50° Congresso Nazionale Multisala SCIVAC

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RICHIESTO ACCREDITAMENTO
SOCIETÀ CULTURALE ITALIANA
VETERINARI PER ANIMALI DA COMPAGNIA
SOCIETÀ FEDERATA ANMVI
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certificata ISO 9001:2000
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SCIVAC Secretary
Palazzo Trecchi, via Trecchi 20 Cremona
Tel. (0039) 0372-403504 - Fax (0039) 0372-457091
[email protected] www.scivac.it
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50° Congresso Nazionale Multisala
SCIVAC
27 -29 Maggio 2005, Rimini, Italia
COMUNICAZIONI
LIBERE
Free Communications
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Le comunicazioni sono elencate in ordine alfabetico secondo il cognome dell’autore presentatore.
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EFFICACIA DELLE ALIAMIDI NEL TRATTAMENTO DI FERITE APERTE NEL CANE:
STUDIO MORFOMETRICO DI MASTOCITI E FIBRE ELASTICHE
Francesca Abramo1 Med Vet; Chiara Noli2 Med Vet, Dipl ECVD; Matilde Giorgi1 Med Vet; Doris Salluzzi1;
Silvia Auxilia3 Med Vet, Dipl ECVD; David Lloyd4 FRCVS
1
Dipartimento di Patologia Animale, Università di Pisa; 2Libero professionista, Borgo San Dalmazzo (Cn);
3
Libero professionista, London (UK);
4
Department of Clinical Sciences, The Royal Veterinary College, University of London (UK)
Introduzione. La cicatrizzazione delle ferite è un fenomeno dinamico complesso, che prevede il succedersi ordinato di una serie
di fasi e di specifici eventi cellulari e molecolari. Tra questi, l’elastogenesi, un processo cui finora è stata prestata scarsa attenzione dalla Medicina sia Umana che Veterinaria, ma che rappresenta un evento molto importante del cosiddetto rimodellamento cicatriziale, specie in funzione del corretto ripristino dell’elasticità dermo-epidermica. L’influenza pleiotropica dei mediatori
degranulati dal mastocita cutaneo in corso di cicatrizzazione è un altro capitolo importante, ma altrettanto indebitamente trascurato, anche a causa della difficile evidenziazione istologica di queste cellule, soprattutto in condizioni di degranulazione. I
due processi (elastogenesi e degranulazione mastocitaria) potrebbero avere connessioni assai rilevanti nell’ambito della cicatrizzazione, stante lo stretto rapporto bidirezionale tra mastociti e cellule dermiche, fibroblasti in particolare. L’approfondimento delle conoscenze di tali delicati fenomeni potrebbe aprire nuove prospettive nel trattamento delle ferite cutanee.
Scopo. Verificare l’efficacia di una molecola ALIAmidica (Adelmidrol), applicata topicamente in ferite sperimentali nel cane,
sulla morfometria dei mastociti e delle fibre elastiche.
Metodo. I campioni di cute analizzati provenivano da biopsie a punch da 8 mm, effettuate su piaghe a vari tempi di cicatrizzazione. Le piaghe derivavano a loro volta da ferite sperimentali (punch da 5 mm) inferte nella regione toracica di cani Beagle e
trattate a random, con un gel contenente Adelmidrol, o con un gel a base di solo veicolo. I campioni di cute sono stati per metà
fissati in formalina ed inclusi in paraffina per l’analisi densitometrica dei mastociti. Per l’altra metà, fissati in glutaraldeide ed
inclusi in resina epossidica, allestiti in sezioni semifini (da 0,5 micron) e colorati con una soluzione di blu di toluidina e blu di
metilene con aggiunta di borace, per l’evidenziazione congiunta di mastociti e fibre elastiche.
Risultati. Il confronto dei valori densitometrici medi delle ferite trattate con Adelmidrol rispetto a quelle di controllo, per tutti
i giorni di osservazione (1, 2, 4, 8 e 14), ha messo in evidenza una riduzione dei granuli intracitoplasmatici nei mastociti delle
ferite di controllo, sia nel derma laterale che nel tessuto di granulazione. La differenza, statisticamente significativa (p<0,01),
dimostra una minore liberazione di granuli citoplasmatici da parte dei mastociti dei campioni provenienti da ferite trattate con
Adelmidrol rispetto a quelle non trattate.
Nelle sezioni semifini corrispondenti ai giorni 1 e 2 della cicatrizzazione è stato possibile osservare un maggior numero di
mastociti nel tessuto di granulazione rispetto a quello rilevabile nelle sezioni allestite da paraffina.
Nei campioni trattati con Adelmidrol, la percentuale dell’area occupata dalle fibre elastiche era significativamente maggiore
rispetto ai campioni non trattati (p< 0,03).
Conclusioni. I risultati ottenuti consentono di trarre tre ordini di conclusioni:
1. nelle sezioni semifini è più facile evidenziare i mastociti rispetto alle sezioni classicamente allestite da paraffina. È probabile che la maggiore risoluzione ottica di sezioni con spessore 10 volte inferiore abbia consentito l’individuazione di mastociti anche con un minor numero di granuli metacromatici, rendendo il metodo più sensibile.
2. l’Adelmidrol controlla il grado di degranulazione mastocitaria, come dimostrato dalla minore densitometria dei campioni
provenienti da ferite non trattate.
3. l’Adelmidrol stimola l’elastogenesi, come dimostrato dal fatto che l’area occupata dalle fibre elastiche di campioni provenienti da ferite trattate è significativamente superiore a quella osservabile nelle ferite di controllo.
Tali incoraggianti risultati sperimentali confermano le osservazioni cliniche preliminari ottenute in precedenti casi clinici, circa
l’effetto di gel topici a base di ALIAmidi (Adelmidrol) nel miglioramento degli esiti estetico/funzionali delle ferite cutanee del
cane. Si ringrazia Innovet Italia srl per aver sostenuto lo studio.
Indirizzo per la corrispondenza:
Francesca Abramo
Dipartimento di Patologia Animale, Facoltà di Medicina Veterinaria
Viale delle Piagge, 2 - 56100 Pisa
Fax 050-540644
E-mail: [email protected]
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PROTESI TOTALE D’ANCA NON CEMENTATA A FISSAZIONE BIOLOGICA NEL CANE.
CONSIDERAZIONI PRELIMINARI
Ermenegildo Baroni°, Giuliana Bonetti°, Maurizio Isola*
°Clinica Veterinaria Baroni Rovigo, *Istituto di Chirurgia Veterinaria Università di Padova
Introduzione. La chirurgia protesica nel cane ha avuto negli ultimi anni una notevole evoluzione sia per quanto riguarda i materiali impiegati, che per le articolazioni interessate, visto che oltre alle protesi d’anca sono state recentemente sviluppate anche
quelle di gomito e di ginocchio. La protesi totale d’anca rimane comunque la più diffusa sia negli Stati Uniti che in Europa. L’evoluzione biomeccanica della protesi d’anca in medicina veterinaria è stata notevole, ma solo negli ultimi anni si sono sviluppate delle protesi non cementate che hanno eliminato tutti i comprovati rischi legati all’uso del metilmetacrilato.
Materiali e metodi. Con questa breve comunicazione si descrive l’applicazione in due cani di razza ed età diverse della nuova
protesi non cementata della BioMedtrix, modello BFX, definita protesi d’anca a fissazione biologica.
Questo tipo di protesi è costruita in lega di titanio e la coppa acetabolare è rivestita all’interno da un polietilene ad altissima densità. La sfera che costituisce la testa protesica è in acciaio levigato. Lo stelo e l’esterno della coppa acetabolare sono rivestite da
un manto poroso di 150 – 200 millimicron di spessore che assicura un effetto “stucco” immediato della protesi all’osso e permette, nell’arco di un mese, l’ancoraggio della protesi con l’osso lamellare infiltratosi nei suoi anfratti.
Sono stati operati con questa protesi un cane Pastore Tedesco maschio di 5 anni e un Labrador Retriever maschio di 1 anno.
Entrambi i cani mostravano sintomatologia riferibile ad osteoartrosi invalidante dell’articolazione coxo-femorale secondaria a
displasia dell’anca. La visita clinica e lo studio radiografico effettuato confermavano che la sintomatologia era riferibile alla
coxartrosi.
L’intervento, brevemente descritto nella comunicazione, è stato eseguito seguendo la tecnica indicata dalla ditta costruttrice della protesi e acquisita durante una frequentazione effettuata presso il College of Veterinary Medicine della North Carolina State
University (NCSU).
I cani sono stati ricontrollati clinicamente e radiograficamente a distanza di uno, due e sei mesi dopo l’intervento.
Risultati. Nel caso del Pastore tedesco, il controllo radiografico post-operatorio ha mostrato un corretto posizionamento degli
impianti, per quanto la coppa acetabolare apparisse sovradimensionata rispetto alla dimensione del bacino. Le radiografie eseguite a distanza di uno, due e sei mesi hanno mostrato un’interfaccia netta tra gli elementi protesici e la struttura ossea di sostegno, indicativa di osteointegrazione della protesi; la visita clinica e la valutazione della deambulazione a sei mesi dall’intervento hanno mostrato un completo recupero funzionale.
Nel caso del Labrador il controllo radiografico post-operatorio ha evidenziato una fissurazione del femore avvenuta durante l’inserimento dello stelo protesico, ed una coppa acetabolare sovradimensionata. Le radiografie eseguite a distanza di uno, due e sei
mesi hanno mostrato la guarigione della fissurazione e non hanno evidenziato alcun segno di mobilizzazione degli impianti.
Anche in questo caso la visita clinica e la valutazione della deambulazione hanno a sei mesi dall’intervento mostrato un completo recupero funzionale.
Discussione e conclusioni. Durante l’intervento la preparazione della sede per la coppa acetabolare è risultata problematica, tanto che è stato necessario utilizzare delle coppe di dimensioni superiori a quelle che erano state programmate sulla base della
valutazione radiografica. Le difficoltà sono sorte nell’utilizzo delle frese di preparazione acetabolare che richiedono un’estrema
precisione nelle manovre di fresatura per creare una sede precisa, non ovalizzata, che garantisca un inserimento forzato della
coppa protesica. La fissurazione creata nel femore del Labrador durante l’inserimento dello stelo protesico è stata attribuita all’osteotomia troppo alta del collo femorale che non ha permesso una corretta posizione dello stelo nel canale midollare. Nonostante
gli errori effettuati il risultato è apparso buono, tale da giustificare la prosecuzione nell’applicazione di questa protesi, pur nella consapevolezza che tale intervento richiede un’adeguata curva di apprendimento per essere eseguito in maniera tecnicamente ottimale.
Indirizzo per la corrispondenza:
Ermenegildo Baroni
Clinica Veterinaria Baroni
Via Martiri di Belfiore 69/d 45100 Rovigo
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PANNICOLITE PIOGRANULOMATOSA IN UN GATTO
SOSTENUTA DA MICOBACTERIUM ALVEI
Massimo Beccati Med Vet
Libero professionista, Capriate SG (BG)
Dottorato di ricerca Università Veterinaria Torino; Istituto Produzioni animali - parassitologia
Introduzione. Micobacterium alvei rappresenta un micobatterio non tubercolare isolato nel 1992 da Ausina et al. da campionature provenienti da acque fluviali e terreni rurali. Questo organismo è normalmente considerato un contaminante ambientale
(acque stagnanti - concime) e non è mai stato descritto negli animali da compagnia come microrganismo patogeno.
Nel nostro caso tuttavia, la possibile inoculazione del micobatterio attraverso una ferita o una probabile contaminazione di preesistenti lesioni cutanee è stata causa di una pannicolite–dermatite in un gatto domestico.
Materiali e metodi. Una gatta femmina ovariectomizzata, di nove anni, regolarmente vaccinata, vivente in ambito domestico/
rurale era portata nella nostra struttura per un consulto dermatologico.
Il gatto presentava un’alopecia diffusa a spot su tutta l’area dorso-sacrale. In alcune aree alopeciche erano evidenti piccole fistole. Alla palpazione delle aree interessate si percepiva un’alterazione del tessuto sottocutaneo il quale si presentava irregolare sia
in consistenza (fluttuante Vs. lardaceo) sia in linearità (liscio vs. bernoccoluto). Sottoposta in precedenza a diversi trattamenti
antibiotici, non vi era stato miglioramento, seppur la gatta non manifestasse nessun sintomo al di fuori dell’ambito dermatologico. Sospetti eziologici presi in considerazione erano: pannicolite da corpo estraneo, flemmone post traumatico, micobatteriosi atipica, tubercolosi, pannicolite nodulare sterile, pansteatite felina, micosi sottocutanee -profonde, criptococcosi, neoplasia,
ipovitaminosi. L’approccio diagnostico consisteva in allestimenti di colture batteriche, colture micotiche, esame citologico, esame istologico, PCR, profili biochimico, test FIV, FeLV, esami radiografici. Gli esami collaterali risultavano negativi sia per le
colture, i profili ematici che i radiogrammi (total body); il campionamento citologico di materiale simil purulento prelevato dalle fistole suggeriva un processo infiammatorio cronico aspecifico. L’esame istologico, supportato anche da idonee colorazioni,
faceva propendere per una diffusa pannicolite piogranulomatosa linfocitaria suggestiva di micobatteriosi.
Il successivo test con PRC confermava tale ipotesi e le colture eseguite su terreni specifici per micobatteri (M.7H10) permettevano di tipizzare il microrganismo Micobacterium alvei. Esclusa la possibilità chirurgica come prima scelta (lesione troppo estesa), il protocollo terapeutico veniva impostato con la somministrazione orale di enrofloxacina a dosaggi di 10 mg/kg/die. Tale
protocollo generava un netto miglioramento della situazione dermatologica, tuttavia a 40 giorni dall’inizio della terapia permanevano piccole fistole nella zona della grassella. In accordo con il proprietario a riguardo di eventuali rischi di effetti collaterali legati all’elevato dosaggio del farmaco veniva aumentato il dosaggio a 15 mg/kg/die. Altri 30 giorni con il nuovo regime terapeutico risultavano sufficienti per la guarigione del paziente, il quale a tutt’oggi (follow up due anni) non manifesta segni di recidiva.
Conclusioni. La micobatteriosi sostenuta da microrganismi “atipici” in medicina felina è stata frequentemente descritta, tuttavia ad oggi una pannicolite felina sostenuta dal micobatterio M. alvei non è stata ancora segnalata. L’evoluzione clinica non discosta dalle infezioni sostenute da altre micobatteri già descritti nell’ampia casistica mondiale.
Il protocollo terapeutico medico improntato con alte dosi di enrofloxacina è stato nel nostro caso risolutivo.
Bibliografia essenziale
V. Ausina et al. Mycobacterium alvei sp. nov. I.J.S.B. Oct. 1992 p. 529-535.
Indirizzo per la corrispondenza:
Massimo Beccati c/o clinica veterinaria Adda via Roma 3
Capriate SG (BG)
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ANESTESIA COMBINATA (SEDAZIONE + EPIDURALE): CONSIDERAZIONI E CASO CLINICO
Roberto Bellentani
Med Vet, Libero professionista, Modena
Anche se in questi ultimi decenni si è verificata una notevole diffusione di tecniche alternative all’anestesia generale, tale metodica è ancora ampiamente utilizzata. Questo vale soprattutto nel nostro settore, dove viene condotta nella stragrande maggioranza dei
casi con l’ausilio di anestetici inalatori. Più raramente vengono utilizzate tecniche di TIVA (Total IntraVenus Anaesthesia) ed ancor
più sporadicamente tecniche miste o blended, nelle quali un’anestesia generale leggera viene associata a metodiche loco-regionali.
Queste ultime due metodologie sono invece ampiamente utilizzate in anestesiologia umana, dove le tecniche loco-regionali si sono
imposte come ausilio, o addirittura come valida alternativa, all’anestesia generale, anche grazie a nuovi supporti tecnici (elettroneurostimolatori, cateteri endorachidei ecc.), che ne hanno facilitato l’uso e permesso nuovi impieghi.
Per questi motivi, in molti reparti di chirurgia umana e soprattutto in quelli di ortopedia, è sempre più frequente vedere l’impiego di una metodica loco-regionale (epidurale con o senza catetere o spinale o blocco periferico) con paziente cosciente o
sedato, mentre è diventato meno abituale il ricorso all’anestesia generale. I vantaggi di questi procedimenti sono valutati in modo
positivo da un sempre più ragguardevole numero di anestesisti umani, soprattutto in riferimento alla maggior rapidità di recupero da parte del paziente che si traduce in una sua più rapida dimissione con evidenti vantaggi economici. In questi ultimissimi anni, grazie ad una maggior consapevolezza della necessità di un buon controllo del dolore perioperatorio, anche in anestesiologica veterinaria è aumentato l’interesse per queste tecniche. Esse infatti, se ben eseguite, sono in grado di garantire un controllo completo di tutte le vie ascendenti del dolore, facilitando notevolmente la conduzione anestesiologica e migliorando decisamente l’analgesia postchirurgica.
Attualmente, in veterinaria, l’uso più comune delle loco-regionali è quello in associazione all’anestesia inalatoria leggera o al Propofol, in boli o in infusione costante (CRI), con intubazione orotracheale per la somministrazione nel primo caso dell’alogenato,
e nel secondo di ossigeno. La manovra di introduzione del catetere endotracheale (CET), anche se ci garantisce un perfetto controllo delle vie respiratorie e ci consente un monitoraggio completo della ventilazione, è comunque invasiva e per espletarla al
meglio è necessario utilizzare un dosaggio induttivo di un farmaco ipnotico o di un miorilassante, e inoltre non è scevra da rischi
ed inconvenienti. È altresì noto che in molti soggetti non sarebbe assolutamente necessario raggiungere i valori di FiO2 del 100%
che ci vengono garantiti dall’intubazione con somministrazione di ossigeno puro, per cui anche altri metodi di supplementazione
di O2, come la maschera, il catetere nasale, gli occhialini nasali, potrebbero essere ugualmente capaci di garantire una sufficiente
ossigenazione del soggetto, con l’evidente vantaggio di una ridotta invasività. Per tali motivi in alcune categorie di pazienti e per
alcuni tipi di chirurgia, si potrebbe valutare una conduzione anestesiologica alternativa, che tenga conto di tutte le considerazioni
elencate in precedenza.
In questo lavoro si è cercato di valutare la possibilità di una anestesia combinata (sedazione + epidurale) che permetta l’uso di basse
dosi di ipnotico, pur avendo un soggetto immobile sul tavolo operatorio, con la supplementazione di ossigeno fornita da uno dei sistemi precedentemente elencati.
In pratica, dopo l’esecuzione del blocco antalgico, il soggetto viene mantenuto in uno stato di sedazione con l’utilizzo di un bassissimo dosaggio di Propofol in CRI, associato ad un’altrettanto bassa dose di Fentanil, sempre in infusione costante. L’animale non
viene intubato e vengono sistemati, previa istillazione di qualche goccia di lidocaina nelle narici, un paio di occhialini nasali attraverso i quali si fornisce O2. I vantaggi di tale conduzione anestesiologica consistono principalmente nel basso impatto sulle principali funzioni vitali del soggetto (ventilazione-ossigenazione, cuore-circolo), nell’ottimo controllo del dolore perioperatorio, nell’evidente risparmio di anestetico, e nel notevole comfort del paziente sia nel corso della procedura, che nel post chirurgico.
Bibliografia
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Indirizzo per la corrispondenza:Roberto Roberto Bellentani
Ambulatorio Veterinario Via Sant’Antonio 10 - 41043 Formigine (MO)
Ambulatorio San Prospero Via Dalmazia 99 - Reggio Emilia
Tel. e Fax 059556004 - E-mail [email protected]
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PREVALENZA DELLA TROMBOCITOPENIA IN 41 CAVALIER KING CHARLES SPANIEL:
COMPARAZIONE DI METODICHE MANUALI ED AUTOMATICHE DI LABORATORIO
Walter Bertazzolo, DVM1*; Stefano Comazzi, DVM, DECVCP2; Lorenzo Sesso, DVM2;
Paola Scarpa, DVM3; Saverio Paltrinieri, DVM, DECVCP2
1
Libero Professionista, Lodi
2
Dipartimento di Patologia Veterinaria, Igiene e Salute Animale, Facoltà di Medicina Veterinaria, Milano
3
Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie, Facoltà di Medicina Veterinaria, Milano
Scopo del lavoro. La trombocitopenia e la macrotrombocitosi sono rilievi comuni nel Cavalier King Charles Spaniel (CKCS).1-4
I cani affetti non manifestano disfunzioni dell’emostasi e la ridotta conta piastrinica può essere ricondotta ad una reale trombocitopenia o all’inaccuratezza del sistema analitico impiegato nel rilevare i macrotrombociti.1-4 La prevalenza della macrotrombocitopenia nel CKCS in due differenti studi risultava pari a 31%2 e 56%.4 Nel presente studio è stata valutata la prevalenza della trombocitopenia in un gruppo di CKCS utilizzando differenti sistemi analitici di laboratorio.
Materiali e metodi. Sono stati analizzati i campioni di sangue ottenuti da 41 CKCS provenienti da un singolo allevamento. I
campioni sono stati ottenuti dalla vena giugulare, raccolti in EDTA ed analizzati mediante una contaglobuli ad impedenza (IC)
(Hemat 8, SEAC) e una contaglobuli laser (LC) (H1, Bayer) al fine di valutare la conta piastrinica, il volume piastrinico medio
(MPV) e l’ampiezza della distribuzione piastrinica (PDW). La conta piastrinica è stata inoltre stimata mediante un quantitative
buffy coat (QBC) analyzer (IDEXX) e conta manuale (MC). La MC è stata effettuata su strisci ematici ottenuti immediatamente dopo il prelievo e colorati con May-Grünwald-Giemsa, contando il numero di piastrine presenti in 20 campi consecutivi a
1000x. La dimensione piastrinica, il numero e la dimensione degli aggregati piastrinici era inoltre stimata soggettivamente
durante la MC. La percentuale delle pistrine reticolate è stata infine rilevata mediante citofluorimetria dopo colorazione con tiazolo-arancio e confrontata con quella ottenuta da 8 cani di controllo (non CKCS).
Risultati. Tutti i soggetti utilizzati apparivano sani e non avevano mai manifestato segni clinici riferibili a disordini dell’emostasi. La conta piastrinica media risultava più bassa mediante IC (165±100x103/µl) che mediante LC (208±148x103/µl, non significativo), QBC (284±119x103/µl, P<0.01) e MC (260±172x103/µl, P<0.01). IC, LC e MC apparivano positivamente correlate. La
percentuale dei soggetti considerati trombocitopenici (i.e. plt <100x103/µl) era simile mediante IC (34.1%), LC (26.8%) e MC
(22.0%), mentre solo il 5.8% dei campioni analizzati con QBC era trombocitopenico. Sebbene nessun cane avesse MPV e PDW
al di sopra degli intervalli di riferimento, la maggior parte dei soggetti presentava macrotrombociti negli strisci ematici. Il numero di macrotrombociti appariva negativamente correlato con la conta piastrinica e con il numero e la dimensione degli aggregati piastrinici. La LC sottostimava il MPV rispetto alla IC (MPV 5.9±1.3 fl vs 11.7±1.3, P<0.01). La percentuale delle piastrine
reticolate era più elevata nei CKCS rispetto ai cani di controllo (22.0±9.2% vs 10.3±3.4%, P<0.01).
Conclusioni. Sebbene il sistema analitico utilizzato possa influire su alcuni parametri piastrinici, la prevalenza della macrotrombocitopenia nei CKCS risulta intorno al 20-30% utilizzando IC, LC e MC. Il QBC non è un sistema attendibile per la conta piastrinica nel CKCS in quanto il numero delle piastrine per µl viene calcolato dal piastrinocrito che, a sua volta, è influenzato dal MPV. La MC appare il sistema migliore nel rilevare macrotrombociti. L’elevata percentuale di piastrine reticolate nei
CKCS suggerisce un elevato turnover piastrinico.
Bibliografia
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Brown SJ and others (1994) Macrothrombocytosis in cavalier King Charles spaniels. Vet Rec, 135: 281-283.
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Pedersen HD and others (2002) Idiopathic asymptomatic thrombocytopenia in cavalier King Charles spaniels is an autosomal recessive trait. J Vet Intern
Med, 16: 169-173.
Indirizzo per la corrispondenza:
Studio Veterinario Associato Laudense - Pronto Soccorso Veterinario, via Defendente, 29/a, 26900 Lodi
Tel./Fax: 0371422408
E-mail: [email protected]
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332
UN CASO DI DILATAZIONE-TORSIONE GASTRICA IN UN GATTO
Matteo Boso, Med Vet, Padova
Davide de Lorenzi Med Vet, SCMPA, Padova
Michela De Lucia Med Vet, SCMPA, Padova
Introduzione. Vengono descritti la presentazione clinica, l’iter diagnostico e la risoluzione chirurgica di una dilatazione-torsione gastrica (GDV) in un gatto.
Segnalamento, segni clinici, diagnosi, terapia. Un gatto comune europeo, maschio intero di un anno viene presentato alla visita per vomito ed anoressia insorti circa 24 ore prima. La raccolta dell’anamnesi remota descrive un pregresso trauma da investimento, avvenuto circa 3 mesi prima, apparentemente risoltosi spontaneamente e senza conseguenze. Alla visita clinica l’animale
appare abbattuto ma reattivo, polipnoico (120 rpm), ipotermico (36.8°C) e con l’addome notevolmente disteso e timpanico.
I radiogrammi di addome e torace mostrano, rispettivamente, una notevole dilatazione e compartimentalizzazione gastrica, presenza di un’area radio-opaca in corrispondenza dell’area di proiezione del lobo polmonare diaframmatico di sinistra a diretto
contatto con il diaframma, dilatazione esofagea e modesto versamento visibile in corrispondenza del recesso costo-frenico di
sinistra, con perdita del profilo della cupola diaframmatica sinistra. Sulla scorta di queste informazioni si emette diagnosi di dilatazione-torsione gastrica, verosimilmente associata ad ernia diaframmatica sinistra.
Viene quindi effettuata la decompressione gastrica con un ago 22 G1/2 infisso appena caudalmente alla 13a costola e dopo appropriata fluidoterapia il paziente viene sottoposto a celiotomia esplorativa. Nel corso dell’esplorazione chirurgica si evidenzia
notevole dilatazione e torsione gastrica associata ad ernia diaframmatica che vede impegnato, nella breccia del diaframma, gran
parte dell’omento con conseguente trazione sullo stomaco. Si procede alla detorsione dell’organo ed a conseguente gastropessi.
Le strutture erniate vengono riportate in addome e viene riparata la lacerazione del diaframma. Il post-operatorio si è svolto senza complicazioni ed il paziente è stato dimesso in terza giornata.
Discussione. La GDV nel gatto è una condizione rara ed in bibliografia, a nostra conoscenza, vengono descritti solo 10 casi di
dilatazione gastrica in questa specie, la metà dei quali associati a torsione dello stomaco. In 3 dei 10 casi riportati, era presente
contemporaneamente un’ernia diaframmatica, con conseguente probabile ostacolo alla normale motilità e svuotamento gastrico.
Bibliografia
Bredal, W.P., A.V. Eggertsdòttir and O. Austefjord: Acute gastric dilatation in cats: A case series. Acta vet. Scand. 1996, 37, 445-452.
Indirizzo per la corrispondenza:
Matteo Boso
Clinica Veterinaria privata San Marco
V. Sorio 114/c - 35141 Padova
Tel. 049 8161098 - Fax 02 700518888
E-mail: [email protected]
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333
SU DI UN CASO DI GRANULAR CELL TUMOR A LIVELLO DELLE CORDE VOCALI
IN UN COLLIE MASCHIO DI 6 ANNI
1
Enrico Bottero1 Med Vet, Giacomo Rossi2 Med Vet
Libero Professionista, Cuneo; 2 Dipartimento di Patologia Animale, Università di Camerino
Lo scopo di questo lavoro è: segnalare il riscontro di un Granular cell tumor a livello della corda vocale destra in un cane maschio
di razza Collie di sei anni, descriverne la sintomatologia clinica, le indagini diagnostiche, il rilievo macroscopico, citologico ed
istologico e la terapia chirugica, ipotizzandone l’origine dalle cellule di Schwan sulla base dei risultati delle colorazioni immunoistochimiche. Il paziente, fu portato alla visita in seguito ad un abbassamento della voce e transitoria afonia e lieve depressione. L’esame obiettivo generale e le indagini ematochimiche di base erano nella norma; le indagini radiografiche eseguite in proiezione latero-laterale risultavano inconclusive e veniva quindi eseguita una laringoscopia. Si utilizzava un fibroscopio flessibile
Olympus Gif-N30 del diametro di 5,3 mm. Il rinofaringe appariva lievemente ma diffusamente eritematoso, le ghiandole tonsillari apparivano ipertrofiche, arrossate ma simmetriche; le cartilagini aritenoidi risultavano eritematose ma dotate di movimenti
abduttori ed adduttori regolari e sincroni; a carico della corda vocale di destra si evidenziava la presenza di una neoformazione,
abbastanza mobile, di circa 0,5 cm di diametro, adesa alla corda vocale destra, parzialmente ostruente il canale aereo laringeo e
cromaticamente di colore giallo-brunastro. Venivano eseguite tre biopsie sotto visione endoscopica, di cui due indirizzate all’esame istologico ed una all’esame citologico tramite schiacciamento. Citologicamente la neoformazione era composta da una popolazione cellulare predominante abbastanza monomorfa, costituita da cellule rotondeggianti-poligonali con margini citoplasmatici
ben distinti, a volte con tendenza fusiforme, nucleo rotondeggiante-ovalare eccentrico e dotato di nucleoli prominenti; il citoplasma ampio conteneva numerose vacuolizzazioni che contribuivano a rendere il nucleo periferico ed aveva un aspetto finemente
granulare a colorazione eosinofila; a volte si evidenziavano cellule sinciziali. Erano evidenti clusters cellulari abbastanza ampi
intervallati spesso da capillari. Veniva eseguita anche una colorazione Pas che risultava positiva. Le diagnosi differenziali furono
un granuloma, un tumore neuroendocrino, un granular cell tumors ed un oncocitoma. La diagnosi istologica fu: Granular cell
tumor. La neoformazione venne asportata per via chirurgica eseguendo un accesso ventrale al laringe ed asportando unicamente
la neoformazione, seppur a base ampia. Dopo l’intervento il paziente mostrava un deciso miglioramento sia come vocalizzazione che come condizione generale. Il follow up clinico dopo 1 anno non evidenziava alcuna anormalità. I Granular Cell Tumors
sono neoplasie relativamente infrequenti nel cane e mai segnalate a livello laringeo in questa specie, mentre nell’uomo, seppur
raramente, sono segnalate anche a livello di corda vocale. L’istogenesi di tale neoplasia è tuttora controversa, nel nostro caso l’immunoistochimica rilevava una forte positività del citoplasma per CD68 e S100, variabile positività per vimentina, GFAP, e NSE,
ed una negatività completa per pancitocheratina, sinaptofisina, cromogranina A, alfa-actina, e desmina. Questi riscontri eliminavano una possibile origine muscolare e neuroendocrina, inoltre le cellule tumorali mostravano una positività costante della membrana cellulare per collagene tipo IV; complessivamente tali dati confermavano l’origine neurale della neoformazione e, specificatamente, dalle cellule di Schwan. Inoltre, nel nostro caso, la colorazione occasionale dei nuclei con MIB-1, anche riportata nelle lesioni iperplastiche benigne, supportava la favorevole evoluzione clinica osservata per tale neoplasia.
