestazione lineare: ovvero, si decide di attualizzare un testo solo
quando ci viene somministrato come espressione. E non si può cominciare ad attualizzarlo senza
investire di contenuto le espressioni, riferendosi al sistema delle competenze semiotiche ( codici e
sottocodici ), sistema culturale che precede la stessa produzione della manifestazione lineare concreta. Dopodiché la lettura non è più strettamente gerarchizzata, non procede ad albero né a main street
[ per strade principali, per corsie preferenziali ], ma a rizoma.(idem:69) La significazione gerarchica,
ad albero, contestata da Eco, è quella per cui il senso di un segno verrebbe ad essere veicolato attraverso una serie gerarchica di significati, impliciti, compresi, nel segno di partenza. Se noi leggiamo
la parola principessa
Principessa, Moglie, Nubile, Aristocrazia, Umano, Pubblico, Privato, Madre, Non madre, Maschio, Femmina, Figlio, Figlia.
Il nostro è un esempio di struttura ad albero didascalico ma assolutamente improprio dal punto di vista logico scientifico, visto che gli alberi semantici, molti ne sono i modelli logici, implicano una serie
di rigori operazionali che il nostro non rispetta. Ma serve, in modo sincretico, e far capire suppergiù
di cosa si tratta. Nella singola parola, e nel singolo segno, con ordine gerarchico e determinato, sono
implicati una serie di sottosignificati che compiono le articolazioni del significato del segno. Un significato è dato da snodi semantici, dicotomie, sdoppiamenti, derivazioni ecc. Ma questo, dell’albero, è
in realtà un significato che può esaurire le principali valenze terminologiche di un segno, ma che non
rispecchia quella che è l’ampiezza interpretativa che compie il lettore nella sua cooperazione testuale.
Più che generale lo potremmo definire un significato generico che non compie né intraprende la semiosi vera e propria, ma la sospende al livello di dizionario. L’albero semantico del segno è implicato
nel segno, è la sua anatomia di contenuto, ma rimane un contenuto di primo livello. E’ fermo alla
dimensione di contenuto come dizionario nel senso che: «A questo sottolivello il lettore fa ricorso a
16/
un lessico in formato di dizionario e subito individua le proprietà semantiche elementari delle espressioni, in modo da tentare amalgami provvisori, se non altro a livello sintattico (..)» ( idem:77).
Raccontare
Raccontare vuol dire far partecipe qualcun altro di qualche cosa, e questo qualche cosa, nel racconto,
è una storia «le nostre vite sono incessantemente intrecciate alle narrazioni, alle storie che raccontiamo o che ci vengono raccontate, a quelle che sogniamo o immaginiamo o vorremmo poter narrare»
(Brooks 1995:3), la narrazione è l’attività che produce il racconto, la narrazione è «l’atto narrativo
produttore e, per estensione, l’insieme della situazione reale o fittizia in cui esso si colloca» ( Genette
1976:75). Cosa vuol dire? Vuol dire che la narrazione è quell’attività di trasformazione che realizza
il racconto inteso come testo, come discorso, come enunciato.
Il racconto è il nostro oggetto di analisi (un libro, un film, un fumetto, un brano musicale) che è prodotto in base, ed attraverso, un atto narrativo. L’atto narrativo, la narrazione, è ciò che ci permetterà
di identificare il nostro libro, il nostro film, il nostro fumetto o il nostro brano musicale, in quanto
racconto. La cosa sembra complessa, per il momento, ma poi questo concetto ci diventerà sempre
meno oscuro.
Ma torniamo alla narrazione. Non si può vivere senza storie. Il racconto, che sia diretto a noi stessi o
agli altri, che sia inventato o preso dalla realtà, che la sua forma sia letteraria o drammatica, realista
o simbolica (vedi le parabole bibliche o le favole) è indispensabile per la nostra psiche quanto l’ossigeno lo è per il nostro organismo (Lavandier 2001: 8)
Da queste prime citazioni sembrerebbe che il racconto sia qualche cosa di più di una delle tante attività dell’uomo, sembrerebbe quasi che esso sia una delle matrici sostanziali dell’agire umano. La
narrazione che dimensione fondativi dell’uomo è un concetto, per certi versi, assimilabile ad una
certezza. Gli uomini si relazionano al mondo attraverso la narrazione ed allo stesso tempo mediante
la narrazione si relazionano a se stessi. La narrazione è una organizzazione del rapporto tra uomo e
circostante, ma allo stesso tempo è l’unico modo che l’uomo possiede per riflettere su di se stesso, per
organizzare la comprensione del sé, per capirsi e soprattutto per creare dei modelli di autorappresentazione: «noi organizziamo la nostra esperienza e il nostro ricordo degli avvenimenti umani principalmente sotto forma di racconti- storie giustificazioni, miti, ragioni per fare e non fare, a così via» (
Bruner 1991:21), la posizione è chiara, il racconto, la creazione del racconto, è il modo attraverso cui
gli uomini mettono a punto quelli che potremmo definire dei dispositivi di veicolazione culturale.
Questi dispositivi, ovvero apparati che servono a qualcosa, sono funzionali nell’oggettivare le ragioni
in relazione alle quali l’uomo decide di intraprendere un determinato comportamento piuttosto che
un altro. L’uomo deve affermare le ragioni del proprio agire, il perché agisce ed in base a cosa, per
riflettere su tali ragioni e soprattutto per renderle evidenti agli altri uomini, per attestarle, si mettono a
punto i racconti. Il racconto è un modo, alcune volte metaforico, per creare la giustificazioni ai propri
comportamenti ed ai comportamenti delle cose della natura. Stiamo entrando nel campo del mito. Il
mito è nient’altro che un racconto.
Mito
I miti risalgono a un narratore primitivo e ai suoi sogni, a uomini mossi dallo stimolo appassionato
17/
delle loro fantasie. Costoro non si differenziavano un gran che da quelli che, molte generazioni dopo,
sono stati chiamati poeti o filosofi. I narratori primitivi non si preoccupavano di conoscere l’origine
delle loro fantasie; (…) Eppure, molti secoli fa, nelle cosiddetta antica Grecia, la mente degli uomini
era già sufficientemente avanzata da supporre che le storie degli dei non fossero altro che tradizioni
arcaiche deformate relative ad antichissimi re e condottieri. In altre parole si era già arrivati alla conclusione che i miti erano troppo inverosimili per significare esattamente ciò che narravano: perciò si
cercò di ridurli ad una forma generalmente comprensibile. ( Jung et al 1980:93)
Il mito (mythos) è, sempre e comunque, una trama, ovvero, una messa in serie, organizzata, di azioni; da cui il mito è un racconto. Che si riferisca ad un dio egiziano, greco, o ad un’avventura di un
giovane guerriero di una tribù amazzonica, a Prometeo o Edipo, o alle forze della natura: in quanto
racconto esso racconta una storia, anzi una storia esemplare (Elide 1954).
L’inquadramento del concetto di mito è per certi versi estremamente semplice, per altri assai complesso. Prima di tutto stiamo parlando del mito in ottica narrativa e per cui del mito non inteso come
categoria semiologia del segno, né del mito inteso come convenzionalizzazione sociale di un ruolo;
per intenderci non stiamo parlando né di Roland Barthes, né della Coca Cola. Ma ci stiamo riferendo
ai racconti mitici, quelli fondativi e fondamentali nella definizione dei paradigmi culturali dell’uomo, per dirla con Freud«Il mito è pertanto il passo con cui il singolo esce dalla psicologia collettiva.
Il primo mito fu certamente il mito psicologico, il mito dell’eroe» (Freud), il mito come creazione
dell’eroe, del protagonista esemplare, per tutti gli altri uomini appartenenti allo stesso contesto culturale.
Alcune funzioni che sono state antropologicamente attribuite al mito, oggi appaiono (Ferraro 2001)
poco convincenti e sostanzialmente superate. Come quella che invidua il mito come l’invenzione di
racconti atti a dare spiegazioni (fantastiche) ai fenomeni della natura ( Rivers 1912), o quella che
considera il mito come il tentativo di riuscire a rendere osservabile, attraverso il racconto ed i suoi
sviluppi, delle realtà che altrimenti sarebbero inosservabili ( Leach 1962).
Ferraro identifica come formula più plausibile nell’avvicinamento all’essenza del mito, quella di
Cohen (1969) che considera come mito, qualsiasi tradizione popolare che presenti come caratteri
strutturali:
→ la presenza di avvenimenti organizzati in forma narrativa
→ una qualche qualità sacra ed un carattere simbolico
→ l’uso, nella narrazione, di elementi che abbiano un carattere soprannaturale
→ la narrazione di origini o trasformazioni di entità o fenomeni di tipo sociale, di situazioni
sociali o naturali.
Ma anche questa definizione può risultare poco convincente per il fatto che alcuni miti non si riferiscono, non narrano di, trasformazioni di alcun ordine ed inoltre la dimensione del sacro varia da
cultura a cultura. E’ con l’opera di Malinowski (1926) che, a detta di Ferraro, la riflessione, anche se
più datata, appare più compiuta e significativa. In quest’ottica il mito: conferma, giustifica e dà valore
agli usi, alle istituzioni e alle credenze della comunità sociale. In società in cui non esistono codici di
leggi scritte, le proprietà appartenenti ai vari gruppi, i privilegi legati alla stratificazione della società,
le regole che determinano i diritti e i doveri di ciascuno non possono avere altra garanzia, altro documento, di quello fornito dal mito. (Ferraro op. cit. : 20)
Il mito si assesterebbe, dunque, come un paradigma di riferimento nelle relazioni sociali tra i gruppi,
i miti erano dei codici di regolamentazione e prescrizione che le singole culture si davano. Erano dei
codici orali, metaforici. Il mito è, quindi, una struttura simbolica, fortemente organizzata, che nasceva
con fini di regolazione, attraverso i suoi codici simbolici, della vita umana, ed erano, prima di tutto,
18/
dei sistemi complessi di significazione. Sistemi di cui l’antropologia si è occupata anche in termini
linguistico-semiologici, basti pensare all’opera di Lèvi.Strauss(1966) che del mito isola tre componenti fondamentali:
a) l’impalcatura( lo status strutturale del mito in quanto narrazione),
b) b) il codice,
c) il messaggio.
Nella complessa riflessione teorica linguistica e narrativa sul codice (quest’argomento non è trattabile
in questa breve introduzione), possiamo almeno introdurre, per far ben comprendere il mito in quanto
organizzazione di temi antropologici, quattro categorie di codice del mito:
Geografico, tecno-economico, sociologico e cosmologico. I primi due traducono esattamente la realtà, il quarto la sfugge, mentre il terzo intreccia istituzioni reali e immaginarie ( Lèvi-Strauss 1978 p
195)
Questi quattro livelli di codici sono complementari e vengono organizzati, nel racconto, mediante
strutture simboliche. Ogni mito, qualsiasi natura esso abbia «enuncia un avvenimento che avvenne
illo tempore» (Eliade op cit:446) si rifà a qualcosa che in un qualche luogo del mondo, in una qualche
dimensione, fisica o metafisica, un tempo debba essere accaduta; per cui il mito «costituisce un precedente esemplare per tutte le azioni e situazioni, che in seguito, ripeteranno l’avvenimento» (ibidem).
Il mito è, per cui, l’archetipo mitico per le azioni ed i rituali compiuti dagli uomini, nelle culture arcaiche. Il tempo del mito, non è il tempo concreto della vita degli uomini, ma è un eterno presente che
fa si che l’uomo,( nell’espletazione del mito, nel proporne la ripetizione, nel preservarne l’adozione
e nel seguirne i precetti) si possa situare in una sorta di tempo magico religioso, il tempo sospeso ed
eterno del mito, per l’appunto. Ma il mito, dicevamo, è una storia esemplare, è una trattazione narrativa di un qualche principio costitutivo nella vita dell’uomo «Perfino il mito cosmogonico è anch’esso
una storia, in quanto racconta tutto quel che avvenne ab origine» (idem:164).
L’uomo arcaico, ovviamente, conscio ( crede) della veridicità del mito, ne fornisce le prove della sua
validità: Prendiamo un tema mitico noto: essendo avvenuta la tal cosa [si racconta nel mito], gli uomini diventarono mortali, oppure le foche perdettero le dita, oppure la luna si coprì di macchie, ecc.
Questo tema è perfettamente dimostrabile, per la mentalità arcaica, dal fatto che l’uomo è realmente
mortale, che le foche non hanno dita, che la luna ha realmente delle macchie.(…). Questa missione di
storia esemplare affidata al mito dev’essere riavvicinata, per intenderla bene, alla tendenza dell’uomo
arcaico a realizzare concretamente un archetipo ideale, a vivere sperimentalmente l’eternità fin da
questa vita.( Eliade op cit:448)
I cosidetti riti di passaggio (l’imposizione del nome, riti propiziati per la nascita,la pubertà, il matrimonio, la sepoltura) che nelle culture sono fondamentali nel definire le tappe dell’esistenza umana,
scrive Campbell (1958), si ripresentano, insieme alle altre forme simboliche appartenenti ai miti arcaici, nella vita dell’uomo contemporaneo, in forma di simbolo onirico.
Presso gli aborigeni dell’Australia, per esempio, una delle principali prove imposte per l’iniziazione
(con il quale il fanciullo, all’epoca della pubertà, veniva separato dalla madre ed ammesso a far parte
del gruppo degli uomini) era il rito della circoncisione. Quando per un giovanetto della tribù Murning
è giunto il tempo d’essere circonciso, il padre e gli anziani gli dicono “ Il grande Padre Serpente ha
riconosciuto l’odore del tuo prepuzio e lo reclama”. Il fanciullo prende queste parole alla lettera e si
spaventa. Di solito cerca, allora, rifugio presso la madre, la nonna materna o qualche altra parente
a lui cara, poiché sa che gli uomini vogliono trascinarlo nel loro recinto, dove il grande serpente lo
attende. Le donne levano alti lamenti per indurre il grande serpente a non ingoiare il ragazzo. (Campbell op cit:18)
E’ un rito propiziatorio, ha origine, è implicato, nel mito aborigeno del Grande Padre Serpente, ep19/
pure, continua Campbell, nel 1925 Jung scrive di un suo paziente che nel momento in cui stava prendendo coscienza del percorso analitico, per iniziare il superamento del ( liberarsi del) proprio complesso materno, sognava un serpente che, sbucando da un luogo scuro e umido, gli mordeva la zona
dei genitali. Ecco, in un’ottica di teoria Junghiana, la sopravvivenza simbolica del mito, in una sorta
di inconscio collettivo, senza età. Per Jung, nel mito vanno rintracciati gli archetipi, ovvero, modelli
arcaici che organizzano l’esperienza psichica ( Bottone 2000) e che possiamo rintracciare attraverso
loro manifestazioni indiziarie, indirette: le immagini simboliche, divine, tramandate attraverso i millenni dai miti nella loro dimensione di narrazione immanente.
Queste immagini sono le chiavi di accesso di cui l’uomo dispone per giungere alle propria psiche,
al proprio Io interiore, spiritualità.Gli archetipi, nella loro traduzione immaginaria, sono il frutto di
una psiche ancestrale che trova la sua riattualizzazzione, in ogni momento della storia dell’uomo, nel
sogno. Il sogno con le proprie presenze di situazioni, figure e simboli, che sono il prodotto di una
matrice mitologica che da tempo immemore riecheggia nelle singola psiche, del singolo individuo,
della singola età storica, in tutti gli uomini, come in una rete infinita. Ma queste situazioni, figure e
simboli rimangono inalterati, perenni, a testimoniare una appartenenza simbolica comune a tutti gli
esseri umani, un grande sistema del mito fatto di complementarità e similitudini.
Tornando al nostro punto di partenza, cosa sia il mito, potremmo a questo punto affermare che vi sia è
un primo livello di lettura del mito: a cosa ci si riverisce e chi è il suo soggetto storico (in alcuni miti
parlando di un dio, in realtà si parla di un re, mitizzato). Ed un secondo livello di lettura: a prescindere
dal soggetto, il mito è riflessione sull’uomo nella sua forma di spirito ed interiorità. Il mito ha soggetti
variabili, ma la sua materia, a prescindere dal soggetto, è sempre l’uomo in quanto essenza.
Tra le categorie di miti arcaici possiamo, tra le varie essenziali nella storia e categorie del mito, soffermarci brevemente su alcune di esse:
miti escatologici: che cercano di riflettere sulla finitezza dell’uomo, sulla sua mortalità, sulla fine
dell’esistenza del mondo, in cui spesso l’uomo perde la propria mortalità attraverso un errore o
un’azione proibita ed in cui, sovente, può esistere una possibilità di riscatto e di recupero di una propria dimensione di immortalità, «Alcune culture hanno provato ad esorcizzare la paura della fine elaborando una teoria del tempo ciclico, ricalcata sull’avvicendarsi delle stagioni: l’universo si sviluppa
attraverso una traiettoria circolare, in cui ogni cosa, eternamente ritorna»
(Zucca op. cit:230). Ma per altre culture il mito racconta la futura distruzione del Mondo, l’azzeramento delle cose ed il ritorno ad un caos primordiale, «Alcune fanno precedere la fusione dell’uomo
con la natura da un periodo di disordini, guerre sciagure; altri la fanno seguire dall’avvento della
beatitudine, concepita come qualcosa di molto umano» (ibidem), i celti, ad esempio, credevano nel
raggiungimento ultraterreno di una eterna felicità ed abbondanza, nell’annullamento del dolore e
delle passioni terrene con l’ingresso nel «paese della cuccagna (…) riservato a chi non ha peccato»
(ibidem). Molte culture hanno i loro equivalenti di paradiso e di inferno, descrizioni e narrazioni di
forme eterogenee che rimandano a metafore appartenenti al genere umano nella sua, complessa, totalità miti cosmologici: quelli che raccontano la nascita delle cose in una accezione molteplice, la nascita del cosmo, dell’uomo, degli animali, delle istituzioni, delle leggi. La cosmogonia è il dispositivo
mitologico mediante cui l’uomo arcaico può interpretare e rapportarsi al mondo ed alla natura come
sistema di relazione Il mito cosmologico cerca di spiegare l’inizio della storia: un punto di partenza
che è sempre implicito nella serie di miti che narrano gli avvenimenti favolosi accaduti dopo l’apparizione del mondo, la comparsa delle piante, degli animali, delle persone o l’avvento del matrimonio,
della famiglia, della morte ( idem p:226)
Questi miti ci raccontano di divinità ed eroi civilizzatori che esistevano in un tempo precedente al nostro, e che dopo aver agito, creato o distrutto, sono andati via, in un altro luogo dell’esistenza. Luoghi
lontani, impervi da raggiungere, dove continuano ad esistere, lontano dagli uomini.
miti di fondazione: gli eroi civilizzatori sono quelle figure mitologiche che per la prima volta com20/
piono un atto che indica una via, una possibilità, per tutti gli altri uomini. Qualcuno, per primo, ci ha
indicato la via per dominare ed adoperare il fuoco, qualcuno ci ha fatto vedere come iniziare a fare
qualcosa, come ritualizzarla «la funzione principale del mito è quella di rivelare i modelli esemplari
dei riti e di tutte le attività umane significative: l’alimentazione, il lavoro, l’educazione, l’arte, la saggezza». (idem:227), gli eroi civilizzatori, nel mito, offrono queste rivelazioni, e talune volte lo fanno
rischiando la punizione da parte di dei vendicativi e gelosi delle proprie conoscenze, di cui l’eroe ne
è il tramite verso gli uomini, ma altre volte meritandosi la compensa di essere divinizzati e diventare
anch’essi, dei. Colui che per primo ha indicato una via culturale o spirituale o tecnologica, viene
perciò, attraverso il mito, reso un riferimento comune, simbolizzato, divinizzato. Quest’uomo che ha
compiuto qualcosa per gli altri uomini, nel più delle volte è una invenzione del mito stesso, che per
cui, divinizzando un personaggio-eroe-uomo ( inventato) in realtà divinizza un concetto, un valore,
una potenzialità, di cui il personaggio-eroeuomo ( inventato dal mito) ne è metafora. Questi miti,
attraverso i loro eroi, daranno all’uomo conoscenza e competenza nel fare e nell’agire: Nei riguardi
dell’ambiente per estrarne il necessario per la sopravvivenza, e, nello stesso tempo per conservarlo e
averne cura; nei confronti degli altri uomini nei momenti più significativi della loro vita: nei periodi
di passaggio (nascita, matrimonio, morte); nelle relazioni ( dalla parentela, all’amicizia, all’amore,
alla guerra); nelle istituzioni; nelle leggi; con Dio.(idem p:227)
Nell’ambito del mito agiscono dei, spiriti, uomini, bestie. Ma le bestie non sono animali inferiori,
anzi. Esse sono spesso antecedenti all’uomo nella storia del mondo, in alcuni casi una bestia è progenitrice di una stirpe umana. Vi sono figure divine immaginate come animali o incroci tra uomo ed
animale. La bestia, in alcune culture, è un animale superiore perché essa è la natura a cui l’uomo è
chiamato a far parte. La bestia conosce la natura e ne comprende ed incarna la saggezza, il potere, la
forza.
L’uomo arcaico immagina la natura come un sistema di cui l’essere umano deve avere timore, ma
con cui può ricevere doni o stringere alleanze. La bestia nell’immaginario mitico, viene antropomorfizzata nei suoi caratteri psicologici, ed, in alcune culture, solo attraverso lo sciamano, inteso come
medium tra l’uomo e la natura, gli altri esseri umani possono entrare in relazione con lo spirito degli
animali, della natura.
