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Milly Johnson UN INDIMENTICABILE AUTUNNO D’AMORE Questo libro è dedicato ai miei “fratelli”, autori dei testi per i biglietti d’auguri: Paul Sear, Alec Sillifant, Fraz Worth, Pete Allwright e Tony Husband. Ragazzi, vi adoro nel modo più assoluto. L’amore è un frutto che matura in ogni stagione ed è sempre alla portata di ogni mano. Madre Teresa di Calcutta Agosto Prima della ricompensa ci deve essere il lavoro. Si pianta prima di raccogliere. Si seminano lacrime prima di mietere gioia. Ralph Ransom, Steps on the Stairway Capitolo uno Stava tutto procedendo a meraviglia con la signorina Una in Punto. Juliet e Coco erano uniti nella loro decisione e si vantavano entrambi del loro intuito, affilato come un rasoio. La signorina Una in Punto aveva un piacevole profumo, diversamente dalla signorina Dodici in Punto, che era scivolata nell’appartamento lasciando dietro di sé una scia di puzzo di ascelle. Aveva inoltre alcune rughe di espressione, diversamente dalla signorina Undici e Mezza, che si era iniettata talmente tanto botulino da sembrare fuggita dal museo delle cere di Madame Tussauds. E aveva anche superato già da un po’ i trent’anni, diversamente dalle signorine Dieci e Quarantacinque e Nove e Cinque, che erano decisamente troppo giovani e sciocche. Chiunque non si ricordasse della prima uscita al cinema del film Karate Kid – Per vincere domani veniva automaticamente escluso dalla lista. La signorina Una in Punto era piacevolmente grassottella e prosperosa, diversamente dalla signorina Dodici e Mezza, che ostentava la raffinata magrezza tipica delle eroine. Sì, il fatto che la signorina Una in Punto sembrasse poter essere felice di condividere una torta al formaggio come spuntino di mezzanotte era l’indizio migliore che si trattava di una brava ragazza. Secondo Juliet le persone che si gustavano il cibo erano più propense a sviluppare una certa joie de vivre rispetto a quelle che mangiavano soltanto per nutrirsi. Tirò un sospiro di sollievo poiché la ricerca di una coinquilina adatta stava finalmente giungendo al termine; infatti, cercare di scovare qualcuno con cui condividere la propria casa e le bollette quando aveva ormai raggiunto un’età più adulta ed esigente era stata per lei un’enorme e inimmaginabile spina nel fianco. Poi Juliet le offrì un biscotto di farina integrale al cioccolato. «Non li mangio», disse la signorina Una in Punto, mentre il suo viso si contorceva come quello di Mr Bean. «Contengono grasso animale. E io sono vegana». 9/432 Pronunciò quella parola come se venisse da un altro pianeta, cosa che agli occhi di Juliet avrebbe benissimo potuto essere possibile. Vegani, vulcaniani, per lei non c’era alcuna differenza, orecchie a punta o meno. Puri e semplici alieni. Juliet e Coco si scambiarono delle occhiate d’intesa. Accidenti, un’altra da eliminare, si dissero l’un l’altra in un gioco di sguardi. Coco sapeva che Juliet avrebbe condiviso più volentieri il suo appartamento con Harold Shipman, uno dei più sanguinosi assassini seriali del Regno Unito, piuttosto che con una vegana. Non avrebbe gradito che qualcuno la fissasse come se fosse l’autrice di una serie di omicidi solo per il fatto che si stava gustando un panino con la pancetta e il corposo burro Lurpak o perché gironzolava per casa con le pantofole in pelle di pecora. L’atteggiamento della signorina Una in Punto era completamente cambiato ora che si trovava al cospetto di carnivori dichiarati nonché bevitori di latte, e non c’era alcun motivo di continuare con il colloquio. La signorina Una in Punto sfoggiò un sorriso d’addio, freddo come il vento siberiano, in direzione di Juliet e Coco e se ne andò arrancando sulle sue scarpe di plastica. «Come si fa ad avere un sedere così grosso mangiando solo sedano?», chiese Juliet meravigliata, una volta che la porta di casa fu saldamente chiusa. «Proprio non lo capisco», disse il suo amico Coco, intanto che si lisciava i ricci castano scuro, pettinati in stile New Romantic, e arricciava le labbra rosse e carnose in un gesto di eccessiva perplessità. Era alto e magro come uno stecco, ma Juliet glielo perdonava perché aveva sempre mangiato come un lupo affamato. Aveva semplicemente un metabolismo invidiabile. «Ovviamente, se scegliessi me come coinquilino non dovresti sottoporti a tutto questo». «Coco», disse Juliet con tono risoluto, «tu e io finché non vivremo insieme resteremo amici. Se vivessimo sotto lo stesso tetto, finiremmo per fare delle scenate, in cui io ti tiro calci in testa o tu mi cavi gli occhi. Non potrei mai condividere un appartamento con te. Mai. E tu non potresti mai condividere un appartamento con me». Poi adoperò le solite quattro parole che utilizzava ogni volta che 10/432 affrontavano quella discussione, cosa che era accaduta abbastanza di frequente negli ultimi tempi. «Ti ricordi di Maiorca?». Due settimane in Spagna con Coco e Hattie, la loro comune amica, erano state il massimo del divertimento, ma Juliet aveva capito che non avrebbe mai potuto condividere un appartamento con un uomo tanto fissato per le pulizie. E dato che Hattie se l’era poi svignata insieme a Roger, il marito di Juliet, neanche lei era in lizza per diventare la sua coinquilina. Augurava buona fortuna a entrambi, nonostante tutto. Perché sotto lo smalto affascinante e brillante del suo ex marito si nascondeva un’anima buia, a lungo marinata all’interno di quel «miserabile bastardo». Era questo il motivo per cui, dopo aver vissuto con lui per sei anni (un uomo il cui sorriso era finito in una vaschetta a fagiolo insieme alle sue tonsille all’età di dieci anni) Juliet non avrebbe mai più sottostimato la decisione di scegliere con chi vivere, coinquilino o compagno che fosse. I criteri non negoziabili erano: capacità di sorridere, forma fisica e il solito vecchio asso nella manica, ovvero l’intuito. Juliet non aveva alcuna intenzione di condividere il suo appartamento con qualcuno che avrebbe espresso la propria disapprovazione se per caso lei si fosse ficcata in bocca qualcosa che esulava dai cinque frutti quotidiani o da un cocktail di verdure. C’erano rimaste da vedere soltanto due possibili candidate. Fino all’arrivo della signorina Due in Punto, Juliet e Coco trascorsero il tempo a mangiare dei cioccolatini Thorntons, per l’equivalente di tremila calorie. Andrea arrivò alle due precise. La sua puntualità era impressionante, ma purtroppo poco altro di lei lo era. Sembrava che avesse appena viaggiato con un Tardis, la macchina del tempo del Doctor Who, direttamente dal 1962. Era slanciata, con dei lineamenti spigolosi, e indossava un ondeggiante vestito color verde caccola in coordinato con una collanina in stile hippy; aveva una permanente fuori moda che la faceva sembrare come fulminata, e puzzava pesantemente di olio di patchouli, motivo per cui Coco esplose in una 11/432 serie di colpi di tosse non appena lo respirò a pieni polmoni sulla porta d’ingresso. Lui giudicava le persone in base al loro profumo. Le fragranze erano sempre state una sua passione, era infatti il proprietario di un negozio di profumi gioiello: la Reggia dei Profumi di Coco. Li conosceva e li amava tutti, ma il patchouli era confinato in un angolo insieme ai profumi Tweed e Charlie, appena sotto il Devon Violets. Senza indugio, Andrea attraversò la stanza e si diresse nell’angolo più lontano, dove iniziò a battere le mani in aria. «Avete molta energia negativa accumulata in questo posto», disse con lo stesso disgusto che una persona avrebbe mostrato nel trovare degli escrementi di topo dentro al barattolo dei biscotti. «E non è forse un bidone quello che vedo vicino al tavolo da pranzo?». Pronunciò alcuni «Povera me» in segno di disapprovazione e continuò a battere le mani. «Gradiresti un caffè?», le chiese Coco, con gli occhi che gli si colmavano di lacrime nello sforzo di reprimere una risata. «Espresso. E soltanto se proviene dal commercio equo e solidale», disse Andrea, tornando con un fruscio verso il divano. «Questo appartamento è mai stato fumigato?». Juliet la guardò perplessa, non sapeva di cosa quella donna stesse parlando. «Si è offuscato in diverse occasioni», intervenne Coco. «Dopo qualche bottiglia di vino Shiraz». «I residui di energia hanno un tremendo bisogno di essere purificati», proseguì Andrea tirando su col naso e ignorando la battuta di Coco. Dopodiché, girò bruscamente la testa di lato e parlò a una presenza invisibile: «Sì, concordo in pieno». Coco corse in cucina e si mise uno strofinaccio in bocca. Dopo aver rovistato, trovò una bustina di caffè equo e solidale nella dispensa di Juliet. Gliel’avevano data in regalo con una rivista. «Quindi…», iniziò Juliet con un sorriso forzato, nonostante dentro di sé sapesse già che con Andrea non sarebbe andata da nessuna 12/432 parte. Voleva soltanto una persona normale, per l’amor del cielo! Era davvero chiedere troppo? «Dove vivi in questo momento?» «A Myrtle Grove, accanto a Huddersfield Road», rispose Andrea, mentre i suoi occhi vagavano per la stanza come se stessero inseguendo qualcosa che svolazzava. «Hai mai pulito i tuoi chakra?». “Pulito i miei cosa?”, si chiese Juliet. Per i suoi gusti, quella parola assomigliava troppo al nome con cui chiamavano le pliche del colon che si trovavano nel posteriore. «Corvo mi sta chiedendo di domandartelo», Andrea sorrise, spostando la sua completa attenzione su Juliet. «Corvo?», domandò Juliet, cercando di ignorare la vista della testa di Coco che faceva capolino dalla porta della cucina, alle spalle di Andrea, con uno strofinaccio conficcato in bocca. «Il mio spirito guida», rispose Andrea. «È un capo tribù dei Piedi Neri, gli indiani d’America. Lo consulto su ogni cosa». Era davvero troppo. «Ehm, lui lo vuole un caffè?», chiese Juliet con grandi e innocenti occhi verdi. Udì un gridolino provenire dalla cucina, mentre un po’ dell’isteria di Coco filtrava attraverso lo strofinaccio. Andrea sospirò e sollevò la sua borsa, che sembrava realizzata a mano con un paio di riquadri della moquette, arricciando il naso come se qualcuno ci avesse appena piazzato sotto un pesce marcio. «Mi dispiace. Non possiamo raggiungere un accordo. Lo capisco dal colore della tua aura, che tende fortemente al blu-grigio. Non credo che entreremo in sintonia; è evidente che tu non sei aperta alle idee nuove». Juliet balzò in piedi. «Oh, che peccato. Hai ragione, però, sono proprio una tradizionalista fino al midollo. Sei senza dubbio una persona molto perspicace». «Be’, certo. Sono assolutamente una cosa sola con me stessa». Dopodiché Andrea se ne andò dall’appartamento camminando senza fretta, con aria regale, senza gettare neanche un’occhiata indietro o salutare. 13/432 «Stupida donna», disse Juliet mentre la porta si chiudeva. «Inoltre il suo modo di fare era detestabile». «Che cosa significavano tutte quelle mosse?». Coco, che era completamente paonazzo in volto, marciò nello stesso angolo del salotto occupato fino a poco prima da Andrea e iniziò a battere le mani come un ballerino di flamenco con seri problemi di gestione della rabbia. «Feng shui?» «Feng schifo, vorrai dire. Non ho la benché minima idea di che cosa significassero», disse Juliet esprimendo la propria disapprovazione. «E quell’odore, puah! È peggio del culo del diavolo». Coco mosse l’aria nel tentativo di cacciar via quel profumo persistente. «Comunque, per una volta sono felice che “Balla coi Corvi”, o come si chiamava, l’abbia dissuasa dal restare. Avrebbe solamente appiccato fuoco alle tende con i suoi segnali di fumo. Coco, credi che ci sia ancora qualcuno di normale a questo mondo?» «Io!», disse Coco con un ampio sorriso. «Mi arrendo». Non c’era stata praticamente nessuna modifica da apportare all’appartamento quando Juliet l’aveva comprato dagli Armstrong, una coppia di mezz’età, appena dopo il suo divorzio, avvenuto in febbraio, grazie ai proventi piuttosto sostanziosi che aveva ottenuto vendendo a Roger la sua parte della casa coniugale. «Due notevoli camere da letto, un salotto arieggiato e spazioso con un’encomiabile zona pranzo, una cucina ristrutturata da poco, un bagno in stile hollywoodiano e un’ampia dispensa», si era vantato l’agente immobiliare. Era evidente che in quell’appartamento, prima che finisse tra le grinfie di Juliet, avesse vissuto una donna dal carattere dominante. Ogni sera e durante i fine settimana, la signora Armstrong doveva aver brandito un frustino sopra la testa del signor Armstrong, avanzando richieste impossibili da soddisfare riguardo a mensole, ripiani in legno e bastoni per le tende in ferro battuto. E alla fine di una giornata di duro lavoro, sembrava che si ritirassero in camere 14/432 separate, senza nemmeno la prospettiva di una trombata di ringraziamento per lui. E proprio quando la signora Armstrong aveva raggiunto il suo ideale di appartamento, ecco che aveva adocchiato un posto più grande e il povero signor Armstrong era stato costretto a rincominciare da capo a realizzare i sogni di sua moglie, partendo dai pavimenti laminati. Tuttavia, quell’appartamento era perfetto per Juliet. Aveva tanto spazio e soffitti belli alti, cosa che tornava comoda se si aveva una famiglia insolitamente alta come la sua. E nonostante il mutuo fosse esagerato – come ci si poteva aspettare da un appartamento di una certa qualità in una zona così appetibile – sarebbe bastato trovare un coinquilino per ammortizzarlo almeno un po’. Gli Armstrong l’avevano messo sul mercato a un prezzo non troppo esoso nella speranza di venderlo in fretta e Juliet si era trovata nella posizione perfetta per approfittarne. Era soltanto un po’ vuoto. Non in termini di mobilio, ma di compagnia: ragazze che divorano una deliziosa torta panna e cioccolato nel cuore della notte, maschere di bellezza per il viso alle nove, prendere in prestito lo smalto per le unghie, un film sdolcinato con un bellissimo e passionale eroe alla Darcy di Orgoglio e pregiudizio su cui fantasticare, una bottiglia di Cabernet Sauvignon e una persona sempre pronta a lusingarti. Lo stesso tipo di cameratismo di cui lei, Caroline e Tina avevano goduto durante gli anni dell’università prima di crescere troppo e scoprire di non avere più niente in comune – nemmeno quanto bastava a volersi scambiare dei biglietti d’auguri a Natale. Juliet cercò di non pensare a Hattie, che era stata da sempre la sua migliore amica. Non aveva ammesso nemmeno con Coco quanto l’inganno di Hattie l’avesse ferita. Doveva difendere la sua reputazione di stronza tosta e sfacciata. L’annuncio era quindi finito sia sul «South Yorkshire Herald» che sul «Barnsley Chronicle». Juliet aveva preparato una bozza: Coinquilina cercasi per una trentaquattrenne di buon cuore, dal sedere grosso, sorridente, intelligente, saputella, amante delle barzellette sconce e divoratrice di 15/432 cioccolato. I candidati non devono essere infastiditi da rumorosi genitori irlandesi che sbucheranno in giro anche più spesso di quanto gradito e da un fratello gemello che è solito importunare chiunque con il suo repertorio di prese da wrestling e di creazioni culinarie che saranno, più o meno, sempre presenti in casa. Poi, ripensandoci, Juliet optò per una versione drasticamente ridotta in modo da non allarmare nessuno: Cercasi coinquilina sui trent’anni per condividere un appartamento molto elegante al secondo piano, insieme a professionista alla mano (eterosessuale). Stanza spaziosa, soleggiata e indipendente, in posizione centrale ma tranquilla. Blackberry Court, numero 3. «E se la signorina Tre in Punto sarà pessima come tutte le altre?», domandò Coco, dando una sbirciatina al suo orologio. «Non lo so, tirerò avanti con il mutuo da sola, a fatica. Che altro posso fare?» «Sei costretta a tirare troppo la cinghia a causa di questo posto, per quanto incantevole sia. Un altro caffè?» «Come vuoi», disse Juliet. «Ma non farmi la ramanzina». «Potrei trasferirmi domani», buttò lì Coco. «Piuttosto preferirei tagliarmi un piede e mangiarmelo dentro a una baguette». «Be’, non si è ancora presentata una pazza fanatica religiosa. Forse, tempo cinque minuti, saremo rallegrati da un repertorio di canzoni eseguite con un tamburello e delle percussioni di lattine». «Non me ne stupirei», sospirò Juliet. Alle tre e un quarto ancora non si era presentato nessuno. Coco stava per dire: «Bene, quindi è finita», quando suonò il citofono. «Salve», esordì una voce ansimante appena Juliet rispose. «Mi scuso per il ritardo. Ho appena dovuto portare un porcospino dal veterinario». «Sali», disse Juliet, con un sorriso forzato. Si girò verso Coco e scosse la testa: «Mi arrendo. Non si tratta della religione, ma di un porcospino. E mi è sembrata una snob». 16/432 «Oh, Gesù». Coco rivolse gli occhi al cielo. «Riportateci il Grande Capo che Applaude negli Angoli». Juliet aprì la porta. «Prego, entra», disse e si scostò per far passare Florence Cherrydale, che preferiva essere chiamata Floz, per poi squadrarla da dietro, dalla testa ai piedi. Era minuta, alta più o meno un metro e sessanta, con lunghi e ondulati capelli rosso scuro e una figura sinuosa tipica degli anni Cinquanta. Aveva il viso paonazzo poiché aveva corso per le scale. Sembrava inoltre troppo docile e mansueta per i gusti di Juliet, e dava l’impressione di non essere stata tra i primi della fila quando avevano iniziato a distribuire il senso dell’umorismo. E aveva il timbro di voce di un tenente colonnello. “Fantastico”, pensò Juliet. Si trattava probabilmente di una snob altezzosa che avrebbe guardato ogni cosa dall’alto in basso. Quella giornata si era rivelata solo un modo del cacchio per sprecare un giorno libero dal lavoro, sia per lei che per Coco. «Mi scuso ancora tanto per il ritardo», ripeté Floz. «Ho dovuto fermare il traffico per raccogliere un piccolo porcospino zoppicante e non mi è andata molto bene per via di un uomo che sbraitava. Non potevo lasciarlo a zoppicare in quel modo. Mi riferisco al porcospino, non all’uomo che sbraitava». «Be’, ora sei qui», Juliet stava sfoggiando un enorme sorriso, nel frattempo pensava: “Ecco che si ricomincia”. Intanto che Juliet preparava il bollitore per la centesima volta quel giorno, Coco portò l’ancora tremolante Floz a fare un tour guidato dell’appartamento. La stanza libera era la più piccola delle due camere da letto, ma a quanto pareva era comunque enorme se paragonata alla sistemazione attuale di Floz. Era inoltre a forma di L, e quindi per Floz sarebbe stata perfetta in quanto lavorava da casa e aveva bisogno di un piccolo ufficio. Si spostarono poi in salotto per prendere il caffè. Mentre Floz passava vicino a Coco, lui colse un profumo delicato di fragole di fine estate. In risposta, gli angoli della sua bocca si curvarono verso l’alto. Floz posò sul divano la sua borsa, che si rovesciò e, tra gli altri detriti 17/432 tipici di una borsa, spuntò un piccolo libro: L’arte di essere felicemente single. Floz sembrava mortificata. «Scusatemi ancora. Sono una tale imbranata». Le sue guance si infiammarono di nuovo come la luce rossa di un semaforo e Juliet sentì un’improvvisa e sorprendente ondata di compassione. Ma fu Coco a salvarla. «Ho letto un sacco di libri di quel genere», disse in tono cordiale, mentre Floz si agitava nel tentativo di reintrodurre tutti i suoi averi in borsa. «Le regole, Donne che amano troppo, Sbarazzati di lui…». «…Le donne vengono da Venere, gli uomini dai loro stessi deretani…», aggiunse Juliet. «…La verità è che non gli piaci abbastanza», proseguì Coco, con un triste sospiro. «Perché gli uomini lasciano sempre alzata l’asse del water e le donne occupano il bagno per ore?…». «Come trovare un uomo che non sia un completo idiota», aggiunse Floz. Poi sorrise, e improvvisamente sembrò un’altra persona. Qualcuno con dentro una lampadina da mille watt che si era accesa di punto in bianco. Anche i suoi occhi stavano sorridendo. Di un verde chiaro, malizioso e splendente, erano gli occhi di un bambino che sorride radioso mentre esclama: «Ho una rana in tasca». L’intuito di Juliet le fece strappare la lista con sopra tutte le altre possibili candidate per buttarsela dietro le spalle, tutto a causa di quel sorriso. “Sì”, le diceva l’istinto. “Lei andrà bene”. La squilibrata salvatrice di porcospini dalla voce molto cortese e con in borsa un libro sull’autostima era quella giusta. Juliet le offrì i biscotti di farina integrale al cioccolato e Floz ne prese uno, emettendo un «Oooh» di gioia. La decisione era presa. E fu così che per le sette di quella sera Floz Cherrydale, dopo aver depositato valigie e scatoloni sul pavimento della sua nuova camera, era seduta sul divano della sua nuova coinquilina per scegliere che cosa ordinare dal menu da asporto del ristorante cinese la Grande Muraglia, mentre guardava Valle di luna e beveva Baileys in quantità degne di una festa. Capitolo due Il telefono di Juliet squillò nell’esatto momento in cui si stava sfilando il cappotto in ufficio. Era Coco che, da solito adorabile ficcanaso, la chiamava come di consueto cinque minuti prima dell’apertura della sua Reggia dei Profumi, situata in una delle vie dello shopping del centro città. «Allora, com’è andata la tua prima notte con la nuova coinquilina? È successo qualcosa dopo che me ne sono andato?» «Tipo cosa?», lo prese in giro Juliet. «Nessun pettegolezzo?» «Tipo cosa?» «Oooh, sei fastidiosa questa mattina. È così che ti comporterai adesso che hai una nuova amica?». Juliet rise. «Questo è davvero il massimo detto da uno che mi scarica come una patata bollente non appena ha il più piccolo barlume di una storia amorosa». «Non posso fare a meno di essere una persona ossessiva». Coco tirò su col naso. «È una che parla con garbo, vero? Non come te, banale sgualdrina. Oooh, e che profumo porta?» «Come diavolo faccio a saperlo?» «Qualsiasi cosa fosse, aveva un accenno di fragola. Delizioso». Si disse di ricordarsi di chiederlo a Floz la prossima volta che l’avrebbe vista. «Credo che a Floz piacciano le fragole. Ha appeso alle pareti dei piccoli quadri che le raffigurano, e quando apre la porta, dalla sua stanza si diffonde un odore di fragole». «Oh cielo», sorrise Coco. Sapeva che chiunque profumasse come Floz Cherrydale non poteva che possedere un animo gentile. «Immagino che tu non abbia avuto notizie di Darren», s’informò Juliet con tono delicato. 19/432 «No, ancora nulla», disse Coco, mentre il sorriso si afflosciava fino a terra nel sentire il nome del suo ultimo amante. «Sono passate tre settimane, sei giorni e quattordici ore. Non che stia tenendo il conto. Credo ancora che mi chiamerà. Il mio intuito mi sta dicendo con insistenza che sono ancora nei suoi pensieri». «No, tesoro, non credo tu lo sia», rispose Juliet. Lei non era il genere di persona che avrebbe mentito a Coco dandogli delle false speranze. A che cosa sarebbe servito? Se un uomo che ti riempiva di attenzioni spariva inaspettatamente, senza rispondere alle chiamate o ai messaggi, non sarebbe riapparso all’improvviso fornendo una scusa plausibile. A meno che non fosse morto – ma anche in tal caso era improbabile che si facesse risentire. «Va bene», disse Coco, cercando di non cedere all’ondata di emozioni. «Cambiamo argomento. Quindi che cosa sai fino a ora di Floz?» «Non molto», rispose Juliet. «È single, come avrai capito dal libro che ha fatto cadere, lavora da casa, inventa battute e poesie per il settore dei biglietti d’auguri, guida una Renault. Insomma, cose noiose». «Tutto qui?» «Per ora temo di sì, giovanotto. Sicuramente col tempo scopriremo di più», disse Juliet. «Mi piace. Abbiamo preso il caffè insieme questa mattina. Si alza abbastanza presto per iniziare a lavorare». «Davvero un peccato che non sia il tipo giusto per Guy», commentò Coco, che non perdeva mai l’occasione di combinare un buon incontro amoroso. «Ho pensato esattamente la stessa cosa», sospirò Juliet. Sì, era un peccato che Floz fosse così piccola, che avesse i capelli rossi e che sembrasse tanto delicata da rompersi come un guscio d’uovo. Se fosse stata alta, statuaria e bionda, Juliet avrebbe acciuffato suo fratello e l’avrebbe trascinato a casa sua per fargli conoscere Floz cinque minuti dopo che si era trasferita. «Avreste potuto fare un’uscita a coppie», disse Coco con gioia. «Floz e Guy insieme a te e Piers». 20/432 «Oh, non farmene parlare. Sarà qui a minuti, a respirare la mia stessa aria». Juliet si sciolse al pensiero di avere qualcosa del suo capo dentro di sé – anche se si trattava soltanto dell’esalazione del respiro di lui nei propri polmoni. «Stavo pensando…», disse Coco. «Che ne dici di fare qualcosa per occupare il tempo che va da ora al momento in cui diverrai la signora Winstanley-Black?» “Oooh, l’idea mi piace”, pensò Juliet. Formò le parole con le labbra: «Juliet Winstanley-Black», e pensò che la facesse assomigliare a un magistrato. «Tipo cosa?» «Incontri su internet». «Incontri su internet?», gli fece eco Juliet. «Come ti è venuto in mente?» «Sono annoiato», ammise Coco. «Vedo sempre le stesse facce negli stessi locali e ho voglia di un po’ di carne fresca». «Allora vai in Lamb Street da Barry il macellaio». «Ah-ah. Marlene, la mia vicedirettrice, ha incontrato il suo fidanzato su internet. E sua cugina sta uscendo con un architetto che ha conosciuto tramite lo stesso sito, singlebods.com. Non si iscrivono soltanto i rifiuti della società, come quelli che partecipano al Jeremy Kyle, quel talk show spazzatura. Dài, sarà divertente. E ho bisogno di qualcosa per non pensare a Darren». Proprio in quell’istante, Juliet sentì la voce vellutata di Piers Winstanley-Black che diceva «Buongiorno» alla receptionist. «D’accordo, ci sto», disse Juliet tagliando corto. «A dopo. È arrivato». Ed ebbe a malapena il tempo necessario per terminare la telefonata, passarsi le dita tra i lunghi e lucenti capelli neri e tirare in fuori il petto. Anche Amanda e Daphne, le colleghe con cui condivideva l’ufficio, avevano raddrizzato la schiena e si stavano sistemando velocemente i capelli. Stavano tutte sperando che entrasse per scegliere una di loro e portarla di sopra nel suo ufficio per «annotare qualcosa». 21/432 Piers Winstanley-Black. Detentore di un prestigioso trattino nel cognome di famiglia e, da ormai quattro anni, socio della Butters, Black & Lofthouse, dove Juliet lavorava da quando aveva lasciato l’università, per poi diventare la più efficiente segretaria legale nella storia dell’ufficio. Non che ciò si fosse rivelato utile con il “ragazzo di Ipanema”, come suo fratello gemello Guy chiamava Piers. Esattamente come diceva la canzone The boy from Ipanema, Piers Winstanley-Black era alto e abbronzato, grande e bello, con un sorriso talmente bianco e smagliante che a confronto quello di Simon Cowell sembrava ingiallito. Guidava macchine veloci, indossava completi impeccabili che gli accentuavano le spalle larghe e il girovita sottile, tonificato dalla palestra, portava scarpe realizzate a mano e costosi dopobarba italiani, che Coco avrebbe approvato in pieno. Nonostante mancassero pochi mesi al suo quarantesimo compleanno, Piers non si era mai sposato – anche se Juliet sospettava che avesse un libricino nero pieno di nomi di donne in attesa di ricevere una sua chiamata con relativa proposta di matrimonio. Di quando in quando emergeva però dal suo mondo per accertarsi del proprio splendore e osservare se stesso nell’atto di provocare brividi erotici lungo le schiene femminili come fossero milioni di bollicine di champagne. Faceva bene ad approfittarne finché poteva, in quanto da lì a dieci anni, pensò Juliet, avrebbe potuto avere delle guance come un Basset Hound e una pelata delle dimensioni di Marte. Sebbene tutte e tre le donne avessero gonfiato il petto in affannosa trepidazione, gli occhi di lui non si posarono su nessuna di loro mentre passava accanto alla porta aperta. Evidentemente, c’era ancora molto tempo da aspettare prima che Juliet potesse incidere il suo doppio cognome sulla testiera del letto a baldacchino che avrebbero condiviso. Daphne sospirò: «Se soltanto avessi vent’anni di meno…». «Saresti comunque troppo vecchia di quindici anni per i suoi gusti», rise Juliet. «Perfino Amanda è troppo vecchia e ha venticinque anni». 22/432 «Non parlarmene», sbuffò Amanda. «Inoltre gli piacciono le bionde con le gambe che arrivano al soffitto e le tette come palloni da spiaggia». Alta un metro e trenta, con corti capelli neri e una prima scarsa di seno, Amanda sapeva che Piers Winstanley-Black avrebbe più probabilmente prestato attenzione alla bionda Daphne che a lei. «Se mi raccogliessi le tette dalle ginocchia e le arrotolassi, potrei riuscire ad attirare il suo sguardo», ridacchiò Daphne. «Daf, non essere volgare. In più è il tuo turno di mettere l’acqua nel bollitore», disse Juliet, simulando il suo miglior tono autoritario. «Signorsì, ragazza», disse Daphne alzandosi in piedi. «Una tazza di tè al posto del sesso. La storia della mia vita». «E purtroppo anche della mia», replicò Juliet, domandandosi quale fosse il trucco per far sì che Pierce Winstanley-Black la guardasse con gli occhi di un uomo. Doveva esserci un trucco – c’era sempre con gli uomini. Capitolo tre I genitori di Juliet riuscirono a trattenersi fino alla domenica prima di recarsi da lei con il ridicolo pretesto di prendere in prestito un martello. «Papà, hai più martelli tu di tutti i grandi magazzini del fai-da-te della città messi insieme!», rise Juliet al citofono. «Sì, ma non riesco a trovare da nessuna parte il mio martello levachiodi», disse Perry Miller. Il suo vero nome era Percy, ma l’ultima persona a chiamarlo così era stata quella terribile e vecchia suora, direttrice della scuola materna Holy Family, nella contea di Cork. «E c’è bisogno che veniate in due per portarvelo via, non è vero?», continuò Juliet, facendo l’occhiolino a Floz. «Forza, falli entrare e smettila di prenderli in giro», disse Floz, i cui occhi si accendevano come smeraldi verdi ogni volta che sorrideva. «Vogliono solo assicurarsi che tu non abbia accolto una maniaca omicida in casa tua». «Salite, avanti», sospirò Juliet, premendo il pulsante per aprire. «Vado a mettere l’acqua nel bollitore». Floz si tenne pronta per il loro sguardo indagatore. Anni passati rinchiusa in casa a lavorare l’avevano resa timorosa nei confronti degli sconosciuti. Tuttavia, non aveva motivo di preoccuparsi, poiché Perry e Grainne Miller entrarono gioiosamente nell’appartamento e l’abbracciarono come fosse una figlia che non vedevano da tanto tempo. Di lì a poco erano tutti a sedere al tavolo da pranzo, intenti a condividere una tazza di tè e un vassoio pieno di focaccine tonde ai datteri e alle noci che aveva portato Grainne, o Gron, come preferiva farsi chiamare. Grainne e Perry erano entrambi molto alti e Juliet assomigliava a tutti e due. Da suo padre aveva ereditato gli audaci occhi grigi e gli zigomi alti, da sua madre la bocca grande e carnosa e la fessura tra i 24/432 denti davanti. I capelli di Grainne erano corti e brizzolati, ma in giovinezza dovevano essere stati lunghi e di un bel nero corvino; erano ricci, mentre quelli di Juliet erano liscissimi. Perry aveva una testa di adorabili e folti capelli bianchi come la neve, oltre all’aria di una persona molto calma e gentile. «Quindi, che lavoro fai, Floz?», chiese Perry, mentre osservava la pila di fascicoli posti sul tavolo da pranzo che Floz aveva passato in rassegna quella mattina. «Non essere così ficcanaso, Perry», lo rimproverò Grainne, con quel suo dolce accento irlandese ancora marcato come il giorno in cui si era trasferita a Barnsley, quarantacinque anni prima. «Non sto facendo il ficcanaso», precisò il placido Perry. «Questo si chiama fare conversazione». «Non ho problemi a rispondere», disse Floz ridendo. «Sono un’autrice freelance di biglietti d’auguri». Fu però costretta a spiegarsi meglio, in risposta alle occhiate perplesse che le indirizzarono i signori Miller. «In sostanza, sto seduta al mio computer a sfornare battute e poesie giorno dopo giorno. Le società di biglietti d’auguri le comprano poi da me». «Caspita, ci crederesti mai?», disse Grainne. «Prima d’ora non mi ero mai domandata chi scrivesse tutte quelle frasi che compaiono sui biglietti». «Se fosse per mia madre le tue società farebbero soldi a palate», disse Juliet. «Invia dei biglietti d’auguri per ogni occasione: “Congratulazioni per esserti sbarazzata del tuo brufolo”; “Mi è dispiaciuto sapere che sei caduto dalle scale e ti sei spaccato la testa in due”; “Complimenti per aver cacciato quel coglione di tuo marito dalla tua vita”». Grainne balzò in piedi e si diresse verso la borsa che aveva lasciato vicino alla porta insieme al cappotto. «Mi è giusto venuta in mente una cosa». Tornò indietro reggendo in mano una busta rossa che consegnò a Floz. «È un biglietto per dirti “Benvenuta nella tua nuova casa”», sorrise radiosa. «Vedi?», disse Juliet. «Come volevasi dimostrare!». 25/432 «Grazie, è molto gentile da parte sua», sorrise Floz, chiedendosi se aprirlo davanti a tutti o serbarlo per dopo. Optò per la prima alternativa, dato che Grainne stava aspettando con un ampio sorriso trepidante stampato in volto. Nella busta c’era un biglietto che raffigurava in copertina un’enorme focaccina, con tanto di porte e finestre. Dentro, il messaggio diceva: «Benvenuta nella tua nuova casa, con affetto Grainne, Perry e Guy Miller». «Grazie, è un pensiero molto carino da parte vostra», disse Floz. «Guy è il gatto?». Sapeva che i Miller ne avevano uno, perché sulla lavagnetta magnetica di Juliet appesa al frigorifero c’era una fotografia di suo padre con un micio in braccio. Era un vecchio gatto nero, con un occhio solo e senza denti. Evidentemente Guy non era il gatto, a giudicare dall’ilarità che quel suo commento provocò. «È mio fratello gemello», disse Juliet. «Vive con mamma e papà». «Be’, vive nell’appartamento della nonna, che è adiacente a casa nostra», precisò Grainne. «Sono sicura che non gradirebbe essere etichettato come uno che vive ancora con i genitori». Juliet si girò sulla sedia e rovistò nel cassetto della credenza alle sue spalle. «Guarda, è lui», e diede a Floz una fotografia di se stessa in mezzo a due imponenti uomini vestiti con costumi da wrestling: uno aveva fluenti capelli biondo chiaro e un gilè di pelliccia, l’altro capelli nero corvino, ricci e sbarazzini, e gli occhi grigi di Perry, contornati da ciglia folte e scure. Floz deglutì. Con la mascella squadrata, alto e muscoloso, Guy Miller era un gran bel fusto. Sentì il cuore martellarle nel petto. «Questo è Steve Feast, il migliore amico di Guy». Juliet indicò l’uomo biondo. Dal modo in cui pronunciò il suo nome, Floz capì che non si trattava di uno dei suoi amici del cuore. «E questo è mio fratello. A proposito, dove si è cacciato Guy, mamma? Non è ancora passato di qui per conoscere Floz». «Sta lavorando senza sosta al ristorante», ripose Grainne. «Quel povero ragazzo è esausto. Kenny è un maledetto schiavista! Non so perché Guy non gli dica di metterselo in quel posto quel suo lavoro». 26/432 Il sangue di Grainne iniziò a ribollire quando pensò a tutte le libertà che Kenny Moulding si prendeva con suo figlio, facendolo lavorare per dei turni così lunghi. «Dài, Gron, a modo suo è stato buono con Guy. L’ha sempre pagato bene per i suoi servizi», controbatté Perry, estraendo la pipa dal taschino e stringendola tra i denti. Non l’accendeva quando era a casa di altri, ma gli piaceva la sensazione di tenerla tra le labbra. Grainne sbuffò. «I soldi non sono tutto, Perry. Non comprano la felicità». «Vero, concordo in pieno con te su questo, mia cara Gron. Tuttavia, è un bene averne un po’. Lubrificano le ruote della vita». Perry disarmò sua moglie con un sorriso. Floz pensò che dovesse essere impossibile sostenere una discussione con un uomo così calmo e diplomatico. Avrebbe dovuto prendere parte alle missioni internazionali per il mantenimento della pace nel mondo. «Quindi, per quante società di biglietti d’auguri lavori?», Perry continuò a interrogare Floz. «Sette», rispose lei. «Anche se ricevo un incarico settimanale da un’azienda che si chiama Status Kwo. Sono loro i principali fornitori del mio pane quotidiano». «Esattamente che cosa fai? Ti inviano dei disegni a cui ti devi ispirare quando scrivi?» «A volte», disse Floz. Prese in mano una cartella e la aprì per mostrare a Perry le pagine piene di immagini in bianco e nero. «Mi mandano queste immagini su un CD e io scrivo i testi per loro, in base alla ricorrenza che mi affidano. Per esempio, questo disegno di una signora che fa oscillare un bicchiere di vino… be’, potrei abbinarlo a un testo per la festa della mamma, a proposito di una madre che si diverte e fa baldoria, oppure potrebbe essere un biglietto per la migliore amica, in merito al fatto che si può bere soltanto sette giorni a settimana, altrimenti potrebbe essere un biglietto di pronta guarigione circa l’importanza del mangiare l’uva per rimettersi in forma, ma solo se questa è stata fermentata e imbottigliata. Questo genere di cose. A volte…», frugò nella cartella alla ricerca di un altro 27/432 incarico, «…tutto quello che mi danno è il compito di scrivere poesie per la festa del papà o per il giorno di San Valentino. E quando gliele invio i loro illustratori lavorano basandosi su quello che io ho scritto». «Che lavoro interessante. Si guadagna bene?» «Perry Miller! Oggi sei ossessionato dai soldi». Grainne era indignata dal fatto che suo marito fosse stato così sfrontato da chiederlo. «Riesco a pagarci le bollette», rispose Floz, sfoggiando un ampio sorriso in risposta al comico sfoggio d’imbarazzo di Grainne. Tuttavia, sapeva che stavano sicuramente pensando che non doveva guadagnare poi così tanto, visto che aveva superato i trent’anni e che era ancora costretta a condividere un appartamento in affitto. Non rischiarò loro le idee fornendo dettagli sulla propria situazione, bensì si mise velocemente a mostrare a Perry un esempio di incarico settimanale di Lee Status, il titolare pazzoide e anticonformista di Status Kwo. Juliet stava ormai mangiando la sua terza focaccina piena di burro. «Chi le ha fatte, tu o Guy?», domandò a sua madre, con la bocca piena di briciole. «Ti sei risposta da sola per il semplice fatto che le stai mangiando, tesoro», disse Perry. «Tua madre prepara le focaccine tonde soltanto per i rapinatori a corto di mattoni che devono spaccare un vetro». «Sei proprio insolente», disse Grainne, assestandogli una forte gomitata amichevole. «Proprio così, Guy le ha infornate per te quando è tornato dal lavoro, la scorsa notte». «È stato gentile da parte sua», disse Floz, desiderando che lui le avesse portate di persona. «Cucina per rilassarsi», confidò Grainne, con una voce sempre più inasprita mentre la conversazione volgeva nuovamente verso l’argomento ristorante. «E mio Dio, ha proprio bisogno di rilassarsi quando torna da quel posto. Da domani si prenderà un paio di giornate libere, grazie al cielo». 