Immagine endoscopica
Foto del macroscopico
Neoformazione dopo asportazione
chirurgica
Immagine citologica (400 x)
Immagine citologica (100 x)
Immagine citologica (colorazione
PAS) 400 x
Esame istologico
Intervento chirurgico
Indirizzo per la corrispondenza:
Enrico Bottero, Via Sale San Giovanni n.1, 12073 Ceva (CN)
Tel e fax: 0174701533 - E-mail: [email protected]
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334
BIOMECCANICA DELLE FRATTURE RADIO-ULNARI NEL CANE: LA MASSA CONTA?
Stefano Z.M. Brianza Med Vet PhD
Libero professionista, Torino
Introduzione. In seguito a traumi, generalmente ritenuti a basso livello d’energia, i cani toy sembrano avere una certa predisposizione alle fratture antibrachiali. In queste razze, secondo uno studio di Peter Muir (1997), la porzione del complesso radioulnare compresa tra il 15 ed il 37% della lunghezza radiale è concretamente più affetta. Lo stesso autore ha messo in evidenza
una diversa propensione verso differenti patologie, in seguito a salti o cadute, a seconda della taglia: nei cani toy sembra essere
più comune la frattura del terzo distale dell’avambraccio, mentre in cani di taglia superiore sembrano essere più comuni lesioni
da iper-estensione del carpo. Attualmente, i meccanismi responsabili di tale propensione non sono ancora stati chiariti anche se
lo stesso Muir ha sospettato, come possibili fattori eziologici, alterazioni nella geometria e/o nella densità ossea connesse alla
razza. L’obiettivo di questo lavoro è di valutare come le caratteristiche geometriche, densitometriche e meccaniche dell’avambraccio canino varino al variare della massa dei soggetti, e quale ruolo possano avere nel determinare una certa suscettibilità alle
fratture antibrachiali distali nei toy rispetto a cani di taglia superiore.
Materiali e metodi. 28 paia di radio ed ulna sono state collezionate e divise in tre gruppi in funzione della massa del cane: il
gruppo toy (massa ≤ 7 kg), il gruppo medium (massa 8÷20 kg), ed il gruppo large (massa ≥ 21 kg). La geometria delle aree della sezione del radio e dell’ulna, comprese tra il 20 ed il 50% della lunghezza disto-prossimale radiale, è stata studiata in dettaglio tramite TC e programmi d’analisi d’immagini. Le caratteristiche densitometriche dell’intero campione e delle regioni incluse tra il 20 ed il 50% e tra il 50 e l’80% della lunghezza disto-prossimale del radio sono state analizzate utilizzando la tecnica
DXA. I radii degli arti destri sono stati sottoposti ad un test meccanico distruttivo in compressione assiale. La distribuzione del
sesso tra i gruppi è stata comparata tramite χ2 test. L’ANOVA è stata usata per comparare i tre gruppi in tutti i test rispetto ai
parametri età, massa, caratteristiche densitometriche, geometriche normalizzate e meccaniche normalizzate (p ≤ 0.05).
Risultati. Non significative differenze tra i gruppi analizzati rispetto all’età ed al sesso. L’ANOVA dei valori normalizzati ha
evidenziato significative differenze nella geometria delle aree della sezione. L’area della sezione non era significativamente differente tra i gruppi. Nelle regioni nelle quali i momenti d’inerzia erano significativamente differenti, il gruppo toy aveva sempre i valori minori. La densità ossea (gr/cm2) nelle tre regioni indagate era significativamente differente tra i gruppi: minore nel
gruppo toy. Comparando il comportamento meccanico delle ossa, tenendo in considerazione la differente taglia degli animali,
l’ANOVA tra gruppi non ha evidenziato una significativa differenza nella forza per unità di peso ed energia per unità di massa
necessari a fratturare il radio, mentre è stata evidenziata una significativa differenza nel coefficiente angolare della porzione elastica della curva forza-spostamento e nella deformazione a rottura.
Discussione. Le ossa più piccole non sono un’esatta riduzione delle ossa di dimensioni maggiori. Dal punto di vista geometrico,
le ossa di cani appartenenti al gruppo toy sono adeguatamente conformate a sopportare carichi compressivi grazie ad un’area della sezione non significativamente differente da quella di cani di taglia superiore, ma i momenti d’inerzia significativamente minori dimostrati evidenziano che sono meno competenti nel contrastare momenti torcenti e flettenti. La significativa diminuzione dell’area occupata dalla cavità midollare sembrerebbe essere un adattamento meccanico dell’osso a continue sollecitazioni sovrafisiologiche utile a riportare le condizioni di carico entro limiti fisiologici. Il test meccanico ha però messo in luce che il carico compressivo e l’energia necessari a fratturare ossa provenienti da animali di taglia diversa sono proporzionali alla massa del cane. L’idea che le fratture antibrachiali nel cane toy siano sempre causate da traumi a basso livello di energia sembra dunque essere negato dal test effettuato. Le ossa radioulnari canine di diverse dimensioni sembrano raggiungere le stesse caratteristiche meccaniche
a rottura con diverse strategie. In funzione delle condizioni di carico, il differente assetto geometrico e densitometrico può essere
ipotizzato come il responsabile della propensione verso diverse patologie ortopediche. Un quadro completo delle condizioni
responsabili della diversa propensione in funzione della massa può, ad ogni modo, essere raggiunto solamente dopo un’attenta
indagine di tutti gli altri principali aspetti potenzialmente determinanti e delle condizioni al contorno.
Indirizzo per la corrispondenza:
Stefano Brianza, Corso Lepanto, 8. 10134 - Torino, Italia
Tel. 0039-011-3194015
E-mail: [email protected]
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335
IL COLLASSO CONSEGUENTE ALL’ATTIVITÀ FISICA (“EXERCISE INDUCED COLLAPSE”)
DEL LABRADOR RETRIEVER
Pietro Calò1 Med Vet; Alessandra Gherardi1 Med Vet; Giuseppe Rubini2 Med Vet; Arianna Negrin3 Med Vet;
Giovanni Bevilacqua1 Med Vet; Marco Bernardini1,4 Med Vet, dipl ECVN
1
Clinica Veterinaria Poggio Piccolo, Castel Guelfo (BO); 2Libero Professionista, Bologna;
3
Dip. di Sanità Pubblica, Patologia Comparata e Igiene Veterinaria, Università degli Studi di Padova;
4
Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie, Università degli Studi di Padova
L’Exercise Induced Collapse (EIC) è una sindrome osservata nei cani di razza Labrador Retriever descritta per la prima volta
nel 2000 in Canada. È caratterizzata dall’intolleranza all’esercizio fisico e conseguente collasso. I cani affetti da tale sindrome
tollerano esercizi fisici di lieve-media entità, mentre manifestano dopo circa 5-15 minuti di intensa attività la comparsa di segni
clinici quali un’iniziale incoordinazione dell’andatura e barcollamento. Se ulteriormente incitati al movimento, si manifesta
un’incapacità a mantenere la stazione sino al collasso e un’ipertermia che può superare i 41,5°C. Nei soggetti sotto sforzo l’inizio delle manifestazioni cliniche è scatenato dalla concomitante presenza di uno o più fattori stressanti. Generalmente, dopo
circa 10-20 minuti dal collasso i cani tornano alla normalità, ma in alcuni casi sono descritti esiti infausti durante o al termine
della sindrome. Recenti studi condotti in Canada e in California hanno permesso di escludere che la sindrome dell’EIC sia legata alla temperatura ambientale o al tipo d’esercizio. Lungamente discussa è stata l’importanza delle concentrazioni plasmatiche
di piruvato e lattato sia prima che dopo l’esercizio. In letteratura è presente anche uno studio sulle concentrazioni di carnitina
nel plasma, nell’urina e nei muscoli. Tale sostanza ricopre un ruolo fondamentale nella disponibilità di energia, controllando
l’afflusso degli acidi grassi a lunga catena all’interno dei mitocondri. In soggetti affetti da EIC è stata appurata una bassa concentrazione di carnitina soprattutto a livello muscolare. Il valore di questi risultati non sembra essere significativo, poiché in tutti i casi presi in esame le alterazioni della concentrazione di piruvato e carnitina non sembrano costanti, vanificando l’idea di
poter utilizzare questi parametri in un iter diagnostico. Negli ultimi tempi si stanno conducendo studi sul DNA dei soggetti colpiti per verificare una predisposizione genetica alla malattia. Vista la scarsa utilità dei metodi diagnostici appena descritti, si spera per lo meno di poter identificare i soggetti predisposti a sviluppare EIC per escluderli dalla riproduzione. Al momento, non
essendo ancora chiara l’eziologia della sindrome, non esiste un esame specifico per emettere diagnosi, né un approccio terapeutico mirato.
A conoscenza degli autori, questa patologia non è mai stata segnalata in Italia. Recentemente si sono riscontrati in due Labrador Retriever italiani gli stessi elementi distintivi dell’EIC. I due casi qui segnalati presentano le medesime caratteristiche anamnestiche descritte in letteratura: si tratta di due soggetti giovani (un maschio e una femmina, entrambi di due anni), atletici e con
la tipica eccitabiltà della razza, che dopo brevi ma intensi esercizi fisici, della durata di circa 5-10 minuti e spesso caratterizzati da notevole eccitazione psichica, presentano difficoltà al movimento, con barcollamento e apparente incoordinazione degli
arti. La sintomatologia coinvolge dapprima il bipede posteriore per poi interessare anche l’anteriore. Nonostante ciò il cane tenta spesso di continuare l’esercizio, con l’esito di un collasso finale, cui fa seguito un recupero totale della sintomatologia clinica dopo un breve periodo di tempo. Nessuna manifestazione di dolore viene riportata durante tali attacchi.
Per i due casi in questione è stato utilizzato un protocollo diagnostico che ha previsto un accurato esame clinico, neurologico e
ortopedico, cui segue l’effettuazione di un profilo ematobiochimico e un’indagine ecografica del cuore e dell’addome. Ulteriori indagini collaterali sono state orientate all’esclusione della miastenia grave e di altre patologie acquisite o ereditarie tipiche di
questa razza. Tutte le indagini sono state eseguite con i soggetti a riposo e durante gli episodi di collasso. Come per tutti i casi
segnalati fino ad ora, anche per i due soggetti qui descritti la diagnosi è presuntiva.
Indirizzo per la corrispondenza:
Marco Bernardini
Dipartimento Scienze Cliniche Veterinarie
Facoltà di Medicina Veterinaria
Università degli Studi di Padova
Via dell’Università, 16 35020 Legnaro (Italy)
Tel. +39.049.8272609 - Fax. +39.049.8272954
E-mail: [email protected]
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336
NEOPLASIE VASCOLARI CUTANEE DEL CANE:
STUDIO ANATOMOCLINICO E CLASSIFICAZIONE ISTOPATOLOGICA DI 74 CASI
Francesca Campagna, Med Vet; Giuliano Bettini, Med Vet, Prof Ass; Maria Morini, Med Vet
Servizio di Anatomia Patologica, Dipartimento di Sanità Pubblica Veterinaria e Patologia Animale,
Facoltà di Medicina Veterinaria, Università di Bologna
Introduzione. Emangiomi (E) ed emangiosarcomi (ES) rappresentano il 3-5% delle neoplasie cutanee del cane1. Gli E sono circa tre volte più frequenti degli ES e possono interessare derma o sottocute, ma i dermici riguardano più spesso la regione ventrale delle razze a pelo corto e cute poco pigmentata, il che ha suggerito un ruolo patogenetico dell’esposizione ai raggi solari2;
istologicamente possono essere di tipo cavernoso oppure capillare. Gli angiocheratomi (AK) sono una rara variante di E (componente vascolare associata ad una epiteliale) che interessa per lo più la congiuntiva3. Gli ES sono più spesso dermici e a carico delle regioni addominale e prepuziale, quelli sottocutanei di tronco ed arti3,5.
Materiali e metodi. Valutazione anatomoclinica ed istologica di una serie di tumori vascolari (VT) cutanei di cane pervenuti al
servizio dal 1997 al 2004 (campioni fissati in formalina, inclusi in paraffina e colorati con ematossilina-eosina), per descriverne le caratteristiche e confrontare i risultati con quelli della letteratura.
Risultati. La ricerca ha selezionato 127 VT (59 E, 6 AK, 62 ES): 74 cutanei (50 E, 6 AK, 18 ES), 35 splenici (6 E, 29 ES), 10
cardiaci (2 E, 8 ES) e 8 in altre sedi (1 E, 7 ES). Nel periodo dello studio il servizio ha esaminato 2058 biopsie cutanee, fra cui
i VT incidevano per il 3,6%. L’età media dei cani con VT cutanei era 8,2 anni (range 1-15; E+AK 8,3 anni; ES 7,7 anni) senza
rilevanti predisposizioni di sesso (51,4% femmine, 47,3% maschi). Tra i soggetti di razza (18 incroci, 56 razze pure) il Pastore
tedesco (14 casi, 11 E, 2 ES, 1 AK) ed il Boxer (12 casi, 6 E, 4 ES, 2 AK) erano i più rappresentati; il mantello era a pelo lungo nel 64,3% dei casi ed a pelo corto nel 35,7% dei casi, senza alcuna significativa associazione col tipo tumorale. La localizzazione riguardava tronco (31/74: 11 costato e fianco, 10 addome ventrale, 7 dorso, 3 sede non specificata), arti (16/74: 5 anteriori, 11 posteriori), testa e collo (13/74; di cui 2 nella palpebra), coda (4/74), perineo (2/74) e scroto (2/74). Le dimensioni variavano da 1 a 15 cm (E: 3,2 cm, 1-10 cm; ES: 4,7 cm, 2-15 cm; AK: 2,5 cm, 2-3 cm). Negli E prevaleva l’architettura cavernosa
e la localizzazione sottocutanea (38/50 E cavernosi: 33 sottocutanei, 4 dermici, 1 dermico-sottocutaneo; 12/50 E capillari-cavernosi sottocutanei). I 18 ES erano tutti sottocutanei.
Discussione. La prevalenza dei VT fra le patologie cutanee (3,6%) è risultata simile a quella rilevata in altre ricerche. Nella
nostra casistica la localizzazione cutanea dei VT è in assoluto la più frequente (cute 58,5%; milza 27,5%, cuore 7,9%), mentre
in altre rassegne si è registrata una prevalenza delle localizzazioni extra-cutanee4; considerando i soli E, tuttavia, anche altri
segnalano la più frequente localizzazione cutanea, mentre gli ES insorgono più spesso a livello splenico e cardiaco2, 4. Fra i VT
cutanei, gli E si confermano pertanto come nettamente più frequenti degli ES (E+AK: 75,7%; ES: 24,3%).
Nei cani con VT cutanei l’età media di insorgenza era 8,2 anni, non erano evidenti predisposizioni di sesso e, confermando quanto già segnalato3, il Pastore tedesco ed il Boxer erano le razze più rappresentate. Nella nostra casistica non si conferma però la
localizzazione preferenziale dei VT nella regione ventroaddominale, né l’associazione fra tale localizzazione e la condizione di
cute poco pigmentata con pelo corto e rado. La maggior parte dei soggetti era infatti a pelo lungo, e la regione ventroaddominale non era più colpita di altre, neppure fra i soggetti a pelo corto e rado. Un’altra significativa discrepanza fra i nostri risultati e quelli della letteratura riguarda la predilezione dei VT (sia E che ES) per la sede sottocutanea e la rarità della localizzazione dermica.
In conclusione, i nostri risultati confermano in generale quanto noto per i VT cutanei del cane, ma non suggeriscono, come invece evidenziato in altri studi, un possibile rapporto tra insorgenza dei VT e condizioni dermatologiche di maggiore sensibilità alle
radiazioni solari. È inoltre interessante notare il numero relativamente elevato di AK, e che solo uno dei 6 casi aveva la caratteristica localizzazione palpebrale1.
Bibliografia
1.
2.
3.
4.
5.
Gross et al (1992) Veterinary dermatopathology, Mosby, St. Louis.
Hargis et al (1992) Vet Pathol 29:316.
Scott et al (2001) Small Animal Dermatology, Saunders, Philadelphia.
Srebernik et al (1991) Vet Rec 129:408.
Ward et al (1994) J Vet Int Med 8:3.
Indirizzo per la corrispondenza:
Francesca Campagna
Servizio di Anatomia Patologica, Dipartimento di Sanità Pubblica Veterinaria e Patologia Animale
Via Tolara di Sopra 50, 40064, Ozzano Emilia, Bologna
Tel. +39 051 2097969 - Fax +39 051 2097967
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337
DOSAGGIO DEGLI ANTICORPI ANTI-ERITROCITI MEDIANTE CITOMETRIA A FLUSSO
IN CORSO DI ANEMIA EMOLITICA IMMUNOMEDIATA NEL CANE
Erika Carli Med Vet1; Silvia Tasca Med Vet1; Marco Caldin Med Vet1;
Tommaso Furlanello Med Vet1; Carlo Patron Med Vet2
1
Libero professionista, Padova; 2Libero professionista, Venezia
Scopo. Valutare l’utilità del dosaggio citofluorimetrico degli anticorpi anti-eritrociti (anti-IgG e anti-IgM) in corso di anemia
emolitica immunomediata (Immuno-Mediated Haemolytic Anemia, IMHA).
Materiali e metodi. Sulla scorta dei dati ottenuti attraverso una lettura strumentale con contaglobuli laser ADVIA 120 Bayer®
e una valutazione citomorfologica, al microscopio ottico, di uno striscio di sangue eseguito a fresco, sono stati individuati 29
esami emocromocitometrici (CBC) di cane suggestivi di IMHA (presenza di sferociti, stomatociti, selenociti e/o anemia rigenerativa senza ipoprotidemia). Per ogni paziente erano disponibili anamnesi, segnalamento, esame fisico, eventuali altri approfondimenti diagnostici e decorso. I CBC sono stati suddivisi in funzione della gravità dell’anemia. I campioni, conservati con
K3EDTA, sono stati processati al massimo entro 24-36 h dal prelievo. Poiché alcuni avevano subito un contatto con l’anticoagulante protratto nel tempo (24-36 h), si è considerato che l’ematocrito (Hct) non fosse un indice attendibile per la classificazione della severità dell’anemia perché influenzato dalla conservazione del campione stesso che induce un incremento artificiale del volume cellulare medio e, di conseguenza, anche del Hct. Alla luce di questo è stato scelto il numero totale dei globuli
rossi (Red Blood Cell, RBC) come parametro di riferimento. Ciascun campione di sangue è stato, quindi, saggiato per la presenza di anticorpi sulla membrana eritrocitaria mediante citometria a flusso (FCa - flow cytometry assay) eseguita con il citofluorimetro Epics XL-MCL (Beckman Coulter®). I risultati sono stati calcolati con l’ausilio del sistema operativo System IITM
(DOS 6.22). Sono stati posti in relazione il grado di anemia e l’entità della sferocitosi con le percentuali di anticorpi anti-eritrociti (anti-RBC) ottenute.
Risultati. L’analisi citofluorimetrica ha dato esito positivo (presenza di anticorpi anti-RBC sulla membrana eritrocitaria) per tutti i campioni. 3 soggetti con anemia lieve (RBC<4.5 x106/µL) presentavano anti-IgG con valore medio pari a 1.5% e anti-IgM
con valore medio di 1.2%. In 12 casi l’anemia era moderata (RBC: 3.0-4.5 x106/µL) con valore medio di anti-IgG pari a 1.8%
e di anti-IgM pari a 1.9%. 10 soggetti presentavano anemia grave (RBC 1.5-3.0 x106/µL), anti-IgG con valore medio pari a 4.8%
e anti-IgM con valore medio pari a 4.9%. Infine, 4 soggetti presentavano anemia gravissima (RBC<1.5 x106/µL) con anti-IgG
con valore medio pari a 30.1% e anti-IgM con valore medio pari a 9.5%. In 22 campioni sono stati osservati sferociti, mentre 7,
seppur positivi alla ricerca degli anticorpi anti-RBC, non presentavano questa alterazione. In questi ultimi casi, laddove era disponibile il follow up, si è potuto osservare come con la terapia immunosoppressiva l’anemia venisse a scomparire confermando
la diagnosi di IMHA.
Conclusioni. Dall’analisi dei dati appare evidente una correlazione tra l’entità dell’anemia ed il dosaggio degli anticorpi antiIgG e anti-IgM: quanto più è grave l’anemia, tanto più alta è la percentuale media di positività agli anticorpi. È, perciò, di nuova segnalazione la possibilità di sfruttare il dosaggio citofluorimetrico degli anticorpi anti-RBC per valutare l’intensità dell’azione immunomediata. Non sembra esistere una relazione tra l’entità della sferocitosi e la percentuale di positività anticorpale
rilevata dal citofluorimetro. Inoltre, la quantità di sferociti osservata non è correlata alla gravità dell’anemia. Sebbene la valutazione strumentale e morfologica del sangue possano fornire importanti informazioni e indurre a sospettare un’IMHA, si deve
notare che la sferocitosi non può essere considerata l’unico parametro su cui basare la diagnosi perché mancante in 7/29 casi.
Pertanto, il dosaggio degli anticorpi anti-RBC si può considerare una metodica valida nella diagnosi dell’IMHA che, oltre ad
individuare la malattia anche nei casi dubbi e ad esprimerne la gravità, può trovare applicazione nel monitoraggio e nella determinazione della prognosi.
Indirizzo per la corrispondenza:
Erika Carli Laboratorio Privato d’Analisi Veterinarie San Marco, Via Sorio n. 114/c - 35141 Padova
Tel. 049-8561039 - Fax 02-700518888
E-mail: [email protected]
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338
FRATTURE DEL BACINO NEL CANE E NEL GATTO:
STUDIO RETROSPETTIVO SU 39 CASI (1991-2004)
Barbara Carobbi1 Med Vet; Gian Luca Rovesti2 Med Vet, Dipl ECVS;
Lorenzo Novello3 Med Vet, Dipl ESRA Italian Charter
1
Borsista, Ambulatorio “M.E. Miller”, Cavriago (RE);
2
Ambulatorio “M.E. Miller”, Cavriago (RE); 3Libero professionista, Padova
Introduzione. Le fratture del bacino sono un’evenienza abbastanza comune e vengono segnalate con un’incidenza che va dal
20 al 30% di tutte le fratture di origine traumatica. Si tratta di solito di fratture multiple che coinvolgono più segmenti ossei del
bacino, ma raramente sono esposte. Le fratture di bacino possono essere trattate sia per via conservativa che per via chirurgica
e, come riportato in letteratura, il trattamento chirurgico è indicato in pazienti affetti da fratture acetabolari, fratture che interessano segmenti coinvolti nella trasmissione del carico e fratture che riducono più del 50% il diametro del canale pelvico. Molto
spesso nella pratica quotidiana le fratture di bacino vengono invece trattate per via conservativa, anche nel caso in cui esistano
le indicazioni per il trattamento chirurgico. Il motivo di questa tendenza è dovuto in parte alla presunta complessità della tecnica ed in parte alle possibili complicanze legate alla via d’accesso. Bisogna però tenere presente che il trattamento conservativo
può portare allo sviluppo di complicazioni da malconsolidamento che possono interessare gli organi contenuti nel canale pelvico o l’innervazione dell’arto posteriore. Tali complicanze possono obbligare ad interventi di chirurgia ricostruttiva ben più complessi della tecnica prevista per la riduzione.
Obiettivo. Lo scopo di questo lavoro è di valutare quale sia, nella nostra pratica quotidiana, la frequenza di insorgenza di complicanze postoperatorie derivanti da possibili manipolazioni incaute in corso di chirurgia applicando le tecniche di riduzione chirurgica descritte in bibliografia e se questa incidenza sia tale da giustificare la scelta di una terapia di tipo conservativo.
Materiali e metodi. A questo scopo abbiamo condotto uno studio retrospettivo dal 1991 al 2004 ed abbiamo arruolato 33 cani
e 6 gatti affetti da fratture di bacino. Sono stati inclusi nello studio tutti i pazienti sottoposti a trattamento chirurgico entro 3-4
giorni dal trauma e di cui fosse disponibile un follow-up radiologico di almeno un mese. Sono state trattate 23 diastasi sacroiliache, di cui 3 bilaterali, 21 fratture del corpo dell’ileo, di cui 3 bilaterali, 10 fratture acetabolari, di cui una bilaterale, e una
frattura dell’ala dell’ileo. Tutte le fratture considerate sono state trattate con mezzi di osteosintesi interna. Le diastasi sacro-iliache e la frattura dell’ala dell’ileo sono state trattate mediante l’uso di due viti, con o senza compressione, oppure di una vite ed
un filo di Kirschner; le fratture del corpo dell’ileo e quelle acetabolari sono state trattate con l’applicazione di placche da osteosintesi di varia lunghezza e forma.
Risultati. Tutti i pazienti esaminati in questo studio sono stati monitorati nel periodo postoperatorio per eventuali deficit neurologici a carico del tronco nervoso lombosacrale e di tutta l’innervazione dell’arto posteriore. In tutti i pazienti esaminati non
si sono evidenziati deficit neurologici attribuibili a manipolazioni intraoperatorie effettuate durante l’esecuzione della via d’accesso chirurgica o la riduzione e stabilizzazione dei monconi di frattura.
Conclusioni. In base alla nostra esperienza i pazienti che presentano fratture di bacino di varia tipologia possono essere trattati chirurgicamente senza che il rischio di complicazioni postoperatorie sia superiore a quello di analoghe chirurgie ortopediche.
I nostri risultati quindi indicano che, applicando in maniera idonea le tecniche descritte in letteratura, è possibile trattare chirurgicamente tutti i pazienti affetti da fratture di bacino senza che l’incidenza di complicanze postoperatorie possa rappresentare un fattore limitante nella scelta della terapia più appropriata e garantendo la prevenzione di tutte le complicanze da malconsolidamento che porterebbe ad interventi di correzione chirurgica ben più complessi di una riduzione di frattura.
Indirizzo per la corrispondenza:
Barbara Carobbi
Via della Costituzione 10
42025 Cavriago, Reggio Emilia
E-mail: [email protected]
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339
EOSINOFILIA CRONICA IN UN GATTO:
SINDROME IPEREOSINOFILICA O LEUCEMIA EOSINOFILICA CRONICA?
Marco Colaceci MedVet
Libero professionista, Roma
Introduzione. Tre diverse entità cliniche primarie, caratterizzate da un aumento persistente degli eosinofili circolanti, sono riconoscibili nell’uomo: Eosinofilia Ematica Benigna, Sindrome Ipereosinofilica e Leucemia Eosinofilica Cronica. Pochissime
segnalazioni sono disponibili relativamente alla Sindrome Ipereosinofilica ed alla Leucemia Eosinofilica Cronica nel gatto. Scopo della presente comunicazione è di descrivere un caso di marcata eosinofilia cronica in un gatto.
Caso clinico. Tarzan era un gatto Europeo, maschio castrato, di 9 anni e circa 5 kg di peso, che veniva sottoposto a visita clinica per un controllo di routine. Nessun problema veniva riferito dal proprietario. Il gatto era regolarmente trattato con antiparassitari esterni e sverminato ogni 6 mesi. L’esame fisico non evidenziava alterazioni. Gli esami ematologici - che circa 12 mesi
prima erano normali - mostravano invece una grave eosinofilia (50.838/µL; RR 300-1700), aumento marcato dell’ALT
(294UI/L; RR <50) e lieve dell’AST (73 UI/L; RR <40), aumento delle Proteine Totali (8.9 g/dl; RR 5.8-8.0), in particolare delle frazioni globuliniche Alfa1 e Beta. Il gatto risultava negativo alla ricerca degli anticorpi per Fiv e dell’antigene di Felv.
Confermando un successivo prelievo la marcata eosinofilia, il gatto veniva sottoposto ai seguenti accertamenti: Rx addome e
torace (nessuna alterazione), ecoaddome (lieve splenomegalia), ecocardiografia (nessuna alterazione), agoaspirato fegato e milza (infiltrazione eosinofilica), aspirato del Midollo Osseo (iperplasia della filiera eosinofilica), esame sierologico per Filariosi
(negativo) ed esami multipli delle feci (negativi). Tali esami, insieme al quadro clinico asintomatico, consentivano di escludere
le cause di eosinofilia secondaria, restringendo le diagnosi differenziali ad una Sindrome Ipereosinofilica o ad una Leucemia
Eosinofilica Cronica. Il gatto è stato sottoposto inizialmente a terapia corticosteroidea (Prednisolone 10 mg/sid); essendosi di
nuovo rialzata la conta eosinofilica dopo tre mesi (>80.000/µL), è stato aggiunto il Clorambucile (3 mg/q14gg). Tale terapia si
è dimostrata efficace nel controllare la proliferazione eosinofilica per circa 14 mesi, alla fine dei quali il gatto è venuto a morte
per progressiva insufficienza midollare ed epatica. L’autopsia non è stata autorizzata dal proprietario.