Il mito, in ultimissima analisi, è una organizzazione narrativa arcaica (fatta di linguaggio) degli universali culturali dell’uomo. In antropologia e sociologia (Giddens 1991) si parte dal presupposto, ormai assodato, che plausibilmente tutte le culture riscontrate nel mondo abbiano caratteristiche comuni
quali: l’uso di un linguaggio strutturato e complesso, la nozione di sistema familiare, la proibizione
dell’incesto ( anche se in accezione ben differenziate da cultura a cultura), riti quali il matrimonio,
i riti religiosi, i riti da passaggio tra le soglie generazionali, i riti di consolidamento dell’identità del
gruppo sociale, il rito del dono ed inoltre, l’arte, il gioco, la danza, l’ornamento del corpo, l’umorismo
ecc. In modo generico possiamo dire che in quest’area ricade il concetto di universali culturali, di cui,
nel presente e nel passato, i miti ne incarnano il sistema proiettivo, di rafforzamento, di rappresentazione simbolica.
Spesso «Il mito può degradarsi in leggenda epica, ballata o romanzo, oppure può sopravvivere nella
forma diminuita di superstizioni, abitudini, nostalgie ecc.» ( Elide op.cit:448) questa affermazione
apre una possibile dialettica su varie possibilità. Che alcuni temi narrativi siano, in realtà, la prosecuzione in forme narrative diverse degli stessi temi mitici, che anche forme minime di narrazione come
la superstizione siano residui del mito ( e qui ci troviamo innanzi a forme testuali che alcuni studiosi
interpretano come non-narrative), che anche i sentimenti, come patina tematica dell’animo, siano una
scoria del mito. Insomma la degradazione del mito intesa come gradazione a scalare, in un’ottica di
valore sacrale dello stesso (l’epica, il romanzo, la superstizione non sono forme sacre della testualità), dal sacro del mito al non sacro della superstizione. Fino a giungere alle nuove determinazioni
simboliche del mito, dal western alla leggenda metropolitana, che agiscono in modo diverso dai miti
archetipici, ma di cui ne riprendono una caratteristica sostanziale. La tendenza che l’uomo presenta
21/
verso l’adesione alla credenza. L’inconscia necessita di aderire a narrazioni comuni e condivise.
Ricordo\racconto
Siamo usciti dal mito e rientriamo nel nostro discorso iniziale, il racconto, anzi, specifichiamo meglio
(e qui il mito ci è stato di aiuto) l’imprescindibile rapporto di convivenza mentale che lega l’uomo
ai suoi racconti. Abbiamo visto come l’essere umano abbia solidificato la sua cultura ed i suoi usi
e costumi sociali attraverso i racconti mitici, ma la stessa cosa, anche se in modi diversi, l’uomo la
compie attraverso i suoi altri racconti: attraverso i suoi romanzi, i suoi film, le sue opere musicali, i
suoi programmi televisivi, la sua arte. Stiamo riferendoci ad un’attività che è la ragione e matrice di
tutto questo: la narrazione.
La narrazione è l’atto che rende possibile il mito di Prometeo come l’ultimo spot della Nokia, la sua
presenza è così ossessiva, situata nell’ovunque, e strettamente connaturata con l’esistenza dell’uomo da renderla quasi impercettibile, invisibile: l’uomo è racconto, lo sono le sue barzellette, le sue
spiegazioni, le sue dichiarazioni, i suoi media, la rappresentazione che si da di sé, nella psicoanalisi
quando il paziente ricorda «ogni resoconto del passato è una ricostruzione guidata da una strategia
narrativa, che detta come selezionare da una moltitudine di particolari possibili, quelli che possono
essere riorganizzati, trasformati, in un altro racconto che abbia un filo e che esprime il punto di vista del desiderio sul passato» (Schafer 1983), il ricordo è leggibile come racconto, un racconto che
riorganizza, mediante un punto di vista, la nostra esperienza «Ogni ricostruzione diviene quindi insensibilmente una costruzione narrativa arbitraria rispetto all’impassibile e muto dato evenenziale»
( Corrao 1997:50), il dato evenenziale, gli episodi della vita nel loro accadere, sono manipolati e sopraffatti dal ricordo come reinvenzione narrativa della realtà. E così qualsiasi forma di realtà diventa
racconto.
La necessità della riflessione sul racconto e sulla narrazione nascono, quindi, dalla narrazione e racconto come necessità dell’uomo. Noi viviamo immersi nelle narrazioni, ripensando e soppesando il
senso delle nostre azioni passate, anticipando i risultati di quelle progettate per il futuro, e collocandoci nel punto d’intersezione di varie vicende non ancora completate. L’istinto narrativo è antico in noi
quanto la più remota delle forme letterarie (…) Il desiderio e la capacità di raccontare risalgono a uno
stadio embrionale dello sviluppo dell’individuo, corrispondente all’incirca all’età di tre anni, quando
il bambino comincia a mostrare la competenza necessaria a mettere insieme un racconto in modo
coerente e ancor più a saperlo riconoscere, a valutarne la riuscita o meno. Ben presto ogni bambino si
trasforma in un piccolo aristotelico (…) ( Brooks op.cit:3)
La narrazione e il racconto come forma mentis
Ma che cosa è la narrazione? L’istinto narrativo (cfr Brooks,1995) è antico quanto la dimensione simbolica dell’uomo, miti e favole sono narrazioni miranti a ricercare, sperimentare, spiegazioni ai fatti
della natura, e fin dalla prima infanzia il bambino regola la propria socialità attraverso l’applicazione
e la fruizione di formule narrative. L’uomo, quindi, si definisce, si determina, nel rapporto con il sé e
con il mondo, mediante le proprie narrazioni e la condivisione di esse come matrice sostanziale della
relazione sociale e della determinazione di:
psicologie→identità→valori→culture.
La narrazione, come Atto culturale, è quindi analizzabile nelle sue dimensioni Atto Linguistico, Atto
sociale, Atto psichico.
La narrazione è l’insieme dei codici e delle prassi che organizzano la messa in discorso di una o più
situazioni determinate, con agenti ( in esse ) uno o più soggetti/protagonisti ( umani o non umani,
animati o non animati) determinati, in una successione temporale determinata; la narrazione si com22/
pie nel discorso narrativo, racconto, che dipende, strutturalmente, da codici propri e autonomi ma si
attua in forme del contenuto variabili a seconda dei criteri e codici linguistici del medium (letteratura,
cinema, fumetto, danza, oralità ecc. ) attraverso il quale si veicola la comunicazione. Se il racconto/
discorso è il testo narrativo, la narrazione è, quindi, l’atto narrativo produttore e, per estensione, l’insieme della situazione reale o fittizia in cui esso si colloca.
La narratologia (termine coniato da Tzvetan Todorov) è la disciplina che studia il racconto in un
ottica di analisi ed in taluni casi di riconoscimento delle strutture implicite e di regolazione del testo
narrativo. E’ una disciplina sincretica in cui affluiscono una serie di saperi differenziati, dalla filosofia
del linguaggio, alla critica letteraria, alla linguistica, alla semiologia. In alcuni studi, in un’ottica diminutiva, con narratologia si intendono, perlopiù gli studi letterari di tipo strutturalista e gli studi che
si occupano del tempo, del modo e della voce nel racconto (termini che approfondiremo in seguito).
Il racconto è, per cui, il testo narrativo in un’ampia gamma di accezioni sia più fortemente organizzate, dal punto di vista testuale, come ad esempio un romanzo od un film, sia più debolmente organizzate come ad esempio un ricordo o le forme miste di narrazione ed concerti musicali dal vivo che
aprono una problematica riflessione sui presunti confini tra narrazione e rappresentazione).
A questo punto possiamo elencare una serie, introduttiva, di punti di vista attraverso cui identificare il
concetto di racconto.i mprovvisazione (ad esempio certe performance teatrali o certi tipi di Il racconto come forma di comunicazione (cfr Caprettini 1997) un testo, un discorso narrativo in cui agiscono
( sono attori) oltre ai personaggi, sono implicati gli autori, il medium, ed i lettori. Il discorso è un atto
di comunicazione linguistica, qualsiasi atto di comunicazione linguistica, esso è gestito mediante il
linguaggio, ed è contestualizzato in un sistema culturale, e di valori, comune entro il quale agiscono il
testo, gli autori ed i lettori «in molti casi si può dire che tale cultura sia comune agli attori della comunicazione, in altri si deve ammettere che fra la lingua e le culture espresse nel testo e quelle dei suoi
lettori o dei suoi interpreti vi sono soltanto dei punti in comune e niente più» ( idem:V). In quest’ottica Gerard Genette nel suo Figure III, Discorso del racconto (1976), un testo che prenderemo spesso
a riferimento, riflette sul primo senso del racconto che «designa l’enunciato narrativo, il discorso
orale o scritto che assuma la relazione di un avvenimento, o di una serie di avvenimenti» (Genetteop.
cit:73). Il discorso, come vedremo in seguito, può essere di materie linguistiche eterogenee. Discorso
verbale, cinematografico, pittorico, coreografico, ecc.
Il racconto come forma di significazione: in ogni testo narrativo, di qualsiasi forma esso sia e qualsiasi
linguaggio esso adotti (dal mito allo spot) sonno messi in opera una serie di segni della comunicazione che non possono non aver significato. La percezione semantica della realtà, la nostra vita quotidiana e la nostra inarrestabile attività di percezione sensoriale dei segni che ci circondano, possono
presentare dei momenti in cui, apparentemente, non ci si sofferma nell’interpretazione dei significati
di ciò che vediamo o di ciò che percepiamo.
Una automobile, blu, che ci passa innanzi agli occhi, può non avere, per noi, un particolare significato, nella nostra organizzazione semantica della realtà. Se in un testo narrativo leggiamo di una automobile blu ( se è un romanzo) o vediamo una automobile blu (se è un film) il fatto che ci sia quell’automobile, che sia in quel punto del testo, che sia di quel colore, di quella marca, che vada ad una certa
velocità, non è più incidentale ( casuale, fortuito, come nella vita quotidiana) ma è progettuale. Ogni
singolo elemento segnico di un testo narrativo viene interpretato dal lettore ed è implicato nel testo,
come un qualcosa che è lì per una certa ragione ed i cui presunti significati (ad esempio colore, marca
e velocità dell’automobile) hanno una loro propria ragione specifica nell’economia dei significati
testuali. Anche se un autore volesse inserire un attributo incidentale di un qualche elemento della sua
narrazione, questo attributo, dal lettore, verrebbe letto (analizzato) come progettuale.
In un racconto nulla viene percepito come casuale, tutto, ogni singolo frammento del racconto, ogni
virgola del romanzo, ogni singola scelta relativa all’organizzazione e bilanciamento di un’inquadratura cinematografica, diventano elementi del sistema progettuale della significazione. Il testo non dà
23/
scampo, tutto significa, tutto rimanda a qualcosa. Nel momento in cui esiste un testo, una struttura
tecnologica e linguistica che serve alla comunicazione, il testo, oggettualmente, è già di per sé stesso
è un contenuto. Ma andando oltre, se in un giornale o in un romanzo decidessimo di lasciare una pagina vuota, bianca, quel vuoto non sarebbe un buco testuale, ma, ovviamente, verrebbe letto come un
progetto semantico: quel vuoto bianco raggiungerebbe una potentissima significazione connotativa.
Un’inquadratura senza immagini oggettuali e senza attori, ma, semplicemente, di colore giallo (o nera
o di qualsiasi altro colore), non è un’inquadratura vuota, ma un’inquadratura in cui la significazione
sarà nel colore che essa presenta e nelle connotazione psicologiche e simboliche che lo spettatore
attribuirà (ognun per sé) a quel colore, a quella interruzione, che sarà, metonimicamente ed automaticamente, messa in relazione da tutto ciò da cui è preceduta (le inquadrature precedenti) e con tutto
ciò che le seguirà (le inquadrature successive).
Il racconto come sistema ideologico e di valori: il racconto è sempre un progetto narrativo di riflessione immaginaria su di una qualche realtà, reale o immaginaria. La realtà del racconto, in quanto
testo e per cui costrutto tecnologico e linguistico, è di per sé stesso una realtà immaginaria che non
può essere confusa con le dimensioni della realtà concreta, quotidiana percettiva. Il racconto è una
struttura che, nel suo massimo grado di imitazione della realtà concreta, può al massimo esserne una
metafora testuale, e per cui, in quanto metafora, non ha comunque nulla a che fare con essa, ma ne è,
semplicemente, un rimando, un indizio o un’analogia; questa metafora può avere due gradi di relazione con la realtà concreta:
a) un racconto che si riferisce a cose realmente accadute (ma comunque manipolate e per cui ricreate testualmente e narrativamente),
b) un racconto che si riferisce ad una realtà immaginaria, mai verificatasi o ipotizzata.
In ogni caso il racconto è un punto di vista circa i Valori e le idee di questa realtà, concreta o immaginaria. In quanto punto di vista su di un sistema di idee e di valori, il racconto è di per se stesso un
sistema di idee e di valori. Comunica sempre e comunque un suo sistema valoriale e ideologico di riferimento. Il racconto, in ultima analisi, è quindi da identificare sempre come un sistema ideologico di
veicolazione valoriale. Ecco perché «Se è vero che può esservi un racconto privo di fatti reali, storici,
a cui riferirsi, non può esistere invece un racconto senza mete, senza valori, perché in tal caso anche
l’essere sprovvisto di mete e di valori costituirebbe una componente del significato di quel racconto»
(Caprettini op.cit:V), da cui anche l’apparente agnosticismo di un racconto, il non voler definire una
chiaro posizionamento ideologico del racconto, è già di per se stessa una dichiarazione culturale, un
punto di vista, ideologico. Il racconto è sempre e comunque una presa di posizione.
Il racconto come forma mentis: Il racconto si definisce ed implica una serie di convenzioni linguistiche e strutturali che sono alla base dell’organizzazione stessa del racconto. Queste prassi strutturali
sono, sia per l’autore, sia per il lettore, il terreno comune nel quale il racconto svilupperà la sua
azione di significazione. Se l’autore o il lettore non avessero cognizione dei codici e dei generi della
narrazione, la comunicazione non potrebbe avvenire. A livello di emittente, che in un’ottica ristretta
è l’autore ( anche se con emittente si possono intendere anche altri soggetti dell’azione testuale), ed a
livello di ricevente ( il singolo lettore), la conoscenza, l’esperienza, la pratica di questi codici e prassi,
costituisce l’insieme della forma mentis narrativa. Per comprendere un racconto devo aver conoscenza ed averne metabolizzato le sue caratteristiche strutturali.
A questo punto dobbiamo analizzare i rimanenti due sensi del racconto identificati da Genette. Il
primo, abbiamo detto, è il racconto in quanto enunciato narrativo. Il secondo senso del racconto è il
discorso narrativo analizzato nel suo essere un sistema organizzato ed in successione «di avvenimenti, reali o fittizi, che formano l’oggetto di questo discorso, e le loro varie relazioni di concatenamento, opposizione e ripetizione ecc.ecc.» (Genette op.cit:73), il racconto, dunque, come insieme di un
numero variabile elementi, le situazioni e le azioni raccontate, che sono in relazione reciproca. Una
relazione che va analizzata per poter comprendere il funzionamento e l’impostazione burocratica che
24/
si è voluto dare al testo ed alla successione dei fatti e degli avvenimenti. Ogni fatto, in un racconto,
avviene prima altri e dopo di altri, tutti insieme sono il frutto dell’attività di bilanciamento dei fatti
narrativi, che spetta all’autore.Queste situazioni, fatti, azioni, esistono, strutturalmente, a prescindere
dal medium adoperato per veicolare il racconto «Analisi del racconto, significa allora, studio d’un
insieme d’azioni e situazioni considerate in sé, fatta astrazione dal medium, linguistico o no, che ce ne
dà cognizione» (ibidem), la sequenza di situazioni, Otello viene in possesso del fazzoletto → Otello
uccide Desdemona, va analizzata in quanto sequenza di situazioni in relazione reciproca, sia che si
tratti di un’opera teatrale, sia di un film, sia di un balletto.
Il terzo senso del racconto va inteso come il soffermarsi sul seguente concetto: qualcuno racconta
qualcosa.
Ci avviciniamo, per cui, al concetto di punto di vista narrativo (che approfondiremo in seguito) e che
risponde alla domanda: in un racconto, chi è che sta raccontando la storia? Tutto ciò riguarda l’atto
narrativo in quanto tale, il fatto di raccontare, il fatto di capire chi o cosa sia la fonte della narrazione,
è importante (nel discorso narrativo) esattamente quanto i fatti che si raccontano. Il terzo senso del
racconto, lo studio della fonte del racconto, serve al lettore per comprendere la struttura ideologica
del testo.
Identificazione edipica-antropologica alla Narrazione
Il complesso edipico è simbolicamente il luogo del conflitto insanabile tra il Desiderio e la Legge.
Prendiamo il complesso edipico nella sua forma positiva canonica: il bambino prova dei sentimenti
di natura sessuale nei confronti della madre e deve rinunciare all’oggetto del suo desiderio (la madre)
in seguito all’intromissione della figura paterna (il terzo elemento, nella concezione lacaniana del
complesso Edipico ) che, attraverso la minaccia dell’evirazione, lo costringe ad accettare (e successivamente ad interiorizzare) il tabù dell’incesto: lo induce, in altri termini, a sottomettersi alla Legge.
Rimanendo concentrati su questi elementi cardine del fatto edipico possiamo isolare i termini Desiderio-Legge come metafora del binomio psicologico e culturale Volere- Potere. Ebbene, Volere-Potere
sono essi stessi la matrice concreta di qualsiasi fatto narrativo. La narrazione è una delle, eterogenee,
dimensioni di comunicazione che può assumere un testo.
Per riconoscere un testo in quanto narrativo, ed attribuirgli lo statuto di racconto, bisogna riscontrarvici elementi di narratività , ovvero, un insieme di codici e strutture la cui disposizione nel testo
permette di identificare lo stesso in quanto narrativo.
Ma di cosa si tratta? Articolazione di spazio e tempo, anche come metafora biologica, sono la ragione
prima, e fondativa, della narrazione. Ma da sola non basta. Il personaggio( la sua esistenza, la sua
identificazione) è l’elemento elementare, basilare e irrinunciabile, del racconto. Fondamentale per
comprendere il testo come sistema narrativo sono i concetti di trasformazione iscritta in una progressione ( narrativa, di azioni, in una successione temporale) come enunciazione (cfr Bremond 1977).
Questa relazione tra trasformazione e progressione drammatica, condurranno ad una modificazione
di stato.
Ovvero una manifestazione di una qualche differenziazione, durante l’arco narrativo, degli attributi
del soggetto/personaggio nell’arco dell’azione: la narrazione ( il racconto) implica, sempre, la descrizione di un cambiamento, più o meno manifesto, del personaggio. Cambiamento ( evidente o labile,
inteso anche come accenno o indizio, voluto o subìto , anche fallimentare) (cfr Todorov 1971)
Ogni progressione drammaturgia, ovvero ogni successione di azioni narrative, non può che apportare
modificazioni nel personaggio. Qualsiasi azione compia un uomo, essa diviene bagaglio di esperienza
e di accrescimento, modificazione, del proprio essere psichico.
Identificando la trasformazione e la successione temporale come elementi irrinunciabili del testo
25/
narrativo, potremmo affermare che un qualsiasi testo (discorso) in cui vi sia una parvenza di progressione riguardante un soggetto/protagonista possa essere considerato come narrazione/racconto.
Un inquadramento più articolato (da un punto di vista narratologico) della condizione minima di
narratività è il dover riscontrare in un testo (per poterlo considerare racconto) la presenza di un organizzazione strutturale incentrata sulla tripartizione,principio/mezzo/fine (di Aristotelica memoria, la
Poetica per intenderci).
Questa tripartizione si svilupperà nel seguente paradigma: situazione iniziale( lo stato delle cose
all’inizio del racconto)→modificazione dello stadio iniziale ( qualcosa o qualcuno sta facendo sì che
l’assetto iniziale del racconto si sviluppi per modificazioni, accadono cose che provocano, spingono
all’azione)→situazione in modificazione continua→modificazioni→situazione ultima (cfr Gardies,
1993).
In questo modo si intende come pienamente narrativo, solo il testo in cui da una situazione di partenza, attraverso una serie di modificazioni, si giunga ad un altro stadio ( in fieri, dialettico, dinamico
) del racconto che poi mediante il continuum di modificazioni dell’azione e dei soggetti/personaggi
porterà ad uno stadio ultimo della narrazione che ne segnerà il termine e la compiutezza. Successione
temporale e trasformazione si fondono, così, in una struttura che implica almeno due gradi di trasformazione che porteranno da una situazione inizialmente posta allo stabilimento di una nuova (ultima)
situazione.
Ma qualunque sia la teoria narrativa a cui si possa fare riferimento, rimane assodato che i tre termini
minimi del fatto narrativo sono: Personaggio, Argomento, Drammatizzazione (nel senso di determinazione di un sistema di azioni ). Senza azione infatti, sia essa di tipo fisico e sia essa di tipo mentale
(anche il pensiero è una forma dell’agire ) non c’è narrazione.
Soprattutto, però, dobbiamo osservare che senza personaggio non c’è azione. Il Personaggio o come
lo abbiamo definito prima soggetto/personaggio è il fulcro, ma soprattutto, la ragione pratica e teorica
del concetto di narrazione. Narrare vuol dire raccontare, e raccontare vuol sempre dire che si intende
riferirsi ad una storia che qualcuno ha vissuto o vive o vivrà o immagina di vivere o che (almeno) in
una qualche misura possa riguardarlo.
Raccontare vuol dire riferire circa protagonisti. E cosa sono i soggetti/protagonisti se non uomini?