28/432 Floz diede un altro morso alla focaccina e pensò che un uomo che cucinasse così bene doveva essere un ottimo partito. Era passato molto tempo dall’ultima volta che aveva sentito le farfalle nello stomaco. Ma se Guy Miller era bello in carne e ossa quanto lo era in fotografia, Floz sapeva che avrebbe dovuto vedersela con delle farfalle nello stomaco delle dimensioni di aquile nel momento in cui si sarebbero finalmente incontrati. Non avrebbe potuto essere più nel torto, neanche se si fosse sforzata. Capitolo quattro Guy Miller non era soltanto stanco, era esausto. Non riusciva a ricordarsi l’ultima volta in cui aveva avuto un giorno libero dal lavoro nelle cucine del ristorante Burgerov. Il proprietario, Kenny Moulding, lo stava prendendo per i fondelli, ne era consapevole. Aveva gettato la maggior parte delle responsabilità del ristorante sulle spalle di Guy con la scusa che era un eccellente coordinatore, ma da anni Guy aveva smesso di credere alle lusinghe di Kenny. Guy sapeva che era lui a gestire il locale perché Kenny se ne fregava. E nonostante lo pagasse bene, non era neanche lontanamente proporzionale al fardello che aveva dovuto accollarsi. Se avesse perso Guy, Kenny sarebbe stato completamente fottuto. Inoltre, c’erano tre settori dei quali Guy si rifiutava di prendere il controllo: assumere del nuovo personale, licenziare i suoi incompetenti e incapaci colleghi e acquistare le provviste alimentari dagli inaffidabili commercianti che si presentavano alla porta sul retro con il cappuccio in testa e gli occhi bassi. Kenny amava fare affari a poco prezzo, e questa era anche la giustificazione che accampava con chi lo accusava di essere un vero e proprio spilorcio. Infatti, in confronto a lui, Ebenezer Scrooge di Canto di Natale sembrava un magnanimo benefattore. Nell’ultimo periodo, Guy era talmente sfinito che Kenny si era visto obbligato a concedergli alcuni giorni liberi, che si sarebbe meritato da tempo. A ogni modo, Guy aveva un serio bisogno di ricaricare le batterie prima di onorare la promessa di aiutare il suo migliore amico Steve la sera successiva. Steve lavorava in proprio come imbianchino, ma non era quello l’ambito in cui Guy avrebbe dovuto assisterlo. La vera passione di Steve era il wrestling, faceva il lottatore amatoriale a tempo perso, sognando di lavorare in America, dove il wrestling continuava a essere uno sport molto seguito, con le grandi stelle della GWE, la Global Wrestling Enterprises, l’organizzazione mondiale di tutti i wrestler. Quando Steve si esibiva sul ring, 30/432 immaginava che il milionario promotore finanziario Will Milburn, un vero pezzo grosso, fosse nascosto nell’ombra con lo scopo di individuare nuovi talenti; proprio per questo dava il massimo in ogni sua esibizione. Guy osservò il personale della cucina, intento a fingere di pulire i ripiani di lavoro. Non osava pensare a cosa sarebbe accaduto nei due giorni successivi in sua assenza. Era stanco di riprenderli costantemente per le loro abitudini igieniche, o meglio per la mancanza di esse. L’unica che non doveva mai rimproverare era Gina. Alta, carina, con le gambe lunghe e i capelli biondi, Gina aveva tre anni meno di lui. In effetti, sulla carta Gina possedeva tutto quello che avrebbe dovuto avere la sua ragazza ideale. Sapeva che lei lo fissava con quei suoi occhioni azzurri quando era certa di non essere osservata, dato che, qualche volta, l’aveva colta di sorpresa. E sebbene Guy la considerasse una bella ragazza, non aveva la tentazione a guardarla con occhi diversi da quelli del capo. Guy non era vanitoso, ma il fatto che piacesse a Gina non poteva essere più ovvio, e spesso anche lui desiderava provare la stessa cosa per lei. Perché le persone non potevano semplicemente accendere l’interruttore della propria attrazione? La vita sarebbe stata molto più facile. «Varto, perché stai pulendo quella superficie con lo stesso strofinaccio che hai appena usato per il ripiano della carne cruda?». Guy provò a urlare, ma era troppo stanco per alzare la voce. Come qualcuno non fosse ancora morto di salmonella in quel posto restava un dannato mistero. Varto era il dipendente più anziano tra i dipendenti incapaci di Kenny, ed era più inutile di tutti gli altri messi insieme. Neanche mezz’ora prima aveva firmato e accettato una provvista di carne di agnello consegnata alla porta sul retro da un uomo con indosso un passamontagna. L’agnello puzzava. Guy era andato su tutte le furie, per quanto quel poco di energia che gli restava glielo permettesse, e aveva gettato la carne rancida nel cassonetto dei rifiuti. Gli aveva poi versato sopra lo scadente detersivo per piatti che Kenny aveva comprato, in modo da evitare che lo stesso Kenny chiedesse poi a Varto di raccoglierla, non appena Guy 31/432 se ne sarebbe andato. Tuttavia, temeva che Varto l’avrebbe raccolta in ogni caso, per poi pulirla e inserirla nel menu del giorno successivo. Kenny Moulding aveva fatto molti soldi negli anni grazie alla scadente carne per hamburger e al chiosco degli hot dog. Senza dubbio aveva abbastanza soldi per permettersi una casa per le vacanze nel Dorset e una piccola barca, ma non a sufficienza per spenderli in adeguate attrezzature da cucina o per sostituire il mobilio del ristorante, davvero malridotto. «Arrangiarsi e riparare», questa era la filosofia di Kenny; tuttavia, se avesse usato quel suo motto con la sua signora, avrebbero divorziato ancor prima di arrivare alla fine della frase. Il Burgerov si trovava in una posizione favolosa, ai margini della campagna, in un tranquillo paesino chiamato Lower Hoodley, ma abbastanza vicino alla città, per cui comunque il taxi non costava una fortuna. Il suo menu era sorprendentemente apprezzato, ma soltanto perché Guy lavorava sempre fino a tardi, e oltre il dovuto, al fine di ottenere il meglio da prodotti tanto scadenti. Sapeva di essere in grado di compiere meraviglie anche con un taglio pessimo di carne e spesso immaginava quello che avrebbe potuto fare se avesse avuto delle attrezzature da cucina di qualità, degli ingredienti di prima scelta e del personale almeno un po’ competente. C’era stato un tempo, diversi anni prima, in cui si aggiravano per il Burgerov persone in gamba nel proprio mestiere, ma la crescente avarizia di Kenny le aveva fatte fuggire tutte e il proprietario, che con il passare del tempo aveva sempre meno interesse a migliorare il locale, non si era preoccupato di sostituirle con altre di pari qualità. Stava invece optando per dipendenti che non riuscivano a distinguere le due estremità di una spatola e che pensavano di essere vittime di una violazione dei loro diritti umani se non potevano avere un pausa sigaretta ogni dieci minuti. Inoltre, Glenys, l’addetta alle pulizie, era a casa con la cistite, per cui erano stati costretti a occuparsi anche delle sue mansioni, dato che Kenny non si era organizzato in nessun modo per coprire il turno. 32/432 Guy diede la buonanotte e lasciò al resto del personale il compito di pulire e mettere in ordine, sebbene fosse consapevo-le che non appena avrebbe varcato la soglia avrebbero tutti posato gli utensili per accendersi le sigarette. Tutti tranne la diligente Gina. Ma, per una volta, dal momento in cui entrò in macchina, Guy smise di preoccuparsi per quel posto. Si sentiva frastornato. Faceva incredibilmente freddo per essere una serata d’agosto; forse l’uomo della carne aveva indossato il passamontagna per scaldarsi e non per camuffarsi. Guy detestava quel periodo dell’anno, quando all’estate si susseguiva lo scuro e marrone autunno: era la stagione in cui tutto moriva e i ricordi di tempi tristi riaffioravano nella sua mente. In quei mesi preferiva lavorare fino a tardi. Se avesse riempito le sue giornate con ore di duro lavoro non avrebbe avuto tempo di rivangare il passato. Invece, pensieri indesiderati si susseguivano senza sosta nella sua testa, come foglie arrugginite intrappolate nella brezza. Desiderava svuotare il cervello da tutto. Guy era talmente esausto che non notò il cartello con scritto IN VENDITA che avevano messo fuori dal cancello di quel vecchio cottage, lungo la strada per Maltstone. A sua discolpa, il vento l’aveva spezzato in due, spedendone una metà nell’incolto boschetto di conifere. Se l’avesse visto, forse avrebbe avuto qualcosa di molto più piacevole su cui concentrarsi, giacché fin da quando era un ragazzino Guy Miller aveva atteso con ansia il giorno in cui Hallow’s Cottage sarebbe stato messo in vendita. E quando decise di fare una deviazione per passare a trovare sua sorella per un caffè, si era dimenticato anche del fatto che Juliet aveva una nuova coinquilina ed entrò con la sua chiave, come era solito fare. Floz era appena uscita dalla vasca quando vide aprirsi di scatto la porta dell’appartamento. Si aspettava di vedere Juliet rincasare dal lavoro, che consisteva sostanzialmente nell’intrattenere relazioni interpersonali. Invece, entrò a grandi passi un uomo: era enorme, con ondulati capelli neri, gli stessi occhi grigi di Juliet e di suo padre e la stessa bocca carnosa di Grainne Miller. Il suo primo pensiero fu: 33/432 “Wow, è il fratello di Juliet”. Il secondo fu: “Accidenti, non sono truccata, ho i capelli bagnati, raccolti in un asciugamano, e indosso la mia vestaglia a fantasia dalmata”. Ma non solo: aveva anche lo shampoo negli occhi, che erano stropicciati e di sicuro anche rossi e gonfi. Guy pensò solo a una cosa quando vide Floz per la prima volta: “Lacey Robinson”. Deglutì notando un’iniziale somiglianza tra la donna minuta che stava di fronte a lui e la sua vecchia fiamma, e venne colto completamente alla sprovvista. «Scusa», esordì lui. «Mi sono dimenticato che c’eri anche tu. Floz, giusto?» «Ehm, sì», disse Floz, stringendosi ancora di più la vestaglia addosso. «Tu devi essere…». Ma Guy stava già indietreggiando verso la porta alla velocità di un levriero che ha assunto delle anfetamine. Nella fretta di fuggire da quella scena, inciampò all’indietro contro il poggiapiedi e rovinò sul tavolino, facendo volare sul tappeto ogni cosa che c’era poggiata. Dopodiché, come se fosse stato il protagonista di un film della famosa saga comica inglese Carry On, si alzò in piedi talmente in fretta che finì per sbattere la testa contro il paralume sopra di lui. «Devo andare, scusa», disse, intanto che sbatteva la porta, lasciando Floz con la netta impressione di assomigliare a Linda Blair in L’esorcista. Floz rimase immobile a bocca aperta. “Cribbio, sono così orribile?”. L’improvvisa pugnalata di dolore che aveva avvertito si trasformò in un’esplosione di rabbia. “È stato dannatamente scortese!”. Non le importava che fisicamente fosse un gran bel fusto; quanto a carattere e personalità, non era per niente un gentiluomo. Ma dopotutto, non aveva ancora imparato che ogni volta che emergeva dal guscio, attratta dal profumo dell’amore nell’aria, tutto quello che trovava era una mano chiusa a pugno che non aspettava altro che colpirla in faccia per rispedirla da dove era venuta? Non ci sarebbe stato più spazio per le romanticherie che avevano come protagonista Guy Miller. Capitolo cinque Steve compose il numero al telefono e restò in attesa per verificare se lei avrebbe risposto. Rispose, e lui tirò un sospiro di sollievo una volta che ebbe scoperto che non era caduta giù per le scale o che non aveva acceso il forno per poi dimenticarsene e dare la casa alle fiamme. «Pronto, chi è?», disse una voce roca e impastata. «Ehi, mamma, sono io. Come stai?» «Chi è?» «Sono io, Steve. Mamma, come stai?» «Sto bene», disse la voce. «Perché, come dovrei stare?». Era ubriaca. Erano le dieci del mattino e lei era sbronza. Dopo tutti quegli anni non avrebbe dovuto sorprendersene, tuttavia non riusciva ad abituarsi. «Sarò lì tra un’ora. Ti devo comprare qualcosa?» «Il solito». «Mamma, non posso. Sai che non posso». A Steve si fermò il cuore. «Allora non disturbarti a venire». E la linea cadde. Steve arrivò a casa di sua madre un’ora più tardi, odiandosi per averle comprato, insieme al resto della spesa, una bottiglia da un quarto di litro di vodka. Era la più piccola che aveva trovato, sapeva che se non gliel’avesse portata lei non lo avrebbe considerato. L’abitazione bifamiliare adiacente a quella di sua madre non avrebbe potuto essere più diversa. La casa di Sarah Burrows aveva finestre immacolate, tende graziose e un giardino curato e ordinato, senza traccia dei soliti divani o dei rottami di automobili che fungevano da decorazioni da giardino in tante abitazioni di quella zona desolata ai margini dell’area residenziale di Ketherwood. Sugli scalini lindi sedeva un ragazzino minuto di dieci anni con una maglietta da calcio del Barnsley. 35/432 «Come butta, Denny?», sorrise Steve. «Non ti avevo quasi riconosciuto. Dove hai messo gli occhiali, giovanotto?» «Si sono rotti», rispose il giovane Denny. Più Steve si avvicinava, meglio riusciva a scorgere il leggero livido che il ragazzino aveva sull’occhio. «Ti sei azzuffato?», chiese Steve, un po’ preoccupato, in quanto Denny Burrows non era un ragazzo litigioso. I Burrows erano fuori posto in quel quartiere. Sarah Burrows era un’instancabile donna delle pulizie, una ragazza rispettabile, e Denny era un giovanotto tranquillo, sempre con un libro in mano. Denny non rispose, abbassò semplicemente il capo. Steve superò la recinzione con un balzo e si sedette sugli scalini vicino al ragazzino. «Tutto bene, figliolo?», chiese. «Sì, certo», disse Denny, cercando di non dare nulla a intendere mentre si asciugava le lacrime dagli occhi. «Ehi, ciao, Steve», disse Sarah Burrows, comparendo dietro di loro sulla soglia della porta. «Vuoi una tazza di tè? Denny, tu vuoi un po’ di bollicine, tesoro?». Denny annuì ma non parlò, dato che la voce gli si era strozzata in gola. Steve non voleva disturbare Sarah, ma desiderava scoprire che cosa fosse successo a Denny, per cui disse: «Che ne dici Sarah di portarci due lattine di Coca? Per favore». Quando Sarah sparì in cucina, Steve stette in silenzio per circa mezzo minuto poi diede una gomitata a Denny. «Coraggio, ragazzo. Racconta allo zio Steve che cosa è successo». «Nulla d’importante». «A me puoi dirlo, lo sai». Denny aprì la bocca, come se volesse dire qualcosa, poi la richiuse di scatto. «Non è successo nulla». «Invece sì», disse Sarah, spuntando con due lunghi bicchieri di Coca-Cola Light. «Sono preoccupata a morte. Si tratta di quel bastardo schifoso che risponde al nome di Tommy Paget. Quest’anno è 36/432 la quinta volta che gli occhiali di Denny vanno in frantumi. Non mi sono accorta di nulla finché non l’hanno colpito all’occhio. Poi ho scoperto che aveva il corpicino ricoperto di lividi». «Denny, devi picchiarli a tua volta, figliolo», disse Steve, mettendo il braccio intorno alle spalle del giovanotto e rendendosi conto di quanto fosse minuto quando lo tirò a sé. «Sono in quattro», continuò Sarah. «Una banda. E quel cavolo di preside è utile come una forchetta nel brodo. Ha promesso che non avverranno più incidenti di questo tipo, ma io sono scettica. Un bambino di dieci anni non dovrebbe ritrovarsi in questa situazione». «Dove vive questo Tommy Paget?» «Oooh no, Steve, al giorno d’oggi non si può dire niente ai bambini, perché li si istiga soltanto a fare di peggio», disse senza indugio Sarah. «Non gli dirò nulla. Sto solamente chiedendo dove vive». «Dall’altra parte della zona residenziale. In Bridge Avenue. Numero 95, credo. Potresti conoscere suo padre: Artie Paget. Una volta gli piaceva spacciarsi per un ottimo pugile». «Artie Paget è suo padre?». Ebbene sì, Steve conosceva bene Artie Paget. «È una sensazione terrificante, non essere in grado di proteggere il proprio figlio». Sarah scosse lentamente la testa. Sembrava stremata. «Non dovreste vivere in questo quartiere, cara», disse Steve, guardandosi intorno e osservando quanto fosse maledettamente decadente quella zona. «Non parlarmene! Il nostro nome è in lista per un trasferimento da più di due anni. Probabilmente non creo abbastanza trambusto, come invece fa qualcun altro. “Chi alza la voce viene ascoltato di più”, non è così che si dice? Almeno posso tenere d’occhio tua madre per te mentre sono qui. A volte mi fa entrare in casa». Steve fece un sorriso triste. «Grazie mille, Sarah». «Vorrei poter fare di più», rispose Sarah, lasciandosi sfuggire un sospiro. 37/432 «So cosa intendi». Era ironico il modo in cui Christine Feast si ostinasse a distruggere se stessa con alcolici scadenti. La vita era così preziosa, eppure Christine Feast non sembrava accorgersene. Steve si scolò la sua bibita e diede una gomitata affettuosa al piccolo Denny prima di alzarsi in piedi. «Se hai ancora dei problemi fammelo sapere», gli disse. «Ti insegnerò un po’ di mosse di autodifesa». «Ho appena iniziato a fare karate», disse Denny orgoglioso, respingendo indietro le ultime lacrime: si sentiva meglio perché Steve era dalla sua parte. «Ci vado il mercoledì sera». «Vai da Big Jim in Buckley Street?» «Proprio lì», confermò Sarah. «È stato anche il mio istruttore», disse Steve. «Jim è un buon insegnante. Se gli dici che mi conosci ti farà un po’ di sconto». «Non mi piace fare la parte della sfrontata», si irritò Sarah. Steve indirizzò un sorriso alla giovane donna orgogliosa e desiderò che sua madre avesse anche solo un briciolo della sua dignità. «Ma dài!», disse sapendo che Sarah non aveva molti soldi da parte. «Hai già tutto l’equipaggiamento?» «Ha detto che per ora posso allenarmi con la mia tuta», rispose Denny. «Tieni». Steve frugò in tasca ed estrasse qualche banconota. «Vai a comprarti tutto quello che ti serve». «Non osare prendere quei soldi, Dennis», intimò Sarah balzando verso di loro per arrestare il passaggio di banconote. «Non sono per te, sono per il bambino». Steve spinse i soldi nella mano di Denny. «Coraggio, prendili, ragazzo. Un tizio una volta ha fatto lo stesso con me», mentì Steve per proteggere l’orgoglio di Sarah. Anche lui si era allenato con la sua tuta, finché il figlio di Jim non gli aveva dato una divisa da karate di seconda mano. «È un prestito senza interessi. Li rivoglio indietro quando otterrai la cintura nera, intesi?». 38/432 Steve non avrebbe accettato un rifiuto. A malincuore, Sarah lo ringraziò seccamente. Non era mai stata una scroccona. Quel poco che aveva se l’era guadagnato da sola. Steve scavalcò la recinzione e fece un profondo respiro prima di afferrare la maniglia della porta d’ingresso di sua madre. A volte dimenticava di chiuderla a chiave – un’altra cosa di cui lui si preoccupava di continuo. Aprì la porta con uno spintone, armandosi di coraggio all’idea di ciò che avrebbe trovato dentro. Già sentiva la puzza stantia aleggiare nell’aria. Il riscaldamento centralizzato era bollente, il che non faceva altro che accentuare quel tanfo tremendo, senza permettergli di svanire. Al contrario, i cattivi odori si rincorrevano l’un l’altro, mescolandosi come fossero una sorta di bizzarro deodorante per ambienti: sigarette, sudore, qualcosa di marcio. Eppure, soltanto un paio di giorni prima, Steve aveva pulito, svuotato i bidoni e se n’era andato lasciando la casa in condizioni semidecenti. «Ciao, mamma», disse teneramente Steve, svegliandola dal suo pisolino. Christine Feast era seduta sul divano, avvolta in una coperta. Aprì lentamente gli occhi e si girò verso Steve, ma lo guardò con lo stesso coinvolgimento che avrebbe manifestato nei confronti di un candelabro. I suoi capelli, che lui ricordava grigi da sempre, erano ultimamente molto radi. Steve avrebbe voluto spazzolarglieli, in modo che quelli intorno al viso fossero ordinati, ma ci aveva già provato in precedenza e lei non gliel’aveva lasciato fare. «Ti ho portato un po’ di cose. C’è un panino con uova e maionese. Il tuo preferito». Cercò nella busta della spesa ed estrasse un panino integrale, morbido e fresco. «Non ho fame», rispose lei. Le sue palpebre iniziarono a richiudersi. Era ubriaca, ovviamente. Non riusciva a ricordarsi l’ultima volta in cui l’aveva vista sobria. Il suo orologio biologico non funzionava più; si appisolava per qualche ora, beveva, si appisolava di nuovo, beveva ancora… A volte faceva in tempo ad arrivare in bagno, altre volte no. 39/432 Quando Steve provò a pulire un po’, lei gli disse di levarsi dalle palle; non gli permetteva di portarla dal dottore e si opponeva a ogni suo tentativo di sollevarla dal divano in modo da toglierle quei vestiti impregnati di urina. I servizi sociali non sarebbero intervenuti, e Steve non sapeva che altro fare se non andarla a trovare e sperare in un miracolo. Il negozio all’angolo non le negava gli alcolici, per quanto Steve li avesse scongiurati. Inoltre, Christine pagava i ragazzi più grandi del quartiere affinché le andassero a comprare da bere. «Ho un incontro di wrestling questa sera», disse Steve. Era come se lei fosse in coma e l’unico modo per stabilire un contatto fosse parlarle normalmente, invogliandola a svegliarsi e rispondere. Non lo faceva mai. «Sono il ragazzo buono. L’Angelo». Le si sedette accanto per un’ora e parlò, ma lei non ascoltò nulla. Poi, le mise un po’ di soldi in mano, nella speranza che non si comprasse ancora da bere. Ma sapeva che sarebbe andata così. Capitolo sei Mentre Guy, radioso nel suo svolazzante mantello da cattivo di turno e pantaloncini lucidi neri, si apriva un varco tra la folla acclamante e irriverente, vecchie pensionate artritiche scattavano in piedi, agili come atleti, spingendo per sporgersi nel corridoio e colpirlo con le loro borsette. Guy sfilò sottopo-nendosi a quella gogna, sputò e ringhiò, dopodiché scavalcò le corde con fare arrogante e salì sul ring, si sfilò la corona di plastica, si strappò il mantello e lo consegnò nelle mani in attesa dell’assistente. «Signore e signori, questa sera per il vostro divertimento», iniziò ad annunciare in tono drammatico la voce dal marcato accento dello Yorkshire che si diffondeva in tutto il locale attraverso l’impianto audio, «abbiamo il pazzo, il cattivo, il pericoloso, colui che vi piace odiare, il solo e unico: Crusher Kingstone». Il nome fu sommerso da un insolente crescendo di irrisioni, mentre l’imponente ragazzo dai capelli neri scattava in avanti verso il centro del ring. Lì ad aspettarlo, a un palmo dal suo naso, c’era un uomo dai capelli biondo argento, alto esattamente un metro e novantacinque, con dei pantaloncini bianchi e delle ali attaccate alle spalle. «La D&E Wrestling Entertainment è felice di presentarvi il suo avversario, il magnifico, l’angelico, il buono, il bellissimo, il divino e celestiale Steeeve Angel». I fischi della folla si trasformarono in acclamazioni, mentre l’enorme e muscoloso uomo-angelo alzava le mani e salutava gli astanti prima di togliersi le ali e consegnarle alla stessa assistente di ring affinché le custodisse. L’arbitro, soprannominato Little Eric, si mise in punta di piedi (era alto solo un metro e sessanta) e spinse verso il basso le larghe spalle dei due uomini. «Ora, giovanotti, voglio un combattimento corretto e leale. E ricordate: Angel, tu ti arrenderai al terzo round per una presa del 41/432 granchio. Buona fortuna, ragazzi. Date loro un bello spettacolo, porca puttana!». Steve annuì e indirizzò un ampio sorriso a Guy, porgendogli la mano. Guy ringhiò e la rifiutò con uno schiaffo, spingendo ogni pensionato in sala che fosse di costituzione sana e robusta ad alzarsi in piedi in una caotica ola di fischi striduli e vecchi pugni bitorzoluti. «C’è ancora molto tempo prima della presa del granchio, quindi sta’ in guardia», sussurrò Steve, preparandosi a combattere. «Fai del tuo peggio!», disse Guy, tendendo le braccia per poi strozzarlo senza dargli alcun preavviso. L’incontro fu breve ma avvincente. Mentre i soccorritori portavano via un Angel distrutto, che gridava di dolore in modo drammatico da sopra la barella sostenendo di essersi spezzato la schiena, Guy gironzolava per il ring prendendosi i fischi, prima di affrontare la corsa che, dopo aver attraversato la folla inferocita, l’avrebbe riportato al sicuro negli spogliatoi. Steve saltò giù dalla barella appena prima che i soccorritori lo facessero cadere, in quanto di lì a poco sarebbero dovuti tornare a bordo ring per trasportare Tarzan e Apeman, che sarebbero stati sconfitti dai Pogmoor Brothers. «Grazie! Questa volta ci è mancato poco che mi rompessi la spina dorsale», disse Steve a Guy, portando dietro le mani per massaggiarsi la schiena dolorante. «Preferisco di gran lunga quando io sono Dark Angel e tu sei Guido Goodguy. Sei uno stronzo spietato quando fai la parte del cattivo, peggio di Alberto Masserati». Guy esibì un largo sorriso quando Steve menzionò il più famigerato e brutale lottatore di wrestling della zona. «Nel mio lavoro diciamo che se non riesci a sopportare il calore devi uscire dalla cucina». «Il tuo orecchio sta sanguinando», lo avvisò Steve. «Già, in effetti mi faceva un po’ male», disse Guy, sfregandolo e controllandosi poi le dita. «Una di quelle vecchie mi ha colpito mentre correvo via. Ti giuro, si mettono ancora i mattoni nella borsa». 42/432 I pensionati arrivavano spediti da ogni dove quando c’era un incontro, affrontando una ragionevole distanza di viaggio. Per un paio d’ore, tornavano a essere dei pulcini, prima di regredire allo stato di vecchi e sfiniti galli e galline che sarebbero saliti, stremati, sull’autobus per poi fare ritorno alle rispettive case di riposo. Nessuno sapeva come avessero fatto a non dover mai fermare un incontro per portarne via qualcuno in barella a causa di un infarto. Ciononostante, a Steve piacevano. Amava aiutarli a risvegliare quella vecchia passione, anche se durava soltanto il tempo di cuocere un uovo alla coque. La maggior parte dei pensionati si ricordava dei giorni di gloria del wrestling britannico, e quelle serate gli restituivano la perduta gioventù. Ogni Natale, Guy e Steve, i due Pogmoor Brothers, Big Bad Davy, Klondyke Kevin e alcuni degli altri lottatori prendevano delle scatole di cioccolatini, qualche bottiglia di birra e di vino e si recavano alla Casa dei Narcisi, vicino a Penistone, dove gli stessi vecchi e pazzi anziani che formavano il loro pubblico se ne stavano seduti nelle proprie sedie, intenti a fissare lo schermo della televisione, o il vuoto, come se i loro spiriti fossero stati messi sotto naftalina fino alla prossima gita alla Sala del Centenario delle Notti del Wrestling. No, a Steve non importava se lo amavano o lo odiavano quando combatteva restando fedele al proprio personaggio, voleva soltanto che si divertissero. «Sul serio, amico, grazie per essere venuto», disse a Guy. «So che non hai molto tempo libero ultimamente». «Ah, non preoccuparti». Guy rifiutò i ringraziamenti con un gesto della mano. «Non avrei sopportato di lasciarti senza un compagno questa sera». Little Derek, l’organizzatore, era a corto di un uomo poiché Flamboyant Fred Zeppelin si era rotto un polso. Era stato fortunato a spezzarsi solo quello, dato che si era infortunato durante un incontro con Alberto Masserati, il quale ignorava qualsiasi direzione data da Little Eric o da Little Derek e cercava sempre di mettere l’avversario al tappeto. Una volta salito sul ring, Alberto si trasformava in un 43/432 soggetto al limite del sadismo. Infatti, proprio perché era un personaggio spaventoso, nessuno voleva incontrarsi con lui, eccetto il grande Fred. Tuttavia, fuori dal ring, Alberto era un padre di famiglia dai modi gentili, gestiva una piccola ma allegra locanda e non c’era altro che amasse quanto cucinare, intrattenere gli ospiti e guardare l’opera. Poteva anche esserci molta teatralità nel wrestling, ma gli infortuni erano comuni. Una grossa parte di questi erano orchestrati, tuttavia quando Apeman, che pesava centonovanta chili, alzava da terra l’avversario per poi schiacciarlo al suolo non c’era nessuna garanzia che non gli avrebbe quantomeno rotto una costola. «Ci facciamo una pinta di birra?», propose Steve, strofinandosi velocemente l’asciugamano sui capelli biondo platino, dopo una doccia gelida. Sembrava pesantemente ossigenato, ma in realtà era il suo colore naturale. Suo nonno paterno era svedese, anche se Steve non l’aveva mai conosciuto, e aveva passato il gene biondo nella sua interezza a quell’unico nipote. I suoi capelli riflettevano e trattenevano gelosamente ogni fonte di luce, illuminandolo a tal punto da far sembrare che indossasse un’aureola. Una volta, dopo un incontro nel quale impersonava Thor Svensson, il Guerriero Vichingo, una giovane donna ubriaca gli aveva detto: «Oooh, sembri un angelo». Dopodiché, gli aveva vomitato sopra le scarpe da ginnastica nuove di zecca, che gli erano costate centoventi sterline. Tutto sommato, il nome gli piacque e da quel momento in poi lo aveva utilizzato spesso. «Così mi puoi dire che cosa ti passa per quel piccolo cervello che ti ritrovi», continuò Steve. Guy smise per un istante di pettinarsi i capelli neri e ondulati davanti allo specchio, che lo costringeva sempre a piegarsi per vedersi riflesso. Stava per raccontare a Steve del suo incontro con Floz, ma poi ci ripensò. «Non mi passa nulla per il cervello». Steve sbuffò. «Certo, e io sono Ronnie Corbett, il comico scozzese!». Guy riprese a pettinarsi. «Sei silenzioso e hai quello 44/432 sguardo corrucciato alla Heathcliff di Cime Tempestose. Fai sempre così quando c’è qualcosa che ti assilla». «Sembri la nostra Juliet», rispose Guy, perché lei era stata la prima a dire che il suo gemello si tramutava in una versione meschina e irascibile di Heathcliff quando aveva dei pensieri che lo preoccupavano. Steve sapeva che con ogni probabilità sarebbe riuscito a estrapolare qualcosa da Guy davanti a una pinta di birra e pensò che, per il momento, fosse meglio cambiare argomento. «Allora, com’è la nuova coinquilina di Ju?». Guy emise un lamento e scosse il capo. «Così brutta, eh?». Steve fece una smorfia. «Oh cielo», disse Guy gettando il pettine nel borsone. Mancò il bersaglio. Borbottò un’imprecazione mentre si chinava per raccoglierlo. «Che diavolo hai che non va?», lo punzecchiò Steve. Furono interrotti da Little Derek, l’organizzatore, che entrò nello spogliatoio sventolando due buste marroni. «Ottimo lavoro, Steve! Cinquanta sterline, più dieci aggiuntive per le spese. Il prossimo incontro si terrà martedì trentuno, sempre qui. Ti chiamerò per farti avere i dettagli. È bello rivederti, Guy. Ti va di combattere un altro po’, amico?» «No», disse Guy con tono risoluto. «Questo era un favore a Steve. Sono troppo indaffarato, Derek». Derek sorrise con fare paterno. Faceva parte di quel mondo da quando era adolescente e si aggrappava all’illusione che il wrestling fosse sul punto di ritornare in auge. Non avrebbe mai ammesso con se stesso che il wrestling nel suo Paese era uno sport morto. Ogni incontro doveva essere pianificato con meticolosità al fine di attirare gli scommettitori, si doveva far leva sulla loro nostalgia dei giorni migliori, quando si esibivano i mitici Giant Haystacks, Catweazle, Big Daddy, Mark Rocco detto “Rollerball” e Jim Breaks: i ragazzi che tutti amavano amare e amavano odiare. Derek non riusciva a ricordarsi quante volte lui e Guy avessero sostenuto la stessa 45/432 conversazione, riguardo al fatto che Guy stava solamente facendo «un’ultima esibizione» per aiutare Steve, e che sarebbe stata davvero la sua ultima volta. Tuttavia, non era mai l’ultima. Steve sapeva che sarebbe riuscito a strappargli qualche altro combattimento se fosse rimasto senza compagno. «Fidati», disse Derek. «È solo questione di tempo prima che ci mettiamo in pari con gli americani e la patria del wrestling torni a essere la Gran Bretagna. E io sarò pronto quando accadrà. Milionari, quei lottatori sono milionari. Superstar milionarie. E quando io diventerò ricco, anche tu lo diventerai». Dava per scontato che tutti fossero tanto motivati dai soldi quanto lui. Non riusciva a concepire che i ragazzi combattessero per passione. «Devo far sì che la mia piccola continui ad avere abiti firmati». «Oh certo, la tua Chianti. Come… come sta… Chianti?», domandò Steve, cercando inutilmente di fingersi indifferente; la sua voce tendeva sempre ad alzarsi di tre ottave quando pronunciava il nome di lei, mentre il resto della frase restava in un tono basso. Sembrava un cantante di jodel che aveva bevuto troppa grappa. «Qualcuno mi ha nominato?». Esattamente in quel momento, la splendente Chianti Parkin, la figlia venticinquenne di Little Derek, apparve sulla porta con le sue gambe magre, il seno gonfiato e la lunga chioma bionda posticcia, per gentile concessione di una qualche povera donna russa che barattava i suoi capelli per un paio di pagnotte di pane. «Oh, ciao, Chianti, stai bene?», chiese Steve, grattandosi nervosamente la nuca. «Sì, sto alla grande», rispose lei, masticando avidamente una gomma. Concesse a Steve un secondo della sua attenzione, poi distolse gli occhi da lui per posarli su Little Derek. «Sono venuta per dirti che me ne vado, papà. Wayne è venuto a prendermi». «Ciao, tesoro. Passa una bella serata», disse Little Derek con tono gentile e orgoglioso, poi baciò la figlia sulla guancia. Steve guardò Chianti girarsi e andarsene ancheggiando, con un paio di stivali 46/432 stretti che le arrivavano alle cosce e una gonna corta e svolazzante. Un profondo ruggito animalesco gli crebbe in gola e in fretta lo represse. «Va al Four Trees questa sera. Forse lo conoscete, è quel ristorante sofisticato sui monti Pennini con una lunghissima lista d’attesa. Quello Wayne è un uomo d’affari, o qualcosa del genere. Ha una grossa macchina appariscente, ovviamente. Lei non considera nessuno che non abbia per lo meno una targa personalizzata. Di certo non durerà, non dura mai. Usa e abusa, è questa la nostra Chianti». Derek sospirò con affetto, pensando alle tendenze sadiche che sua figlia aveva nei confronti degli uomini, poi ritornò in modalità lavorativa. «A ogni modo, devo scappare. Ciao ciao, ragazzi, e grazie. Bell’incontro». Alzò il pollice in segno di approvazione e sparì tornando in sala per guardare gli incontri a squadre, seguiti dal combattimento finale di Grim Reaper, il “tristo mietitore” (la cui entrata in una nuvola di fumo artificiale alzava sempre la pressione dei pensionati di tre milioni di punti percentuali) che veniva sottomesso con una stretta alla gola dai centoquaranta chilogrammi di Jeff Leppard. Agli anziani piaceva vedere Grim Reaper sconfitto. «Chianti Parkin». Il sospiro di Steve diceva tutto. «Puoi avere senz’altro di meglio», rispose Guy. Chianti Parkin non gli diceva molto. Trasmetteva una vibrazione gelida e a Steve serviva una persona dolce e calorosa, che fosse in grado di creare un nido coniugale per compensare tutto quello che gli era mancato. Non riusciva a immaginarsi Chianti con un grembiule, intenta a preparargli un pasticcio di carne ricoperto di purè, o mentre lo aspettava a casa ogni sera per dargli il benvenuto a braccia aperte. «Come sta tua mamma?», fu la domanda successiva di Guy. Steve sospirò di nuovo, questa volta in modo profondo e triste. «Come al solito. Oggi sono andato a trovarla, ma non era in sé. Invece la scorsa settimana le ho portato un po’ di pesce fritto e patatine e si è divorata tutto. È stato bello vederla mangiare qualcosa». Guy sapeva che per Steve si trattava di un traguardo. A volte Christine Feast non permetteva al figlio nemmeno di entrare in casa. 47/432 Tutto dipendeva da quanto fosse paranoica in quel determinato momento. Christine era stata un’alcolizzata cronica fin da quando Steve era piccolo. Veniva da una famiglia di bevitori e non si era sforzata di opporsi al suo destino. «È delle dimensioni di un uccellino», continuò Steve, cercando di tenere sotto controllo il tremolio della voce. Poi tossì e scacciò dalla mente il pensiero di sua madre, almeno per il momento. «Comunque, non preoccuparti per me e i miei problemi, andiamo a farci una birra, così potrai raccontarmi perché è tutta la sera che gironzoli come fossi un nerd adolescente un po’ sfigato». Avrebbe scommesso che si trattava di problemi con le donne. E Steve sapeva tutto riguardo ai problemi con le donne. Chianti era meno raggiungibile di Kylie Minogue. Proprio come l’intera famiglia Miller, Steve sperava che Guy trovasse una brava donna e che mettesse su famiglia. Era un ragazzo serio, affidabile e adatto ad averne una di cui occuparsi e per cui gioire. E si meritava davvero un po’ di felicità dopo tutta la merda che aveva dovuto affrontare. Un tipo di merda diverso rispetto a quella che lui stesso aveva dovuto superare, ma pur sempre di merda si trattava. Guy si mise l’enorme borsone sulla spalla. «Se te lo dico non devi farne parola con nessuno, e