Conclusioni. Sia la Sindrome Ipereosinofilica che la Leucemia Eosinofilica Cronica rappresentano rare entità cliniche. La
distinzione tra le due patologie, in assenza di una evidente “crisi blastica”, è quanto mai difficile. Ancor più in Medicina Veterinaria, dove dimostrare la clonalità della proliferazione eosinofilica non è, ad oggi, possibile. È infine da sottolineare, differentemente dalla gran parte dei casi riportati in letteratura, l’eccellente risposta alla terapia combinata, Prednisolone e Clorambucile, ottenuta in questo gatto dall’autore, probabilmente da correlare alla precocità della diagnosi.
Indirizzo per la corrispondenza:
Marco Colaceci
Via Casilina 983/b - 00172 Roma
Tel./Fax 06.2302197
E-mail: [email protected]
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340
EFFETTO DELLA SOMMINISTRAZIONE ORALE DI UN’ASSOCIAZIONE DI CONDROITIN SOLFATO,
GLUCOSAMINA E BIOFLAVONOIDI SUI METABOLITI SINOVIALI DI CANI SOTTOPOSTI
A RICOSTRUZIONE CHIRURGICA DEL LEGAMENTO CROCIATO ANTERIORE:
ANALISI MEDIANTE SPETTROSCOPIA DI RISONANZA MAGNETICA PROTONICA
Antonio Crovace1 Med Vet, Luca Lacitignola1 Med Vet, Alda Miolo2
Dipartimento delle Emergenze e dei Trapianti d’Organi (D.E.T.O.), Sezione di Chirurgia Veterinaria,
Facoltà di Medicina Veterinaria, Università di Bari;
2
Ce.D.I.S. (Centro di Documentazione e Informazione Scientifica) Innovet Italia Srl
1
Introduzione. L’artrosi del cane è prevalentemente secondaria a disordini ortopedici dello sviluppo o ad artropatie su base traumatica, come la rottura del legamento crociato anteriore (LCA). Qualunque sia la sua origine, le viene oggi riconosciuta una
doppia natura, sia degenerativa che ossidativo-infiammatoria1, 2. In funzione di questi presupposti patogenetici, la ricerca si va
recentemente focalizzando sull’identificazione di “marker biologici” di degradazione, infiammazione ed ossidazione, capaci di
facilitare una diagnosi di artrosi il più precoce possibile, di verificarne il grado di gravità e di valutare l’effetto di terapie antiartrosiche. Uno dei più promettenti mezzi analitici oggi a disposizione in tal senso è la spettroscopia di risonanza magnetica protonica (1H-NMR) che, nel cane, si è recentemente dimostrata una tecnica molto valida per misurare contemporaneamente svariati metaboliti presenti nel liquido sinoviale3. In base a questi risultati, si è deciso di testare l’effetto di un condroprotettore
sopradditivo*, così definito perché contenente, oltre a molecole condroprotettive sensu strictu, anche sostanze dotate di proprietà
antinfiammatorie ed antiossidanti.
Scopo. Stabilire l’efficacia della somministrazione orale di un nutraceutico a base di condroitin solfato, glucosamina e bioflavonoidi, mediante il confronto dei valori 1H-NMR di specifici marker sinoviali di cani sottoposti a ricostruzione chirurgica del
LCA e trattati o meno con il nutraceutico oggetto della sperimentazione.
Metodo. Basandosi su specifici criteri di inclusione/esclusione, sono stati inseriti in studio 10 cani, di età variabile tra i 2 e i 5
anni e peso compreso tra 20 e 40 kg. Tutti i soggetti presentavano rottura completa monolaterale del LCA, avvenuta da non più
di 15 gg. dall’arruolamento. Venivano tutti sottoposti, al massimo dopo tre giorni dalla prima visita, ad intervento di ricostruzione con tecnica standard “over the top” e suddivisi in due gruppi di 5 soggetti l’uno. Il primo gruppo riceveva il prodotto in
studio alla dose di 2 cpr/10 kg per 60 gg. Il secondo serviva da controllo non trattato. Alla visita iniziale, e dopo 60 e 90 giorni
dall’inizio dello studio, tutti gli animali venivano sottoposti ad artrocentesi dell’articolazione del ginocchio interessato. I campioni di liquido sinoviale così ottenuti venivano analizzati tramite spettrometria eseguita su spettroscopio Bruker Avance DRX
500, con metodica precedentemente illustrata3. I dati venivano analizzati mediante un test ANOVA a varianza non strutturata.
Risultati. L’andamento di specifici metaboliti (alternativamente marker di uno stato infiammatorio, ossidativo o degenerativo)
è risultato significativamente diverso tra i due gruppi (trattato e non). Nei trattati, in particolare, il lattato (il cui aumento viene
interpretato quale indice di uno stato ipossico/infiammatorio4) rimane significativamente più basso rispetto al gruppo di controllo
(p<0,0001). Il glucosio, viceversa, che è noto diminuire con il procedere dell’artrosi4, al 90mo giorno è più alto nei trattati che
nei controlli, con una differenza di andamento statisticamente molto significativa (p<0,0001). Anche l’alanina, il cui aumento
viene correlato ai danni da stress ossidativo5, resta più bassa nei trattati rispetto ai controlli (p<0,05). Infine, l’andamento nel
tempo dei valori misurati per i gruppi N-acetile (indice indiretto del grado di degradazione cartilaginea) è significativamente
diverso tra i gruppi (p<0,05), con valori più bassi nel gruppo dei trattati.
Conclusioni. È noto che la ricostruzione chirurgica del LCA, pur ripristinando la stabilità articolare, non previene la progressione artrosica, indipendentemente dalla tecnica utilizzata6. I risultati dimostrano che, in caso di rottura del LCA, associare l’utilizzo del prodotto in studio all’intervento ricostruttivo migliora le condizioni dell’ambiente endoarticolare. Si è, infatti, verificato che, rispetto al solo intervento chirurgico, la contemporanea somministrazione orale di un’originale associazione di condroitin solfato, glucosamina e bioflavonoidi modifica positivamente l’andamento di specifici metaboliti sinoviali, considerati
markers di infiammazione, degenerazione ed ossidazione, tipici dell’artrosi del cane.
* Condrostress®Supra, Innovet Italia.
Riferimenti bibliografici
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Miolo A, Mortellaro CM. 2003.Veterinaria; 17(1): 17-33.
Mortellaro CM. 2003. Vet Res Commun; 27 Suppl 1: 75-8.
Crovace A. et al. 2004. Atti 48mo Congr Naz SCIVAC: 466.
Damyanovich AZ. et al. 1999. J Orthop Res; 17(2): 223-31.
Damyanovich AZ. et al. 1999. Osteoarthritis Cartilage; 7(2): 165-72.
Johnson KA. et al. 2001. Am J Vet Res; 62(4): 581-7.
Indirizzo per la corrispondenza:
Antonio Crovace D.E.T.O. - Sezione di Chirurgia Veterinaria
Strada provinciale per Casamassima Km 3 - 70010 Valenzano (Bari)
Tel. 080 4679817 - E-mail: [email protected]
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341
FATTORI DI RISCHIO DI COLONIZZAZIONE BATTERICA DEL CATETERE VENOSO CENTRALE
DEL CANE. ESPERIENZA DI UN CENTRO DI TERAPIA INTENSIVA
Andrea Zatelli DMV, Paola D’Ippolito DMV, Irene Fiore DMV
Clinica Veterinaria Pirani, Reggio Emilia
Introduzione e scopo del lavoro. L’utilizzo dei cateteri venosi centrali è aumentato in medicina umana e veterinaria negli ultimi anni. Essi permettono la somministrazione di agenti farmacologici inclusi chemioterapici, farmaci utilizzati per la rianimazione in terapia intensiva, nutrizione parenterale, così come il monitoraggio della pressione venosa centrale e sono utili come
vie di accesso venoso a lungo termine. Le complicazioni associate all’introduzione del catetere centrale includono quelle associate alla tecnica di inserimento (pneumotorace, emorragia, lesioni dell’esofago, etc.) e quelle legate alla permanenza in situ per
lungo tempo (tromboflebiti, tromboembolismi, contaminazioni del catetere, etc.).
Lo studio, svolto nell’arco di 15 mesi, è stato eseguito allo scopo di determinare la eventuale correlazione tra la contaminazione del catetere venoso centrale e fattori di rischio quali durata della permanenza in sede, tipologia del catetere introdotto, farmaci e fluidi somministrati.
Materiali e metodi. 32 pazienti ricoverati in terapia intensiva sono stati sottoposti a cateterismo centrale mediante incannulazione della vena giugulare. I pazienti, previa tricotomia e disinfezione con soluzione di clorexidina al 4% dell’area giugulare
secondo le regole di asepsi chirurgica, venivano anestetizzati con propofol al dosaggio di 6,5 mg/kg somministrato per via endovenosa ad effetto e mantenuti con boli ripetuti al dosaggio di 1 mg/kg somministrati secondo necessità. Il posizionamento del
catetere avveniva col paziente in decubito laterale ed il catetere veniva inserito mediante guanti sterili. Una volta posizionato, il
catetere veniva lavato con soluzione eparinata e connesso ad una prolunga da 15 cm con rubinetto a 3 vie ed ancorato alla cute
mediante punti di sutura non riassorbibili. La zona di inserzione del catetere veniva ricoperta da pomata di iodopovidone al 10%
e fasciata con bende sterili. Al termine dell’intervento di introduzione del catetere giugulare veniva effettuata una radiografia di
controllo per verificarne il corretto posizionamento. La gestione quotidiana del catetere giugulare prevedeva la visualizzazione
dell’area di inserzione del catetere al fine di valutare la presenza di dolore, calore, eritema, edema, secrezioni e/o aspetti riferibili a sanguinamento, infezioni e tromboflebiti. La zona di inserzione veniva disinfettata con soluzione di clorexidina al 4% e
medicata con fasciatura sterile dopo applicazione di pomata di iodopovidone al 10%. L’utilizzo di farmaci potenzialmente endoteliolesivi quali immunosoppressori, antibiotici e costituenti nutrizione parenterale (glucosio al 33 o 50%, soluzioni di amminoacidi all’8,5%) veniva registrato insieme ai dati relativi alla valutazione visiva della zona di inserzione del catetere su apposita scheda clinica. Il catetere veniva rimosso quando non più necessario, non funzionale o quando vi erano indicazioni cliniche
di dolore, infiammazione, febbre e leucocitosi di origine sconosciuta. Previa rimozione della fasciatura della zona del collo e
disinfezione della zona con garze imbevute di clorexidina al 4%, la rimozione del catetere avveniva ponendo un angolo di 90
gradi per evitare il contatto con la pelle. L’estremità distale del catetere veniva tagliata con forbici sterili per 2 cm di lunghezza
e posta in tampone colturale con terreno di trasporto; i campioni venivano sottoposti ad esame colturale entro 12 ore dalla rimozione.
Risultati e conclusioni. L’esame colturale eseguito sui cateteri giugulari dopo rimozione con tecnica sterile ha rivelato l’assenza di colonizzazione batterica in 30 casi (94%) e la presenza in 2 casi (6%) di sviluppo di Escherichia coli non associato a segni
sistemici di sepsi. Un solo caso era associato a segni di infezione locale (tumefazione, secrezione purulenta), anche se i segni
dell’infezione locale possono non essere presenti anche in corso di infezione massiva del catetere. In entrambi i pazienti era stata somministrata nutrizione parenterale, e questo è stato considerato un fattore predisponente la colonizzazione del catetere. L’uso di antibiotici per via sistemica non è stato in grado di prevenire lo sviluppo di contaminazione del catetere centrale.
L’utilizzo del cateterismo centrale per la somministrazione di farmaci endoteliolesivi, così come per il monitoraggio della pressione venosa centrale o come accesso vascolare a lungo termine è da considerare procedura non priva di rischi legati sia alla fase
di introduzione del catetere che a quella di gestione quotidiana dello stesso. Riteniamo che la standardizzazione della metodica
di introduzione del catetere venoso centrale per gli aspetti relativi all’asepsi ed all’assenza di traumatismi, così come la gestione quotidiana dello stesso ed il controllo clinico del paziente, siano essenziali nel rilevare segni riferibili a colonizzazione batterica del catetere o batteriemia del paziente. La rimozione del catetere si rende necessaria quando tali segni siano stati rilevati
o quando il catetere non sia più utile o funzionante.
Indirizzo per la corrispondenza:
Clinica Veterinaria Pirani
Via Majakowski 2/L,M,N - 42100 Reggio Emilia
E-mail: [email protected]
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342
UN CASO DI MASTOCITOSI VISCERALE
NON INTERESSANTE IL TRATTO GASTROENTERICO E L’APPARATO CUTANEO:
RAPIDITÀ DI DIAGNOSI TRAMITE BIOPSIA CON AGO SOTTILE ECOGUIDATA
Mariangela De Franco, Med Vet
Graziano Allievi, Med Vet
Luca Formaggini, Med Vet
Clinica Veterinaria “Lago Maggiore” - Dormelletto (NO)
Scopo del lavoro. L’utilizzo dell’ecografia, della biopsia con ago sottile e della citologia ambulatoriale per la rapida diagnosi
eziologica di patologia rara quale la mastocitosi viscerale primaria.
Rudy, cane meticcio di piccola taglia maschio di otto anni, fu presentato in pronto soccorso per improvvisi ripetuti episodi di
vomito ematico e anoressia da 12 ore. La visita clinica evidenziava una disidratazione clinica del 7%, normotermia, mucose itteriche, dolorabilità alla palpazione dell’addome, assenza di lesioni cutanee. Un primo screening ematobiochimico rilevava la presenza di leucocitosi con marcata eosinofilia, ipoglicemia, aumento degli enzimi epatici e valori renali nella norma.
Eseguita una ecotomografia addominale, si evidenziava un aumento marcato di volume del fegato con iperecogenicità diffusa,
assenza di lesioni focali, moderata distensione della colecisti e delle vie biliari extraepatiche. La milza, aumentata di volume,
presentava un nodulo ipoecogeno dal diametro di circa due centimetri. Non si evidenziavano alterazioni di morfologia a carico
degli altri organi quali pancreas, reni, linfonodi e apparato gastroenterico.
Previa sedazione del paziente fu eseguita biopsia ecoguidata con ago sottile utilizzando ago spinale a carico del fegato (ripetuti prelievi), milza, reni.
I campioni citologici allestiti sono stati colorati con colorazione rapida Diff Quick.
La lettura a microscopio ottico evidenziava, sia per i campioni epatici che renali e splenici, alta cellularità con popolazione unica di mastociti, riconosciuti come cellule tonde aventi piccoli granuli intracitoplasmatici rosso porpora alcune delle quali rotte
e con granuli liberi sparsi.
Completamente assenti cellule epiteliali epatiche, spleniche e renali nei singoli campioni.
Il cane, vista la gravità del caso, fu sottoposto a eutanasia per volontà del proprietario. Alla necroscopia furono isolati campioni di tessuto splenico, epatico, pancreatico, linfonodale, gastrico e intestinale (digiuno, colon e retto). L’ulteriore esame citologico e istologico confermava la presenza di marcato infiltrato mastocitario a carico dei diversi organi addominali, ma non interessante lo stomaco e i diversi tratti intestinali esaminati. L’esame istopatologico del tessuto epatico evidenziava inoltre un completo scompaginamento del parenchima, con invasione marcata di mastociti neoplastici e sostituzione completa degli epatociti
con questi ultimi, tale da rendere irriconoscibile al microscopio l’organo di appartenenza del campione.
I mastociti sono cellule originanti dal midollo osseo e presenti normalmente a livello cutaneo, delle alte e basse vie respiratorie,
della mucosa e sottomucosa intestinale, degli organi linfoidi e del midollo osseo stesso. La neoplasia originante da tali cellule è
molto frequente nel cane, ma tipicamente si presenta come neoplasia primaria cutanea coinvolgente in seconda istanza, per via
metastatica, organi quali linfonodi, milza, fegato, polmoni, midollo osseo e reni.
Mastocitomi primari non cutanei sono rari e riportati in organi quali la cavità orale, il nasofaringe, linfonodi epatopancreatici e
linfonodi mesenterici craniali, apparato gastroenterico.
Il caso segnalato dagli Autori riferisce una probabile origine della neoplasia a livello di organi quali il fegato, pancreas e reni
non coinvolgente l’apparato gastroenterico.
Le immagini ecografiche degli organi esaminati non sono specifiche di tale patologia, ma l’aumento di volume e l’iperecogenicità diffusa del fegato, paragonabile come ecostruttura alla milza, nonché la presenza di un nodulo a carico di quest’ultimo organo,
ipotizzava la presenza di una patologia infiltrativa a carattere neoplastico, con una probabile identificazione dell’infiltrato con una
semplice biopsia ad ago sottile in organi facilmente aggredibili con tale metodica, quali fegato, milza e rene (corticale).
La mastocitosi sistemica viscerale primaria è una patologia estremamente rara e con prognosi infausta. L’iter diagnostico utilizzato ha permesso una rapida diagnosi tramite l’utilizzo di strumentazioni ambulatoriali e non invasive.
Indirizzo per la corrispondenza:
Mariangela De Franco, c.so Cavour 3, 28040 Dormelletto (NO)
Tel. 0322/243716 - Fax 0322/232756
E-mail: maridefranco@tisc
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343
PARAGANGLIOMA IN UN CANE
1
Barbara Dedola1 DMV; Paolo Aimi1 DMV; Stefano Negri2 DM
Libero professionista, Mantova; 2 Istituto di Anatomia Patologica, Azienda Ospedaliera Carlo Poma, Mantova
Segnalamento ed anamnesi. Lara, un cane Pastore Tedesco femmina sterilizzata di 10 anni, fu condotta alla visita poiché, i proprietari avevano notato che, da due giorni, il cane aveva smesso di alimentarsi e presentava scialorrea associata ad alitosi.
Esame clinico. La visita clinica evidenziava disidratazione ed abbattimento, la palpazione della faringe come pure il tentativo
di aprire la bocca provocavano nell’animale una forte reazione algica. Alla luce di quanto evidenziato clinicamente si procedette, con l’animale in sedazione (medetomidina cloridrato), all’ispezione della bocca e della faringe. A questo livello era incastrato
un frammento osseo di origine alimentare, di ridotte dimensioni, bloccato nel suo passaggio a causa del restringimento del lume
della faringe. Una volta asportato il corpo estraneo, fu possibile apprezzare manualmente la presenza di una massa di discrete
dimensioni collocata dorsalmente all’organo.
Esami strumentali. Vennero eseguiti esami di laboratorio, esame radiografico di testa e collo ed agoaspirati di massa e linfonodi tributari. Emocromo e profilo biochimico risultavano sostanzialmente nella norma. L’esame radiografico confermava la presenza di una
massa di circa 4 x 7 cm, confinante ventralmente con faringe, laringe e trachea e dorsalmente con vertebre cervicali e base cranica
(Foto 1). Gli agoaspirati alla massa vennero eseguiti utilizzando aghi spinali da 23
G per via transcutanea (laterocervicale) e per via transmucosale (attraverso il lume
della faringe); quelli ai linfonodi drenanti vennero eseguiti con normali aghi da 25
G utilizzando la metodica dell’agoinfissione.
Esame citologico. Citologicamente, a piccolo ingrandimento, su sfondo abbondantemente emorragico, erano visibili aggregati cellulari anche di ampie dimensioni e numerosi nuclei nudi (Foto 2). A maggiore ingrandimento, le cellule si presentavano di forma tondeggiante-poligonale con citoplasma da modesto a discreto, di aspetto basofilo finemente granulare. I nuclei erano tondeggianti-ovalari con
cromatina fittamente addensata ed uno o due piccoli nucleoli; discreta anisocariosi (Foto 3, 4, 5, 6, 7). Presenti, come già detto, numerosi nuclei nudi sia singoli sia “ammassati” in piccoli gruppi (Foto 8, 9). I linfonodi presentavano lieve
aumento dei linfoblasti e delle plasmacellule, cellule metastatiche non evidenti.
Foto 1. Rx LL testa-collo.
Foto 2. Quadro citologico, colorazione D.Q. 10x
Foto 3. Quadro citologico, colorazione D.Q. 40x
Foto 4. Quadro citologico, colorazione D.Q. 100x
Foto 5. Quadro citologico, colorazione D.Q. 100x
Foto 6. Quadro citologico, colorazione D.Q. 100x
Foto 7. Quadro citologico, colorazione D.Q. 100x
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344
Diagnosi citologica. Neoplasia Neuroendocrina, linfonodi apparentemente indenni.
Terapia. Alla luce della diagnosi citologica, considerate anche la posizione e le dimensioni della neoplasia, i proprietari rifiutarono ogni eventuale terapia.
Follow-up. Le condizioni dell’animale si conservarono buone per circa nove mesi dopodiché, a causa di un progressivo peggioramento, Lara fu sottoposta ad eutanasia. Avendo i proprietari acconsentito, si poté svolgere l’esame autoptico che permise
di valutare la massa che, evidentemente aumentata di dimensioni, causava per compressione, la chiusura quasi completa del
lume del faringe. In quella sede il tumore venne asportato ed inviato all’esame istologico.
Diagnosi istologica. Neoplasia neuroendocrina maligna tipo paraganglioma (Foto 10, 11); Cromogranina A negativa, Enolasi
Neurone Specifica positiva (Foto 12, 13).
Discussione. I tumori neuroendocrini sono costituiti da cellule che sono proprie sia del sistema nervoso sia del sistema endocrino.
Il termine neuroendocrino si riferisce, quindi, al tipo cellulare dal quale questi tumori originano piuttosto che alla sede di insorgenza. Queste cellule, possono costituire tessuti ghiandolari collocati in strutture anatomicamente definite, come pure possono presentarsi “disperse” in vari organi e tessuti. Le cellule neuroendocrine sono deputate alla sintesi ed alla secrezione di numerosi peptidi, amine e fattori di crescita che regolano con meccanismi endocrini numerose funzioni biologiche. I tumori neuroendocrini presentano un comportamento intermedio tra le due categorie di benigni e maligni; in effetti, pur se potenzialmente in grado di crescere velocemente, hanno, il più delle volte, un decorso molto lento; variabile è pure la tendenza a metastatizzare. Tra i tumori neuroendocrini si trovano anche i paragangliomi, neoplasie che si sviluppano a danno del tessuto paraganglionare, essi sono poco frequenti e nel cane i più comuni hanno sede nei corpi carotidei e nei corpi cardioaortici. La positività a marker immunoistochimici
quali Cromograina A, NSE o sinaptofisina, supporta la diagnosi di neoplasia neuroendocrina in tali casi.
Conclusioni. Il caso da noi presentato ci è apparso interessante sia per la rarità della neoplasia sia perché conferma l’importanza della citologia nella diagnosi di neoplasie solitamente scarsamente descritte nella specie canina.
Bibliografia
Marcato P.S.: Anatomia e istologia patologica speciale dei mammiferi domestici. Ed. agricole, Bologna, 1981.
Bibbo M.: Comprehensive citopathology. W.B. Saunders company, Philadelphia,1997.
Ackerman’s: Surgical pathology. The C.V. Mosby Company, St. Louis, Toronto, Washington, 1989.
Enzinger and Weiss’s: Soft tissue tumors. The C.V. Mosby Company, St. Louis, Toronto, Washington, fourth edition.
Lack E.E., Cubilla A.L., Woodruff J.M. et al.: Paraganglioma of the head and neck region. Cancer 39: 397-409, 1977.
Rangwala A.F., Sylvia L.C., Becker S.M.: Soft tissue metastasis of a chemodectoma. Cancer 42: 2865-2869, 1978.
Indirizzo per la corrispondenza:
Barbara Dedola - Via Levatella 14, 46031 Bagnolo S. Vito (MN) - Tel 0376.415640 348.3651922 - E-mail [email protected]
Foto 8. Quadro citologico, colorazione D.Q. 100x
Foto 9. Quadro citologico, colorazione D.Q. 100x
Foto 10. Quadro istologico, colorazione E.E. 40x
Foto 11. Quadro istologico, colorazione E.E. 100x
Foto 12 - Quadro citologico, colorazione. Cromogranina A 100x.
Foto 13 - Quadro citologico, colorazione N.S.E.
100x.
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CRANIOTOMIA PIEZOELETTRICA NEL CANE E NEL GATTO
Mario Dolera Med Vet, Spec Pat Clin Anim Affez
Libero Professionista, Romanengo (CR)
Introduzione. L’accesso chirurgico alle strutture neurali intracraniche prevede l’esecuzione di craniotomie e/o craniectomie
mediante strumentario manuale (trapani manuali, pinze ossivore, seghe manuali) o motorizzato (frese, craniotomi pneumatici
etc). Ciascuna modalità comporta differenti vantaggi e limiti circa la necessaria precisione richiesta nell’esecuzione di osteotomie neurochirurgiche. Nel presente lavoro vengono descritte le prime esperienze cliniche di craniotomia piezoelettrica mediante strumentario ad ultrasuoni che differisce completamente dalle modalità tradizionali.
Materiali e metodi. 11 pazienti (4 gatti e 7 cani) portatori di patologia intracranica di pertinenza chirurgica (8 meningiomi, 2
traumi cranici, 1 displasia cranio-occipitale) sono stati sottoposti a craniotomia (2 transfrontali allargate monolaterali, 2 transfrontali allargate bilaterali, 6 rostrotentoriali, 1 occipitale) mediante strumentario piezoelettrico1 sviluppato per chirurgia odontostomatologica e maxillo-facciale umana. L’apparecchiatura si compone di differenti inserti per osteotomia e per osteoplastica
connessi ad un manipolo piezoelettrico (ampiezza vibrazioni 60-200 µm, frequenza 29 kHz, potenza d’entrata 2,8-16 W) raffreddati da soluzione salina mediante pompa peristatica. I parametri valutati sono stati: l’evidenza macroscopica intraoperatoria
e funzionale post-chirurgica di danni iatrogeni alle strutture intracraniche attinenti la zona di taglio, la linearità di taglio e la
velocità d’esecuzione della finestra craniotomica.
Risultati. In tutti i pazienti operati è stato possibile eseguire la craniotomia necessaria ad espletare le manualità richieste dalla
clinica. Quando l’osteotomia veniva eseguita utilizzando la massima potenza di taglio, la dieresi riguardava la diploe cranica e
la dura meninge sottostante ed il sollevamento del lembo craniotomico comportava quindi anche l’asportazione della pachimeninge. Nei pazienti portatori di meningioma a base d’impianto durale (5 casi), il completo sollevamento del lembo osteotomico
richiedeva il clivaggio della neoplasia dal neuropilo. Al contrario, l’impiego di basse potenze di taglio consentiva di risparmiare la dura che doveva essere prima scollata in modo da permettere il sollevamento del lembo craniotomico e successivamente
incisa per accedere alla superficie encefalica. Nei punti in cui la direttrice di taglio intercettava il decorso dell’arteria meningea
e del seno venoso sagittale dorsale erano impiegati inserti da osteoplastica. In nessun caso si è avuta evidenza di danni alle strutture neurali riferibili all’impiego dello strumentario piezoelettrico. La linearità di taglio è risultata perfetta, la velocità d’esecuzione della finestra sovrapponibile a quella delle metodiche tradizionali.
Discussione. L’impiego dello strumentario piezolettrico in questione, già oggetto di studi clinici che ne attestano utilità e sicurezza in chirurgia ortopedica e neurochirurgia spinale veterinaria, è risultato particolarmente maneggevole e sicuro nell’esecuzione di craniotomie/craniectomie in pazienti recanti patologie chirurgiche intracraniche. La pachimeninge, pur essendo teoricamente insensibile all’osteotomo ultrasonico, veniva scontinuata alle massime potenze di taglio a causa della tenace connessione con la diploe. Tale evenienza suggerisce l’impiego differenziato delle potenze di taglio e degli inserti così da comprendere nella dieresi, ove indicato dalla tecnica chirurgica, la pachimeninge o risparmiare le strutture vascolari sottostanti.
1
Mectron Piezosurgery®.
Bibliografia
Glass E., Kapatkin A., Vite C., Steinberg S. A modified bilateral transfrontal sinus approach to the canine frontal lobe and olfactory bulb: surgical technique and
five cases. JAAHA 36:43-50, 2000.
Slatter D. (ed). Textbook of small animal surgery. Saunders, Toronto 2003.
Vercellotti T, Crovace A, Palermo A, Molfetta A. The piezoelectric osteotomy in orthopedics: clinical and histological evaluations (Pilot study in animals).
Mediterranean J Surg Med 9:89-96, 2001.
Indirizzo per la corrispondenza:
Mario Dolera, via La Cittadina 1, 26014 Romanengo (CR)
Tel. 339-3516653 - Fax: 0373-72227
E-mail: [email protected]
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346
STUDIO SUGLI ASPETTI GIURIDICI E SULLA RESPONSABILITÀ CIVILE DEL MEDICO VETERINARIO
NELL’AMBITO DELLA VISITA COMPORTAMENTALE DEL CANE AGGRESSIVO
Gruppo regionale SISCA nord-ovest, estensori progetto: Dr. Diego Rendini*, Dr. Franco Fassola*,
Dr. Corrado Aimar, Dr.ssa Claudia Basiletti*, Dr.ssa Francesca Cena*, Dr.ssa Raffaella Tamagnone*, Avv. Valerio Musso**
*Medico Veterinario
**Avvocato civilista in Torino
Nell’espletamento della professione medico veterinaria, una materia di particolare interesse è rappresentata dalle problematiche
giuridiche connesse alla gestione dell’animale nell’ambito della visita comportamentale. La professione del medico veterinario
rientra nell’ambito della più vasta categoria delle libere professioni, ambito in cui il rapporto tra cliente e professionista deve
ritenersi inquadrato nella figura contrattuale del mandato (art. 1703 Cod. Civ.). Il medico veterinario, come del resto qualsiasi
altro professionista, risponde del proprio operato solo per ipotesi di colpa grave. In sostanza, l’obbligazione del medico deve
ritenersi un’obbligazione di mezzi e non di risultato (fatte salve le eccezioni in cui il professionista si impegni espressamente a
raggiungerlo). Non solo, ma tale responsabilità è strettamente vincolata alla dimostrazione, da parte del Cliente “insoddisfatto”,
che il veterinario abbia violato il proprio dovere di diligenza con riferimento all’adeguatezza dei mezzi/strumenti utilizzati.
