La pagina de La Stampa con il testo integrale dell`articolo
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La Stampa mercoledì 13 febbraio 2013 pagina 38 Sotto Le Touquet, una fotografia del 1984 realizzata nel Nord della Francia dal celebre volume Bord de mer di Gabriele Basilico oggi il più importante fotografo di architettura del nostro Paese Santa Severina a Napoli, di Massimo Listri Scala, 1931, Venezia di Luciano Romano MARCO VALLORA È sufficiente aggirarsi per gli stands di una fiera d’arte contemporanea o nelle sale di musei come Il Maxxi, per rendersi conto non soltanto di quanto ormai la fotografia stia smangiandosi, anche per autorevolezza, il campo un po’ boccheggiante delle languenti novità artistiche, ma di come la fotografia specifica di luoghi, non-luoghi, architetture reali & architetture digitalmente reinventate, abbia in fondo soppiantato quella, più delicata ed esausta, del ritratto di volti umani, pantografati e sbattuti in prima linea. Reiventare lo spazio, «drogare» l’architettura, per aggirare l’ovvio prospettico è quello che fa ad esempio, Luciano Romano, un artista della Galleria Trisorio di Napoli, recente finalista al premio Hasselblad Masters, che sta preparando un suggestivo volume dedicato appunto allo Sguardo obliquo. Venendo dal teatro e dalla magistrale resa di spettacoli luministici «difficili», come quelli di Bob Wilson o di Greenaway, Romano ha reagito alle gabbie claustrofobiche di Fmr, in cui è «nato» foto-graficamente, con la fuga prospettica e barocca di scale, scalinate, gradini e gradoni, che invece di condurre la gravità del peso umano, riprese così trasversalmente e a tradimento, aiutano l’immaginario a scalare il cielo pulsante del simbolico. Metamorfosandosi in perquisenti occhi ermetici, alla Le Boullée, travestendosi da trabocchetti architettonici, alla Soane o alla Sanfelice, promettendo scappatoie e contrappunti illusori, come nella Scarzuola ermetica dell’archetipico Tomaso Buzzi. L’occhio del fotografo inganna l’architetto Adolf Loos detestava le istantanee di edifici, Le Corbusier si fidava solo di Hervé Oggi per Basilico & C. il dilemma è tra “monumentalità” e lettura critica Dunque: se il punto di partenza è l’architettura, gli esiti sono spesso opposti, come dimostrano due autori, per certi versi antitetici, di cui si è parlato recentemente, e sempre a Napoli. Il «decano» (per autorevolezza architettonica) Gabriele Basilico, che in seguito alla recente mostra a Villa Pignatelli, sta preparando una nuova edizione Dalai, continuamente incrementata, del suo esauritissimo volume, Au bord de mer, dedicato al periplo delle spiagge e dei porti della Francia del Nord. (Il vuoto e la solitudine, talvolta simenoniana, di certi scorci portuali alla Carné, ma soprattutto lo «scatto» interiore d’un tempo diverso, opposto a quello «urbanistico», distratto, della rapidità cittadina e della monumentalità delle architetture di «regime», comunque). Esattamente il contrario, potremmo pensare, di quello che vuol fare Massimo Listri, con i suoi incantati scatti rabdomanti, addentrandosi entro le chiese disfatte d’una Napoli barocca, milionaria e cenciosa. Traducendo questi sotto-luoghi, frananti e sontuosi, in araldici emble- mi della resistenza, per il consueto cata- risultati solo apparentemente analoghi, logo partenopeo-2013 di Generoso de partano da premesse assai diverse Meo (occasione mondana per riaprire il (l’uso della luce, per esempio, del nonChiostro della Biblioteca dei Girolamini, colore e delle ombre, ben più intrusivo e funestata da vili ruberie bibliofile). Listri chirurgico, in lei). Ed altrettanto, sanon vuole partire dal vuoto, ma anzi, tie- rebbe illuminante comparare i porti ne a corteggiare e lappare l’horror vacui nordici di Basilico con quelli tecnologici più gremito e fiorito, rococò, della rovina. della Honk Kong «registrati» panoptiIn sintonia con il suo ricco volume, Edi- camente