intendo dire neanche una fottutissima parola con Juliet». «Puoi stare sicuro che sarò discreto», ribatté Steve, mortalmente offeso. «Certo. Be’… non posso fidarmi di lei», disse Guy. La sua gemella era la direttrice della Scuola del Pettegolezzo. Gli balenò in mente il terribile ricordo di quando tutti avevano saputo del suo bigliettino segreto di San Valentino per Michaela Hall. Il bigliettino era stato realizzato due sere prima seguendo le istruzioni di Blue Peter, un programma televisivo per bambini: una confezione di fiocchi di mais, fogli adesivi di plastica, la colla che usava a scuola, tempera rossa a guazzo e mangime Trill per pappagalli. Non riusciva ad 48/432 ascoltare Chrissie Hydne che cantava Talk of the town senza sudare freddo. «Quindi, che cos’è che non devo dire a Juliet?», domandò Steve, ormai giunto al culmine della sua pazienza. Aprì con uno spintone la porta, che scricchiolò in modo sofferente, e uscirono nell’aria calda di una notte di metà agosto. «Si tratta della nuova coinquilina di Juliet. L’altra sera ho fatto una figura del cavolo davanti a lei». «Oh, accidenti. Che cosa hai combinato? Sei inciampato sul tavolino atterrando ai suoi piedi?», rise Steve. Lo sguardo che gli lanciò Guy gli fece capire che non era lontano dalla verità. Steve ascoltò il ricordo che Guy aveva di quel primo incontro. Il modo in cui Floz gli era apparsa piccola e vulnerabile, avvolta in una vestaglia da dalmata, e come, soltanto per un momento, si fosse fatto prendere dal panico ricordandosi di Lacey. E aveva finito per raccontare a Steve di come avesse fatto l’uscita di scena più ignobile e puerile che si potesse immaginare. «Non è poi così grave, o sbaglio?», disse Steve. Conosceva il genere di donna che piaceva a Guy: alta, con le gambe lunghe e i capelli dorati, fatta eccezione per lo spiacevole contrattempo costituito dalla piccola e mora Lacey Robinson. «In ogni caso, perché ti interessa così tanto che cosa pensa di te una ragazza bassa che si veste da dalmata?». Guy esalò un lungo e profondo respiro. «Perché era maledettamente bella». Capitolo sette Proprio mentre Guy stava confessando a Steve come fosse rimasto sbalordito alla vista di lei, anche senza trucco e con gli occhi rossi e gonfi, il cellulare di Floz squillò e lei rispose all’istante vedendo il nome che era apparso sullo schermo. «Mi servono dieci biglietti d’auguri di San Valentino veramente piccanti, subito», disse Lee Status, con la sua solita voce sicura che filtrava come una brezza attraverso il telefono. «Almeno due battute sui pompini e qualche rima sulle “tette carine”, se non ti dispiace». Floz rise. «Non preoccuparti Lee. Per quando li vuoi?» «Ieri». «Non ne vuoi nessuno a proposito di un gentile e dolce ammiratore segreto?», suggerì Floz. «No. I giovani d’oggi sono sessualmente aggressivi e non perdono tempo con i preliminari. Mirano diretti ai genitali». «Va bene», sospirò Floz. «Li avrò pronti per te questa sera». «La scadenza in realtà è giovedì mattina», disse lui, e subito dopo cadde la linea. Lee Status era un uomo indaffarato e non aveva tempo per le chiacchiere superflue. La mente di Floz non iniziò da subito a frullare di idee, come le accadeva di solito dopo aver ricevuto un incarico. Al contrario, Floz si chiese come si sarebbe sentita nel ricevere un biglietto in cui le si diceva che aveva delle tette carine. Doveva essere davvero invecchiata, perché un biglietto del genere non l’avrebbe fatta sciogliere, neanche se fosse stato George Clooney a mandarglielo. Senza dubbio, i biglietti di San Valentino dovevano essere romantici, ma non troppo sdolcinati, con un pizzico di pepe, come quello che Nick le aveva inviato dal Canada. Uno sfondo bianco con un piccolo cuore in copertina e dentro le parole: «Voglio soltanto venirti a prendere, portarti qui e amarti». Il cuore le scoppiò al solo pensiero, e ancora 50/432 una volta lei soffocò quella divagazione sul nascere. Non c’era motivo di riportare in vita simili ricordi. Non aveva realmente capito che cosa fosse successo tra loro. O il motivo per cui una storia d’amore piena di onestà e speranza fosse finita in modo così brusco, o perché lui non le rispondesse al telefono o alle e-mail. Erano passati diciotto mesi da quando lui aveva interrotto tutti i contatti, e malgrado ciò aveva scoperto che, quando accarezzava semplicemente col pensiero il ricordo di quel biglietto, il dolore persisteva ancora. Era evidente che lei spaventasse gli uomini. Le era sufficiente pensare alla sera precedente e a quel primo incontro con Guy Miller. Erano bastati pochi secondi in sua presenza per far sì che lui scappasse a una velocità supersonica e con un tale sguardo di terrore sul volto che lei aveva dovuto controllarsi allo specchio per assicurarsi che non le fossero improvvisamente cresciuti dei serpenti in testa. Da quel momento in poi, quella scena l’avrebbe perseguitata. Lui aveva notato lo scintillio dell’attrazione negli occhi di lei e ne era rimasto disgustato? Oppure aveva temuto di tramutarsi in pietra? In ogni caso, la prossima volta che avrebbe incontrato quell’idiota, gli avrebbe dimostrato che il suo comportamento da imbecille non l’aveva minimamente turbata e che lei non aveva alcun tipo di mira su di lui. Sarebbe stata distante come una regina di ghiaccio. Aprì un documento sul suo computer portatile e lo chiamò “San Valentino-osé”, poi lasciò la sua mente imboccare la strada delle battute sconce. Pensò, e non era la prima volta, che forse il suo destino era quello di scrivere biglietti d’amore per le altre persone, senza mai riceverne a sua volta. Capitolo otto La sera seguente, Juliet superò fluttuando l’ingresso principale del palazzo di Blackberry Court con Coco al seguito. Aveva appena trascorso le ultime due ore nel glorioso spazio vitale di Piers Winstanley-Black e nella nuvola creata dal suo costoso dopobarba. Era certa che le pupille di lui si fossero dilatate quando avevano stabilito il contatto con le sue mentre guardavano la pratica di “Brownlee contro Goldman”. Non era la sua immaginazione, lui stava per cadere nella sua rete, riusciva a percepirlo. Ma come un pescatore paziente, lei avrebbe atteso finché la trota non fosse stata abbastanza vicina da farle il solletico. E a conclusione di una magnifica giornata, un aroma delizioso di stufato si intrufolò nelle narici di Juliet mentre spalancava la porta dell’appartamento. «Oh. Mio. Dio. Che cos’è questo odore magnifico?» «Carne tritata di manzo e ravioli», rispose Floz, che era seduta al tavolo da pranzo a scarabocchiare degli appunti di lavoro. «Ne ho fatto un po’ di più, se ti interessa». «Oh, sei una creatura divina», disse Coco, intanto che si toglieva le scarpe con un calcio. «Senza dubbio resto per il tè. In tutta la giornata ho mangiato soltanto un Crunch Corner, uno di quegli yogurt con le praline. Ci divoriamo una torta dopo? Dovrei tenermi un dolce sempre a portata di mano per regolarizzare i miei livelli di zucchero. Marlene è a casa ammalata e abbiamo avuto talmente tanto da fare che non sono nemmeno riuscito a fare un salto alla panetteria Greggs». «Sapevo che saresti stata una coinquilina perfetta, Floz», sorrise Juliet, sfilandosi le scarpe col tacco a spillo per poi sgranchirsi le dita dei piedi. Ed era proprio la verità. Era soltanto la settima sera di Floz a Blackberry Court, eppure sembrava che fosse lì da sempre. 52/432 L’appartamento sembrava più accogliente, ed era piacevole tornare a casa e trovare le luci accese, oltre alla compagnia e a simili odori. «Pensavo che Guy fosse tornato e che ci avesse portato la cena», disse Juliet. Vide Floz scuotere brevemente la testa con disappunto quando menzionò suo fratello, e si domandò perché sembrassero provare una tale istantanea repulsione l’uno per l’altra. Non si aspettava che iniziassero a sbaciucchiarsi quando si sarebbero incontrati, ma non credeva neppure che il primo incontro li avrebbe segnati per il resto delle loro vite. Quando Floz le aveva riferito che Guy era passato il lunedì sera, non le aveva detto molto, oltre il fatto che lui si era dimenticato che lei si era trasferita e perciò si era sentito in imbarazzo. No, lui non si era presentato adeguatamente, in effetti era entrato e uscito nel giro di un minuto. Sì, Floz aveva immaginato dalla sua corporatura e dal suo aspetto che si trattasse del gemello di Juliet e non di un ladro che casualmente aveva una chiave. Juliet notò come fosse sincopato il tono di Floz mentre raccontava la vicenda. Per qualche ragione, Guy non le aveva fatto una buona impressione. Juliet si chiedeva se lui avesse fatto la sua espressione spaventosa alla Heathcliff quando si erano incontrati. Rimanendo fedele alla sua indole, Juliet chiamò Guy sul cellulare e pretese di sapere il motivo per cui non le aveva detto che era passato e che aveva conosciuto la sua nuova coinquilina. «Sono stato troppo impegnato!», rispose lui in modo brusco. «Come mai? Dovevi aiutare Steve Feast con il suo stupido wrestling?», si indignò Juliet. Riserbava un tono di voce speciale per il migliore amico di suo fratello, un tono di disdegno e antipatia, attenuato però da una lieve e invidiosa gratitudine per tutto quello che aveva fatto per Guy durante il suo periodo buio. «Comunque, che cosa ne pensi?», continuò Juliet. «Riguardo a cosa?». Guy raggirò la domanda, visto che non desiderava essere costretto a emettere un verdetto. «Floz. Che cosa ne pensi di lei?» 53/432 «Non ho pensato nulla di lei», disse Guy. «Era mezza svestita quando ho fatto irruzione, per cui le ho fatto le mie scuse e me ne sono andato». E si rifiutò di fornire ulteriori dettagli. Dalle sue parole, Juliet dedusse che neanche lui aveva avuto una buona impressione di Floz. Era davvero un peccato perché il suo gemello era fin troppo carino per stare da solo e avrebbe potuto essere bello per entrambi se ci fosse stata un’attrazione reciproca. Guy era lo stesso ragazzo che Juliet era solita picchiare con la sua Tiny Tears, la bambola che piangeva, e con cui litigava per avere lo stilofono che apparteneva a entrambi; eppure lei vinceva sempre, nonostante la differenza di stazza, poiché impresso nel DNA di Guy c’era il motto che diceva: «Le donne non si toccano nemmeno con un fiore». C’erano così tanti imbecilli presuntuosi in giro per il mondo che facevano perdere la testa alle ragazze con promesse false e frivole (per non parlare degli uomini omosessuali, che Juliet conosceva bene in quanto era stata testimone della disastrosa vita amorosa di Coco), che Guy e la sua tranquilla e umile solidità venivano completamente ignorate. O meglio, con la sua altezza e il suo fisico non poteva evitare di attirare una prima occhiata, tuttavia non riusciva mai ad assicurarsi un secondo, e più accurato, sguardo. Juliet fece saltare il tappo di una bottiglia di Cabernet Sauvignon e versò tre generosi bicchieri. «Tieni, smettila di lavorare e bevine un sorso», disse gettando l’occhio oltre la spalla di Floz. «Che cosa stai scrivendo?» «Dei biglietti sconci di San Valentino», rispose Floz. «Per la Status Kwo». «“Credo tu sia super-favolosa, ti adoro. Non vedo l’ora di baciarti. E di spremere le tue bellissime XXX”», Coco lesse da sopra la spalla di lei. «Che lavoro brillante che hai Floz». «Non è esattamente Keats, vero?», disse Floz rispondendo al suo sorriso. «Con me funzionerebbe», rifletté Juliet. «Se fosse Piers Winstanley-Black a mandarmelo, intendo». 54/432 «Chi è Piers Winstanley-Black?», chiese Floz. «Non le hai ancora parlato di PWB?». Coco simulò uno svenimento. «Devi essere l’unica persona al mondo a non conoscere il suo nome». «Ignoralo. Piers è semplicemente l’uomo più formidabile dell’universo», ribatté Juliet con un sospiro da ragazzina innamorata. «Avvocato, trentanove fantastici anni, occhi del colore del mare caraibico e labbra come cuscini rossi». «Bleah!», fece Coco. «Stavi andando così bene finché non sei arrivata alla parte delle labbra, Ju». «Celibe?», domandò Floz. «Assolutamente sì», disse Juliet con veemenza. «Non provo desiderio per le proprietà già rivendicate. Non dopo quello che mi è successo». «Che cosa ti è successo, Juliet?» «Non le hai parlato neanche di questo?», sbuffò Coco. Poi, sprofondò nella poltrona e si preparò per lo spettacolo. «Da dove inizio?», rise Juliet, allungando una mano verso il cassetto dietro di lei per estrarre una scatola mezza mangiata di cioccolatini Thorntons, che tese poi a Floz. Anche in quello si compensavano: Juliet preferiva le praline, esattamente al contrario di Floz. Non avevano nulla da invidiare a Bonnie e Clyde. «Ebbene, sono stata sposata con Roger per sei anni», iniziò Juliet. «Lo scorso luglio – due settimane dopo il nostro anniversario, dopo che lui mi aveva scopata in ogni camera della nostra nuovissima casa con tre camere da letto – sono tornata a casa prima dal lavoro e ho scoperto che lui stava iniziando, piuttosto cortesemente, a preparare una valigia per me». Floz spalancò la bocca per lo stupore. «A quanto pareva, il nostro matrimonio era finito. Ed era tutta colpa mia». Ci fu una breve pausa, mentre Juliet prendeva un paio di praline e la bocca di Floz si spalancava ancora di più. «Roger mi ha spiegato che tutte quelle piccole cose di me che un tempo lo attraevano si erano trasformate in grossi problemi da cui era disgustato. A 55/432 un certo punto avevo smesso di essere divertente ed ero diventata chiassosa. Avevo cessato di essere provocante ed ero divenuta volgare. Non ero più una dea voluttuosa, bensì una vacca grassa. Era questo il motivo, mi ha detto, per cui aveva una relazione con Hattie, la mia migliore amica». «La nostra migliore amica», rettificò Coco. «Andavamo tutti a scuola insieme fin dai tempi dell’asilo. Non riuscivo a credere di non essermene accorto. Di solito il mio intuito è affilato come la sciabola di Sinbad il marinaio». «Cribbio», disse Floz in mancanza di una parola più adeguata. «Che cosa hai fatto?». Non si sarebbe aspettata che Hattie fosse rimasta la “migliore amica” dopo che Juliet aveva scoperto tutto. «Gli ho lasciato dire la sua, ovviamente», bofonchiò Juliet alla maniera di Fenella Fielding nel film Carry on Screaming. «Poi l’ho preso per la collottola e ho cacciato lui e la valigia vuota fuori dalla porta. Dopodiché ho gettato il contenuto del suo armadio fuori dalla finestra della camera da letto in modo che lui potesse fare la sua valigia invece che la mia. Oh, subito dopo ho telefonato a uno degli avvocati con cui lavoro». Karren Brookside era una strega malvagia e spietata che veniva direttamente dall’inferno. Non succhiava soltanto il sangue per le sue clienti (esclusivamente donne), esigeva anche le vene, le arterie, tutti gli organi interni ed entrambi i testicoli. Poi serviva il tutto su piatti d’oro insieme a un ottimo Château Pétrus del 1945. In confronto a Karren Brookside, Hannibal Lecter era innocuo come Anna dai capelli rossi. «Le palle di Roger si trovavano nel suo portafogli, quindi quello era il luogo migliore in cui colpirlo», disse Juliet, che sembrava divertirsi a raccontare la storia del proprio divorzio. «Mi ha supplicato di riprenderlo, chiedendomi di perdonare e dimenticare tutto, soltanto un mese dopo le brutalità di Karren». «Ma tu non l’hai fatto?» «No, certo che no», rispose Juliet, sconvolta all’idea che Floz avesse anche solo considerato che avrebbe potuto farlo. A differenza 56/432 di suo fratello, Juliet aveva sempre avuto un grande senso di autostima, e chiunque avesse provato a maltrattarla avrebbe dovuto affrontare parecchie avversità. In passato Juliet aveva commesso degli errori con gli uomini, ma appena aveva capito di non essere in cima ai loro piani, aveva sempre tagliato i ponti ed era scappata. Pete, il suo primo ragazzo, era un tipo abbastanza carino; tuttavia, nel momento in cui lei comprese che la ragione di tutte quelle serate intime trascorse a casa era da ricercare nel fatto che lui non voleva far vedere ai suoi amici che stava uscendo con una ragazza piuttosto grassa, Pete faceva già parte della storia. Poi fu il turno di Gary, che non si faceva mai vivo senza portare dei cioccolatini e che spendeva una fortuna per portarla fuori a mangiare, insistendo che lei prendesse il dolce. Pensava di aver vinto la lotteria, poiché aveva trovato un uomo che celebrava le sue curve con grande entusiasmo. Poi, scoprì il suo nascondiglio segreto di videocassette americane: donne grosse come balene a cui venivano date da mangiare delle torte alla panna, incapacitate a muoversi e che dipendevano totalmente da chi le nutriva. Dopo averla fatta finita con lui, le servirono settimane prima di riuscire a guardare di nuovo in faccia un bignè. «Che cosa ci racconti di te, Floz?», chiese Coco. «Com’è stata la tua vita amorosa?». Floz sembrava un po’ intimorita dalla luce dei riflettori puntata addosso. «Un paio di ragazzi durante l’adolescenza, ma niente di serio, sono stata sposata per dieci anni con Chris. Ci siamo semplicemente allontanati l’uno dall’altra e abbiamo divorziato tre anni fa». Il suo racconto era piuttosto noioso, pensarono sia Juliet che Coco, che speravano in uno scambio di informazioni più equo. Coco fece pressione per estrapolare qualcosa in più. «Com’è successo che vi siete allontanati?» «Non lo so. Ci siamo semplicemente disamorati». Floz scrollò timidamente le spalle. «Nessun altro da allora?», la spronò Juliet. 57/432 «Nessuno», rispose Floz troppo in fretta. «Che cosa mi dici di te? Qualcuno dopo Roger?» «No», disse Juliet con tono monotono. «No, nessuno dopo lui. Mi tengo libera per Piers Winstanley-Black. Ma un anno è lungo senza fare sesso. Se mai finiremo insieme, scoprirà che la mia patatina è piena di ragnatele», ridacchiò, provocando dei gridolini di disgusto in Coco. «Non so come tu abbia fatto a sopportare tre anni di astinenza, Floz». «Il mio massimo è stato un mese», disse Coco. «Ed è stato sufficientemente tremendo». «Qual è la tua storia, Coco?», chiese Floz. «È questo il tuo vero nome?» «Adesso sì», annuì lui. «Glielo puoi dire se vuoi, Ju». Coco si coprì le orecchie mentre Juliet si piegava in avanti verso Floz e le sussurrava: «Il suo vero nome è Raymond, ma lui lo odia. Bisogna rivolgersi a lui solamente chiamandolo Coco». «Ah, capisco», disse Floz, che non riusciva a pensare a nessuno che assomigliasse meno di lui a un Raymond. Forse era perché uno dei presidi che aveva avuto a scuola si chiamava così, e si trattava di un uomo enorme e piazzato che giocava a rugby e parlava con la voce di Lee Marvin. «Hai scelto questo nome perché hai gli occhi del colore del cacao?» «Floz, sono innamorato di te», disse Coco, battendo le mani dalla gioia. «Che cosa adorabile da dire». «No, è perché vuole essere come Coco Chanel», disse Juliet. «Il suo negozio è sommerso di sue foto. Inoltre, adora i suoi profumi». «Comunque, ritorniamo alla mia orribile vita amorosa». Coco estrasse un fazzoletto da una confezione lì vicina. «Si innamora in un batter d’occhio. E sempre di bastardi disfunzionali», si intromise Juliet. «Non riuscirebbe a scegliere un uomo degno neanche se gli atterrasse in grembo con una raccomandazione da parte di Dio in persona». «Non so cosa sia successo con Darren», disse Coco. «Un minuto prima tutto va bene, e quello dopo non risponde né ai messaggi né 58/432 alle telefonate. È semplicemente sparito. Nessuna spiegazione, nessun addio, niente». I suoi occhi si riempirono di lucciconi. «Il silenzio è un’arma crudele da usare», disse Floz con gentilezza. «Lo so», concordò Juliet. «Non avere la decenza di dire a qualcuno “abbiamo chiuso” è da crudeli smidollati. E Darren avrebbe dovuto sapere che Coco si sarebbe fatto in quattro pur di scoprire la ragione dietro all’accaduto. Non che gli importasse abbastanza da evitargli tutto ciò». «Te lo avranno già detto, però meriti molto di più del genere di trattamento che ti ha riservato lui». La voce di Floz era dolce e gentile. «Non è rispettoso. Vuoi davvero un uomo che ti tratti con così poca premura?» «Lo so», disse Coco, tamponandosi gli occhi. «Almeno la mia testa lo sa, il mio cuore deve ancora mettersi al passo. Ovviamente, potrebbe soltanto essersi preso un po’ di tempo per riordinare i suoi sentimenti. Gli uomini sono come degli elastici, a quanto pare…». «Coco, quale scusa potrebbe mai avere? A meno che non si tratti di un operatore umanitario impegnato in missioni di vitale importanza, un nuovo Terry Waite per intenderci, e che dei terroristi internazionali non gli abbiano legato entrambe le mani a un termosifone, non c’è assolutamente nessuna scusa per questo genere di comportamento schifoso», disse Juliet, un po’ spazientita dal fatto che troppe volte avessero già sostenuto quella conversazione. «Non riesco proprio a capire perché lo rivorresti indietro. Se avesse la faccia tosta di rispuntare nella tua vita, io gli direi di andare a f…». Coco si tappò le orecchie con le mani mentre Juliet si lanciava in una discussione. «Il chiarimento alla fine di una storia è fondamentale per andare avanti», disse Floz compensando con il suo punto di vista più indulgente la sfuriata di Juliet alla Ian Paisley, il politico nordirlandese. «È dura quando non riesci a ottenerlo». «Coco, te l’ho già detto: se non ti concedono un chiarimento, devi riuscire a metterti il cuore in pace da solo. Il suo silenzio infame e 59/432 bastardo costituisce di per sé tutto il chiarimento di cui hai bisogno». Consapevole che le sue parole fossero dure, Juliet mise un braccio intorno a Coco e lo tirò verso la sua spalla. «Floz ha ragione, meriti molto di più. E l’uomo dei tuoi sogni è là fuori da qualche parte con il tuo nome tatuato sul culo». A quella battuta Coco ridacchiò e piagnucolò allo stesso tempo. «Almeno non era un pervertito come il suo predecessore». Juliet fece l’occhiolino a Floz. Sapeva che raccontare proprio quella storia sarebbe servito a tirare Coco su di morale. «Rappresentante di profumi. Mi ha corteggiato, si è trasferito da me e poi ha deciso che non era certo di essere completamente gay. Voleva andare a letto con una donna per capire se gli sarebbe piaciuto. La gente riesce a essere davvero dannatamente rivoltante», ringhiò Coco a denti stretti. Floz ridacchiò nel vedere Coco che rabbrividiva al pensiero di una tale perversione. «Credo che a tutti noi serva un ragazzo onesto», disse Juliet, ricordandosi poi della recente idea di Coco. «Sììì, certamente! Registriamoci a quel sito e troviamo qualche bel fusto. Alla nostra età sono rari come lo sterco di un cavallo a dondolo». Prese il suo computer portatile, lo aprì ed effettuò l’accesso. «Prova singlebods.com», cinguettò Coco. «È quello che usava Marlene. Ha detto che è il migliore al momento». «Quindi non ti piace Steve, l’amico di tuo fratello?», chiese Floz a Juliet. «Steve Feast? Starai scherzando», Juliet rise sonoramente. «È un vero e proprio deficiente. Lo è sempre stato». «Anche lui veniva a scuola con noi», spiegò Coco. «Le tirava sempre le trecce, oppure scappava con il suo cappello per farsi inseguire da lei». «E crescendo è diventato ancora più infantile», continuò Juliet, tornando a riempire i bicchieri di vino. «Più di una volta l’ho visto nei pub mentre sollevava due donne alla volta sulle spalle per dare 60/432 prova di quanto fosse forte o per mettere in mostra i muscoli, dato che indossava una maglietta senza maniche». «Alla fine è un tipo a posto, davvero». «No, non lo è, Coco. È un grande marpione. Sempre pronto a inseguire le donne, ma nessuna di loro rimane a lungo al suo fianco; il che dovrebbe farti capire qualcosa». «È stato veramente un buon amico per Guy», aggiunse Coco; poi dallo sguardo che gli lanciò Juliet capì che non avrebbe dovuto dirlo. «Ops». Si mise le dita davanti alle labbra. Floz si chiese che cosa avesse detto Coco di così sbagliato, ma aveva il sentore che avrebbe fatto meglio a non domandarlo. Juliet tornò a focalizzare la sua attenzione sull’obiettivo a portata di mano: «Bene. Ci siamo, inizia tu, Floz». «Neanche per sogno», disse Floz. Il tono della sua voce era tanto risoluto quanto le permettevano le sue corde vocali. «Non voglio trovare degli appuntamenti su internet». Ma Juliet non la stava ad ascoltare. Aveva una missione. «Che aspetto ha il tuo uomo ideale?», le chiese. «Davvero, non mi interessa…». «Oh, coraggio», intervenne Coco, esaltato come una scimmia, mentre batteva le mani con entusiasmo. «Sarà uno spasso, soprattutto se lo facciamo insieme. Inseriamo i tuoi dati per primi». «Non sono minimamente interessata». Floz era irremovibile. Juliet, d’altro canto, aveva qualche problema ad accettare la parola “no”. Provò un approccio diverso per persuadere Floz a unirsi a loro. «D’accordo, allora assecondami. Se ti andasse di farlo, che aspetto avrebbe il tuo lui? Giuro che non farò nulla con le informazioni che ci darai. Sono soltanto curiosa». «Prometti?» «Prometto». «Allora, va bene». Floz provò a rifletterci. Se doveva immaginarsi il suo uomo ideale, si sarebbe ritrovata a descrivere Guy. Lo stesso Guy che ovviamente la odiava talmente tanto che al solo vederla indietreggiava come Dracula davanti a Van Helsing. Quindi mentì, e 61/432 descrisse tutto ciò che non corrispondeva al maledetto Guy Miller. «Non troppo alto, capelli biondi… occhi marroni». «Abbigliamento?» «Un completo elegante». «Lavoro?» «Qualcosa in un ufficio, credo». «Oh, per piacere, fallo con noi», implorò Coco. «Sarà veramente uno spasso». «No», disse Floz con una punta di acciaio nella voce. «Ma se voi due siete decisi, allora ascoltate il mio consiglio: state attenti. Non scegliete un uomo che vive troppo lontano per incontrarvi, e quando sentite che c’è sintonia con qualcuno, fissate un appuntamento il prima possibile, se non volete rischiare di invaghirvi di una persona che non è veramente come si descrive. Incontrarlo è l’unico modo per stabilire se vi piacete davvero o no». «Oooh, sembra tu stia parlando per esperienza personale, Floz», disse Juliet mentre stringeva gli occhi sospettosa. «No», replicò Floz. «Lo dico perché ho letto molti articoli sulle riviste, perché guardo spesso Jeremy Kyle e per via di un sano e vecchio buonsenso. State molto, ma molto attenti». Quella stessa sera, Floz restò distesa nel letto senza riuscire a dormire poiché qualcosa dentro di lei si era risvegliato. Sentimenti che aveva represso tanto a lungo erano rispuntati come un pupazzo a molla fuggiasco che all’improvviso risalta fuori dalla sua scatola e non vuole più tornare dentro. Ed era tutta colpa del fratello di Juliet. Non riusciva a spiegarsi perché l’avesse turbata così tanto né perché la ferisse che lui se ne fosse andato in quel modo. Come osava farla sentire così male? Passava dal dolore alla rabbia, ed entrambe le emozioni le impedivano di addormentarsi. Era tanto tempo che non le piaceva nessuno, in effetti si era chiesta se sarebbe mai più successo. Poi, Guy Miller era entrato maestosamente nella sua vita e le aveva fatto capire che il suo cuore era più che capace di andare su di giri e di risvegliarsi, provando interesse per qualcuno. Il problema 62/432 era che quando un cuore si esponeva, la vulnerabilità era la prima cosa che ci si precipitava dentro. L’episodio con Guy Miller, unito al suo incarico per San Valentino, aveva rivangato dei ricordi ancora più profondi e pericolosi. Il ricordo di Nick Vermeer era tornato a incombere in maniera minacciosa e fervida nella sua mente e non dava segno di volersi acquietare. Due anni e mezzo prima, si era iscritta a languagepals.com, solamente per dare una rinfrescata alle sue competenze scritte di tedesco e per passare le serate solitarie dopo il suo divorzio. Non stava cercando una storia romantica, e in ogni caso non l’avrebbe cercata su internet, quell’infame parco giochi per ciarlatani e ladri d’amore. Nick Vermeer si era messo in contatto con lei dal Canada, offrendole il suo aiuto. A parte il tedesco, fu subito chiaro che non avevano nulla in comune. Lui andava a caccia, possedeva delle pistole e amava pescare, mentre lei non sapeva distinguere un’estremità della canna da pesca dall’altra. «Ti insegnerò io», le aveva promesso. Lui amava i grandi spazi aperti, mentre la visione che Floz aveva dell’inferno corrispondeva a un luogo pieno di attrezzature da campeggio. Ciononostante, si era ritrovata a scrivergli per ore e a chattare con lui, poi, dopo quattro mesi, lui l’aveva chiamata. Lei era rimasta inebriata a lungo dopo aver sentito la sua voce, che era esattamente come si aspettava che fosse: una parlata lenta, dolce e mascolina, sicura di sé, arguta e molto, ma molto seducente. Lui le spediva lettere e bigliettini. Lei ricambiava, inviando le proprie lettere a una casella postale, poiché lui era in procinto di vendere la sua casa a Osoyoos, una baita di tronchi sul limitare di un bosco. Dalle fotografie dell’esterno che le aveva inviato, Floz era certa che all’interno ci fossero mobili ricoperti di pelliccia e che ogni notte un fuoco crepitasse nel caminetto. Poi Nick pianificò di andare a trovarla, perché il loro legame era qualcosa di pazzesco, che gli aveva fatto perdere la testa e doveva scoprire se in carne e ossa avrebbero avuto la stessa sintonia che 63/432 c’era nelle loro lettere e nelle loro conversazioni telefoniche. Non c’era mai stato nessun accenno a oscenità gratuite nelle sue parole (era un perfetto gentiluomo), anche se traboccavano di appassionate promesse. Floz aveva iniziato a documentarsi su dove portarlo quando sarebbe venuto. Al telefono, parlavano con entusiasmo dei ristoranti carini in cui avrebbero mangiato, di una gita a Londra per vedere uno spettacolo e delle escursioni in macchina che avrebbero fatto per le campagne. Se tutto andava bene, diceva che avrebbe portato Floz in Canada in autunno, poiché sosteneva che se l’avesse visitata in quella stagione non se ne sarebbe mai più andata. Poi, all’improvviso, appena dopo il giorno di San Valentino dell’anno precedente, tutti i contatti con lui erano cessati. Floz si era sentita in lutto. Aveva controllato i siti dei quotidiani canadesi per vedere se era stato ferito o ucciso, perché senza dubbio doveva esserci stato un grave motivo per non essersi più fatto vivo, ma non trovò nulla. E poi scoprì che il suo profilo era stato cancellato da languagepals.com. Sì, sapeva esattamente che cosa stava passando il povero Coco. Anche in quel momento, dopo tutto quel tempo, le lacrime sfioravano la superficie in cerca di consolazione ogni volta che pensava a Nick Vermeer. Avevano avuto un rapporto intenso per un anno, e le doleva ancora ripensare al fatto che fosse completamente sparito dalla sua vita. La sua scomparsa era stata per lei come un lutto. Capitolo nove Guy sorseggiava la sua seconda pinta di birra nel pub Lamp. Il suo corpo era seduto di fronte a Steve, ma la sua mente era altrove. «Sei proprio di compagnia questa sera, tenendo conto che è la tua serata libera», disse Steve scolandosi la birra e urtando il bicchiere dell’amico con il proprio. «Un’altra?» «Sì, fai pure», sospirò Guy. Era meglio restare lì con Steve piuttosto che ritornare a Maltstone nel suo appartamento vuoto, adiacente alla casa di famiglia. Per lui l’abitazione di Rosehip Gardens non era mai stata niente di più che un nascondiglio, un luogo dove appoggiare la testa, nonostante il fatto che, ripensandoci bene, erano ormai troppi anni che “appoggiava la testa” in quel posto. Fino a quel momento, il matrimonio e il cosiddetto tetto coniugale lo avevano evitato. Ciò che era successo con Lacey, dieci anni prima, l’aveva segnato per il resto della sua vita. Non voleva riavvicinarsi di nuovo a una donna e rischiare di esporsi a tutto quel dolore, alla confusione e all’invalidante senso di colpa. E invece aveva incontrato Floz Cherrydale. In qualche modo, la combinazione di quella ridicola vestaglia, dei grandi occhi lacrimosi e di quella nuvola profumata di fragole che la avvolgeva gli aveva provocato un’esplosione primitiva all’interno del torace, che aveva inviato una scarica a tutti i neuroni e i vasi sanguigni del suo corpo. Era rimasto strabiliato ed era stato spinto in una buca talmente profonda da dubitare che sarebbe mai stato in grado di uscirne. Aveva ripetuto quella scena nella sua mente così tante volte, che se si fosse trattato di una videocassetta il nastro si sarebbe rovinato per l’usura. Il suo cuore palpitava come un sacchetto pieno di falene, mentre lui tornava a rabbrividire al ricordo di se stesso nell’atto di urtare contro il tavolino per poi disseminare ogni cosa sul pavimento. Non si era neanche fermato per aiutarla a mettere in ordine. 65/432 Scacciò quel ricordo con una scrollata di spalle, intanto che Steve tornava con due pinte. «Dovresti chiederle di uscire», disse. «A chi?», chiese Guy in tutta innocenza. «Sai di chi parlo, rimbambito», gli rimproverò Steve. A dire il vero, era piuttosto eccitato all’idea che a Guy piacesse qualcuno. Cercava in continuazione di convincerlo a uscire con Gina, che sbavava letteralmente come un segugio davanti a un osso ogni volta che Guy era nei paraggi. Ma poiché lo conosceva da una vita, Steve era fin troppo consapevole del fatto che Guy fosse un uomo onesto. Non sarebbe uscito con una ragazza che non gli piaceva. Non lo aveva mai fatto, neanche quando durante l’adolescenza avevano gli ormoni in subbuglio. Per lui, sesso e sentimenti erano due aspetti interconnessi. Ma quella era una notizia incoraggiante. Guy aveva visto quella donna una volta soltanto e ne era già preso. L’amore era una belva curiosa, Steve doveva ammetterlo. D’altronde, era probabile che fosse quello il motivo per cui lui stesso si era innamorato allo stesso tempo di due donne molto diverse, nessuna delle quali si sarebbe mai accorta della sua esistenza. «So a cosa stai pensando», continuò Guy. «Pensi che mi piaccia perché il mio primo pensiero è stato che assomigliava a Lacey Robinson. Ebbene, non è così, perché non le assomiglia». «Non stavo pensando a nulla del genere, in realtà», si difese Steve. «Stavo invece riflettendo sul fatto che Lacey Robinson non dovrebbe proprio più essere nella tua mente. Ha già combinato troppi casini». «È piccola come Lacey, ma la somiglianza finisce lì». «Bene. Perché una Lacey Robinson è sufficiente per tutta la vita». «Non iniziare», disse Guy a voce bassa. «Era un’anima in pena». «So che cosa era». Steve sapeva che Guy non avrebbe mai parlato male di Lacey Robinson, perché non era mai riuscito a liberarsi dal senso di colpa per non essere stato in grado di salvarla da se stessa. Per Guy, Lacey Robinson sarebbe sempre stata una donna vulnerabile il cui cuore era stato spezzato troppe volte, anche se lei non era 66/432 mai riuscita a sopportare il dolore. Per Steve, Lacey Robinson era l’equivalente di un’attentatrice suicida. Non le interessava quante persone avrebbe fatto affondare insieme a lei quando spingeva il bottone dell’autodistruzione. «Ho fatto veramente una figura del cavolo davanti a Floz». Guy si prese la testa fra le mani. «Devi tornare all’appartamento e comportarti in modo normale, senza inciampare sui mobili per poi fuggire», gli suggerì Steve. «Le hai fatto di sicuro una cattiva prima impressione, per cui devi rimediare con la seconda». «Sì, questo lo capisco», disse Guy. «Non so che cosa mi sia successo. Non è per niente il mio genere di donna. Ma è stato come…». Scosse la testa, perché quello che aveva detto sembrava insensato. «Un fulmine?», suggerì Steve. Sapeva tutto sui fulmini. Era stato colpito da uno molto grande ai tempi della scuola elementare. Ne avvertita ancora l’eco. «Sì», annuì Guy. «Non ho mai sperimentato nulla del genere prima d’ora. Pensavo che la gente che sosteneva di essersi innamorata a prima vista stesse soltanto sparando un mucchio di balle. Ma è esattamente come mi sono sentito: amore a prima vista. Almeno per me. Non sono affatto sicuro che per Floz sia stata la stessa cosa». La mente di Steve iniziò a ronzare. «La tua Juliet continuava a blaterare di quella macchia di umidità sulla parete della cucina. Verrò con te all’appartamento. Daremo un’occhiata per capire se è il caso di dare una passata di intonaco. Mi sembra una ragione plausibile per cui chiamarle». Guy pensò che sembrasse alquanto forzato, ma Steve era lanciato. «Sì, faremo così. Se diciamo loro che passeremo domani verso l’ora del tè, potrebbero chiederci di restare a mangiare qualcosa, così tu puoi fare una bella chiacchierata con lei, sfoggiando il tuo fascino e la tua arguzia. E i muscoli. Come farà Floz a resisterti?» «Non devi rivelare a Juliet il vero motivo per cui andiamo da loro», lo avvertì Guy. 67/432 «Certo che no». Steve esibì un ampio sorriso, compiaciuto per il suo piano. Ed era molto bravo a mantenere i segreti. L’unica cosa che Steve non aveva mai detto a Guy era che, fin dai tempi delle elementari, si era preso una cotta tremenda per Juliet Miller. Capitolo dieci Il mattino seguente, Floz passò qualche minuto a guardare, in tutta tranquillità, fuori dalla finestra che si affacciava sui giardini comunali, mentre beveva il suo secondo caffè. Era una bellissima giornata di metà agosto, il cielo era di un azzurro intenso e il sole giallo stava alto nel cielo come fosse una goccia dilimone. Tuttavia, c’erano alcune foglie ingiallite sugli alberi, in procinto di cadere, e delle chiazze marroni in mezzo al verde. Evidentemente, l’estate era agli sgoccioli. Il suo primo compito della giornata fu inviare per e-mail i biglietti sconci di San Valentino a Lee Status, che le telefonò pochi minuti dopo averli ricevuti. «Grazie per i biglietti di San Valentino, bambola. Ora ho un fantastico lavoro urgente per te!». «Dimmi tutto», disse Floz, che sperava si trattasse di qualcosa di carino e divertente, dato che aveva terribilmente bisogno di un po’ di sollievo dopo la tremenda nottata che aveva trascorso. Aveva sognato che Nick era ricomparso nella sua vita e doveva essersi sentita veramente euforica nel sogno, perché non appena si era svegliata e aveva capito che si trattava soltanto di un sogno si era sentita affranta. «Biglietti d’auguri per i malati terminali», disse Lee. «“Mi dispiace che tu stia morendo”, e via discorrendo». Floz farfugliò in cerca di una risposta, prima di riuscire a trovare la voce. «Starai scherzando! Chi vorrebbe ricevere un bigliettino che dice: “Mi dispiace che tu stia morendo”?». Lee la ignorò e proseguì: «Puoi davvero scatenare la tua vena poetica. Non menzionare nessuna malattia in particolare, ovviamente, soltanto dei bellissimi e calorosi versi, del tipo: “Ti auguro forza e un angelo custode” e altre cagate del genere». «Lee, parli sul serio?» 