È bene poi evidenziare che la casistica attuale nulla dice circa la riconducibilità dell’attività comportamentale alle attività “tipiche” del medico veterinario. Occorrerà, pertanto, che nel modulo di conferimento di incarico si preveda un’estensione analogica a tale attività, e ciò al fine di evitare che l’opera comportamentale non sia ricompresa nella normativa generale.
Nell’esercizio del proprio operato, il medico veterinario ha il dovere di informare il Cliente sulle condizioni dell’animale sottoposto a visita e sulle terapie che ha intenzione di adottare. Tale dovere si può concretizzare, nei casi più rilevanti, nella sottoscrizione di un modulo di consenso informato. E tra i casi di maggior rilievo rientrano senza dubbio le ipotesi in cui l’animale presenti sintomi di aggressività, e ciò in quanto, alle problematiche ordinarie di informativa al cliente si aggiungono quelle legate alle
eventuali conseguenze causate da atteggiamenti aggressivi dell’animale nei confronti di terzi. In linea generale, il professionista
non può ritenersi responsabile per danni arrecati a terzi dall’animale sottoposto a terapia. Peraltro, il proprietario potrebbe rivalersi su di esso qualora abbia operato senza la necessaria diligenza. Così, la sottoscrizione di uno scarico di responsabilità serve
ad evitare fastidiose ripercussioni del cliente sull’operato del professionista (comunque, di difficile dimostrazione).
Infine, con riferimento alla normativa sulla privacy, è bene rilevare che l’informativa al cliente è finalizzata a rendere edotto l’interessato dell’identità del titolare del trattamento e della sua organizzazione, delle caratteristiche del trattamento e dei diritti attribuiti al cliente nonché delle modalità per fruirne. Il codice attribuisce all’interessato il diritto all’accesso, all’esattezza dei dati
ed alla legittimità del trattamento. In difetto, l’interessato potrebbe ricorrere al garante (o, alternativamente, al Tribunale) per la
tutela dei propri diritti.
Indirizzo per la corrispondenza:
Franco Fassola
Abit.: C.so XXV Aprile 90 ASTI
Tel. 34872668173
E-mail: [email protected]
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347
UN CASO DI PATOLOGIA IMMUNO-MEDIATA MULTIPLA IN UN CANE
Francesca Fiorio1 Med Vet, Marco Caldin1 Med Vet, Davide De Lorenzi2 Med Vet, SCMPA,
Tommaso Furlanello1 Med Vet, Laia Solano-Gallego1 Med Vet, PhD
1
Libero professionista, Padova
2
Libero professionista, Forlì
Obiettivo. Si descrive l’inusuale presentazione simultanea di tre differenti patologie immuno-mediate di un cane meticcio femmina di dieci mesi di età.
Materiali e metodi. Un cane meticcio, femmina intera di dieci mesi di età, è stato portato alla visita in quanto da dieci giorni
presentava anoressia, depressione e dimagrimento, associati a vomito episodico e diarrea con ematochezia. L’anamnesi indicava che lo stato di malattia era iniziato circa un mese prima con difficoltà nella prensione dell’alimento. All’esame fisico sono
stati rilevati dolore alla palpazione addominale ed atrofia grave con dolorabilità a carico dei muscoli temporali e masseteri. Sono
stati eseguiti esame emocromocitometrico, profilo biochimico, elettroforesi sierica, esame delle urine con sedimento e rapporto
PU/CU e profilo emostatico, accompagnati da indagini radiografiche ed ecografiche della regione addominale.
Risultati e discussione. L’esame emocromocitometrico indicava un quadro infiammatorio aspecifico acuto grave e il profilo biochimico mostrava ipoalbuminemia. L’ecografia addominale ha permesso di individuare un aumentato spessore delle pareti intestinali, suggerendo un’enteropatia grave, associata a linfoadenomegalia meseraica e modesto versamento cavitario. Il dosaggio
di trypsin-like immunoreactivity (TLI), acido folico e vitamina B12 hanno confermato la presenza di una grave enteropatia ed
escluso una concomitante insufficienza pancreatica. Sulla base dei dati ottenuti è stata eseguita una gastroduodenoscopia con
prelievi bioptici e nella stessa sessione anestesiologica è stata inoltre effettuata una biopsia muscolare a livello masseterico. L’esame endoscopico ha evidenziato irregolarità aspecifiche della mucosa intestinale associate a emorragie puntiformi diffuse nella parete di stomaco e intestino. L’esame istologico delle biopsie gastriche ha rivelato una lieve gastrite catarrale, mentre a livello intestinale è stato individuato un quadro di enterite linfoplasmocitaria. La biopsia muscolare indicava miosite prevalentemente
neutrofilica e plasmacellulare, con componente necrotica, presentazione istologica compatibile con miosite dei muscoli masticatori (MMM). Alla luce dei dati raccolti è stata intrapresa una terapia immunosoppressiva composta da prednisone 2 mg/kg
SID e azatioprina 2 mg/kg SID, associata a terapia alimentare appropriata e somministrazione di sucralfato. Essendo l’azatioprina potenzialmente mielosoppressiva, l’animale è stato monitorato tramite emocromi sequenziali a distanza inizialmente di 57 giorni. In corso di terapia è stato riscontrato un quadro di anemia emolitica immuno-mediata (IMHA), che è stata confermata
dal ritrovamento di anticorpi anti-eritrociti attraverso metodica citofluorimetrica. La terapia in corso non è stata modificata successivamente a tale rilievo in quanto lo studio retrospettivo degli emocromi precedenti mostrava che erano già presenti segni parziali di IMHA. I controlli ematologici hanno indicato nelle settimane successive un progressivo ripristino delle condizioni di
normalità di eritrogramma e leucogramma.
Conclusioni. A nostra conoscenza non è mai stata descritta la combinazione di patologie immuno-mediate che il soggetto in
esame ha presentato, del tipo enterite linfoplasmocitaria, MMM e IMHA. Recentemente è stata descritta in medicina umana
un’entità patologica definita “overlap syndrome”1, in cui si assiste ad una miopatia infiammatoria associata ad altre patologie
immuno-mediate, presentazione simile a quella del soggetto descritto. Dopo due mesi dall’inizio della terapia il cane è asintomatico, anche se persiste atrofia dei muscoli masticatori. Viene sottoposto a controlli regolari allo scopo di monitorare eventuali effetti collaterali della terapia immunosoppressiva e individuare eventuali sviluppi di processi immuno-mediati a carico di altri
organi o apparati.
Bibliografia
1. Evans J., Levesque D., Shelton D., 2004. Canine inflammatory myopathies: a clinicopathologic review of 200 cases. J. Vet. Intern. Med. 18, pp. 679-691.
Indirizzo per la corrispondenza:
Francesca Fiorio, Clinica Veterinaria Privata San Marco, via Sorio 114/C 35141 Padova
Tel. 049 8561098 - Fax 02 700 518888
E-mail: [email protected]
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348
IL REMIFENTANIL NELL’ANESTESIA DEL GATTO: 5 CASI
Paolo Franci, DVM, CertVA, MRCVS
Lorenzo Novello, Med Vet, Dipl ESRA Italian Chapter
Animal Health Trust - Newmarket UK
Introduzione. Il remifentanil ha la stessa potenza analgesica del fentanil e come quest’ultimo è una fenilpiperidina. Come tutti gli oppioidi causa una modesta depressione cardiovascolare a fronte di una marcata riduzione della MAC degli anestetici inalatori. La breve emivita, la mancanza d’accumulo e la metabolizzazione extraorganica (avviene tramite esterasi non specifiche
presenti nel plasma e nei tessuti) sono caratteristiche non comuni ad altri analgesici iniettabili.
Obiettivi. Scopo del presente lavoro è analizzare l’incidenza degli effetti collaterali attribuibili all’uso del remifentanil nel gatto nella pratica clinica. I dati raccolti in questo lavoro costituiscono la base per uno studio di più larga scala.
Materiali e metodi. Il presente studio retrospettivo prende in esame anestesie generali comprendenti l’uso di remifentanil nel
gatto, condotte dagli autori al “Animal Healt Trust” - Lanwades Park, Kentford, Newmarket, Suffolk UK nel periodo Novembre
2003 - Maggio 2004. I risultati sono tratti dalle cartelle anestesiologiche e dalle schede di ricovero fino a 3h dopo la fine della
somministrazione del remifentanil. Qualsiasi riferimento all’insorgenza d’eccitazione, bradicardia/tachicardia, ipotensione/ipertensione, apnea e/o depressione respiratoria ed eccessiva sedazione è stato riportato in questo studio. Per eccitazione è stato considerato qualsiasi comportamento di ipercinesi, atteggiamento ansioso, reazioni di fuga o di attacco non pre-esistenti all’intervento farmacologico. Per ipotensione è stata considerata una pressione sistolica inferiore a 80 mmHg o una pressione media
inferiore 60 mmHg. In ogni paziente la pressione è stata monitorata con metodo oscillometrico o con doppler. Per depressione
respiratoria è stata considerata l’incapacita di mantenere la concentrazione di anidride carbonica a fine espirazione (ETCO2)
inferiore a 6 kPa (45 mmHg) nel gatto anestetizzato e l’incapacità di mantenere la saturazione arteriosa superiore al 90% in un
gatto cosciente che respira aria ambiente. Come bradicardia è stata considerata una frequenza inferiore a 70 bpm. Come tachicardia è stata considerata una frequenza cardiaca superiore a 160 bpm nel paziente anestetizzato e 200 bpm nel paziente cosciente. Solo i gatti sottoposti a visita clinica preanestesiologica da parte di un anestesista sono stati inclusi in questo studio. Ipotensione e/o depressione respiratoria e/o bradicardia per più di 10 min dal termine dell’erogazione dell’anestetico oppure un paziente non estubabile dopo 30’ dal medesimo istante è stata considerata sedazione eccessiva. Tutti questi cinque casi hanno ricevuto metadone 0,2 mg/kg-1 IM o morfina 0,1 mg/kg-1 IV in premedicazione o dopo l’induzione o/e a fine intervento, con lo scopo
di conferire una copertura analgesica continua. L’anestesia è stata indotta con propofol (dose media 5,7 mg/kg SD +/- 1,8) e
mantenuta, dopo intubazione oro-tracheale, con isoflurano in ossigeno e remifentanil in infusione a dosi variabili fra 0,1 e 0,5
mcg/kg-1min-1 per tempi variabili dai 30 ai 120 minuti.
Risultati. Cinque gatti (3 maschi sterilizzati, 2 femmine sterilizzate) sono stati portati al “Animal Healt Trust” per differenti procedure (1 biopsia nasale; 1 biopsia muscolare, 1 chirurgia oculare, 1 emilaminectomia e 1 laparatomia esplorativa). L’età media
è di 9,1 anni (SD +/- 3,3). Il peso medio 3,9 kg (SD +/- 1,2). Gatti domestici a pelo corto (3), un burmese, un devon rex. La
durata media delle procedure è stata 85 minuti (SD +/- 43). In cinque casi su cinque si è riscontrata apnea durante la somministrazione di remifentanil. Non sono stati riscontrati altri effetti indesiderabili, fra quelli indagati in questo studio, riconducibili
all’uso di remifentanil. La corretta ventilazione è stata garantita tramite IPPV in tutti i casi.
Discussione. La depressione respiratoria è un effetto comune a tutte le specie quando si somministrano gli oppioidi, ed è tanto
più marcata quanto più si usino farmaci potenti come il remifentanil. Probabilmente la rapida metabolizzazione di questo farmaco ha consentito, in tutti i casi, una veloce ripresa della funzione respiratoria efficiente nel post-operatorio. Il remifentanil ha
permesso un eccellente controllo dello stimolo chirurgico nel periodo intra-operatorio.
Conclusione. In questo studio l’uso di remifentanil in cinque gatti non ha prodotto eccitazione, bradicardia /tachicardia, ipotensione/ipertensione o eccessiva sedazione in misura rilevabile. Tutti i gatti hanno manifestato depressione respiratoria durante l’infusione del farmaco, che si è risolta entro 10’ dalla fine della somministrazione. Ai dosaggi e per i tempi riportati in questo lavoro il remifentanil produce gli stessi effetti collaterali rilevati in altre specie. Altri studi sono necessari per confermare
questi risultati.
Indirizzo per corrispondenza:
Paolo Franci Dept. of Anaesthesia CSAS Animal Health Trust - Newmarket UK
Lanwades Park, Kentford, Newmarket, Suffolk, CB8 7UU
E-mail: [email protected]
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349
L’ALFENTANIL NELL’ANESTESIA DEL GATTO: 16 CASI
Paolo Franci, DVM, CertVA, MRCVS
Lorenzo Novello, Med Vet, Dipl ESRA Italian Chapter
Animal Health Trust - Newmarket UK
Introduzione. Scopo del presente lavoro è analizzare l’incidenza degli effetti collaterali attribuibili all’alfentanil nella pratica
clinica. Questo oppioide sintetico è un anilinopiperidina come il fentanil e come quest’ultimo è un potente analgesico, la cui farmacocinetica è stata studiata sia nel cane che nel gatto. Come tutti gli oppioidi causa una modesta depressione cardiovascolare
a fronte di una marcata riduzione della MAC degli anestetici inalatori. Il suo rapido on set time, la breve emivita e quindi la scarsa tendenza all’accumulo, lo rendono particolarmente adatto all’uso in procedure brevi o in somministrazione endovenosa continua (CRI) durante procedure di lunga durata.
L’uso degli oppioidi nel gatto è stato un argomento molto dibattuto, ma in questi ultimi quindici anni sono comparse pubblicazioni, che hanno chiarito come, gli effetti prodotti dal loro uso in questa specie, non differiscano in maniera sostanziale da quelli prodotti in altre specie.
Materiali e metodi. Il presente studio retrospettivo prende in esame anestesie generali comprendenti l’uso di alfentanil nel gatto, condotte dagli autori al xxx nel periodo Gennaio 2003 - Maggio 2004. Il presente lavoro è mirato all’individuazione di possibili effetti indesiderabili correlati all’uso di questo oppioide e la valutazione della loro incidenza nel periodo perioperatorio. I
risultati sono tratti dallo studio sia dai record di anestesia sia delle schede di ricovero fino a 3h dopo la fine dell’anestesia. Qualsiasi riferimento all’insorgenza di eccitazione, bradicardia/tachicardia, ipotensione/ipertensione, apnea e/o depressione respiratoria ed eccessiva sedazione è stata riportata in questo studio.
Risultati. Sedici gatti (9 maschi sterilizzati, 6 femmine sterilizzate ed una intera) sono stati portati al xxx per differenti procedure (10 procedure minori come radiografie, risonanza magnetica, biopsie; 3 chirurgie oculari e 3 chirurgie maggiori). L’età
media è risultata di 6,1 anni (SD +/- 4,3). Il peso medio 4,1 kg (SD +/- 0,66). Gatti domestici a pelo corto (11), gatti domestici
a pelo lungo (2), siamese (1), maincoon (1) e british shorthair (1). La durata media delle procedure è stata 64 minuti (SD +/- 32
minuti).
Discussione. I risultati di questo studio retrospettivo mostrano che l’uso dell’alfentanil nel gatto può essere associato a depressione respiratoria. L’incidenza di altri effetti collaterali è risultata occasionale e non riferibile all’uso di alfentanil. Il campione
studiato sembra ben rappresentare per età, situazione clinica e classe di rischio una normale popolazione felina di una “referral
practise”.
La depressione respiratoria è un effetto comune a tutte le specie quando si somministrano gli oppioidi, ed è tanto più marcata
quanto si usino farmaci potenti come fentanil o alfentanil. Come era logico attendersi l’induzione è risultata la fase più critica
da questo punto di vista, perché alla depressione del drive respiratorio prodotta dall’oppioide si è aggiunta quella prodotta dall’induttore. Comunque, dopo singolo bolo, la rapida metabolizzazione di questo farmaco ha permesso in tutti i casi una veloce
ripresa di una respirazione spontanea efficiente. In questi casi la ventilazione doveva essere supportata (manualmente o meccanicamente) per un breve periodo, mentre per chirurgie prolungate, dove l’alfentanil è stato somministrato in infusione continua,
il paziente è stato ventilato per tutta la durata dell’anestesia. Nel post-operatorio non sono stati riscontrati periodi superiori ai
dieci minuti di depressione respiratoria dopo infusioni di quasi due ore.
Conclusione: In questo studio l’uso dell’alfentanil in sedici gatti non ha prodotto eccitazione, bradicardia/tachicardia, ipotensione/ipertensione, eccessiva sedazione in misura clinicamente rilevante. Dodici gatti hanno manifestato depressione respiratoria dopo l’induzione e 4 su sei dopo bolo durante l’anestesia. La depressione respiratoria è stata transitoria e facilmente controllabile tramite IPPV.
Indirizzo per corrispondenza:
Paolo Franci Dept. of Anaesthesia CSAS Animal Health Trust - Newmarket UK
Lanwades Park, Kentford, Newmarket, Suffolk, CB8 7UU
E-mail: [email protected]
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350
TECNICA DEL CAVIGLIOTTO NEL TRATTAMENTO DELLA LUSSAZIONE TRAUMATICA
DELL’ANCA DEL GATTO: LA NOSTRA ESPERIENZA IN 15 CASI
Raffaele Gilardini DMV; Annalisa Beghelli DMV
Liberi professionisti - Voghera
Introduzione. La lussazione traumatica dell’anca nel cane e nel gatto è causata frequentemente da traumi da investimento. Solitamente la lussazione della testa femorale è cranio-dorsale (85% dei casi) ma può essere anche ventrale o caudo-dorsale; si associa a lesioni più o meno gravi dei tessuti molli, ma in tutti i casi è presente la rottura completa del legamento rotondo e la rottura parziale o totale della capsula articolare. In alcuni casi si assiste a fratture del bordo acetabolare o di porzioni della testa
femorale come nel caso dell’avulsione della porzione ossea su cui si inserisce il legamento rotondo. Da un punto di vista clinico la lussazione dell’anca provoca un disturbo funzionale grave e se non trattata può esitare in una neoartrosi che non sempre
garantisce una funzionalità soddisfacente. Il trattamento ha come obiettivo la riduzione della lussazione e la successiva stabilizzazione, al fine di permettere una guarigione dei tessuti molli ed il raggiungimento di una funzione normale dell’articolazione.
I casi recenti (avvenuti da non più di tre o quattro giorni) possono essere trattati a cielo chiuso mentre i casi cronici o quelli con
gravi danni ai tessuti periarticolari richiedono un trattamento chirurgico. Il mantenimento della riduzione viene poi attuato o con
bendaggi contenitivi dell’arto o con mezzi di fissazione supplementari. Le tecniche chirurgiche per il trattamento della lussazione coxo-femorale descritte in letteratura sono diverse e molte sono state utilizzate anche da parte nostra.
Lo scopo del seguente lavoro è descrivere l’applicazione della tecnica del “cavigliotto” in 14 gatti e presentare i risultati.
Materiali e metodi. I 14 gatti di cui 9 maschi e 5 femmine, di età compresa tra i 7 mesi ed i 10 anni, avevano subito lussazione
traumatica di anca e sono stati trattati in tempi variabili da 1 a 22 giorni dopo il trauma. Sei soggetti avevano avuto una recidiva
della lussazione di anca dopo una prima riduzione a cielo chiuso e bendaggio contenitivo dell’arto, un altro soggetto una recidiva dopo riduzione incruenta e stabilizzazione dell’anca con fissatore esterno. La tecnica prevedeva un accesso caudo-laterale
all’articolazione coxo-femorale con rimozione dei coaguli, l’esecuzione di un tunnel dalla fovea capitis alla porzione laterale del
grande trocantere ed un secondo tunnel con direzione cranio caudale appena sotto la sommità del trocantere, l’esecuzione di un
foro al centro della fossa acetabolare dove veniva poi inserito un cavigliotto preparato in precedenza con un filo di Kirschner da
1 mm e legato ad un filo doppio di Polidiossanone (n. 0). Il cavigliotto si ancorava alla corticale mediale dell’acetabolo solo esercitando una trazione sul filo che a questo punto veniva inserito nel tunnel osseo della testa. Uno dei due capi del filo dopo essere
stato inserito nel secondo tunnel veniva annodato, dopo modica tensione, all’altro capo. Quando possibile la capsula articolare
veniva suturata con materiale assorbibile e venivano ricostruiti i piani tissutali sovrastanti. Dopo il controllo radiografico postoperatorio i gatti sono stati svegliati e dimessi con suggerimento di movimento controllato. Sono stati eseguiti 2 controlli clinici
nel mese successivo la chirurgia e solo in tre soggetti un controllo radiografico in tempi variabili da 3 mesi a 3 anni.
Risultati. Un solo soggetto ha presentato rottura dell’impianto 10 giorni dopo la chirurgia ed è stato operato di nuovo con la
stessa tecnica, tutti gli altri soggetti ad un mese dalla chirurgia hanno acquistato la completa funzionalità dell’arto. I tre soggetti sottoposti ad esame radiografico anche a distanza di anni non hanno manifestato segni di degenerazione a carico dell’articolazione. Tutti i soggetti sono rimasti asintomatici per tutto il periodo di osservazione.
Conclusioni. La fissazione dell’articolazione coxo-femorale mediante la tecnica del cavigliotto dopo la riduzione della lussazione traumatica si è manifestata per noi utile nel gatto, vista la frequenza di recidive con trattamento incruento, affidabile per
il basso numero di recidive (1/15) e per l’assenza di complicazioni.
Indirizzo per la corrispondenza:
Raffaele Gilardini
Clinica Veterinaria “ Città di Voghera “
Via Cappelletta 2- 27058 - VOGHERA (PV)
Tel./Fax: 0383367226
E-mail: [email protected]
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351
SALVATAGGIO DELL’ARTO AFFETTO DA OSTEOSARCOMA
CON TRASPORTO OSSEO E CARBOPLATINO IN CANI DI TAGLIA GIGANTE: 2 CASI
Salvatore Maugeri Med Vet, Paola Leonardi Med Vet,
Chiara Rossini Med Vet, Francesco Carrani Med Vet
Liberi professionisti Cascina (Pi)
Scopo. Lo scopo della descrizione di questi casi clinici è quello di valutare i risultati che è possibile ottenere abbinando la tecnica dell’osteogenesi per distrazione mediante trasporto osseo e la chemioterapia con Carboplatino, per il trattamento dell’osteosarcoma del radio distale in cani di taglia gigante.
Metodo. Questo tipo di trattamento è stato eseguito in un cane di razza San Bernardo, maschio di 7 anni, del peso di 70 kg e in
un cane di razza Pastore Maremmano, maschio di 11 anni di 56 kg di peso.
I due pazienti sono stati portati alla visita clinica per una zoppia a carico dell’arto anteriore sinistro ed entrambi presentavano
una tumefazione di notevoli dimensioni a livello della zona meta-epifisaria distale di radio dello stesso arto. La radiografia dell’avambraccio ha evidenziato alterazioni miste di lisi e proliferazioni ossee sulla porzione distale del radio con tumefazione dei
tessuti molli. L’esame radiografico del torace nelle tre proiezioni (LLsx e dx, DV), dell’intera colonna e l’ecografia addominale non hanno messo in evidenza segni di metastasi. L’esame citologico eseguito con ago fine e la biopsia ossea hanno diagnosticato un osteosarcoma. Il piano terapeutico ha incluso una seduta chirurgica in anestesia generale, per la rimozione del tumore e l’applicazione di un fissatore esterno circolare, l’osteogenesi per distrazione mediante trasporto osseo (BTO) e chemioterapia adiuvante con Carboplatino. Nei pazienti in anestesia gassosa, l’intervento è consistito nell’isolamento e l’asportazione in
blocco di 150 mm in un caso e 140 mm nell’altro, della porzione distale di radio e ulna. L’osteotomia prossimale è stata eseguita a 3 cm al di sopra del margine tumorale radiograficamente visibile. Il fissatore esterno circolare costituito da 5 anelli di
120 mm di diametro (4 anelli interi e un anello aperto 3/4) connessi tra loro da barre filettate (3 barre da 120 mm, 3 barre 60 mm,
3 barre 40 mm) è stato assemblato il giorno precedente sulla base di un calco della radiografia dell’arto controlaterale sano
(proiezione mediolaterale) e montato sull’arto dopo l’asportazione del tumore. L’impianto definitivo misura 37cm per il San
Bernardo e 34 cm per il Pastore Maremmano. Il trasporto osseo mediante l’anello centrale è iniziato 48 ore dopo l’intervento.
La velocità di distrazione è stata per il San Bernardo di 1 mm suddiviso in 3 distrazioni giornaliere e poi incrementata a 1,6 mm
dopo 4 settimane per la precoce saldatura del segmento di trasporto al moncone osseo prossimale; per il Pastore Maremmano la
velocità di trasporto è stata di 1,6 mm all’inizio e portata a 2,2 mm dopo una settimana sempre suddivisa in 3 distrazioni giornaliere. L’esame istologico ha confermato la diagnosi e i bordi di escissione sono risultati puliti. I pazienti sono stati sottoposti
a 4 sedute di chemioterapia con Carboplatino; la prima ad una settimana dall’intervento, le altre a distanza di 21 giorni l’una
dall’altra. Entrambi hanno ben tollerato la terapia senza interferenza sulla formazione del rigenerato osseo. A circa 4 mesi dal
primo intervento è finita la fase di trasporto ed iniziata quella di compressione. Nel primo caso (S. Bernardo) la fase di compressione è terminata a 10 mesi dall’intervento e seguita da panartrodesi carpica. A 23 mesi dalla diagnosi è comparsa una massa polmonare (diagnosi: osteosarcoma a crescita lenta) e a 28 mesi il cane è deceduto. Nel secondo caso (Pastore Maremmano)
la fase di compressione è stata interrotta (4 mesi e 3 settimane dal primo intervento) e l’impianto rimosso, per la comparsa di
una recidiva allo stesso livello e di metastasi polmonari. Il cane è stato sostenuto con terapia palliativa ed è stato soppresso 4
settimane più tardi.
Risultati. I risultati sono stati ampiamente soddisfacenti nel primo caso (tempo di sopravvivenza di 28 mesi dalla diagnosi con
completo caricamento dell’arto. Nel secondo caso il trasporto osseo e il caricamento dell’arto sono stati eccellenti. Il tempo di
sopravvivenza è stato di 6 mesi dalla diagnosi (la media di sopravvivenza riportata in letteratura è di 11 mesi); l’amputazione
non è stata proponibile.
Conclusioni. L’osteogenesi per distrazione è una tecnica alternativa all’amputazione (spesso non accettata dal proprietario),
alla radioterapia, al trapianto allografico e
alla chemioterapia, in associazione o
come trattamenti singoli. Il salvataggio
dell’arto mediante trasporto osseo è una
procedura complessa che se supportata da
una diagnosi precoce e quindi da un rapido intervento e associata a chemioterapia,
permette di dare ai cani di grossa taglia
una buona qualità di vita.
Indirizzo per la corrispondenza:
Paola Leonardi, Via Jacopo Sgarallino n° 80- 57122, Livorno
Tel. 0586/422619 - Cell. 393/0324673
E-mail: [email protected]
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352
UN CASO DI ROGNA NOTOEDRICA IN UN CANE
Federico Leone, Med Vet
Libero professionista, Senigallia (Ancona)
La rogna notoedrica è una malattia cutanea parassitaria contagiosa e pruriginosa del gatto sostenuta dall’acaro psoroptico Notoedres cati.
Segnalamento. Cane meticcio maschio di 8 anni.
Anamnesi. Da circa un mese il proprietario aveva notato un progressivo prurito a localizzazione facciale. Durante questo periodo il cane era stato trattato con brevi cicli di cefalessina e prednisone con modesto miglioramento della sintomatologia. Il cane
viveva in una casa con giardino, senza altri animali, con l’abitudine di allontanarsi per qualche ora durante la giornata. Era alimentato con una dieta esclusivamente commerciale, risultava regolarmente vaccinato mentre la profilassi contro le pulci veniva
eseguita non costantemente.
Esame clinico. L’esame obiettivo generale risultò nella norma mentre all’esame dermatologico le lesioni apparivano localizzate a livello facciale. In particolare era possibile evidenziare eritema, alopecia, scaglie e croste. Un attento esame del resto del
corpo non evidenziava altre lesioni.
Quadro riassuntivo del problema. Dermatite pruriginosa eritematoso-crostosa con scaglie ed alopecia a localizzazione esclusivamente facciale.
Diagnosi differenziali. Ectoparassitosi (soprattutto rogna sarcoptica), malattie allergiche, linfoma epiteliotropo.
Esami collaterali. Vennero eseguiti raschiati cutanei multipli che evidenziarono la presenza di numerosi acari che per le caratteristiche morfologiche furono identificati come appartenenti al genere Notoedres.
Diagnosi. Rogna notoedrica
Terapia. Selamectina spot-on alla dose di 6 mg/kg per due volte a distanza di un mese; prednisone (0.5 mg/kg/die per 5 giorni).
Evoluzione clinica. A due settimane di distanza dall’inizio della terapia si osservava una netta diminuzione della sintomatologia pruriginosa con miglioramento del quadro clinico. I raschiati cutanei risultavano negativi. A trenta giorni veniva ripetuto il
trattamento con selamectina e il cane non presentava prurito, le lesioni apparivano regredite e i raschiati cutanei risultavano negativi. Nessuna recidiva veniva segnalata nei tre mesi seguenti.
Discussione. Oltre che nel gatto la rogna notoedrica è descritta in altri felidi e in numerosi mammiferi. Il cane viene spesso citato come possibile specie colpita ma nessun caso inerente questa specie è descritto, a nostra conoscenza, in letteratura per cui si
tratta della prima segnalazione a riguardo. È plausibile che il soggetto abbia contratto la malattia entrando in contatto con una
colonia felina. Nelle Marche, sia nelle zone urbane che extraurbane, il vagabondare dei gatti è un fenomeno abbastanza frequente. Questo potrebbe favorire nelle colonie feline il persistere della malattia che risulta al contrario assente in altre zone d’Italia e d’Europa.
Bibliografia
Leone F, Albanese F, Fileccia I: La gale notoédrique du chat: à propos de 22 cas. Prat Méd Chir Anim Comp 38: 421-427 (2003).
Scott DW, Miller WH, Griffin CE: Feline scabies. In Muller and Kirk’s Small Animal Dermatology, six edition. WB Saunders, Philadelphia, 483-484 (2001).