Allora narrare vuol dire parlare di uomini ( intesi come esseri umani)? E i protagonisti animali, così
presenti nelle favole, nei fumetti, nei disegni e nei cartoni animati. Ebbene ad una analisi accurata
del concetto di protagonista/animale (inteso come non uomo, sia esso il pesce Nemo, sia una gallina
di Galline in Fuga) pur non avendo sembianze umane, per essere protagonisti di una qualche narrazione, l’unica via è quella di procedere ad una loro antropomorfizzazione; all’animale in questione si
devono
attribuire caratteri psicologici di tipo umano. Lo si deve, almeno dal punto di vista caratteriale, rendere uomo. Non esiste personaggio animale che non abbia, almeno in parte, caratteri psicologici non
riconducibili all’uomo. Questa, ovviamente, è una prassi che riguarda esclusivamente il contesto narrativo, visto che, per quanto ne si possa sapere, gli animali, in natura e per cui nel loro habitat e nella
loro propria dimensione di specie animali diverse dall’uomo, hanno sì un carattere, e forse psicologie,
ma difficilmente riconducibili a tipologie umane.
Ma allora perché, in fin dei conti, un animale per essere un protagonista deve trasformarsi in uomo.
Perché, sintetizzando, il vero, unico e possibile, tema di qualsiasi testo narrativo è sempre e prima di
tutto l’uomo. L’uomo in quanto simile dello spettatore ed in cui lo spettatore possa identificarsi. Non
esiste racconto in cui la sua ragion d’essere no sia l’uomo; uomo come corpo, uomo come pensiero,
uomo come gruppo, uomo come individuo e uomo come moltitudine ma sempre e comunque essere
umano.
Il protagonista unico, ma dalle infinite forme testuali, della narrazione siamo noi, gli uomini, in quan26/
to autorappresentazione e autonarrazione. Si potrebbe dire che ogni racconto serve agli uomini per
raccontare se stessi. Ma raccontare cosa di se stessi?
Altro assioma della narrazione: ogni personaggio è la narrazione su di una dimensione costitutiva del
concetto di conflitto. Bisogna, per capire, entrare nel merito della grammatica elementare del racconto ( cfr Greimas 1970 e Greimas, Courtès 1979 ).
Partiamo dal principio che il rapporto, anzi i rapporti, costitutivi in qualsiasi progetto narrativo, sono
quelli dati tra i rapporti che intercorrono tra un Soggetto S ( personaggio ) ed un Oggetto O ( che può
essere un personaggio o qualsiasi altra cosa, oggetto o sentimento o concetto o scopo ecc.ecc., purchè
abbia un valore di raggiungimento per il Soggetto). Un racconto è una continua generazione di rapporti tra uno, più o innumerevoli soggetti, ed uno, più o innumerevoli oggetti, ed in un racconto sono
presenti due tipi soli di proposizioni molto
semplici: gli enunciati di stato e gli enunciati di azione.
Al livello di sintassi narrativa la dinamica relazionale fra soggetto e oggetto può essere schematizzata
in base al tipo di rapporto che si instaura tra i due termini. I due termini ( soggetto e oggetto) possono essere in un rapporto di congiunzione o disgiunzione. Per quanto concerne gli enunciati di stato,
abbiamo, per cui, due ipotesi:
S&O il Soggetto è congiunto con L’Oggetto
S<O il Soggetto è disgiunto dall’Oggetto
(…) l’oggetto di cui si sta parlando può essere concreto (per esempio un personaggio di una narrazione
che sia ricco è in congiunzione col suo denaro: S&O = ricchezza) ma anche astratto: un personaggio
infelice può essere descritto come disgiunto dalla felicità che, per esempio, aveva in precedenza: S<O
[ NDR identificando in O l’oggetto felicità di cui non si è più in possesso] L’oggetto è individuato dal
testo, e la sua caratteristica essenziale è di aver valore per il soggetto. Di conseguenza si può dire che
nell’ambito degli enunciati di stato, oggetto e soggetto si individuino a vicenda. Il soggetto è colui per
cui l’oggetto ha valore; l’oggetto è ciò che importa al soggetto. (Volli 2003 p 103)
Le singole relazioni dinamiche (di cambiamento) che si istituiranno tra i vari soggetti e oggetti riguardano gli enunciati di azione In un enunciato d’azione un soggetto provoca la congiunzione o
disgiunzione di un soggetto ( se stesso o un altro ) da un oggetto.
Ovviamente qualsiasi moto, interesse, motivazione o spinta nei confronti del proprio Oggetto-Valore
ricade sotto la categoria semantica del concetto di desiderio; mentre qualsiasi forma di allontanamento del soggetto dal proprio Oggetto-Valore ricadrà sotto l’egida del concetto Legge. In altre parole
ogni Soggetto ha come compito quello di impossessarsi di un Oggetto che più o meno qualcosa o
qualcuno cercheranno di non fargli cogliere.
Ecco, con una assolutamente impropria semplificazione, in cosa consiste la narrazione. In Soggetti
che inseguono il possesso di Oggetti-Valore più o meno significativi ( per i soggetti stetti ) ma questo
percorso è intralciato da altri soggetti ( opponenti) che cercheranno di impedire ( di volta in volta )
questo fine.
Il volere ( il volere trattenere, se lo si ha già, l’oggetto o raggiungere per poi trattenere l’oggetto) ed
il potere ( il potere trattenere, se lo si ha già, l’oggetto o raggiungere per poi trattenere l’oggetto ).
Desiderio come volere in contrapposizione alla legge come potere. Ecco che ogni racconto racconta
i personaggi in quanto soggetti impegnati nella risoluzione di un conflitto, per meglio dire, soggetti
impegnati nella risoluzione de il conflitto. La matrice dell’incolmabilità del desiderio. Il conflitto Edipico, in quanto matrice fondatrice e conflittuale della psiche dell’uomo, è, metaforicamente, implicato in ogni testo narrativo e la risoluzione dell’equazione Desiderio/Legge nei suoi termini di Volere/
Potere è la struttura profonda dell’Edipo, ( per cui) dell’uomo, e da cui della narrazione e del racconto
in cui l’uomo si autorappresenta.
27/
Ecco perchè la prima forma di identificazione che si ha innanzi ad un film narrativo e quella dell’identificazione Antropologica, ossia dell’identificazione dello spettatore con la narrazione in quanto riflessione dell’uomo sull’uomopersonaggio; uomo-personaggio colto nel disperato tentativo di risoluzione del conflitto tra Volere e Potere esattamente come lo spettatore stesso. Prima di identificarmi
con la psiche del Gladiatore, mi identificherò con la narrazione, mi identificherò nel concetto di specie
umana e dei suoi conflitti. Tema immanente di ogni narrazione.
L’identificazione al fatto narrativo in sé è dunque una «identificazione diegetica primordiale» (e come
tale dunque va inclusa nell’identificazione cinematografica secondaria) e rappresenta «una riattivazione profonda […] delle identificazioni della struttura edipica». (Aumont et al. op.
Sistema Cinema
Il concetto di cinema è senza dubbio un concetto ricco di significati in quanto può designare, in base
alle esigenze del contesto, un luogo fisico (lo spazio concreto della proiezione cinematografica), una
tecnologia, (la tecnologia del cinematografo), una forma particolare di rappresentazione e narrazione, il cinema come arte, un certo tipo di organizzazione industriale (sovrapponendosi, quindi,
al concetto di industria cinematografica), una dimensione antropologica ( il cinema in quanto rito e
luogo di simbolizzazioni ), un sistema linguistico (il cinema in quanto linguaggio audiovisivo ), una
dimensione estetica, sociologica e così via. Siamo pertanto di fronte ad un esempio di marcata polisemia; e questa sostanziale indeterminazione del senso è, per certi versi, un elemento di debolezza se
pensiamo a quanto sia importante il rigore terminologico nell’ambito del ragionamento scientifico (a
prescindere dalla natura e dalle caratteristiche dell’oggetto d’indagine).
Il cinema, inteso in un’ottica di insieme, olistica, è un attività sociale appartenente al sistema dei media e data da fattori eterogenei, quali:
· economia del cinema ( produzione, marketing strategico, distribuzione, esercenza).
·
cinema come Ideologia (cinema come sistema di idee e come veicolazione di sistemi di
idee).
· cinema come determinazione di prassi e modelli simbolici e dell’immaginario.
· cinema come dispositivo di rappresentazione e narrazione (determinato da prassi e codici atti
all’organizzazione di tempo/spazio/personaggi ).
· cinema come psicologie ( psicologia del rito cinematografico, psicologia della fruizione, psicologia della percezione ecc.).
· cinema come linguaggio, retoriche di linguaggio ed estetiche.
· cinema come mezzo di riflessione storico-sociale ( il cinema riflette sul mondo)e come fonte
per l’analisi storico-sociale
· cinema come storia del cinema
· cinema come ipotesi sociologica
Il cinema è, quindi, una complessa interrelazione di dinamiche che, tutte sostanziali per il funzionamento del sistema,agiscono in modo simbiotico, nella determinazione dell’orizzonte cinematografico,
come orizzonte antropologico, di consumo, di testualità. L’apparato cinematografico è, inoltre, elemento primario, nel nostro presente storico, nella e della dialettica sociale. Fondamentale anche nella
definizione e messa a punto dei fenomeni di costruzione e rappresentazione delle identità sociali, e
di autorappresentazione identitaria del singolo individuo, in altre parole, il cinema è parte attiva nella
definizione di identità socio-culturali ed il singolo spettatore ha modo di autorappresentarsi in esse.
Ma, sostanzialmente, in una riflessione comune e distratta, il cinema viene spesso riportato, ricondot28/
to, alla sua dimensione minima di testo: Cinema=Film.
Questa dimensione, a scartamento ridotto, sostanziale ma, se diamo per valido ciò che abbiamo detto
sin ora, non univoca del medium cinematografico, non può che incanalarci verso il film come luogo
testuale e per cui come fenomeno testuale\discorsivo appartenente alla categoria dell’audiovisivo,
ovvero: Cinema=Film=Linguaggio audiovisivo.
Il linguaggio audiovisivo è il linguaggio (insieme di segni, codici, strutture sintattiche ecc.) impiegato nei testi cinematografici, televisivi ed in ogni medium in cui i testi siano costituiti dalla messa in
relazione di immagini e suoni.
Il linguaggio audiovisivo è, in prima analisi, caratterizzato da una doppia enunciazione: enunciazione
visiva (immagini propriamente dette e grafica) ed enunciazione sonora (rumori ambientali, parole
dette, il parlato, musica ). Nessuno di questi elementi ha, per statuto, una potenza di significazione maggiormente determinante e necessariamente superiore a quelle degli altri, ecco perche Chion
(1999) parla di contratto audiovisivo.
Il linguaggio audiovisivo si attua mediante sistemi di codici, tra i quali: Cinematografici:i codici linguistici (grammaticali: campi, piani, raccordi e sintattici: di relazione tra le immagini, di montaggio),
codici illuministici e cromatici,i codici di composizione dell’immagine (plastici-iconici).
Codici sonori: i codici del rumore ambientale, musicali, della parola detta, i codici della sintattici del
suono.
Codici narrativi: Sono i codici che non riguardano solo il cinema e gli audiovisivi ma la Finzione in
generale. La narrazione attua, infatti, codici e strutture comuni per tutti i media: cinema, letteratura,
fumetto, televisione, danza, teatro (ecc.) quando sono Racconto, implicano ed adoperano i medesimi
codici e le medesime funzioni e figure strutturali.
Codici di genere: il concetto di Genere testuale (anche per gli audiovisivi ) è fondamentale sia
nell’emissione che nella fruizione e connotazione del testo e della sua verosimiglianza, il testo rientra
in un patto di genere tra emittente e lettore «Un testo non contiene solamente un sapere ma anche delle istruzioni d’uso le quali autorizzano cammini di appropriazione testuale pertinenti e ne sanciscono
l’esclusione di altri» (Viganò 2003 p 209).
Codici metamediali:quando un medium “ospita” codici geneticamente appartenenti ad un altro medium e li ri-attualizza . Un film, ad esempio, elabora codici appartenenti alla danza, alla pittura, alla
musica ecc.
Il linguaggio audiovisivo è la parete di linguaggio che, costituisce la materia significante del testo
filmico e questa materia è stata ampiamente indagata e studiata dalla semiologia, disciplina che, nelle
sue complesse e proteiformi carature teoriche e procedurali, ha accordato al testo\film, ed alla sua
interazione linguistica simbolica e pragmatica con lo spettatore, un interesse accurato e articolato. Ma
in questo saggio non ci si vuole occupare di sistemi testuali ( se lo si farà, lo si farà in modo superficiale), il testo sarà la latenza del saggio, il linguaggio adoperato (la terminologia) sarà, per marcare
ancora di più le intenzioni, il meno semiologico possibile. L’oggetto di ricerca in questione sarà il
terminale ultimo del film, quindi, lo spettatore.
Il punto di partenza è «noi non vediamo la realtà obiettiva, ma un prodotto della nostra mente che lega
insieme le immagini» parlando di realtà Munsterberg ( 1916 p 34) si riferisce al cinema; il cinema, in
questo caso il film, come attività di rielaborazione e costruzione mentale effettuata dallo spettatore, il
cinema per poter esistere deve adattare la realtà, la storia umana «nelle forme del mondo interiore (
vale a dire attenzione, memoria, immaginazione ed emozione)» (ibidem).
Lo spettatore: una delle tante pedine del sistema cinema ma l’unica senza il quale il tutto cinematografico non potrebbe avverarsi. Lo spettatore non è un semplice osservatore di un film, è qualcosa di
più, è colui il cui mondo interiore deve riattualizzare il testo\film, per renderlo percezione, significa29/
zione, emozione, partecipazione. Senza questa attività, di rinascita del film, che avviene nella mente
ed attraverso la psiche dello spettatore, attraverso la sua esperienza interiore, le immagini film sarebbero solo fotografie in consecuzione, rumorose, senza nesso, senza emotività.
Una prima distinzione tematica, ormai storicizzata negli studi sul cinema, è quella incentrata sulla differenza tra: →Fatto Cinematografico (Cohen.Seat 1946): tutto ciò che è prima del film ( il sistema di
economie, di produzione ed esercizio cinematografico, le tecnologie cinematografiche, la formazione
culturale degli autori ecc. ) e tutto ciò che è dopo il film (il divismo, l’influenza sociale, politica ed
ideologica del film, le conseguenze del film sugli atteggiamenti dello spettatore ecc.).
→Fatto Filmico (idem): il film inteso come testo, come enunciato, «il film in quanto discorso significante ( testo) o anche in quanto oggetto di linguaggio» (Metz 1971 p13).
→Fatto Spettatoriale (Souriau et al 1953): il singolo spettatore, in quanto individuo, innanzi al film,
ovvero, come la psiche dello spettatore percepisce ed interiorizza il film, come la materia testuale del
film diviene materia, e ricreazione, mentale dello spettatore. Il film diventa una traduzione psichica
soggettiva dello spettatore. Il film diventerà una esperienza psicologica dell’individuo, e suoi atteggiamenti futuri potranno essere influenzati dal film ( o dai film) come sedimento, memoria, esperienza
che influisce sul Sé e sui propri comportamenti ( e qui ci ricolleghiamo al fatto cinematografico inteso
come dopo). L’identificazione
La partecipazione dello spettatore: una libera interpretazione delle teorie di Musatti
La problematica dell’identificazione rappresenta, senza ombra di dubbio, un passaggio obbligato per
tutti quei contributi teorici che, in un modo o nell’altro, intendono o hanno inteso riflettere sulle
modalità di coinvolgimento testuale dello spettatore al cinema (ovvero sul rapporto che si instaura
tra spettatore e testo filmico nel corso di ogni proiezione cinematografica). Tale questione ha avuto,
inoltre, un ruolo di primo piano nel dibattito teorico sul cinema durante gli anni settanta. E per questo
motivo cercheremo, nelle prossime pagine, di capire in che termini le teorie psicanalitiche del cinema abbiano contribuito ad approfondire il tema dell’identificazione spettatoriale. Allo stesso tempo
proveremo ad esplicitare le ragioni dell’importanza di questa tematica per lo studio dell’istituzione
cinematografica.
L’interesse scientifico per i processi di identificazione dello spettatore cinematografico non nasce
negli anni settanta con la psicanalisi del cinema, in quanto gli autori che si rifanno a quella tradizione
di ricerca hanno, in parte, ripreso e sviluppato, seppure in modo originale, un discorso già avviato
altrove.
Ci sembra che sia il caso di iniziare questo capitolo sull’identificazione con una breve premessa che,
partendo un po’ da lontano, ci aiuti a capire quale fosse lo stato dell’arte dell’elaborazione teorica e
scientifica sul concetto di identificazione spettatoriale, prima che i contributi di autori come Metz e
Baudry recuperassero questa problematica ponendola al centro delle proprie riflessioni sul rapporto
tra cinema e ideologia (ovvero sulla natura e sul potenziale ideologico del mezzo cinematografico in
quanto tale). Un autore che si è occupato di identificazione cinematografica già negli anni sessanta,
ben prima quindi di Metz e di Baudry e soprattutto con motivazioni di fondo radicalmente diverse
da quelle che animavano i due studiosi francesi, è Cesare Musatti. Musatti è stato uno dei maggiori
esponenti della psicanalisi italiana ha tra l’altro, curato l’edizione italiana dell’opera omnia freudiana,
si è molto impegnato nel campo della psicologia della percezione (anche in relazione allo specifico
cinematografico). La sue riflessioni sul cinema (cfr Angelini 1992 ) sono inerenti al nostro discorso
perché nel loro insieme costituiscono, a prescindere dal merito delle singole proposte, una testimonianza importante di un modo diverso di concepire la sinergia metodologica tra cinema e psicanalisi,
rispetto a quello che emerge dalle teorie di ispirazione psicanalitica sulla spettatorialità risalenti agli
anni settanta.
30/
Questa diversità di impostazione (che è una differenza di metodo e di obiettivi) si comprende valutando la specificità della formazione culturale e scientifica di Musatti, psicanalista ed esperto di
psicologia sperimentale. Il suo interesse per il cinema e per la psicologia dello spettatore è in un certo
senso fine a sé stesso: si inscrive direttamente e senza secondi fini di ricerca nel campo della psicologia (e della psicanalisi) applicata. Musatti, in effetti, non si interessa al problema del funzionamento
ideologico del cinema come istituzione. Non lo prende proprio in considerazione. Se, d’altra parte,
pensiamo che il suo contributo più importante in materia di cinema risale al 1961, appare evidente
come il lavoro di Musatti vada inquadrato in un contesto culturale che diverge profondamente da
quello a cui ci si è precedentemente riferiti, e che, circa dieci anni più tardi, farà da bagno amniotico
per tutte le teorie psicanalitiche che in questa sede più ci interessano.
Un sogno come un film
Vediamo di tentare una sintesi. Musatti parte da una constatazione che gli deriva dalla sua esperienza
quotidiana di medico psicanalista: ci sono dei sogni ai quali il sognatore non prende parte direttamente, dei sogni rispetto ai quali il soggetto sognante si pone (e si percepisce) come semplice spettatore.
Talvolta accade addirittura che il soggetto, chiamato a raccontare il sogno, faccia esplicito riferimento
all’esperienza della situazione cinematografica, nel tentativo di comunicare il distacco che, nel sonno,
egli vive tra la percezione onirica del sé e il mondo del sogno. Ci sono, in altri termini, dei sogni in
cui il rapporto tra il soggetto che sogna e l’oggetto del sogno è equivalente al rapporto che si instaura
al cinema tra lo spettatore e il mondo diegetico, il mondo della narrazione.
L’analisi di questi sogni conduce per lo più a ritenere che la mancata partecipazione diretta alla scena
del sogno, o addirittura il trasferimento della scena del sogno (a cui il soggetto non partecipa) su un
palcoscenico o sullo schermo di un cinema, esprime semplicemente una difesa del soggetto. Il quale
si arrischia, sì, a rappresentare nel sogno una certa vicenda […] ma si affretta nel contempo a mettersi
fuori dalla vicenda, ad assumere il ruolo di spettatore soltanto, per non compromettersi soverchiamente, in quanto quelle tendenze latenti sono da lui sentite come proibite […] Questi sogni sono
dunque il risultato di un compromesso. (Musatti 2000 p. 42)
In termini onirici, rivestire il ruolo dello spettatore significa, quindi, prendere le distanze dalle azioni
rappresentate. Significa non riconoscerle come azioni proprie e tuttavia osservarne discretamente lo
svolgimento. Questo piccolo escamotage è davvero fondamentale in quanto consente al sognatore di
mettere in scena (di visualizzare nelle rappresentazioni del sogno) tutta una serie di azioni e di situazioni (un certo tipo di contenuto manifesto) che insieme rimandano ad un nucleo interdetto di desideri
inconsci (un determinato contenuto latente); allo stesso tempo il sognatore, proprio aderendo al ruolo
spettatoriale, è in grado di sottrarsi alle proprie responsabilità rispetto alle azioni rappresentate (che
egli sente essere proibite). Musatti parla di ‘compromesso’ nel senso che questo tipo di costruzione
onirica neutralizza brillantemente la pressione della censura e riesce a comporre il conflitto che si
instaura tra le resistenze del soggetto e i suoi desideri rimossi; e tutto questo soltanto, attraverso il
linguaggio del sogno, intervenendo sulle modalità della messa in scena onirica.