69/432 «Assolutamente sì», disse Lee, con una traccia di allegria nella voce. «Il fatturato della nostra serie dal titolo “Ci incontreremo ancora” è salito alle stelle. Mandare un bigliettino ai parenti morti è la nuova moda. La morte è il futuro. Credo dipenda dalla popolarità di tutti questi film di fantascienza». Floz aveva scritto tanti versi per i biglietti plastificati e impermeabili della serie “Ci incontreremo ancora”, che erano ideati appositamente per essere lasciati sulle tombe. «C’è differenza tra una poesia affettuosa per un amato defunto e quest’altra nuova serie. Ad esempio, che titolo le darai tanto per cominciare?» «Non lo so», rifletté Lee. «“La porta della morte”? Forse è un po’ troppo crudo. Lo so, lo so! Che cosa ne dici di “Aspettando Dio”? Però, questo titolo potrebbe escludere gli atei. Uhm… Comunque, il titolo per la serie può aspettare. Se te ne viene in mente uno te lo pagherò». «D’accordo», sospirò Floz. Un lavoro era un lavoro, sia che si trattasse di scrivere biglietti per i vivi, che per i defunti o i morenti. Le occorsero più o meno due ore per scrivere la prima poesia ed esserne soddisfatta. Poi, pensò a quello stesso bigliettino esposto in una cartoleria, alla tristezza di qualcuno che avrebbe potuto comprarlo, all’angoscia della persona che l’avrebbe potuto ricevere. Non era per niente un lavoro che le si addiceva, per quanto le servissero i soldi. Appena prima di fermarsi per pranzo, Floz aggiornò il suo sito internet. Non aveva molte visite, ma era uno strumento utile per farsi pubblicità. Gibby, il ragazzo che l’aveva creato per lei, aveva incluso una pagina per lasciare i commenti. A volte capitava che ricevesse delle e-mail spazzatura che non avevano alcun senso, oltre agli occasionali annunci che circolavano in rete e che le chiedevano se voleva collegarsi a un blog di casalinghe seducenti della sua zona, o se desiderava ottenere un pene più grande. Ma l’e-mail che trovò quel giorno sul suo sito non era la solita spazzatura. Era inviata da un 70/432 anonimo e diceva semplicemente: «Sono felice che stai bene, Cherrylips». Avrebbe potuto essere una coincidenza, ma lei non pensava che fosse quello il caso. C’era soltanto una persona che l’aveva mai chiamata “Cherrylips”. Floz continuò a scrivere le poesie, ma per tutto il resto della giornata, si chiese se quella e-mail gliel’avesse mandata lui. Di certo non le avrebbe riscritto dopo un anno e mezzo. Ma chi altri poteva essere? Si chiese se magari, pensando a lui, avesse rilasciato un qualche tipo di richiamo nel cosmo, a cui Nick aveva risposto. C’erano molte persone nel mondo che non avrebbero definito spazzatura quella sua teoria. Juliet le telefonò mentre Floz rifletteva mangiando un panino. «Che cosa stai facendo?», tuonò la voce di Juliet. «Va bene per te se Guy fa un salto da noi più tardi? Insieme a Steve». Nel pronunciare quell’ultimo nome, il disprezzo tornò a insinuarsi nella sua voce. Mentre Juliet provava disdegno pensando al secondo nome, Floz si agitò per il primo. Cercò di sembrare indifferente alla prospettiva di vedere di nuovo Guy Miller. «Certo», disse Floz, con un tono freddo come un cetriolo conservato nel congelatore per tutta la notte. «A che ora vengono?» «Ho detto loro alle sei, se per te va bene», rispose Juliet. Floz guardò l’orologio: aveva cinque ore per ottenere l’aspetto di una persona che non ha fatto nessuno sforzo per prepararsi. «Certo», ripeté, pensando che aveva bisogno di trovare un’altra parola che la facesse sembrare sicura di sé. «Ordineremo il riso al curry a domicilio», le riferì Juliet. «Posso preparare un po’ di pasta», suggerì in fretta Floz. «Niente di speciale». «Oooh, sarebbe fantastico», disse Juliet, che preferiva di gran lunga un pasto preparato in casa al cibo da asporto. «Non stare a impazzire, però; si tratta soltanto di Guy e Steve». «Non ti piace molto Steve, vero?», disse Floz. 71/432 «No», rispose Juliet. «E fai attenzione, Floz, perché è un vero e proprio donnaiolo. Però, è anche un imbianchino maledettamente bravo e ho bisogno di lui per sistemare la parete della cucina». Floz si chiese per quale ragione, allora, dovesse venire anche Guy. Non servivano due persone per sistemare una macchia sulla parete. Dopo la loro brusca presentazione, credeva che l’appartamento fosse l’ultimo posto dove lui sarebbe voluto andare senza una valida ragione. Diede voce al suo dubbio. «Per quale motivo… tuo fratello viene con lui?» «Perché quei due sono culo e camicia», rispose Juliet. «Passo a prendere un po’ di vino prima di tornare a casa. Ciao, tesoro», dopodiché riagganciò. Capitolo undici Floz si fiondò al supermercato e, in fretta e furia, comprò della farina per la macchina del pane, della pasta fresca, un pollo già cotto e ogni genere di verdure che si potesse condire con una salsa di vino bianco. Per il dessert si buttò sul semplice: lamponi eccessivamente costosi, panna e meringhe per preparare l’Eton Mess, il tradizionale dolce inglese. Al quale avrebbe però aggiunto una chicca: un pizzico di Pernod proveniente dall’eccentrica scorta di liquori e spiriti di Juliet. La maggior parte della scorta era composta da indesiderati regali aziendali, un’altra parte era invece da imputare al fatto che a Juliet piacesse vedere delle bottiglie bizzarre e stravaganti con dei contenuti colorati e non riusciva mai a fare a meno di comprare l’ultima novità al supermercato o di acquistarne alcune quando andava in vacanza. Dopo che tutta la spesa fu riposta nella dispensa, Floz si precipitò a fare il giro della casa con l’aspirapolvere, e subito dopo scivolò nella vasca da bagno per immergersi in una qualche sostanza profumata e lavarsi i capelli. Scegliere cosa mettersi equivaleva a trovarsi in un campo minato. Un vestito svolazzante comunicava che si era impegnata troppo, i suoi vecchi jeans e una maglietta indicavano invece che ci aveva messo troppo poco impegno. Dopo aver provato e scartato metà del suo guardaroba, optò per una maglietta blu in stile hippy e dei jeans azzurri, in coordinato con una collana con ciondolo blu a forma di cuore. Dopodiché si mise il grembiule e cominciò a preparare la cena. Floz pensò di aver indovinato il giusto equilibrio per il suo abbigliamento, finché Juliet non arrivò a casa e disse immediatamente: «Oooh, come sei carina! Ma non c’era bisogno che ti mettessi in ghingheri per quei due, sai?» «Oh, non mi sono messa in ghingheri», protestò Floz. «Io… ehm… mi sono rovesciata addosso del caffè prima, per cui mi sono 73/432 cambiata la maglia». Aveva tutta l’aria di sembrare una bugia e Floz rabbrividì, ma Juliet non sembrò notarlo. Era troppo impegnata a inspirare a pieni polmoni l’aroma del sugo della pasta, facendo dei profondi respiri. «Ha un odore delizioso», commentò. «Sei una brava cuoca, vero? Scommetto che farai addirittura una buona impressione su Guy». «Quindi Guy è una buona forchetta?», chiese Floz. «È capocuoco, non te l’avevo detto?», gridò Juliet, mentre si dirigeva nella sua camera da letto per togliersi gli abiti da lavoro. “Merda, merda, merda”, pensò Floz. Sapeva che lavorava in un ristorante, ma per qualche ragione si era messa in testa che fosse un cameriere a cui ogni tanto piaceva cucinare, non un cuoco professionista. E non si trattava soltanto di un professionista, era addirittura capocuoco! Che disastro! Se fosse rimasto per più di trenta secondi in sua presenza, questa volta senza darsela a gambe, avrebbe sicuramente criticato il piatto di pasta da dilettante che lei aveva cucinato o, peggio, avrebbe vomitato. Avrebbe fatto meglio ad aggiungere un po’ di odori per arricchire il sapore? Santo cielo, non era affatto una cuoca sicura di sé. Perché aveva aperto quella sua boccaccia offrendosi di preparare la cena? Avrebbero potuto ordinare il riso al curry, come Juliet aveva suggerito. La macchina del pane suonò per indicare la fine del suo ciclo. Floz sbirciò, preparandosi a vedere uno stramaledetto disastro, invece non fu così: il pane aveva una bella crosta e un odore divino. Occorreva soltanto dargli una spruzzata con un po’ di acqua salata, cospargerlo di semi di papavero e di sesamo e riporlo per una quindicina di minuti nel forno preriscaldato. Si diede da fare con il pane, mentre sentiva Juliet cantare Get this party started da dietro la porta della sua camera. Un uccellino a cucù scattò fuori dall’orologio appeso alla parete annunciando che erano le sei in punto. Floz si sentiva stupidamente nervosa. Per poco non fece cadere il pane, mentre il citofono iniziava a suonare, segnalando che gli ospiti erano arrivati. 74/432 «Li fai entrare tu, Floz?», disse Juliet dal bagno. Floz fece finta di non aver sentito. Non voleva essere lasciata da sola con Steve, che non aveva ancora conosciuto, e Guy, che aveva conosciuto e spaventato a morte. Il citofono suonò di nuovo, e Juliet emerse dal bagno proprio mentre Floz stava attraversando la stanza per andare a rispondere. «Vado io, non preoccuparti», disse Juliet, alzando la cornetta. «Sì, salite», disse, mostrando una disinvolta familiarità. Fuori dalla porta, Steve minacciò Guy agitando un dito: «Ora ricordati, devi essere gentile e sorridente e non darle l’impressione di essere terrorizzato da lei». Guy stava fremendo. Neanche lo spaventoso Alberto Masserati lo impauriva sul ring, eppure la prospettiva di vedere ancora Floz gli faceva vacillare le ginocchia. La porta si aprì con un lieve rumore metallico e Steve la spinse. Non lasciò intendere a Guy quanto anche lui fosse emozionato all’idea di vedere la sensuale Juliet. Anche dopo tutti quegli anni, tremava ancora come una gelatina in sua presenza, nonostante lo celasse dietro un’insolente messinscena di spavalderia che lei aveva finito per fraintendere. Steve entrò nell’appartamento per primo con disinvoltura e il suo solito passo arrogante. Andò diretto da Juliet, mentre un lato del suo labbro superiore si alzava come quello di Elvis Presley. «Come va, Jules?», le disse. «Come stanno le tue tettine?» «Ciao, Steve», ribatté Juliet in tono piatto, per niente impressionata dalla sua entrata irriverente. «Vieni a conoscere Floz. Floz, questo è Steve, Steve questa è Floz». «Oh, ciao Floz», disse Steve, porgendo la sua manaccia enorme. «Ho sentito parlare molto di te». «Davvero?», chiese subito Juliet. Primo errore. Guy avrebbe potuto ucciderlo. Per fortuna quel giorno Steve aveva la mente pronta. «Be’, no… ehm… in fin dei conti, non è così che si dice?» «Nel tuo caso probabilmente sì», sbuffò Juliet. Santo cielo, era davvero un idiota. Bello, ma un idiota totale. Lo era sempre stato. 75/432 Anche alle elementari. Era talmente pieno di sé che sarebbe potuto esplodere. Guy entrò nella stanza a qualche passo di distanza da Steve. «Voi due vi siete già incontrati, vero?», disse Juliet. Guy annuì in direzione di Floz, tutte le parole gli si erano bloccate in gola, incollate a un fascio di nervi che non riusciva a oltrepassare la laringe. Come conseguenza, non riuscì a proferire la divertente e spiritosa battuta che si era esercitato a ripetere nel suo appartamento: «Ciao di nuovo, Floz. Non ti avevo riconosciuto con i vestiti addosso, ah ah!». Invece, tutto ciò che riuscì a fare fu annuire lanciandole uno sguardo torvo. E sfoggiando la sua espressione da Heathcliff. E Floz, che si aspettava che avrebbe fatto almeno uno sforzo rivolgendole un “Ciao” e sorridendole, si irritò al punto da limitarsi a rispondergli, a sua volta, con un cenno del capo. Non aveva alcuna intenzione di esporsi in modo che lui potesse poi respingerla. «Mmh, sento odore di cibo», disse Steve sfoderando un ampio sorriso. «Ottimo, perché sto morendo di fame. Fammi vedere dove si trova questa macchia di umidità, Ju.». Disse quelle parole in modo da farle risultare sconce, come se la macchia di umidità si trovasse nelle mutande di Juliet e non sulla parete. Juliet non si aspettava nulla di diverso da lui, ma non avrebbe mai immaginato, neanche in un milione di anni, che il suo umorismo fosse fomentato dalla tensione che derivava dal trovarsi in sua presenza. «Ti dispiacerebbe aprire le bottiglie, Floz?», le chiese Juliet, lasciandola sola nella stessa stanza con suo fratello. Erano entrambi a proprio agio come un cobra con una mangusta. Floz fu grata di avere qualcosa da fare, ovvero stappare il Cabernet Sauvignon e il Pinot Grigio. Disgraziatamente, il tappo sembrava essere stato in ammollo nel cemento per un mese prima di venir inserito nella bottiglia. Guy si chiese se avrebbe dovuto aiutarla. Era lievemente preoccupato per il fatto che se lo avesse fatto sarebbe potuto apparire come uno sbruffone di cattivo gusto, eppure, d’altra parte, sembrava davvero scortese non offrirsi e continuare a osservarla mentre lei si 76/432 affannava. Alla fine, vedendo che Floz stava diventando viola, si sentì in dovere di farsi avanti. «Posso provarci io?» «Sì, grazie», disse Floz. Tuttavia, proprio mentre glielo stava passando, il cavatappi cadde, ed entrambi scattarono in avanti per afferrarlo. L’impasse si risolse in una collisione di testa con relativo effetto sonoro, non diverso dal rumore di una noce di cocco colpita con poca delicatezza da un martello a due teste. Floz emise un grido, fu quella che si fece più male avendo ricevuto il colpo proprio su una tempia. Si rialzò di scatto, afferrandosi la testa, convinta che, se si fosse guardata allo specchio, si sarebbe ritrovata con la fronte sanguinante. «Scusa. Tutto a posto?», domandò Guy. «Sto bene», rispose Floz mentre delle scintille le esplodevano in testa. Floz non escludeva la possibilità che Guy lo avesse fatto deliberatamente. Magari era una caratteristica dei gemelli: sentiva che Floz si stava mettendo tra lui e sua sorella, per cui stava cercando di ucciderla. Guy estrasse il tappo con facilità, nella speranza di non sembrare troppo presuntuoso, come se pensasse: “Guardate come sono forte, mentre tu sei soltanto una delicata ragazzina!”. «Rosso o bianco?», gridò Guy. «Bianco!», risposero all’unisono dalla cucina. «Floz?», domandò Guy, cercando di non guardare il bernoccolo che iniziava a crescerle in testa. «Ehm, rosso per me», disse, toccandosi il cranio che le pulsava dolorosamente. «Vado un attimo ehm…». Si prese la testa bernoccoluta tra le mani e si diresse verso il bagno per valutare i danni. «Ti prendo un po’ di ghiaccio?», iniziò a chiederle Guy, con la voce che gli si affievoliva mentre si rendeva conto che lei non l’aveva sentito. Che cos’altro sarebbe successo?, si chiese, mentre inclinava la bottiglia, mancava il bicchiere e il vino rosso schizzava ovunque sulla tovaglia bianca e immacolata di Juliet. 77/432 Steve uscì per primo dalla cucina parlando nel linguaggio dell’imbianchino. Juliet lo seguiva, reggendo un piatto di pasta con in cima del formaggio fumante. «Sì, posso farlo: scalfisco uno strato di intonaco… lo gratto via… uso la cazzuola». Tuttavia se sperava di impressionare Juliet con quelle parole era completamente fuori strada. «E quanto mi farai pagare per tutto ciò?», chiese Juliet in un modo che lo dissuadeva dal chiedere una qualsiasi somma di denaro, come se, per ogni uomo, l’onore di svolgere tale lavoro avrebbe dovuto essere di per sé sufficiente. «Oh, non lo so», rifletté Steve. «Che ne dici di invitarci di nuovo a cena quando avrò finito?» «D’accordo», disse Juliet, «affare fatto. Dov’è Floz? E che cos’hai combinato con la mia tovaglia, Guy? E come mai la tua testa sta sanguinando?» «Floz, ehm, è appena andata in bagno», disse Guy, toccandosi il capo per poi ritrovarsi del sangue sul dito. «Ci siamo scontrati con le teste». «Come diavolo avete fatto a scontrarvi con le teste?», domandò Steve, pensando alla loro differenza di altezza. Che cosa aveva fatto lei, era salita su una scala per colpirlo? Guy non rispose, nel frattempo Floz emerse dal bagno con quella che sembrava essere la protuberanza di un corno che stava per spuntarle in fronte. «Maledizione!», disse Juliet. «Lascia che ti prenda un po’ di ghiaccio». «Fa lo stesso», disse Floz. «Credo non diventerà più grande di così». «Scommetto che lo avrai già detto svariate volte!», disse Steve. Juliet gli lanciò uno sguardo truce e si diresse in cucina per avvolgere due buste di piselli congelati avvolte in uno strofinaccio. «Possiamo mangiare?», s’informò Guy, cercando di riportare la situazione alla normalità, quando Juliet ritornò con due fagotti 78/432 giganti. Floz si premette il suo contro la testa, sentendosi come la diva di un melodramma, intanto che Juliet continuava ad agitarsi. «Passami un piatto», disse Steve, affondando il suo cucchiaio. «Oooh, questo piatto è al di sotto dei tuoi abituali standard culinari, Ju», la prese in giro Guy. «Veramente l’ha fatto Floz», disse Juliet. «Maledizione», sbottò Steve sottovoce. Non era bastato che il suo amico avesse colpito la ragazza che gli piaceva, ora aveva anche insultato la sua cucina. «Stavo scherzando. Ha un aspetto delizioso», disse Guy con una reazione esagerata che, però, non ottenne il risultato sperato. «Non mi offendo se non la mangi», ribatté Floz in modo gelido, da dietro la busta di piselli. Steve intervenne per salvare la situazione con la sua solita mancanza di tatto. «Be’, anche se fa schifo, senza dubbio mi piacerà, perché sto morendo di fame e mangerei qualsiasi cosa». Fu quindi il turno di Guy di mortificarsi per lei. Tra tutti e due, l’avrebbero costretta a chiamare i Samaritans, il servizio di assistenza telefonica per le persone con disturbi emotivi. Nonostante tutto, la pasta era squisita, e sia Guy che Steve ritennero che l’unico modo per farglielo capire fosse di mangiarne il più possibile, in segno di gradimento, facendo in modo di impegnare le loro bocche esclusivamente per masticare ed emettere quanti più mugolii di approvazione possibili. «Indovinate un po’? Ci troveremo degli appuntamenti romantici su internet», annunciò Juliet. «Di chi parli?», chiese Steve, cercando di nascondere in fretta l’improvvisa ondata di panico che aveva preso possesso della sua voce. «Di noi. Floz, Coco e io». Floz aveva la bocca piena di pane e non riusciva a parlare. Agitò la mano che non era impegnata a reggere il fagotto per comunicare che non era assolutamente vero, ma Juliet era lanciata. 79/432 «Per me un clone di Piers Winstanley-Black e un tipo biondo e basso che si veste con abiti eleganti per Floz». «Non voglio trovare appuntamenti su internet», disse Floz masticando la crosta. «Oh coraggio, Floz. Quello giusto per te è la fuori da qualche parte. Sei rimasta zitella abbastanza a lungo ormai». Juliet ridacchiò, inconsapevole di quanto Floz si sentisse mortificata all’idea che Guy pensasse che lei avrebbe potuto fare shopping di uomini su internet. Anche se forse pensava che avrebbe dovuto farlo. Specialmente dopo che Juliet aveva annunciato che erano anni che lei era una reietta d’amore. Floz provò a proferire un’obiezione balbuziente. Tuttavia, si rese conto che avrebbe potuto essere scambiata per la “donna che promette troppo”1, per cui stette zitta e sfogò il suo senso di irritazione premendosi la busta di piselli ancora più forte sul bernoccolo. Guy stava cercando di apparire distaccato, ma la sua testa era un groviglio di pensieri ronzanti. “La donna promette troppo”, dedusse lui. Quindi stava cercando un uomo? Un uomo che di aspetto era il suo esatto contrario. Poteva fargliene una colpa? Dopo averle quasi sfondato il cranio, aver insultato la sua cucina ed essere fuggito come un idiota totale la sera precedente? Voleva apparire spiritoso e amichevole, ma non riusciva a pensare a una sola cosa da dire mentre si trovava a quella tavola, almeno fino a che non arrivò l’Eton Mess ai lamponi. «È molto graziosa», disse. «È una torta Pavlova che hai fatto cadere per terra?». Rise, ma era l’unico a farlo. La battuta non gli era uscita come desiderava, a giudicare dall’espressione afflitta di Steve. Guy ritornò in modalità silenziosa, in stile monaco trappista, nella quale si sentiva più al sicuro. Non restarono per il caffè. Guy decise di optare per un contenimento dei danni e lasciò la scena del crimine subito dopo la battuta della Pavlova caduta per terra. 80/432 «Perché andiamo via così presto?», sibilò Steve, mentre la porta dell’appartamento si chiudeva alle loro spalle. «Credevo volessi gettare un ponte per la vostra relazione». «Ho gettato un ponte», sospirò Guy. «Esattamente come quello sul fiume Kwai». «Non era il ponte che è stato fatto saltare in aria?», gli domandò Steve confuso. Guy annuì gravemente e scese le scale. 1 William Shakespeare, Amleto, atto 2010. III, scena II, Newton Compton, Roma Capitolo dodici La sera successiva, Floz se ne stava seduta a divertirsi immensamente ascoltando Coco e Juliet che compilavano i loro questionari per gli appuntamenti su internet al computer portatile di Juliet. «Quanto è assurdo che si possa specificare il colore degli occhi che desideri che abbia il tuo compagno?», disse Juliet. «È un po’ troppo esagerato», ribatté Coco. «Segna le mie preferenze. Marroni, verdi, azzurri, grigi, strabici e guerci». «Colore dei capelli?» «Qualsiasi». «Tatuaggi e piercing?» «Qualsiasi». «Fascia di reddito?». Qui Coco si fece esigente: «Sopra le cinquantamila sterline. Non voglio qualcuno che abbia il sussidio di disoccupazione». «È un importo alto. Forse meglio puntare alla fascia tra le venticinquemila e le cinquantamila?» «Se proprio devo», disse Coco tirando su col naso. «Una breve descrizione di te stesso», lo esortò Juliet. «Mmm, fammi pensare. Che ne dici di: “Ragazzo magro, slanciato, in ottima forma, molto attraente, dagli occhi color cacao, capace di esibirsi in incredibili mosse di danza e con fianchi sinuosi, cerca equivalente per divertimento e spasso, possibilmente con la persona giusta”». «Fianchi sinuosi?», lo prese in giro Juliet. «E in ottima forma? Quando è stata l’ultima volta che hai fatto dell’esercizio fisico?» «Ho un’ottima forma fisica di natura, e sono flessuoso!». Coco balzò in piedi come fosse il ballerino Louie Spence su un trampolino e cominciò a spingere l’inguine avanti e indietro. «Avrei potuto 82/432 insegnare una cosetta o due a Michael Jackson, se ci fossimo incontrati, e se lui non fosse morto, ovviamente». «Certo, forse a proposito di come si fa la pastella cotta al forno dello Yorkshire pudding, ma non a proposito del ballo», disse Juliet. «Non riesci neanche a coordinarti quando ti masturbi». «Capitano tutte a me», sospirò Coco. Dopo che Juliet ebbe compilato la sua iscrizione, andarono tutti a curiosare su singlebods.com alla ricerca di possibili futuri compagni. «Santo cielo!», dileggiò Coco. «Se lui ha trentacinque anni, io sono una top model. Non puoi avere un doppio mento come quello a meno che tu non stia abusando del tuo corpo da almeno cinquant’anni». «Guarda questo», ridacchiò Juliet. «Potrebbe mangiare una mela attraverso un recinto di filo spinato con i denti che si ritrova». La situazione non migliorò granché neppure quando guardarono la sezione degli uomini eterosessuali. «Questo è quello giusto per te, Jul», rise Coco. «Gli piace la fantascienza, camminare al tramonto, tenersi per mano e baciarsi sul divano. Bleah!». «Sì, e guarda che cosa vuole dalla sua compagna: “Deve essere tra il metro e cinquanta e il metro e sessantacinque, deve avere necessariamente dei capelli lunghi e non tinti, nessun tatuaggio o piercing e preferibilmente non deve neanche truccarsi». Juliet s’indignò: «Vorrei incontrare un uomo che osa dirmi di non truccarmi, è proprio un coglione pedante!». Floz avrebbe voluto essere una mosca per sbirciare cosa sarebbe accaduto se Juliet fosse mai andata a un appuntamento con un uomo del genere. «Adesso sono depresso», disse Coco, che sperava in una schermata piena di fusti in attesa di una sua chiamata. «Credo andrò a casa e mi taglierò i polsi in una vasca inondata di bagnoschiuma Radox». 83/432 «Non riusciresti mai a togliere le macchie dal tuo tappeto rosa», disse Juliet. «Inoltre, non vorresti che i paramedici ti vedessero in un bagno di sangue. Troppo ripugnante». «Basta, non parliamone più», disse Coco, mentre la sua risata si spegneva all’improvviso. Floz notò lo sguardo che si scambiarono in quel momento, uno sguardo molto eloquente. Non chiese di cosa si trattava, gliel’avrebbero detto loro se avessero voluto che lei lo sapesse. Juliet salutò Coco con animo altrettanto sconfortato. Gli uomini di quel sito facevano sembrare interessante perfino Steve Feast. Poco prima di andare a letto, Floz andò a spegnere lo schermo del computer alla scrivania all’angolo. Fu allora che notò di aver ricevuto un’altra e-mail all’indirizzo del suo sito internet. “Stavo guardando tra le pagine del tuo sito. Sono felice di sapere che stai bene, Cherrylips. Mi sei mancata”. Floz avvertì una fitta pungente alla nuca. Doveva essere lui: doveva essere Nick. Ma perché? Che cosa significava? Sapeva che presto ci sarebbe stato un terzo messaggio e che quella notte avrebbe dormito un sonno agitato. Si rese conto che non lo aveva eliminato dal suo cuore anche se si era convinta di averlo fatto. Il dolore era come un drago assopito dentro di lei, un drago che però sembrava essere in procinto di svegliarsi, suo malgrado. Capitolo tredici Il mattino seguente, Kenny Moulding si precipitò da Guy non appena questi apparve in cucina. Indossava il suo solito completo gessato beige, la camicia nera con la cravatta, e portava ai piedi le lunghe e strette scarpe marroni fatte a mano. I suoi folti capelli bianchi erano pettinati in avanti per ottenere quella che lui sosteneva essere un’acconciatura di tendenza (cosa che sarebbe stata vera se fossero stati gli anni Settanta) al fine di convincere la gente che aveva vent’anni in meno rispetto ai sessantuno che risultavano dai documenti. I suoi abiti costavano una fortuna, tuttavia li abbinava talmente male che riusciva sempre ad avere l’aspetto di uno che comprava i vestiti di seconda mano. Lo stile stava a lui come i gemelli Kray, i famosi criminali londinesi, stavano al lavoro a maglia. Aveva il suo inconfondibile sigaro Romeo y Julieta serrato tra le labbra chirurgicamente perfette, e reggeva in mano una rivista arrotolata, quando distolse l’attenzione di Guy dalle prove di cottura di alcune salsicce, che sembravano fatte di segatura piuttosto che di maiale. Kenny agitò un braccio e fece cenno all’imponente capocuoco di andare nel suo ufficio, facendo tintinnare tutti i bracciali d’oro che aveva al polso. «Che cosa ne pensi?», domandò Kenny, prendendo un catalogo da sopra una scatola di funghi spugnosi e lanciandolo verso Guy in modo che potesse raccoglierlo e osservarlo. Le pagine mostravano delle immagini di un gruppo di appartamenti adiacenti a una piscina, in una qualche località calda e soleggiata. «Me ne vado a Tossa», annunciò Kenny grattandosi il mento. Che era più o meno dove Guy avrebbe voluto mandarlo ogni volta che vedeva quello stupido idiota. «Tossa del Mar», specificò Kenny, scambiando il silenzio di Guy per ignoranza. «Spagna». «Molto carino», rispose Guy. 85/432 «Vendo tutto e mi trasferisco là. Ho comprato quell’appartamento alla fine, quello con i cesti sospesi di fiori». «Be’, buon per te», iniziò a dire Guy. Poi si rese conto di quello che avrebbe potuto dirgli Kenny. «Vendi tutto? La tua casa o il ristorante?», gli domandò. «Entrambi», disse Kenny. «Ne ho abbastanza di questo fottutissimo posto. È un lavoro in cui si sgobba troppo. Sto diventando vecchio per questa pagliacciata di ristorante». “È proprio il colmo”, pensò Guy, considerando che nelle rare occasioni in cui Kenny si degnava di farsi vivo, tutto quello che faceva era starsene seduto nel suo ufficio a leggere un giornale e mettersi le dita nel naso o, in alternativa, scegliere su quale cavallo scommettere. Aveva una donna, Sandra, che gli teneva la contabilità e fungeva da segretaria, e Glenys, la donna delle pulizie, che faceva del suo meglio nonostante stesse per compiere settantacinque anni. La cosa più stressante che Kenny aveva da fare era pensare a come spendere i suoi guadagni. «Sì, vendo tutto quanto». Guy avvertì la prima ondata di panico. Sarebbe rimasto senza lavoro. Non aveva abbastanza fiducia nelle sue abilità, come invece avrebbe dovuto. E aveva la fedina penale sporca, il che non l’avrebbe reso un candidato appetibile per un nuovo capo. «Ti concedo il diritto di prelazione per rilevare l’attività», disse Kenny, mentre si riaccendeva il sigaro, strisciando il fiammifero sul cartello con scritto VIETATO FUMARE. «A me?» «Esatto, a te, giovanotto». “Sta vaneggiando”, si disse Guy, ma sapeva che non era così. Quando Kenny faceva delle dichiarazioni del genere, Guy sapeva che aveva già svolto tutte le operazioni preliminari e che dietro la proposta c’era un progetto serio. Per un attimo si sentì in preda alle vertigini per via dell’immensità di quello che Kenny gli stava proponendo. 86/432 «Potremmo aggirare tutti quegli agenti immobiliari bugiardi e bastardi se tu comprassi direttamente da me, giovanotto. Senza dubbio avrai sempre sognato di possedere un ristorante tutto tuo». Kenny spalancò le braccia. Guy esaminò l’irregolare strato d’intonaco, di un colore viola prugna con il bordo decorato da motivi floreali marroni, le finestre crepate e le piastrelle mancanti. Tuttavia, soltanto per un istante, vide la medesima stanza con delle dolci tonalità pastello e un pavimento con piastrelle bianche e nere. Vide poi la porta dell’ufficio che si apriva di scatto su di una lucida e impeccabile cucina in acciaio. Con l’immaginazione proseguì oltre, fino alla sala del ristorante, dove alti menu erano adagiati su dei graziosi tavolini. Vide delle pesanti tende alle lunghe e strette finestre, udì in sottofondo la musica di un quartetto d’archi. Proprio come in un ristorante dove era capitato una volta per sbaglio mentre era in vacanza a Firenze. Era rimasto immobile ammirando il perfetto connubio di eleganza e finta trasandatezza: le pareti di una tenue tinta verde e panna, le bellissime tende ad arazzo. Aveva saputo all’istante che se avesse mai posseduto un ristorante, avrebbe fatto in modo che avesse la stessa atmosfera placida di quel luogo. Rise brevemente tra sé. Florence, ovvero Firenze. Quella parola sembrava perseguitarlo. «Dove cazzo è il mio tramezzino?». Una voce profonda e tonante fece esplodere la nuvoletta dei suoi pensieri, mentre la testa di un camionista faceva capolino in cucina e iniziava a urlare in direzione di Igor, uno dei camerieri. Guy tornò di colpo con i piedi per terra. «Ti meriti questo posto», disse Kenny, con una rara delicatezza nella voce, spigolosa e rauca a causa della sigarette. «Mi sei sempre stato d’aiuto, giovanotto. Per questo motivo lo puoi avere a un buon prezzo. Ma solo se ti sbrighi. Non voglio restare qui a lungo». Guy aprì la bocca ma non gli uscì nulla. Vide della carne vera, dell’agnello di qualità certificata, uova talmente fresche che le galline non si erano ancora accorte della loro assenza. Vide il personale con dei grembiuli puliti, tutto in rispetto delle norme igieniche. Vide i 87/432 clienti che ritornavano, premi, stelle Michelin e nessuna minaccia incombente da parte dell’ufficio d’igiene. «Allora?». Guy aveva dei risparmi. Restava da vedere se bastavano a coprire la somma che Kenny gli avrebbe chiesto per il ristorante. Ciononostante fu pervaso da un’ebbrezza improvvisa. Come avrebbe potuto permettere che il Burgerov andasse a un altro proprietario? Qualcuno che magari poteva riuscire nell’impossibile missione di abbassare ulteriormente gli standard qualitativi. Il Burgerov era il suo regno e non l’avrebbe abbandonato senza combattere. «Sì», disse Guy, soffocando una scarica di adrenalina. «Sì cosa, giovanotto?» «Sì, comprerò il Burgerov da te, Kenny. Purché il prezzo sia abbordabile». «Lo sarà. Te lo prometto». Guy fremette per l’eccitazione, mentre afferrava la mano tesagli da Kenny Moulding per stringerla con fermezza. Avvertì un’ondata di cambiamenti nella sua anima. Di solito i cambiamenti lo turbavano, ma per la prima volta dopo tanto tempo, Guy Miller percepì una forza interiore svegliarsi dentro di lui, una forza che accolse a braccia aperte. Capitolo quattordici Era lunedì mattina e Coco come prima cosa telefonò a Juliet. «Innanzitutto, ti sei seduta di nuovo sul tuo cellulare e mi hai chiamato per sbaglio. Ti spiacerebbe togliermi dalla selezione rapida, Ju? Oppure perdere del peso sul sedere?» «Ops, scusa… sì lo farò. Anzi, lo faccio subito. Toglierti dalla selezione rapida, intendo». «L’hai detto anche l’ultima volta». «Appena finiamo la chiamata, lo giuro. Non me ne dimenticherò». «Bene. A ogni modo, ascolta la mia novità: ho un appuntamento!». Coco urlò talmente forte nel telefono che Juliet dovette allontanare la cornetta dall’orecchio per non diventare sorda. «Lo hai trovato sul sito di appuntamenti online? Di già?», disse Juliet. «Sì. Venerdì sera appena sono tornato a casa ho caricato le mie foto e ho ricevuto tantissime risposte. Ho scelto uno di Bretton. È bellissimo, ha tutto ciò che cerco in un uomo. Lo incontro questa sera. Si chiama Gideon e lavora con i computer. Sembra un cervellone. A quanto pare ha una memoria fotografica». «Spero che tu abbia scelto qualche posto in centro e ben illuminato dove incontrarvi», lo mise in guardia Juliet. «Leggendo il giornale di domani non voglio scoprire che ti hanno trovato morto nei campi». «Be’, se succedesse tutto l’entusiasmo di questa giornata sarebbe smorzato», sbuffò Coco. «In realtà, ci incontriamo da Papà Giuseppe, nel centro di Barnsley. A entrambi piace molto la cucina italiana. Abbiamo tanto in comune, è sorprendente». «Fammi rapporto domani», gli ordinò Juliet, prima di riagganciare in fretta dato che Pier Winstanley-Black stava entrando nell’edificio. Quel giorno Piers era radioso nel suo gessato blu scuro. 89/432 Entrò con una camminata da spaccone e superò la scrivania di Juliet con disinvoltura, concedendole un «Buongiorno» incredibilmente stentato, consapevole del fatto che anche solo una briciola dei suoi saluti sarebbe stata sufficiente a sciogliere i cuori – e non solo – di tutte le donne presenti in ufficio. Sprigionava ventate di arroganza, facendo breccia nella libido di Juliet. Se solo avesse potuto avere cinque minuti da trascorrere con lui in una stanza chiusa, pensò sorridendo tra sé, Piers non avrebbe mai più guardato un’altra donna. «È un uomo attraente», mugugnò Daphne, smettendo di inserire i dati. «È proprio un peccato che non gli piacciano le donne più vecchie». «O le più piccole», aggiunse Amanda. Juliet non disse nulla, formò semplicemente con le labbra le parole “sarai mio”, in direzione dell’ufficio di Piers. Subito dopo pranzo Juliet diede una sbirciata alla sua pagina del sito internet per gli appuntamenti e scoprì di aver ricevuto della posta. E a giudicare dalla foto del profilo non si trattava di un ragazzo per niente male. Essendo alto un metro e ottanta – proprio come lei – era leggermente più basso di quanto le sarebbe piaciuto, ma la foto, anche se un po’ sgranata, rivelava un sorriso aperto e cordiale e dei denti curati. L’e-mail diceva: Ciao, mi piace molto il tuo profilo e la tua fotografia. Mi chiamo Ralph (si pronuncia Ralf non Rafe come dicono certe persone presuntuose!). Ho una piccola tipografia, una casa di proprietà, i denti sono i miei, i capelli sono i miei, stessa cosa per gli arti e la testa. Vuoi chattare più tardi su MSN? Juliet annuì allo schermo come per trasmettere una risposta affermativa. Non era brutto, indossava vestiti eleganti, aveva un buon senso dell’umorismo e sapeva scrivere la parola “presuntuose” correttamente. Fino a quel momento sembrava abbastanza promettente. 