La griffe, lo status symbol, il “premium”

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La griffe, lo status symbol, il “premium”
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Incentivare
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RIBALTA
IN-HOUSE
DOSSIER
DESTINAZIONI
NEWS
IL TREND INARRESTABILE DEL TURISMO A 5 STELLE
Quel lusso
che non è più
La griffe, lo status symbol, il “premium”,
in una parola “il lusso vero” è la vera tendenza
del momento. Un prodotto che non conosce crisi
né inflazione, perché acquistato da tutti, ricchi e meno
abbienti. E il turismo di lusso non fa certo eccezione
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un lusso
Il segmento del turismo di lusso, cioè, è
completamente estraneo a questa bellicosità che ha fatto dimenticare gli entusiasmi
alla base di un programma di incentivazione e l’eticità delle relazioni tra buyer e supplier e che per giunta non remunera né il
tempo né la progettualità.
Provate a chiedere al vostro architetto o al
vostro commercialista di curare un vostro
progetto senza pagare la sua consulenza e
poi vediamo cosa vi risponde. Mentre, ovviamente, alla incentive house che chiede
un preventivo è tutto dovuto e il lavoro di
consulenza e di preparazione del progetto
è... gratuito. Perché mai e poi mai nessun
cliente, che paga comunque anche la chiamata d’urgenza dell’idraulico e ogni fotocopia fatta dal proprio commercialista, si sognerebbe di pagare una giusta fee di consulenza al proprio agente di viaggio o al
proprio planner dell’agenzia incentive (!!!).
Ma questo ci porterebbe ad altre valutazioni che non sono oggetto di questo articolo (e che, comunque, non porterebbero
a un bel nulla di fatto, vista la prassi ormai
in uso e quindi come tale diventata abitudine, o malvezzo).
Spendere, spandere
e risparmiare
el marasma
dei preventivi
per meeting e incentive – che porta
a produrre (o a riciclare con il più bieco “copia e incolla”)
progetti sempre più
speso presentati in
Excel o in un formaDI ANTONIO ACUNZO
to anonimo, ovvero
senza quella creatività e quei contenuti necessari per una vincente Customer Value
Proposition (ne abbiamo già parlato sul numero di maggio dl 2006, con l’articolo Le
N
mucche sacre fanno gli hamburger migliori)
–, il segmento del turismo di lusso sembra essere completamente anelastico ed
estraneo alle tensioni dello shopping
around, della guerra sui prezzi, delle battaglie alle riduzioni di mark-up pur di vincere un bid (anche a costo di andare sotto
il breakeven, se non addirittura di partire da
meno 10-15 per cento, nella speranza poi di
recuperare – recuperare, in realtà, significa
strozzare i fornitori, che forse si fanno strozzare una volta, ma poi non sono più così
disponibili –, o a costo di accettare pagamenti a 60-90 giorni post evento senza interessi, e di combattere la spietata contrattazione da mercato a suon di sconti, fam-trip
gratuiti e chi più ne ha più ne metta).
Tornando all’oggetto del nostro articolo, il
consumatore paga molto volentieri qualche
euro in più per acquistare il caffè “firmato”
di una nota marca, qualche decina di euro
in più per acquistare un capo di abbigliamento firmato, qualche centinaia di euro in più per potersi fregiare di un
accessorio griffato (e questo
vale sia per le donne sia
per gli uomini).
E paga anche qualche centianaio,
se non addirittura
diverse
migliaia
di euro in più
per soggiornare in una
nota quanto
esclusiva
spa di un resort 5 stelle lusso, e per viaggiare
comodamente coccolato su una poltrona di
business class e di first class, che all’uopo si
trasforma in un comodo letto orizzontale con
tanto di piumino, cuscino e pigiama.
L’assurdo, come recita la prefazione del libro Trading up: la rivoluzione del lusso accessibile è evidenziato in un semplice concetto: “Facciamo la spesa al discount con
auto di grossa cilindrata”.
Di fatto, mentre molti settori merceologici,
compreso quello dei viaggi di incentivazione, sono caratterizzati dal taglio dei costi e
dall’erosione dei margini, in altri settori si
creano marche premium, rivolte al mercato
di massa, facendo leva proprio sul “trading
up” e riuscendo così a disegnare una stra-
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tegia sia di crescita dei volumi sia di aumento dei profitti.