Da ciò ne risulta che lo spettatore al cinema si trova in una situazione estremamente vantaggiosa:
immerso nel buio della sala cinematografica può prendere parte al film (e alle azioni che nel film sono
rappresentate) senza tuttavia doversi assumere la responsabilità di quelle azioni e senza avere sensi
di colpa. Proprio perché egli è semplicemente uno spettatore può lasciare che l’immaginario del film
entri in risonanza con il mondo dei suoi desideri inconsci, appagandoli. Inoltre, a prescindere dall’intensità della partecipazione, ogni spettatore sa benissimo che la proiezione cinematografica è solo una
parentesi socialmente regolata all’interno della vita reale: di conseguenza, alla mancanza del senso di
colpa si unisce la rassicurante consapevolezza che, qualsiasi cosa avvenga sullo schermo, l’esperienza cinematografica non può avere ripercussioni concrete sulla vita di tutti i giorni.
31/
Secondo Musatti è qui che bisogna cercare le motivazioni antropologiche profonde del successo del
cinematografo sul grande pubblico: egli fa notare, a tale proposito, come non sia casuale l’elevata
incidenza statistica di film violenti e a sfondo sessuale. L’aggressività e gli istinti sessuali sono infatti
oggetto di forte rimozione collettiva, nella misura in cui è proprio a partire da queste rimozioni che si
costruisce la possibilità di una pacifica convivenza. L’esperienza cinematografica, sospendendo (parzialmente) nello spettatore il senso di colpa, lo risarcisce dei sacrifici sostenuti per accedere all’ordine
della società, consentendogli di appagare le sue pulsioni più inconfessabili .
Lo spettatore è il personaggio
Ma quali sono i meccanismi psichici attraverso i quali tale partecipazione concretamente si realizza?
Sono essenzialmente due: si tratta dell’identificazione e della proiezione. Stiamo parlando, come è
ovvio, di due meccanismi mentali che riguardano il funzionamento globale della psiche umana: tuttavia, nel contesto della proiezione cinematografica, essi agiscono con particolare frequenza ed intensità, proprio in ragione di quell’abbassamento delle difese e delle resistenze che, come abbiamo visto in
precedenza, lo spettatore si concede sapendo, in fondo, di essere soltanto uno spettatore al cinema.
Musatti non introduce una nozione troppo tecnica del concetto psicanalitico di identificazione. Egli
intende per identificazione cinematografica quel particolare meccanismo psicologico attraverso il
quale uno spettatore si immedesima in un personaggio al punto da reagire emotivamente alle situazioni che, nella narrazione, riguardano tale determinato personaggio (fittizio, falso, lontano da noi
in quanto puro artificio testuale). Il personaggio è un’invenzione ma lo spettatore si sente chiamato
all’emozione, in prima persona. Attraverso l’identificazione, per usare altri termini, lo spettatore è nel
vivo della narrazione, e aggiungiamo noi, vi compartecipa, ne diviene comune materia psichica: vi
accede, sul piano emotivo, attraverso le emozioni di un personaggio che è una sorta di addentellato
mentale dello spettatore stesso ( o viceversa).
In realtà l’identificazione non è un processo monolitico: lo spettatore può saltare da un’identificazione
all’altra, da un personaggio all’altro; può anche scindersi e prendere consapevolmente le parti di un
personaggio, mentre nel suo inconscio si identifica con un altro. In questo senso, Musatti introduce
un concetto davvero importante che è quello della natura cangiante e fluida delle identificazioni spettatoriali, le quali non solo risultano essere permutabili nel corso del film, ma addirittura talvolta si
sovrappongono in una gerarchia mentale in cui a ciascun livello corrisponde una certa soglia di consapevolezza dello spettatore. Possiamo quindi parlare di un processo complesso di avvicendamento e
di stratificazione dei fenomeni di identificazione nel corso dell’esperienza cinematografica.
Quando lo psicanalista italiano affronta il tema appena trattato della volubilità delle identificazioni
arriva a sfiorare la questione, che poi diventerà decisiva in altri contesti di studio, del funzionamento
ideologico del mezzo cinematografico. Può essere utile riprendere le parole dell’autore: attraverso
le identificazioni, secondo Musatti, noi viviamo veramente in prima persona la vicenda che ci è presentata, con la possibilità tuttavia di spostare continuamente quello che potremmo chiamare il punto
di vista dell’azione: siamo di volta in volta l’eroe perseguitato e l’implacabile persecutore; l’amante
fortunato, l’adultera e il marito tradito. […] Tuttavia con certe polarizzazioni preferenziali, per cui
l’identificazione non significa affatto passività assoluta né assenza di un nostro parteggiare per l’uno
o per l’altro personaggio. Del resto, in genere, l’autore stesso del film ci indica in modo abbastanza
univoco per chi dobbiamo parteggiare, e talora il fatto che questa identificazione manchi, o non sia
sufficientemente precisa, può dare allo spettatore un certo senso di disagio, cosicché egli è condotto
a rifiutare il film. [corsivo nostro] (C. Musatti, Scritti sul Cinema, 2000, p. 42)
In realtà questa riflessione, da sola, è di apertura verso questioni centrali come quella del rapporto tra
processi di identificazione e struttura linguistica del testo filmico, oppure quella che riguarda la familiarità del pubblico (che è una forma di assuefazione) con i codici, i rituali e i dispositivi linguistici
dell’ideologia sottesa al funzionamento dell’istituzione cinematografica.
32/
L’emozione dello spettatore è l’emozione del personaggio
Come abbiamo visto, l’identificazione spiega solo una parte delle dinamiche partecipative del pubblico. Risulta, infatti, assai importante anche il meccanismo della proiezione. Si tratta di un processo
psicologico simmetrico ed opposto rispetto a quello dell’ identificazione: se attraverso quest’ultima,
infatti, il soggetto interiorizza i sentimenti dei personaggi e vive le narrazione filmica attraverso le
loro emozioni (si nutre come un parassita della loro linfa emotiva), con la proiezione lo spettatore «arricchisce quei personaggi dei propri elementi psicologici e presta loro sentimenti e reazioni emotive
che sono soltanto sue» (C. Musatti, Scritti sul cinema. 2000, p. 47).
In altri termini, mentre la dialettica dell’identificazione segue un percorso che procede dall’esterno
all’interno e può essere considerata come una forma psichica di incorporazione, la proiezione è un
tipo di movimento inverso che origina nel soggetto e si ripercuote, esteriormente, sui personaggi. Musatti riassume al nocciolo la sua teoria sulle modalità di partecipazione dello spettatore al film dicendo
che mentre «per effetto dell’identificazione, lo spettatore è di volta in volta tutti i singoli personaggi,
[…] per effetto della proiezione i singoli personaggi sono sempre lo stesso spettatore» (Musatti op.
cit., p. 49).
Estremizzando il discorso, ed in un’ottica più semiologica, possiamo sostenere che il personaggio,
in quanto elemento testuale, non può essere dotato di alcuna realtà emozionale. Il testo ( il film ) non
essendo una forma vivente ma essendo un sistema di segni ( oggettivi ma non oggettuali in quanto
immagini proiettate; a meno che non si voglia considerare l’oggetto-schermo in quanto testo) è una
struttura di comunicazione che in se non prova alcuna emozione se non le emozioni che il lettore (
lo spettatore del film ) gli attribuisce e prova per esso, pescando nel proprio, soggettivo e dello spettatore stesso, bagaglio psico-emozionale. Se io sono uno spettatore, le emozioni che io sentirò ( sensorialmente e mentalmente ) nei personaggi- in realtà- sono le mie. Ecco perché lo spettatore è tutti i
personaggi e tutti i personaggi sono lo spettatore.
L’unica cosa che il film ( testo ) può fare e indurre, guidare, lo spettatore nel far sentire ad un dato
personaggio una data categoria di emozioni e ad un altro, un’altra categoria. Categorie di emozioni,
comunque, appartenenti al vissuto psicologico dello spettatore in questione. Ma queste emozioni,
in ultima analisi, le sente esclusivamente il singolo spettatore e sono autoreferenziali. La paura de
Il Gladiatore, sarà sempre diversa, a seconda delle singole categorie autoreferenziali di paure che i
singoli spettatori nelle singole proiezioni ( del film e della psiche ) gli proietteranno e cuciranno indosso.
Potremmo, inoltre, chiederci che cosa rende possibile la proiezione dello spettatore. La risposta è
abbastanza immediata. Per quanto la costruzione dei personaggi e il concatenamento delle situazioni
possa essere accurato e meticoloso rimane sempre, in ogni sceneggiatura, un margine di gioco per lo
spettatore, una certa soglia di indeterminazione e di ambiguità sulla quale il soggetto interviene; ed è
qui che c’è lo spazio ed il modo affinché la proiezione possa avvenire. Questo discorso vale anche per
il livello prettamente linguistico del testo filmico, ovvero per l’organizzazione dei significanti e per
l’interazione dei codici: per quanto, infatti, l’istanza narrante abbia inteso progettare tutti gli aspetti
della messa in quadro, della messa in scena e del montaggio, così da confezionare un testo filmico
fortemente direttivo e capace di orientare lo spettatore nella decodifica, rimane sempre una certa
ambiguità, non fosse altro che l’ambiguità fisiologica connessa allo statuto semiotico dell’immagine
filmica in quanto tale.
Personaggio come personaggio + spettatore
La proiezione dello spettatore è quindi un’attività psichica di completamento, la cui possibilità si
inscrive nei vari livelli di indeterminazione e di ambiguità che comunque resistono nel testo filmico,
33/
a dispetto delle intenzioni degli autori. La proiezione, a nostro parere, copre le smagliature, i vuoti
(lasciati aperte dalla scrittura del personaggio), ma talvolta ricopre anche i personaggi più chiusi e
impermeabili. Lo spettatore, agito dalle proprie emozioni, può proiettare malinconia, la propria, sul
personaggio più felice della storia del cinema. La psiche e la nevrosi di uno spettatore è più forte e
manipolatrice di qualsiasi blindatura che un autore può prevedere per un suo personaggio. Si può
determinare una sorta di confitto, di braccio di ferro: la scrittura e predeterminazione psicologica
del personaggio, da un lato, e la auto-scrittura e predeterminazione delle proprie proiezioni(dello
spettatore), dall’altro. Tutti i personaggi, in fondo, sono psicologicamente aperti, per completarsi, per
chiudersi e compiersi ( ad essi ) prima della proiezione manca ancora qualcosa: lo spettatore, la sua
vita, la sua psiche.
Rimane a questo punto da chiarire il tipo di rapporto che sussiste tra identificazioni e proiezioni
spettatoriali: i due meccanismi mentali che Musatti prende in considerazione agiscono, infatti, contemporaneamente. Esiste tuttavia un margine di interferenza e di interdipendenza tra di loro perché,
da una parte, l’identificazione con il personaggio favorisce la proiezione; dall’altra, tuttavia, proprio
attraverso la proiezione, l’identificazione si rafforza: l’insieme degli elementi proiettati, in quanto
elementi imputabili all’individualità dello soggetto, contribuisce a ridurre la differenza percepita tra
il sé dello spettatore e quello del personaggio, ed è decisamente più semplice che l’identificazione, in
termini generali, avvenga tra individui simili.
L’identificazione, per riprendere la posizione di Freud, è infatti «una connessione psichica, un collegamento affettivo, basato sulla qualità, percepita o immaginata, della somiglianza» (Lis e al. 2002, p.
107) Più nello specifico «l’identificazione secondaria nel cinema – vedremo più avanti in che senso si
dice secondaria – è fondamentalmente una identificazione al personaggio come figura del simile nella
finzione» (Aumont et al. 1999 tr.it. p. 188). Il concetto di simile, però, e da intendersi non tanto come
somiglianza di caratteri ( quell’uomo o quel personaggio mi assomigliano nel loro vissuto o carattere
), ma piuttosto come simile in quanto essere umano come me : simili in quanto ad appartenenza di
specie ( quell’uomo o quel personaggio sono esseri umani come me). In poche parole, cosa ne fa lo
spettatore del personaggio? Gli dà vita, da elemento di una struttura testuale lo rende essere, ne fa un
vivente, umano anch’esso.
Identificazioni primarie e secindarie
Quali aspetti del processo di identificazione vengono tralasciati nel momento in cui si decide di
considerare la partecipazione dello spettatore esclusivamente in relazione alla dimensione narrativa
e all’universo finzionale del testo filmico? In poche parole, cosa di altro ancora c’è oltre l’identificazione con i personaggi?
In psicanalisi si possono distinguere due diversi livelli di identificazione: un’identificazione (cfr Laplanche, Pontalis 1967) di tipo primario e, a partire da questa, la serie pressocchè infinita (caleidoscopica) delle identificazioni di tipo secondario. La prima forma di identificazione si dice primaria
nel duplice senso di una priorità cronologica e di una priorità strutturale (Freud 1932): da una parte,
infatti, l’identificazione psicanalitica primaria segna, per la maturazione psicofisica del bambino,
una fase fondamentale che precede qualsiasi altra dinamica contingente di identificazione (priorità
in senso cronologico); dall’altra, le identificazioni secondarie presuppongono quella primaria perché
quest’ultima ne costituisce il modello psichico generale e perché nessuna identificazione secondaria
potrebbe avere luogo se il soggetto non potesse già contare su quella forma embrionale (immaginaria)
di individualità che gli deriva proprio dall’esperienza dell’identificazione primaria (priorità in senso
strutturale). L’identificazione primaria ha quindi due funzioni: una funzione fondativa (rispetto alla
costituzione dell’io) e una funzione di matrice (rispetto alla totalità delle identificazioni secondarie).
Ora, non pretendiamo certamente di riassumere in maniera così sbrigativa una questione così sostanziale. Ci riserviamo, al contrario, di ritornare in modo più analitico su tali concetti nei prossimi para34/
grafi, per comprendere sino in fondo quale sia stato il contributo che, negli anni settanta, l’insieme di
questi riferimenti ha saputo fornire alla riflessione teorica sul cinema e, più nello specifico, all’analisi
della prassi e dei dispositivi dell’istituzione cinematografica. Limitiamoci per adesso ad una rapida
osservazione: dal punto di vista di Musatti la differenza tra identificazione primaria ed identificazioni
secondarie (che per la teoria psicanalitica è così importante) non merita di essere chiamata in causa
all’interno di una riflessione sulle dinamiche di partecipazione dello spettatore cinematografico.
Secondo Metz e Baudry (1978), invece, non solo è opportuno, ma è addirittura indispensabile che tale
differenza venga tenuta in considerazione: dal loro punto di vista, infatti, così come è utile distinguere, rispetto alla dinamica complessiva dello sviluppo psicofisico dell’individuo (teoria generale della
formazione del soggetto), tra un’identificazione di tipo primario e l’insieme variegato delle identificazioni secondarie (le quali possono avere luogo soltanto nella misura in cui abbia già avuto luogo
l’identificazione di primo tipo), allo stesso modo, è possibile ipotizzare un’articolazione su due livelli
dei processi di identificazione che coinvolgono lo spettatore cinematografico.
Ai fini di un’analisi accurata delle forme di coinvolgimento psichico del soggetto spettatore occorre,
in altri termini, distinguere tra un’identificazione cinematografica primaria e la serie indeterminata
delle eventuali identificazioni cinematografiche secondarie che, a partire da quella, possono scandire
il rapporto di partecipazione dello spettatore al testo filmico.
In base a questa concezione appare evidente come non si possa ridurre la questione delle identificazioni spettatoriali ai fenomeni, peraltro complessi, delle identificazioni con i personaggi: l’insieme
delle identificazioni con i personaggi – lo capiremo meglio in seguito – rappresenta, difatti, soltanto
una dimensione di quelle che Metz chiama identificazione cinematografica secondaria (cfr. Metz
1977).
Ma quali sono le ragioni che hanno spinto Metz e Baudry ad analizzare le forme di identificazione
dello spettatore cinematografico riprendendo il modello prettamente psicanalitico del doppio livello
di identificazione? Una di esse, sostanziale per il nostro discorso, è banalmente sintetizzabile : se
davvero le dinamiche di identificazione dello spettatore cinematografico fossero tutte riconducibili
al modello unico dell’identificazione con i personaggi, come si spiegherebbe allora il fatto (empiricamente osservabile) che la partecipazione dello spettatore al film non viene ad essere pregiudicata
dall’eventuale mancanza dei personaggi stessi (a livello di messa in scena e in termini di struttura
narrativa)?
In altre parole se assumiamo come postulato che la partecipazione si concretizza attraverso una serie
di processi di identificazione e se affermiamo che, per lo spettatore, non può esserci altro tipo di identificazione al di fuori dell’identificazione con i personaggi, dovremmo allora attenderci che la presenza e la conoscenza dei personaggi sia una condizione necessaria affinché possa determinarsi una
qualsiasi forma di partecipazione del pubblico rispetto al testo filmico (rispetto al testo audiovisivo).
Ebbene, questo ragionamento nei fatti, viene contraddetto dall’esperienza quotidiana di ogni spettatore. Tale esperienza ci dice, infatti, che è possibile aderire emotivamente (è possibile partecipare)
ad un testo audiovisivo anche in assenza di personaggi rappresentati (di personaggi come elementi
della messa in scena) e, al limite, anche a prescindere da una architettura finzionale di tipo classico.
È questo uno dei motivi per cui la riflessione teorica sul fenomeno dell’identificazione al cinema non
può fermarsi in superficie e deve andare oltre la dimensione delle identificazioni con i personaggi (la
dimensione dell’identificazione secondaria). «Solo l’identificazione primaria [lo capiremo meglio in
seguito] può spiegare il fatto che non sia indispensabile […] che in un film figuri l’immagine di altri,
del simile, perché lo spettatore vi trovi ugualmente il suo posto» (Aumont et al. Op.cit. p. 184).
Metz è estremamente chiaro a proposito e afferma che lo spettatore evidentemente ha modo di identificarsi col personaggio della finzione. Ma bisogna sempre che ve ne sia uno. Questo vale dunque
solo per il film narrativo-rappresentativo e non per la costruzione psicanalitica del significante cinematografico come tale. Lo spettatore può anche identificarsi con l’attore, in film più o meno “non di
35/
finzione” in cui questo si presenta come attore e non come personaggio, ma continua in tal modo ad
offrirsi come essere umano (come essere umano percepito). […] Tuttavia [il cinema] ci presenta spesso delle lunghe sequenze che potremmo chiamare (letteralmente) “inumane” […] [che] non offrono
alcuna forma umana all’identificazione dello spettatore; dobbiamo credere tuttavia, l’identificazione
rimanga intatta nella sua struttura profonda perché il film in simili momenti funziona altrettanto bene
che in altri. (Metz op. cit. pp. 58 – 59)
Identificazione cinematografica primaria e secondaria
L’identificazione cinematografica primaria Al cinema, al buio, immobili
Ebbene, ciascuno di noi, secondo Baudry (1975), quando si reca al cinema si trova in uno stato psicofisico del tutto simile a quello del bambino davanti allo specchio primordiale (allo specchio dell’identificazione primaria), perché, proprio come accade al bambino, anche lo spettatore cinematografico
vive una condizione di sostanziale impotenza motoria (è seduto in poltrona e la gamma dei movimenti
che può fare senza violare le regole tacite del rituale della proiezione è estremamente ristretta); quasi tutto il suo potenziale di recettività passa, inoltre, attraverso il canale privilegiato (sovrinvestito)
della percezione visiva. C’è tuttavia una significativa differenza: la scarsa motilità dello spettatore al
cinema non è un fatto di immaturità biologica, ma rappresenta piuttosto il corollario necessario di una
libera adesione.
Spieghiamoci meglio: l’impotenza motoria dello spettatore è una sorta di astensione volontaria dal
movimento; è, per riprendere un’espressione di Metz, una sospensione transitoria (in quanto limitata
alla durata della proiezione) di ogni progetto d’azione: è in sostanza una frustrazione autoimposta
che si spiega nella misura in cui un individuo, decidendo di vedere un film al cinema, è chiamato ad
accettare il patto dell’istituzione cinematografica, la dimensione rituale; è chiamato ad adeguarsi ai
suoi rituali, alla sua prassi; è chiamato, in definitiva, ad interpretare correttamente (ovvero in termini
funzionali rispetto ai fini dell’istituzione stessa) il ruolo dello spettatore, con tutti i vincoli e le piccole
coercizioni che questo ruolo può comportare (compreso il postulato dell’inibizione motoria di cui
sopra).
In base al medesimo schema di ragionamento, è opportuno precisare che anche la sovreccitazione
dell’apparato visivo non dipende, nel caso dello spettatore cinematografico, da una particolare efficienza della funzione visiva, ma è invece il risultato di una serie di accorgimenti posti in essere
dall’istituzione cinematografica: è l’effetto delle condizioni stesse della proiezione, perché l’oscurità
della sala aiuta lo spettatore a concentrarsi sulle visione, consentendogli di focalizzare la propria
attenzione sullo schermo. Il buio è una componente essenziale del rituale cinematografico ed è un
fattore fondamentale per la partecipazione emotiva del pubblico.
Occorre dire, a questo punto, che Baudry parla di un altro livello di analogia tra gli elementi dello stadio dello specchio e quelli della fruizione cinematografica. Si tratta, per essere più precisi, dell’analogia tra lo specchio e lo schermo: così come il bambino, premesse le condizioni di cui sopra, interagendo simbolicamente con lo specchio arriva ad identificarsi con il suo doppio (con la sua immagine
riflessa) e quindi intraprende la costruzione del proprio io nella forma immaginaria di una relazione
dualistica ed osmotica per cui, alla fine, egli é il suo doppio, allo stesso modo, lo spettatore, aderendo
alle prescrizioni dell’istituzione cinematografica (e quindi comportandosi da spettatore modello), si
concentra sullo schermo e accede alla costruzione del proprio io cinematografico: viene, in definitiva,
a costituirsi come soggetto ideologico per l’istituzione cinematografica.