90/432 Floz aveva scritto quattro poesie sulla morte ed era stremata dal punto di vista emotivo. Le variazioni sul tema erano limitate e lei era al capolinea, proprio come gli sventurati futuri destinatari dei bigliettini. Sapeva che questa serie sarebbe “morta”. Nessuno poteva dire che Lee Status non fosse innovativo, ma stavolta era troppo fuori strada per convincerla di avere per le mani una serie vincente. Non era la prima volta che Lee aveva un’idea estrema. Il mercato dei biglietti d’auguri era di larghe vedute, ma era sufficiente la notizia di un evento di un certo rilievo per alterare la corrente degli acquisti. Nessuno voleva più comprare dei biglietti d’auguri con raffigurate delle pistole, dopo tutte le carneficine avvenute negli ultimi anni. La serie dei biglietti d’auguri di Lee basata sugli assassini seriali fu, tanto per dire un eufemismo, priva di tatto; tuttavia, il suo biglietto di Harold Shipman che riportava dentro la frase «Più invecchi più ti trovo attraente» fu causa di scandalo, anche nelle cartolerie all’avanguardia e alla moda. Lee era un convinto sostenitore del fatto che “nessuna pubblicità è cattiva pubblicità”, e nonostante quei biglietti finirono al macero, quello stesso anno Lee riuscì comunque a cambiare la sua Porsche con una di un modello più recente. Floz decise che non sarebbe più riuscita a scrivere altre poesie per i malati terminali. Era un lavoro troppo deprimente. Inviò a Lee ciò che aveva scritto fino a quel momento e ricontrollò la posta in arrivo nella sua casella e-mail. Fu così che vide un nome che non avrebbe mai pensato di rivedere: Nick Vermeer. La pelle iniziò a formicolarle a causa di un miscuglio di emozioni che non riusciva a definire. Quindi era Nick che aveva mandato i messaggi indirizzati a Cherrylips. E ora l’aveva contattata direttamente. Voleva fare doppio clic per aprire l’e-mail, ma aveva timore delle parole che sarebbero così apparse sullo schermo. E dell’effetto che avrebbero potuto farle. Avrebbe dovuto cancellarla. L’ultima e-mail che aveva ricevuto da lui risaliva a diciotto mesi prima. Aveva continuato a scrivergli per tutta l’estate, nella speranza di persuaderlo a risponderle, ma non aveva ricevuto mai niente. Esattamente un anno prima, aveva deciso che lui era morto per lei, e 91/432 che se si fosse mai degnato di ricontattarla dopo essere sparito in modo così crudele, avrebbe cancellato l’e-mail senza pensarci due volte. Eppure ora, di fronte a un prezioso contatto da parte sua, scoprì che relegare quella e-mail nel cestino sarebbe stato difficile quanto rasarsi le sopracciglia con l’epilatore di Juliet. Lentamente posizionò il cursore sopra l’e-mail e fece doppio clic con il tasto sinistro. Cherrylips, dicono che ogni storia necessiti di una fine, anche se non lieta.Ti avevo detto che mio padre era morto, ma non sono sicuro di averti mai raccontato come è accaduto.Ho dovuto guardare mio padre combattere contro il cancro e perdere, e ho assistito alle ripercussioni sofferte da mia madre. Ero, e ancora sono, completamente ammaliato da una ragazza inglese e ora è troppo tardi per farglielo sapere.Nel febbraio dello scorso anno ho sostenuto degli esami medici in previsione di un nuovo contratto di lavoro come ingegnere a Cuba. Quando superi i quarant’anni, ti sottopongono a degli esami che ti fanno desiderare di averne trentanove.Da quelle analisi,dall’esame alla prostata e dalla biopsia è risultato che ogni relazione che avrei potuto avere sarebbe stata breve.Il cancro stava troppo bene nella mia prostata per andarsene.Odio i racconti brevi che non hanno un lieto fine.Mi sono sottoposto a un’operazione, ho fatto la chemioterapia e ho promesso a mia madre che avrei vissuto in eterno. A luglio di quest’anno ho scoperto, grazie a una visita di controllo,che la mia promessa non sarebbe potuta essere mantenuta.La leucemia linfatica acuta colpisce una persona su mille tra chi si sottopone a chemioterapia.È impossibile vincere la lotteria con delle probabilità così scarse, eppure questa volta ce l’ho fatta.Domani mi attende la prova finale, ma ho già sistemato tutte le mie questioni.Tutte tranne una.Avrei desiderato tantissimo avere la possibilità di conoscerti, ma non era destino.Sono scomparso perché stavo cercando di superare quello che mi stava accadendo. Come si fa a spiegare una cosa del genere a qualcuno che vive così lontano?Ho letto il tuo sito internet,e ho cercato di seguire la tua vita da lontano. Sono quasi riuscito a conoscere una fantastica donna, e rimpiango di non averlo fatto. Nick V Floz la rilesse più e più volte. A metà della terza lettura non riusciva più a vedere lo schermo a causa delle lacrime che le riempivano gli occhi. Lei sapeva che dopo il genere di relazione che avevano 92/432 avuto lui non avrebbe potuto semplicemente abbandonarla, senza avere una buona ragione. Non si erano mai incontrati, ma tra loro c’era stato un lungo e intenso rapporto: avevano parlato per ore al telefono, si erano scritti, avevano fatto dei progetti. Erano riusciti a conoscersi veramente tramite il potere delle parole. Floz sapeva di dovergli rispondere immediatamente, e le parole le sgorgarono fuori. La porta tra lei e Nick si era riaperta e non voleva che si chiudesse. Nick, avere notizie da te è un sollievo della peggior sorta. Mi sono chiesta talmente tante volte che cosa ti fosse successo, dove fossi, se stessi bene. Negli anni ho imparato a credere nella filosofia che se qualcuno ti vuole contattare, allora lo farà, se non lo fa significa che non è abbastanza interessato. Nel tuo caso sono andata contro tutti i miei istinti e ho continuato a scriverti perché non mi sarei mai aspettata che mi saresti piaciuto così tanto. È stata una sorpresa per me scoprire di provare dei sentimenti così stupidamente profondi, considerando che non ti ho mai incontrato. Sono ancora single, ovviamente. Credo di essere una persona troppo complicata per riuscire a trovare un compagno. Sto evitando l’argomento perché non riesco a pensare a nessuna fottutissima cosa da dirti che sia adatta. Sono incredibilmente dispiaciuta di sentire le tue novità e, allo stesso tempo, sono davvero commossa per il fatto che tu mi abbia scritto. Mi sento completamente svuotata. Anche a me sarebbe piaciuto avere la possibilità di conoscerti meglio. Sono stata contenta di poterti scrivere: gli uomini spiritosi, seducenti e intelligenti sono pochissimi al mondo. Credo che in un mondo parallelo saremmo potuti essere una coppia formidabile, anche se non convenzionale. Del resto, io e le convenzioni siamo sempre stati degli estranei. Chi lo sa dove vanno a finire le relazioni? Non ho mai creduto che tutta questa energia e vitalità spariscano nel nulla. Ti penso moltissimo, caro. E vorrei tanto avere avuto l’occasione di toccarti. Baci, Cherrylips Premette Invio, senza darsi pena di rileggere l’e-mail; decise piuttosto di spedire la prima stesura, che era stata scritta con il cuore in mano e gli occhi pieni di lacrime. Se le parole avessero avuto anche solo un po’ di potere, allora lui sarebbe stato curato dalla forza delle 93/432 sue? Sperava di sì, ma sapeva che si stava illudendo. Pianse fino a che non le fecero male gli occhi e non finì le lacrime che aveva a disposizione. Capitolo quindici Guy sbraitò a Varto dopo averlo sorpreso mentre si toglieva il cerume dall’orecchio per poi pulirsi sul grembiule. Quando quel posto sarebbe stato suo, avrebbe davvero fatto il culo a qualcuno, ma per il momento li avrebbe tenuti all’oscuro della notizia, come Kenny aveva richiesto. Tuttavia, una volta che il suo nome sarebbe stato sui documenti, Varto sarebbe stato cacciato via insieme a tutti gli altri rifiuti umani che Kenny aveva assunto. Guy nutriva il segreto desiderio di riempire il posto con personale veramente appassionato, che avesse voglia di imparare da lui e che non volesse soltanto servire della listeria su un piatto. Voleva persone che traessero vere soddisfazioni dal cibo, che desiderassero costruire qualcosa con lui ed esserne fieri, persone che non volevano avvelenare i clienti. Smise di sognare a occhi aperti e si accorse che Gina lo stava fissando con quei suoi occhioni azzurri. Li volse velocemente altrove, imbarazzata. Guy sapeva che quella ragazza aveva una cotta per lui e avrebbe voluto provare la stessa cosa. Ma la vita aveva l’abitudine di rendere tutto più difficile. Si chiese se essere il proprietario di un ristorante gli avrebbe concesso qualche punto in più agli occhi di Floz. Forse avrebbe dovuto proporre un pranzo di famiglia durante il quale avrebbe potuto dare la notizia della sua imminente acquisizione e cucinare un favoloso arrosto per tutti? Domenica. Domenica non avrebbe lavorato. Sì, l’avrebbe fatto domenica. Capitolo sedici «Stai bene?», chiese Juliet. Floz stava facendo finta di comportarsi come al solito, ma c’era qualcosa che non andava. Juliet non sarebbe stata sorpresa se alzando lo sguardo avesse visto una grande nuvola nera sopra la testa della sua nuova amica. Inoltre i suoi occhi apparivano un po’ vitrei, come se avesse pianto di recente. «Sto bene», rispose Floz, sfoderando all’istante un sorriso a trentadue denti talmente radioso e perfetto da sembrare falso come le tette di Barbie. «Be’, è ovvio che non è vero», disse Juliet. «Ma non mi immischierò. Anche se vorrei. Un bicchiere di vino rosso?». Si alzò dal divano proprio mentre iniziava la sigla di Valle di luna e si diresse verso il mobile bar. «Sono solo un po’ stanca», spiegò Floz. «Mi hanno dato un lavoro davvero atroce. Devo scrivere frasi per dei biglietti… biglietti d’auguri alle persone che stanno morendo». Provò a trattenersi, ma scoppiò a piangere. A quanto pareva, aveva una nuova scorta di lacrime a disposizione. «Oh, maledizione. Che lavoro tremendo!», disse Juliet, la cui curiosità era ormai totalmente soddisfatta. Si era accorta quasi da subito che Floz era una dal cuore tenero e quell’incarico doveva essere stato veramente sconvolgente per lei. Aprì in fretta la bottiglia di vino e versò due abbondanti bicchieri. «Grazie», disse Floz, sorridendole in risposta alla sua affettuosa preoccupazione. Aprì la bocca per raccontare a Juliet di Nick, ma la richiuse di colpo subito dopo. Era un argomento deprimente e insolito. Juliet avrebbe potuto non capire quanto ci si possa sentire vicini a una persona con cui non ci si è mai incontrati, e non voleva che pensasse che lei fosse pazza. 96/432 Inoltre, venendo da una famiglia di militari che si trasferiva da una casa all’altra, da un paese all’altro, per Floz era difficile fidarsi di qualcuno e farsi degli amici, poiché si era abituata fin da piccola a essere strappata via da loro. Eppure lì, a Blackberry Court, sentiva che Juliet sarebbe stata la prima amica a essere una costante nella sua vita, e in quanto tale la sua opinione era importante. «Sei gentile», disse Floz, bevendo una lunga sorsata e cercando di non pensare a quale reazione avrebbe avuto Nick leggendo la sua email, e se le avrebbe risposto. I suoi sentimenti erano talmente ruvidi che le sembrava che le avessero tolto lo strato superiore della pelle, e persino respirare la faceva sof-frire. «Ho qualcosa che ti tirerà un po’ su di morale», disse Juliet. «Ho ricevuto un messaggio da Guy. Cucinerà per noi il pranzo di domenica a casa di mia mamma – il suo appartamento è troppo piccolo. Ahimè, ci sarà anche Steve». Ancora una volta sbuffò pronunciando quel nome. «Splendido», disse Floz, poiché non riusciva a pensare ad altro da dire. Il cibo era l’ultima cosa che le passava per la testa. E la ricomparsa di Nick Vermeer aveva scacciato dalla sua mente tutti i pensieri relativi al bel Guy Miller, sosia di Heathcliff. Iniziò presto a fingersi stanca, così da potersi defilare senza sollevare domande e mettersi al suo computer a scrivere un’altra e-mail. Nella sua mente si stava sviluppando l’idea che quella che aveva scritto era impostata male. Anche Juliet aveva altri programmi, e augurò la buonanotte a Floz. Caro Nick, nello stesso istante in cui questo pomeriggio ho cliccato invio, ho saputo che mi sarei rimproverata per tutta la giornata: ti ho detto troppo? Ti ho detto abbastanza? Ti ho detto la cosa giusta? Ho pregato di aver interpretato male la tua e-mail, che ci fossero più speranze di quelle che tu riesci a vedere. E se contattarmi ti farà stare meglio, per piacere fallo. Allo stesso modo, se non te la senti, non farlo. Io capisco. Volevo soltanto dirti che il mio affetto e la mia passione per te restano immutati dentro di me. Sebbene non ci siamo incontrati, sento di conoscerti davvero 97/432 bene. Sei sempre stato difficile da eguagliare. Nessuno ci è mai arrivato vicino, a essere onesta. Spero che tua sorella e la tua famiglia ti diano tutto l’amore e il conforto necessario, ma sono sicura che sarà così. E io, ovviamente, sono soltanto a un’e-mail o a una telefonata di distanza se c’è qualsiasi cosa che posso fare per te. Con affetto, baci, Cherrylips Floz sperò che le pareti dell’appartamento fossero abbastanza spesse da non permettere a Juliet di sentirla singhiozzare. O di udire il suo cuore che si spezzava, perché era sicura di averlo sentito rompersi fragorosamente dentro il suo petto. Non appena Floz si ritirò per la notte, Juliet si collegò immediatamente a singlebods.com. Pensò di curiosare per il sito così da scoprire se c’era qualcuno che viveva entro un raggio di quindici chilometri circa che non fosse un mostro a due teste. C’erano alcuni messaggi che la aspettavano nel suo “centro dei contatti”. Il primo era succinto: «La vita è troppo breve, quindi facciamolo per tutta la notte». Ad accompagnare il messaggio c’era la fotografia del profilo di un uomo a petto nudo dall’aspetto lurido con un viso che assomigliava a una deforme noce sott’aceto. Juliet fece una smorfia e gli impedì di contattarla di nuovo. Sentiva di aver bisogno di una doccia semplicemente per aver guardato la sua foto. Il secondo era da parte dell’appassionato di fantascienza a cui piacevano le passeggiate romantiche e pomiciare sul divano. Quindi, ti è piaciuto quello che hai visto quando mi hai dato un’occhiata? Il mio è un account pro (Juliet dubitava fosse vero) e riesco a vedere chi mi ha visualizzato, in questo modo posso ricambiare il favore e fare un saluto a mia volta se mi piace quello che vedo Vorrei chiederti se ti piacerebbe uscire con me per un caffè Possiamo incontrarci in un luogo pubico (Juliet sperava intendesse dire pubblico) e vedere che cosa ne sarà Che cosa ne pensi tesoro? 98/432 A parte il fatto che sembrava non avesse mai sentito parlare dell’esistenza dei punti fermi, Juliet disse rivolta allo schermo: «Grazie, ma no». Non aveva alcuna intenzione di degnarlo di una risposta. La terza e-mail era di Ralph. Ciao, mi chiedevo se eri disponibile per una chiacchierata. Se sì, probabilmente questa sera sarò al computer a lavorare quindi ci colleghiamo su MSN? Questa è la mia e-mail… Juliet doveva scegliere se trascorrere la serata guardando un documentario poliziesco sull’assalto al treno postale di Glasgow-Londra o stabilendo un contatto con un potenziale amante. Due ore più tardi, dopo una molto piacevole conversazione virtuale, si scoprì impaziente all’idea di andare a cena con lui la sera successiva. Capitolo diciassette La mattina seguente, Floz si svegliò tardi e si rese conto di aver pianto nel sonno, visto che la sua guancia e il cuscino sottostante erano bagnati. Attendere che le linee di comunicazione tra lei e Nick si riaprissero costituiva una situazione dolceamara. Mentre scriveva la successiva lettera per lui, la sua mente cercava di riempire gli spazi vuoti degli ultimi diciotto mesi: quanto doveva aver sofferto. Il tempismo era stato veramente tragico. Floz pensò che se fosse stata così male, contrariamente a lui, avrebbe cercato ulteriormente il suo contatto, e non di distaccarsi da lui. Ma non sarebbe stato egoista e avido da parte sua cercare di fare un passo avanti nella loro relazione quando non c’era futuro? Non conosceva la risposta. Fare ciò che Nick aveva fatto richiedeva una forza che evidentemente lei non aveva. Tutto ciò che sapeva era di essere grata a Nick per aver scelto di tornare nella sua vita, e dubitava che avrebbe trovato una qualsiasi sorta di pace fino a che lui non l’avesse lasciata ancora, per l’ultima volta. Juliet era così emozionata dalla prospettiva di un vero appuntamento dal vivo che per poco non si dimenticò di andare in estasi quando Piers Winstanley-Black entrò nell’ufficio con il suo solito passo noncurante. Coco le telefonò dalla Reggia dei Profumi appena prima che scattassero le nove sull’orologio, come suo solito. «Allora, com’è andata? Morivo dalla voglia di una tua telefonata. Avrai trovato almeno cinque chiamate perse da parte mia», disse Juliet con entusiasmo. «Sono appena tornato!», disse Coco. «Siamo stati svegli tutta la notte a parlare!». «Solo a parlare?» 100/432 «Be’, abbiamo pomiciato un po’», rivelò Coco con un pizzico di imbarazzo nella voce. «Bleah, due uomini che pomiciano. Sto per sentirmi male». «Che maleducata! E ha anche pagato per me». «Cosa? L’hai fatto pagare per pomiciare con te?», lo prese in giro Juliet. «Sciocchina. Intendo dire che ha offerto tutto. Non mi ha permesso di mettere mano al portafoglio. È la prima volta che mi succede, davvero», esclamò Coco. «Oooh, impressionante», disse Juliet, che non era mai stata a un appuntamento con qualcuno tanto generoso. «Lui. È. Favoloso. Sono innamorato». «Oh cielo, ecco che ricominciamo», disse Juliet. «Comunque, non sei l’unico ad avere un appuntamento. Anche io ne ho uno. Questa sera. All’ora di pranzo vado a fare un po’ di acquisti, se ti va, potresti venire con me per aiutarmi a scegliere un vestito nuovo». «Non posso», disse Coco. «Ho una spedizione in arrivo dal magazzino. Spero soltanto che si ricordino di includere il nuovo profumo di Victoria Beckham nella consegna. Altrimenti darò di matto. Comunque, ho divagato; allora, con chi hai un appuntamento?» «Ralph, quarant’anni, casa di proprietà, tipografia di proprietà, faccia di proprietà, tutto di proprietà. Inoltre è molto ca-rino». «Dove vi incontrate?» «Mi prepara una cenetta a casa sua». «Oh, Ju…». Juliet aveva previsto una simile reazione e lo interruppe subito: «Non preoccuparti. Farò in modo di lasciarti delle tracce in caso che sia un omicida seriale. Ti darò il suo nome per intero, l’indirizzo e telefonerò sia a te e che a Floz quando arrivo». «Ce l’hai subito? Ho carta e penna a portata di mano». «Va bene, resta in linea». Juliet estrasse l’agenda dalla borsa. «Si chiama Ralph Green e abita in Riffington Place, numero 10». «Riffington Place, numero 10… perché mi dice qualcosa?», rimuginò Coco, mentre prendeva l’appunto. 101/432 «Non ne ho idea, ma è nell’elenco telefonico, ho controllato… se ciò ti fa stare meglio». «Lo sai vero che non è per niente assennato andare a casa di qualcuno?», domandò Coco, con la voce carica di preoccupazione. «A me dici di fissare l’appuntamento in un luogo sicuro e poi tu entri nel salotto di un ragno come una stupida mosca?» «Sì, ma sono una mosca dannatamente grande che sarebbe meglio non far arrabbiare. Ed è stato Ralph a dirmi di accertarmi che un buon amico sapesse dove sarei andata». «D’accordo, allora va bene. Però dobbiamo stabilire un codice e se ti trovi in un qualsiasi tipo di guaio quando ti chiamo per controllare come stai, mi dici la parola…», si sforzò di pensare, «squartatore». «Sarebbe troppo ovvio, non pensi?», rise Juliet. «Dirò “favoloso”, va bene?» «Non sono tranquillo, Ju». «Smettila di stressarmi, checca isterica che non sei altro. Starò bene». Juliet non vedeva l’ora che arrivassero le sette di sera. Si prese una lunga pausa pranzo e andò in giro per negozi, perché doveva comprare un abito che fosse attillato e stupendo per la serata. Fare sesso al primo appuntamento, tra l’altro al buio, non era un’opzione da prendere in considerazione, ma lei e Ralph avrebbero potuto perdere il controllo e imboccare il sentiero dei preliminari. In realtà, era davvero piuttosto sconsiderato da parte sua andare a casa di lui, ma era certa che Ralph fosse un ragazzo rispettabile (sperava soltanto che non sarebbe stato troppo rispettabile). Inoltre, Ralph le aveva detto di assicurarsi che i suoi amici sapessero esattamente dove lei si trovava. O meglio glielo aveva “scritto”, perché in realtà non si erano veramente parlati su MSN. Tuttavia, dopo aver guardato la foto del suo profilo, Juliet si chiese come avrebbe potuto la sua voce non essere sensuale. Comprò un tubino corto satinato di colore viola scuro e delle scarpe abbinate in pelle scamosciata con la zeppa. Una volta tornata 102/432 in ufficio telefonò a Floz per riferirle dell’appuntamento, poiché quando era uscita per andare a lavorare Floz stava ancora dormendo – cosa alquanto insolita per lei. «Floz, torno a casa alle cinque e mezza in punto e mi serve il bagno per un po’ di tempo, quindi se pensavi di lavarti, potresti farmi il piacere di rimandare?» «Certo», disse Floz. «Farò in modo che tutto sia pronto per quanto entrerai in scena. Che tipo è? Dove l’hai conosciuto? E dove ti porta?» «L’ho trovato su singlebods.com», disse Juliet, prevedendo che cosa le avrebbe detto Floz quando le avrebbe riferito che andava a cena a casa di lui. «E sì, starò attenta; e sì, ti darò il suo indirizzo e il numero di telefono, e prometto che non mi farò uccidere». «Va bene», disse Floz, cercando di sembrare un po’ più allegra e ottimista di quanto non fosse. Per lo meno, Juliet stava facendo la cosa giusta dato che stava traghettando una relazione virtuale nella vita vera il più velocemente possibile. Le relazioni virtuali avevano il potenziale di ferirti tanto quanto quelle della vita reale. Forse ti segnavano ancora di più, perché i partner virtuali erano fatti su misura, e i loro difetti erano appianati dall’immaginazione, fortemente determinata a creare un compagno perfetto. Coco telefonò a Juliet a metà pomeriggio. Non era dell’umore migliore. «Gideon non mi ha chiamato». «Sono soltanto le due e mezza», lo rimproverò Juliet. «Sii paziente». «Ha detto che mi avrebbe telefonato e non lo ha fatto. Non riesco a capirlo: abbiamo trascorso una serata piacevole». Coco era sull’orlo delle lacrime. «Rilassati, tesoro mio», disse Juliet con fare gentile. «Potrebbe essere impegnato oppure starà guidando. Vai a lavorare un po’ e toglitelo dalla testa». «D’accordo», disse Coco, riattaccando. 103/432 «Era Raymond al telefono?», rise Daphne, mentre poggiava una tazza di caffè sulla scrivania di Juliet. Aveva abitato per trent’anni nella stessa via in cui viveva la famiglia di Coco ed era al corrente del suo vero nome. Daphne, così come Grainne e Perry, non si era mai sentita a suo agio nel rivolgersi a lui col nome di Coco. «Sì», disse Juliet. «È un po’ agitato. Ha avuto un appuntamento e il ragazzo in questione non gli ha ancora telefonato». «La pazienza non è mai stata il suo forte», annuì Daphne. «Harry non mi ha contattata per due settimane dopo il nostro primo appuntamento. Tuttavia, ha avuto subito le idee più chiare non appena ha scoperto dell’esistenza di un altro ragazzo che mi portava a ballare. Ha fatto la sua mossa alla velocità di un maledetto treno espresso». «Da quanto tempo sei sposata, Daphne?», chiese Amanda, togliendosi le cuffie auricolari per unirsi alla pausa caffè. «Ventinove anni. Il venti novembre festeggiamo le nozze di perla. Abbiamo organizzato una festicciola a casa della nostra Linda e siete entrambe invitate. Ha ampliato la casa facendo costruire una stanza per le feste», aggiunse Daphne con orgoglio. «Oooh, fantastico», strillò Amanda. «Che cosa vi ha spinto a sposarvi a novembre, comunque? Non c’era un freddo glaciale?». Daphne scosse la testa. «È stato il giorno più bello di fine autunno. Le foglie volavano nell’aria come coriandoli e il sole sembrava una grande pallina di gelato alla crema. Ho sempre pensato che l’autunno fosse la stagione più adorabile». «Credo tu abbia ragione», concordò Juliet. Non aveva mai pensato quanto sarebbe stato delizioso un matrimonio autunnale. Il telefono dell’ufficio di Juliet squillò di nuovo e interruppe il viaggio di Daphne lungo la strada, ricca di foglie, che apparteneva ai ricordi. «Gideon non ha ancora chiamato», si lamentò Coco. «Perché? Che cosa c’è che non va in me? Dovrei telefonargli io?». Juliet sospirò. I drammi relazionali di Coco le erano mancati cooosì tanto. O meglio: per nulla. 104/432 «Andavamo proprio d’accordo». Un’ondata di singhiozzi si stava accumulando nella voce di Coco. «Non può essere un altro di quelli che spariscono nel nulla senza avvisare, vero?». Juliet si morse la lingua, perché se avesse detto quello che le passava per la testa, Coco avrebbe probabilmente sviluppato delle tendenze suicide. «Tesoro, se lo chiami tu sembrerai insistente. Sei uno che vale la pena inseguire, quindi lascia che sia lui a rincorrerti. Non dovresti ricordargli della tua presenza se non sei tra i suoi pensieri, poiché se questo è il caso allora lui non è la persona giusta». «Ma…». «Sii semplicemente paziente. Se ti vuole telefonare, lo farà. Se non ti vuole telefonare, allora non è l’uomo che fa per te». «Bastardo!», sbottò Coco. «Sono talmente arrabbiato che potrei esplodere». «Allora esplodi», rise lievemente Juliet. «E non perdere la speranza, perché c’è qualcuno là fuori che non ti deluderà». Mentre diceva quelle parole a Coco, sperò di sembrare più convinta di quanto non fosse. Da quando Hattie e Roger l’avevano tradita, Juliet aveva iniziato a chiedersi con sempre più frequenza se ci fosse qualcuno là fuori a cui lei sarebbe riuscita ad affidare il proprio cuore. Capitolo diciotto Mezz’ora dopo, Coco telefonò a Juliet per dirle che anche se Gideon l’avesse chiamato sarebbe stato inutile perché tanto ormai aveva cancellato il suo numero dal telefono. La richiamò di nuovo mentre Juliet stava aprendo la porta del suo appartamento per dirle che Gideon l’aveva contattato e gli aveva spiegato che era stato fuori tutto il giorno con un cliente. Coco era in estasi e Gideon era stato nuovamente aggiunto alla lista dei suoi contatti. «Oh cielo, non diventerà mai facile, il gioco del corteggiamento», si lamentò Juliet, lasciandosi cadere sul divano a fianco a Floz per cinque minuti prima di cominciare il grande rito dei preparativi per un appuntamento. «È tutto il giorno che Coco mi stressa». E continuò spiegandole il motivo per cui Coco non stava più nelle sue mutande di Calvin Klein dalla rabbia. «Povero Coco», disse Floz. «È difficile aprirsi e tornare a essere vulnerabili». Juliet tirò su col naso. «Personalmente, non capisco il problema. Se tu ti sei divertito, ma il tuo compagno non ti ha contattato il giorno dopo, è evidente che non è interessato abbastanza da volerti rivedere: semplice. Se sei una che vale la pena inseguire, allora lo faranno». Alzò le mani per comunicare a gesti quanto fosse stupido e ovvio. «Le donne tendono a voler dare una spiegazione a tutto: “Oh, non mi ha chiamato perché ha perso il telefono”, oppure “È stato rapito dagli alieni”, o “Forse è stato investito”. Crederanno a tutto piuttosto che ammettere: “Lui non vuole rivedermi più e non ha il coraggio di dirmelo”. Ora vado a preparare il bollitore, prima di saltare in vasca. Tè o caffè?». Floz ripose caffè, e fu sollevata di non dover addentrarsi nell’argomento e spiegarle che a volte esistevano delle ragioni veramente 106/432 valide per cui qualcuno avrebbe potuto tagliare di punto in bianco i ponti e sparire. Più tardi, salutò Juliet con la mano, dopodiché lesse l’e-mail che le era arrivata un’ora prima, ma che voleva conservare per quando sarebbe stata da sola. Cherrylips, ho parlato con mia mamma questa mattina e ho annullato la chemioterapia.Il dottore non ha fatto tanta resistenza,ha solamente detto che capiva.Vado a fare un gita a Warhorse con la mia familia per pescare.Il week-end in arrivo sarà troppo bello per trascorrerlo dentro casa, e io sono stato in casa per troppo tempo ultimamente. Ti mando un allegato, l’ho rinominato ma che cosa mi potranno mai fare al riguardo?Si tratta del mio punto di vista su praticamente ogni cosa.Spero non ci faranno mai una canzone rap,significherebbe la fine della civiltà per il resto dei giorni a venire. Mi sarebbe piaciuto portarti a pescare, anche se avrei dovuto infilare i vermi su tutti i tuoi ami,ma ciò fa ormai parte di un’altra vita e di un posto che non mi resta che sognare. La suggestione genera spesso altra suggestione. Nick Floz si ricordò di come lui avesse programmato di portarla a pescare per una giornata intera e di cucinare quello che avrebbero preso sul barbecue nei boschi dietro casa. Sentì un dolore profondo dentro di sé. Aprì il cassetto della scrivania, estrasse gli auricolari e li inserì a lato del computer, dopodiché aprì l’allegato, intitolato “Come mi sento ora a proposito della vita”. L’apertura gentile degli strumenti ad arco della versione di Louis Armstrong di What a wonderful world partì, e lei ascoltò le parole, cercando di immaginare lo stato mentale di un uomo che aveva accettato il fatto che a breve se ne sarebbe andato, e singhiozzò nell’appartamento vuoto. Il suono era quello di un animale in pena. Capitolo diciannove Coco era di certo su di giri per Gideon, ma la sua eccitazione era nulla se paragonata a quella di Juliet, totalmente fuori di sé davanti alla prospettiva di un uomo che avrebbe cucinato la cena per lei, una proposta che pensava fosse molto seducente. Aveva cercato di non essere stupida perdendosi a pianificare il futuro, ma le stavano passando per la testa delle immagini indecorose di ciò che sarebbe accaduto dopo qualche appuntamento, immagini di Ralph che le toglieva il vestito e la baciava su tutto il corpo con fare esperto. Il suo navigatore le stava dicendo che doveva girare in Riffington Place. Provò a scorgere i numeri delle case: 96, 94, 92… Aveva ancora tanta strada da fare prima di arrivare al 10. Si trovava in un quartiere tranquillo alla periferia di un paese che si chiamava Lower Hoppleton, un luogo che assomigliava alle lande dei pensionati. 38, 36, 34… Mancava poco. Juliet stava esplodendo per l’attesa. 24, 22, 20… Controllò di nuovo il foglio con sopra scritto il numero di Ralph. Sì, era decisamente il 10. Quando lo trovò, mandò un messaggio a Floz per dirle che era arrivata e telefonò a Coco. «Oooh, com’è la casa?», chiese Coco con entusiasmo. «È una villetta a un solo piano, e la porta ha una vetrata colorata che ritrae l’immagine di un grande uccello». Coco riuscì a cogliere una nota di tristezza nella voce di lei: «Cosa c’è che non va?» «Niente», disse Juliet, che non aveva menzionato le tende con le decorazioni pacchiane alle finestre, dove invece si era immaginata di vedere delle veneziane in legno, o la siepe tagliata a forma di galletto. O gli gnomi che sbirciavano da dietro il fogliame in giardino. «Vai e divertiti. Non giudicare un uomo dalla sua porta d’ingresso», disse Coco. «In ogni caso levati dalle palle, devo andare a farmi una doccia. Non sei la sola ad avere un appuntamento questa 108/432 sera, carina. Comunque, terrò il cellulare in tasca per tutto il tempo in caso tu abbia bisogno di me. Ricorda, “favoloso” è la parola d’ordine». Juliet afferrò la bottiglia di vino e chiuse la portiera della macchina. Sì, Coco aveva ragione, era troppo critica. Avrebbe avuto qualcosa di cui lamentarsi se la casa fosse stata una topaia fatiscente con una vecchia macchina parcheggiata in mezzo al giardino. L’eccitazione iniziò a pervaderla, mentre i suoi tacchi ticchettavano lungo il vialetto lastricato di pietre irregolari. Vide che il campanello era vicino a una targhetta con il nome della casa: HOLMLEA. Desiderò non averlo notato, poiché una tale dozzinalità la faceva raccapricciare. Spinse il pulsante con il dito e una melodia squillante e di cattivo gusto iniziò a suonare: erano le prime battute della sigla di EastEnders, la telenovela inglese. All’improvviso, avvertì una morsa di terrore allo stomaco, che per fortuna svanì non appena vide la sagoma dietro alla porta, che attribuì subito al bellissimo Ralph. Poi, la morsa tornò, mentre la porta si apriva e Ralph si palesava di fronte a lei; sembrava più vecchio e robusto rispetto alla foto del suo profilo, indossava un cardigan marrone scuro e delle pantofole abbinate. Le foto che aveva caricato sul profilo erano evidentemente degli scatti ben riusciti. Ralph fece un ampio sorriso vedendo Juliet e le disse con una voce che sembrava uscirgli dal naso evitando del tutto di passare dalla laringe: «Entra, cara Juliet, entra. Il tè è quasi pronto». Tutto ciò che Juliet avrebbe voluto, era ritornare di corsa alla macchina, tuttavia non voleva essere maleducata dopo che lui si era preso il disturbo di cucinare la cena. Si disse che sarebbe rimasta un’ora – ciò non l’avrebbe uccisa. Ralph si spostò di lato per lasciarla entrare e le diede un bacio sulla guancia. Per lo meno aveva un buon odore. Era palese che si fosse rasato per l’occasione, mettendosi un po’ di colonia. Bastava a compensare gli gnomi e il cardigan, oltre che le pantofole e la voce nasale? “Non essere cattiva”, le disse la voce interiore della ragione. “Tuo padre indossa ogni genere di pantofole e occasionalmente anche un 109/432 cardigan e a tua madre non fanno venire voglia di vomitare. Per non parlare delle tue pantofole con il coniglietto, Juliet Miller”. Juliet seguì Ralph lungo uno stretto corridoio, le pareti erano disseminate di ritratti di famiglia incorniciati in bianco e nero e color seppia; entrarono infine in un ordinato salotto dalla forma quadrata con un caminetto piastrellato e un arredamento in una gamma limitata di colori che andavano dal marrone, al beige, a un tenue verde vomito. Un’enorme radio di altri tempi era posizionata in un angolo. Sembrava un oggetto risalente alla guerra. Si aspettava quasi di vedere Vera Lynn balzare alle sue spalle cantando White Cliffs of Dover. «Ho pensato che facesse un po’ freddo, per cui ho acceso il caminetto», disse Ralph sorridendo, e Juliet notò che aveva delle briciole marroni tra i denti inferiori. Provò a rispondere al sorriso, ma la bocca non collaborava e finì per esibire una smorfia contorta. «Ti ho portato questo», disse lei, consegnandogli il vino. Almeno aveva delle belle mani, pensò mentre lui prendeva la bottiglia, nel tentativo disperato di trovare un lato positivo e far sì che quell’ora passasse in fretta. «Lo teniamo per più tardi», disse lui. «Ho appena preparato un’enorme teiera. Posso prendere il tuo cappotto?» «Oh, fa lo stesso, lo tengo qui, dietro di me», disse Juliet togliendoselo. La stanza era torrida a causa del grande fuoco che ardeva nel caminetto. Per via dell’ambientazione obsoleta, l’atmosfera non sembrava tanto accogliente quanto avrebbe dovuto essere. «Vado a prendere qualcosa da mangiare», disse Ralph, facendo scivolare un veloce sguardo di apprezzamento sul corto abito di lei, che si stava rivelando un acquisto completamente inadatto al tipo di serata. Ralph indietreggiò lentamente fuori dalla porta, come se lei fosse stata la regina e lui non osasse rivolgerle le spalle. Juliet sentì che muoveva dei piatti nella stanza attigua, presumibilmente la cucina, e capì che era stata ingenua a pretendere di aver capito com’era un uomo dal modo in cui scriveva. Il fusto alla Robert De Niro che si 110/432 era immaginata si era rivelato un anziano scapolone da telefilm britannico anni Settanta. Juliet si guardò intorno. I mobili erano antiquati e scuri, nonostante fossero stati lucidati fino a risplendere. I due divani erano voluminosi e avevano dei centrini color panna, posizionati con precisione, che coprivano lo schienale e i braccioli. Dei cuscini, con ricamate le scritte RALPH e MAMMA, erano disposti con cura. Altre vecchie fotografie erano appese alle pareti e notò una gran quantità di soprammobili sulle mensole: gingilli in ottone, alcune bambole spagnole con dei vestiti vivaci dentro una vetrinetta, insieme a un datato servizio da tè e allo strato superiore di una torta nuziale, veramente vecchia, con due sposini sbiaditi in cima. E alcuni oggetti di porcellana con sopra scritto MAMMA. «Eccoci qui», disse Ralph, presentandosi sulla porta con un vassoio, che posò sul grembo di Juliet. Sopra c’era un graziosa tazza da tè in porcellana, un po’ di latte e una zuccheriera, oltre a un grande piatto con un pasticcio a base di carne, purè di patate e carote. E una bottiglia di salsa marrone. «Il pasticcio è una mia ricetta», disse lui con orgoglio. «Oh, delizioso», ribatté Juliet, demoralizzata per via di un’altra sua fantasticheria che veniva ridotta in pezzi. Si era immaginata una cena da tre portate seduta a un tavolo, con lunghe flûte spumeggianti di champagne che avrebbero fatto tintinnare per brindare al loro primo incontro. Juliet stava morendo di fame e il cibo aveva un aspetto piuttosto invitante, seppure banale. Prese una forchettata di pasticcio, annusandolo furtivamente per scoprire se ci fossero strani odori chimici che l’avrebbero resa incosciente, impedendole di telefonare a Floz e a Coco di lì a un’ora per “controllare come stavano”. Ralph si era seduto sul divano opposto al suo e la stava guardando, mentre lei masticava con evidente gioia. Juliet sorrise imbarazzata con la bocca piena, ma Ralph rimase lì a osservarla. «Dov’è il tuo piatto?», gli chiese dopo aver preso la seconda forchettata. 111/432 «Oh, ho mangiato alle cinque insieme a mia madre», rispose. «Lei non vuole mai aspettare e odia mangiare da sola. Voglio che ceni entro le cinque e mezza, così può prendere la sua pastiglia ed essersi già addormentata per le sei e mezza. Se tutto va bene dorme per tutta la notte, anche se non si può mai dire ultimamente». Sospirò con affetto. «Quindi vivi con tua madre?», chiese Juliet. Per quanto fosse buono il pasticcio, non voleva starsene lì seduta a mangiarlo da sola in compagnia di un uomo con dei pezzi di carne tra i denti che la fissava. «Sì», disse Ralph. «La sua camera da letto è quella sul retro, la mia invece è sul davanti e lavoro nella terza stanza, che si prolunga in giardino. Te la mostro dopo il dolce. Ho una Viennetta al caffè». Il cervello di Juliet stava urlando “aiuto!”. Poi, il telefono le vibrò in tasca. «Oh, scusami», disse estraendolo e vedendo l’adorabile nome di Floz che lampeggiava sullo schermo. «Tutto bene?», le chiese la sua coinquilina. «So che avevo detto che ti avrei chiamata dopo un’ora, ma ho pensato di controllare come andava un po’ prima del previsto». «Starai scherzando!», disse Juliet, cogliendo l’occasione per scappare a gambe levate. «Come hai fatto?» «Fatto cosa?», disse Floz. «Hai chiamato l’ambulanza? Non devi muoverti. Rimani esattamente dove sei. Sto arrivando!». «Cosa?». Juliet sollevò il vassoio e si alzò. Anche Ralph si alzò, Juliet scaraventò il vassoio nelle mani di lui. «Oh mio Dio, mia madre è appena caduta giù dalle scale. Devo andare da lei. Non riesco a crederci: non ha nemmeno chiamato l’ambulanza. Mi dispiace veramente tanto interrompere così presto la nostra serata dopo che ti sei preso tutto questo disturbo». 