Indirizzo per la corrispondenza:
Federico Leone
Clinica Veterinaria Adriatica
SS Adriatica Nord 50/1-2
60019 Senigallia (AN)
Telefax: 071.66.10.072
E-mail: [email protected]
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353
MALATTIA GLOMERULOCISTICA IN UN ALANO
Luca Lideo1 Med Vet, Roberto Milan1 Med Vet, Giuliana Bonetti1 Med Vet, Paola D’Ippolito2 Med Vet,
Andrea Zatelli2 Med Vet, Ermenegildo Baroni1 Med Vet
1
Clinica Veterinaria Baroni, Rovigo
2
Clinica Veterinaria Pirani, Reggio Emilia
Introduzione. La malattia glomerulocistica è stata descritta per la prima volta nel 1976, ed è caratterizzata istologicamente da
dilatazione cistica dello spazio di Bowman e da atrofia della superficie glomerulare. In medicina umana, la malattia glomeruolocistica è una rara condizione patologica osservata prevalentemente nei neonati e nei bambini, sebbene venga occasionalmente individuata nei giovani e negli adulti. Clinicamente sono state individuate tre varianti della malattia glomerulocistica: 1) primaria (ereditaria), 2) associata a displasia renale e 3) associata a malformazioni; tra queste ci sono la displasia renale e retinica,
la glomerulonefrite, l’epatoblastoma, l’ipotiroidismo, la sindrome emolitica uremica, la sindrome nefrosica, le patologie mitocondriali ed il lupus eritematoso sistemico.
La patologia glomerulocistica è un evento eccezionale nelle specie domestiche ed è stata diagnosticata solamente in alcune razze di cani tra cui il pastore tedesco, il boxer, il pastore belga malinois, il viszla. Scopo di questo lavoro è quello di segnalare il
primo caso di malattia glomerulocistica osservata nell’alano.
Materiali e metodi. Un alano femmina di 16 mesi e del peso di 65 kg è stato visitato per congiuntivite bilaterale. Alla visita clinica, il paziente si presentava normotermico, le mucose erano pallide ed asciutte ed il pelo era opaco. Alla palpazione addominale i reni presentavano una riduzione delle dimensioni. Il grado di disidratazione è stato stimato attorno all’8%. Inoltre il cane
presentava un aumento della pressione sistemica (200/105 mmHg). Al proprietario sono stati proposti gli esami di base completi
che non sono stati inizialmente accettati. A distanza di 20 giorni il cane è stato ripresentato per anoressia/disoressia e per poliuria/polidipsia. All’esame fisico il cane mostrava una riduzione del peso pari al 20%, l’emocromo indicava una grave anemia normocitica normocromica (ematocrito pari al 19,6%) ed una lieve leucopenia (5100 cells/mcl). Il profilo biochimico rivelava una
grave azotemia (366 mg/dl), ipercreatininemia (9.19 mg/dl), iperfosfatemia (22.52 mg/dl), ed aumento dell’amilasi (2562 U/lt).
L’elettroforesi sierica presentava un moderato aumento della frazione beta delle globuline (26.5%). All’ecografia addominale
entrambi i reni apparivano ridotti di dimensioni, era presente una diffusa iperecogenicità del parenchima ed una scarsa distinzione cortico-midollare. La pelvi renale appariva dilatata in entrambi i reni. L’esame delle urine, prelevate per cistocentesi, rilevava proteinuria con rapporto PU/CU pari a 3,2 e diminuzione del peso specifico. Dopo aver valutato la normale funzionalità
coagulativa, si è quindi deciso per un prelievo bioptico ecoguidato per via transcutanea al solo scopo diagnostico. Il campione
ottenuto è stato colorato con ematossilina-eosina, PAS, tricromica di Goldner, metenamina e PTAH.
Il referto istologico descriveva la presenza di 23 strutture glomerulari. Tutti i glomeruli presentavano lo spazio urinifero dilatato ed il flocculo completamente assente o rappresentato da poche anse capillari coartate, con membrane basali ispessite ed aree
di proliferazione mesangiale, con sclerosi. Solo in tre glomeruli il flocculo era conservato, anche se a struttura alterata per la
presenza di proliferazione mesangiale globale. Nell’interstizio venivano descritte piccole aree di fibrosi, in corrispondenza delle quali i tubuli erano atrofici. Le strutture vascolari non presentavano alterazioni. Il quadro istologico era compatibile con la
malattia glomerulocistica.
Dopo pochi giorni il cane si presentava in gravi condizioni cliniche con anoressia, disidratazione ed aumento dell’azotemia, della creatinina e del fosforo. Il cane è stato quindi sottoposto ad eutanasia.
Discussione. Sebbene la malattia glomerulocistica sia una condizione patologica rara, la nostra esperienza e quella di altri colleghi indica che dovrebbe essere considerata nelle diagnosi differenziali di giovani pazienti che manifestano insufficienza renale e che dovrebbe essere considerata anche in razze in cui fin’ora non è stata descritta, come l’alano. Inoltre, l’assenza di cisti
visibili ecograficamente non permette una valida interpretazione diagnostica se non viene eseguita una biopsia a conferma del
sospetto diagnostico.
Per capire quanto possa incidere la componente familiare nella trasmissione della malattia, nel prossimo periodo ci siamo riproposti di eseguire dei controlli sui genitori e sui fratelli del nostro paziente.
Indirizzo per corrispondenza:
Luca Lideo
Clinica Veterinaria Baroni, via Martiri di Belfiore 69/D - 45100 Rovigo
Tel. 0425 471076 - Fax 0425404918
E-mail: [email protected]
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354
IDENTIFICAZIONE DI PAPILLOMAVIRUS IN SEZIONI DI TESSUTO TRAMITE PCR
Carlo Masserdotti Med Vet, Isabella Taboni Bio Tec, Alessandra Tosini Med Vet
Laboratorio Biodiversity, Brescia
Introduzione. Il papilloma è una neoformazione cutanea esofitica eziologicamente classificata in papilloma virale, determinata da un’infezione da papillomavirus e papilloma idiopatico. L’identificazione dell’origine virale del papilloma è resa talora difficoltosa dall’assenza di alterazioni microscopiche suggestive, quali la presenza di granuli giganti di cheratoialina, la presenza
di coilociti, ossia cheratinociti recanti nuclei picnotici, eccentrici, circondati da un alone chiaro ed il riconoscimento di inclusi
virali nucleari. La ricerca di papillomavirus tramite PCR eseguita direttamente sul tessuto fissato in formalina o incluso in paraffina fornisce un mezzo diagnostico supplementare per il riconoscimento dell’agente responsabile.
Materiali e metodi. Due neoformazioni cutanee ed una della mucosa orale, con aspetto verrucoso a sviluppo esofitico sono state asportate chirurgicamente da tre cani. Ognuna delle tre neoformazioni è stata fissata in formalina tamponata al 10% e conseguentemente inclusa in paraffina, secondo metodiche standard di processazione per campioni istologici; da ogni incluso sono
state ottenute sezioni di 3 µm, colorate con Ematossilina-Eosina (H&E) e sottoposte ad indagine microscopica. I campioni istologici inclusi in paraffina sopra descritti sono stati poi sottoposti all’estrazione di materiale nucleare utilizzando un kit commerciale, previa digestione degli stessi condotta overnight in un buffer contenente proteinasi K e lisozima. Quale target per l’amplificazione è stata identificata la proteina virale L1 (proteina capsidica) ed a seguito dell’analisi bioinformatica delle sequenze
presenti in banca dati (PubMed) sono stati disegnati due primers amplificanti un frammento di 401 bp. La reazione di PCR è
stata eseguita in un volume finale di 50 µl di una miscela 3 mM di MgCl2, 200 µM di dNTPs, 2,5 U di Taq e 0,5 µM di ciascun
primer, utilizzando un termociclatore ThermoHybaid su cui è stato impostato il seguente profilo termico: 94°C per 5 minuti,
seguiti da 40 cicli di 30 secondi a 94°C, 30 secondi a 55°C e 30 secondi a 72°C ed un’estensione finale di 5 minuti a 72°C. I
frammenti amplificati sono stati poi fatti correre per 30 minuti a 70 V su un gel di agarosio al 2% unitamente ad un marcatore
da 100 bp e successivamente visualizzati con luce UV. Per confermare la specificità del metodo utilizzato, in parallelo sono stati processati ed amplificati campioni con caratteristiche simili a quelli sopradescritti e più precisamente una neoformazione del
condotto uditivo esterno e due noduli cutanei.
Risultati. È stata emessa diagnosi istopatologica di papilloma di probabile origine virale per ciascuna delle tre neoformazioni:
i caratteri microscopici evidenziavano la presenza di proiezioni epidermiche ad asse fibroconnettivale, delimitate da multilinea
di cheratinociti in maturazione squamosa superficiale, in presenza di granuli giganti di cheratoialina; in due dei tre campioni
sono stati individuati elementi cellulari riferibili a coilociti. In uno dei tre campioni era presente un moderato infiltrato flogistico di tipo linfoplasmocellulare localizzato nel derma sottostante. L’amplificazione della proteina virale L1 tramite PCR ha permesso di confermare la natura virale delle neoformazioni sospette. I rimanenti campioni istologici processati in parallelo sono
stati diagnosticati come epitelioma sebaceo, fibropapilloma con flogosi secondaria e come fibropapilloma squamoso, mentre la
ricerca della proteina virale è risultata negativa.
Commento. I casi esaminati in questo studio hanno stabilito un parallelo tra la morfologia microscopica delle neoformazioni e
la loro positività alla presenza del genoma virale. Indagini ulteriori sono necessarie per associare l’identificazione di papillomavirus alla morfologia istologica delle lesioni ed alle caratteristiche cliniche delle stesse.
Bibliografia
Yager J. A., Wilcock B.P. Surgical pathology of the Dog and Cat – Dermatopathology and Skin Tumors. Mosby-Year Book, 1994: 251-252.
Goldschmidt M.H., Hendrick M.J. Tumors of the Skin and Soft Tissues, in Meuten D.J. Tumors in Domestic Animals, Iowa State Press, 2002: 47-50.
Cornegliani L., Vercelli A., Abramo F. Idiopathic mucosal penile squamous papillomas in dogs. Proceedings of the 47th BSAVA Annual Congress, 1st-4th April
2004, p 590.
Indirizzo per la corrispondenza:
Carlo Masserdotti Biodiversity srl Divisione Veterinaria
Via Corfù, 71 - 25124 Brescia
Tel. 030 221095 - Fax 030 2450064
E-mail: [email protected] www.biodiv.it
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355
FISSATORI ESTERNI CIRCOLARI DI ILIZAROV: 5 ANNI DI ESPERIENZE
Salvatore Maugeri Med Vet
Libero professionista, Cascina - Pisa
Scopo. Lo scopo di questo lavoro è quello di riportare le difficoltà e le complicazioni incontrate con l’utilizzo del Fissatore Esterno Circolare d’Ilizarov e le accortezze e gli interventi attuati per evitare, correggere e superare gli errori o gli imprevisti che possono presentarsi nel periodo dalla fissazione dell’impianto fino alla sua rimozione.
Metodi. In cinque anni d’esperienza, abbiamo utilizzato il fissatore esterno circolare d’Ilizarov in 21 casi (19 cani-2 gatti; 12
maschi - 9 femmine) d’età compresa tra 6 mesi-11 anni, con peso variabile tra 2-70 kg. Le lesioni trattate sono state:12 fratture
radio-ulna, 1 frattura intercondiloidea del gomito con frattura diafisaria distale d’omero, 6 fratture di tibia, 2 salvataggi dell’arto con trasporto osseo (BTO). L’impianto di base è costituito da 4 anelli (2 interi, 1 aperto prossimale 3/4, 1 aperto distale 1/2),
5 nel BTO, ai quali è fissato un numero variabile di fili transossei (lisci o con oliva) e chiodi di Kirschner, uniti tra loro da 6 o
9 barre filettate di connessione. Ciascun impianto è stato studiato e assemblato precedentemente all’intervento tenendo presente le caratteristiche di ciascun paziente e il tipo di lesione a cui era destinato (la scelta del materiale e delle misure è stata effettuata sulla base di rx dell’arto controlaterale sano correttamente posizionato in entrambe le proiezioni). Nell’immediato postoperatorio sono stati eseguiti esami radiografici in proiezione mediolaterale e anteroposteriore in modo da valutare il corretto
posizionamento e la stabilità dell’impianto. Nel successivo periodo sono stati eseguiti controlli radiografici a distanza di 15 giorni (7 in caso di BTO) per valutare la formazione del callo osseo (fratture) e la qualità e quantità di rigenerato osseo in caso di
BTO. La rimozione dell’impianto è avvenuta in media a circa 40 giorni dalla chirurgia in caso di frattura e a circa 10 mesi e 4
mesi, rispettivamente, nei casi di salvataggio dell’arto. Nei casi in cui gli esami radiografici dell’immediato postoperatorio o
quelli di controllo, hanno rivelato un cattivo allineamento dei monconi, abbiamo sostituito un filo transosseo liscio con un filo
transosseo con oliva correggendo, dove è stato possibile, la direzione dei segmenti ossei. Tutti i fili transossei sono stati sottoposti ad un grado variabile di tensione (da 0 a 50 kg) in base alla mole del paziente e al diametro del chiodo. Abbiamo distinto
le difficoltà incontrate con l’utilizzo del FEC in base alla gravità in: problemi semplici, complicazioni e fallimenti. I problemi
semplici sono stati risolti senza la necessità di ricorrere a procedure supplementari e non hanno influenzato il risultato finale. Le
complicazioni hanno richiesto ulteriori interventi chirurgici e alcune volte hanno influenzato negativamente il risultato. I fallimenti, infine hanno richiesto la revisione completa e in alcuni casi la rimozione e sostituzione dell’impianto.
Risultati. Sul totale (21 casi) abbiamo avuto: 33% di problemi semplici, 15% di complicazioni e 15% di fallimenti, nel restante 37%
non abbiamo riscontrato alcun tipo di problema. I problemi semplici sono rappresentati da: atrofia muscolare, irritazione della cute,
diminuzione dell’ampiezza del movimento (ROM), infezioni lungo il chiodo, non allineamento, danno vascolare e/o neuro-aprassia,
ritardo di consolidamento, osteomieliti. Le complicazioni sono rappresentate da: fallimento della fissazione, rottura dei fili/chiodi,
unione prematura, deviazione del moncone di trasporto, frattura dell’osso. I fallimenti sono rappresentati da pseudoartrosi, cattivo
allineamento. Sul totale dei casi ci sono stati 19% atrofia muscolare, 24% d’irritazione della cute, 48% di diminuzione del R.O.M.,
5% infezioni lungo il chiodo, 38% cattivo allineamento semplice, 5% danno vascolare e/o neuro-aprassia, 15% ritardo di consolidamento, 5% osteomielite, 5% fallimento della fissazione, 5% rottura fili/chiodi, 5% unione prematura,
5% deviazione del moncone di trasporto, 0% di
frattura dell’osso, 5% di pseudoartrosi, 5% di cattivo allineamento. La somma delle percentuali delle
varie complicazioni non corrisponde al 100% perché molte si sono presentate contemporaneamente.
Conclusioni. Una volta stabilito il grado di complicazione, abbiamo potuto, secondo le indicazioni, procedere alla risoluzione del singolo problema. Le indicazioni per ottimizzare i fissatori
esterni circolari sono di porre attenzione alla rigidità della struttura, alla taglia delle barre di collegamento, al numero delle barre di collegamento,
alla posizione dei morsetti, alla stretta o all’allentamento dei morsetti, evitare di limitare la funzione dell’arto, non creare impianti troppo ingombranti con limitazione del R.O.M., non fare interferire i chiodi con la meccanica dei muscoli e
rispettare i corridoi anatomici.
Indirizzo per la corrispondenza:
Salvatore Maugeri, via I Gioielli n° 33 - Località I Gioielli - 56042 Crespina Pisa
Tel. 050/634091 - Cell. 335/6303749 - E-mail: [email protected]
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356
NEUROPATIA, MIOCARDIOPATIA E GLOMERULOPATIA
IN UN GATTO AFFETTO DA PASTEURELLOSI BRONCOPOLMONARE
Roberto Milan1 DVM; Luca Lideo1 DMV; Giuliana Bonetti1 DMV; David Chiavegato2 DMV;
Eliana Schiavon3 DMV; Ermenegildo Baroni1 DMV
1
Libero professionista, Rovigo
2
Libero professionista, Padova
3
Istituto Zooprofilattico delle Venezie, Sezione Diagnostica, Legnaro
Introduzione. Pasteurella multocida è un coccobacillo gram positivo che colonizza il naso-faringe e il tratto gastroenterico di
molti animali. Nel gatto Pasteurella multocida è stata ritenuta responsabile di ascessi, stomatiti e, molto raramente, di broncopolmonite settica. Nel nostro caso il microrganismo è stato isolato e coltivato in colonie pure dal liquido bronchiolare di un giovane gatto affetto da bronchiolite cronica, da glomerulopatia, miocardiopatia e alterazioni neurologiche. Questa comunicazione
ha lo scopo di porre in evidenza la patologia dell’apparato respiratorio sostenuta da P. multocida in un gatto con probabili coinvolgimenti sistemici.
Materiali e metodi. Un gatto giovane maschio intero comune europeo a pelo corto viene portato alla visita per anoressia e tosse. Si riscontra testa ruotata a destra di circa 60°, dispnea moderata-grave con rumori inspiratori ed espiratori a piccole bolle,
tosse facilmente provocabile, ipertermia (41°C), moderata PU-PD. È auscultabile inoltre soffio mesosistolico di 2/6 su focolaio
della mitrale. Dalle indagini di laboratorio emerge lieve anemia, moderata iperazotemia, lieve ipercreatininemia, lieve iperfosfatemia, lieve ipertrigliceridemia e un alto tasso di lattato.
Dal punto di vista sierologico il gatto è risultato negativo per leucemia felina, immunodeficienza felina e per coronavirus. Si è notata, invece, lieve positività a toxoplasma gondii con il metodo di immunofluorescenza indiretta con titolo IgG 1:160, senza però, nessun aumento della positività dopo 20 giorni (sieroconversione). All’esame chimico-fisico delle urine prelevate per cistocentesi ecoguidata risulta PS normale (1026. 1020-1035), rapporto PU/CU di 0,2, assenza di elementi patologici nel sedimento e proteinuria
glomerulare (albumina/prealbumina, transferrina, IgG, IgA evidenziate con elettroforesi tramite metodica SDS-Age).
Le bolle timpaniche risultano radiograficamente normali, mentre lo studio radiografico toracico presenta pattern alveolari e
bronchiali compatibili con bronchiolite cronica e reattività polmonare.
L’ombra cardiaca risulta complessivamente aumentata. L’esame ecografico addominale mette in risalto solo lieve iperecogenicità
della corticale renale in assenza di alterazioni strutturali e vascolari evidenti. Le alterazioni miocardiche individuate da iperecogenicità endocardica con ipertrofia settale in tratto di efflusso e la dilatazione atriale sinistra riscontrate all’ecocardiografia pongono
l’attenzione su una possibile miocardite-endocardite. Si raggiunge la diagnosi eziologica del problema respiratorio con l’esame del
liquido di lavaggio bronco-alveolare prelevato sterilmente con gatto sedato mediante transtracheal wash. All’indagine citologica si
riscontra la presenza di elementi infiammatori misti macrofagici/neutroeosinofilici con microorganismi cocchiformi gram-negativi
intracellulari. L’esame colturale del campione evidenzia colonie pure di P. multocida, risultate sensibili ad amoxicillina (e altri antibiotici di frequente utilizzo); vengono di conseguenza istituite una appropriata terapia battericida e una terapia dietetica per insufficienza renale. Al controllo dopo 30 giorni è rilevabile solo lieve rotazione della testa (circa 20-30°) e lieve murmure vescicolare
aumentato in assenza di tosse. Il controllo del profilo biochimico e delle urine non evidenzia anomalie.
Discussione e conclusioni. Nel nostro caso abbiamo visto come l’isolamento di Pasteurella abbia potuto spiegare la patologia
bronco-polmonare; mancando però la positività al batterio di un’urocoltura e di un’emocoltura, non possiamo al momento stabilire con certezza la causa delle altre manifestazioni patologiche riscontrate. Sulla base dei dati assunti è possibile, però, porre
una chiave interpretativa del caso: la patologia neurologica della rotazione del capo è imputabile presumibilmente all’otite media
e/o encefalite creata dal coccobacillo mentre il riscontro di IgG e IgA a livello urinario può trovare spiegazione nella patologia
da immunocomplessi glomerulari che Pasteurella multocida potrebbe provocare negli stati setticemici. Non è escluso che le stesse lesioni endocardiche-miocardiche possano venir spiegate dalla setticemia. Sappiamo, però, che fino ad ora l’evidence di tale
alterazione miocardica è avvenuta soltanto su reperti anatomopatologici.
Le caratteristiche cliniche delle infezioni respiratorie sostenute da Pasteurella multocida sono indistinguibili da altri patogeni.
Perciò la gravità delle ripercussioni sistemiche che essa può produrre nel gatto e la nota importanza zoonotica che riveste ci
obbliga ad una attenta valutazione delle patologie bronco-polmonari fino al raggiungimento dell’eziologia.
Indirizzo per la corrispondenza:
Roberto Milan, Clinica Veterinaria Baroni, via Martiri di Belfiore 69/D - 45100 Rovigo
Tel. 0425471076 - Fax 0425404918
E-mail: [email protected]
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357
RISULTATI DI UN’INDAGINE CONOSCITIVA SULLA GERIATRIA VETERINARIA IN ITALIA
Alda Miolo
CeDIS (Centro di Documentazione e Informazione Scientifica)
Innovet Italia, Rubano (Padova)
Introduzione. Gli avanzamenti nel campo della diagnostica, terapia ed alimentazione in Medicina Veterinaria hanno generato unitamente ai mutati atteggiamenti socio-culturali - un notevole allungamento della vita media di cani e gatti e la conseguente
comparsa di una consistente popolazione di animali anziani. Anche se l’invecchiamento non costituisce di per sé una malattia,
il graduale decadimento delle capacità adattative dell’organismo, che esso inevitabilmente comporta, favorisce l’insorgere di una
combinazione di malattie, per lo più derivanti da diversi livelli di disfunzione dei singoli apparati. Sono questi i presupposti che
rendono oggi necessaria l’attuazione di specifici programmi di “senior care” e “geriatric care”.
Scopo. Sulla scorta di queste premesse, è stata condotta un’indagine conoscitiva, denominata “Golden Years” (termine utilizzato dagli anglosassoni per definire gli anni della vecchiaia), allo scopo di rilevare l’attuale attenzione del Medico Veterinario nei
confronti del paziente anziano e dei suoi specifici bisogni età-correlati.
Metodo. Questionario, articolato in due sezioni con domande a scelta multipla, distribuito in occasione del 48mo congresso
nazionale SCIVAC (Rimini, 27-31 maggio 2004). La prima sezione constava di 6 domande, tese a rilevare l’approccio del Veterinario alla geriatria. La seconda - 4 domande - riguardava specificatamente il profilo clinico-terapeutico delle più frequenti patologie a carico dei diversi apparati di cani e gatti anziani.
Risultati. 541 Medici Veterinari hanno risposto al questionario. Di questi, il 78% dichiara che, di tutti i cani visitati nell’arco di
un anno, una percentuale compresa tra il 25% ed il 50% ha più di 7 anni. Per i gatti, analogo riscontro viene riportato dal 64%
dei rispondenti.
Il 75% dichiara di effettuare di routine check-up specifici per il paziente anziano; di questi, il 70% ed il 23% consigliano ai proprietari di eseguirli rispettivamente una e due volte l’anno. Tra le indagini previste nel check-up regolare, predominano lo screening ematochimico (28% delle risposte) e la visita clinica (27% delle risposte), seguite, in ordine decrescente, da esame di urine e feci, elettrocardiogramma, radiografia, ecografia ed indagine comportamentale.
Il 91% dei rispondenti afferma di considerare il cane/gatto anziano un soggetto con “equilibrio fragile”, potenzialmente affetto
da più malattie coesistenti. L’89% degli intervistati vede l’invecchiamento come una progressiva riduzione delle risposte adattative che, comunque, può essere vissuta “con successo”.
Il 98% dei Veterinari che hanno risposto al questionario dichiara di considerare la geriatria un settore in forte espansione e ricco di interessanti prospettive pratiche, e il 92% afferma che è tangibile l’aumento di sensibilità del proprietario nei confronti dei
bisogni del proprio animale anziano.
Relativamente alle malattie riscontrate con maggior frequenza nei cani anziani, emerge che quelle di pertinenza ortopedica (es.
artrosi) e quelle odontostomatologiche (es. gengiviti) sono al primo posto a pari merito, seguite, in ordine decrescente, dalle
patologie cardiovascolari, renali ed urinarie, neoplastiche e comportamentali (es. disfunzione cognitiva). Nei gatti anziani, invece, le malattie riscontrate con maggior frequenza sono quelle a carico dell’apparato renale ed urinario, seguite da quelle odontostomatologiche e neoplastiche. Infine, l’80% dei rispondenti ritiene siano necessarie nuove opzioni di cura specifiche per le
malattie di pertinenza geriatrica.
Conclusioni. Si tratta della prima indagine condotta in Italia nel settore della geriatria dei piccoli animali. I risultati dimostrano che oggi nel nostro Paese tale settore viene considerato possedere grandi potenzialità, sia professionali che economiche.
Quello che emerge dall’analisi dei risultati è un quadro di notevole sensibilità nei confronti dell’animale anziano, che viene considerato per quello che è realmente (un paziente dall’equilibrio fragile) e nei confronti del quale vengono adottati programmi di
controllo regolare, attraverso check-up mirati. Un quadro che fa ben sperare per la nascita, anche in Italia, di una branca della
Medicina Veterinaria dotata di una propria identità e dignità specialistica: la geriatria.
Indirizzo per la corrispondenza:
Alda Miolo CeDIS Innovet Italia srl, Viale Industria, 9 35030 Rubano (PD)
Tel. 049 898 73 19 - Fax: 049 898 73 21
E-mail: [email protected]
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358
EPIFISIODESI TEMPORANEA PROSSIMALE DELLA TIBIA PER IL TRATTAMENTO
DELLA ROTTURA DEL LEGAMENTO CROCIATO ANTERIORE IN CANI IN ACCRESCIMENTO:
ESPERIENZA IN 2 CASI CLINICI
Mario Modenato Med Vet, PhD, SCMPA; Consuelo Ballatori Med Vet;
Simonetta Citi Med Vet, PhD, SCMPA, SRV; Veronica Marchetti Med Vet, PhD, SCPAA
Dipartimento di Clinica Veterinaria, Università di Pisa
Introduzione. La rottura del legamento crociato anteriore (LCA) in cani in accrescimento si manifesta, a differenza dell’adulto, prevalentemente con un’avulsione dell’inserzione tibiale del legamento. La stabilizzazione può essere ottenuta fissando tale
frammento con vite o con fili di Kirschner, o adottando un’altra tecnica fra quelle indicate nei soggetti adulti.
Di recente la chirurgia è indirizzata a sistemi riparativi “funzionali”, volti a neutralizzare l’azione delle forze agenti sul LCA
(TPLO, TTA) livellando il plateau tibiale o trasponendo la cresta tibiale. Entrambe le tecniche, per l’interferenza con le cartilagini di accrescimento presenti, non sono però applicabili senza rischi nel cucciolo.
Seguendo la filosofia della TPLO, è stato proposto un livellamento del plateau tibiale ottenibile sfruttando l’interferenza con
questo da parte di una vite transepifisaria.
Scopo del lavoro è riportare l’esperienza personale ottenuta con quest’ultima tecnica in 2 casi clinici.
Materiali e metodi. Due boxer, Gina e Stella, di 6 e 5 mesi, sono stati riferiti per zoppia improvvisa a carico dell’arto posteriore sx. Gina è stata riferita a pochi giorni dal trauma con zoppia di 3° grado, tumefazione del ginocchio sx, positività al movimento del cassetto anteriore (CDS) ed alla compressione tibiale (TCT). Radiograficamente si notava versamento articolare, con
piccola area calcifica anteriore alla troclea femorale, centrale, riferibile alla frattura da avulsione all’inserzione distale del LCA.
Nessun segno di artrosi. L’inclinazione del plateau tibiale era di 22°. Il liquido articolare presentava una lieve flogosi prevalentemente neutrofilica asettica.
Stella è stata riferita a 7 settimane dal trauma e dopo un trattamento con FANS e condroprotettori senza risultato. Alla visita presentava una zoppia di 2°, con tumefazione del ginocchio sx, prevalentemente mediale, positività al CDS ed al TCT. Radiograficamente si notava versamento articolare, con piccole aree calcifiche riferibili all’avulsione inserzionale del LCA. Nessun segno
di artrosi. L’inclinazione del plateau tibiale era di 20°. Il liquido articolare appariva nei limiti della norma.
Entrambi i soggetti sono stati sottoposti ad intervento di epifisiodesi anteriore del plateau tibiale. Dopo artrotomia laterale si è
praticato un foro per vite corticale 2,7 mm, sotto al legamento intermeniscale anteriore, con direzione prossimo-distale craniocaudale, curando che la direzione seguisse l’asse longitudinale dell’osso tibiale. L’artrotomia è stata chiusa more solito.
Sono stati programmati controlli radiografici quindicinali.
Risultati. A Gina la vite è stata rimossa in 40a giornata, quando il plateau tibiale aveva raggiunto un’inclinazione di 8°. La zoppia era molto ridotta, ed è scomparsa nelle successive 2 settimane. Attualmente, a distanza di oltre 8 mesi, residua una lieve ipertrofia del retinacolo mediale, senza segni di zoppia e tumefazione articolare. Il CDS è leggermente positivo mentre negativo è il
TCT. Stella è stata seguita per i primi 30 giorni, poi i proprietari si sono ripresentati in 60a giornata. A quel momento l’inclinazione del plateau tibiale era di 4° e si era sviluppata una deviazione in valgo della tibia di circa 13°, legata al posizionamento
leggermente laterale della vite che aveva determinato un arresto asimmetrico anche sul piano mediolaterale del plateau tibiale.