La portata ideologica di questo processo risiede proprio nel fatto che non c’è niente di casuale in
36/
quella che invece egli crede essere la sua naturale condizione di spettatore al cinema (l’evidenza è
uno dei sintomi più caratteristici della presenza di un’ideologia); ogni aspetto del complesso rituale
della proiezione (l’oscurità della sala, l’immobilità del pubblico, la sua sostanziale passività) ha in
effetti una sua funzione ben precisa e risponde alla necessità di incentivare una relazione per quanto
possibile osmotica e totalizzante tra il pubblico (o meglio tra la solitudine dei singoli spettatori) e
lo schermo, sul modello di quella relazione arcaica che si instaura tra il bambino e lo specchio. Lo
spettatore si adegua quindi alla pratica (e alla prassi) cinematografica senza tuttavia porsi, in modo
consapevole, il problema dell’artificiosità del rituale della proiezione; accetta ‘liberamente’ di fare il
gioco dell’istituzione cinematografica, insomma, si abbandona al testo audiovisivo.
Se tuttavia ci domandiamo in cosa consiste esattamente l’identificazione cinematografica primaria
(ovvero se ci chiediamo con chi o con che cosa lo spettatore, in prima istanza, si identifica) emerge
quanto sia imperfetta l’analogia tra lo specchio primordiale e lo schermo cinematografico di cui parla
Baudry. Il primo a muovere questo tipo di obiezione è stato Metz. A questo autore dobbiamo infatti
una constatazione per certi versi banale, eppure gravida di implicazioni (rispetto alle teorie di cui ci
stiamo occupando): lo schermo cinematografico non è uno specchio, non è una superficie riflettente,
non restituisce allo spettatore la sua immagine. Se allora il bambino si identifica con la propria immagine riflessa lo spettatore deve necessariamente identificarsi con qualcos’altro, per il semplice fatto
che egli non si vede nello schermo (è assente dalla messa in scena). Lo spettatore, per certi versi è
l’Assente di cui parla Oudart (1969a,b). Per il teorico francese l’immagine sullo schermo, rimanda
alla completezza madre/figlio nell’immagine dello specchio e questo crea appagamento. Appagamento immediatamente distrutto, messo in crisi dall’ansia prodotta dalla consapevolezza dello spazio
fuori campo. Lo spazio fuori campo è ciò che non vediamo, che non è nell’immagine in cui noi non
siamo, in cui i personaggi non sono. Questo timore è immediatamente attenuato dal controcampo che,
rispondendo all’assenza evocata ( Stam et al op cit) dallo spazio vuoto sutura lo spettatore, lo fissa,
lo cuce, lo salda nella catena testuale.
Riflessioni complesse, ma ciò che è certo, è che non è da subito in gioco un’identificazione con i
personaggi (identificazione cinematografica secondaria) perché se così fosse vorrebbe dire che la
presenza scenica del personaggio (o al limite dell’elemento umano in quanto tale) rappresenta una
condizione necessaria per il funzionamento del film (ovvero per la determinazione di uno spazio mentale unico, in cui lo spettatore si fonde con il film ).
Nell’identificazione cinematografica primaria lo spettatore si identifica, piuttosto, «con sé stesso come
puro atto di percezione» (Metz op. cit. p. 60), si identifica con il proprio sguardo, si identifica con la
macchina da presa in quanto rappresentante dell’istanza narrante, «si identifica con l’istanza della visione (invisibile) che è il film stesso come discorso» (Metz op. cit. p. 102). C’è quindi, secondo Metz,
una profonda differenza tra l’identificazione psicanalitica primaria e l’identificazione cinematografica
primaria, Perché ciò che il bambino vede nello specchio, ciò che vede come un altro che diventa io,
è pur sempre l’immagine del suo corpo: si tratta dunque di un’identificazione […] con un veduto.
Nel cinema tradizionale lo spettatore si identifica invece con un vedente, la sua immagine non figura
sullo schermo, l’identificazione primaria non si costituisce più attorno a un soggetto-oggetto, ma attorno a un soggetto puro, onniveggente e invisibile [corsivo nostro], punto di fuga della prospettiva
monoculare che il cinema ha mutuato dalla pittura (Metz op. cit. p. 103). In altre parole «lo spettatore
si identifica al proprio sguardo e si sperimenta come fuoco della rappresentazione, come soggetto
privilegiato, centrale e trascendentale della visione» (Aumont, et al., op. cit. p. 183).
È attraverso questa identificazione che il fruitore del testo audiovisivo riuscirà ad essere nel testo, ad
essere il testo stesso, ed a poterlo leggere, comprendere, introiettarlo. Per quanto riguarda la televisione, in taluni casi, vi sarà una contemporaneità ( la diretta ) tra lo sguardo dello spettatore e lo sguardo
della telecamera, ma il principio di identificazione ( cinematografica primaria ) è sostanzialmente il
medesimo, anche se è possibile connotare la visione cinematografica come visione concentrata ed assoluta, psichicamente totalizzante, mentre la visione televisiva presenta dei caratteri di intermittenza
37/
percettiva, di concentrazione labile e quindi di identificazione primaria incostante, debole, reversibile.
(Linguiti 2002 op cit pag 9) lo spettatore, si illude in effetti di essere il soggetto della rappresentazione
e l’istituzione nel suo complesso (attraverso la totalità dei suoi dispositivi) lavora affinché egli possa
crearsi questa convinzione; in realtà, proprio nel momento in cui lo spettatore si lascia coinvolgere dal
film, o programma televisivo che sia, (e il primo livello di questo coinvolgimento è proprio l’identificazione con l’istanza della visione), egli si assoggetta al mondo della rappresentazione, accettandone
i codici, le convenzioni e le tante assurdità (o meglio artificiosità) tecologiche e di linguaggi.
Linguaggio cinematografico e identificazione primaria
Ma di quali dispositivi l’istituzione si serve per rafforzare l’illusione di centralità dello spettatore, ovvero per confermare durante tutto l’arco della proiezione l’identificazione cinematografica di primo
grado, che è il primo (e il più importante) livello della partecipazione spettatoriale? Ne citiamo due: il
primo riguarda le caratteristiche di base del cinema inteso, in questo caso, come apparato tecnologico;
il secondo, invece, chiama in causa un certo tipo di retorica del linguaggio cinematografico.
Per quanto riguarda il primo aspetto bisogna capire fino a che punto il cinema abbia metabolizzato
(e sfruttato) il codice pittorico della prospettiva monoculare. La prospettiva monoculare è un canone
di rappresentazione prospettica che presuppone un punto di fuga unico (in questo senso si dice monoculare) ( cfr Panofsky 1961 ). Rappresentare il mondo attraverso la forma (storica, ideologica e in
fondo antropocentrica) della prospettiva monoculare significa organizzare l’immagine in funzione di
un determinato punto di vista; di conseguenza, questo tipo di retorica costruttiva postula la presenza
di un soggetto osservatore.
Il cinema, a cominciare dal dispositivo tecnologico della macchina da presa, riprende questo modello
di rappresentazione per almeno due ragioni di comodo: per un verso, essendo un codice molto diffuso
e radicato di rappresentazione spaziale (cfr. Arnheim 1957), un codice al quale siamo decisamente
assuefatti e che diamo quasi per scontato, la prospettiva monoculare (di origine rinascimentale) gioca
un ruolo decisivo nel garantire il «buon funzionamento dell’illusione di tridimensionalità prodotta
dall’immagine del film» (Aumont op. cit. p. 22).
D’altro canto, c’è da considerare il postulato del soggetto osservatore che, a livello cinematografico,
si traduce nel postulato della presenza dello spettatore, o meglio nel postulato della centralità dello
spettatore come figura privilegiata e principio di organizzazione visuale dell’immagine (vero e proprio fulcro della rappresentazione filmica): appare evidente come tutto ciò possa essere utile al funzionamento dell’dispositivo cinematografico.
Dal punto di vista dell’apparato tecnico non basta tuttavia la morfologia della macchina da presa
a sfruttare sino in fondo i benefici della prospettiva monoculare: durante la proiezione, infatti, la
macchina da presa è assente. Il rappresentante della macchina da presa all’interno della sala cinematografica è il proiettore, dal quale parte il fascio luminoso delle immagini che si materializzano sullo
schermo. Ora, non è un caso che il proiettore sia collocato idealmente dietro la testa degli spettatori
e quindi, seppure con una certa approssimazione, in coincidenza del fuoco reale della visione dello
spettatore: secondo Metz, infatti, «durante la proiezione, lo spettatore […] duplica il proiettore, il
quale a sua volta duplica la macchina da presa» (Metz op. cit., p. 63).
Ecco forse una spiegazione – azzardiamo qui un’ipotesi – del senso di disagio che ciascuno di noi ha
sicuramente provato quando, in un cinema affollato, non ha potuto fare a meno di seguire un film da
una poltrona laterale o magari seduto in una delle primissime file. In questi casi, in effetti, il fuoco
concreto della visione dello spettatore si discosta più di quanto non avvenga di solito dal ‘punto di
vista’ del proiettore (che, ricordiamolo, attualizza quello della macchina da presa): è plausibile quindi
che lo spettatore abbia una certa difficoltà a ‘duplicare’ il proiettore perché c’è un margine significativo di slittamento tra i due punti di vista (il suo e quello del proiettore). Questo differenziale dipende
38/
dalla posizione dello spettatore in sala e il disagio che egli prova, secondo questa interpretazione,
discenderebbe dal fatto che una duplicazione parziale (o comunque faticosa) disturba la stabilità
dell’identificazione cinematografica primaria e inficia il potenziale di partecipazione dell’individuo
al film.
La prosa cinematografica
C’è un altro componente che lavora per agevolare (e mantenere nel tempo) l’identificazione cinematografica primaria: si tratta del linguaggio cinematografico nella forma storica (ed estetica) del
montaggio (o découpage) classico. Specifichiamo subito che non faremo uso, per avvicinarci a questo
concetto, del bagaglio teorico della semiologia, che amiamo e da cui proveniamo, ma che in questo
punto del testo complicherebbe un po’ troppo il discorso.
Il découpage classico è tante cose assieme: è un certo tipo di uso della scala dei piani; è un certo
numero di regole operative per i raccordi tra le inquadrature(vedi capIV); è una certa retorica di manipolazione discorsiva del tempo diegetico che prevede, ad esempio, l’uso massiccio di microellissi
temporali per conferire un’impressione di fluidità alla rappresentazione. Il découpage classico è, in
poche parole, uno dei grandi regimi della rappresentazione cinematografica, ma specifichiamo subito
che ve ne sono molti altri. Tra tutti, probabilmente, il montaggio classico è quello più importante,
non solo in termini di incidenza statistica (basti pensare che è alla base di tutto il cinema narrativo e
di finzione), ma soprattutto in rapporto alla problematica del funzionamento dell’istituzione cinematografica (e questo spiega in parte il perché della sua diffusione e le ragioni del suo successo). Tutte
le prescrizioni del montaggio classico ( definibile anche come :continuo o lineare o a 180 gradi)
hanno il medesimo obiettivo: nascondere le tracce dell’enunciazione; occultare la presenza dell’istanza narrante (che è il fulcro dell’organizzazione del significante cinematografico a prescindere dallo
spettatore); dissimulare la natura linguistica e discorsiva della rappresentazione filmica per mettere in
primo piano la narrazione, la storia. Serve a farci vedere con chiarezza, a creare una fittizia coerenza
spaziale (illusoria), a indirizzare compiutamente la nostra attenzione, a non creare distrazioni cognitive di alcun tipo. A farci concentrare, attraverso una sintassi delle immagini lineare e semplificata,
sulle azioni, sulle motivazioni e sulle emozioni dei personaggi ( fr Bazin 1973, Metz 1975, Rondolino
e Tomasi 1995).
Se nel lettore vi fossero ancora dei dubbi, possiamo dire: «L’invisibilità del montaggio si costruisce
principalmente attraverso un rapporto di continuità fra piano e piano che trova il suo più efficace
modo di realizzazione attraverso i raccordi di sguardo, di movimento, e di asse» (Rondolino, Tomasi
op cit p178) per cui se il personaggio guarda verso qualcosa, ci verrà ( raccordo ) fatto vedere cosa
guarda. Se il personaggio inizia un movimento, ci verrà (raccordo) fatto vedere il compimento del
movimento. Se vedo un personaggio ad una certa distanza, poi ( raccordo) lo vedrò in un piano ravvicinato. Ed inoltre un’altra prassi fondamentale di questa sintassi è lo spazio a 180 gradi: ciò implica
che lo spettatore abbia l’impressione di seguire la situazione, rimanendo sempre (come a teatro) nella
stessa prospettiva spaziale. In poche parole: L’articolazione spaziale del decoupage classico trova sue
figure fondamentali nel campo/controcampo e nel passaggio da piani d’insieme a piani ravvicinati e
poi di nuovo a piani d’insieme. In generale il decoupage classico subordina la rappresentazione dello
spazio e del tempo alle necessità della narrazione dando rilievo a ciò che si vuole affermare come più
importante di altro.(… )[esso]decide per lo spettatore non solo che cosa questi deve vedere, ma anche
come, quando e per quanto tempo lo deve vedere.(ibidem)
Lo spettatore deve pensare a concentrarsi sulla storia e non sul linguaggio. Solo così si spalancheranno le porte, compiutamente, ad una facile identificazione secondaria ( con i personaggi). Il montaggio
(la sintassi audiovisiva) classico, è pensato per risultare come trasparente, per nascondersi, per non
marcare la propria presenza. La finalità del montaggio classico è creare una sorta di prosa cinematografica convenzionalizzata, che non si faccia più intendere come costrutto linguistico (artificioso)
39/
ma che ( esattamente come fa la prosa verbale o scritta ) sembri un qualcosa di naturale, di non artificiale, la realtà del pensiero. Noi percepiamo come artificiosa la poesia, ma essa è un artefatto (
tecnologico-linguistico) esattamente come la prosa, solo che la seconda, per convenzionalizzazione
storico-culturale, ormai la sentiamo come la nostra ( naturale ) estensione linguistica, con cui siamo
in un rapporto di confidenza e intimità psichica. La prosa è parte di noi, anzi siamo una cosa sola, un
tuttuno, un unicum mente-lingua. La prosa è la prospettiva ideologica comune del linguaggio. Una
volta accettata dimentichiamo che è solo una delle tante vie possibili all’espressione. Tutto ciò accade
anche nel linguaggio cinematografico, con il montaggio classico, che ne è la sua prosa.
Il film non esiste senza lo spettatore
In realtà il montaggio classico è una delle forme più complesse e raffinate di linguaggio cinematografico; è un sistema di organizzazione del significante filmico che, per vocazione, rinuncia ad ostentare
la propria natura linguistica; è in definitiva il linguaggio cinematografico nella forma (linguistica)
della negazione e dell’assenza.
Abbiamo detto che attraverso l’identificazione cinematografica primaria lo spettatore si sperimenta
come fuoco della rappresentazione; tutto ciò avviene perché egli si identifica con la macchina da
presa e, attraverso questa, con l’istanza della visione: il modello retorico e ideologico del montaggio
classico è quindi fondamentale per l’efficienza di questo meccanismo visto che, proprio grazie all’occultamento delle marche di enunciazione si viene a liberare un posto nella struttura ideologica del
testo filmico. Questo posto, vacante solo in apparenza, è il posto del soggetto onniveggente, è il posto
che va ad occupare lo spettatore a seguito dell’identificazione cinematografica primaria.
Questo primo livello d’identificazione è dunque fondamentale perché è l’io dello spettatore (identificato con l’istanza, il punto di vista, della visione) che istituisce il significante cinematografico. Il
film esiste solo attraverso gli occhi (e la mente) dello spettatore, ma soltanto nella misura in cui lo
spettatore sappia sperimentarsi come soggetto onniveggente: solo in questo modo, infatti, egli è in
grado di attribuire un senso a quel coacervo indefinito di stimolazioni visive, a quell’accozzaglia di
immagini di cui in realtà si compone la catena filmica. Che cosa c’è in effetti di più assurdo, di più
illogico e di più insensato di un film, se lo consideriamo asetticamente per quello che è (ovvero una
successione arbitraria di immagini e di inquadrature)? Un film non è altro che una successione di fotografie che rappresentano singoli oggetti, singole porzioni di spazio, singole porzioni di corpi, singoli
corpi ecc.ecc. Eppure nessuno di noi si pone questo genere di problemi quando guarda un film. Lo
guarda e basta. Lo guarda come se fosse la cosa più naturale e ovvia del mondo. E’ una forma di gioco
alla quale ciascuno di noi aderisce liberamente. Il fatto è che ogni gioco ha le sue regole che devono
essere accettate e che orientano i comportamenti dei giocatori. Lo spettatore cinematografico pensa
di essere esso stesso il centro della rappresentazione cinematografica. Si identifica con l’istanza della
visione, ma nella maniera totalizzante che caratterizza tutte le identificazioni immaginarie e per cui
possiamo dire che lo spettatore concretamente è l’istanza della visione. In realtà il vero fulcro della
rappresentazione è l’istanza narrante ovvero, da un certo punto di vista, la struttura testuale e le sue
manifestazioni. Prima che lo spettatore entri in sala, prima ancora che egli decida di andare al cinema,
l’istanza narrante ha già fatto il suo lavoro; ha organizzato il testo filmico una volta per tutte; il film è
già pronto per essere proiettato.
Ma il film non esiste senza lo spettatore. Può esistere come oggetto (la pellicola, insieme di fotografie)
ma non in quanto testo. Senza l’identificazione del lettore (spettatore) il film non ha significato e non
significa nulla. La cooperazione al significante cinematografico che compete allo spettatore non è una
creazione ex novo (lo spettatore non inventa ciò che vede); è piuttosto una sorta di attualizzazione
di un testo semiotico potenziale, in sospensione, e che può esistere solo grazie alla collaborazione
‘spontanea’ del pubblico, all’interno del rituale della proiezione cinematografica.
Rimane a questo punto un ultimo aspetto da chiarire prima di passare all’identificazione psicanali40/
tica secondaria. Abbiamo detto in precedenza della analogia imperfetta tra specchio primordiale e
schermo cinematografico: lo spettatore non vede il suo riflesso, eppure è in grado di identificarsi con
quello che Metz definisce un vedente. Questa circostanza ci aiuta a chiarire il rapporto che sussiste
tra le identificazione psicanalitiche e quelle cinematografiche: tanto l’identificazione cinematografica
primaria quanto l’identificazione cinematografica secondaria sono, dal punto di vista psicanalitico,
delle identificazioni secondarie, nella misura in cui presuppongono l’esistenza di un soggetto psichicamente sviluppato. Proprio perché lo spettatore è un individuo psichicamente maturo (almeno nel
senso che ha superato lo ‘’stadio dello specchio’) è in grado di identificarsi con qualcosa che non sia
il suo riflesso, così come accade nell’identificazione cinematografica primaria.
L’identificazione cinematografica secondaria (con il personaggio)
La sospensione transitoria della percezione della realtà quotidiana. Il riconoscersi e l’aderire ad un
rito, l’andare al cinema, in cui si convenzionalizza una regressione ad uno stadio infantile dell’esperienza, il rilanciarsi in esperienze emotive vissute, e rivissute attraverso i personaggi. Sono tutti fattori
implicati nella scelta della visione cinematografica. Il sostituire una realtà concreta con una realtà
desiderata (il cinema di finzione come ogni forma di racconto, d’altronde) è sicuramente una delle
componenti che spingono il soggetto ad andare al cinema, perché in effetti la condizione di solitudine
dello spettatore cinematografico consente un ripiegamento narcisistico del sé e permette, attraverso le diverse identificazioni cinematografiche, un appagamento sul piano immaginario, una sorta di
autosufficienza psichica, limitata al tempo della fruizione, la possibilità di dimenticarsi mediante la
partecipazione narrativa. Un elemento di riflessione interessante è che per aderire al gioco narrativo
( ed a certe sue funzioni psicologiche) lo spettatore deve spendere una parte di sé nel testo; e questo
per dare emozioni ai personaggi ( proiezione ) e per compartecipare ad essi ( identificazione). Il paradosso è che lo spettatore per poter, per poche ore, dimenticare la propria vita, attraverso lo schermo
cinematografico, deve riempire lo stesso schermo con le proprie passioni e con la propria psiche. Per
dimenticarci, dobbiamo metterci in gioco.
A questo punto rimangono da chiarire due aspetti: in primo luogo occorre mettere a fuoco il rapporto
che esiste tra il processo psicanalitico dell’identificazione secondaria e il sentimento consapevole
dell’empatia. Quella che comunemente chiamiamo “identificazione”, cioè la reazione empatica nei
confronti dei personaggi di un romanzo, di un dramma teatrale o di un film, viene presa in esame
all’interno dell’ambito psicanalitico delle identificazioni secondarie. Ma l’empatia che sentiamo a livello conscio ha ben poco a che fare con l’identificazione in senso psicanalitico […]. Infatti quest’ultima riguarda i processi inconsci della psiche e non i processi cognitivi della mente. La differenza
si potrebbe porre in questi termini: empatia = “so come ti senti”: le sue categorie strutturali sono il
sapere e la percezione; identificazione = “vedo come vedi tu, dalla tua posizione”: in questo caso entrano in gioco visione e collocazione psichica (Stam e al. Op. cit. p. 196)
Si deve, in altre parole, fare un distinguo tra l’attività conscia e consapevole di analisi delle cose del
mondo e della vita, per cui, della comprensione dello stato psicologico dell’esistenza del personaggio, l’empatia. E la sua metabolizzazione inconscia, la presa in carico nel nostro io di spettatore delle
caratteristiche e motivazioni psicologiche del personaggio, l’identificazione. L’empatia, il ‘so come
ti senti’, attiene alla sfera del cognitivo, processi psicologici che effettuiamo nella costruzione dei
nostri modelli di comprensione della realtà (cfr Cheli 1996). L’identificazione, invece, attiene alla
sfera dell’incoscio ed ecco perché un suo studio compiuto, volendo, non può che effettuarsi mediante
le teorie psicoanalitiche.