da Gursky. Alla base dei «nipozione Sabinae, che tini» tedeschi, c’è la s’inocula entro i filaGLI ESEMPI zampata asettica e ri stupefatti ed attocatalogatoria dei Romano stupisce con il suo niti delle antiche Bitassonomici coniugi sguardo «obliquo» di scale Bernd e Hilla Beblioteche umanistiBarbieri vola in elicottero cher, con la loro riche, ancora resistenti, in Italia, Germacerca a tappeto sulnia, Austria, per inseguire questo sogno le vecchie archeologie industriali, torri borgesiano d’un ordine quasi ossessivo funzionalistiche di serbatoi del gas, che ed ipnotico. secondo Romano hanno come atrofizApparentemente, l’occhio stregato zato la nostra potenzialità prospettica di Listri potrebbe evocare le altrettante stereofonica. biblioteche, algide e spettrali, di CandiUna parentela che invece Basilico non da Höfer, che in queste incursioni s’è rinnega, anzi, sottolinea con entusiasmo, specializzata. Ma basta visitare la mo- in una intelligente ed aggiornata tesi sul stra sulla Scuola di Düsseldorf, da Peo- rapporto tra fotografia ed architettura, la a Torino, per rendersi conto di come presentata da Saverio Cantoni, all’Uni- versità di Parma: «Sono sicuro d’essere considerato da alcuni un inossidabile costruttore di strutture primarie dei luoghi, se vogliamo un continuatore - con diverso linguaggio - delle ossessioni becheriane». Insieme a lui parlano in questa brillante tesi altri fotografi innovatori, come Guidi, Jodice, Chiaromonte, Barbieri, ognuno di loro avendo da vantare un rapporto privilegiato, e differente, con l’architettura. Guidi, per esempio, fotografando, della Tomba Brion, di Scarpa, non già la struttura architettonica in sé, «fin troppo scontata e sfruttata», ma le incidenze di luci ed i fantasmi delle ombre: i puri «accidenti» (mostra al Maxxi). Altri, come Barbieri, sorvolando le città con l’elicottero ed illuminando soprattutto i «contesti». Il problema è antichissimo, sin da quando Le Corbusier, per comunicare le sue opere, elesse un artista abile e disponibile come Hervè, che fotografava per lui (su tracce-commissioni di suggerimenti, schizzi, dictat perentori) e «confezionava» i suoi capolavori, facen- doli «vivere», sulla carta. Anche se gli architetti preferiscono per lo più una visione morta, imbalsamata delle loro opere, «spettri» idealizzati e formalistici, non ancora vissuti (radiando via le persone, che poi dovranno abitarle, «guastandole», secondo logica d’archistar). Soltanto Renzo Piano, scandalizzando, preferì scegliersi un fotografo d’elezione, come Berengo Gardin, che toglieva alle sue architetture la tipica rigidità asettica, da rivista patinata, lasciando filtrare la fluida vitalità disordinata dei visitatori. Anche Loos detestava, per statuto, la fotografia d’architettura, convinto che i suoi spazi andassero percepiti con il corpo: l’odore del legno, la solidità delle panche, l’incastro degli spazi. Quello che un’immagine bidimensionale e leccata, non sa restituire. Per questo Bruno Zevi, concorde con Le Corbusier e con Ragghianti, riteneva che non già la fotografia (piatta, statica) ma il cinema (mosso ed articolato nel tempo) potesse meglio dar resoconto della metrica articolata del costruire. Guidi non concorda, convinto che una fotografia «critica» aizzi l’occhio a trovarsi i suoi percorsi e i suoi spigoli, mentre il cinema non è che ginnastica passiva: che ci obbliga a seguire l’occhio «despota» del regista. Il vero problema è questo: può una fotografia diventare lettura critica, oppure rischia sempre di monumentalizzare il suo «prodotto»? Si pone il problema anche Fernando Espuelas, nel vivace Madre Materia, appena uscito da Christian Marinotti. Elogio della materia funzionale, contro il «primo-donnismo» delle griffate forme-archistar: riconoscibili, capricciose, firmate. Non più la fotografiaglamour, dunque, ma il travaglio del «diagramma»: disegnato, tormentato. Autentico tracciato interpretativo.