C’è una logica alla base di questo comportamento del consumatore: noi tutti
siamo disposti a pagare un prezzo definito “premium” per tutta quella serie di
beni e di servizi ai quali attribuiamo una
importanza sia a livello “emotivo” sia in
termini di “qualità”. Se consideriamo che
in linea generale i “brand” del nuovo lusso
vengono venduti a un prezzo che oscilla tra
il 20 per cento e il 200 per cento in più dei
corrispondenti beni definiti “tradizionali” e
che per molte categorie il prodotto di lusso
rappresenta anche oltre il 20 per cento delle vendite e addirittura il 60 per cento dei
profitti, comprendiamo subito che ci troviamo di fronte a un fenomeno complesso che
coinvolge meccanismi psicologici del comportamento del consumatore, di strategia
aziendale per il posizionamento e il piano di
marketing del prodotto, di percezione di
status sociale per il possessore di tali beni,
di desiderio di un certo “lifestyle”.
Il discorso vale per tutti
L’argomento è sicuramente molto interessante e spazia trasversalmente in molti settori merceologici, dall’abbigliamento all’elettronica, dal vino alla ristorazione, dalle
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automobili alla birra e, ovviamente, l’industria del turismo non ne è esente.
Basta guardare semplicemente al proliferare dei resort 5 stelle lusso, non quelli classici delle vacanze “all inclusive” raggiungibili
con un volo charter da tour operator, bensì
quei resort altamente esclusivi in cui il primo parametro di esclusività è dato dalla
room rate (oltre i 800/1.000 dollari per bungalow overwater, a notte, in solo pernottamento e prima colazione) e poi da tutta una
serie di “plus” che vanno dalla location all’interior decor, dal menù dei servizi strettamente “a-la-carte” con l’assistenza di un
maggiordomo, alla spa disegnata con concetti new age o tropical-chic e con menù di
trattamenti che comprendono, oltre al classico massaggio o bagno turco, trattamenti
ayurvedici, olistici, hawaiani, menù fine-dining e la ricercata cantina di vini docg.
Parliamo di soluzioni tipo le palafitte Soneva Gili Crusoe della thailandese Six Senses
– che alle Maldive offre un ambiente esclusivo di oltre 200 metri quadrati lontani da
qualsiasi passarella che conduce al resort,
perché anche il room service arriva a mezzo pagaia –, oppure di catene alberghiere
che operano esclusivamente nel lusso come The Peninsula e Four Seasons Hotels &
Resorts, solo per citarne due come riferi-
mento, ma l’elenco potrebbe sicuramente
superare la ventina di referenti.
E sul fronte del trasporto aereo, ormai è palese che con le nuove tecniche tariffarie legate allo yield managament, la classe economica serve a coprire i costi operativi
mentre i veri profitti vengono generati
esclusivamente dalle classi premium, business e first.
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Molti settori
merceologici, compresi
i viaggi di incentive,
sono caratterizzati dal taglio
dei costi e dall’erosione
dei margini, in altri
settori invece si creano
marche premium
dai grandi profitti
I vettori combattono vere e proprie battaglie
di marketing e di innovazione del prodotto
per contendersi il coccolato viaggiatore
“premium”, che oggi ha davvero l’imbarazzo della scelta tra le nuove suites di first
class di vettori quali Emirates e Etihad
(guarda caso siamo negli Emirati Arabi) e la
nuovissima cabina di first class della Singapore Airline, il vettore che ha da sempre decretato lo standard di classe e di servizio
delle classi premium, che con solo 12 posti
sul nuovissimo Airbus A380 (il quadrireattore a due ponti) offre la possibilità, grazie all’abbattimento di un divisorio, di trasformare due letti singoli in un letto “matrimoniale”.
E non mi soffermo sul servizio di bordo e
sulla carta da fine-dining restaurant perché,
a questo livello, dai per scontato non solo la
presentazione del food ma la più alta qualità del servizio.
Mi fermo qui nell’elencare i prodotti del turismo di lusso (potrei citare i treni dell’Orient
Express, i voli a gravità zero, i lodge nei
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parchi africani e nel nord della Thailandia, e
via discorrendo) per passare invece all’aspetto più interessante di questo fenomeno
del lusso: il bisogno del consumatore di poter accedere al prodotto di lusso.