Potremmo banalizzare così: empatia come comprensione delle emozioni del personaggio, e identificazione come presa di possesso del personaggio,(o presa in carico). L’empatia con il personaggio
è un atto consapevole dello spettatore, l’identificazione è un atto inconsapevole, ma è quello che lo
àncora al personaggio. Per inciso, fatto salvo ciò che abbiamo detto, i fenomeni psichici sono molto
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più complessi di qualsiasi loro banalizzazione divulgativa, e non ci vuol molto per rendersi conto
che anche l’empatia, pur nel suo essere un fenomeno più di superficie, ha comunque, in un modo o
nell’altro, a che fare con la non consapevolezza dell’attività inconscia.
La sospensione etica dello spettatore
L’altro aspetto interessante al quale bisogna prestare attenzione è il rapporto tra identificazione (secondaria) e simpatia.
In termini psicanalitici, infatti, non è corretto dire che l’identificazione dipenda dalla simpatia; in altre
parole occorre ricordare che la simpatia non è tanto la causa dell’identificazione, ma ne costituisce
piuttosto l’effetto.
«Può accadere ad esempio, in un collegio, che una delle ragazze riceva da un giovane che ama segretamente, una lettera che la fa ingelosire e alla quale reagisce con un’attacco isterico» (Freud 1920 op.
cit. p295) altre ragazze contraggono quella che Freud chiama una infezione psichica e manifestano
anch’esse sintomi di aggressività, sembrerebbe in virtù dell’amicizia e simpatia che le lega, ma in
realtà «Anche le altre vorrebbero una relazione amorosa segreta» (ibidem) e per cui «Il meccanismo
è quello indotto dalla possibilità o dalla volontà [ conscia o inconscia ] di trasporsi nella medesima
situazione.» (ibidem) ancora una volta l’identificazione avviene «quando uno dei due Io ha percepito
un’analogia significativa con un altro Io» (ibidem) da cui « proprio la simpatia scaturisce dall’identificazione» (idem)
In “Dostoevskij e il Parricidio” (1927b) Freud analizza, in ottica psicanalitica, I Fratelli Karamazov.
Nel corso del breve saggio Freud cerca di intravedere, tra le tante altre cose, quale possa essere il
rapporto di fascinazione psicologica che lega Dostoevskij al suo personaggio Dmitrij (Mitja) che noi
sappiamo odiare il padre, ma che sappiamo non esserne il vero assassino, anche se poi la giustizia,
sbagliando, lo riterrà colpevole.
Dmitrij, odiando ferocemente il padre, è un parricida potenziale; l brano di Freud che citiamo, di
seguito, è una ipotesi su cosa leghi così profondamente lo scrittore russo alla figura antropologica
del criminale (il crimine è un tema portante nella poetica di Dostoevskij) La simpatia di Dostoevskij
per il criminale è in effetti senza limiti, supera assai i confini della compassione alla quale l’infelice
ha diritto (…) Il criminale è per lui quasi un redentore che ha preso su di sé la colpa che altrimenti
avrebbero dovuto portare gli altri. Uccidere non è più necessario dopo che egli ha già compiuto il delitto, ma bisogna essergliene grati, perché altrimenti avremmo dovuto uccidere noi stessi. Questa non
è soltanto sollecita compassione, è identificazione fondata sugli stessi impulsi omicidi, propriamente
parlando è un narcisismo appena spostato (…). Forse questo è il meccanismo generale della partecipazione sollecita alla sorte degli altri uomini (…).
Non c’è dubbio che in Dostoevskij questa simpatia da identificazione ha condizionato in maniera decisiva la scelta dell’argomento. (corsivo nostro Freud 1927b p 533-534) La simpatia è una forma di
razionalizzazione successiva, a posteriori, dell’identificazione, o quantomeno, volendo essere meno
radicali, il concetto si simpatia è più complesso di quanto noi lo si stia sintetizzando,la simpatia non
è ciò che ci porta a compartecipare.
La simpatia è una sorta di oggettualizzazione dell’identificazione che è, prima di tutto, una compartecipazione al tema dell’altro, anzi, il tema dell’altro come mio tema. Scatta l’identificazione anche se
il tema dell’altro è un tema che coscientemente noi rifiutiamo, ma inconsciamente no.
Inconsciamente il tema rimosso, che noi razionalmente rifiutiamo e che cerchiamo di azzerare con la
nostra autocensura, è ben vivo, indistruttibile.
Riportando il discorso allo specifico cinematografico (ovvero al livello dell’identificazione cinematografica secondaria) questo significa che non ci identifichiamo in un personaggio piuttosto che in un
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altro perché ci è simpatico; al contrario, accade che, proprio nella misura in cui ci identifichiamo a
quel determinato personaggio, proviamo nei suoi confronti un sentimento di simpatia.
A livello cinematografico, tuttavia, c’è da considerare un fattore in più, ovvero il fatto che l’istanza
narrante ha a disposizione tutta una serie di strumenti (di accorgimenti linguistici) per cercare di
pilotare le identificazioni (cinematografiche) secondarie dello spettatore: questo significa che, entro
certi limiti, è in grado di studiare a tavolino (di pianificare) le modalità di partecipazione del pubblico.
L’istanza narrante può in altri termini decidere a priori per quale personaggio (o per quale insieme
di personaggi) il pubblico parteggerà. Il testo è un sistema gerarchico ed organizzato, difficilmente il
lettore può minarne tale vocazione.
Secondo Metz, abbiamo detto, l’identificazione cinematografica secondaria rappresenta la sommatoria di tutte le diverse identificazioni che il soggetto spettatore intrattiene (o può intrattenere) con
i personaggi della finzione; abbiamo anche analizzato la partecipazione dello spettatore al film, nei
termini di una dialettica di continue identificazioni e di proiezioni (in base ad uno schema di mutuo
rafforzamento e di sinergia) come, del resto, abbiamo osservato la natura complessa delle identificazioni con i personaggi che non devono essere considerate alla stregua di un fenomeno monolitico,
nella misura in cui le identificazioni si avvicendano e si sovrappongono più volte durante la visione di
un film ed è solo per effetto di una elaborazione cognitiva a posteriori se accade che, una volta usciti
dal cinema, ci sembra di esserci identificati unicamente (in maniera monolitica) ad un determinato
personaggio.
A questo punto, dopo questa breve ricognizione, si pone un problema, quello dello statuto etico del
personaggio e dello spettatore. Lo spettatore non sceglie in chi identificarsi, e per cui per chi provare
simpatia, ma tutto ciò è come suggerito dalla struttura testuale, e ancora, lo spettatore si può identificare in personaggi che hanno dei sistemi caratteriali e di valori che possono non essere gli stessi di
quelli dello spettatore. Il personaggio può essere Forrest Gump, buono, amorevole, simpatico, generoso fino all’inverosimile: come potremmo non amarlo? E difatti lo amiamo. Come potremmo non
identificarci in lui? E difatti non possiamo che farlo.
Il personaggio, però, può avere un orizzonte morale che lo spettatore, razionalmente, ritiene spregevole, ma che, comunque, grazie alle strategie testuali non dissuade lo spettatore dall’identificarsi.
Inoltre, lo spettatore può identificarsi in temi narrativi che fanno parte dei paradigmi del personaggio
( violenza, sadismo, disonestà, antisocialità, perversioni ecc. ), che, di per se stessi, lo spettatore, coscientemente, non approva (ce lo auguriamo), forse disprezza, ma che comunque essendo forze attive
del suo inconscio, rimosse ma latenti, agiscono come fonte e materia dell’identificazione secondaria.
Se il protagonista del film che andiamo a vedere è un ributtante nazista che pratica stragi e ignominie,
ma se la struttura testuale è strategicamente ben gestita, anche se noi rigettiamo con forza qualsiasi
manifestazione di violenza, l’identificazione psicologica con lo spregevole nazista scatterà. Ogni tanto ci diremo tra noi stessi “è un uomo ignobile” ma poi riprenderemo a compartecipare, emotivamente, alla sua esistenza, detestandolo ( razionalmente) saremo sempre al suo fianco, nei suoi gesti infami
ci saremo anche noi, a farli con lui.
E’ chiaro che lo spettatore tende ad incorporarsi ed a incorporare in sé i personaggi dello schermo
in funzione delle somiglianze fisiche o morali che vi trova (…) [ma] In realtà la potenza dell’identificazione è illimitata.(…) La forza di partecipazione del cinema può determinare l’identificazione
persino con gente sconosciuta, ignorata, disprezzata nella vita quotidiana. (…) Jean Rouch, che ha
frequentato le sale cinematografiche della Gold Coast, ha visto neri applaudire Gorge Raft, il negriero
che, per sfuggire ai suoi inseguitori, getta in mare il suo carico di schiavi ( Morin op cit p 113) Siamo
in una sorta di auto sospensione etica, lo spettatore non si sente responsabile di ciò che accade sullo
schermo, si limita a prendervi parte.
E cosi il film stimola l’identificazione con chi ci somiglia e l’identificazione con il diverso ed è questo
secondo aspetto che traccia una netta linea di separazione dalle partecipazioni della vita reale. Sullo
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schermo “i maledetti”hanno la loro rivincita o,meglio, ce l’ha il nostro lato maledetto. Il cinema,
come il sogno, come l’immaginario, risveglia e rivela identificazioni vergognose, segrete… Possiamo
detestare, razionalmente, ciò che amiamo come nostra estensione narrativa e che non possiamo non
amare, contestualmente alla visione del film, perché vive attraverso le nostre emozioni. Lo spettatore
si identifica perché la struttura testuale lo colloca in un personaggio piuttosto che in un altro, lo spettatore si identifica, anche, perché nel suo inconscio è presente la stessa materia, ( desideri inconsci),
del personaggio in questione e di tutti gli altri uomini e personaggi «Il cinema consente, quindi, la
soddisfazione di impulsi che la realtà non ammette» (Angelini 1992 p 57). Dopo la fine del film o nei
momenti di pause narrative, ci riappropriamo della nostra razionalità e della nostra etica, ritorniamo
alla nostra coscienza, e possiamo razionalizzare e rigettare, ma durante la visione compartecipata
del film, tutto ciò lo sospendiamo. Identificazione come sospensione temporanea del Sé cosciente,
etico, del proprio Super Io. Brecht in “Breviario di estetica teatrale” ( tr it 1951), implicitamente e
scrivendo di teatro, riflette sull’adesione dello spettatore all’identificazione col personaggio come una
formidabile arma nelle mani dell’ideologia per costruire uno spettatore (un soggetto ) a se asservito.
Ma questo è un altro discorso.
Identificazione con il fantasma
Dato per implicito il carattere di plausibilità delle nozioni di identificazione cinematografica primaria
e secondaria, possiamo avanzare altre ulteriori ipotesi di riflessione. La prima è incentrata, di nuovo,
sulla matrice visiva del cinema. Una matrice che potremmo definire mentalistico-visiva. E’ assodato
che la percezione cinematografica si regga su una proprietà mentalistica, e non meramente oculare,
dell’uomo. Ma in che senso? Nel 1912 Whertheimer ( vedi Koffka 1993) dimostra le sue teorie sul
movimento strobocopico o effetto phi segnando, tra l’altro, la nascita della psicologia Gestaltiana In
una camera buia viene illuminato, tramite un raggio emesso da un proiettore, un oggetto posto sulla
sinistra dell’osservatore; dopo qualche secondo il fascio di luce di sinistra si spegne e immediatamente si illumina un secondo oggetto identico al primo e posto sulla destra del soggetto. Se il cambio di
illuminazione ( di comparsa e scomparsa degli oggetti) avviene con un intervallo non superiore ai 200
msec e non inferiore ai 30 msec, soggetto percepisce tutto ciò come un unico oggetto che si muove
rapidamente da sinistra verso destra.
Ecco il movimento apparente, ecco la percezione della cinetica delle immagini come pura illusione,
o determinazione, mentale. Ecco il cinema, l’immagine in movimento, come invenzione della mente,
di un qualcosa che nella realtà oggettuale della pellicola non c’è.
Non si può non citare Munsterberg: In questi casi il movimento non è visto dall’esterno, ma lo aggiungiamo tramite i nostri processi mentali, alle immagini fisse.(…) ci è sufficiente (…) per dimostrare che la continuità del movimento risulta da una complessa elaborazione psicologica, che, collega
le immagini in un atto mentale superiore ( Munsterberg 1916 in tr it 1980 p 46) Il movimento delle
immagini cinematografiche è quindi una sorta di attività di messa in relazione metonimica effettuata dalla mente dello spettatore. Così come è la stessa mente dello spettatore a creare il concetto di
spazio cinematografico. Spazio che nella realtà del testo non esiste. Una sedia, un piatto da cucina,
una finestra, una pentola sul fuoco, sono quattro inquadrature, lo spettatore inferirà che si tratti di
una cucina, avrà messo in relazione i quattro referti fotografici ed in una sorta di rapidissimo vaglio
indiziario avrà costruito, pensato, un modello mentale di cucina che possa contenere coerentemente
i quattro fotogrammi di indizio. Questa cucina, che forse, per intera, il regista non ci farà vedere mai
e che forse non esiste, è lo spazio cinematografico. Possiamo dire che il montaggio come creazione
di uno spazio cinematografico, sia un’attività mentale metonimica dello spettore, la cui sequenzialità
è iscritta nella struttura testuale. In altre parole,in un testo audiovisivo, nel flusso di montaggio, una
immagine è solo parte di altre immagini a cui essa rimanda «Il contenuto metonimico di una immagine è quindi sommabile a quello di altre, creando significati nuovi.(…) Due inquadrature, seppur di
contenuto(..) differente, se unite in sequenza lineare fanno nascere un significato terzo» (Provenzano
199 p 28) in base a processi di concatenazione mentale. A carico dello spettatore, della sua esperien44/
za testuale (in fatto di film) della sua capacità (abilità)di inferenza. La vocazione metonimica della
tecnologia cinematografica, lo spettatore come produttore di uno spazio immaginario semplicemente
suggerito dall’istanza narrante, ecco quali sono due attributi sostanziali del cinema. Una pura operazione di fantasia dello spettatore, è quella che Arnheim (1957) definisce illusione parziale. Lo spazio
cinematografico, il motivo per cui una porta ripresa a Napoli e uno scalone ripreso a Parigi, montati in
sequenza e contestualizzati, possono essere fatti immaginare allo spettatore, come un palazzo Romano. Ma il palazzo non esiste. E’ una visione mentale dello spettatore, quella realtà, quella del palazzo
Romano, è una aspirazione dello spettatore, una realtà desiderata, ma raggiungibile solo attraverso
l’immaginazione. Ma, inoltre, anche se il palazzo esistesse davvero, anche se il regista l’avesse inquadrato tutto, con una sola inquadratura, comunque, il palazzo rimarrebbe soltanto una invenzione
dello spettatore. Una fotografia di un palazzo, una inquadratura, esiste solo in quanto segno ( icona
) ma mai in quanto luogo (reale, non fotografico). I’icona ( immagine) è ben lontana dal suo oggetto
( a cui rimanda) e non ne può essere neppure una copia (Barthes 1964) ma può solo rimandarci ad
esso. Fisicamente non ha nulla a che vedere con esso, o per meglio dire non possono essere la stessa
cosa, al massimo può essergli somigliante o contiguo ( una fotografia può assomigliare alla realtà).
L’immagine è un indizio di realtà, come la cenere lo è di una sigaretta, che ormai, se c’è la cenere,
è in un’altra dimensione, non esiste più, non è certo riscontrabile nella cenere. L’immagine (se figurativa) testimonia l’impotenza che schiaccia l’uomo, e lo lascia inappagato, nel suo desiderio, vano,
di (ri)produzione di una realtà, nuova ma simile, conforme, ad una esistente. L’immagine mi dice se
stessa (Wittgenstein 1954). L’uomo immagina una realtà attraverso immagini, ma le immagini sono
la pietra tombale della realtà, la sua rimozione, la sua sostituzione «con la fotografia entriamo nella
morte piatta» ( Barthes 1980 p93) memoria di una realtà che una volta iconizzata non esiste più, che
è stata rimossa.
Ecco che, questa volta da un punto di vista puramente formale, il rimando viene immediato al concetto di fantasma (o fantasia) in uso Freudiano. Il fantasma, tra le altre cose, è identificabile con quelli
che Freud ( 1908 p 389 ) definisce sogni ad occhi aperti , cioè, «quelle fantasie sono soddisfacimenti
di desideri scaturiti dalla privazione e dalla nostalgia (…) forniscono la chiave per l’intendimento dei
sogni notturni in cui il nucleo della formazione onirica è costituito da nient’altro che da tali fantasie
diurne complicate, deformate e fraintese dall’istanza psichica cosciente» (idem p 389-340). Essi sino
di tre tipi:
· consci, quando il soggetto, deliberatamente, durante la veglia immagina situazione fittizie in
cui ritrova un parziale soddisfacimento a desideri irrisolti o rimossi.
· Subliminali, situati nel preconscio, che potenzialmente possono diventare consci, ma che ancora non lo sono.
· Inconsci, sono fantasmi di cui il soggetto non ha percezione, sono fantasie che hanno subito
un percorso di arretramento nell’inconscio ad opera della rimozione.
Esse sono collegate alla vita sessuale del soggetto e sono caratteristici nell’eziologia dell’isteria. Il
fantasma si muove sul versante del rapporto tra rimosso e ritorno al rimosso. E’ una figurazione metaforica che nasce dalla perpetua negoziazione conflittuale tra desiderio e Super-Io\legge\divieto. La
fantasia (Freud 1915 p 165) del rapporto sessuale tra i genitori, la fantasia di seduzione, di evirazione
ed altre, sono definite da Freud fantasie primarie, e «le fantasie consce e preconosce svolgono perlopiù la funzione di “abbellire” e nascondere i fantasmi inconsci, cioè quelli frutto della rimozione, e i
fantasmi primari» ( Bottone 2000 p 40 )
In un’ottica cinematografica, il film, come percezione mentale, si presenta, come una facile, forse
banale, metafora del fantasma psicanalitico. E’ percepito, ad occhi aperti, come un fantasma conscio,
determina la stessa compartecipazione sensoriale del fantasma conscio, è un oggetto di investimento
e scarico di energie psichiche come il fantasma conscio( in taluni casi il cinema è adoperato come
una sorta di regolatore dell’ansia, anche per la sua capacità catartica) (Ancona 1963), e ne assolve le
45/
stesse funzioni, riparare dalla frustrazione di una assenza, la realtà desiderata. Il desiderio rimosso
produce il fantasma, la realtà rimossa, al cinema non c’è, produce il fantasma film, che a sua volta
metaforizza ( altro fantasma) i desideri dello spettatore, che non possono essere appagati ( in certi casi
) se non attraverso l’esperienza cinematografica.
E’ interessante riflettere sullo spazio cinematografico come il fantasma di una realtà che nel testo è
assente, rimossa, e della percezione che ne ha lo spettatore. Esso percepisce lo spazio cinematografico
come un desiderio ( una tensione verso ) una realtà, quella cinematografica ( che non esiste). Questa
realtà è una metafora dell’esperienza dello spettatore ( lo spazio reale della sua esperienza concreta)
ma rimane, e non può che essere tale, una proiezione dello spettatore, fantastica. Vorrebbe essere reale ma non può perché si tratta solo ed unicamente di un testo, nulla di più. Il testo, nel suo essere un
semplice oggetto, come gabbia, carcere, sia della storia e delle emozioni che il film sta raccontando
(non sono reali), sia dello spettatore ( la realtà che sta osservando, in cui si sta identificando, in cui si
sta proiettando, non è reale, e non può confortarlo, e non può compensarlo di ciò che nella vita non
ha vissuto, dei desideri inappagati).
Il cinema risponde a dei bisogni (…) quelli che la vita pratica non può soddisfare (…) Bisogno di
fuggire a se stessi, e cioè di perdersi nel mondo esterno, di dimenticare il proprio limite, di meglio
partecipare al mondo ( Morin op cit p 119) l’uomo, dopo un sogno ad occhi aperti si ‘ritrova’e il cinema come si comporta in questa reversibilità tra fantasia e reale? [ il cinema come bisogno] in fin dei
conti di sfuggire a se stessi per ritrovarsi. Bisogno di ritrovarsi, di essere maggiormente se stessi, di
elevarsi all’immagine di questo doppio che l’immaginario riflette in mille vite meravigliose. E cioè,
bisogno di ritrovarsi per sfuggire a se stessi. Sfuggire a se stessi per ritrovarsi, ritrovarsi per sfuggire
di nuovo, ritrovarsi altrove che in noi stessi, sfuggire dentro noi stessi. La specificità del cinema (…)
è di offrire in potenza la gamma infinita di queste fughe e di questi ritrovamenti ( ibidem)
Ecco perche Morin considerava il cinema nel suo passaggio da cinematografo a cinema (e all’uso
antropologico che lo spettatore fa di esso) «La trasformazione di una tecnica del reale in tecnica del
soddisfacimento affettivo, anzi, la tecnica ideale del soddisfacimento affettivo».