La zoppia era di 1° grado, il ginocchio presentava una lieve ipertrofia mediale, il CDS era debolmente positivo ed il TCT negativo; la vite è stata quindi rimossa, e la deviazione assiale non è stata corretta. A distanza di 6 mesi la zoppia, seppure saltuaria
di 1° grado, permane.
Discussione. In soggetti in accrescimento di taglia medio-grande e di età inferiore ai 6-8 mesi la spinta accrescitiva della cartilagine consente una adeguata correzione dei difetti angolari. La normale inclinazione del plateau tibiale, se da sola non ha alcun
ruolo nella patogenesi della rottura del LCA, rappresenta però un motivo di stress dei diversi mezzi di stabilizzazione. Il livellamento di questa, comunque ottenuto, inverte la spinta tibiale (tibial trust) trasferendola sul legamento crociato posteriore.
L’arresto temporaneo della crescita del segmento anteriore della fisi tibiale prossimale può indurre tale livellamento. Il rischio
correlato è legato alla possibile irreversibilità dell’epifisiodesi, con conseguenze sull’allineamento dell’arto difficili da prevedere e potenzialmente disastrose.
Conclusioni. La tecnica descritta presenta risultati interessanti dal punto di vista clinico.
I problemi sono rappresentati dalla ristrettezza della finestra temporale di applicabilità, dovendo intervenire in soggetti ancora
in attivo accrescimento, e dalla possibilità di ipercorreggere l’inclinazione o di indurre deviazioni qualora, come nel caso di Stella, la vite dovesse permanere per un tempo troppo lungo o essere non precisamente posizionata, o qualora si realizzasse un arresto definitivo dell’accrescimento.
Indirizzo per la corrispondenza:
Mario Modenato, Dipartimento di Clinica Veterinaria, Università di Pisa
Via Livornese lato monte, 56010 S. Piero a Grado, PISA
Tel. 335.8302197 - Fax 050.3135182
E-mail: [email protected]
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359
CARATTERISTICHE CLINICHE, ELETTROCARDIOGRAFICHE ED ECOCARDIOGRAFICHE
IN CORSO DI FIBRILLAZIONE ATRIALE NEL CANE
Roberto A. Santilli Dr Med Vet D.E.C.V.I.M.-C.A. (Cardiology), Manuela Perego Dr Med Vet
Clinica Veterinaria Malpensa, Samarate, Varese, Italy
Introduzione. La fibrillazione atriale (FA) rappresenta la tachiaritmia sopraventricolare di più frequente riscontro nella popolazione canina (0,04-0,18%). Tale aritmia, il cui meccanismo aritmogenico consta nella formazione di numerose onde microrientranti, può essere classificata come secondaria (FA II) nel caso sia un fattore complicante e conseguente ad una cardiopatia già
in atto oppure primaria (FA I) o isolata nel caso in cui risulti un’entità patologica non accompagnata, almeno nelle prime fasi,
da modificazioni cardiostrutturali. Tuttavia, la presenza di FA I ad elevata penetranza ventricolare conduce ad un quadro ipocinetico-dilatativo tachicardiopatia-indotto con riduzione della contrattilità miocardica e della gittata cardiaca.
Scopo. Lo scopo del lavoro è stato quello di valutare le caratteristiche cliniche, elettrocardiografiche ed ecocardiografiche in
cani affetti da FA I e FA II.
Materiali e metodi. Nello studio sono stati inseriti 141 cani identificati come affetti da tale tachiaritmia sopraventricolare all’elettrocardiogramma basale. I soggetti sono stati suddivisi in due gruppi: A) 15 cani con FA I; B) 126 cani con FA II. L’analisi
statistica è stata compiuta attraverso il test t-Student, la varianza è stata esaminata con il metodo Oneway Anova e le sopravvivenze con il Kaplan-Meier. I valori sono stati considerati significativi con p < 0,05.
Risultati. All’interno della popolazione totale esiste una prevalenza del sesso maschile (83%) rispetto al sesso femminile (17%).
Dall’analisi dei dati sono emerse importanti differenze cliniche, elettrocardiografiche ed ecocardiografiche fra il gruppo dei cani
affetti da FA primaria e secondaria. I cani con FA I risultano avere un’età media inferiore ed un peso medio superiore (5,9 anni
+/-2,9; 51 kg +/-5,4) rispetto al gruppo dei cani affetti da FA secondaria (8,2 anni +/-3,6; 36,2 kg +/- 17,9). Tutti i soggetti cui
è stata diagnosticata la FA I si sono presentati alla visita privi di alterazioni cliniche ed in assenza di soffi cardiaci rilevabili
all’auscultazione o presenza di soffi lievi (olosistolico 2/6 nel 18% dei soggetti, assenza di soffi nell’82%). Al contrario, i soggetti con FA II presentano alterazioni cliniche molto evidenti la cui gravità risulta dipendente dalla patologia primaria.
A livello elettrocardiografico, i soggetti con FA I mostrano avere una frequenza cardiaca media (169 bpm +/- 50) inferiore rispetto ai soggetti con FA II (213 bpm +/- 46). Inoltre, il 20% dei soggetti affetti da FA II hanno evidenziato aritmie complicanti il
quadro della FA quali blocchi di branca sinistri (26%), destri (10%), complessi ventricolari prematuri mono o polifocali (50%),
ritmo idioventricolare accelerato o tachicardie ventricolari non sostenute (14%). Nel 72% dei soggetti con FA II a livello elettrocardiografico si è evidenziato il segno dello slurring del complesso QRS indice di ingrandimento ventricolare sinistro. Tale
reperto non è stato ritrovato in nessun cane affetto da FA I.
A livello ecocardiografico, risulta evidente come i soggetti affetti da FA I mostrano un quadro completamente normale con flussi transvalvolari, ESVI (37,5 +/- 19,8), EDVI (112,8 +/- 69,3) e rapporto atrio sinistro/radice aortica (1,38 +/- 0,28) entro i limiti della norma. Al contrario, nel gruppo di cani con FA II si rilevano ESVI medio 78,6 +/- 65,1, EDVI medio 194,7 +/- 123, rapporto atrio sinistro/radice aortica medio 2,29 +/- 0,58.
I tempi di sopravvivenza (calcolati su un numero ristretto di cani: 10 soggetti FA I, 8 soggetti DCM con FAII, 7 soggetti CVD con
FA II) dei due gruppi di cani risultano differenti. Infatti, i cani affetti da FA I mostrano avere una sopravvivenza media (478 giorni) superiore rispetto ai cani patologia valvolare acquisita (282 giorni) o miocardiopatia dilatativa (17 giorni) complicata da FA.
Conclusioni. I risultati ottenuti da questo studio evidenziano che le caratteristiche cliniche, elettrocardiografiche ed ecocardiografiche presentano differenze nei soggetti affetti da FA I rispetto ai soggetti con FA II. Tale distinzione risulta di vitale importanza al fine di ottimizzare le scelte terapeutiche (controllo del ritmo/controllo della frequenza) e di stabilire una precisa prognosi.
Indirizzo per la corrispondenza:
Clinica Veterinaria Malpensa, Viale Marconi, 27 - 21017 Samarate - Varese - Italy
Tel. (39) 0331 228155 - Fax (39) 0331 220255
E-mail: [email protected]
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360
L’ANESTESIA IN CORSO DI VALVULOPLASTICA POLMONARE NEL CANE
Alberto Perini Med Vet, Phd, Specialista; Massimo Olivieri Med Vet; Pasquale Italo D’Urso, Med Vet;
Manuela Perego Med Vet; Roberto Santilli Med Vet, Dipl D.E.C.V.I.M. - Cardiology
Liberi professionisti, Samarate
Introduzione. L’esecuzione della valvuloplastica polmonare prevede, previo accesso al ventricolo destro tramite la vena giugulare, il posizionamento di un catetere da valvuloplastica a livello della valvola polmonare. Una volta stabilita la posizione del
catetere, il palloncino viene gonfiato a pressione al fine risolvere la stenosi. Tutte le manovre vengono eseguite sotto guida dell’intensificatore di brillanza.
In medicina umana queste manovre sono effettuate in anestesia locale a livello di inserzione del catetere, ed eventualmente viene somministrato un sedativo per una miglior cooperazione del paziente.
La posizione dell’anestesista veterinario si discosta da quella umana, in quanto, a causa dell’assente collaborazione del paziente, l’anestesia generale è d’obbligo.
Al momento in letteratura non esistono riferimenti specifici sull’anestesia in corso di valvuloplastica, ma sono solamente citati
i farmaci impiegati.
Lo scopo di questo studio è di valutare l’impiego di alcuni protocolli anestetici in corso di questo particolare intervento.
Materiali e metodi. In questo studio sono stati considerati 6 pazienti di specie canina portatori di stenosi polmonare: un dogue
de bordeaux maschio di 3 anni con gradiente di picco transvalvolare di 95 mmHg; un west highland white terrier maschio di 3
anni con gradiente di 185 mmHg; un pinscher femmina di 5 anni con gradiente di 215 mmHg; un rodhesian ridgeback maschio
di 2 anni con gradiente di 84 mmHg; un pastore tedesco maschio di 2 anni con gradiente di 76 mmHg; un incrocio femmina di
4 anni con gradiente di 180 mmHg. Il dogue de bordeaux ed il pastore tedesco presentavano, al momento della valvuloplastica,
una insufficienza contrattile del ventricolo destro (afterload mismatch).
Il protocollo anestesiologico prevedeva la premedicazione con midazolam 0,2 mg/kg im, seguita dopo venti minuti dall’induzione con propofol 4 mg/kg ev ad effetto; l’anestesia è stata mantenuta tramite l’impiego di isoflurano. Nel caso del west highland white terrier l’induzione con propofol è stata preceduta dalla somministrazione di fentanil 3 mcg/kg ev, mentre nel caso del
pastore tedesco e dell’incrocio la premedicazione prevedeva l’utilizzo di butorfanolo 0,1 mg/kg im.
Durante l’anestesia sono stati monitorati l’attività elettrica cardiaca, la saturazione dell’emoglobina tramite ossimetro, la concentrazione di anidride carbonica a fine espirazione con capnografo, la temperatura esofagea, la concentrazione dei gas inspirati ed espirati, la frequenza respiratoria e la pressione ematica con metodo indiretto (oscillometrico) nel dog de bordeaux, nel west
highland white terrier e nel pinscher, mentre nei restanti casi la misurazione avveniva con metodo diretto.
Risultati. La durata media dell’anestesia è stata di 59 minuti; il solo caso del pinscher ha mostrato un allungamento della durata (151’) dovuto a difficoltà nell’isolare la vena giugulare (assenza della giugulare di sinistra). In tutti pazienti la frequenza cardiaca, l’ossimetria e la capnografia sono risultati all’interno di parametri di normalità.
La pressione è il parametro che ha dimostrato più variabilità anche se i valori minimi raggiunti sono stati molto transitori e correlati al momento di riduzione di flusso per il posizionamento del catetere a livello valvolare. Un paziente (incrocio) ha presentato bradipnea ma con valori di CO2 espirata nella norma. Tutti i pazienti si sono risvegliati senza evidenziare particolari problemi ed ai successivi controlli clinici non hanno presentato patologie correlabili alla anestesia.
Conclusioni. Partendo dal presupposto che questo studio è preliminare ed introduttivo ad un approfondimento e che i dati non
sono ancora avvalorati da studi statistici, possiamo concludere che i protocolli da noi impiegati sono sicuri anche in situazioni
di relativa instabilità cardiovascolare.
Indirizzo per la corrispondenza:
Alberto Perini, Clinica Veterinaria Malpensa
Via Marconi 27, 21017 Samarate (VA)
Fax 0331 220255
E-mail: [email protected]
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361
CHI MENO SPENDE PIÙ GUADAGNA: LA GESTIONE NUTRIZIONALE
PER LA PREVENZIONE DELLE PATOLOGIE SCHELETRICHE DELLA CRESCITA
Massimo Petazzoni1 Med Vet; Silvia Turetti1 Med Vet;
Valentino Bontempo2 Med Vet; Rita Rizzi2 Med Vet; Carlo Maria Mortellaro3 Med Vet
1
Libero Professionista, Milano
2
Dipartimento di Scienze e Tecnologie Vet. per la Sicurezza Alimentare - Università di Milano
3
Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie - Università di Milano
Scopo del lavoro. Approfondire il ruolo della componente nutrizionale nell’eziologia delle due principali patologie dell’accrescimento: la displasia dell’anca e del gomito. Il rapporto di proporzionalità diretta che correla l’alimentazione al tasso di accrescimento fa sì che, agendo sul regime dietetico sia possibile monitorare l’incremento ponderale medio giornaliero (IPMG). Lo
studio seguente ha riguardato il controllo della curva di accrescimento di cani di razza “Bovaro del Bernese”, sottoposti ad uno
specifico regime dietetico, per valutare la possibilità di diminuire il rischio di sviluppo di patologie ortopediche, senza compromettere il raggiungimento di peso ed altezza finali previsti dagli standard di razza.
Metodi. 183 cani di razza Bovaro del Bernese, suddivisi in due gruppi: il primo composto da 133 soggetti, sottoposti a controllo
della curva di crescita, il secondo costituito da 50 cani, alimentati con diete diverse, commerciali o casalinghe, senza alcuna restrizione. Il controllo della curva di crescita veniva effettuato ogni 7-10 giorni con la comunicazione da parte del proprietario del peso
del cane via e-mail o tramite messaggio SMS. È stato impiegato un unico cibo preconfezionato secco specifico per cani di taglia
grossa e gigante ed i proprietari si sono impegnati a non apportare qualsivoglia integrazione. Settimanalmente, in base all’età del
cane e al peso raggiunto è stato calcolato il fabbisogno metabolico di base di Energia Metabolizzabile in Kcal/giorno per soggetto. Ai cuccioli venivano somministrati 3 pasti giornalieri fino al compimento del sesto mese di vita per poi proseguire con due
pasti giornalieri fino al compimento dell’anno di età. Il fabbisogno di energia è stato calcolato secondo la seguente formula
E(Kcal)=[(30*kg)+70]*x. Settimanalmente si controllava l’incremento ponderale medio giornaliero del cane ed il quantitativo di
cibo da somministrare veniva ricalcolato per la settimana successiva. Il calcolo dei fabbisogni energetici veniva considerato solo
indicativo per impostare un incremento ponderale giornaliero massimo di 150 grammi. Tutti i calcoli sono stati effettuati con l’ausilio del foglio elettronico Excel di Microsoft©. Nel corso dello studio i cani sono stati sottoposti ad esami radiografici per la diagnosi di displasia di anca e gomito e da ultimo sono stati rilevati altezza al garrese e BCS (Body Codition Score).
Risultati. Nel gruppo dei 133 soggetti controllati i cani sottoposti a studio radiografico sono stati 66, mentre dei 50 cani non
controllati ne sono stati radiografati 37. Il controllo della curva di crescita è iniziato a circa 79 giorni, con un peso medio di 10,40
+ 3,45 kg per i cani in seguito risultati sani e 10,24 + 4,76 kg per i cani malati. Questi ultimi hanno raggiunto il peso medio di
34,87 + 5,57 kg in 267 giorni, mentre i primi hanno raggiunto 34,16 + 7,15 kg in 283 giorni. La percentuale di displasia di anca
e gomito nel primo gruppo è risultata del 26%, contro un 38% del secondo gruppo. Il 15% del gruppo controllato ha presentato displasia dell’anca, il 6% displasia del gomito e il 5% entrambe le forme, mentre nel gruppo non monitorato la displasia dell’anca ha raggiunto il 19%, quella del gomito il 16% ed il 3% dei cani ha manifestato entrambe le patologie. Nel gruppo controllato, i soggetti con displasia del gomito hanno presentato incrementi ponderali maggiori, fino a 176 g/die. Sono state elaborate le curve di crescita di tutti i cani di questo gruppo, divisi in base al sesso ed allo stato (sano/malato): la curva che descrive
la crescita dei cani displasici di entrambi i sessi supera in altezza quella dei cani sani, indicando che i primi sono cresciuti ad un
ritmo superiore. Nel confronto con i cani non controllati, i valori di peso ed altezza da adulti sono risultati simili, nonostante il
rallentamento della curva di crescita.
Conclusioni. Il massimo incremento ponderale medio giornaliero in un Bovaro del Bernese si ha fra il secondo e sesto mese di
vita e questo è il momento più pericoloso in cui squilibri alimentari aumentano potenzialmente il rischio di patologie ortopediche del periodo dell’accrescimento legate all’alimentazione perché i compartimenti articolari risultano gravati da carichi ponderali difficilmente sostenibili. Un limite nell’assunzione di energia determinato sulla base della curva di crescita aiuta a determinare una minore prevalenza di displasia, in quanto la razione viene adeguata sulla base dell’incremento ponderale del cucciolo, permettendo ad ossa ed articolazioni, ancora in via di sviluppo, di adattarsi gradualmente al crescente carico.
Indirizzo per la corrispondenza:
Petazzoni Massimo, Via Di Vittorio 25a/17
20060 Mediglia (MI) - ITALIA
E-mail: [email protected]
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362
RICONOSCERE E MONITORARE I SEGNI CLINICI DI INVECCHIAMENTO CEREBRALE NEL CANE:
UNA METODOLOGIA PER IL VETERINARIO GENERALISTA
Raimondo Colangeli1 Med Vet, Dipl Comp ENVF; Franco Fassola2 Med Vet;
Tommaso Furlanello3, Med Vet; Sabrina Giussani4 Med Vet, Dipl Comp ENVF; M. Cristina Osella5 Med Vet, PhD;
Gaspare Petrantoni6 Med Vet, Dipl Bioet ITST*;
7
Elena Severi Med Vet, Dipl Comp ENVF, Dipl Master Med Comp Anim Affez; Corrado Sgarbi8 Med Vet
1
Libero professionista, Roma; 2Libero professionista, Asti; 3Laboratorio di Analisi San Marco, Padova;
4
Libero professionista, Busto Arsizio (VA); 5Libero professionista, Chivasso (TO); 6 Libero Professionista, Messina;
7
Libero professionista, Forlimpopoli (FC); 8Libero professionista, Torino
Introduzione. Il cane presenta una variabilità di segni legati all’invecchiamento cerebrale, che spaziano da quelli tipici dell’invecchiamento fisiologico, al calo età-dipendente della memoria, fino al vero e proprio deterioramento cognitivo, comportamentale ed emozionale di natura patologica. È solo attraverso un’attenta valutazione del singolo caso che è possibile identificare precocemente i segni clinici iniziali di invecchiamento cerebrale e, conseguentemente, intervenire tempestivamente, lì dove i processi neurodegenerativi sono ancora agli esordi e la finestra di intervento gode di buone probabilità di successo. Le attuali controversie nella classificazione clinica dei disturbi legati all’invecchiamento cerebrale, la difficoltà di inquadramento diagnostico
precoce, e la necessità di transitare attraverso il giudizio del proprietario ci hanno indotto a ricercare un metodo di valutazione
semeiologica dell’invecchiamento cerebrale nel cane.
Scopo. Definire una metodologia per la determinazione ed il monitoraggio dei segni clinici dell’invecchiamento cerebrale nel
cane.
Metodo. Nell’ambito della fase progettuale di un trial clinico pilota, volto a testare l’efficacia e la tollerabilità di un nutraceutico
per l’invecchiamento cerebrale del cane, è nata una task force sui disordini geriatrici del comportamento, avente tra gli obiettivi
quello di mettere a punto una valida metodologia per l’arruolamento dei casi da includere nello studio. A tal fine, si è proceduto
ad effettuare una metanalisi dei criteri diagnostici, dei formulari di intervista al proprietario e delle griglie di valutazione, sviluppati alternativamente dalle scuole comportamentaliste statunitensi (es. K.L. Overall; G. Landsberg) ed europee (es. P. Pageat;
J. Dehasse). La necessità di escludere malattie organiche corredate da sintomi sovrapponibili a quelli tipici dell’invecchiamento cerebrale, ci ha indotto, altresì, ad identificare un panel di analisi di laboratorio atte alla selezione dei casi arruolabili.
Risultati. Sono state definite 5 categorie comportamentali maggiormente indicative dei disturbi comportamentali correlati
all’invecchiamento cerebrale. Nell’ambito di ciascuna categoria, sono stati specificati da un minimo di 4 ad un massimo di 13
segni clinici, descritti in modo da evitare possibili equivoci interpretativi da parte del proprietario che, giocoforza, rappresenta
l’intermediario obbligato di una visita comportamentale. Si è pervenuti all’identificazione delle condizioni necessarie e sufficienti per definire che un cane presenta segni clinici di invecchiamento cerebrale: (1) età superiore ai 7 (sette) anni; (2) presenza di almeno un sintomo della categoria “alterate interazioni socio-ambientali”; (3) presenza di almeno un sintomo in una delle
altre quattro categorie comportamentali individuate; (4) esclusione delle seguenti malattie organiche, ottenuta tramite specifiche
analisi di laboratorio: diabete mellito; ipoglicemia; iper- o ipo-tiroidismo; iper- o ipo-adrenocorticismo; encefalopatia uremica.
I quattro criteri devono essere soddisfatti congiuntamente. È stata redatta una scheda di valutazione suddivisa nelle 5 categorie
comportamentali suddette, nella quale riportare un iniziale giudizio di gravità e successivi giudizi di evoluzione. In particolare,
alla prima visita, ogni sintomo elencato nell’ambito delle singole categorie comportamentali viene quantificato dal Veterinario
mediante un punteggio di gravità, espresso in termini di frequenza, tramite uno score da zero a quattro. Nelle visite successive,
il sintomo viene giudicato applicando un criterio di evoluzione (peggiorato, migliorato, invariato).
Conclusioni. La metodologia sviluppata è stata fino ad oggi applicata a 34 casi e si è rivelata un sistema valido per la determinazione, la valutazione ed il monitoraggio dei segni clinici dell’invecchiamento cerebrale del cane. Secondo questa esperienza
preliminare, si può ipotizzare, naturalmente continuando lo studio della sua applicabilità, un utilizzo di questa griglia in ambito
di visita clinica generalista, al fine di individuare la presenza di specifiche alterazioni, per poi inviare il caso a un comportamentalista, per una visita specialistica.
Indirizzo per la corrispondenza:
Gaspare Petrantoni
Via Nazionale 23/A, Mortelle - 98163 Messina
Tel. (090) 32 63 09
E-mail: [email protected]
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363
FATTORI PROGNOSTICI PER LA SOPRAVVIVENZA AD UN ANNO DI GATTI FELV E FELV/FIV
COINFETTATI IN CORSO DI TRATTAMENTO CON INTERFERONE FELINO OMEGA RICOMBINANTE
Anna Rondolotti1 Med Vet; Annaele Sanquer2 Med Vet; Karine De Mari3 Med Vet;
Laurence Maynard 4 Med Vet; Bernard Lebruex5 Med Vet; Laure Gardey6 Med Vet
1
Virbac Italia Milano; 2,3,4,5,6 Virbac SA Carros Francia
Introduzione e obiettivo dello studio. Nel 2004 è stata accordata l’autorizzazione all’immissione sul mercato del primo interferone omega ricombinante di origine felina (rFeIFN) per il trattamento delle malattie da retrovirus feline (FeLV, FIV). In uno
studio in doppio cieco placebo-controllo condotto per ottenere l’autorizzazione, i gatti vennero trattati con rFeIFN iniettato per
via sottocutanea alla dose di 1MU/kg al giorno per 5 giorni consecutivi. Tre trattamenti separati di 5 giorni ciascuno, furono
effettuati nei giorni 0, 14, 60. Questi gatti dimostrarono una significativa riduzione della sintomatologia clinica e della mortalità. Considerata la lunghezza della malattia e l’ampia varietà delle manifestazioni cliniche presenti nei gatti retrovirus-infetti, c’è
un forte interesse nell’identificare i fattori di rischio e di prognosi per la sopravvivenza. Questi fattori prognostici possono essere utili nella pratica per monitorare la risposta al trattamento durante i 2 mesi di terapia.
Materiali e metodi. Retrospettivamente, furono determinati i fattori prognostici relativi alla sopravvivenza a un anno di gatti
FeLV o FeLV/FIV coinfettati trattati con rFeIFN (n=39). Furono presi in considerazione i seguenti parametri variabili: conta dei
globuli rossi (RBCC), conta dei globuli bianchi (WBCC), Packed Cell Volume (PCV) ed Emoglobina (Hb) e furono poi riconsiderati i valori al giorno 14, cioè prima della seconda serie di iniezioni. Furono effettuate delle analisi univariate con il metodo
di Cox e per ogni variabile fu testata la sua significatività e calcolata la percentuale di causalità (HR). Il tasso di causalità rappresenta il rischio relativo fra i valori normali e anormali per ogni variabile.
Risultati. La tabella seguente rappresenta la percentuale di sopravvivenza a un anno basata sui fattori testati e i relativi HR.
RBCC (1012/l)
1-yr survival
HR
WBCC (109/l)
PCV (%)
Hb (g/dl)
< 5.5
≥ 5.5
< 5.5 or > 19
[5.5; 19]
< 25
≥ 25
<8
≥8
33%
68%
14%
66%
29%
62%
20%
69%
1.91
2.39
1.98
2.35
I modelli univariati misero in evidenza che ognuno di questi quattro fattori ha un’importanza significativa sulla sopravvivenza a
1 anno (p<0.05). Al giorno 14, il rischio di morte nei gatti che si presentavano anemici cioè con bassi valori di RBCC, PCV o
Hb, era rispettivamente di 1.91, 1.98 e 2.35 volte più alto di quelli non anemici. Similmente, la presenza di un’anormale conta
WBCC al giorno 14 era associata ad un aumento del rischio di morte (HR=2.39).
Conclusione. Lo studio ha dimostrato che i fattori variabili possono essere usati come fattori prognostici sulla sopravvivenza e sulla decisione di continuare o meno la terapia. Concludiamo quindi che la mancanza di anemia e di anormali valori di WBCC dopo
la prima serie di 5 iniezioni è un criterio favorevole per una sopravvivenza più lunga. In altre parole questi gatti avranno maggiori benefici dalla terapia con interferone felino omega ricombinante, a condizione che abbiano ricevuto 3 serie da 5 iniezioni.
Indirizzo per la corrispondenza:
Anna Rondolotti - Virbac Italia
Via Dei Gracchi 30 - 20146 Milano
Fax: 02/48002644
E-mail: [email protected]
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364
UN CASO DI LINFOMA INTRAVASCOLARE A LOCALIZZAZIONE SPLENICA IN UN CANE
1
Enrica Rossetti1 Med Vet; Gabrita De Zan1 Med Vet; Massimo Castagnaro1 Med Vet, PhD, Dipl ESVP
Dipartimento di Sanità Pubblica, Patologia Comparata e Igiene Veterinaria, Università degli Studi di Padova
Introduzione. Il linfoma intravascolare (IntraVascular Lymphoma IVL) è una rara neoplasia linfoide a grandi cellule, descritta
nell’uomo, nel cane e nel gatto. Caratteristiche peculiari del IVL, che distinguono questa neoplasia da altri linfomi o dalle leucemie sono l’assenza di neoformazioni extravascolari ed elementi atipici nel sangue periferico e/o nel midollo osseo nonostante la
presenza massiva di elementi neoplastici nel lume dei vasi ematici. In medicina umana sono descritte due presentazioni cliniche
del IVL a decorso frequentemente fatale per i notevoli danni vascolari: neurologica e cutanea; tuttavia sono riportati casi di completa remissione in seguito alla somministrazione di un appropriato protocollo chemioterapico. Tra i casi descritti in letteratura
e relativi a IVL del cane sono riportate forme analoghe a quella neurologica che colpisce l’uomo. Due ulteriori casi descritti si
riferiscono rispettivamente ad una localizzazione cutanea, ed intraoculare. In entrambi i casi, l’esito è stato rapidamente fatale
con segni di disseminazione del processo neoplastico.
Materiali e metodi. Il cane, un meticcio femmina sterilizzata di 7 anni, è stato riferito per episodi di ematochezia seguiti ad un
mese di distanza da diarrea, entrambi autolimitanti. All’esame fisico il soggetto appariva in buone condizioni generali. L’ecografia addominale ha messo in evidenza la presenza di due formazioni nodulari di pertinenza splenica. Le restanti strutture viscerali apparivano nella norma. Gli accertamenti ematobiochimici hanno unicamente rilevato modesta monocitosi al momento della presentazione clinica ed iperglobulinemia prima della chirurgia. L’animale è stato quindi sottoposto ad intervento chirurgico
per splenectomia con ottimo decorso post-operatorio. Porzioni significative dei due noduli sono state inviate per l’esame istopatologico.
Risultati. All’esame istopatologico si rileva disseminatamente nel lume vascolare la presenza di una popolazione atipica composta di cellule poligonali non coese con moderato citoplasma lievemente basofilo e nucleo di forma irregolare con cromatina
a zolle ed un nucleolo evidente. Sono presenti numerose figure mitotiche atipiche. Multifocalmente sono osservabili estese aree
di necrosi ischemica, presenti contestualmente alla popolazione neoplastica. All’indagine immunoistochimica la popolazione
atipica è risultata variabilmente positiva per i marker dei linfociti T (CD3 e CD5), occasionalmente positiva per la vimentina,
negativa per le citocheratine ed i marker per i linfociti B (CD 79α). L’endotelio vascolare è risultato intensamente positivo al
fattore VIII e la parete vascolare positiva per l’actina. Non è stata dimostrata nessuna relazione tra la popolazione intravascolare e gli elementi componenti la parete (cellule endoteliali e periciti).
Conclusioni. Le lesioni nodulari spleniche possono essere compatibili con numerose diagnosi quali iperplasia linfoide nodulare, noduli siderotici, noduli fibroistiocitari, neoplasie stromali, vascolari e linfomi. I reperti istopatologici (localizzazione esclusivamente intravascolare di una popolazione neoplastica mesenchimale rotondocellulare gravemente atipica) sono compatibili
con la diagnosi di linfoma intravascolare (IVL) e l’esito della marcatura immunoistochimica (positività a CD3 e CD5), sono suggestivi di una forma T. Il IVL è un raro disordine multisistemico nel cane, diagnosticato in medicina veterinaria quasi esclusivamente all’esame necroscopico, a localizzazione neurologica, con prognosi infausta. L’unico caso descritto in medicina veterinaria e diagnosticato intra vitam, si riferisce ad una localizzazione cutanea di IVL in cui il soggetto è stato sottoposto a terapia corticosteroidea a dosaggi immunosoppressivi senza dimostrare alcun segno di remissione ed è sopravvissuto pochi mesi. In
medicina umama, il IVL ha generalmente immunofenotipo B; al contrario, i casi descritti in medicina veterinaria, compreso il
caso in questione sono risultati positivi ai marker per i linfociti T. Il caso descritto assume rilevanza in quanto in letteratura non
sono descritti casi di IVL a localizzazione splenica. Il reperimento della lesione splenica è stato del tutto occasionale e avulso
dalla sintomatologia clinica che ha determinato lo svolgimento di alcuni accertamenti di diagnostica collaterale. Il soggetto in
questione appare in ottime condizioni in seguito alla splenectomia e nessun protocollo chemioterapico è stato intrapreso.