Lusso sì, ma quello vero
Partiamo intanto dal presupposto che non è
pensabile improvvisarsi venditori del lusso
con un semplice inventario di prodotti di
lusso a disposizione e da posizionare: purtroppo il mercato è già sufficientemente ricco di queste improvvisazioni e, per fortuna,
il consumatore, quello intelligente, è in grado di capire subito la capacità del suo interlocutore. È fondamentale acquisire gli
“skills” necessari per muoversi a proprio
agio in un ambiente multi-culturale delle
compagnie del lusso globale, ambiente sempre guidato dal cambiamento. È importante sviluppare una
visione complessa
e una capacità manageriale flessibile
che aiuti ad anticipare questi cambiamenti, costruendo strategie e fornendo una leadership visionaria
ben proiettata nel tempo. Questo consente
di capire sia il prodotto da posizionare sia il
consumatore a cui rivolgersi. Usciamo anche dal luogo comune che soltanto il
consumatore abbiente per ceto economico, sociale, culturale sia in grado di
poter accedere al lusso (anch se sicuramente è più facilitato all’accesso, lo fa
con disinvoltura, nel quotidiano e con
costanza). È però il consumatore di fascia media il vero obiettivo delle aziende
del lusso, turismo di lusso compreso.
Il consumatore di fascia media, come si
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legge nella premessa del libro citato prima:
“[…] attua sempre un processo di trading
up, scegliendo con cura prodotti e servizi
nuovi e migliori, mentre in altri settori attua
il trading down, liberando risorse per i suoi
acquisti premium”.
Questo fenomeno si osserva con chiarezza
negli Stati Uniti, dove il “lusso” viene ridefinito periodicamente proprio perché la gente
tende a resistere alla stratificazione e alla
segmentazione che la società cerca di imporre, e soprattutto grazie all’enorme potere d’acquisto delle famiglie americane.
Analogamente, un altro mercato per definizione legato al concetto di lusso è quello
del Giappone, Paese in cui, se mi consentite un luogo comune, non c’è un cittadino
che in viaggio in Europa non entri in una
boutique Louis Vuitton per acquistarne almeno un accessorio. Nella realtà, nel caso
specifico proprio della Maison Louis Vuit-
ton, il Giappone rappresenta il primo mercato di riferimento (il Giappone è comunque il mercato primario in termini di consumo di prodotti di lusso), al punto che nella
politica di aperture delle nuove boutique,
la Maison ha ben tenuto in considerazione
le destinazioni più frequentate dal viaggiatore nipponico: ed ecco così le boutique
Louis Vuitton comparire a Honolulu (primaria destinazione dei viaggi di nozze), a
Las Vegas (destinazione “gambling” per
eccellenza, per giapponesi e coreani), a
Guam (dove sicuramente non esiste un
mercato locale sufficiente a giustificare l’apertura di un atelier Louis Vuitton, ma la
destinazione è meta prediletta dei vacanzieri giapponesi, per cui dove vanno i giapponesi, lì c’è Louis Vuitton)!
Il fenomeno del lusso e di conseguenza
del turismo di lusso, quindi, è globale.
Nel meccanismo del lusso, del turismo
di lusso, non dobbiamo pensare solo e
soltanto a una esperienza da hotellerie 5
stelle, dove il contributo è già “incluso”
nella classificazione 5 stelle.
Non solo cinque stelle
Il lusso è esperienza unica, emozione,
condivisione. Il lusso è anche una “cooking class”, una cena con degustazione
dei vini con il sommelier dedicato alla
spiegazione di come si degusta e come si
abbinano vini e cibi. È una esperienza a
contatto con la natura, un corso di pittura
sui colli del Chianti, il tè delle cinque servito in spiaggia a Positano. È un massaggio
lomi-lomi sotto un gazebo in riva al mar
Rosso, nel Mar Cinese Meridionale, nell’Oceano Pacifico. È osservare il tramonto
con un flute di champagne in compagnia di
chi si ama, con il butler nelle retrovie pronto a riempire il bicchiere e a servire tartine
e canape. È il cestino da picnic che la Singapore Airlines invia ai propri associati
Pps (la categoria più elevata dei frequent
flyers) in occasione del compleanno. Ecco, il lusso è basato sull’attenzione, sul customer service, sull’originalità, sull’unicità
di quel momento, unico, assoluto, importante, nel quale il cliente si sente elevato a
uno status superiore, perché si sente coccolato. Non ci si improvvisa allora “maestri
del turismo di lusso”, ma il turismo di lusso
è ormai il segmento di riferimento, l’unico
che regali soddisfazioni, clienti fedeli e
soddisfatti e profitti all’azienda. Ma il turismo di lusso non è per tutti: e questo vale
sia per il consumatore sia per chi vuole
vendere lusso, quando in realtà non ne ha
né la competenza né la sensibilità né la
vocazione né l’attenzione. Il turismo di lusso è un business, ma non è un business
che si improvvisa: diffidate dalle imitazioni. Ciò che vale per le borse griffate, vale
anche per i venditori di viaggi!
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