112/432 «Oh, fa lo stesso, devi andare», disse Ralph con un’espressione mortificata. «Devi prenderti cura di tua madre. Sono delle creature molto preziose». «Vado da sola alla porta. Grazie mille. È stato bello conoscerti». Juliet si precipitò all’entrata, sperando che non fosse chiusa a chiave. Non lo era. L’aria fresca della sera la colpì in viso e lei inspirò con gratitudine. Ralph aveva posato il vassoio da qualche parte così da poter salutare Juliet con la mano. Lo vide sotto la luce arancione dell’ingresso che lo illuminava da dietro: una sagoma con tanto di cardigan e pantofole. Juliet salì in fretta e furia in macchina, sfoggiando la sua migliore espressione di preoccupazione per la madre e partì sgommando. Appena svoltato l’angolo, la tensione allentò la presa sul suo corpo, e lei guidò fino a casa in uno stato quasi rilassato di euforia. Decise che avrebbe fatto meglio a sposare Floz Cherrydale una volta arrivata a casa. Capitolo venti Floz indossava la sua assurda vestaglia con le chiazze da dalmata quando Juliet fece irruzione nell’appartamento, gettando le braccia al collo della sua graziosa coinquilina e schioccandole un enorme bacio umidiccio sulla guancia. «Florence Cherrydale, ti amo e ti amerò per sempre», proruppe. Appena Floz fu in grado di respirare, dopo essere stata spremuta fino all’ultimo centimetro della sua anima, le chiese: «Che cosa caspita è successo?» «Vino, mi serve del vino se devo raccontarti passo passo, come nei programmi televisivi per bambini tipo Art Attack», disse Juliet, sparendo in cucina e ritornando con una bottiglia e due bicchieri. Era soltanto un miscuglio di scadenti vini rossi, ma a causa del suo stato mentale aveva il sapore del nettare. Floz ascoltò mentre Juliet la metteva al corrente di Ralph, della sua villetta a un piano e del vassoio. «Riffington Place numero 10!», disse Floz allibita, quando sentì l’indirizzo. «Cribbio, è un po’ troppo simile a Rillington Place numero 10 per i miei gusti». «Oh accipicchia!». Juliet si mise le mani davanti alla bocca per lo stupore. «L’assassinio di Rillington Place n. 10. Mi ero chiesta perché mi suonasse piuttosto familiare. In ogni caso, Ralph era troppo rammollito per essere un omicida seriale come Christie». «Sì, be’, da quello che mi ricordo del caso, Reginald Christie non era esattamente un uomo virile. È per questo che gassava le vittime prima di… assalirle. Sei stata avventata», disse Floz, «andare a casa di uno sconosciuto è molto rischioso». La sua voce si abbassò alla fine della frase, mentre si ricordava che Nick in passato sarebbe dovuto andare da lei e restare nel suo appartamento per una quindicina di giorni. Ma la sua mente respinse velocemente quel pensiero, perché lei e Nick avevano costruito 114/432 una relazione che era durata svariati mesi ed erano arrivati a conoscersi. Nessuno poteva fingere tanto a lungo, lei se ne sarebbe accorta se lui non fosse stato onesto e sincero. «Lo so», disse Juliet. «Ma era innocuo, davvero. E stimo che fosse più vecchio di almeno dieci anni rispetto alle foto. Però ha fatto un ottimo sugo di carne», arrivata alla fine si mise a ridere. «Non dovresti scherzare. Alcune persone sono davvero astute: su internet danno dei ritratti di se stessi che assomigliano veramente poco a come sono invece nella vita reale. È un mare che pullula di svitati». «Sì, lo so», disse Juliet, mentre la sua risata si smorzava. «Ma non possono essere tutti pazzi. Anch’io mi sono registrata sul sito e non sono una svitata». «Vero», disse Floz. “E nemmeno io e Nick lo siamo”. «Ma è meglio stare attenti. Non devi più andare a casa di un uomo al primo appuntamento. Avrebbe potuto mettere delle droghe o chissà cos’altro nel sugo di carne». Juliet sorrise notando la preoccupazione di Floz. Era talmente euforica per il sollievo di essersene andata che non riusciva a mettersi nei panni di chi l’aveva scampata bella. «Sì, mamma. Per lo meno l’esperienza di Coco è stata positiva, e ciò è di buon auspicio». «Però ricordati che si sono visti soltanto una volta fino a ora, quindi non dobbiamo essere precipitosi». «Oh, Floz, sei così scettica», sospirò Juliet. «Hai avuto delle esperienze veramente brutte con il meno gentil sesso?» «Non più di quante ne abbiano avute le altre donne», disse Floz, capendo che la conversazione si stava avvicinando troppo ad argomenti a cui non voleva pensare e preparandosi a deviare l’attenzione di Juliet. «Quindi, ritenterai con gli incontri su internet oppure no?» «Potrei», disse Juliet. «Almeno per conoscere una gamma più vasta di cardigan e pantofole». Floz colse la palla al balzo. «Allora ti lascio libera di dedicarti alla tua missione e ti auguro una buonanotte». 115/432 «Un altro bicchiere di vino?», propose Juliet. «Grazie, ma per questa volta passo», disse Floz, e poi simulò uno sbadiglio. «Sono stanca morta». «Va bene», disse Juliet. «Allora vado a caccia di un altro po’ di prede. Mi passeresti il mio portatile?». Così, mentre Juliet entrava nel sito per visualizzare la lista degli uomini, Floz si ritirò nella sua stanza, spense la luce e accese silenziosamente il monitor del suo computer. Sperò che Juliet non la sentisse scrivere alla tastiera. Ciao omone, credo che in questo momento tu abbia tutto il diritto di decidere per te stesso, e se hai voglia di andare a pescare allora ci devi andare! Spero che il sole risplenda e che tu prenda dei pesci giganteschi. Sì, avresti dovuto infilare i vermi sui miei ami e passarmi un fazzoletto in caso avessi pensato che il pesce stava soffrendo, ma avrei preparato il più bel cestino da picnic che si possa trovare in questo lato di Venere. Idiota: avrei voluto una tua visita!!! Prendine uno grosso per me. Baci, Cherrylips Juliet ritornò su singlebods.com e trovò un paio di nuove possibilità all’orizzonte. Ryan, un dirigente di marketing di Sheffield; Jonathan, un creatore di siti web di Wakefield; e Brian, un rappresentante di commercio di Rotherham. Aprì una chat con ognuno dei tre. Tagliò i ponti con Jonathan dopo cinque minuti quando lui la invitò a vederlo attraverso la telecamera e lei scoprì che era completamente nudo. Peccato, aveva un corpo formidabile, ma nessuno poteva piacergli più di se stesso. Ryan e Brian sembravano piuttosto gentili, anzi le stavano facendo un’ottima impressione. Le chiesero entrambi di incontrarla il prima possibile. Scelse Brian per il giorno successivo e Ryan per il giovedì. Floz si svegliò alle tre del mattino e si fiondò al computer, convinta che avrebbe trovato una risposta di Nick, come se lui fosse stato 116/432 sintonizzato con lei. Aveva sempre creduto che se si fossero incontrati sarebbero stati quel genere di coppia in grado di completarsi a vicenda le rispettive frasi, e avrebbe saputo d’istinto quando l’altro si trovava in pericolo. “Come tuo padre e tua madre, Floz?”. No, si disse. Non come loro, perché lei e Nick non sarebbero stati ossessionati l’uno dall’altra fino a escludere tutti gli altri. Lei e Nick non sarebbero stati affatto come loro. Aveva ragione: c’era un’e-mail da parte di Nick che l’aspet-tava. Cherrylips, una grossa parte di me è felice che tu non sia mai venuta a farmi visita.Saresti venuta durante la fase del rifiuto e della rabbia,quando mi chiedevo perché fosse capitato a me, e in quel periodo non piacevo nemmeno a me stesso. La parte restante di me vorrebbe che tu fossi venuta.Ho venduto la casa di Osoyoos, ma a volte faccio un giro in macchina da quelle parti e mi domando che cosa sarebbe potuto accadere se le cose fossero andate in maniera diversa.Ora sono tornato all’ovile a Okanagan. Ti saluto per il momento, Nick Floz cliccò subito su Rispondi e iniziò a scrivere. 03:15. Vedi che non riesco a dormire? Caro Nick, sono così felice che tu mi abbia riscritto. Alla fine di questa e-mail ti ricorderò il mio numero di telefono. Se ti viene voglia di chiamarmi non trattenerti. Prendi un pesce enorme per me. Poi rigettalo in acqua e lascialo vivere. Baci, Cherrylips Capitolo ventuno «Quindi vi siete visti un’altra volta? Com’è andata?», Juliet disse la mattina successiva a un effervescente Coco dal telefono dell’ufficio. «È stato favoloso», rispose Coco raggiante. Juliet riuscì a capire che Coco stava sorridendo – era più che ovvio. «È adorabile. E no, non ci sono andato ancora a letto. Vorrei, ma mi sto anche divertendo a conoscerlo. Oooh, quanto sembro adulto?» «Molto», disse Juliet, impressionata. Poi lo aggiornò a proposito del proprio appuntamento, facendo delle pause quando lui rideva in corrispondenza degli aneddoti divertenti. «Mi incontro con Brian per bere qualcosa insieme all’Old Mill alle sette di questa sera. E vedo Ryan per una cena veloce all’Orchards Hotel vicino a Denby alle sette e mezza di domani», disse Juliet. «Sono entrambi luoghi pubblici ben illuminati e non c’è alcuna possibilità che mi capiti un pasticcio fatto in casa servito su un vassoio». «Bene», disse Coco. «Sei stata fortunata. Avresti potuto essere la mia prima amica cadavere». «Solo tu sei in grado di farla sembrare una cosa accettabile e alla moda», ridacchiò Juliet. Piers Winstanley-Black sbucò con la testa dalla porta e fece un cenno per indicare a Juliet che aveva bisogno della sua assistenza. «Devo andare, a presto». Juliet terminò la telefonata con Coco e prese il suo blocchetto e una penna. Se soltanto quel maledetto uomo si fosse sbrigato a fare la sua mossa con lei l’avrebbe salvata dalle acque incerte degli appuntamenti su internet. «Mi dispiace aver interrotto la tua chiamata», disse Piers, mentre salivano le scale che conducevano al suo ufficio. 118/432 «Fa lo stesso», rispose Juliet, cercando di non sembrare senza fiato. «Era soltanto un amico che al momento mi sta facendo dare un po’ di matto». La sua non era un’azienda che si accigliava di fronte a un’insolita telefonata personale. Gli avvocati erano tutti cordiali e indulgenti, in quanto sapevano di avere del personale eccellente che lavorava sodo per loro, andando spesso oltre il dovuto. Piers le aprì la porta, e mentre Juliet passava la scia del dopobarba di lui virò verso di lei. Avrebbe potuto respirare il suo profumo per tutta la giornata, ogni giorno, senza mai stancarsene. Si sedettero ai lati opposti della sua enorme scrivania in mogano. Piers le porse una lista. «Devo andare in tribunale alle dieci e sono sicuro di poter lasciare tutto ciò nelle tue mani esperte», disse lui. La sua voce era come il miele. Avrebbe potuto stare ad ascoltarla per tutta la giornata, ogni giorno, mentre respirava il suo odore. «Certo, Piers», sorrise lei, prendendo la lista dalle sue grandi mani possenti, perfettamente curate. Avrebbe potuto farsi toccare da quelle mani per tutta la giornata, ogni giorno, mentre lo ascoltava e respirava il suo odore. Era davvero magnifico, i suoi occhi azzurri erano abbastanza grandi da nuotarci dentro, nuda. Avrebbe potuto possederla sulla scrivania in quel momento, se solo lo avesse chiesto. Ma tutto quello che Piers Winstanley-Black vedeva quando guardava Juliet era l’affidabile e sorridente ragazza dell’ufficio di sotto, non un’amazzone con un’incredibile carica sessuale che avrebbe potuto far galoppare il suo cuore come fosse un cavallo in corsa su una spiaggia. Non ancora. Juliet ritornò fluttuando alla sua scrivania, e Amanda e Daphne la osservarono divertite. «Allora, ti ha già fatto la proposta di matrimonio?», chiese Daphne. 119/432 «Voleva, riuscivo a percepirlo», rispose Juliet con aria trasognata, mentre si sistemava sul suo magnifico fondoschiena. «Ma lo attendono in tribunale per le dieci. Sarà per un altro giorno». «Be’, dammi abbastanza preavviso per comprarmi un cappello», ridacchiò Daphne. «Sto pensando di fare un matrimonio autunnale», sospirò Juliet, «per seguire le tue orme». «Qualcuno vuole un altro po’ di caffè?», chiese Amanda, riportandola sulla terra. «Ho dei biscotti al cioccolato fondente da inzuppare, a meno che tu non sia già a dieta per il tuo matrimonio». «Allora ne voglio solo quattro», disse Juliet nel suo migliore tono risentito da snob. «Non vorrei rimanere incastrata mentre percorro la navata centrale». Capitolo ventidue Cherrylips, la scorsa settimana mi sono messo a riguardare le tue vecchie e-mail che non ho mai cancellato.Per la maggior parte della mia vita sono stato una persona fondamentalmente meritevole,ma così non è stato quando mi hanno diagnosticato la malattia e ho tagliato ogni ponte scappando da te.La mia intenzione di riprendere i contatti nasceva dal volerti far sapere che la colpa era totalmente mia. Ho detto al mio psicoterapeuta che non voglio che si presenti nessuno a mezzanotte sulla mia tomba per pis**arci sopra.Al momento ho molto tempo per riflettere sulle cose. Vivo del sangue delle altre persone e dell’ossigeno in bombole.Respiro come se stessi facendo delle telefonate oscene e dopo pochi minuti mi sento sfinito.No, non ti telefonerò, ma grazie per il numero.Apprezzo l’offerta. Sono sempre stato attratto da te, completamente,cosa che non posso dire riguardo alla maggior parte delle persone che conosco.Un metro e sessanta mi sembrava un po’ troppo poco per qualcuno della mia statura, ma iniziavo a pensare che fosse l’altezza perfetta. Volevo che ti accorgersi dell’impatto che hai avuto su di me e che sapessi il motivo per cui avevo chiuso con te.Eri in cima all’elenco delle persone che dovevo contattare per scusarmi. Avevo dimenticato quanta presa tu abbia sul mio cuore,Cherrylips. La scorsa notte mi sono reso conto che è tempo di dirsi addio.Sei l’ultima per me.Passa una bella vita, ragazza mia, e prenditi cura di una gran brava persona. Nick L’e-mail arrivò mentre Floz si stava cucinando il pranzo, che finì poi per gettare via. Il cuore le pesava incredibilmente nel petto e batteva a ritmo incalzante. Soffriva per un uomo che non aveva mai incontrato e che viveva dall’altra parte di un’estremamente vasta distesa d’acqua. Eppure, la distanza era affrontabile, pensò all’improvviso. Se si fosse mossa in fretta, prima che tra di loro ci fosse stata una distanza che non poteva attraversare. Floz aprì la barra di ricerca di Google e cominciò a scrivere per cercare le tariffe aeree per Kelowna, che riteneva fosse l’aeroporto più vicino a Okanagan, dove lui viveva, anche se non aveva il suo indirizzo esatto. Poi si fermò. Conosceva Nick abbastanza da sapere 121/432 che in nessun caso avrebbe voluto vederla in quel momento, quando era debole e ammalato, e non l’omone forte che doveva venire a trovarla e corteggiarla – nonché amarla – per poi riportarla con sé in Canada. Non sarebbero mai stati più vicini di quando lui leggeva le parole di lei, e lei quelle di lui. Le parole trasportavano i loro sentimenti dal cuore di uno a quello dell’altra. Floz si sentiva oppressa dalla tristezza. Sapeva che sarebbe dovuta andare in Canada quando se ne sarebbe andato e che lì avrebbe camminato sui suoi passi. Non sarebbe riuscita ad accettare l’addio di lui fino a che anche lei non glielo avesse detto. Juliet arrivò puntualissima all’Old Mill e fu stupita di vedere che Brian era lì ad aspettarla, vicino alla porta del pub che fungeva anche da ristorantino. Indossava un completo nero con una cravatta rossa e aveva un dopobarba al pino, che Coco avrebbe apprezzato. La buona notizia stava nel fatto che era incredibilmente alto, la cattiva che era troppo magro per i suoi gusti. Ma Juliet si rimproverò di essere troppo esigente. Aveva un sorriso simpatico e si era vestito per farle una buona impressione, eppure lei era lì a lamentarsi perché era snello invece che una palla di lardo. «Ciao, Juliet». Le diede due bacini e le disse quanto gli facesse piacere incontrarla, poi le aprì la porta e la seguì dentro. Un punto in più per il gesto: le piacevano i gentiluomini. Era molto più all’antica di quanto gli altri pensassero. Davano per scontato che, essendo robusta e appariscente, fosse un’irriducibile femminista brucia reggiseni, ma nulla si discostava di più dalla verità. Juliet Miller era una classica donna forte in cerca di un uomo che avesse abbastanza carattere da tenerle testa e che non si sentisse minacciato da lei al punto da iniziare a indietreggiare davanti alla sua forza d’animo, come Roger e tutti i suoi ex fidanzati avevano fatto. Brian le portò da bere a un tavolo ad angolo, tranquillo e grazioso, e le chiese se desiderava mangiare qualcosa. Juliet non aveva appetito, ma pensò che fosse stato carino da parte sua chiederglielo. «Quindi, sei single da molto?», domandò Juliet. 122/432 «Quattro mesi», disse Brian con un sospiro pesante. Un possibile punto in meno per questo. «Non è poi molto tempo». «No, ma il matrimonio zoppicava da parecchio». «Ah». «Mi ha lasciato per un altro uomo», disse Brian, bevendo una sorsata della sua mezza pinta di birra chiara. «La mia prima moglie aveva fatto la stessa cosa. A essere sincero, credo di essere maledetto». «Oh, accidenti», disse Juliet. «Comunque…». «Non appena ho presentato l’istanza di divorzio ho pensato che fosse giunta l’ora di uscire fuori nel mondo per trovarmi una nuova compagna». «Sono felice di sentire che…». «Ovviamente, per quanto riguarda le questioni economiche, ci servirà ancora un po’ prima che tutto sia risolto». «Sì, di solito…». «Mi ci è voluto molto più tempo per voltare pagina dopo il mio primo divorzio. Questa volta è stato molto più facile». Juliet aprì la bocca per contribuire alla conversazione e spostare l’attenzione di lui dalle sue ex mogli a lei e al tempo presente, ma non c’era alcuna pausa da riempire nella disquisizione di Brian. Juliet si scolò la sua birra chiara e stette lì seduta con un bicchiere vuoto, mentre Brian dimostrava che aveva superato la rottura del suo matrimonio proprio come il Ponte Vecchio superava il corso del fiume Danubio. Sebbene entrambi si fossero accordati per bere soltanto una cosa insieme, dopo un’ora e trenta minuti la mezza pinta di birra bionda di Brian non era ancora finita, per cui Juliet non poteva neanche proporgli un secondo giro. La gola di Juliet era ormai paragonabile alla sabbia del Sahara, e mentre Brian diceva per l’ennesima volta che «È bello sapere di aver dimenticato Janet ed essere andato avanti con la vita…», lei sentì la propria voce irrompere nel monologo di Brian. 123/432 «Baaaasta!». Non riusciva più a sopportarlo, le sue orecchie stavano per sanguinare. Si mise in piedi e sollevò il palmo come fosse una vigilessa che doveva arrestare le automobili. Brian si zittì per lo stupore e stette lì seduto a osservarla a bocca aperta, chiedendosi quale fosse stato il motivo che l’aveva portata a ruggirgli contro in quel modo. «Brian, sei un uomo davvero carino, ma chiaramente non hai ancora superato il fatto che la tua ex ti abbia lasciato. In effetti, non sono neanche certa che tu abbia superato il fatto che la tua prima moglie ti abbia dato il benservito». «Io… io l’ho superato». Brian annuì, anche se in modo piuttosto debole. «No, non lo hai fatto. Guarda il mio bicchiere! L’ho scolato un’ora fa, ma tu non lo hai notato. Non hai fatto nessuna domanda su di me. Non hai notato che sto per cadere in coma». Brian sembrava inorridito. «Hai parlato senza sosta per un’ora e mezza della moglie numero uno, Sue, e della moglie numero due, Janet. So che Sue è scappata con Robin, che ti aveva installato i doppi vetri, e ha preso con sé Ringo, il bracco ungherese, quando se ne è andata. E avevate una Nissan Micra. So che Janet al momento è in vacanza in un cottage in Dordogna con Neil, che è un macellaio di Morrisons. So che Sue è una taglia quarantotto, è bionda ed è allergica al nylon, mentre Janet è una taglia quarantaquattro, dopo aver perso una sessantina di chili grazie alla combinazione del ballo della salsa e di Weight Watchers. So che odia il marzapane, le piace George Michael e ha un alluce valgo al piede sinistro delle dimensioni della cittadina di Scarborough. Che cosa sai tu di me invece?» «Ehm…». «Proprio così». Juliet fece spallucce. «Non sono pronto a uscire con qualcuno, vero?», deglutì Brian, con le lacrime agli occhi. «Per parlarci chiaro, no: sei proprio fottuto!». 124/432 «Mi dispiace veramente tanto», disse Brian frugandosi nella tasca in ricerca dei fazzoletti. Juliet pensò che negli ultimi tempi quell’uomo doveva avere sicuramente pianto molto. Brian si soffiò il naso fragorosamente, fece un profondo respiro e si alzò. «Ti accompagno alla macchina», disse lui. Dopo averla scortata fino alla sua Mini le diede un bacio impacciato sulla guancia. «Credi che tra qualche mese potremmo incontrarci… ancora?». La guardò pieno di speranza, ma l’espressione di lei diceva tutto. «Già, forse è meglio di no». «Buona fortuna, Brian. Non precipitare le cose», insistette Juliet. «Dai l’impressione di essere un disperato totale e sei un po’ odioso al momento, se devo essere onesta». «Sì, sì, me lo merito», disse Brian, tirando su col naso. «Grazie». Juliet ingranò la prima e accese il lettore CD a tutto volume: AC/DC. Aveva voglia di ascoltare degli uomini veri e scatenati con tanto di fegato e palle. “Che modo tremendo di sprecare una serata”, disse a se stessa. Però, il giorno successivo sarebbe stato il turno di Ryan: la terza volta sarebbe stata quella fortunata. E se così non fosse stato, be’… forse, a conti fatti, gli appuntamenti su internet non facevano per lei. Floz era a metà di un’e-mail destinata a Nick, quando Juliet proruppe nell’appartamento, gettò la borsa, si tolse le scarpe con un calcio e si buttò sul grande divano morbido. «Floz, impediscimi di strapparmi i capelli», urlò. «Arrivo», disse Floz, controllandosi il viso allo specchio per accertarsi che il suo aspetto non riflettesse il suo umore. «Stavo lavoricchiando. Mi sentivo dell’umore giusto», mentì. «Sono stata torturata per un’ora e mezza con delle storie sulle ex mogli. Io, Juliet Miller, non sono riuscita a spiccicare una parola nemmeno per caso. Riesci a crederci?» «No, non ci riesco», disse Floz. «Preparo il bollitore». 125/432 «A quel paese il bollitore, togli dal frigo quella bottiglia canadese di vino Eiswein». Canadese. Era circondata da cose che le ricordavano Nick. Juliet osservò Floz che andava in cucina sorridendo. La conosceva soltanto da un paio di settimane, eppure capiva già che sarebbero state amiche per sempre. Coco era un ottimo amico, ma non era una donna e Juliet sentiva la mancanza di una stretta alleata femminile, che non avrebbe vomitato in caso la conversazione si fosse spostata sul ciclo mestruale. Da quando Floz si era trasferita, l’appartamento era divenuto un luogo molto più accogliente, grazie ai suoi biglietti d’auguri, al suo computer, alla sua divertente vestaglia da dalmata, ai suoi adorabili quadri con le fragole e ai suoi fruttati profumi per ambienti. Juliet pensò che ogni casa avrebbe dovuto avere una sua Floz. Sentì uno scoppio e un gridolino provenire dalla cucina. Con i piedi liberi dai tacchi alti e una buona amica con cui analizzare la serata davanti a un bicchiere di fresco spumante, Juliet pensò che, uomini o no, la vita al momento non le sembrava poi così male. Capitolo ventitré Floz aveva proprio bisogno di una serata allegra trascorsa ad ascoltare Juliet che le raccontava dell’appuntamento con Brian. Alle dieci venne loro voglia di mangiare e divorarono una pizza dalla crosta sottile con prosciutto e ananas. Tuttavia, ridere le sfinì, e alle undici le palpebre di Juliet si stavano chiudendo. Floz si mise a letto, poi si alzò subito. Doveva finire di scrivere la sua e-mail a Nick prima di andare a dormire. Aveva bisogno di dirgli delle cose, fintanto che ne aveva ancora la pos-sibilità. Caro Nick, a essere onesta, pensavo tu fossi il più grande bastardo che avessi mai incontrato. Non riuscivo a credere che mi avessi tagliato fuori, sparendo in quel modo dalla mia vita; ma poi mi sono rimproverata e ho accettato il fatto che questi incontri avvenuti su internet si basano in ogni caso su delle menzogne. Avrei voluto venire prima a conoscenza dei retroscena. Sapevo che non mi avresti più telefonato. Però desideravo che tu avessi il mio numero, così da poter avere una scelta. A ogni modo, non ho mai fatto una telefonata oscena: avresti potuto essere il primo. Tienilo a portata di mano, nel caso sentissi il bisogno di chiamarmi. Non so quale sia stato l’aspetto di te che mi ha toccato così a fondo, soprattutto se consideriamo che sembravamo delle persone profondamente diverse. Mi avevi spaventato quando mi hai scritto quella tua prima e-mail introduttiva, te l’ho mai detto? Ho pensato che se non ti avessi risposto, mi avresti dato la caccia con una balestra. Mesi più tardi, tutto quello a cui riuscivo a pensare era che avremmo potuto intrattenerci con dell’ottimo sesso. Non dirmi addio finché non devi veramente. Mi sto dissuadendo dal dirtelo a mia volta. Ma lo farò, giusto in caso non ti sentissi più, poiché non è corretto obbligarti a rispondermi quando tu stai cercando di mettere un punto a qualcosa, mentre io sto tentando di trasformarlo in una virgola. Spero tu abbia davanti a te dei giorni tranquilli, mio amore. Baci, Cherrylips Capitolo ventiquattro Guy stava facendo la lista della spesa per la domenica. Avrebbe cucinato della carne di manzo. Sapeva che Floz non era vegetariana. Per dolce avrebbe preparato la più spettacolare delle torte, con tanto di fragole. Sapeva che lei ne andava pazza perché aveva visto l’adorabile piccola serie di quadri con le fragole che Floz aveva appeso alla parete e aveva notato che il loro profumo filtrava fuori dalla sua stanza quando la porta era socchiusa. Aveva pianificato ogni cosa: innanzitutto l’avrebbe stupita con le sue doti culinarie e con un sagace scambio di battute mentre erano seduti al tavolo da pranzo, dopodiché l’avrebbe chiamata il giorno successivo per sapere come stava e invitarla fuori a cena. «Chef, per piacere, guarda che cosa ho trovato!». Antonin apparve sulla porta reggendo un topo morto per la coda. Fantastico, proprio quello che gli serviva. Mentre Guy rovistava freneticamente nelle credenze della cucina del ristorante, alla ricerca di prove dell’esistenza di altri topi, Juliet stava entrando nel parcheggio dell’Orchards Hotel, con cinque eleganti minuti di ritardo, e guidava in modo frenetico nella speranza di parcheggiare vicino all’Audi TT che Ryan aveva detto di avere. La vide, e vide anche Ryan. Assomigliava esattamente alle fotografie del suo profilo: era alto e aveva le spalle larghe, proprio come si era descritto, e non c’era traccia né di un cardigan marrone né di pantofole. “Così va molto meglio”, pensò Juliet sfoggiando un largo sorriso, mentre scendeva dalla macchina. «Ah, Juliet», disse Ryan con un ampio sorriso una volta che la ebbe individuata, mentre si dirigeva a grandi passi verso di lei. Le 128/432 diede un bacio sulla guancia e una delicata nuvola di un gradevole dopobarba la avvolse. “Sto diventando proprio come Coco, che va in brodo di giuggiole per i profumi”, pensò Juliet, ridacchiando tra sé. Eppure, per il momento quell’appuntamento sembrava veramente promettente. «Sei esattamente come nella foto del tuo profilo», disse Ryan. La sua voce era sonora e profonda. «Anche tu», disse Juliet. «Rimarresti stupita se sapessi quanto è rara questa eventualità». Ryan rise emettendo un bel suono genuino. Tese il braccio verso di lei: «Entriamo?». Camminarono a passo lungo e deciso in direzione del ristorante. “Bingo”, pensò Juliet. Quella stessa sera Floz si sentiva claustrofobica e non aveva voglia di stare in casa da sola. Si trascinò pertanto fuori per fare un giro al supermercato. Erano passati diversi giorni dall’ultima volta che aveva varcato la soglia dell’appartamento e sapeva che un po’ di aria fresca le avrebbe fatto bene. Passò vicino al bancone del pesce e pensò a Nick, che avrebbe trascorso quel fine settimana a pescare con la famiglia. Mise nel carrello alcune verdure, che in realtà non voleva, e qualche bagnoschiuma a base di erbe della Radox, nella speranza che un bagno caldo e profumato le facesse perdere i sensi, annullando gli effetti dell’insonnia. Non aveva per nulla appetito e la sua misera spesa ne era un’evidente prova. Nel reparto delle riviste, un titolo attrasse la sua attenzione: «L’amore della mia vita era un uomo che non ho mai incontrato». Distolse gli occhi prima di rendersi ridicola e iniziare a piangere nel bel mezzo del supermercato. Una volta uscita, sia la luna che il sole erano visibili: condividevano lo stesso cielo. La luna stava dicendo arrivederci al sole che andava a morire per la serata. Perfino pensare a quell’immagine fu doloroso per Floz. 129/432 All’Orchards Hotel, gli antipasti erano già stati scelti e gustati, le portate principali finite, una piacevole caraffa di vino smezzata e i caffè già bevuti per metà. Juliet si stava divertendo immensamente. Fino a quel momento, Ryan aveva fatto il pieno di punti: era galante, premuroso, affascinante, le poneva delle domande e sembrava sinceramente interessato alle risposte, giacché le sue pupille erano dilatate. Ottimi punti a suo favore. «Ebbene, devo chiedertelo: vuoi dei figli?», domandò Ryan. Juliet non era sicura di aver sentito bene. «Scusa?» «Che cosa pensi a proposito dell’avere dei figli?». “Oh, accidenti”. Però, non si poteva dire che non fosse diretto. «Ehm, devo confessartelo, non credo di essere tagliata per essere madre». Juliet si era immaginata che Ryan si sarebbe alzato in piedi mettendo fine all’appuntamento. Era sicuramente un fattore per lui imprescindibile dato che l’aveva menzionato durante il primo appuntamento, ma lei si era sentita in dovere di rispondere con onestà. Ciononostante lui non fece alcun movimento; congiunse i polpastrelli e rifletté sulla prossima domanda. «Quindi, teoricamente parlando, visto che non sei tagliata per la maternità, se ti capitasse di avere un “piccolo incidente”, che cosa faresti?». Juliet suppose che con “piccolo incidente” intendesse avere una gravidanza indesiderata e non farsela addosso. «Onestamente non lo so», disse con una risata perplessa. «Credo di non averci mai pensato». «Che cosa intendi dire con “non lo so”?», le labbra di Ryan si distesero in un sorriso di teso smarrimento, piuttosto che divertimento. «Intendo dire che in tutta onestà non lo so. Come si può sapere in che modo ci si comporterà in una data situazione a meno di non esserci effettivamente dentro?», ribatté Juliet, udendo il debole tintinnio di un campanello d’allarme che iniziava a suonare nel profondo della sua materia grigia. 130/432 «Quindi, terresti il bambino?» «Non lo so». «Abortiresti? Coraggio, stiamo parlando in via teorica e devi prendere una decisione». Juliet si schiarì la voce. Sarà anche stato vero che stavano parlando in via teorica, ma i segnali inviati dal linguaggio del corpo di lui le lasciavano intendere che molto dipendeva da quella sua risposta. «Davvero, non lo so». «Non lo sai?». Da quel momento in poi l’atteggiamento di Ryan mutò. Non stava più chiacchierando di argomenti metaforici. «Non sai se uccideresti o meno il sangue del tuo sangue? Un feto è un essere vivente e ha gli stessi diritti sia dentro che fuori dall’utero». Juliet posò la sua tazzina. Parlare di quello stupido argomento “teorico” la stava facendo infuriare. Stava rovinando quella piacevole serata. Un minuto prima si stavano scambiando aneddoti riguardo favolosi viaggi nelle capitali europee, quello dopo stavano discutendo dell’omicidio dei feti. Le era venuta la pelle d’oca e, se Ryan desiderava tracciare la linea della moralità, l’avrebbe accontentato. Tuttavia, non si sentiva a suo agio a parlare di cosa lei avrebbe fatto, per cui formulò la sua risposta sfoderando un linguaggio legale. «Ebbene, si dovrebbero valutare diversi fattori. La gravidanza comporta dei rischi per la salute fisica o mentale della partoriente? C’è una possibilità che il bambino possa nascere presentando delle anomalie fisiche o mentali…?» «Sappiamo tutti che i dottori e le cliniche interpretano liberamente la legge in materia, “trovando” delle ragioni per poter interrompere delle gravidanze, quando queste non sussistono», si intromise Ryan. «Quindi tu sei d’accordo con il concetto dell’aborto, ciò è cristallino». Tutto il fervore se ne era andato dal suo volto e lui stava guardando Juliet come se fosse una sconosciuta in cui si era appena imbattuto. «Non ho detto che sono d’accordo con l’aborto», protestò Juliet, che lavorava tutti i giorni con degli avvocati e pertanto era 131/432 pienamente consapevole del fatto che alcune persone potessero distorcere abilmente la realtà. «Credo che tu l’abbia fatto», disse Ryan. I suoi occhi erano grossi cubetti di ghiaccio che nemmeno l’ardente candela posta tra di loro avrebbe potuto sciogliere. «No, non ho affatto detto questo. In ogni caso, non credo che l’aborto sia un argomento particolarmente adatto a una cena». Juliet si trattenne dal pronunciare alcune delle sue imprecazioni preferite, che aveva a fior di labbra. «Esatto, perché evidentemente togliere la vita a un bambino non equivale a un omicidio quando se ne parla davanti a del fottuto salmone e a delle taccole», Ryan sbraitò, alzando la voce tanto che le persone sedute al tavolo di fronte guardarono verso di loro. «Che razza di idiota sei?» «Scusa?», disse Juliet. Le aveva davvero appena detto una cosa del genere? «Come può non essere omicidio?» «Non voglio parlarne», disse Juliet. «Oh no, hai iniziato tu». Ryan emise una strana risatina, ma i suoi occhi sembravano vitrei e pericolosi. «Se togli la vita a un feto si tratta di omicidio a sangue freddo. Dimmi un caso in cui non è così». «No, non lo farò», disse Juliet. «Sono a un primo appuntamento». «Nonché l’ultimo con me», ringhiò Ryan, spingendo la sedia e alzandosi in piedi, mentre lottava per infilarsi velocemente la giacca. Gli altri commensali li stavano guardando. «Tu sei una di quelle puttane che promuovono l’aborto come se fosse la soluzione odierna ai metodi contraccettivi. Sei il genere di vacca ipocrita che probabilmente esigeva a gran voce che Myra Hindley, l’assassina della brughiera di Manchester, venisse impiccata senza che ti accorgessi di essere un’omicida a tua volta!». Juliet aveva la mano sul bicchiere di vino ed era a un soffio dal gettarglielo in faccia. Ma tutti i suoi istinti le stavano dicendo: “Per una volta, lascia perdere. Quest’uomo è pericoloso”. 132/432 Ryan frugò nella sua giacca e lanciò tre banconote da dieci sterline sul tavolo. «Questa è la mia parte. Paga da sola per la tua fottutissima cena, maledetta troia assassina». Ryan uscì come un fulmine dal ristorante, lasciando Juliet ad arrossire per la prima volta nella sua vita. Arrivò la cameriera per accertarsi che stesse bene e Juliet pagò velocemente la sua parte, per poi lasciare il ristorante sentendosi tutti gli occhi della sala puntati sulla schiena. Quando raggiunse l’inespugnabilità della sua macchina, pensò a quanto fosse stata fortunata a non aver concordato di andare a cena a casa di Ryan. Era stata davvero stupida. Stava tremando con violenza mentre inseriva la chiave nel cruscotto e si dirigeva verso casa. La sua incursione nel mondo degli appuntamenti su internet si era definitivamente conclusa. Capitolo venticinque Floz non si aspettava che Juliet tornasse così presto. L’ultima volta che si erano parlate era stato durante una veloce telefonata di controllo, appena dopo la portata principale di Juliet, quando tutto stava andando a meraviglia. Juliet entrò e trovò Floz sommersa da fazzoletti e con occhi incredibilmente rossi. «Floz, che cosa ti succede?», chiese subito Juliet, mettendo immediatamente in secondo piano la sua serata. «Oh, sto bene», disse Floz mentre raccoglieva tutti i fazzoletti usati e cercava di fingere un sorriso. «Non preoccuparti per me. Stavo semplicemente guardando un film strappalacrime». «Bugiarda», disse Juliet. «Che cosa succede?». Colta alla sprovvista, Floz sentì che la sua unica opzione era confessare tutto. Più o meno. «Va bene. Ho ricevuto un’e-mail inaspettata da una vecchia… fiamma», disse a Juliet. «Ha semplicemente risvegliato in me delle emozioni». «Buone o cattive?», domandò Juliet. «È stato bellissimo risentirlo», rispose Floz. «Mi ero dimenticata quanto mi piacesse». «Vi incontrerete?» «Vorrei potessimo», disse Floz, mordendosi il labbro. «Era davvero speciale». «Be’, ti suggerisco di buttartici a capofitto». Juliet tolse le forcine dai capelli e guardò lo schermo della televisione. C’era il telegiornale, un altro soldato era stato ucciso in Afghanistan. «Non si può mai sapere che cosa ci aspetta dietro l’angolo». Floz deglutì. Se solo Juliet avesse saputo quanto quelle sue parole fossero vere. «Comunque, com’è andato l’appuntamento?» «Non intendo parlarne senza una bottiglia di vino e due bicchieri», disse Juliet. «Questa serata è stata la ciliegina sulla torta». 134/432 Quando Juliet entrò su singlebods.com per mostrare a Floz la foto del profilo di Ryan, trovò un’e-mail lunga e offensiva da parte di Ryan in persona, con tanto di punteggiatura aggressiva e piena delle peggiori imprecazioni. Non sembrava possibile che fossero state inviate dallo stesso uomo sorridente, carino e amichevole che appariva nelle tre fotografie del suo profilo. Era delusa in modo agghiacciante, eppure aveva sempre pensato di potersi fidare del proprio intuito. Juliet fece rapporto su Ryan agli amministratori di singlebods.com, poi cancellò il proprio profilo, nonostante le fossero arrivate alcune e-mail nella casella da parte di altri potenziali pretendenti che erano interessati a lei. «Facciamo tabula rasa», decise Juliet, per poi cliccare “Sì” alla domanda “Sei sicuro di voler lasciare singlebods.com?”