Ringraziamenti. Si ringrazia il dr. Andrea Matrizzi medico veterinario a Bologna.
Indirizzo per la corrispondenza:
Enrica Rossetti
Dipartimento di Sanità Pubblica, Patologia Comparata e Igiene Veterinaria
Viale dell’Università, 16 35020 Legnaro, Padova
Tel: 049 8272518 - Fax: 049 8272507
E-mail: [email protected]
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365
ABLAZIONE TRANSCATETERE IN DUE CANI
CON SINDROME DI WOLFF-PARKINSON-WHITE OCCULTA
Roberto A. Santilli Dr Med Vet DECVIM-CA (Cardiology)1, GianMario Spadacini Dr Med2, Paolo Moretti Dr Med3,
Manuela Perego Dr Med Vet4, Alberto Perini Dr Med Vet5, Alberto Tarducci Dr Med Vet6
1,4-5
Clinica Veterinaria Malpensa, Samarate, Varese, Italy; 2-3Mater Domini - Università dell’Insubria, Castellanza, Varese;
6
Patologia Medica Università degli Studi di Torino
La sindrome di Wolff-Parkinson-White è caratterizzata dalla presenza di vie atrioventricolari accessorie congenite (fasci di
Kent), che permettono il collegamento tra le fibrocellule atriali e quelle ventricolari. Nella maggior parte dei casi durante il ritmo sinusale è presente la pre-eccitazione ventricolare caratterizzata, dal punto di vista elettrocardiografico, da un intervallo PR
accorciato (< 60 ms), presenza di onda delta e complesso QRS con morfologia bizzarra. Queste caratteristiche elettrocardiografiche sono causate dalla sommazione degli impulsi elettrici che attraversano parallelamente il nodo atrioventricolare e la via
atrioventricolare anomala. La presenza di pre-eccitazione ventricolare dipende dai periodi di refrattarietà e dalle velocità di conduzione anterograda delle due vie atrioventricolari. In una minoranza di casi la pre-eccitazione ventricolare non risulta invece
evidente perché i fasci di Kent conducono solo in senso retrogrado (ventricolo-atriale). In questi casi esiste comunque il circuito per il mantenimento della tachicardia atrioventricolare ortodromica reciprocante che attraversa in senso anterogrado il nodo
atrioventricolare ed in senso retrogrado la via accessoria.
Lo scopo del lavoro è stato quello di descrivere il trattamento definitivo con ablazione transcatetere in radiofrequenza in due casi
di tachicardia atrioventricolare ortodromica reciprocante sintomatica, con fasci di Kent a conduzione unidirezionale retrograda.
Un Beagle maschio di 2 anni con peso di 15 kg ed un Labrador maschio di 1 anno di 25 kg sono stati riferiti presso il nostro
laboratorio di elettrofisiologia per tachicardia sopraventricolare ad alta frequenza di scarica. Nel primo caso era parossistica ed
in alcuni momenti sostenuta e causava grave debolezza con pulsazioni carotidee, tremori e scialorrea. Nel secondo caso la tachicardia risultava incessante con quadro clinico caratterizzato da debolezza persistente, anoressia e quadro ecocardiografico ipocinetico-dilatativo. Il Beagle era stato sottoposto 4 mesi prima a valvuloplastica transluminale per la presenza di una grave stenosi della valvola polmonare. Il risultato della valvuloplastica era stato soddisfacente con una riduzione del gradiente dell’85%
ed un gradiente residuo di 20 mmHg.
Per entrambi i pazienti è stato programmato uno studio elettrofisiologico per caratterizzare il tipo di tachicardia, con sospensione dei farmaci antiaritmici tre giorni prima della procedura. Il ritmo all’ammissione era sinusale per entrambi con normali tempi di conduzione atrioventricolare.
Gli studi elettrofisiologici sono stati effettuati in anestesia generale con un poligrafo 12 canali PC-EMS versione 4,32 dA (Mennen), previa sedazione con midazolan 0,2 mg/kg, induzione con 4 mg/kg di propofol e mantenimento con isoflurano e ossigeno. I pazienti sono stati posti in decubito dorsale per l’isolamento degli accessi venosi utilizzando la metodica di Seldinger. Sotto la guida dell’intensificatore di brillanza, sono stati introdotti un catetere decapolare attraverso la vena giugulare, nel seno
coronarico, un catetere quadripolare attraverso la vena femorale destra a livello dell’annulus tricuspidale per registrare l’elettrocardiogramma del fascio di His. Un terzo catetere per ablazione è stato introdotto, attraverso la vena femorale sinistra, alternativamente a livello di atrio destro, ventricolo destro e annulus tricuspidale. Nel Beagle è stata indotta ed interrotta, sia con stimolazione atriale sia ventricolare, una tachicardia atrioventricolare ortodromica reciprocante attraverso una via di Kent posterolaterale destra. La conduzione retrograda attraverso questa via è stata bloccata con una singola ablazione (16 W, 63°C, 60’’) in
tachicardia, con interruzione della stessa 8 secondi dopo l’inizio dell’erogazione. Nel Labrador è stata indotta una tachicardia
atrioventricolare ortodromica reciprocante attraverso un fascio di Kent postero-mediale la cui conduzione è stata interrotta
durante la tachicardia con erogazione in radiofrequenza tripla e blocco del circuito 15 secondi dall’inizio della terza procedura.
Dopo ablazione del primo circuito è stata evidenziata un’altra via anomala in posizione postero-laterale incapace di mantenere
una tachicardia e comunque ablata durante stimolazione ventricolare continua.
A sei mesi di distanza in entrambi i soggetti non si sono più evidenziati episodi di debolezza e i monitoraggi Holter hanno evidenziato la scomparsa delle tachicardie. Il Labrador ha dimostrato un completo ripristino della funzione ventricolare sinistra a
testimonianza dell’eziologia del suo quadro ipocinetico-dilatativo riportabile a tachicardiopatia.
In conclusione questo studio ha dimostrato l’efficacia di questa nuova tecnica nel trattamento definitivo della tachicardia atrioventricolare ortodromica reciprocante e la possibilità della sua esistenza in cani senza pre-eccitazione ventricolare evidente.
Indirizzo per la corrispondenza:
Clinica Veterinaria Malpensa, viale Marconi, 27 - 21017 Samarate - Varese - Italy
Tel. (39) 0331 228155 - Fax: (39) 0331 220255
E-mail: [email protected]
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366
LA MALATTIA DI SEVER (APOFISIOLISI CALCANEALE) NEL CANE:
DESCRIZIONE DI 6 CASI CLINICI
Vincenzo Santoro Med Vet1, Silvia Boiocchi Med Vet2, Angela Palumbo Piccionello Med Vet1,
Mauro Digiancamillo Med Vet3, Carlo Maria Mortellaro Med Vet2, Maurizio Del Bue Med Vet1
1
Dipartimento di Salute Animale, Sezione di Clinica Chirurgica Veterinaria e Medicina d’urgenza, Università degli Studi di Parma;
2
Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie, Sezione di Clinica Chirurgica Veterinaria, Università degli Studi di Milano;
3
Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie, Sezione di Radiologia e Chirurgia Sperimentale, Università degli Studi di Milano
Scopo del lavoro. La malattia di Sever (MS), patologia ben nota in medicina umana, tipica ma non esclusiva dei giovani sportivi, è caratterizzata da dolore calcaneale intermittente o continuo, associata talora a tumefazione locale. La presentazione clinica, frequentemente bilaterale, ed i reperti radiografici osservabili nell’uomo risultano pressoché sovrapponibili a quanto si evidenzia nella specie canina. L’eziopatogenesi è tuttora oggetto di studio e di controversia sia in medicina umana che in veterinaria; tra le ipotesi eziopatogenetiche proposte, quella più accreditata ascrive la condizione al solo sovraccarico funzionale associato a ripetuti microtraumi, l’altra suggerisce la compartecipazione di una forma di osteocondrosi extra-articolare (analogamente alla malattia di Osgood-Schlatter) coinvolgente il secondo nucleo di ossificazione del calcaneo. Sulla scorta delle rare
segnalazioni di questa malattia in medicina veterinaria, descritta nel cavallo, bovino e nel cane, scopo della seguente segnalazione è di riportare una rassegna di 6 casi clinici osservati nell’arco di 10 anni.
Metodi. Da aprile 1992 a dicembre 2002 sono stati osservati 6 soggetti con segni clinici o radiografici ascrivibili alla MS. Dopo
accurata visita ortopedica ed esame radiografico di entrambi i tarsi con proiezioni standard, 2 soggetti sono stati trattati chirurgicamente mediante osteosintesi con 2 fili di Kirschner e cerchiaggio di tensione, 4 sono stati trattati per via conservativa, di cui
3 con solo riposo e FANS ed un quarto associando il trattamento con onde d’urto.
Risultati. Dei 6 cani osservati, 3 erano Dobermann, 2 Rottweiler ed 1 Pitbull, 3 maschi e 3 femmine, con età media di 9,2 mesi.
In nessun paziente l’anamnesi riferiva un evento traumatico ed il quadro clinico comune a 5 dei 6 soggetti osservati era caratterizzato da zoppia posteriore cronica mono- o bilaterale associata a tumefazione calda e dolente in corrispondenza della tuberosità calcaneale. Il quadro radiografico era caratterizzato dalla separazione del tuber calcis dal corpo del calcaneo, associata a
fenomeni degenerativi ed osteolitici diffusi a margini non definiti. Uno dei soggetti osservati non presentava zoppia, ma solo
tumefazione monolaterale della regione calcaneale, non calda e non dolente, ma con gli stessi reperti radiografici prima descritti. Nei 2 soggetti trattati chirurgicamente si è verificato il fallimento dell’impianto; nel primo caso si è optato per la rimozione
della protesi e la sola restrizione dell’attività fisica, ottenendo in 10 mesi la scomparsa del dolore ed un buon recupero funzionale; nel secondo caso è stato effettuato un secondo intervento, con la stessa metodica descritta precedentemente, che ha consentito un recupero funzionale completo in 5 mesi. Nei cani trattati con approccio conservativo si è ottenuta, in 2 casi su 3, la
completa scomparsa della zoppia e del dolore rispettivamente in 7 e 9 mesi, mentre nel rimanente permane saltuaria zoppia. In
tutti i pazienti è residuata, tuttavia, tumefazione locale. Nel soggetto sottoposto a trattamento con onde d’urto il quadro radiografico, l’esito estetico e i tempi di guarigione sono stati decisamente migliori. In tutti i soggetti l’evoluzione radiografica della
lesione denotava fenomeni reattivi senza restitutio ad integrum.
Conclusione. Le segnalazioni della MS nel cane in letteratura si limitano a sole 2 pubblicazioni, in cui il segnalamento, la presentazione clinica ed i reperti radiografici appaiono pressoché sovrapponibili a quanto da noi osservato. Come evidenziato dagli
autori che ci hanno preceduto, Rottweiler e Dobermann rappresentano le razze maggiormente predisposte, cui si aggiunge il caso
del Pitbull, razza mai segnalata prima. Rimane tuttavia controversa l’eziopatogenesi, ma l’auspicata opportunità di eseguire esami istologici, già in sede diagnostica, potrà fornire informazioni indispensabili per meglio comprendere il significato di questa
entità patologica il cui inquadramento nosologico permane tuttora, anche in campo umano, oggetto di dibattito. Infine, nonostante l’esigua casistica, riteniamo che il trattamento conservativo possa rappresentare una valida opzione terapeutica sia per i
risultati incoraggianti ottenuti che per la incostante sintomaticità della lesione.
Indirizzo per la corrispondenza:
Vincenzo Santoro, Dipartimento Salute Animale, Sezione Clinica Chirurgica Veterinaria e Medicina d’Urgenza
Facoltà di Medicina Veterinaria, Università degli Studi di Parma, Via Del Taglio 8, 43100, Parma
E-mail: [email protected]
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367
ECOGRAFIA INTRALAPAROSCOPICA NEL CANE: VANTAGGI E LIMITI APPLICATIVI
Giuseppe Spinella, Med Vet, Assegnista di Ricerca
Dipartimento Clinico Veterinario, Sez. Chirurgica - Università Degli Studi Di Bologna
Scopo del lavoro. Scopo del presente lavoro è analizzare, attraverso lo studio di 6 casi clinici, i vantaggi e i limiti applicativi
dell’ecografia in sede laparoscopica nel cane.
Materiali e metodi. Sono stati impiegati sei cani di razza e sesso diversi e di età compresa tra gli 8 e i 16 anni sottoposti a laparoscopia per patologie ad organi addominali. L’ecolaparoscopia è stata effettuata con un ecografo Lynx Ultrasound Scanner Type
3101-Color e 3101-B/W con sonda microconvex con frequenza 7,5 mHz.
I pazienti sono stati anestetizzati con Propofolo (6 mg/kg IV), previa somministrazione di Atropina Solfato (0,02- 0,04 mg/kg
IM) e Butorfanolo (0,1 mg/kg IM). Il mantenimento dell’anestesia viene raggiunto utilizzando una miscela di O2 e Isoflurano
(2 – 3%) con apparecchiatura anestetica dotata di respiratore automatico volumetrico.
Su ciascun soggetto è stata eseguita un’iniziale esplorazione sistematica della cavità addominale col solo laparoscopio, introdotto in cavità attraverso una cannula inserita in posizione retrombelicale.
Dopo aver inquadrato l’organo o l’area anatomica interessati da patologie, è stata aperta una seconda via per l’ingresso della
sonda ecografica. Una terza via laparoscopica inoltre è stata creata per introdurre in addome una pinza laparoscopica atraumatica per il sollevamento, la contenzione e il corretto posizionamento degli organi da ecografare. La via d’accesso strumentale per
la sonda ecografica non è mai stata aperta al disopra dell’organo, ma ad una certa distanza, per permettere movimenti più ampi
e un maggior numero di scansioni ecografiche. L’esame ecografico videoguidato è stato condotto su tutta la superficie degli
organi e dei tessuti per acquisire informazioni sulla struttura ed individuare eventuali lesioni focali.
Nei casi in cui l’esame della cavità peritoneale e degli organi intraddominali ha rilevato un’area patologica sospetta, si è proceduto alla realizzazione di un prelievo cito-istologico.
L’esecuzione di tale prelievo sotto guida “eco-laparoscopica”, eseguito con ago da biopsia TruCut 14G semiautomatico o con
ago Menghini modificato, ha permesso di indirizzare l’ago precisamente sulla lesione e di seguirne il tragitto sino al prelievo.
Conclusa l’indagine diagnostica, ottica, sonda ecografica e pinze sono stati estratti con le relative cannule e le brevi brecce operatorie suturate.
Tutti i soggetti sono stati monitorati nel periodo pre- intra- e postoperatorio mediante esami emogasanalitici ed ematobiochimici. Il risveglio è avvenuto senza complicazioni e il decorso post-operatorio non ha rilevato alcuna complicazione relativa alla
tecnica diagnostica utilizzata.
Risultati e discussione. Le manualità diagnostiche sono state ben tollerate da tutti i pazienti, anche quelli critici, e tutti i prelievi bioptici eseguiti in sede laparoscopica sono risultati diagnostici.
Particolarmente vantaggioso è risultato il confronto simultaneo fra l’informazione ispettiva di superficie mediante laparoscopio
e l’esame ecostrutturale del parenchima ispezionato. Dal punto di vista operativo, la guida ecografica intraddominale ha permesso di guidare il prelievo bioptico in lesioni focali intraparenchimali limitando il danno vascolare. Inoltre, è stato possibile
controllare in tempo reale il tragitto dell’ago e la scelta dell’area più idonea al prelievo per esami cito-istologici e batteriologici, controllando le eventuali complicanze sia visivamente che ecograficamente.
Va sottolineato che probabilmente l’esame ecografico, eseguito in sede intraoperatoria a diretto contatto dell’organo, avrebbe
richiesto un trasduttore con frequenze maggiori di 7,5 mHz per una migliore visualizzazione degli strati superficiali. Gli Autori consultati in bibliografia utilizzano comunque sonde con frequenza 7,5 mHz e nessuna difficoltà operativa e interpretativa dei
sonogrammi viene da loro riportata.
Ulteriori limiti sono rappresentati dal costo dell’ecografo e della sonda da associare alla colonna laparoscopica e dai tempi d’apprendimento necessari per garantire un corretto impiego delle due metodiche.
Conclusioni. Una buona conoscenza della tecnica ecografica e delle metodiche laparoscopiche rende l’operatore in grado di fornire una prestazione diagnostica e/o terapeutica sempre più aggiornata e qualitativamente valida. L’ecolaparoscopia prevede
limiti applicativi, ma, nonostante ciò, costituisce indubbiamente un gradino evolutivo molto sofisticato della diagnostica per
immagini e della chirurgia mininvasiva, per la quale si prevede una più frequente richiesta dai proprietari, oggi più che mai attenti al benessere del proprio animale.
Bibliografia disponibile su richiesta.
Indirizzo per la corrsispondenza:
Giuseppe Spinella
Dipartimento Clinico Veterinario Sez. Chirurgica
Via Tolara di Sopra, 50 - 40064 Ozzano dell’Emilia (BO)
E-mail: [email protected]
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368
DOPPIA OSTEOSINTESI IN ANESTESIA REGIONALE IN PAZIENTE ASA 4
Lorenzo Novello, Med Vet, Dipl ESRA Italian Chapter, MRCVS1; Enrico Stefanelli, Med Vet2; Barbara Carobbi, Med Vet3;
Marco Scandone, Med Chir, Specialista in Anestesia, Rianimazione, Terapia Antalgica e Terapia Iperbarica4
1
Libero professionista, Padova
2
Libero professionista, Ferrara
3
Libero professionista, Lucca
4
Servizio di Anestesia e Terapia antalgica, ASL Pavia
Anestesia nel paziente critico. Il rischio dell’anestesia non deve essere considerato in maniera astratta ma deve sempre essere
messo in rapporto con il rischio che il paziente corre senza terapia chirurgica. Questo concetto è particolarmente valido non solo
per il paziente acuto con lesione incompatibile con la vita, ma anche per pazienti con lesione chirurgica classificabile come “di
urgenza differibile” come nel caso di trattamento definitivo di fratture mediante osteosintesi. Il controllo del dolore perioperatorio riveste importanza fondamentale, soprattutto nel paziente con patologia cardiaca associata: dolore, ansia e agitazione sono
associate a stimolazione simpatico-adrenergica con conseguenti tachicardia, aritmie, ipertensione, ischemia miocardica, ecc.
L’anestesia regionale permette un miglior controllo di dolore e risposta allo stimolo chirurgico e migliora la prognosi anche nel
paziente in urgenza. La fissazione ossea precoce permette mobilizzazione e recupero funzionale precoci, con rapido ritorno alle
abituali attività, oltre a riduzione significativa del dolore e delle complicanze ad esso correlate.
Anestesia combinata spinale-epidurale (CSE). L’anestesia combinata spinale-epidurale è una tecnica di anestesia regionale
che combina l’iniezione subaracnoidea con il posizionamento di un catetere epidurale, permettendo di sommare i vantaggi e di
eliminare gli svantaggi delle due tecniche singole. L’iniezione subaracnoidea garantisce insorgenza immediata del blocco, miorisoluzione, metamerismo e assorbimento sistemico virtualmente nullo, mentre la somministrazione frazionata tramite catetere
epidurale garantisce un’estensione temporale praticamente indefinita del blocco antalgico. La tecnica è particolarmente efficace per la chirurgia dell’arto posteriore, dello spazio pelvico e dell’addome medio-caudale, garantendo il piano chirurgico senza
necessità di ricorrere ad anestetici od analgesici per via sistemica. Al posizionamento del catetere epidurale segue l’iniezione
subaracnoidea di anestetico locale, e quindi la somministrazione epidurale frazionata di anestetico locale, oppioide e/o adiuvante.
Anestesia plessica. Il blocco del plesso brachiale permette l’accesso chirurgico all’arto toracico, in teoria dalla spalla all’estremità distale, ma esita in blocchi qualitativamente diversi a seconda delle componenti nervose bagnate dalla soluzione anestetica. La conoscenza delle componenti e della loro distribuzione territoriale permette di evitare blocchi incompleti che possono talvolta richiedere il ricorso intraoperatorio ad una anestesia generale classica. Come tutte le tecniche regionali anche l’anestesia
plessica ha dimostrato di migliorare l’esito. Le complicanze riportate in bibliografia veterinaria sono spesso riconducibili ad una
non corretta esecuzione della tecnica.
Caso clinico. È stato riferito un cane bracco tedesco maschio di 10 anni e 35 kg di peso, con anamnesi di trauma da investimento avvenuto 2 giorni prima e diagnosi clinica e radiografica di frattura completa di omero e femore con dislocazione dei
monconi e contrattura dei gruppi muscolari. Il paziente è stato classificato come ASA 4 per la presenza di filariosi cardiaca in
classe terza e per l’evidenza di contusione polmonare postraumatica e aritmia ventricolare. È stato sedato con 0,1 mcg kg-1 min-1
di remifentanil e 0,05 mg kg-1 min-1 di propofol, previa cateterizzazione venosa periferica, venosa centrale ed arteriosa, ed è stato monitorato (ECG, RR, SpO2, ETCO2, Fi-ETO2, NIBP, IBP, CVP, T°C) con Cardiocap 5 (Datex) in aggiunta al monitoraggio
clinico. È stato somministrato ossigeno tramite flow-by. Per la chirurgia a carico del femore è stata eseguita un’anestesia combinata utilizzando un set dedicato Rüsch (Set Epistar CSE Ballpen 25G, Rüsch srl). Si sono iniettati in tempi diversi: nello spazio subaracnoideo 14 mg di ropivacaina 1%, nello spazio epidurale 3,5 mg di morfina e 10 mg di bupivacaina 0,25%. Per la chirurgia a carico dell’omero è stata eseguita un’anestesia del plesso brachiale con 98 mg di ropivacaina 0,75% previa localizzazione con neurostimolatore. Per tutta la durata dell’intervento non si sono avute alterazioni dei parametri cardiorespiratori riferibili ad un piano anestetico insufficiente. In concomitanza con la trazione dell’omero si sono resi necessari 10 minuti di sedazione profonda per controllare movimenti volontari ed ansia, ed in tale breve lasso di tempo si è provveduto al controllo delle
vie aeree con tubo cuffiato.
Conclusioni. La corretta esecuzione di tecniche di anestesia regionale ha permesso la riduzione e fissazione chirurgica di lesioni ossee multiple in un paziente ad elevato rischio anestesiologico, limitando così le alterazioni cardiocircolatorie legate ai farmaci dell’anestesia generale e ad un inadeguato controllo del dolore. Solo in occasione della trazione di aree dell’arto toracico
al di fuori del blocco plessico si è resa necessaria una sedazione più profonda, con perdita dei riflessi protettivi delle vie aeree
e conseguente intubazione orotracheale.
Note. L’autore dichiara di non avere interessi economici nello studio eseguito.
Indirizzo per la corrispondenza:
Lorenzo Novello c/o ISVRA, Casella Postale, 10090 Reano (TO)
Fax non disponibile
E-mail: [email protected]
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369
APPORTO DELLA CITOMETRIA A FLUSSO ALLA DIAGNOSI,
CLASSIFICAZIONE E FENOTIPIZZAZIONE CELLULARE DI 49 CASI DI LINFOMA NEL CANE
Mahmut Sözmen1 Med Vet, Silvia Tasca2 Med Vet, Erika Carli2 Med Vet,
Tommaso Furlanello2 Med Vet, Davide De Lorenzi2 Med Vet, Marco Caldin2 Med Vet
1
Department of Pathology, Faculty of Veterinary Medicine, University of Kafkas, Pasacayiri, 36100 Kars
2
Liberi professionisti, Padova
Scopo del lavoro. Nel presente studio si vuole dimostrare l’applicabilità della citometria a flusso nella diagnosi, classificazione e fenotipizzazione cellulare del linfoma canino.
Materiali e metodi. In un periodo compreso tra Novembre 2002 e Settembre 2004 sono stati esaminati 49 casi di linfoma. L’iter diagnostico ha previsto una prima valutazione citologica su aspirati linfonodali colorati mediante coloratrice automatica
Aerospray 7150 Hematology (Viescor®) con May-Grünwald-Giemsa (MGG), seguita da classificazione citologica secondo Kiel
(aggiornata). I criteri impiegati per la classificazione morfologica si basano sulle dimensioni cellulari, sulla forma del nucleo,
sulla densità cromatinica, su numero, taglia e distribuzione dei nucleoli, sul volume e la basofilia citoplasmatica. La citometria
a flusso (FCa – Flow cytometry assay) eseguita su aspirati linfonodali, sospesi in PBS (phosphate bufffered saline), ha previsto
l’uso di tre anticorpi coniugati specie-specifici (CD3 FITC, CD4 FITC, CD8 PE) e due anticorpi coniugati umani (CD79 PE,
CD21PE), che cross-reagiscono con i linfociti canini. La FCa è stata eseguita con il citofluorimetro Epics XL-MCL (Beckman
Coulter®), e i dati sono stati calcolati mediante il sistema operativo System IITM (DOS 6.22). Il “gate” linfocitario è stato stabilito usando il forward scatter (FS) e il side scatter (SC), parametri che considerano rispettivamente le dimensioni cellulari e la
complessità citoplasmatica. All’interno del “gate” la percentuale delle sottopopolazioni linfocitarie è stata valutata considerando il SC e la fluorescenza dell’anticorpo coniugato. I linfomi risultati positivi al CD79, ma negativi al CD3, sono stati classificati come linfomi B; viceversa, linfomi positivi al CD3 e negativi al CD79, come linfomi T.
Risultati. Sono stati diagnosticati 31 linfomi B (63%), di cui 6 (6/49:12%; 6/31:19%) a basso grado e 25 (25/49:51%; 25/31:81%)
ad alto grado, e 18 linfomi T (37%), rispettivamente 4 (4/49:8%; 4/18:22%) a basso grado e 14 (14/49:29%; 14/18:78%) ad alto
grado. I linfomi B a basso grado sono stati classificati come segue: 4 linfomi MMC (macronucleated medium-sized cell), 1 linfocitico e 1 prolinfocitico. Dei 25 linfomi B ad alto grado 18 sono stati classificati come centroblastici, 3 come linfoblastici e 4 a
piccoli linfociti dall’aspetto plasmocitoide (non classificabili). I linfomi T a basso grado comprendono 2 linfomi linfocitici, 1 a
piccoli linfociti pleomorfo e una micosi fungoide. I 14 linfomi T ad alto grado includono 2 linfoblastici, 5 pleomorfi M/L
(medium/large cell) e 7 dall’aspetto plasmocitoide (non classificabili). Tra i 49 cani affetti da linfoma 19 (39%) erano femmine
e 30 erano maschi (61%). Il range d’età variava tra 2 e 15.5 anni, con un’età media di circa 8 anni; in particolare l’età media era
pari a 7.9 e 8.4 anni, con un range compreso tra 3 e 14 e 2 e 15.5 anni, rispettivamente nei linfomi T e B. In entrambi i fenotipi si è osservata una predisposizione per il sesso maschile: 10 maschi su 18 casi di linfoma T (56%) e 20 su 31 casi di linfoma
B (65%). Non si è osservata alcuna predisposizione di razza. Dai dati raccolti, in linea con quanto riportato in letteratura veterinaria1,2 emerge che il linfoma colpisce più frequentemente i cani maschi adulti-anziani (età media 8 anni) e che il tipo morfologico più comunemente osservato è il centroblastico (37%).
Conclusioni. In medicina umana così come in medicina veterinaria, la presentazione citologica del linfoma spesso è suggestiva di un dato fenotipo1; tuttavia la variabilità morfologica e il peso che il fenotipo ha nella valutazione prognostica2,3 di un
paziente affetto da linfoma, consigliano di avvalersi d’ulteriori metodiche per incrementare l’accuratezza diagnostica. Per tali
motivi, la citometria a flusso rappresenta un utile supporto alla citologia per la diagnosi, la classificazione e la prognosi del linfoma canino; inoltre l’accessibilità della procedura diagnostica, l’elevata percentuale di successo e i tempi brevi di refertazione
la rendono senza dubbio applicabile su larga scala nella pratica clinica.
Bibliografia
1. Fournel-Fleury C., et al. Cytohistological and immunological classification of canine malignant lymphomas: comparison with human non-Hodgkin’s
lymphomas. J Comp Pathol. 1997 Jul;117(1):35-59.
2. Jagielski D., et al. A retrospective study of the incidence and prognostic factors of multicentric lymphoma in dogs (1998-2000). J Vet Med A Physiol
Pathol Clin Med. 2002 Oct;49(8):419-24.
3. Kiupel M., et al. Prognostic factor for treated canine malignant lymphoma. Vet Pathol.1999 Jul;36(4):292-300.
Indirizzo per la corrispondenza:
Silvia Tasca Laboratorio Privato d’Analisi Veterinarie San Marco
Via Sorio n. 114/c - 35141 Padova
Tel. 049-8561039 - Fax: 02-700518888
E-mail: [email protected]
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370
PATOLOGIE NEOPLASTICHE DEL COLON E DEL RETTO:
DIAGNOSTICA PER IMMAGINI E STRUMENTALE
Rossella Terragni Dr Med Vet, Specialista in Patologia e Clinica degli Animali d’Affezione indirizzo Gastroenterologia
Libero Professionista - Sasso Marconi (BO)
Scopo del lavoro. Obiettivo del lavoro è quello di analizzare la casistica personale relativa ad un periodo di cinque anni e confrontarla con quella della letteratura esistente in medicina veterinaria e con riferimenti alla diagnostica in medicina umana.