E come il fantasma è una fuga dall’impossibilità di realizzare il desiderio, sostituendo ad esso il
fantasma, il cinema, per lo spettatore, è fuga dal sé. Ecco perché proponiamo di riflettere su una dimensione cinematografica di Identificazione con il Fantasma. Riflessione forse banale, o quantomeno
inflazionata, se quasi trent’anni fa Baudrillard ( 1976) scriveva:
<<Oggi si sa molto bene, troppo bene, alla luce della teoria freudiana, discernere dietro qualsiasi
pratica sociale, etica, politica, la sublimazione, la razionalizzazione secondaria di processi pulsionali
[ vedi cap V]. E’ diventato un cliché culturale descrivere tutti i discorsi in termini di rimozione e di
determinazione fantasmatica ( Baudrillard tr it 1979 p 134)
L’ Identificazione gestita, o spettatore pedina
Lo spettatore cinematografico ha facoltà di sperimentare, nel corso della visione, identificazioni multiple e cangianti, perché non c’è un limite allo slittamento (alla possibilità di permutazione) dei punti
di vista. Lo spettatore è quindi, di volta in volta, tutti i personaggi, seppure con alcune preferenze
soggettive (Musatti parla di polarizzazioni preferenziali) che lo inducono a parteggiare più per un
personaggio che per un altro.
Detto questo, Musatti fa notare che «l’autore stesso del film ci indica in modo abbastanza univoco
per chi dobbiamo parteggiare, e talora il fatto che questa identificazione manchi, o non sia sufficientemente precisa, può dare allo spettatore un certo senso di disagio, cosicché egli è condotto a rifiutare
il film» (Musatti op. cit. p. 42).
Il fulcro della questione è che l’istanza narrante, attraverso opportune strategie di enunciazione, è in
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grado di forzare le identificazioni dello spettatore e può quindi indurre il pubblico a prendere le parti
di un personaggio piuttosto che di un altro, perché ( come già detto prima) il sentimento di simpatia
che il soggetto-spettatore può provare nei confronti di un determinato personaggio (e che è una componente attiva del parteggiare) non è altro che un effetto collaterale di un’avvenuta identificazione; in
altri termini, l’istanza narrante ha il potere di orientare il pubblico agendo, a livello di enunciazione,
sulle dinamiche di identificazione del singolo spettatore.
Ma come è possibile che si possa influenzare l’identificazione dello spettatore (e quindi, entro certi
limiti, predefinire le sue modalità di partecipazione al film) attraverso la costruzione del discorso filmico (ovvero attraverso l’organizzazione dei significanti)? Tutto dipende dal fatto che l’identificazione dietetica ( narrativa e discorsiva ) ai personaggi è un effetto della struttura, e non tanto un effetto
della relazione psicologica che si instaura tra lo spettatore e le figure della finzione. L’identificazione
dipende, in altri termini, da come lo spettatore, scena dopo scena, ‘si colloca’ rispetto alla rete strutturale delle relazioni che costituiscono ogni singola situazione del film, mentre solo in modo marginale
essa è influenzata dal vissuto psicologico dei personaggi.
La posizione dello spettatore
Questa considerazione si allinea perfettamente con il punto di vista di Musatti che parla di una fluidità
strutturale dei fenomeni di identificazione; essa, inoltre, spiega come sia possibile aderire immediatamente alla dimensione narrativa di un testo audiovisivo anche in assenza di informazioni specifiche
sul passato diegetico e sullo spessore psicologico dei personaggi che sono oggetto della rappresentazione. Questa abilità dello spettatore (questa sua repentina capacità di adattamento alle forme della
narrazione) è, per inciso, uno dei meccanismi cognitivi che rende possibile la pratica dello zapping
televisivo.
In altre parole, per capire come sia possibile forzare le identificazioni dello spettatore attraverso i
codici dell’enunciazione bisogna innanzitutto riflettere sul concetto di ‘situazione’ e su quello di ‘posizionamento dello spettatore’. Si tratta evidentemente di due nozioni collegate, nella misura in cui
il posizionamento dello spettatore ha sempre come termine di riferimento l’insieme delle relazioni in
cui è possibile scomporre una particolare situazione narrativa. La situazione è in un certo senso una
delle unità basilari nella struttura narrativa di un film: da questo punto di vista, il film narrativo non è
altro che la messa in scena di una determinata successione di situazioni nelle quali, di volta in volta,
sono chiamati ad interagire un certo numero di personaggi tra i quali si instaura un reticolo mutevole
di relazioni: «Una situazione è caratterizzata dal modo in cui i personaggi sono in relazione fra loro in
un determinato momento». (Volli 1994 p 167) da ciò discende che, sul piano della struttura narrativa,
l’identità di un personaggio non si definisce in base alla colorazione psicologica, ai valori morali, agli
schemi di comportamento e al sistema di motivazioni che il narratore gli attribuisce ma essa, piuttosto, dipende dalla posizione che il personaggio, come tale, ricopre nel contesto evanescente della situazione narrativa. Il personaggio, in altri termini, è soltanto una pedina che l’istanza narrante muove
a suo piacimento sulla scacchiera della narrazione; e la differenza rispetto alle altre pedine (rispetto
agli altri personaggi), è prima di tutto un margine differenziale di posizione.
La priorità dell’aspetto posizionale (della dimensione strutturale) rispetto alla questione secondaria
(superficiale) della caratterizzazione psicologica (che rimane comunque un passaggio obbligato e
strategico nella pratica della costruzione dei personaggi), trova una conferma emblematica proprio
nel fatto che lo spettatore è in grado di partecipare ad una narrazione filmica anche senza conoscere
il background psicologico e i trascorsi diegetici dei personaggi ( anche se essi sono impliciti in ogni
personaggio. Non esiste un personaggio senza passato, anche se il testo, in taluni casi, lo dà per implicito, senza mostrarlo). Il metabolismo cognitivo dello spettatore è in un certo senso un processo a
due livelli: in una prima fase è infatti determinante la struttura della narrazione, la narrazione ridotta
all’osso, il narrativo inteso come schema posizionale; solo in via secondaria (ad un secondo livello
47/
di elaborazione) acquistano importanza altri fattori come la coerenza della storia, le motivazioni dei
personaggi, la plausibilità dei comportamenti che questi personaggi pongono in essere.
Facciamo un esempio non molto originale, ma comunque utile a chiarire l’argomento di cui ci stiamo
occupando: immaginiamo di entrare in una sala cinematografica in ritardo rispetto all’inizio della
proiezione; il film è già incominciato; nell’oscurità della sala cerchiamo una poltrona libera; dopo
aver preso posto cominciamo a seguire il film e la prima scena a cui prestiamo attenzione ci mostra
un’ambientazione notturna, un appartamento e un individuo con passamontagna all’interno di questo
appartamento che fruga in un cassetto; subito dopo vediamo sopraggiungere un altro uomo e immaginiamo possa essere il proprietario dell’abitazione che rincasa prima del previsto.
Quello che abbiamo appena descritto è un banale esempio di suspence cinematografica. Parleremo
più avanti della suspence, considerandola come possibile strategia di enunciazione; per adesso ci basti
notare che lo spettatore, per orientarsi nella narrazione, interpreta ciò che vede concentrandosi innanzitutto sul reticolo di relazioni (e sulla serie delle posizioni) che, in termini strutturali, compongono
la situazione narrativa rappresentata sullo schermo in un determinato momento della proiezione: nel
nostro esempio, lo spettatore, pur non avendo visto le scene iniziali del film, può agevolmente distinguere la presenza di un ladro (posizione A) e quella di un uomo che sta per coglierlo con le mani nel
sacco (posizione B). Questi due elementi (questi due atti di riconoscimento) bastano a suscitare in lui
un certo impulso alla partecipazione perché insieme definiscono un orizzonte di aspettative e fungono
da cornice di riferimento: si tratta, in un certo senso, del grado zero di adesione al dispositivo testuale
della narrazione filmica e poco importa, a questo livello, se lo spettatore non sappia nulla del ladro,
delle motivazioni che lo spingono ad agire, dei suoi rapporti con l’altro personaggio, del ruolo che
egli ricopre nel contesto generale della narrazione. Ovviamente, il complesso degli elementi che attengono alla caratterizzazione dei personaggi e ai criteri di segmentazione della narrazione diventano
fondamentali in seguito, quando lo spettatore, dopo avere interpretato la situazione narrativa nella sua
specificità (grado zero di adesione al narrativo testuale) è chiamato a rapportarla al complesso delle
situazioni che ha già visto, sino a ricostruire mentalmente l’organicità (l’unitarietà) della narrazione.
La situazione, che per un verso è un’unità narrativa compiuta ed autonoma (e come tale inizialmente
si impone allo spettatore), è allo stesso tempo un tassello che assieme a tanti altri compone il mosaico
della narrazione filmica unitariamente inteso.
Perché lo spettatore possa accedere alla narrazione è, in definitiva, sufficiente che egli riconosca lo
schema strutturale (posizionale) che soggiace ad ogni singola situazione narrativa: situazione dopo
situazione lo spettatore individua questo schema, lo ricostruisce mentalmente (lo visualizza), e prende una posizione rispetto ad esso.
Lo spostamento dello spettatore
Siamo quindi arrivati al concetto di posizionamento del soggetto (da cui dipendono le identificazioni
del pubblico con i personaggi). Ebbene, la questione fondamentale è che lo spettatore non è per niente autonomo nella scelta del suo posizionamento rispetto alle diverse situazioni narrative, ma esso
è spostato dalla struttura narrativa. Cerchiamo di chiarire le ragioni di questa affermazione: il film
di finzione, tra le altre cosa è la messa in consecuzione di un complesso di situazioni selezionate ed
ordinate in modo da garantire la verosimiglianza e la coerenza della narrazione. Ora, per quanto sia
vero che ogni film narrativo mette in scena una catena più o meno ampia di situazioni, occorre tuttavia
notare come la semplice conoscenza delle situazioni che si avvicendano sino a fare della narrazione
filmica un corpo unitario, non ci dice ancora nulla sul testo filmico in senso stretto (ovvero sul film
come discorso specifico e sul cinema come linguaggio). Se così non fosse dovremmo d’altra parte
dedurre – affermazione evidentemente indifendibile – che non esiste un vero e proprio scarto qualitativo tra l’esperienza dello spettatore (il quale concretamente assiste alla proiezione di un film) e la
semplice lettura di una trama in una recensione o in un testo di storia del cinema.
48/
La scarto invece esiste ed è irriducibile. Esso dipende dal fatto che ciascuna situazione narrativa (e
quindi ogni singolo reticolo di relazioni tra i personaggi) può essere rappresentata (può essere messa
in scena) in mille modi diversi. Partendo da un determinato complesso di elementi narrativi, l’istanza
narrante ha facoltà di scegliere tra una serie pressoché infinita di modalità e di strategie di enunciazione differenti. Possiamo dire, in altri termini, che ogni film narrativo, in quanto racconto, è un discorso
costruito a partire da una storia, a tal proposito Il racconto è costituito da una storia ed un discorso
(cfr Chatman, 1998):
• Storia ( come contenuto ) in cui sono presenti gli eventi (azioni ed avvenimenti nel loro ordine cronologico generativo, naturale) e gli esistenti ( tutte le tipologie dei personaggi e tutte le tipologie degli
ambienti ). In ultima analisi: storia= il cosa si racconta.
• Discorso ( come espressione ) in cui si organizza la struttura narrativa del testo, le sue concatenazioni cronologiche, si decide cosa esplicitare e cosa omettere della storia ( perché superfluo o per
scelta narrativa) nel discorso, si definiscono i codici linguistici ed estetici da adoperare a seconda dei
paradigmi del medium attraverso cui la storia si “farà” discorso( la stessa storia può essere narrata
per mezzo di un film, romanzo, dramma, tv movie, balletto ecc.). In ultima analisi: discorso= il come
si racconta. Nel passaggio dalla storia al discorso,attraverso una pratica di selezione e combinazione
(costitutive dell’azione narrativa), si operano scelte di articolazione dei contenuti .
Ma il film è, allo stesso tempo, la testimonianza di una soppressione perché dietro ogni singolo film
di finzione c’è un infinito di discorsi sospesi, c’è il magma di tutte le enunciazioni 100 possibili che
l’istanza narrante ha cestinato e che le avrebbero permesso di raccontare in altri mille modi la stessa
storia, dando luogo a differenti attualizzazioni discorsive del medesimo materiale narrativo. Di conseguenza, la messa in scena di una situazione (e più in generale la trasposizione di una sceneggiatura
nei codici del linguaggio audiovisivo) non è mai un atto neutro. Noi viviamo sempre la storia che il
film ci racconta attraverso un filtro linguistico e discorsivo che, in ultima analisi, ci rimanda al libero
arbitrio dell’istanza narrante.
E la modalità della messa in scena non è un aspetto secondario; essa, al contrario, gioca un ruolo
decisivo per quanto riguarda la gestione del posizionamento dello spettatore in rapporto alla struttura
mutevole delle relazioni che sussistono tra i personaggi.
Abbiamo detto, riassumendo, che le identificazioni diegetiche dello spettatore dipendono non tanto
dalla relazione psicologica che egli instaura o non instaura con i personaggi, quanto piuttosto da una
dinamica di slittamento dei posizionamenti, ovvero dal continuo collocarsi e ricollocarsi del soggetto stesso rispetto alla struttura relazionale e posizionale che caratterizza ogni situazione narrativa.
Abbiamo detto che questo posizionamento non è tanto il frutto di una libera scelta dello spettatore,
quanto piuttosto un effetto pianificabile (e talvolta accuratamente pianificato) del discorso cinematografico; è in altri termini la risultante di una determinata intenzione enunciativa, in quanto risente
del modo in cui le diverse situazioni narrative vengono concretamente rappresentate sul piano del
linguaggio filmico. Ma poiché è l’istanza narrante che decide sulla messa in scena delle diverse situazioni, ne dobbiamo dedurre che proprio l’istanza narrante (in quanto soggetto dell’enunciazione)
orienta (costruisce) il posizionamento dello spettatore e tiene di conseguenza in mano le redini del
gioco di tutte le identificazioni che coinvolgono il pubblico.
Siamo quindi tornati al punto di partenza: abbiamo difatti chiarito le ragioni dell’annotazione tanto
fugace quanto lungimirante di Musatti, il quale ci ha fatto notare come sia proprio l’autore del film a
segnalarci, in maniera perentoria e relativamente univoca, per quale personaggio si debba parteggiare
quando assistiamo ad un determinato film. Ora, la scoperta di questo nesso che esiste tra il posizionamento dello spettatore e la dialettica delle identificazioni diegetiche (unitamente alla convinzione che
tale posizionamento possa essere condizionato attraverso gli strumenti del linguaggio e della retorica
cinematografici), ha delle conseguenze importantissime per quanto riguarda il metodo e la prassi
dell’analisi testuale applicata al prodotto filmico.
49/
Stephen Heath (1975), uno dei maggiori esponenti di quella tradizione di ricerca di cui si è detto e
che studia il funzionamento ideologico dell’istituzione cinematografica partendo da un’analisi dei
codici e dei dispositivi linguistici operanti all’interno del singolo testo filmico ritiene, ad esempio, che
considerare il testo filmico come un processo di produzione della soggettività significa inserire una
nozione di posizionamento dello spettatore nell’analisi del film e tracciare i modi possibili in cui viene attivata l’identificazione In altre parole, le acquisizioni teoriche più recenti sul concetto di identificazione cinematografica secondaria, oltre ad avere arricchito ed ampliato un certo sistema circoscritto
di conoscenze (oltre ad avere una valenza epistemologica), hanno immediatamente comportato una
ricaduta operativa sia per quanto riguarda le prospettive e le potenzialità dell’analisi testuale – perché
in effetti hanno contribuito a sottolineare l’esistenza una dimensione di analisi del tutto nuova – sia
in relazione al background teorico che dovrebbe fondare ed orientare nei fatti l’attività pratica di ogni
operatore qualificato della comunicazione audiovisiva.
L’autore e l’identificazione
Due considerazioni. La prima riguarda il livello di consapevolezza dei grandi registi rispetto all’insieme delle possibilità espressive e di manipolazione dello spettatore che il linguaggio cinematografico
mette a disposizione attraverso i propri codici: vi autori che, a prescindere dal livello di maturità
raggiunto dalla riflessione teorica sul cinema come linguaggio, hanno da sempre intuito quanto sia
importante ragionare sulle implicazioni eventuali e sui possibili effetti che una determinata strategia
di enunciazione può determinare sul pubblico. Il lavoro quotidiano di questi registi è una storia costellata di dubbi assillanti, di valutazioni accurate, di scelte meticolose e ponderate. Certo, non sempre
tutto va secondo le previsioni, perché non si può mai sopprimere del tutto quel margine di imponderabile che esiste e resiste in ogni processo di comunicazione e di interazione tra gli uomini. E questa
considerazione vale doppio se parliamo di fruizione cinematografica, ovvero di una comunicazione
mediata di massa in cui il soggetto emittente e l’insieme dei destinatari (gli spettatori al cinema) non
si incontrano mai se non attraverso la mediazione simbolica e linguistica degli indizi e delle tracce del
testo. Il punto, tuttavia, è che mentre lo spettatore medio, dotato di competenza comunicativa media,
difficilmente riflette sul film in quanto discorso (anche perché è assorbito dal dispositivo ideologico
dell’istituzione cinematografica), il regista, soprattutto se Autore e auto cosciente, non perde mai di
vista il suo compito e sa in ogni momento di essere chiamato ad assumersi la responsabilità di un atto
di enunciazione.
Una testimonianza emblematica di questa lucidità (per certi versi sconcertante) emerge dalle dichiarazioni di Hitchcock raccolte in un libro-intervista curato da Truffaut (cfr. Truffaut 1993). Ci sembra
utile citare (e commentare) una parte di questo materiale per dare al lettore l’opportunità di capire
fino in fondo quanto sia importante e concreto il tema di cui ci stiamo occupando e cosa voglia dire
per un regista cercare di manipolare (di ancorare) la dialettica delle identificazioni spettatoriali (delle
identificazioni con i personaggi).
Nel brano che segue si parla di Sabotage, un film di Hitchcock girato nel 1936. Il regista cerca di
spiegare al suo interlocutore le ragioni che lo hanno indotto a girare la scena cruciale dell’assassinio
in determinato modo: […] Tutto il problema stava qui: bisognava che Sylvia Sydney [la futura assassina] riuscisse a conservare il sentimento di simpatia che aveva inizialmente ispirato nel pubblico [ricordiamo che la simpatia per un personaggio è un effetto di un processo di identificazione avvenuta].
La morte di Verloc [la futura vittima] doveva apparire solo un incidente.
Per questo era assolutamente necessario che il pubblico si identificasse con Sylvia Sydney. In un caso
come questo non si chiede al pubblico di avere paura, ma senza mezzi termini, di aver voglia di uccidere e questo è molto più difficile. Ecco la strada che ho seguito. Quando Sylvia Sydney porta il piatto
di verdura sulla tavola è realmente ossessionata dal coltello, come se la sua mano stesse per afferrarlo
indipendentemente dalla sua volontà. La macchina da presa inquadra la sua mano, poi gli occhi, poi
la mano e ancora gli occhi, fino al momento in cui il suo sguardo diviene tutt’a un tratto cosciente di
50/
ciò che il coltello significa. A questo punto inserisco un’inquadratura del tutto normale che mostra
Verloc mentre sta mangiando distrattamente, come tutti i giorni. Poi ritorno alla mano e al coltello.
[…] Ora la macchina da presa inquadra Verloc, poi va verso il coltello e di nuovo si dirige su Verloc,
verso il suo viso [notiamo come ogni singola inquadratura ha una certa valenza all’interno della strategia di enunciazione generale]. Tutt’a un tratto si capisce che ha visto il coltello e comprende cosa
significa questo coltello per lui. Il suspence tra i due personaggi è stato creato è tra essi c’è il coltello.
Ora, attraverso la macchina da presa, il pubblico entra a far parte della scena e bisogna soprattutto
evitare che la macchina da presa divenga improvvisamente distante e obiettiva, altrimenti si distrugge l’emozione che è stata creata. [Qui Hitchcock si pone esplicitamente il problema di utilizzare una
strategia di enunciazione che sia funzionale al mantenimento degli stati emotivi e di partecipazione
determinati in precedenza]. Verloc si alza in piedi e cammina intorno alla tavola ma, così facendo,
va dritto verso la macchina da presa, in modo che si avverta nella sala la sensazione di dover indietreggiare per fargli posto [corsivo nostro]; se ci si riesce, istintivamente lo spettatore deve spingersi
leggermente indietro nella poltrona, per lasciare passare Verloc davanti a lui [qui Hitchcock, invece,
parla un effetto auspicabile della modalità di enunciazione scelta]; quando Verloc è passato davanti a
noi, la macchina scivola di nuovo verso Sylvia Sydney e ritorna all’oggetto principale, il coltello. E
la scena continua fino a culminare nell’omicidio […] (Truffaut 1993, pp. 90 - 91).