. Non era mai stata così sicura di qualcosa in vita sua. In un certo senso, dopo quella serata, essere single non le sembrava poi così male. Capitolo ventisei Il sabato successivo andarono a fare un giro in città insieme a Coco. «Gideon ha detto che non devo trascurare i miei amici», disse Coco. «Questo è il motivo per cui al momento siete voi a godere del piacere della mia compagnia, e non lui». «Questo Gideon mi piace sempre di più». Juliet sfoggiò un ampio sorriso. «È il primo uomo a cui non ti sei appiccicato con la supercolla». «Potrei sbagliarmi ma, ancora una volta, sento di volermi fidare di lui», sorrise Coco. «Oggi porta fuori sua mamma per il suo compleanno. Lo incontrerò più tardi». Juliet abbassò lo sguardo verso le scarpe di Coco. «Che cosa c’è che non va?», le chiese Coco. «Stavo solo controllando che avessi i piedi per terra. Mi sembri proprio con la testa tra le nuvole». «È così». Coco fece l’occhiolino, prendendo entrambe le donne sottobraccio. «Sto toccando il cielo con un dito». Andarono a pranzo allo Yorkshire Rose, un pub in centro. Era economico e allegro, i pasti consistevano in prodotti surgelati riscaldati al microonde, tuttavia erano molto più buoni di quelle orrende e raffinate portate dell’Orchards Hotel, pensò Juliet. Era ancora abbastanza sconvolta per via di quel pazzo di Ryan, anche se non lo ammetteva con gli altri. Gli uomini come lui erano dei maniaci ossessivi, che si presentavano alla tua porta per far scivolare delle bombe incendiarie nella buca della posta. Accidenti, era proprio invecchiata, per lasciarsi intimidire a tal punto. Non riusciva a ricordare l’ultima volta che qualcosa l’aveva spaventata. Non era neanche così temeraria e audace da sperare che qualcuno l’avrebbe abbracciata facendola sentire protetta. 136/432 Juliet affrontò l’accaduto distruggendolo con l’umorismo, infatti durante il pranzo fece ridere gli altri con pronostici su come sarebbero potuti essere i suoi potenziali partner futuri: un assassino amante delle asce, sotto le mentite spoglie di un bibliotecario; oppure un attentatore suicida che lavorava da Greggs, la catena di locali specializzati in panetteria e pasticceria. Floz rise insieme agli altri, ma la sua mente non si allontanava mai troppo da Nick. Gli stava mandando le sue migliori vibrazioni, nella speranza che lui e la sua famiglia trascorressero un magnifico fine settimana mentre pescavano in un lago scintillante. Riusciva a immaginarlo, alto e slanciato, leggermente muscoloso, intento a ridere con un sigaro stretto tra i denti come in una di quelle fotografie che le aveva spedito. Un anno prima, Floz aveva bruciato i suoi biglietti e le sue fotografie nel tentativo di reciderlo dalla propria vita, quando credeva che lui l’avesse eliminata dalla sua in un modo così tacito e spietato. Si riportò al tempo presente e ordinò un dolce. «Quindi, dove andrai a caccia di fusti fino a che Piers non si deciderà a posare i suoi occhi brillanti su di te?», chiese Coco. «Chi lo sa», rispose Juliet. «Ma se a breve non faccio sesso potrei saltare addosso a Steve Feast. Mi sono ridotta veramente male». «Accidenti», gorgheggiò Coco. «Sei in una situazione disperata, cara». Arrivò un messaggio al cellulare di Coco da parte di Gideon; gli diceva che sperava che stessero trascorrendo un piacevole pranzo insieme e gli faceva sapere che non vedeva l’ora di incontrarsi con lui più tardi. «Perché io non posso pagare qualcuno affinché mi presti simili attenzioni?», domandò Juliet, digrignando i denti mentre lasciavano il pub. Sentirono un lamento stridulo. Un ubriacone con un completo logoro stava causando una certa ilarità mentre barcollava avanti e indietro per il viale principale. «Scommetto che ha aperto un profilo su singlebods.com», disse Juliet. «Sarà un dirigente brillante a cui piacciono le scenate 137/432 drammatiche da teatrino amatoriale. Lavora in proprio e ha una Jaguar nuova di zecca in garage». Due poliziotti si stavano dirigendo verso l’ubriacone, quando questi si schiantò contro la vetrina del negozio di un fotografo. «Perdindirindina», rise Juliet. “Oh no”, pensò Floz. “Non così. Non lui”. Era proprio quello il motivo per cui non si recava più in centro. «Ritorniamo a casa ora?», disse, restando nascosta dietro agli altri. I poliziotti erano ai lati dell’ubriacone e lo stavano sostenendo. «Due minuti, devo andare in profumeria a comprare della colla per unghie», disse Juliet. «Vi aspetto fuori da Thorntons. Voglio comprare un po’ di cioccolata», mentì Floz, poi sfrecciò via nella direzione opposta. «Coraggio». Le gambe dell’ubriacone vacillarono e per poco non trascinò un poliziotto a terra con sé. «Devo parlare con quella donna», farfugliò l’ubriacone, indicando un’adolescente sghignazzante dai lunghi capelli rossi. «Puoi parlare con noi in macchina, lungo il tragitto per la stazione di polizia». Coco guardò Juliet. «Che cos’ha Floz?» «Una vecchia fiamma è ritornata sulla scena. Credo sia un po’ nervosa al momento. La cioccolata è proprio ciò che le serve a mio parere. Negli ultimi due giorni è stata davvero taciturna». «Tutti sono taciturni se paragonati a te, tesoro», disse Coco. «Maleducato! Ogni cinque minuti va in camera sua, poi esce con un muso lungo come quello di un cavallo. Suppongo che sia in attesa di ricevere delle e-mail da parte dell’uomo misterioso». «Non le telefona? Non le manda dei messaggi?», chiese Coco. «Come faccio a saperlo?», rise Juliet. «Se capissi qualcosa di relazioni amorose, non avrei rischiato di essere uccisa due volte in una settimana». «Se si tratta di una vecchia fiamma è più probabile che le telefoni, non credi?». Coco e Juliet rimasero in piedi a guardare i poliziotti 138/432 che cercavano di caricare in macchina l’ubriaco che protestava. Si era messo a cantare, intrattenendo le persone che erano andate in centro a fare acquisti. La sua voce era sorprendentemente pulita e cantava con un vibrato misurato. Era una voce sprecata su un tale scellerato, notarono dei presenti. «Magari la chiama durante il giorno quando sono al lavoro, e in quel caso non lo saprei», disse Juliet, divertita dai tentativi di Coco di trasformarsi in un investigatore. «Però se non la chiama di sera…», Coco si stava concentrando, «…per me significa che potrebbe essere sposato. Gideon dice che un uomo che preferisce mandare messaggi o e-mail invece di parlare ha qualcosa da nascondere». «Coraggio, Miss Marple», disse Juliet, trascinando Coco in profumeria. Era sicura che il suo amico non fosse ancora pronto a vendere la sua Reggia dei Profumi per unirsi alle forze di polizia. Dall’altra parte della strada, attraverso la vetrina di Thorntons, Floz osservò l’ubriaco che veniva sistemato nel retro della macchina della polizia. Aveva perso peso, e alcuni denti. Le sue guance erano scavate e sembrava molto più vecchio della sua età, con la pelle giallastra e i capelli scarmigliati. Non riusciva a credere che un tempo aveva condiviso il letto con lui. Era diventato un barbone, un ubriaco di cui la gente rideva. Una volta erano una coppia con una casa e un lavoro, e un futuro. La lacerava sapere che lui aveva scelto quel percorso. Nonostante tutto quello che le aveva fatto, e la repulsione che provava nel vederlo, Floz era ancora molto, molto dispiaciuta per lui. Capitolo ventisette «Allora, sei pronta per il pranzo con la famiglia e Steve?», chiese Juliet, con un leggero ghigno che le faceva incrinare il labbro superiore. «Che cosa c’è tra te e lui?», disse Floz, mettendosi la borsa in spalla. «È tutto muscoli e niente cervello». Juliet si picchiettò la tempia. «Trovami l’estremo opposto di Steve Feast e avrai qualcuno a cui sarei davvero interessata». «Mi è sembrato veramente carino». Floz sparì in cucina per andare a prendere il vino bianco dal frigo. «L’hai incontrato solo una volta, Floz. Io, invece, lo conosco da una vita». «È evidente che tuo fratello non la pensa come te». «Steve Feast trascorreva più tempo a casa nostra che non nella sua quando era piccolo. La signora Feast era – e sfortunatamente è tuttora – una vera e propria ubriacona. Il padre di Steve se l’è svignata prima che lui nascesse. Mia madre gli ha comprato più vestiti di quanti gliene abbia comprati la sua. D’altra parte, è stato davvero d’aiuto con Guy quando…». Juliet si interruppe, come se fosse appena stata salvata con uno strattone dal cadere, nell’equivalente verbale, in un grandissimo crepaccio. «Quando cosa?», la esortò Floz. Juliet afferrò il cappotto. «Oh, niente. Guy ha passato un periodo difficile qualche anno fa, e Steve l’ha aiutato a superarlo. Allora, siamo pronte per il pranzo chez Grainne et Perry?». “Sì”, pensò Floz. Poi rifletté: “Questo pranzo sarà fantastico: Guy guarderà in cagnesco me, mentre Juliet guarderà in cagnesco Steve…”. 140/432 Il signore e la signora Miller vivevano in una villetta unifamiliare, piuttosto spaziosa, nella tranquilla periferia di Maltstone, un grazioso paesino con tanto di chiesa gotica e una fiera annuale di calendimaggio. Perry Miller e il suo compianto fratello gemello Stan erano stati i proprietari di un’affermata azienda di lavorazione della plastica, prima di venderla a fronte di un enorme guadagno e ritirarsi. Stan era stato un appariscente direttore con l’immancabile completo giacca e cravatta, mentre Perry non era mai stato più felice di quando indossava la sua tuta da lavoro nel laboratorio ingegneristico. Grainne Miller era sempre stata felice nel suo ruolo di casalinga. L’unica ragione che le impediva di essere come Doris Day era da attribuirsi al fatto che cucinava malissimo. Juliet aprì spingendo la porta principale della casa al numero 1 di Rosehip Gardens ed entrò in un grande ingresso dalla forma quadrata, seguita da Floz. Il profumo magnifico del pranzo domenicale arrivò subito alle narici di entrambe. I signori Miller apparvero un attimo dopo, con le braccia aperte, pronti ad accogliere la figlia e l’ospite notevolmente più esile. Grainne le scoccò un grosso bacio sulla guancia, dopodiché, come se si trovasse su un nastro trasportatore di abbracci, Floz fu passata a Perry, che le diede un abbraccio languido. Erano il genere di persone che la facevano sentire come se li conoscesse da sempre, e capiva appieno il motivo per cui Steve avesse gravitato intorno a quella famiglia, giacché la sua era così fredda e disfunzionale. Non appena pensava ai Miller le veniva voglia di sorridere. «Dov’è il nostro Guy?», chiese Juliet, togliendosi il cappotto. «È in cucina», rispose Perry, ammirando la bottiglia veramente graziosa di Sauvignon Blanc che gli era appena stata messa tra le mani. «Steven sta aprendo un po’ di vino in salotto, andate a salutarlo». «No, grazie», disse Juliet sottovoce, anche se pochi secondi dopo fu costretta a farlo, visto che Steve girò l’angolo reggendo un vassoio di bicchieri. 141/432 Floz lo esaminò di nuovo: mento volitivo e squadrato, capelli e sopracciglia biondo chiaro, in contrasto con una pelle leggermente olivastra che metteva splendidamente in risalto gli occhi di un colore azzurro ghiaccio. Ebbene sì, era un vero bastardo con le donne, ci avrebbe scommesso. Tuttavia pensava che avesse degli occhi gentili, oltre a un sorriso caldo, ampio e sincero. «Steven, appoggia quel vassoio e vieni a conoscere la nostra Floz», disse Perry, cingendo il ragazzo con le braccia e spingendolo in avanti. «Ci siamo già incontrati, Pez», rispose Steve, posando il vassoio su un tavolino. «Pez?», Juliet alzò gli occhi al cielo. «È bello rivederti, Floz», disse Steve, ignorandola. Steve riusciva benissimo a capire perché Guy fosse attratto da Floz. Non era bella come Chianti Parkin, ma aveva un aspetto estremamente dolce, con occhi luminosi e splendenti come foglie lucide. «Prendi un po’ di vino, Floz», le disse porgendole un bicchiere. «Ti piace il rosso?» «Sì, grazie», rispose Floz. «Quindi, che cos’hai fatto questa settimana?», chiese Perry, trascinando Floz in una conversazione, intanto che Juliet si dirigeva in cucina per osservare Guy nel suo regno. Le padelle stavano gorgogliando e fumando; Guy stava tagliando l’arrosto di manzo. Juliet ne rubò un pezzettino e Guy le diede uno schiaffo sulla mano. «Sto solo assaggiando», disse lei, masticando con gioia. «Ti attieni ai tuoi soliti standard, devo ammetterlo». Una padella sibilò e ne uscì un po’ di sugo. «Oh merda!», disse Guy, guardandosi intorno con impazienza alla ricerca di uno strofinaccio. «Che cosa ti succede?». Juliet lo fissò incredula. «Sei agitato. Non ti agiti mai quando cucini». «Non sono agitato», grugnì Guy. «Stai bene?» «Certo che sto bene», disse Guy. «Perché non dovrei?» 142/432 «È solo che… Non ti ho visto molto di recente. Ed è strano… Be’, ho raccontato a Floz di quanto sei divertente e invece tu mi diventi brontolone al pari di un enorme orso grigio di cattivo umore». «Non credo sia giusto che continui a venirti a trovare così spesso ora che hai un’inquilina. Vorrà la sua privacy», brontolò Guy, come un enorme orso grigio di cattivo umore. «Floz e Steve sembrano andare abbastanza d’accordo», rifletté Juliet, sbirciandoli allo specchio sulla parete della cucina che rifletteva i due intenti a conversare in salotto. «Mi sembra di capire che sia scattata una scintilla tra di loro». Guy fece cadere un cartone di latte e imprecò, Juliet decise così di defilarsi. Forse quel giorno sarebbe stato meglio lasciare in pace il suo gemello. Steve stava conducendo Floz verso una poltrona quando Juliet si unì a loro. Le stava mostrando Stripies, Striscetto, il gatto di famiglia: un vecchio felino con un occhio e un dente solo e delle zampe deformi. Aveva un aspetto estremamente selvaggio, con quel suo unico e lungo canino, tuttavia aveva il pelo morbido come il burro. «Perché lo avete chiamato così?», chiese Floz notando che era completamente nero, senza nessuna traccia di striature. Tutti i presenti nella stanza si scambiarono delle occhiate divertite. «Ah, questa sì che è una storia», disse Grainne. «Per la verità, è risaputo che molti gatti neri quando sono piccoli hanno delle strisce fantasma sul mantello», iniziò a dire Perry con un largo sorriso. «Spariscono abbastanza presto, ma sembrano indubbiamente delle striscette». «Oh, capisco», disse Floz. «Comunque questo non è stato il motivo per cui lo abbiamo battezzato così», sorrise Perry, facendo di proposito l’evasivo. «Dài, papà: raccontale la storia», lo incalzò Juliet, facendo trapelare una gioiosa impazienza. «Va bene, comincio io. Per il mio 143/432 diciannovesimo compleanno, mamma e papà mi comprarono una pelliccia nera». «E qualche sera dopo, Guy corse verso casa urlando: “Juliet, dammi subito la tua pelliccia e un sacco dell’immondizia nero”», disse Grainne, prendendo le redini della storia. «E mi consegnò una borsa bagnata, per poi uscire di corsa da casa con la pelliccia di Juliet e un sacchetto dell’immondizia». Floz sembrava divertita. Perry fece alcuni tentativi di accendersi la pipa che stringeva tra le labbra. Non appena ci riuscì, continuò la storia. «Nella borsa c’era un micino nero, fradicio e tremante, con delle strane zampe. Scoprimmo poi che un uomo chiamato Donald Green lo aveva appena messo in un sacco e lo aveva gettato in un ruscello che scorre a lato del bosco di Pogley Top. Il ruscello è conosciuto in zona come “Pogley Stripe”, la striscia di Pogley, poiché in realtà assomiglia di più a un fosso con una sottile striscia d’acqua che gli scorre nel mezzo. Fatto ciò, questo tale Donald se ne era andato al pub locale dove aveva cominciato a raccontare quello che aveva appena fatto. Pensava che fosse un aneddoto divertente. Si era fatto l’idea che, visto ciò di cui era stato capace, la gente lo avrebbe visto come un duro». «Idiota!», si intromise Juliet, mentre faceva il solletico al suo adorato gatto, accarezzandolo sotto il mento. «E chi c’era a bere nel pub se non i nostri Guy e Steve?», disse Grainne. «Ah», Floz stava iniziando a vedere il nesso. «Aspetta però, la storia non è finita». Il testimone tornò a Perry. «Fu così che Guy e Steve lasciarono immediatamente il pub per andare alla ricerca del gatto e lo trovarono. Il poverino era in pessimo stato. Il Pogley Stripe non era abbastanza profondo da riuscire ad affogarlo, ma sarebbe morto di freddo se non fosse stato salvato. I ragazzi tornarono a casa, ci consegnarono il gatto affinché lo scaldassimo e presero la pelliccia di Juliet, poiché avevano escogitato un piano». 144/432 «Conoscevamo quello stro… fannullone di Don Green, era sempre un caz… uno bello sbronzo», disse Steve, cercando di non pronunciare parolacce davanti ai signori Miller. «Quindi lo aspettammo». «E come previsto lo videro arrivare direttamente dal pub», sussurrò Perry, facendo crescere la tensione del racconto. «Erano le undici e dieci di sera e lui era ciucco come una spugna. E lì ad attenderlo, al limitare del bosco di Pogley Top, vicino al ruscello Stripe, c’erano i nostri eroi, Steve e Guy». Poi iniziò a ridere scioccamente come uno scolaretto. Era un suono travolgente e Floz ne fu contagiata. «E Steve mette la borsa…», iniziò a dire Grainne. «No, Gron, stai raccontando la storia troppo in fretta!», la rimproverò Perry. «Insomma, videro avanzare Donald Green e nell’esatto momento in cui raggiunse il punto in cui avevano trovato il gattino, Guy, avvolto nella pelliccia di Juliet, iniziò a ruggire come un leone e afferrò Donald Green da dietro. Nel frattempo, Steve coprì il cattivo della situazione con il sacco dell’immondizia e insieme lo spinsero nel fosso. Si tratta soltanto di uno sputo d’acqua – come ti ho detto – non può far affogare un uomo, però immagino che i suoi pantaloni fossero belli zuppi quando uscì strisciando. E ancora oggi, Donald Green è convinto di essere stato attaccato dalla Belva di Pogley. Ha toccato la sua pelliccia, capisci. È addirittura riuscito a far pubblicare una storia al riguardo sul “Chronicle”. Chiaramente, senza fare riferimento alla parte relativa al tentativo di annegare un gattino». «Ha finito per dare un po’ di soldi alla RSPCA, l’organizzazione di beneficenza per la protezione degli animali», aggiunse Grainne. «A quanto pare, dorme ancora con la luce accesa». «Non credo che da quel momento in poi sia più tornato a casa ridotto in quello stato», ridacchiò Perry. «Che storia divertente», disse Floz, mentre dava una grattatina sulla testa del vecchio gatto. Era davvero un brutto animaletto, con tanto di zampe deformi e un musetto brizzolato, ma era così strano da essere proprio adorabile. Capiva benissimo perché l’intera 145/432 famiglia lo adorasse così tanto. Stripies aveva vissuto come un re fin da quando aveva varcato la soglia dei Miller. Avanzava diritti sulla poltrona migliore, ogni sabato mangiava salmone fresco all’ora del tè e li ripagava con pose bizzarre, leccate e topi di campagna sventrati. Faceva parte dell’arredamento e nessuno metteva in dubbio che ci sarebbe stato per sempre. Floz pensava che Stripies avesse ricevuto più amore di tante altre persone al mondo. «Vuoi una mano, figliolo?», urlò Grainne in direzione della cucina. «No, sono a posto», rispose la profonda voce da basso di Guy, appena prima di un clangore di lattine e una sfilza di imprecazioni che portarono tutti a scambiarsi degli sguardi stupiti. «Per fortuna siamo venute in taxi: questo vino Rioja è superbo. Ben fatto, papà!», disse Juliet riempiendosi il bicchiere. Perry la abbracciò forte e la guardò con un’espressione che fece salire le lacrime agli occhi di Floz. Fu costretta a sbattere le palpebre più e più volte al fine di respingerle indietro. «A tavola, ragazzi e ragazze», urlò Grainne. Perry Miller piegò il braccio e lo porse alla sua ospite, Floz sorrise e lo afferrò con la mano libera dal bicchiere. Avrebbe davvero fatto meglio ad andarci piano con gli alcolici. Tutta quella affettuosità era quasi dolorosa per quanto era dolce, anche se c’era sempre Guy a raddrizzare l’ago della bilancia. Il cuoco entrò con un viso rubicondo, reggendo una pentola piena di verdure. Salutò Floz con un cenno del capo, cercando a malapena il contatto visivo. Lei pregò che non le si mettesse a sedere accanto, o peggio ancora direttamente davanti. Per fortuna, quando presero posto, scoprì che Guy si era diretto al lato opposto del tavolo. Lei era seduta vicino a Perry e di fronte al viso allegro di Steve. «Ora ci aspettano delle vere prelibatezze», disse Juliet chinandosi in avanti sul tavolo in direzione di Floz. «Guy è un cuoco eccellente». Dopo qualche minuto, la tavola era imbandita come a una festa in onore di Bacco e gremita di radici di pastinaca bruciacchiate con il miele, cavolfiori conditi con fin troppo formaggio Stilton e sugo di 146/432 pancetta, purè avvizzito con salvia, piccole carote affogate nel burro, asparagi troppo cotti, cavolini di Bruxelles poco cotti con pinoli, crema di rafano troppo liquida, salsa di cipolla talmente densa che avrebbe potuto essere servita a fette, e il rinomato Yorkshire pudding, i piccoli soufflé di pastella cotta al forno… o erano forse delle frittelle? Sembrava che un bambino di tre anni si fosse impossessato di un libro di ricette per cuochi esperti. «Mi dispiace, ragazzi», si scusò Guy. «È… ehm…». «Oh, non preoccuparti», lo rassicurò Perry. «A me sembra tutto fantastico. Diamoci sotto, gente». Infilzò uno Yorkshire pudding, ma era talmente friabile che andò in pezzi sul tavolo, lungo il tragitto per il piatto. La carne di manzo era buona, pensò Guy tra sé. Probabilmente era l’unica cosa che gli era venuta bene. Non avrebbe potuto essere più nervoso di così neanche se avesse dovuto cucinare per il sultano del Brunei. Ciononostante, al sultano del Brunei non avevano riferito quale fantastico cuoco lui fosse, una reputazione di cui purtroppo non era stato all’altezza in quell’occasione. Avrebbe voluto morire per la vergogna. «Il cibo è ottimo». Steve si levò in difesa di Guy e prese una forchettata di carne. «Per la miseria, Guy, questo è un ottimo taglio di manzo». Guy si stava agitando nella sedia come Elvis Presley, facendo venire a Steve la voglia di ridere. Se solo Floz avesse saputo il motivo per cui era così ansioso. «Quando è il prossimo incontro di wrestling?», chiese Juliet. «Trovateci un paio di biglietti e Floz e io verremo a guardarvi». «È martedì, alla Sala del Centenario delle Notti del Wrestling. Sono riuscito a persuadere Guy a fare un altro combattimento, dato che siamo a corto di un uomo». «Bene, ci saremo», disse Juliet, dando per scontato che anche Floz sarebbe voluta andarci. Aveva la sensazione che la sua amica avesse bisogno di essere tirata un po’ su di morale. «Sei di queste parti, Floz?», si informò Grainne. 147/432 Floz finì di masticare una carota e annuì. «Sono originaria di Higher Hoppleton», disse. «Oh, sei una tipa sofisticata allora». Steve le fece l’occhiolino dall’altra parte del tavolo. «Ignoralo». Juliet storse il naso. «Non saprebbe riconoscere qualcosa di sofisticato neanche se ci fosse seduto sopra col culo». «Juliet Miller, modera il tuo linguaggio quando sei seduta alla mia tavola». Grainne agitò la forchetta in direzione della figlia. «I tuoi genitori sono di Higher Hoppleton, Floz?», chiese Perry. «Papà sì, mamma è originaria di York». «Allora sarai andata al liceo di Penistone High», dedusse Steve, e ci mancò poco che non si rompesse un dente mordendo una pastinaca. «No, ci trasferivamo spesso. Papà è un generale di brigata dell’esercito». «Ah, ecco perché hai questo adorabile accento vellutato», disse Grainne. Ciò spiegava anche il motivo per cui Floz non avesse nessun amico stretto, pensò Juliet. Una volta aveva lavorato insieme alla figlia di un altro militare che le aveva raccontato come una vita trascorsa a essere sradicata ogni pochi anni avesse influito sulla sua capacità di coltivare delle amicizie solide e durature. «Come mai vi siete stabiliti a Barnsley?» «Sono andata all’università a Leeds e… ehm… lì ho conosciuto il mio ex marito. Era di Barnsley». «E ti è piaciuta così tanto che hai deciso di restare?», disse Perry. «Più o meno», rispose Floz. «E dove vivono ora i tuoi genitori?», chiese Perry. «Smettila di fare l’interrogatorio a questa povera ragazza». Grainne rimproverò suo marito. «No, non c’è problema», disse Floz. Non le dava fastidio. Era lusingata che si stessero interessando a lei. Per lo meno in un modo così spensierato e poco invasivo. «Una volta in pensione si sono trasferiti in Francia». 148/432 «Li vedi spesso quindi?», chiese Grainne. «No, non proprio», rispose Floz, percependo le prime fitte di disagio. Sapeva che una famiglia unita come quella dei Miller non sarebbe stata in grado di capire l’impostazione della sua. Juliet e Guy erano fin troppo chiaramente il prodotto di una coppia che si amava, e non l’effetto collaterale di una bomba indesiderata. «Oh, è un peccato», disse Grainne. Aprì la bocca per porre un’altra domanda, ma con grande sollievo di Floz, Steve dirottò il corso della conversazione. «Quindi, com’è vivere con la nostra Juliet?». Floz scorse Juliet che sospirava profondamente con fare infastidito. Avrebbe scommesso sulla sua stessa vita che stava pensando: “Come osa riferirsi a me usando la parola nostra?”. «È bello. Andiamo veramente d’accordo. Spero». Guardò Juliet in attesa di una conferma. Juliet aveva la bocca piena di cavolini di Bruxelles e annuì con veemenza. «Preferisco che sia tu a vivere con lei piuttosto che io, con tutti quei cavolini che si è appena mangiata», scherzò Steve. «Steven», lo rimproverò Grainne, lanciandogli uno sguardo d’acciaio con quei suoi occhi grigi. Steve scoppiò a ridere, Perry stava ridacchiando, Grainne stava cercando di soffocare una risatina e Floz sorrideva; soltanto Juliet esibiva uno sguardo omicida, mentre suo fratello, preoccupato, non si unì allo scherzo. Guy avrebbe voluto mandare indietro l’orologio per poter ricominciare a cucinare la cena. In realtà, se avesse potuto mandare indietro l’orologio, un’opzione migliore sarebbe stata quella di riavvolgere il tempo al giorno in cui aveva conosciuto Floz. Quello era senza ombra didubbio il pranzo più schifoso della storia. Sarebbe potuto andare peggio? Steve si allungò sul tavolo per raggiungere il pepe nero. Le maniche erano arrotolate e rivelavano la fine del tatuaggio di un serpente che aveva sul braccio. «Mi farò fare un tatuaggio», disse Juliet notandolo. 149/432 «Perché dovresti volerne uno?», chiese Guy. «Sono orrendi sulle donne». Dal modo in cui Floz abbassò lo sguardo sul cibo e deglutì, Guy capì che Floz doveva averne uno. “Oh cielo!”. Udì il lento rintocco funebre di un altro errore madornale che aveva commesso. «Che cosa fate voi due quest’anno per il vostro compleanno?» «Diamine, mamma, mancano ancora due mesi», rise Juliet. «Mi stavo soltanto chiedendo se organizzerete una festa per il vostro trentacinquesimo compleanno, è una piccola pietra miliare. Dovreste prenotare da qualche parte se non lo avete già fatto. È il cinque novembre, la serata dei falò e dei fuochi d’artificio in cui si commemora il fallimento della congiura delle polveri». «Caspita, mamma», sbuffò Juliet con finto stupore, «mi ero completamente dimenticata che siamo nati il cinque novembre. Grazie per avercelo ricordato». «Oooh, prenderai ancora quei fuochi d’artificio cinesi, Steven?», chiese Perry estasiato. «Cielo, spero di no», si spazientì Juliet. «Dovrebbero essere illegali. Potevano sentirli esplodere fin dalla Russia. Scommetto che devono aver pensato che stessimo lanciando un attacco nucleare contro di loro». «Ne prenderò qualcuno, non preoccuparti». Steve esibì un largo sorriso. «Mi vedo con Robber Johnny e Billy the Spark la prossima settimana, per cui ne ordinerò alcuni». «Tutti quelli che conosci tu hanno un nome stupido?», lo criticò Juliet. Perry batté le mani come un bambino esaltato. «Come si chiamava quel fuoco d’artificio gigantesco, quello che abbiamo fatto verso la fine? Era magnifico. Si era disteso in cielo proprio come un manto». «Il Grande Sodomita», disse Steve con orgoglio. «Davvero un magnifico esemplare». 150/432 «Esatto, proprio così: il “Grande Sodomita”». Perry emise un profondo sospiro come se stesse parlando di uno dei suoi nipoti preferiti. «Piromani inconfessati!», Juliet li accusò tutti. «Perché gli uomini sono attratti dal fuoco?» «Dovrete dirci che cosa volete. Al momento non ho idea di che cosa comprarvi», disse Grainne. «Non so che cosa voglio quest’anno per il mio compleanno», rifletté Juliet. Guy per il suo voleva Floz. Nuda. Sotto di lui, intenta a urlare il suo nome. Aveva soltanto due mesi per farlo accadere. «E ovviamente sappiamo tutti che cosa riceverà Guy per il suo compleanno», sorrise Grainne. «Che cosa?», deglutì Guy. Per un momento, pensò che sua madre avesse appena scorto il film a luci rosse proiettato nella sua testa. «Un ristorante tutto tuo, figliolo», rise sua madre. «Alla salute!». Tutti seguirono l’esempio e fecero un brindisi in onore di Guy e della sua nuova avventura. «Ti auguro tutta la fortuna del mondo per la tua impresa, Guy», disse Perry, alzando il bicchiere in direzione del figlio. «Ma vorrei che…». «No». Guy lo rimise al suo posto con rapidità e fermezza. Suo padre stava provando a dargli un po’ di soldi per aiutarlo a comprare il ristorante. Guy era fiero della sua indipendenza economica e aveva rifiutato più e più volte. Aveva a sua disposizione il denaro necessario a rilevare il Burgerov, non gli servivano soldi dai suoi genitori. Kenny gli aveva proposto l’affare del secolo. Era evidente che, per qualche motivo, aveva bisogno di andarsene in fretta. «Quando credi di rilevarlo?», chiese Juliet. «Miro a finire tutte le pratiche per metà novembre al più tardi, ma chiuderò per almeno un paio di mesi mentre i muratori ristruttureranno il posto da cima a fondo. Calcolo di lavorare a pieno regime per il giorno di San Valentino». 151/432 Guy diede un morso a una pastinaca e per poco non si spezzò la mandibola. Era davvero un pranzo orribile. Ed eccolo lì a parlare di aprire un ristorante tutto suo. Quel giorno, persino il cibo di Varto sarebbe sembrato commestibile al confronto. «Come lo chiamerai?», chiese timidamente Floz. «Non lo so», disse Guy, guardandola e sentendo il proprio cuore sospirare. Gli occhi di lei erano così grandi e verdi. Distolse lo sguardo prima di iniziare ad arrossire come un adolescente inetto, e si rivolse alla tavolata: «Qualcuno ha delle idee?» «Tutto tranne Burgerov!», disse Steve. «Dove diamine ha scovato quel nome Kenny?» «Stava cercando di essere originale», rispose Guy, strofinandosi il mento. «Be’, spero che non stia mollando tutto per diventare un creativo», affermò Perry. «No, papà, sta mollando tutto per diventare uno che si abbronza di professione». «Dovrai dare un tuo tocco al locale e chiamarlo con un nome carino», rifletté Grainne. «Che ne dici di “Da Guy”?» «Molto originale, Gron», annuì Perry. «Avresti avuto una vera vocazione per il mondo della pubblicità». Grainne guardò suo marito con divertita disapprovazione. «Farai molti cambiamenti?», chiese Juliet. «E noi mangeremo gratis?» «Saltuariamente potrei regalarti un panino, Ju. E sì, accidenti, cambierò molti degli attuali dipendenti», rispose Guy. «Scommetto che non ti sbarazzerai di quella Gina», ammiccò Juliet. «Ha una cotta per te». «Non è reciproca», disse Guy in fretta, per mettere bene in chiaro le cose con Floz. Floz notò il modo in cui Guy lo disse e le sembrò un ulteriore segno del fatto che le donne non gli interessavano granché. «Ogni volta che sono stata al ristorante l’ho sempre vista gravitare intorno a te», lo prese in giro Juliet. Poi si lanciò in 152/432 un’imitazione esasperata di Gina: «“Oh Guy, mi aiuteresti a sbattere quest’uovo? Oh Guy, mi aiuteresti a tagliare questa carota? Oh Guy, mi aiuteresti ad accarezzarmi la mia…”». «Va bene, va bene», grugnì Guy. «Basta così». «Quindi non ti sbarazzerai di lei?». Juliet prese un boccone di carne e se lo ficcò in bocca. «No». «Non ho niente da aggiungere», borbottò compiaciuta quella civettuola di sua sorella. Guy stava per lanciarsi in un’altra protesta, ma Juliet era una maestra nello stravolgere le cose, per cui decise di lasciar perdere. La sorella, con quella sua arguzia fulminante e malefica, sarebbe stata un ottimo avvocato. Guy sperava soltanto di essere stato chiaro con Floz e di averle fatto capire che Gina non gli piaceva affatto. «Mi è giunta voce che questa settimana sistemerai la macchia di umidità di Juliet, Steven», disse Grainne, non capendo perché all’improvviso si fossero tutti zittiti. «Non sono riuscito a trovare un autentico imbianchino», scherzò Juliet una volta che ebbe finito di ridere. «Ah-ha», disse Steve. «Sarò da voi domani sera alla sei in punto. Che cosa mi cucinerete?» «Trippa, escrementi e cipolla», disse Juliet. «Ordineremo del cibo da asporto. Suppongo che verrai anche tu, Guy?» «Se proprio devo». Guy scrollò le spalle nel tentativo di apparire disinteressato, e finì per assomigliare di nuovo al burbero Heathcliff. Floz dovette davvero sforzarsi di reprimere il disappunto che stava lottando per prendere il sopravvento. No, Guy non doveva in nessun modo sentirsi obbligato. Lungi da lei l’intenzione di trattenerlo dal girovagare per le lande ventose alla ricerca di Catherine Earnshaw. Quando cucinava, Guy era abituato a vedere i piatti puliti. Ci rimase male quando si accorse che era rimasto del cibo – e sfortunatamente non c’era neanche un piatto vuoto sul tavolo. Anche quello di Steve aveva degli avanzi, e lui di solito mangiava tutto, per quanto 153/432 cattivo fosse il cibo. Era l’unico che puliva sempre il proprio piatto quando Grainne cucinava. Steve riempì i bicchieri di tutti, mentre Guy preparava il dolce. Se non altro avrebbe potuto riacquistare un po’ di punti grazie alla sua torta Charlotte con sciroppo di fragole, champagne e panna montata alle fragole: era un capolavoro. «Il pranzo non è stato per niente male», disse Steve rilasciando un rutto liberatorio, e particolarmente lungo, mentre toglieva i contorni dal tavolo. «Sì, come no», sbuffò Guy. «Va bene, hai fatto di meglio». «Non ho mai fatto peggio di così». «Te lo concedo, hai vinto. Faceva abbastanza schifo». «La parola che stai cercando, Steven, è disgustoso. Se avessi ordinato queste portate nel mio ristorante non saresti mai più tornato». «Calmati, amico». Steve prese i piatti da dessert. «Che cosa mangiamo adesso?» «Una cosa che mi è riuscita bene», disse Guy con orgoglio. «Una torta Charlotte alle fragole». «È sempre un pezzo vincente quando stai cercando di conquistare una ragazza e vuoi entrare nelle sue…». «Entrare dove?», la voce di Juliet risuonò da dietro di lui. Le braccia di Steve volarono in alto e i piatti da dessert si librarono in volo, ma Steve riuscì in qualche modo ad acciuffarli tutti. Se si fosse trattato di un provino per il circo non solo l’avrebbe superato ma sarebbe stato promosso al ruolo di stella della serata. «Nella sua lista nera rovinandole la dieta», rispose in fretta Steve. «Chi è a dieta?», sogghignò Juliet. Non aspettando una risposta, si rivolse a Guy e disse: «Mi offro di darti una mano. Prendo il bricco per la panna?» «Sì, grazie», disse Guy. L’ansia di fare buona impressione iniziava a trapelare. Era diventato abbastanza rosso e accaldato. 