Materiali e metodi. Da Gennaio 1999 a Dicembre 2003 sono stati diagnosticati, presso la nostra struttura, 25 tumori primari del
colon e del retto in 12 cani e 13 gatti. La diagnosi istologica è stata ottenuta in 9 casi mediante biopsie endoscopiche durante colonscopia, in 12 casi mediante biopsie eco-guidate ed in 4 casi attraverso laparotomia esplorativa. Tutti i campioni bioptici sono stati
prelevati con il paziente in narcosi, con diversi protocolli anestesiologici in relazione alla metodica utilizzata ed alle condizioni dell’animale. Nel presente studio abbiamo raggruppato le neoplasie primarie del colon e del retto, benigne e maligne, nel cane e nel
gatto. Sono invece stati esclusi dalla casistica i tumori multicentrici a localizzazione secondaria intestinale e i tumori metastatici
con interessamento intestinale. Inoltre, non sono stati considerati i fattori ambientali predisponenti i tumori intestinali.
Risultati. Sono stati riscontrati 25 tumori del colon e del retto in 12 cani e 13 gatti. Nel cane sono stati rilevati un polipo adenomatoso con infiltrazione carcinomatosa del peduncolo (adenocarcinoma in situ) del retto, 2 polipi adenomatosi del retto, 4
adenocarcinomi (tre del retto e uno del colon), 2 leiomiosarcomi del retto, 2 linfomi del colon ed un fibrosarcoma del cieco. Nel
gatto sono stati rilevati 13 linfomi, di cui 11 del colon, 1 della giunzione ileocolica e 1 del retto con differenti caratteristiche cellulari. L’aspetto ecografico presentava un ispessimento della parete con perdita della stratificazione in tutti i casi esaminati con
ultrasuoni. Alcune differenze tuttavia si sono notate in base al tipo di neoplasia. In caso di leiomiosarcoma la massa si è visualizzata in posizione eccentrica. Nel linfoma si sono rilevati noduli intramurali iperecogeni. Inoltre, l’ecografia ha permesso di
visualizzare l’aumento dei linfonodi regionali quando presente.
Conclusioni. Nell’ambito delle neoplasie del grosso intestino, i tumori benigni più rappresentati nel cane sono i polipi adenomatosi, peduncolati o sessili, del retto. Tra i nostri casi, è da segnalare quello di un cane Bracco Francese maschio di 10 anni
affetto da polipo adenomatoso del retto che presentava l’infiltrazione del peduncolo da parte di cellule carcinomatose. Gli altri
2 polipi adenomatosi del retto avevano caratteristiche benigne in tutta la loro estensione. Nel gatto i tumori epiteliali benigni del
grosso intestino sono rari. Noi non ne abbiamo diagnosticati.
I tumori maligni dell’intestino sono poco comuni negli animali domestici e rappresentano meno dell’1% di tutte le neoplasie
maligne. Il tipo istologico maligno più frequente nell’intestino del cane è l’adenocarcinoma. I casi da noi diagnosticati sono stati riscontrati in quattro cani maschi, 3 nel retto ed uno nel colon, due a placca e due anulari stenosanti. Gli adenocarcinomi nel
gatto sono meno frequenti rispetto ai linfomi. Per quanto riguarda i tumori mesenchimali del colon e retto, il leiomioma ed il
leiomiosarcoma sono i più rappresentati. I due casi diagnosticati presso la nostra struttura sono stati riscontrati in due cani a carico della muscolatura liscia della parete ventrale del retto e si estendevano a placca per circa 5 cm. Altri tumori mesenchimali
sono rari. Tra i nostri casi abbiamo riscontrato un fibrosarcoma localizzato nel cieco e giunzione ileo-cieco-colica, ben delimitato e senza metastasi evidenti.
Nel cane le forme linfomatose primarie del colon e del retto sembrano avere carattere biologico poco maligno. Si ritiene che i
linfomi gastrointestinali siano più frequenti nel gatto che nel cane; nel cane il linfoma è meno frequente dell’adenocarcinoma.
Nel gatto il linfoma è la neoplasia intestinale più rappresentata, seguita dall’adenocarcinoma e dal mastocitoma.
Nella nostra esperienza, i soggetti colpiti erano 10 femmine e 3 maschi, con un’età variabile dai 7 ai 20 anni. L’esame endoscopico permette di valutare con visione diretta la lesione e di effettuare prelievi bioptici. Tuttavia non consente la visualizzazione della parete in toto e dei linfonodi regionali. Al contrario l’esame ecografico consente una buona visualizzazione della
parete e dei linfonodi, ma un’insufficiente accuratezza diagnostica a livello della superficie mucosa. Quindi spesso si rende
necessario effettuare entrambe le metodiche per aumentare l’accuratezza diagnostica. In conclusione nella nostra personale casistica abbiamo riscontrato dati che confermano l’incidenza di questi tumori riportata dalla letteratura esistente. Nel cane abbiamo rilevato neoplasie epiteliali benigne nel retto tutte di tipo polipoide, di cui una mostrava evoluzione maligna. Due dei tre casi
erano maschi, e l’età media di presentazione era più elevata rispetto a ciò che è riportato in letteratura. Tra le neoplasie epiteliali maligne del colon e del retto, che sembrano essere le più rappresentative nel cane, tre su quattro dei casi da noi diagnosticati appartengono a razze cosiddette predisposte. Confermiamo che nel cane il sarcoma più comune è il leiomiosarcoma, mentre le altre neoplasie sono rare. Da segnalare il riscontro di un fibrosarcoma ciecale, neoplasia assai rara nell’intestino e mai
segnalata in questa sede. Nel gatto abbiamo riscontrato tutte forme linfomatose, che sono sicuramente i tumori del colon e del
retto più frequenti in questa specie. A differenza del cane invece, non abbiamo rilevato nessuna neoplasia epiteliale benigna del
retto, a conferma dell’estrema rarità di questo tumore nel gatto.
Indirizzo per la corrispondenza:
Dr.ssa Rossella Terragni Ambulatorio Veterinario dell’Orologio
Via dell’Orologio 38 - 40037 Sasso Marconi (BO)
Tel. e Fax: 051-6751232
E-mail: [email protected]
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371
INDAGINI CLINICHE, MORFOLOGICHE E IMMUNOFENOTIPICHE
IN 5 CANI AFFETTI DA LINFOMA A GRANDI LINFOCITI GRANULARI (LGL)
Vanessa Turinelli1,2 Med Vet; George Lubas1 Med Vet, Dipl ECVIM-CA;
Corinne Fournel-Fleury 2 Med Vet, PhD, Dipl ECVCP
1
Dip. di Clinica Veterinaria, Facoltà di Medicina Veterinaria, Università di Pisa, Italia
2
Laboratoire d’Hématologie-Cytologie-Immunologie, Ecole Nationale Vétérinaire de Lyon, France
I linfomi/leucemie a grandi linfociti granulari (LGL- Large Granular Lymphocyte) nell’uomo rappresentano un gruppo eterogeneo e ben definito di emopatie maligne che, sebbene possano avere una evoluzione diversa, lenta e progressiva o rapida e
aggressiva, sono caratterizzate tutte dalla presenza di linfociti con evidenti granulazioni azzurrofile nel citoplasma. Il fenotipo
di questi linfociti può essere T o Natural Killer e spesso l’infiltrazione coinvolge il fegato e la milza, talvolta il sangue e il midollo osseo. Nel cane è stata descritta in dettaglio solo la leucemia cronica LGL e solo recentemente è stato riportato un caso di linfoma epatosplenico1. Da un’ampia casistica di cani affetti da linfoma (circa 300 casi, raccolti negli ultimi otto anni) sono stati
indagati in dettaglio 5 soggetti colpiti da emopatia maligna linfoide LGL, per i quali è stato condotto un accurato studio clinico, morfologico e immunofenotipico.
Tutti gli animali sono stati presentati con dimagramento progressivo, astenia e in 3 su 5 casi con diarrea; all’esame clinico erano sempre presenti splenomegalia associata o meno a epatomegalia (3 su 5 casi) e ingrossamento dei linfonodi addominali (4
casi); il profilo ematologico evidenziava anemia non rigenerativa (4 casi), leucopenia (3), leucocitosi con leucemia (2) e trombocitopenia (3); il coinvolgimento midollare era presente nei due casi leucemizzati. La diagnosi è stata posta con esami citologici (FNA) in vita su milza, fegato, midollo e linfonodi addominali, variamente associati. Il decorso clinico in tutti i soggetti è
stato rapido ed aggressivo (da pochi giorni a poche settimane) nonostante per 2 pazienti sia stata tentata anche una chemioterapia standard a base di prednisone, vincristina, ciclofosfamide e L-asparaginasi, che però non è riuscita a bloccare o almeno rallentare il decorso infausto.
I prelievi citologici in vita ed istologici post-mortem su fegato, milza, linfonodi, intestino, midollo osseo e di altri organi infiltrati sono stati sottoposti alle seguenti indagini: morfologia, immunofenotipizzazione, determinazione dell’indice di proliferazione e caratterizzazione del contenuto delle granulazioni linfocitiche attraverso l’uso di markers specifici (perforina, granzyma
B e TIA1). L’esame citologico dei preparati ha segnalato l’infiltrazione dei parenchimi da parte di blasti linfoidi di taglia mediogrande, citoplasma basofilo contenente sempre delle granulazioni azzurrofile, localizzate o disperse; associata a questa popolazione linfoide atipica erano sempre presenti istiociti fagocitanti delle emazie. L’esame del fenotipo è risultato essere in 2 casi
tipo “null” (CD3-, CD3ε-, CD79a-, CD4-, CD8-) e nei restanti 3 casi tipo “T” (CD3+, CD3ε+, CD79a-, CD4-, CD8+). L’indice di proliferazione medio è risultato essere 54,4%. All’esame istologico i 2 casi tipo “null” mostravano un’infiltrazione delle
triadi portali nel fegato e dei seni e cordoni nella milza. I 3 casi con fenotipo “T” invece mostravano aspetti istologici distinti: 1
caso caratterizzato dall’infiltrazione della parete intestinale, delle triadi portali, della polpa rossa splenica e dei linfonodi; 2 casi
contrassegnati dall’infiltrazione sinusoidale del fegato, della polpa rossa della milza e di altri organi. Da questo studio è emerso che è possibile correlare questo tipo di linfoma con 3 entità analoghe descritte nell’uomo: i linfomi/leucemie aggressivi Natural Killer (aggressive NK cell lymphoma/leukemia) il linfoma T epato-splenico (hepatosplenic T cell lymphoma) e il linfoma T
intestinale (enteropathy type T cell lymphoma)2. Infine, è importante sottolineare come attraverso l’esame citologico sia stato
possibile diagnosticare agevolmente questo tipo di linfoma che ha sempre un decorso rapido ed aggressivo, una prognosi infausta e senza un’accettabile risposta alla chemioterapia.
Bibliografia
1.
2.
Fry MM, et al. (2003) Vet Pathol 40:556-562.
Jaffe ES, et al. Mature T-cell and NK-cell neoplasms. In: Jaffe ES, Harris NL, Stein H, et al. World Health Organization Classification of Tumours. Pathology and genetics of tumours of haematopoietic and lymphoid tissue. Iarc Press Lyon; 2001:189-235.
Indirizzo per la corrispondenza:
Vanessa Turinelli via Urano Sarti 11, 57100 Livorno
Tel. 335 53 83 251/ 335 82 16 922 - Fax 0586 444502
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372
UN CASO DI PLASMOCITOMA EXTRAMIDOLLARE IN FEGATO, MILZA
E LINFONODI SPLENICI IN UN GATTO
Fabio Valentini1 Med Vet MS, Marco Colaceci2 Med Vet, Fabio Del Piero3 DVM ACVP
Libero professionista, Roma; 3Departments of Pathobiology, Department of Clinical Studies NBC,
PADLS School of Veterinary Medicine, University of Pennsylvania Philadelphia- Kennet Square, USA
1,2
Introduzione. Le neoplasie plasmacellulari sono patologie caratterizzate dalla proliferazione abnorme ed afinalistica di plasmacellule; le conseguenze cliniche di tale proliferazione sono molteplici come la sindrome da iperviscosità, l’ipercalcemia, la
compromissione renale e l’immunodepressione. Sulla base della localizzazione e del comportamento biologico si distinguono
tre manifestazioni cliniche: il mieloma multiplo, la macroglobulinemia ed il plasmocitoma solitario che include il plasmocitoma solitario osseo ed il plasmocitoma extramidollare. Nel gatto tale neoplasia è molto rara e sembra non essere associata a FIV
e FeLV. In questa comunicazione viene presentato un caso di plasmocitoma extramidollare della milza, dei suoi linfonodi tributari e del fegato in un gatto.
Caso clinico. Jerry, gatto europeo, maschio castrato di sette anni viene riferito per un’ecografia addominale in seguito ad episodi di ematuria e disuria. Gli esami ematochimici precedentemente effettuati dal veterinario referente evidenziavano un aumento delle proteine totali (9,0 g/dl), ipoalbuminemia (1,8 g/dl) ed iperglobulinemia (7,2 g/dl); era presente anche leucopenia (3,8
X 103/µl) con neutropenia (2,0 X 103/µl) e linfopenia (1,0 X 103/µl); l’esame delle urine evidenziava ematuria. La valutazione
elettroforetica delle proteine plasmatiche non era stata effettuata. Il gatto, non essendo collaborativo viene sedato. L’esame fisico, comprensivo anche dell’esame del fondo oculare, è nella norma, l’ecografia addominale evidenzia una splenomegalia con
piccole lesioni focali ipoecogene diffuse, un’iperecogenicità delle corticali renali, un calcolo in vescica ed un linfonodo splenico aumentato di volume. Viene fatta, quindi, un’ago-fissione ecoguidata della milza; il materiale campionato è cellulare e la diagnosi citologica è di neoplasia plasmocitaria. Viene fatto un prelievo di sangue e di urine per un pannello ematochimico completo. L’elettroforesi sierica manifesta un picco monoclonale nella regione delle gamma globuline; il profilo biochimico esprime un aumento delle proteine totali con ipoalbuminemia e iperglobulinemia, è presente, inoltre, un’insufficienza renale proteinurica. Viene richiesta, quindi, la valutazione del rapporto PU/CU che risulta aumentato (3,3). Viene, quindi, effettuato l’esame
tramite SDS-AGE (sodium dodecyl sulfate – agarose gel electrophoresis) che fornisce come risultato una proteinuria mista evidenziando una lieve banda proteica del peso molecolare di circa 27000-28000 D, una banda marcata (in relazione al controllo) di 66000 D (albumine), ed una lieve banda di 75000 D (transferrina). Il pannello radiografico dei vari segmenti ossei non
evidenzia aree di lisi ossea. Viene iniziata una chemioterapia con prednisone 30 mg/m2 quotidianamente associato a melphalan
alla dose di 1,5 mg/m2 per bocca ogni giorno per dieci giorni per poi passare a giorni alterni. Dopo una parziale risposta alla
terapia durata tre settimane, compare un aggravamento dei sintomi generali: abbattimento, perdita di peso, splenomegalia alla
palpazione ed emorragie retiniche diffuse bilaterali; valore ematocrito (22%) e proteine totali con rifrattometro (11 g/dl); gli
esami strumentali evidenziano anche un’ipertrofia miocardica. Viene fatta una seconda ago-fissione della milza ed il quadro citologico è sovrapponibile a quello effettuato al momento della diagnosi. Dopo pochi giorni il gatto viene sottoposto ad eutanasia
e, sotto il consenso dei proprietari, vengono prelevati dei campioni di milza, linfonodo splenico, fegato, midollo osseo e rene in
sede necroscopica da inviare per gli esami citologici ed istologici. La citologia ha escluso un coinvolgimento midollare delle cellule tumorali mentre l’esame istologico ha messo in evidenza infiltrazione di cellule tumorali nella milza, nel fegato e nel linfonodo splenico. La diagnosi è stata di plasmocitoma extramidollare.
Discussione. Questa neoplasia è di raro riscontro nel gatto ed è stato interessante, ottenuta la diagnosi, andare a ricercare quelle sindromi paraneoplastiche associate ai tumori plasmacellulari. Nel nostro caso l’ipercalcemia era assente per il mancato coinvolgimento osseo; era presente anemia, leucopenia ed insufficienza renale proteinurica; la valutazione delle proteine urinarie tramite SDS-AGE ha fornito una banda (27-28 KD) che potrebbe essere compatibile con una proteinuria di Bence-Jones, di raro
riscontro, comunque, in questa specie, in accordo con la letteratura corrente, ma che non è stato possibile tipizzare con immunoelettroforesi o immunofissazione. Significativa, invece, la sindrome da iperviscosità sospettata sin dalla preparazione dello
striscio di sangue e confermata in seguito dal verificarsi del distacco retinico bilaterale e dall’ipertrofia miocardica.
La bibliografia è disponibile presso l’autore.
Indirizzo per la corrispondenza:
Fabio Valentini, via Benaco 07, 00199 Roma
Tel. 339/1464685
E-mail: [email protected]
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373
DIAGNOSI E TRATTAMENTO ENDOSCOPICO MEDIANTE LASER A DIODI
DELLA PARALISI LARINGEA NEL CANE
Massimo Olivieri; Simona Giovanna Voghera
DMV Samarate (VA)
Introduzione. La paresi/paralisi laringea (PPL) bilaterale è una patologia delle alte vie respiratorie che coinvolge varie razze di
cani, tra cui Labrador, Golden Retrievers, San Bernardo, Setter Irlandese, Bovaro delle Fiandre, Siberian Husky e Dalmata.
Anche cani meticci di media-grossa mole risultano occasionalmente affetti da questa patologia. I segni clinici principali includono tosse, intolleranza all’esercizio fisico, cianosi, rigurgito, stridori inspiratori, dispnea e collasso. La diagnosi finale si fonda sull’esame della laringe in anestesia generale mediante l’impiego del laringoscopio o dell’endoscopio rigido o flessibile. I
trattamenti chirurgici fino ad oggi utilizzati sono stati la lateralizzazione monolaterale della cartilagine aritenoide e la laringectomia parziale. Scopo del lavoro è di descrivere un nuovo metodo mini-invasivo di aritenoidectomia parziale tramite l’utilizzo
del laser a diodi per il trattamento della paralisi laringea nel cane.
Materiali e metodi. Nel presente studio sono stati selezionati i cani trattati per PPL mediante l’impiego di laser a diodi. La funzionalità laringea è stata valutata durante la fase di induzione e di risveglio dall’anestesia generale, mediante l’impiego di un
endoscopio rigido. Il trattamento chirurgico è consistito nella vaporizzazione mediante laser della porzione di aritenoide posta
ventralmente e lateralmente alla commessura delle 2 aritenoidi, tale da poter consentire un sufficiente passaggio di aria attraverso la laringe. A tutti i soggetti è stata effettuata una laringoscopia di controllo dopo 1 mese dall’intervento.
Risultati. Sono stati trattati 5 pazienti: uno Yorkshire di 12 anni, un Cocker Spaniel di 5 anni, un San Bernardo di 3 anni e due
meticci di grossa taglia, rispettivamente di 8 e 7 anni di età, tutti affetti da PPL bilaterale. Il post-operatorio è stato privo delle
problematiche associate al trattamento chirurgico di questa patologia descritte in letteratura. L’esame endoscopico di controllo
ha evidenziato una buona guarigione dell’area trattata oltre all’assenza di stenosi. Il recupero funzionale è stato completo nei
controlli ad 1, 6 e 12 mesi per 4 dei 5 casi operati; uno dei 2 meticci è invece deceduto in seguito ad una torsione gastrica 6 mesi
dopo l’intervento, durante i quali aveva dimostrato la mancanza assoluta di sintomatologia respiratoria.
Conclusioni. Nell’esperienza degli autori l’esame endoscopico risulta essere d’elezione nella diagnosi di PPL. Esso consente
una visione chiara, ingrandita e ben illuminata della laringe. Tale condizione è particolarmente vantaggiosa soprattutto nei cani
di media e grossa mole. L’aritenoidectomia parziale con laser si è dimostrata essere, anche se su una casistica ridotta, una tecnica mini-invasiva priva delle complicanze che a volte si instaurano con le tecniche chirurgiche normalmente utilizzate. Tra queste si ricordano: la polmonite ab ingestis, le infezioni legate alle manualità chirurgiche, l’edema e le emorragie intramurali, la
frattura della cartilagine aritenoide lateralizzata e la stenosi della glottide per cicatrici ipertrofiche. Sulla base dell’esperienza in
medicina umana, inoltre, risulta che il trattamento tramite laser, oltre a non denunciare complicanze significative, presenta
importanti vantaggi. Tra questi si ricordano la rapidità di esecuzione dell’intervento, che consente di essere operativi già in sede
diagnostica, la possibilità di ampliare l’aritenoidectomia, se questa non si dimostrasse essere sufficiente durante l’endoscopia di
controllo e l’assenza totale di cicatrici esuberanti, complicanza frequente nelle aritenoidectomie eseguite con le tecniche standard. È inoltre possibile, tramite l’utilizzo del laser, risolvere stenosi laringee di varia eziologia, tra cui quelle iatrogene associate ad aritenoidectomia con tecniche standard, causa più frequente di stenosi nei piccoli animali. Gli autori considerano che,
nella loro esperienza, questa tecnica rappresenta attualmente la procedura d’elezione nel trattamento della PPL. Esiste infine la
possibilità di poter trattare, con la stessa metodica, il collasso laringeo di I° grado, in presenza di cartilagini ancora toniche.
Indirizzo per la corrispondenza:
Massimo Olivieri
Clinica Vet. Malpensa, V. Marconi 27 21017 Samarate (Va)
E-mail: [email protected]
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374
DETERMINAZIONE QUANTITATIVA DELLA PROTEINURIA NEL CANE:
CATETERISMO O CENTESI VESCICALE?
Andrea Zatelli DMV, Paola D’Ippolito DMV, Irene Fiore DMV
Clinica Veterinaria Pirani - Reggio Emilia
Introduzione e scopo del lavoro. Il termine proteinuria indica la presenza di proteine nelle urine. La valutazione quantitativa
della proteinuria permette di rilevare la gravità del danno renale, monitorizzarne la progressione e valutare l’efficacia del trattamento terapeutico. Una metodica per la determinazione quantitativa della proteinuria è rappresentata dal rapporto Proteine Urinarie/Creatinina Urinaria (PU/CU). Il PU/CU, misurato su un campione di urine estemporaneo, non è influenzato dalla concentrazione urinaria e/o dal volume di urina raccolto ed è stato dimostrato che si correla bene con il calcolo della perdita proteica
nelle 24 ore. Gli studi prospettici e retrospettivi eseguiti in medicina veterinaria sembrano dimostrare che il metodo di raccolta
delle urine non influenza il valore del rapporto PU/CU. Fattori in grado si innalzare il valore ottenuto sono la macroematuria
(derivante da errata cateterizzazione, per esempio) o la presenza di cellule infiammatorie derivanti dalle basse vie urinarie. Scopo del presente lavoro è valutare il rapporto proteine urinarie/creatinina urinaria in campioni urinari prelevati dagli stessi pazienti di sesso maschile con due metodi di raccolta differenti (cistocentesi eco-assistita e cateterismo) e verificare se il rapporto
PU/CU si correla alla metodica di raccolta applicata.
Materiali e metodi. 25 pazienti di specie canina, di sesso maschile e di razze varie portati a visita per patologie nefrologiche e
non nefrologiche sono stati sottoposti a raccolta delle urine mediante cistocentesi eco-assistita e cateterismo urinario. La prima
veniva effettuata con paziente posto in decubito dorsale previa tricotomia dell’area di proiezione vescicale e disinfezione con soluzione di clorexidina al 4%. La raccolta veniva effettuata con metodica eco-assistita mediante siringa sterile del volume di 10 ml,
con ago da 21 G ed il campione raccolto nella quantità di 10 ml. Veniva mantenuta una distanza minima fra la bietta dell’ago e la
parete dorsale della vescica di 1 cm. La raccolta per cateterismo veniva effettuata mediante catetere urinario sterile di diametro
correlato alla taglia del paziente variabile da 2,0 a 3,0 mm. Il pene veniva sfoderato ed il glande disinfettato con soluzione di amuchina al 10%. I primi 10 ml di urina raccolti venivano scartati, mentre si procedeva alla raccolta dei 10 ml successivi mediante
siringa sterile. I campioni venivano poi posti in provetta sterile e sottoposti ad esame chimico-fisico e del sedimento nell’arco di
60 minuti dal prelievo. Venivano esclusi dallo studio i pazienti per i quali la valutazione clinica mediante esame ecografico e/o del
sedimento urinario avesse rivelato aspetti attribuibili ad infiammazione, infezione e/o neoplasia delle basse vie urinarie. I campioni destinati allo studio, dopo aggiunta di sodio azide all’1% nella quantità di 1 mcl/ml di urina, venivano trasportati al laboratorio di referenza in condizioni di refrigerazione e sottoposti ad analisi quantitativa della proteinuria mediante PU/CU.
Risultati. La comparazione del rapporto PU/CU in campioni di urina raccolti dagli stessi soggetti con le due metodiche differenti
sopra descritte, rivela un aumento statisticamente significativo nei campioni raccolti per cateterismo rispetto a quelli raccolti per
cistocentesi. La variazione del rapporto PU/CU nei campioni raccolti per cateterismo può assumere un ruolo rilevante nel caso di
pazienti che in tal modo vengano classificati in una fascia dubbia di valori (attualmente riferibile all’intervallo 0,45 – 1,0).
Indirizzo per la corrispondenza:
Clinica Veterinaria Pirani
Via Majakowski 2/L,M,N - 42100 Reggio Emilia
E-mail: [email protected]
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375
VALUTAZIONE ECOTOMOGRAFICA DELLE GHIANDOLE SURRENALI IN 24 GATTI
AFFETTI DA PATOLOGIE NON CORRELATE ALL’ASSE IPOFISI-SURRENE
Andrea Zatelli DMV, Paola D’Ippolito DMV, Irene Fiore DMV
Clinica Veterinaria Pirani - Reggio Emilia
Introduzione e scopo del lavoro. L’ecotomografia rappresenta il metodo d’elezione per lo studio della morfologia e delle
dimensioni delle ghiandole surrenali. A differenza degli altri mezzi di diagnostica per immagini, l’esame ecografico permette la
valutazione di queste strutture in condizioni fisiologiche e patologiche, nella maggior parte dei casi non richiede sedazione, è
innocuo per il paziente e per l’operatore e può essere svolto in maniera rapida. La valutazione ecotomografica dei surreni nella
specie felina dovrebbe rappresentare una pratica routinaria in corso di ecografia addominale. La descrizione dell’esame ecotomografico e della valutazione delle dimensioni delle ghiandole surrenali del gatto è scarsamente riportata in bibliografia, spesso limitata ai soli casi di alterazioni patologiche1,2. Le ghiandole surrenali del gatto si presentano di forma ovalare, tendenzialmente ipoecoiche e spesso non è identificabile la distinzione cortico-midollare2.
Scopo del presente lavoro è la valutazione delle dimensioni delle ghiandole surrenali in assenza di alterazioni ecograficamente
visualizzabili e la valutazione dell’esistenza di correlazioni tra dimensioni della ghiandola e superficie corporea, sesso ed età dei
pazienti presi in esame.
Materiali e metodi. 24 gatti portati a visita per patologie non endocrine venivano sottoposti ad esame ecografico addominale.
Dei 24 gatti, 11 (45,8%) erano femmine sterilizzate, 3 (12,5%) erano femmine intere, 10 (41,7%) erano maschi castrati. L’età
dei soggetti era compresa tra 1,5 e i 16 anni (con una media di 10,2 anni), il peso era compreso tra i 2 e i 6,4 kg (con media di
3,98 kg). La superficie corporea è stata calcolata utilizzando la formula: 10,1x (peso in gr)2/3 /10000.
Previo digiuno di 12 ore e tricotomia dell’area addominale, i pazienti venivano posizionati in decubito dorsale e sottoposti ad
esame ecografico con sonda di tipo lineare con frequenza variabile da 7,5 a 10 MHz (Medison SonoAce 6000C, Digital Color
MT) in funzione delle dimensioni e dello stato di nutrizione del paziente. In nessuno dei pazienti sottoposti ad ecotomografia
addominale si è resa necessaria sedazione a scopo contenitivo. Tutte le valutazioni ecotomografiche sono state eseguite da un
unico operatore. Per ciascun paziente è stato possibile visualizzare etrambe le ghiandole. Il fascio ultrasonografico veniva orientato in modo da cercare il punto di maggiore spessore visualizzabile e ogni ghiandola, dopo rimozione e riposizionamento della sonda, veniva misurata due volte considerando come attendibile la misura maggiore ottenuta. La medesima tecnica di studio
era applicata per la determinazione della lunghezza. Le dimensioni ottenute variavano da 7,1 a 19,5 mm di lunghezza e da 2,8
a 6,0 mm di spessore per la ghiandola surrenale sinistra e da 5,4 a 13,7 mm di lunghezza e da 3,4 a 7,1 mm di spessore per la
surrenale destra. In nessuno dei 24 soggetti sono state trovate tracce di mineralizzazione parenchimale.
Conclusioni. In base ai risultati ottenuti, gli autori ritengono che la visualizzazione delle ghiandole surrenali nel gatto sia più
semplice rispetto allo studio ecotomografico delle stesse strutture eseguibile nella specie canina. Le ghiandole surrenali del gatto sono tendenzialmente ipoecoiche e nella maggior parte dei casi ben distinguibili dai tessuti circostanti. Frequentemente non
è distinguibile la stratificazione ghiandolare. Nella nostra casistica non sono state identificate le mineralizzazioni parenchimali
descritte con frequenza sporadica da altri Autori3. Le dimensioni delle ghiandole surrenali non sono correlabili con la superficie
corporea, il sesso, e l’età dei pazienti. Anche patologie croniche e/o acute, che possono determinare condizioni stressanti con
attivazione dell’asse ipofisi-surrene, non sembrano correlarsi ad aumento di dimensioni a carico dei surreni.
Bibliografia
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28 (4): 869-885, 2000.
Indirizzo per la corrispondenza:
Clinica Veterinaria Pirani
Via Majakowski 2/L,M,N - 42100 Reggio Emilia
E-mail: [email protected]
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