Identificazione come conoscere
L’altra precisazione che intendiamo fare riguarda la nozione di posizionamento del soggetto, inteso
come processo di assoggettamento del soggetto alla posizione (alle posizioni) che il testo, attraverso
i suoi codici, gli prescrive. Abbiamo visto quanto possa essere attivo il ruolo dell’istanza narrante nel
decidere le sorti di tale posizionamento; e abbiamo visto come questa facoltà dipenda dalla possibilità
di lavorare sulle modalità specifiche dell’enunciazione. Ebbene, le cose stanno in questo modo non
solo sul piano del cinematografico, ma anche in termini di narrativo letterario: quando nel capitolo
introduttivo si è discusso del modello di analisi testuale proposto da Barthes in S/Z , è stato detto che
questo contributo è importante per la riflessione sul cinema nella misura in cui esso implica una teoria
organica della costruzione del soggetto nella forma specifica della letteratura e funge quindi da punto
di riferimento soprattutto per quegli autori che, analizzando il cinema, si soffermano in modo particolare sulla dimensione testuale di funzionamento dell’istituzione cinematografica. Barthes aveva
segnalato l’esistenza di alcuni codici: ebbene così come l’autore di un testo letterario attraverso un
uso equilibrato e ponderato di quelli che, secondo Barthes, sono i codici strutturali della narrazione
(codice ermeneutico, codice proairetico, codice semico, codice simbolico e codice referenziale), può
di volta in volta suggerire al lettore una connotazione, può imporgli un regime di aspettative, può
introdurlo a suo piacimento nel gioco della narrazione e spingerlo a parteggiare per un personaggio
piuttosto che per un altro, allo stesso modo il regista, attraverso i diversi codici dell’enunciazione filmica può ancorare l’adesione dello spettatore al testo audiovisivo sulla scorta di un modello che egli
stesso in qualche modo definisce preventivamente a tavolino (vedi Hitchcock).
Ma parliamo finalmente in dettaglio di questi codici e di queste strategie dell’enunciazione. Quali
sono, in concreto, gli strumenti che un regista può utilizzare per giocare con le identificazioni del
pubblico e per proporre allo spettatore un determinato punto di vista sui personaggi, a prescindere dal
vissuto psicologico e dalle connotazioni caratteriali dei personaggi stessi? Ripartiamo da concetto per
il quale un testo sia una struttura gerarchica, a proposito del testo artistico scrive Lotman .
Un sistema artistico è costruito come una gerarchia di relazioni. Il concetto stesso di “aver
significato”presuppone l’esistenza di una determinata relazione, cioè la presenza di un orientamento
definito.( Lotman in Meneghelli, a cura di, 1998 p 228)
Se è vero che tutto dipende dal modo in cui l’istanza narrante decide di rappresentare ogni singola
situazione narrativa (ovvero dalle scelte che il regista fa a livello di enunciazione), dobbiamo allora
51/
concludere che il fattore strategico per una politica vincente di determinazione preventiva delle identificazioni diegetiche è costituito, in ultima analisi, da un’adeguata gestione dei livelli di sapere dello
spettatore: quello che conta è, in altri termini, l’insieme delle informazioni che l’istanza narrante concede allo spettatore attraverso i diversi codici del linguaggio cinematografico. Sul piano della riflessione teorica, affrontare questa problematica significa chiamare in causa due concetti fondamentali
per la teoria della narrazione ( e per cui anche di quella cinematografica) cinematografica: il concetto
di focalizzazione e quello ad esso collegato di ocularizzazione. Facciamo un passo indietro e torniamo
alle strutture generali della narrazione.
La narrazione si determina in una relazione tra autore e lettore intendendo come autore l’uomo che
licenzia il testo (emittente) e come lettore (recettore) l’uomo che lo legge; con Autore implicito (o
Istanza narrante) si intende la logica narrativa (il meccanismo) presente nel racconto ormai epurato
dalla presenza fisica dell’autore naturale. L’Autore implicito si concretizza nel testo, si manifesta, mediante la presenza di un Narratore ( l’Eroe o un Testimone della storia dell’eroe o l’Autore implicito
stesso che narra con onniscienza o l’Autore implicito che narra ciò che osserva) ( Genette 1972). Il
Narratore, nelle sue forme, è anche il mediatore tra emittente e narrazione ( cfr Segre, 1999) ed il cui
posizionamento (nella gestione delle informazioni sui fatti e personaggi) si definisce Punto di vista.
La focalizzazione( Genette 1972 ) è, né più né meno, che una articolazione del concetto di punto di
vista narrativo. Essa è l’individuazione della focale attraverso la quale, e mediante la quale, si sta
costruendo la narrazione. La domanda a cui risponde è chi sta raccontando?
Con il concetto di focalizzazione si intende proprio il criterio in cui vengono regolati all’interno di
una narrazione i rapporti di sapere fra istanza narrante, personaggio e spettatore. La focalizzazione
regola i rapporti informativi ( il sapere) tra l’istanza narrante, il personaggio e lo spettatore. Ci sono
diversi tipi di focalizzazione: possiamo avere
· un racconto a focalizzazione zero, quando il racconto non affida il punto di vista privilegiato
( percettivo, emotivo o cognitivo) a nessuno dei personaggi, l’istanza narrante è onnisciente e
ci dice, della storia, molto di più di quello che ci dicono i personaggi;
· un racconto a focalizzazione interna, quando c’è un personaggio di cui si assume il punto di
vista, ed il racconto viene sviluppato dalla sua prospettiva ( percettiva, emotiva, cognitiva).
In alternativa
· un racconto a focalizzazione esterna, quando i personaggi ci vengono presentati nella loro oggettività di azioni, atteggiamenti, atti di comunicazione, ma ci viene negata la loro interiorità;
non ci viene dato accesso alla loro soggettività, non assumiamo mai il loro punto di vista, non
ci è dato di conoscerlo, al lettore del testo sembra di osservare, semplicemente, personaggi
ed avvenimenti che accadono, senza che nessuno ( o nessuna cosa, o nessuna voce, o nessun
personaggio) glieli racconti, spieghi o dia informazioni.
Tutto ciò comporta, ovviamente delle conseguenze sul punto di vista cognitivo dello spettatore:
· Focalizzazione zero = lo spettatore conosce attraverso le conoscenze dell’istanza narrante (o
una voce narrante o una sua metafora, ad esempio un testimone della storia, se nel racconto ci
sono), che di volta in volta lo introduce ai e nei diversi personaggi.
· Focalizzazione interna = lo spettatore conosce attraverso le conoscenze di un personaggio.
· Focalizzazione esterna = lo spettatore conosce osservando senza assumere nessun punto di
vista, senza essere mai nessuno di essi e senza essere guidato dall’onniscenza niente e di nessuno.
Bisogna tuttavia precisare che la focalizzazione non è una dimensione monolitica della narrazione;
essa è al contrario una componente assai mobile e cangiante, in uno stesso racconto (anche in un film)
il punto di vista può variare ( in modo reversibile) da una focalizzazione ad un’altra, anche nella stes52/
sa situazione narrativa, si può variare il tipo di focalizzazione, ad esempio da interna a esterna, e così
via. Ma anche, rimanendo sempre su quella interna, mutarne continuamente le geometrie.
Nel cinema narrativo, infatti, la focalizzazione interna reversibile è quella, indubbiamente, più facilmente riscontrabile; lo spettatore, di volta in volta, è posto innanzi a focalizzazioni che si muovono
da un personaggio ad un altro, i punti di vista sono molteplici, il passaggio da un personaggio chiave ad un altro comporta lo spostamento del punto di vista dal primo, sul secondo. La fluidità delle
identificazioni spettatoriali, che come abbiamo visto è legata alla scansione della struttura narrativa
in situazioni, deriva, in ultima analisi, anche dal fatto che ogni situazione può implicare un regime
di focalizzazione differente. Ed è proprio attraverso una rimodulazione ragionata della focalizzazione che l’istanza narrante riesce ad incidere in senso vincolante sul posizionamento del soggetto.Lo
spettatore, di volta in volta, sarà spinto ad assumere un punto di vista diverso ( quello implicato e
scelto dal testo ). Lo spettatore verrà ulteriormente cambiato di posto ( nello scacchiere delle identificazioni) a seconda dei regimi di focalizzazione innanzi ai quali si viene e trovare. La variazione di
focalizzazione da un personaggio ad un altro imbriglierà, potenzialmente, lo spettatore in un sistema
di identificazione a sponde.
Identificazione e modi grammaticali e sintattici dell’inquadratura
Il testo filmico, in quanto audiovisivo, è prima di tutto immagini. Possiamo chiederci allora se sia
possibile influenzare le identificazioni dello spettatore lavorando a livello di inquadratura (di messa
in quadro del profilmico e cioè di tutto ciò che è lì davanti alla macchina da preso , per essere ripreso)
e di raccordo ( messa in relazione ) tra inquadrature. La domanda sostanzialmente potrebbe essere la
seguente: si può indurre lo spettatore all’identificazione diegetica (all’identificazione cinematografica secondaria) giocando unicamente con la variazione del punto di vista ottico (da non confondere
assolutamente con il punto di vista cognitivo) e con la modulazione della scala dei piani? Se davvero
fosse questa la domanda, la risposta sarebbe, no. Ma se si vuole riflettere su come la messa in quadro
possa interagire nella spinta all’identificazione nei confronti di questo o quel personaggio, allora sì,
questa riflessione è costruttiva e plausibile. E ci spinge ad introdurre la nozione di ocularizzazione
(Jost 1987).
Con il concetto di ocularizzazione si è soliti indicare «la relazione che si instaura tra ciò che la
macchina da presa (o l’istanza narrante) mostra e ciò che si presume il personaggio veda.Il discorso
slitta dunque sul “chi vede?”, su qual è il centro percettivo intorno a cui si organizza la narrazione».
(Rondolino,Tomasi,1995 p.43). E ricordiamo comunque che: «In un film l’inquadratura non è un
limite neutrale; essa produce un certo punto di vista su quanto si vede nel fotogramma. Al cinema l’inquadratura è importante perché definisce attivamente l’immagine che vediamo» ( Bordwell,
Thompson, 2001 p 289)
L’ocularizzazione esterna (o zero) corrisponde alla cosidetta inquadratura oggettiva, ovvero, quando
lo spazio, gli oggetti ed i personaggi sono messi in quadro da un punto di vista terzo.Gli spettatori
vedono come fossero posizionati di fronte ( o di lato o sopra o sotto a seconda delle angolazioni ) a
ciò che lì per essere visto. Lo spettatore è in una posizione oggettiva, di derivazione teatrale classica
( dove lo spettatore è di fronte alla scena ). Casetti, in un testo (1986) di semiologia dell’immagine
cinematografica assai stimolante «L’oggettiva allinea un vedere esauriente, che investe la scena in
tutti i suoi dettagli, un sapere dietetico, che si concentra sulle informazioni provenienti dalla storia, e
un credere saldo, che non mette in discussione i dati offerti» ( Casetti 1986 p 84)
L’ocularizzazione interna, invece, è l’equivalente di una inquadratura soggettiva che si ha quando lo
spettatore, la sua percezione visiva, è posizionato sull’asse dello sguardo di uno dei personaggi. In
poche parole quando vediamo con gli occhi di un personaggio. Oltre a oggettiva e soggettiva potremmo individuare una ampia categoria di forme diverse e intermedie, per funzione, dell’inquadratura.
Ad esempio l’interpellazione in cui lo spettatore viene direttamente interpellato da un protagonista
53/
o da altri elementi testuali: E’ quella forma dello sguardo che desidera rendere esplicite le istruzioni
relative al progetto comunicativo. Si tratta generalmente di persone o oggetti la cui funzione è quella
di rivolgersi allo spettatore in maniera diretta (sguardi in macchina, voci over, didascalie) ( Viganò
2003 pag 245)
Ma rimanendo sull’alternanza canonica ( oggetto-soggetto), chiaro che l’inquadratura soggettiva permetta un ingresso all’identificazione con un personaggio che potremmo definire fulminante. Io, spettatore, sono lo sguardo de il Gladiatore , il suo asse percettivo, il suo punto di vista del mondo, per
cui, nel momento dell’ocularizzazione interna, io sono il Gladiatore.
Pensiamo quale effetto di identificazione si possa ottenere se al contempo il racconto sia incentrato
tutto su di una focalizzazione interna sul Gladiatore. Ecco che, tipologia di messa in quadro dell’immagine e struttura narrativa creano una formidabile via all’impersonificazione dello spettatore nel
personaggio prescelto dalla gerarchia del testo. Ovviamente l’identificazione può essere spinta anche
mediante il semplice uso di inquadrature oggettive.
In questo caso è utile prendere in considerazione la categoria di scala dei campi e dei piani dell’inquadratura cinematografica, e tenendo conto che con campo ci si riferisce alla messa in quadro di spazio
e con piano alla messa in quadro della figura umana, possiamo tentare una sintesi:
· Campo Lunghissimo ( C.L.L.) vastissimo spazio inquadrato, dove la singola figura umana ha
una rilevanza minima.
· Campo Lungo ( C.L.) lo spazio inquadrato è vasto.
· Campo medio ( C.M.) la figura umana occupa circa un terzo, per altezza, dello spazio inquadrato.
· Piano americano (P.A.) la figura umana è in piedi ed inquadrata a partire dalle ginocchia in
su.
· Piano medio (P.M.) la figura umana è inquadrata dalla vita in su.
· Primo piano (P.P.) la figura umana dalle spalle in su.
· Primissimo piano (P.P.P.) il viso dell’uomo è il fulcro di tutta l’inquadratura
Ebbene, l’articolazione della scala dei campi e dei piani, unitamente alle scelte sintattiche che si
operano nella fase del montaggio audiovisivo (non possiamo qui sintetizzare i complessi codici della
sintassi audiovisiva), cooperano nella gestione dell’identificazione spettatoriale. Stiamo dicendo che
i codici spaziali dell’immagine e la sintassi audiovisiva sono una delle strategie fondamentali nella gestione dell’identificazione di secondo grado. La dimensione semiologia dell’immagine (che in
questo saggio non possiamo approfondire) va analizzata anche nella sua possibilità di codice iconico
dell’identificazione Le immagini sono articolate (nel montaggio classico ma anche nelle altre prassi
di montaggio) come forme di didascalizzazione psicologica. Dei veri e propri promemoria psicologici
per il pubblico. Il passaggio da un piano ad un altro implica uno spostamento della relazione psichica
tra spettatore e personaggio, e se si riesce a creare una coerenza spaziale (visiva) tale da far immedesimare lo spettatore sia nei movimenti sia negli sguardi dei personaggi, se la relazione tra scala e
piani è studiata con l’intento di raggiungere la continuità spaziale e psicologica, ecco che si permette
allo spettatore di potersi fissare su ciò che l’immagine non contiene ( ma a cui può rimandare, come
indizio) la psiche del personaggio.
Ad esempio in Angelini (1992 p 95) «Il grande valore psicologico dei primi piani è stato, intuitivamente, ben compreso dai registi ed è emerso come dato stilistico nel cinema, ogni qual volta si è
inteso indirizzare l’attenzione dello spettatore sugli aspetti emotivi del personaggio». L’immagine
cinematografica, come qualsiasi altra immagine non di fantasia, ha in sé, nella sua costruzione, nel
suo bilanciamento, nella sua ideologia (ogni immagine di per se stessa è un sistema di pensiero e di
idee) già implicate alcune mappe psicologiche di interpretazione ( oltre che, ovviamente, delle map54/
pe cognitive di percezione). A seconda di come si compone la messa in quadro in immagine di un
personaggio, ne si possono (plausibilmente e per certi versi ) articolare dettami di comprensione e
decodifica psicologica e si può suggerire lo stato psicologico del personaggio stesso. Se il momento
psicologico del personaggio in questione è ben reso, con l’ausilio dalla serie di inquadrature che lo
stanno narrando al pubblico, l’identificazione di secondo grado sarà più facilmente raggiungibile.
Ecco l’intenzione precipua del montaggio classico, sgomberare di ostacoli la strada tra lo spettatore e
la dimensione esistenziale del personaggio.
Ovviamente il primo piano rimane il mezzo privilegiato per accedere (direttamente attraverso i suoi
occhi ) all’esistenza del personaggio. Ecco cosa scriveva un grande illusionista della parola: Il primo
piano è un bagno di rinforzo. Già per le sue sole dimensioni. (…) Il primo piano modifica il dramma
per l’impressione di prossimità.(…) Se allungo il braccio, io ti tocco, intimità. Il primo piano limita e
dirige l’attenzione. Mi forza, indicatore di emozione. Non ho il diritto né i mezzi di essere distratto.
Imperativo presente del verbo comprendere (Epstein in AA VV p 78 e vedi Epstein 1974)
Non dobbiamo tuttavia credere che esista una prassi di tipo deterministico : non dobbiamo in altri
termini pensare che possa bastare una variazione del punto di vista o magari un singolo movimento
della macchina da presa per incidere sulle identificazioni dello spettatore: il posizionamento del soggetto rispetto alla situazione narrativa – elemento determinante nella genesi delle modalità di adesione dello spettatore al testo – difficilmente si decide compiutamente nel contesto e attraverso i codici
linguistici della messa in quadro (e cioè a livello di singola inquadratura). Su questo punto:
[…] Bisogna essere assai prudenti nel rilevare la somiglianza tra ciò che è stato detto […] sulle caratteristiche dell’identificazione (sulla sua reversibilità, sul gioco di permutazione, di cambiamenti di
ruolo che sembrano caratterizzarla) e le variazioni permanenti del punto di vista inscritte nel codice
del découpage classico. Se in effetti sembra che nel cinema il testo di superficie mimi, a distanza
estremamente ravvicinata dai suoi meccanismi più sottili, la labilità del processo di identificazione,
nulla autorizza a vedervi un qualsiasi determinismo in cui uno dei due meccanismi sarebbe in qualche
modo il “modello” dell’altro […] (Aumont et al.,op. cit. p. 194).
Allo stesso tempo tuttavia non dobbiamo commettere l’errore di valutazione opposto: il fatto che
non esiste una relazione di interdipendenza stretta (di pura correlazione meccanica) tra il livello dei
codici minimi dell’enunciazione e i processi di identificazione del pubblico, non vuol dire infatti che
l’insieme dei codici della messa in quadro siano del tutto indifferenti al problema della coartazione
delle identificazioni spettatoriali.
In realtà ogni taglio prospettico che insiste sul mondo della diegesi (ogni singolo sguardo della macchina da presa) determina una certa gerarchia tra gli elementi del profilmico (tra le componenti della
messa in scena). E attraverso la scelta di un particolare punto di vista l’istanza narrante può decidere
di segnalare (e di imporre) una gerarchia allo spettatore. Se il regista lavora con la dovuta sistematicità (ad esempio suggerendo dei punti di vista privilegiati), quella che in origine è solo una gerarchia
tra gli elementi della messa in scena in termini di relazioni spaziali, diventa allora, per la mente dello
spettatore, un volano per la strutturazione di uno schema cognitivo che, in ultima analisi, orienta la
decodifica del testo e incide sul modo in cui lo spettatore stesso si rapporta ai personaggi, agli elementi e ai luoghi della finzione.
Il medesimo ragionamento vale per la scala dei piani: non è detto che ogni minima variazione del
piano sia in grado di determinare uno slittamento (un riassestamento) per quanto attiene ai processi di
identificazione; neanche in questo caso esistono correlazioni necessarie e rigorose. Allo stesso tempo è innegabile come anche la scelta del piano possa incidere sotto determinati aspetti sul livello di
coinvolgimento del pubblico, sollecitandone le risposte emotive e cognitive. I piani molto ravvicinati
hanno ad esempio un coefficiente di impatto sugli spettatori molto elevato e si prestano bene a mantenere (o ad esasperare) il margine di captazione dello spettatore nel suo rapporto con il testo.
In conclusione possiamo dire che per analizzare sul piano della manifestazione testuale le strategie
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di enunciazione attraverso le quali l’istanza narrante è in grado di orientare le identificazioni dello
spettatore (e quindi le sue simpatie rispetto ai personaggi) occorre in primo luogo tenere a mente che
sono moltissime le dimensioni che meritano di essere considerate e che in ogni singolo film c’è una
complicata alchimia di elementi che interferiscono e si rafforzano l’uno con l’altro, e che tutti insieme
determinano, sul piano strettamente linguistico dell’enunciazione filmica, le reazioni del pubblico.
Un ultima questione. Fin’ora abbiamo riflettuto, in modo asistematico, sulla relazione tra montaggio
classico ( decoupage classico, montaggio continuo-lineare-narrativo) come artificio sostanziale, da
un punto di vista linguistico, per la gestione dell’identificazione secondaria, e lo abbiamo fatto per
ricalcare alcune linee di ricerca della teoria del cinema ( a cui più volte ci siamo riferiti). Ma sappiamo
perfettamente che i codici sintattici del montaggio sono ben più di uno.
Dal cinema espressionista e surrealista, alle sperimentazioni delle avanguardie sovietiche (Pudovkin,
Ejsenstejn, Vertov, Kulesov ) con la il montaggio come ricerca scientifica di una produzione di senso
gestita, al formalismo geometrico di Ozu, al barocchismo di Welles, alle teorie di Astruc, alla discontinuità e decostruzione del montaggio in Godard, Cassavetes, al piano sequenza come modello
ontologico, al cinema narrativo\non-narrativo di Wahrol, allo schermo diviso in due, tre riquadri di
certa maniera anni settanta, al film straniante di Straub e Huillet, fino al Dogma 95, ed alla riscoperta,
che ormai è diventata maniera, di un montaggio dichiaratamente ed ossessivamente non continuo; in
poche parole, tutta la storia del cinema è stata, ma raramente a livello di cinema progettato per il largo
consumo, un susseguirsi di generi, forme, teorie e prassi del montaggio. Tutte più o meno discordanti
con quella del montaggio classico. Ebbene, anche in questi altri paradigmi di montaggio, l’identificazione di secondo grado, tranne che nel caso del cinema non narrativo, esiste!
Magari in gradazioni diverse, con connotazioni diverse, con funzioni diverse, depotenziata, ma pur
sempre esiste o meglio resiste, anche ai tentativi di eluderla.
Diciamo semplicemente che queste forme di montaggio non sono, primariamente, finalizzate all’identificazione, ma che sono meta-linguistiche. Di per se stesse, invece di occultarlo, riflettono sul montaggio come linguaggio.
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