154/432 Steve non disse altro. Era già entrato nel Guinness dei primati per aver commesso il maggior numero di gaffe in una stessa occasione. Guy portò il dessert in sala e si compiacque dell’ondata di gioia che la vista di quella magnifica torta provocò in tutti. Tutti tranne Floz, che dovette declinarla poiché era allergica alle fragole. «Sei cosa?», urlò Guy. «Mi dispiace tanto», disse Floz a bassa voce, percependo un’imbarazzante vampata di rossore che stava per colorarle le guance. Era evidente che lo aveva turbato parecchio con quella sua rivelazione, a giudicare dall’espressione stampata sul suo volto. «Vorrei poterle mangiare, le adoro, ma non posso». Era chiaramente irascibile come quegli chef in televisione. Non era forse vero che cacciavano dai propri ristoranti la gente che criticava il loro cibo? «Merda, merda, merda», disse Guy sottovoce. Era finita, senza ombra di dubbio. Non poteva andare peggio di così. Sbagliato. Quando Floz fece un salto in bagno, Perry si avvicinò a Juliet. «È una ragazza così adorabile. È single?» «Be’», cominciò a dire Juliet, accertandosi che Floz si trovasse fuori portata di orecchio, «lo era, ma una vecchia fiamma è appena riapparsa sulla scena». Guy gemette fra sé. Che altro gli sarebbe successo? Perché dal corso che aveva preso la sua vita, senza dubbio un altro evento funesto era pronto a manifestarsi. Per quando presero il caffè, Juliet aveva già spifferato quasi tutto; fecero inoltre un assaggio, o meglio una dozzina di assaggi, del brandy alle ciliegie fatto in casa da Grainne, che era piuttosto buono se si teneva conto della sua assoluta incapacità di cucinare. Juliet si era così addolcita che permise perfino a Steve di salutarla con un bacio sulla guancia. Perry e Grainne baciarono Floz e le dissero che era sempre la benvenuta. Anche Steve la baciò e le ricordò che si sarebbero visti l’indomani. Tra tutte le possibili combinazioni di scambi di baci, l’unica che non avvenne fu quella tra Guy e Floz. Lui 155/432 le fece un saluto con la mano dalla soglia della cucina, come un pellerossa maleducato. Ciononostante, Floz decise di non intraprendere il gioco dell’odio e, con entusiasmo, gli disse quanto aveva apprezzato il suo cibo, anche se sapevano entrambi che si trattava di una bugia. Le portate principali avevano lasciato molto a desiderare, e la torta le avrebbe fatto venire il prurito alla testa e le avrebbe impedito di respirare per qualche secondo. Si chiedeva come mai lui fosse così impacciato in sua presenza. Le balenò addirittura il pensiero che avesse saputo in anticipo che lei era allergica alle fragole. «È andata bene», disse Steve, mentre il taxi di Floz e Juliet avanzava rumorosamente lungo la strada. Guy non rispose. Era troppo impegnato a sbattere la testa contro la parete della cucina. Capitolo ventotto Non molto tempo dopo che il taxi le aveva lasciate alla porta, Juliet stava dormendo sul divano. Floz accese il suo monitor e scoprì con gioia di avere ricevuto un’altra lettera da Nick. Cherrylips, se i pesci creassero dei fan club, ne istituirebbero uno per te.Ne ho presi alcuni e li ho lasciati andare, facendo loro sapere che era per merito tuo.Non mi divertivo così da tanto tempo. Se fossi riuscito a trovare un sigaro sarei stato in paradiso. Mia sorella mi ha portato alcune mie foto che ancora conservava;mia mamma è venuta da me giovedì per prenderne in prestito diverse di me e mio padre.Vorrei sapere come fare per dirle che papà e io staremo bene e che la aspetteremo,e che nessuno dei due avrebbe mai voluto che lei soffrisse.Mia sorella dice che quando sarà il momento giusto parlerà a mamma affinché te ne spedisca alcune.Ce ne sono un paio di quando ero nell’esercito, ma sono foto di gruppo scattate a una certa distanza e neanche io riesco a individuarmi,quindi non c’è motivo di inviartene una di queste. Sì,ero nell’esercito (più precisamente nel Canadian Scottish Regiment, un reggimento di fanteria delle forze canadesi).Questo è il meglio che posso fare al momento.Però hai l’opportunità di vedermi andare a cavallo per la prima volta e sopravvivere al mio primo completo elegante. Non voglio dimenticarmi di nessuno, ma non posso portare nessuno con me.Prenderò la decisione migliore tra le poche opzioni che mi sono rimaste. Non posso più sottopormi alla chemioterapia sapendo che servirà soltanto a prolungare di poco il mio tempo.Forse si tratta di diserzione.So che mia madre sostiene che sia così, ma almeno sto lasciando che sia lui ad ammazzarmi,invece di uccidermi da solo.Non sono felice se penso ai pochi prossimi mesi che mi aspettano,ma almeno ho accettato che li vivrò. Vorrei che le cose fossero diverse, che tu fossi entrata prima nella mia vita e rimpiango che tra noi non ci sia mai stata una storia vera, ma non posso cambiare quello che è stato.Ho ferito la ragazza più interessante che io abbia mai conosciuto quando mi sono allontanato da te e devo abituarmi a conviverci. Nick In allegato c’erano due fotografie di un ragazzino: nella prima non sembrava affatto felice di indossare uno di quei completi con balze 157/432 sul davanti, che soltanto un giocatore di bingo avrebbe potuto apprezzare; nella seconda aveva un largo sorriso ed era seduto sopra un cavallo a dondolo. Le identificò all’istante come versioni più piccole dell’uomo di cui Floz si ricordava nelle fotografie che Nick le aveva inviato in passato. Fotografie che desiderava aver conservato. Il ragazzino in quelle foto fece sì che lei lo guardasse con il cuore di una madre. Si immaginò che cosa potesse provare la madre di Nick, si ricordò del figlio che non aveva mai visto crescere e sbocciare, con il solo risultato di scoprire che il suo autunno era arrivato presto. Per una madre ben poche disgrazie erano peggiori del perdere un bambino. Capitolo ventinove Sorprendentemente, Floz dormì di un sonno profondo, pur alzandosi presto – ma fu meglio così dato che Juliet non aveva sentito la sveglia. Floz fu felice di fare dei panini con la pancetta per entrambe, mentre Juliet si trascinava in giro cercando di prepararsi. «Non dimenticare che stasera prendiamo del cibo da asporto con Guy e Steve», disse Juliet, con quel suo solito accenno di scherno nella voce. «Non me ne dimenticherò», disse Floz. Quella notizia la rendeva felice, poiché non avrebbe mai più cucinato per quell’uomo. Nondimeno, se i tentativi di Guy del giorno precedente erano da considerarsi come dei validi esempi, lui non aveva nessun diritto di criticare la cucina degli altri. La pasta che aveva fatto lei era decisamente superiore ai cavolini di Bruxelles che aveva cucinato lui, dato che erano più duri dei bicipiti di Mike Tyson. Floz si sentì stranamente stordita e sola quando Juliet uscì con disinvoltura dall’appartamento. Sebbene da dopo il suo divorzio avesse vissuto da sola, non si era mai sentita particolarmente abbandonata a se stessa, ma Juliet era una presenza così notevole che era facile avvertire l’impatto della sua assenza. Lee Status la salvò dalla malinconia in agguato telefonandole appena prima delle nove. «Mi hai inviato alcune poesie davvero brillanti per le persone ammalate, tra parentesi», si complimentò con Floz. «Spero tu non ne voglia altre», ribatté lei. «No, abbiamo scartato la serie», disse lui. «I risultati delle ricerche di mercato non erano troppo favorevoli. Ovviamente verrai pagata lo stesso». “Non erano troppo favorevoli? Che strano!”, pensò Floz. «Questa settimana ho un ottimo lavoro per te. Umorismo da tutti i giorni: piacevole e semplice. Vacci pesante con le battute sulle 159/432 scoregge, per favore. E potrebbero tornarmi utili un paio di versi particolarmente carini a proposito di escrementi e caccole». Floz annuì. Lavorando in quel settore, le capitava spesso di riflettere su quale strano modo di guadagnarsi da vivere avesse trovato. Juliet aveva dei leggeri postumi di una sbornia, e non era dell’umore migliore per stare ad ascoltare Coco che si vantava al telefono a proposito del bellissimo fine settimana che aveva trascorso con Gideon. Erano andati al cinema e avevano visto Harry Potter, condividendo lo stesso secchiello di pop-corn. «Poi è venuto a casa mia e mi ha configurato il nuovo computer. E ha anche sistemato il dolby surround della mia TV. Onestamente, Ju, è un vero e proprio mago con le apparecchiature tecnologiche. È favoloso, favoloso e favoloso. Lo amo». Juliet si mise in bocca un paio di compresse di ibuprofene: «Credevo aveste deciso di andarci piano». «Questo per me equivale ad andarci piano!». «Muoio dalla voglia di conoscerlo», disse Juliet, cercando di sembrare entusiasta, sebbene il dolore che le tamburellava nella tempia glielo rendesse abbastanza difficile. «Oh, lo conoscerai. È piuttosto timido però». «Timido? Non rispecchia il tuo solito tipo allora». «No, non è affatto il mio solito tipo», sospirò Coco. Tutti gli ex di Coco erano insolenti, appariscenti ed esagerati, e prima di quel momento Coco non avrebbe mai preso in considerazione l’idea di uscire con un fanatico del computer. Gideon era una scelta insolita. Juliet non era del tutto convinta che Coco non fosse stato rapito dagli alieni e che questi non gli avessero riprogrammato la mente. D’altro canto, era possibile che stessero semplicemente invecchiando e che i loro gusti stessero cambiando. «Ti va di venire da noi questa sera? Ordiniamo riso al curry a domicilio con Guy e Steve». 160/432 «Oooh. Steve viene spesso ultimamente. Credi che gli piaccia Floz?», spettegolò Coco. «Come sono quando stanno insieme? Flirtano?». Juliet rimase a bocca aperta. «Ieri, a casa di mamma e papà, ho notato che vanno molto d’accordo. Stasera dobbiamo osservare il loro linguaggio del corpo per poi scambiarci le nostre impressioni», pianificò Juliet. Avrebbe tenuto d’occhio gli eventuali sviluppi tra quei due, perché se Steve Feast avesse ferito l’adorabile Floz, lei gli avrebbe dato un calcio nelle palle talmente forte da fargliele masticare come se fossero state un chewing gum. «Grazie, ma devo rifiutare l’invito», disse Coco con un tono trasognato. «Stasera faremo una cena romantica a casa. Credo che Gideon potrebbe fermarsi a dormire da me». Sembrava un adolescente emozionato. Proprio come si era sentita Juliet quando Roger le aveva chiesto di uscire per la prima volta. Si chiese se avrebbe mai più provato quelle sensazioni. Stava diventando più vecchia ed esigente, e gli uomini carini che collezionavano più di un punto nella sua personale tabella di desiderabilità stavano diventando più unici che rari. Floz si prese una pausa dallo scribacchiare una serie di battute sui compleanni per scrivere a Nick, poiché aveva voglia di scrivergli una lettera e avvertiva il bisogno di tenere aperte le linee di comunicazione fintanto che poteva. Ehi Nick, sono così felice che tu mi abbia riscritto. Ora che gli addii sono stati detti e che non ci ostacolano più… be’, tutto quello che viene da questo momento in poi è un grande premio e io sono ebbra di ogni tua parola, a essere onesta. Sono così felice che lo scorso fine settimana tu ti sia divertito. Mi aspetterei di ricevere un biglietto natalizio d’auguri da parte del pesce, ma hanno una memoria talmente corta… Non preoccuparti per “noi”. Hai fatto ciò che ritenevi giusto in quel momento. Vorrei solo averti conosciuto in carne e ossa, perché hai lasciato un cratere dentro di me quando hai smesso di scrivermi. Riesco ancora a ricordarmi della parlata 161/432 lenta e sicura che avevi quando mi chiamavi, dei luoghi in cui avevamo deciso di andare quando saresti venuto a trovarmi. Esercito? Cielo, ci sono tante cose che non conosco di te. Vuoi che venga a trovarti? Anche solo per un giorno? Se lassù non ti fanno delle proposte migliori, vieni da me a salutarmi quando giungerà il mio turno. Suppongo che sarò ancora single e che starò sognando di conoscere la persona giusta. Mi piace pensare che ci incontreremo – anche se non sono certa che lassù potrai portare delle pistole. Però ho sentito dire che le trote sono buone. Baci, Cherrylips Cliccò Invio, sentendosi come se la sua anima fosse stata ridotta in brandelli. Non riusciva a sopportare quella situazione. Estrasse l’ultimo fazzoletto dalla scatola poggiata sulla scrivania e se lo premette contro gli occhi. Poi respirò profondamente, si ricongiunse col mondo reale e si gettò a capofitto nella scrittura di tante altre battute per Lee Status a proposito delle funzioni corporee. Tutto ciò mentre cercava di non pensare a quello che sarebbe potuto succedere, se la vita fosse stata giusta. Capitolo trenta Juliet studiò il menu del cibo da asporto, ma ciò che avrebbe davvero desiderato (ovvero tanto ma tanto sesso) non compariva tra le cose da ordinare. Più invecchiava, più si eccitava durante il periodo dell’ovulazione. Distolse i suoi pensieri da Piers Winstanley-Black per concentrarsi sulla scelta tra un dopiaza e un rogan josh. Floz stava preparando la tavola. Juliet sollevò gli occhi dal menu e guardò verso la sua nuova amica. Si chiese se Steve avesse davvero una cotta per lei, e non vedeva l’ora di osservarli insieme quella stessa sera. E poi cos’era questa storia della misteriosa “vecchia fiamma” di Floz? Se era vero che la loro storia d’amore stava rifiorendo, perché lei non ballava di gioia in giro per la casa? Il citofono squillò e Juliet aprì la porta a suo fratello e a Steve, che indossava una tuta da imbianchino. «Come va?», salutò con il suo solito sorriso allegro. «Per piacere ragazze, non invaghitevi troppo di me ora che indosso i miei abiti da lavoro». «Entra, taci e comincia a lavorare», si lamentò Juliet. Era proprio uno scemo di prima categoria. Juliet sapeva che lui credeva davvero di essere seducente con addosso la tuta da imbianchino. Non le era mai passato per la testa che dentro quella dura corazza ci fosse un ragazzino ferito che desiderava compiacere gli altri. «Grazie, prenderò un cucchiaino di zucchero nel caffè», si difese Steve. «Ciao, Guy», disse Juliet, ignorandolo. Floz sparì in cucina per preparare qualcosa da bere per Steve, grata di avere una scusa per allontanarsi dal corrucciato Guy. Si prese tutto il tempo necessario per fare il caffè e rimase a chiacchierare con Steve mentre lui intonacava. Guy notò che non sembrava aver fretta di raggiungerlo nell’altra stanza. L’aveva davvero 163/432 alienata con la sua stupida goffaggine, e ogni tentativo di aggiustare le cose sembrava essere soltanto destinato a peggiorarle. «Guarda qui, che cosa vuoi?». Juliet spinse il menu del cibo da asporto nelle mani di Guy. «Ordiniamo un banchetto indiano», rispose. «Così possiamo mischiare le varie pietanze, creando abbinamenti diversi». «Buona idea», disse Juliet, preparandosi a punzecchiare suo fratello per ottenere informazioni. «Oooh, Steve e Floz vanno molto d’accordo, vero?». Si avvicinò a Guy. «Credi che si piacciano?» «Non essere sciocca», scattò Guy. Un’immagine di Steve e Floz intenti a sbaciucchiarsi si profilò nella sua mente e lui la respinse. «Vado a ficcare un po’ il naso, per sentire di che cosa stanno parlando». Se si fosse trattato di una qualsiasi altra persona, Guy avrebbe detto a sua sorella di lasciarli in pace, ma desiderava che andasse di là a interrompere Steve e Floz. Non voleva che il suo amico entrasse in confidenza con lei. Anche se non avrebbe mai pensato che Steve sarebbe stato capace di invischiarsi con una donna che interessava a lui. Avrebbe messo la propria vita nelle sue mani. Dopo tutto quello che Steve aveva fatto per lui in passato, sapeva che il suo amico era solido come una roccia. Ciononostante… Si ricordò di ciò che era successo tra il marito e la migliore amica di sua sorella. «Come procede?», disse Juliet, comparendo sulla soglia della cucina per scoprire che Floz stava svuotando la lavastoviglie, mentre Steve puliva la sua cazzuola. «Ho quasi finito. Devo verniciare non appena sarà asciutto», disse Steve. «Ahimè, Guy si è dimenticato di caricare la vernice in macchina, quel cretino». «E io che vi avevo promesso una cena in cambio!», esclamò Juliet. «Ti ci sono voluti soltanto cinque minuti». «Perché so quello che faccio, ragazza mia», ammiccò Steve. «Hai visto quanto si fanno pagare all’ora gli imbianchini? Te la stai cavando con poco, tesoro». 164/432 «Non sono la tua ragazza. E nemmeno il tuo tesoro», rispose Juliet con fare piuttosto altezzoso. «In ogni caso, sbrigati e togliti quei vestiti, sto morendo di fame». «Oooh, Juliet, e io che pensavo di non piacerti…». «Nei tuoi sogni», ribatté Juliet mentre si allontanava. Il solo pensiero di avere una relazione con Steve Feast era sufficiente a farle rigurgitare la cena ancora prima di averla mangiata. Mentre Steve andava a togliersi la tuta da imbianchino, Floz fece un salto in camera sua per controllare le e-mail. Non le era arrivato nulla, eccetto un lavoro da parte di un’altra azienda di biglietti d’auguri, che voleva dei testi a proposito di una serie di fotografie su dei buffi pappagalli. Quando Floz ritornò in salotto, Juliet stava aprendo una bottiglia di vino Rioja e Guy stava chiamando il Taj Mahal. Subito dopo, Steve si unì al tavolo. Si era messo un paio di jeans e un maglione azzurro, della stessa tonalità dei suoi occhi. Persino Juliet non riuscì a staccargli gli occhi di dosso. Non gli avrebbe mai confessato che era bello, nonostante lo pensasse. Era già abbastanza pieno di sé. «Oh tieni, prima che mi dimentichi». Steve frugò nella tasca ed estrasse una paio di biglietti. «Per domani sera. È la serata del wrestling alla Sala del Centenario. Siete ancora dell’idea di venire entrambe, giusto?» «Sì, certo», disse Juliet, afferrandoli per poi fissarli con delle puntine alla bacheca sulla parete dietro di lei. «Grazie per i biglietti. Floz non vede l’ora, vero?» «Scusa, che cos’hai detto?», disse Floz sentendo il proprio nome. Stava pensando a Nick, cercava di immaginare che cosa stesse facendo in quel preciso momento. Come avrà dovuto sentirsi quando aveva pensato: “Questa è stata la mia ultima gita di pesca”? Era di nuovo pericolosamente vicina alle lacrime. «Ho detto che non vedi l’ora di vedere l’incontro di wrestling di domani». «Assolutamente sì». Floz si costrinse a sorridere. 165/432 «Domani Guy è quello buono, Guido Goodguy, e io sarò Dark Angel», disse Steve. «Sarà molto divertente», Juliet gli sorrise. «Spero che Guy ti faccia il culo». «Devo vincere io, per cui non credo che accadrà», disse Steve, pensando a quanto Juliet fosse squisitamente spocchiosa. Avrebbe voluto darle un bacio sulla bocca per farla stare zitta. «La cena arriverà qui tra una quindicina di minuti», disse Guy, riagganciando il telefono. «Dicevo che domani tu sarai quello buono e io il cattivo». «Esatto», annuì Guy. «Come mai Kenny ti concede tutti questi permessi dal lavoro?», chiese Juliet. «Credevo dovessi essere morto per poter saltare un turno». «Mi sta tenendo buono», disse Guy. «Ma non vale davvero la pena che io mi prenda un giorno libero. Dovresti vedere la confusione che si crea in mia assenza. Be’, comunque passerò a dare un’occhiata dopo cena per fare un controllo a sorpresa, ecco perché non sto bevendo». E detto ciò si versò un bicchiere di acqua tonica. «Prevedo di trovare il caos più totale». Dopodiché, manco farlo apposta, il telefono di Guy iniziò a vibrargli in tasca, ma lui non riuscì a rispondere abbastanza in fretta da evitare che la sua suoneria pacchiana li assordasse tutti. Lo aveva comprato usato su eBay e ne era stato molto soddisfatto, se non fosse che persisteva a suonare una selezione di brani casuali – e a tutto volume – che recuperava automaticamente dalla memoria. Tutti i tentativi di porre rimedio a questo inconveniente erano falliti. Mentre i Right Said Fred dicevano a tutti che erano troppo sexy per le loro automobili, Guy avrebbe potuto bruciare per autocombustione dall’imbarazzo. Così, rivolse un secco e sonoro «Ciao!» alla persona che lo stava chiamando, nel tentativo di recuperare un po’ di virilità. Caspita, pensò Floz. Guy Miller era davvero un brontolone. E quella suoneria la diceva lunga su di lui. Credeva davvero di essere 166/432 troppo sexy per… troppo sexy per Cime tempestose? O per Emily Brontë? «Dimmi.Che.Stai.Scherzando!». Guy stava ringhiando come un lupo mannaro con la sindrome premestruale. Mentre parlava, cominciò visibilmente a impallidire. Terminò la chiamata e disse: «Mi dispiace, devo andare. Ci è mancato poco che Varto mandasse a fuoco la dannata cucina». «Oh no, che peccato», disse Juliet. «Sì, davvero», disse Floz con un sospiro. Guy le lanciò uno sguardo e lei seppe che lui stava pensando che fosse sarcastica. Era davvero determinato a vedere il peggio in lei. «Prenderò un taxi più tardi per andare a casa», disse Steve. «Ci vediamo domani, amico. Mi passi a prendere come al solito?» «Sì. Juliet, passo domani in mattinata a lasciarti la vernice. Ho ancora la mia chiave, per cui entro un attimo e te la metto accanto alla porta». «Va bene, fratello». Guy lasciò l’appartamento e si diresse alla macchina. Avrebbe ucciso Varto quando sarebbe riuscito ad acciuffarlo. Più per aver rovinato la sua serata e le sue possibilità di sistemare le cose con Floz che per aver rischiato di far saltare in aria il suo futuro investimento. Aveva la sensazione che la testa gli stesse andando a fuoco, come se fosse un drago sanguinario pronto a sputare fiamme dal naso. Capitolo trentuno Arrivò loro abbastanza cibo da sfamare un esercito. Le varie pietanze erano un po’ troppo piccanti, il che li portò a scolarsi parecchio vino. Quando Steve andò al frigorifero per prendere un’altra bottiglia di bianco, Juliet si sporse in avanti per sussurrare a Floz. «Vuoi che vi lasci da soli?» «Per quale motivo?», rise Floz. «Solo Dio sa che cosa ci potresti trovare in lui, ma…». «Ti fermo subito». Floz alzò la mano. «Non mi piace Steve. E sono dannatamente sicura di non piacere a lui». «Sicura?», chiese Juliet. «Mannaggia». «Ne sono certa», annuì Floz. «Sono pronta a sottopormi alla macchina della verità se non mi credi». «Be’, non posso dire di non essere lievemente sollevata», sospirò Juliet. «Credo che Steve sia un tesoro», disse Floz, controllando che lui non stesse tornando e che non potesse udirle. «È un tipo a posto suppongo», ammise Juliet. Poi si rese conto che per aver detto una cosa simile doveva essere mezza ubriaca. Uno strano lampo di consapevolezza le fece capire che era convinta da così tanto tempo che lui non le piacesse che si trattava sostanzialmente di un’abitudine. Dopo un altro mezzo bicchiere di vino bianco, Floz fu costretta a ritirarsi per la serata. Diede loro la buonanotte e si abbandonò sul letto senza neanche controllare le e-mail. Lasciò Steve e Juliet seduti a tavola, intenti a sgranocchiare il poppadom, il pane azzimo indiano, in un raro momento di cordialità. «Ti va un altro bicchiere?», disse Juliet. «Mi risulta difficile ammetterlo, ma a dire il vero mi sto divertendo in tua compagnia, Steven». «Anche io», ribatté Steve. «E sì, mi va un altro bicchiere con te». 168/432 «Vediamo cosa c’è in TV», disse Juliet, mentre si avvicinava barcollando alla televisione per poi lasciarsi cadere sul divano. Fece zapping: c’era un documentario sullo Strangolatore di Boston, alcune balene che ci davano dentro e svariati adolescenti americani che piangevano in una qualche sorta di carcere minorile per delinquenti. Nessuno di quei programmi era un consono e appropriato brusio di sottofondo per il suo umore. Poi trovò uno dei primi vecchi film a colori, con un’attrice famosa di cui, se fosse stata sobria, si sarebbe ricordata il nome. Stava camminando lungo una strada di New York illuminata dal sole e cantava qualcosa a proposito della fine dell’estate, mentre una bufera di foglie arrugginite le turbinava intorno. «Ecco a te», disse Steve mentre consegnava a Juliet un bicchiere di vino, per poi accasciarsi vicino a lei sul grande divano soffice. Lui era ben oltre il limite dello spazio personale di Juliet, ma lei scoprì che in realtà non le dava fastidio. La sensazione della gamba di lui, calda, grande e muscolosa, contro la propria era piuttosto piacevole. «Floz è carina, non è vero?», disse Steve. «È adorabile», disse Juliet. «Ti piace, vero?» «Floz?», disse Steve. «No, non mi piace in quel senso. Ma mi piace come persona». Lo disse in un modo talmente ponderato che Juliet seppe immediatamente che la sua risposta era sincera. «Credo sia un po’ giù al momento. La giornata di domani potrebbe rivelarsi proprio ciò di cui ha bisogno: un po’ di spensieratezza», disse Juliet, spezzando un pezzo di poppadom con i denti. «Anche io presto mi tirerò su di morale», disse Steve. «Mi comprerò una fottuta Jaguar. Oppure una Mercedes». «Intendi dire che ti farai allungare il pene?», disse lei. «Probabilmente te ne servirebbe uno». «Ehi, tu! Non ho mai ricevuto nessuna lamentela!». «Dalle tue milioni di conquiste», lo prese in giro Juliet. «Non direi che sono così numerose», disse Steve, avvertendo che suo malgrado la temperatura tra di loro si era abbassata di qualche grado. 169/432 «Va bene, allora, quando è stata l’ultima volta che hai fatto sesso? Con qualcun’altra, intendo». «Non mi ricordo», disse Steve. «Tanto tempo fa. Troppo». «Chi ci crede», rise Juliet. «Sul serio», disse Steve dimenandosi sul divano. «Te ne sarei grato se non me lo ricordassi». «Cribbio», disse Juliet, e poi fece tintinnare il suo bicchiere contro quello di lui. «Con chi l’hai fatto? La figlia di Little Derek?» «Chianti Parkin? Magari», ridacchiò Steve. «Io mi sto conservando per Piers Winstanley-Black», farfugliò Juliet. «Racchiude in sé tutte le caratteristiche del fusto dei miei sogni». «È un imbecille», disse Steve con un’evidente traccia di gelosia nella voce. «Tra un paio di anni avrà la testa come una pallina da golf. Comunque, quei tizi del mondo legale si eccitano vincendo i casi, non conquistando una donna». «Cielo, mi manca il sesso», sospirò Juliet, e poi prosciugò il bicchiere. «Anche a me», sospirò Steve, e poi prosciugò il bicchiere anche lui. Steve si girò per guardare Juliet, lei si girò per guardare lui. Non seppero dire chi fece la prima mossa, ma all’improvviso si stavano baciando con ardore, mentre rotolavano sopra una distesa di poppadom schiacciato. Poi Juliet iniziò a trascinarlo verso la sua camera da letto, strappandogli la maglia di dosso. «Si tratta solo di sesso, ovviamente. Nient’altro che un reciproco appagamento delle nostre frustrazioni». «Oh sì, certo», ansimò Steve. «Ci stiamo soltanto alleviando il prurito a vicenda». Si erano già svestiti quando si lasciarono cadere sul letto di Juliet. Steve gemette mentre le sue mani accarezzavano la pelle di lei, soffice e vellutata. Juliet gemette mentre le sue mani accarezzavano il petto muscoloso di lui. Non era certa di come fosse finita a 170/432 desiderare sessualmente il suo peggior nemico, ma non avrebbe permesso alla ragione di intromettersi per interromperla. Steve era avido di lei. Non si era mai eccitato così tanto prima di quel momento. Si sentiva come un vero e proprio animale. «Non sono troppo brusco, vero?», le chiese per accertarsene. «Non sei brusco abbastanza, ragazzone», rispose lei. «Che ne dici di questo, allora?». Juliet non rispose, per lo meno non in modo coerente. Emise soltanto una serie di acute vocali e di lievi suoni gutturali, mentre gli si metteva sopra a cavalcioni. La mattina successiva, Juliet si rigirò nel letto per guardare l’orologio, rischiarato dal bagliore rosa delle prime luci del mattino che filtravano attraverso le tende. Perdinci, aveva dormito due ore. Sentendola muoversi, Steve si svegliò. Con fare assonnato la attirò a sé. Non appena la pelle di lei toccò quella di lui, Steve si era già eccitato. «Si tratta solo di sesso, ricordatelo», disse Juliet. «Sì, lo so», disse Steve, per poi scivolare senza fatica dentro di lei, mentre usava le dita in modi meravigliosi. “Perbacco”, pensò Juliet, avvicinandosi in fretta al più veloce e intenso orgasmo che avesse mai avuto. Anche se si trattava “solo di sesso”, era davvero magnifico. Capitolo trentadue Floz si svegliò dopo la migliore notte di sonno da molto tempo. Non riusciva a ricordarsi per nulla se aveva sognato Nick e non si era rigirata nel cuore della notte per poi alzarsi e andare a controllare le e-mail. Il vino aveva offuscato appena il suo dolore, concedendole un po’ di sollievo. Non c’erano e-mail ad attenderla quando accese il computer. Si vestì in fretta e andò a prepararsi una tazza di caffè; appena entrò in cucina rimase sbalordita vedendo che c’era un uomo: era enorme, con i capelli biondo platino, gambe muscolose e una vestaglia rosa di satin con tanto di frange, stava in piedi accanto al bollitore, in attesa che l’acqua fosse pronta. Aveva dormito sul divano? Se era così, perché indossava, o meglio cercava di indossare, la vestaglia di Juliet? Il buonsenso suggeriva a Floz che Steve e Juliet non avrebbero mai condiviso lo stesso letto, in nessuna circostanza. Quindi, che cosa stava accadendo? «Buongiorno», disse Floz. Steve si girò, la vestaglia di satin si aprì quanto bastava affinché Floz si accorgesse che sotto era nudo. Distolse in fretta lo sguardo e Steve si richiuse la vestaglia. «Scusa, Floz. Suppongo che ciò ti impedirà di avvicinarti alle salsicce per il resto della tua vita». Nonostante l’imbarazzo, Floz rise. «Ti sta bene», disse lei, mentre lui si annodava con fermezza la cintura. «È di Juliet». «Ma dài!», commentò Floz con un largo sorriso. Steve si asciugò delle gocce di sudore che gli si erano formate sulla nuca. «Quindi… ehm… come mai ce l’hai addosso?», insistette Floz. 172/432 «Non… ehm…», iniziò a dire Steve. Ancora sudore. «Non riesco a trovare i miei pantaloni». «Oh», Floz sorrise compiaciuta. «Lei è… ehm… mi ha mandato a prepararle un panino con la pancetta e devo portarle anche del tè». «Ti ha mandato?», si sbalordì Floz. «Intendi dire che avete dormito insieme?» «Non abbiamo dormito molto». Steve si tappò la bocca con le mani, accorgendosi di essere stato un tantino indiscreto. «L’acqua sta bollendo. Vuoi una tazza di tè?» «Caffè, grazie», disse Floz. “Bene, bene, bene”, pensò. Accidenti, non vedeva l’ora di sentire i dettagli. Erano entrambi in piedi in cucina, avvolti nelle loro vestaglie e intenti a fare colazione, mentre Steve cuoceva la pancetta sulla griglia che un famoso pugile pubblicizzava in TV, quando udirono cigolare la serratura. Guy entrò con il barattolo di vernice che aveva promesso di lasciare sulla porta. Strano, i suoi sensi dovevano essere alterati perché udiva il suono argentino della risata di Floz che si mescolava con i toni profondi della voce di Steve. «Ciao», urlò, entrando a grandi passi nella stanza. «Ho portato la ver…». Poi li vide. Il suo migliore amico con l’oggetto del suo amore, in atteggiamenti intimi e semivestiti in cucina, presi a farsi dei complimenti. Si ricordò delle parole di Juliet: «Floz e Steve sembrano andare abbastanza d’accordo. Mi sembra di capire che sia scattata una scintilla tra di loro». Il fatto che Steve avesse l’aria profondamente turbata e che Floz si fosse avvolta d’istinto nella vestaglia fece intendere a Guy tutto ciò che c’era da sapere. “Verme”, pensò. Non avrebbe mai creduto all’eventualità che il suo migliore amico ci provasse con Floz, dato che sapeva che Guy era innamorato di lei. Ma Steve non era di certo lì perché aveva passato la notte con Juliet – Guy ne era più che certo. 173/432 «Vernice!», sbraitò Guy, uscendo talmente in fretta dall’appartamento che quando sbatté con violenza la porta, l’intero palazzo sembrò tremare. «Oh merda!», disse Steve. Non avrebbe mai pensato che Guy avesse potuto reagire così male all’idea che lui e sua sorella ci dessero dentro. «Vieni, veloce, sostituiscimi ai fornelli, Floz». Steve le ficcò in mano una spatola e sfrecciò dall’altra parte della stanza per poi uscire dall’appartamento, facendo gli scalini come fosse una controfigura di Hollywood. Arrivò appena in tempo per scaraventarsi sul cofano della macchina di Guy, mentre questi iniziava ad accelerare a tavoletta. «Tu, coglione!», disse Guy. «Uno: avrei benissimo potuto ucciderti. Due: voglio ucciderti». «Esci dalla macchina», disse Steve. «Senti, lei mi piace davvero, è semplicemente successo». «Stronzate. Scendi dal cofano e tornatene a scopare». «Non me ne vado da questo cofano finché non avrai spento il motore». «Coraggio fallo, faccia di culo!». La macchina sobbalzò in avanti e scagliò via Steve, che atterrò sopra qualcosa di molto pungente su di una superficie erbosa. Quando Steve riuscì a districarsi dalle spine di un vecchio roseto, Guy se ne era già andato da un pezzo. Aveva una macchina dall’accelerazione veloce che sparò indietro una nube di polvere, neanche fosse stata la Batmobile. Tim Onions, che viveva nell’appartamento di sotto, uscì dal palazzo vestito con un completo nero sbiadito, che gli calzava veramente male, e con in mano una vecchia valigetta ventiquattrore rovinata. Si imbatté subito in un travestito che se ne stava in piedi in mezzo a un cumulo di foglie cadute, con un indumento rosa di satin che non lasciava nulla all’immaginazione. Corse via in direzione della sua immacolata Austin Maxi prima di rischiare di essere stuprato. Non bastavano i drogati in città, persino gli esibizionisti si stavano trasferendo in zona. 174/432 Al piano di sopra, Juliet stava aspettando Steve con le braccia conserte, un po’ contrariata perché la sua colazione postcoitale a letto era stata così bruscamente interrotta. Ammirò la sua vestaglia migliore ricoperta di terra, piccole pietruzze e una lumaca perplessa. «Che cosa diamine…?». Tuttavia il tono della sua voce si fece preoccupato quando vide che gli sanguinava un ginocchio. «Steve, stai bene?» «È tutto a posto», sbuffò. «Sto bene». «Che cos’è successo con il nostro Guy?». Steve prese il suo cellulare e compose il numero di Guy. Fu indirizzato subito alla segreteria. Lasciò un breve messaggio in cui chiedeva a Guy di richiamarlo, anche se immaginava che non l’avrebbe fatto. «Stava difendendo il tuo onore», disse Steve. «È evidente che è molto arrabbiato per il fatto che io ti abbia sedotto». «Tu hai sedotto me? Certo, come no. Comunque, può farsi gli affaracci suoi», disse Juliet, afferrando la cintura di raso. «Ho trentaquattro anni, non quattro. Al diavolo il panino con la pancetta, dove eravamo rimasti?». Steve, però, non riuscì a svolgere il suo dovere. Non con l’immagine del viso di Guy che incombeva nella sua mente. Non voleva che il suo migliore amico pensasse che lui avrebbe ferito sua sorella o che ne avrebbe abusato. Ma nonostante ci avesse provato per tutta la giornata non riuscì mai a mettersi in contatto con l’amico per riferirglielo. Capitolo trentatré Quella sera, Juliet e Floz presero un taxi e si recarono alla Sala del Centenario con buon anticipo così da aggiudicarsi degli ottimi posti a bordo ring. La Sala del Centenario era stata in passato un bellissimo teatro, con elaborate costruzioni in pietra. Purtroppo avevano lasciato che l’edificio diventasse sudicio, e nessuno puliva più gli escrementi dei piccioni dalla facciata. Era soltanto grazie al sostegno della vedova molto anziana di un ex proprietario di fabbrica che la struttura non veniva chiusa e abbandonata. Juliet e Floz non dovettero affatto battersi con gli altri per accaparrarsi i posti davanti – delle sedie ribaltabili rivestite di velluto marrone, che avevano passato da tempo i loro giorni migliori, sebbene fossero ancora abbastanza comode. «Piuttosto emozionante, vero?», si entusiasmò Juliet. «Non vedo l’ora di vedere un po’ di bei muscoli». «Sì», concordò Floz, che quella stessa mattina aveva visto in cucina una quantità sufficiente di carne maschile che le sarebbe bastata per un paio di vite. Dietro di loro, la gente iniziava a riversarsi dentro; svariati pensionati, tanti da riempire un intero autobus, molti dei quali sulla sedia a rotelle, si accomodarono nei posti più spaziosi e riservati ai disabili. La sala si riempì in un attimo, sembrava che non ci fossero più molti posti vuoti. Il posto assunse un aspetto diverso non appena fu gremito di gente, appariva meno squallido, con una piccola scintilla elettrica nell’aria, come se gli avessero iniettato un po’ di vita. «Spero vendano i gelati», disse Juliet. «Lo fanno in alcuni posti, sai? Alla Wakefield Hall si possono prendere i pop-corn». «Gelato, sudore e muscoli: sembra fantastico», sorrise Floz. «In realtà è molto più divertente da guardare se c’è tanta gente», disse Juliet. «L’atmosfera è splendida. Gli spettatori sono calati 176/432 sempre di più nel corso degli anni, purtroppo, ma è comunque divertente. Diverso dal guardare una telenovela, per lo meno». «Quindi Steve fa la parte del cattivo questa sera?» «Sì, Steve questa sera è il cattivo», gli fece eco Juliet, abbastanza sorpresa dal fatto che non soltanto stava pronunciando il nome di lui senza il consueto disappunto, ma che la sua voce si era addirittura addolcita mentre le usciva dalla bocca. «Guy è quello buono, per una volta sarà lui a perdere». «Impaziente di vedere Steeeve nel suo costume?», la prese in giro Floz, mentre Little Eric saltava sul ring seguito da due donne prosperose con corpi scolpiti e visi da Staffordshire bull terrier. Juliet tirò su col naso. «Floz, ho visto Steeeve in costume tantissime volte prima d’ora. Non abbiamo una relazione, sai? Si tratta solo di sesso». Come previsto, Guy non chiamò per passarlo a prendere in previsione del loro incontro alla Sala del Centenario, perciò Steve dovette andarci in macchina da solo. Guy, che era sempre in orario, non era nello spogliatoio. C’era invece Little Derek, che stava camminando avanti e indietro, non certo del suo umore migliore. «Che cosa dovrei fare? Vorranno tutti indietro i loro soldi. Dove diamine è il tuo compagno?». Il suo umore non era stato aiutato dal fatto che Jeff Leppard, che avrebbe dovuto vincere il sesto incontro, si fosse slogato una caviglia scappando di corsa da Klondyke Kevin durante ilsecondo match e avessero dovuto trasportarlo fuori di forza. Inoltre, il nuovo ragazzo, The Barnsley Chopper, aveva quasi mandato al tappeto Grim Reaper inciampando sui suoi stessi piedi e colpendolo prima ancora che iniziassero il primo round. Colpa dello stupido e grosso Jessie. E Guy non si era neanche fatto vivo quando sarebbe dovuto andare in scena tra un minuto. «Dovrai sfidarti con Alberto». Derek estrasse il pacchetto dalla tasca. Non gli interessava se lì dentro era proibito fumare; se non si 177/432 fosse acceso una sigaretta per assimilare un po’ di nicotina sarebbe esploso. «Assolutamente no, cacchio, Derek». Steve cominciò a fare marcia indietro. «È un pazzo». Poi, la porta dello spogliatoio si aprì e Little Derek tirò un sospiro di sollievo che avrebbe potuto spegnere un incendio in una foresta mentre Guy entrava, pronto a combattere, con addosso il suo semplice costume blu e gli stivali bianchi. «Finalmente! Dove diamine ti eri cacciato? State tutti cercando di farmi venire un fottutissimo infarto questa sera?». Derek diede un tiro alla sigaretta e disperse energicamente il fumo con una mano affinché non scattassero i sensori dell’allarme antincendio. Guy non rispose. Gettò la sua borsa sulla panca e lanciò sia a Derek che a Steve uno sguardo talmente cupo da potersi definire di un nero “infernale”. «Guy, prima di andare…», disse Steve. «Risparmiatelo», ribatté Guy, con un’espressione che era per metà Heathcliff e per metà rottweiler. «Salite sul ring, coppia di…». Little Derek fu interrotto da Tarzan, Apeman e i Pogmoor Brothers, che fecero irruzione nello spogliatoio mandandolo quasi a terra. «Guy…». Ma Guy non era dell’umore di parlare. Era, tuttavia, dell’umore di combattere. Quando Steve fece la sua entrata, Juliet stava esultando abbastanza forte da essere udita sopra a tutti i fischi degli altri. Subito dopo uscì Guy e la sala esplose in un’ovazione. «Quindi, che cosa ne pensi?», disse Juliet. «Ehm… Steve sembra carino», rispose Floz. Era vero, pensò Juliet. Era molto attraente con i suoi calzoncini neri e i lunghi capelli bianchi che gli fluttuavano dietro le spalle. Si ricordò di quando, la notte precedente, le gambe di lui erano avviluppate intorno alle sue cosce, e si sentì fremere di desiderio. Cielo, 178/432 che cosa le stava succedendo? Perché all’improvviso vedeva uno Steve Feast diverso da quello che aveva visto per trent’anni? «Niente male», riconobbe Juliet con tono indifferente. Poi notò che Floz le stava indirizzando un largo sorriso. «So quello che stai pensando, ma si tratta davvero solo di sesso. Un accordo vantaggioso per entrambi fino a che Piers Winstanley-Black non sarà mio e Steve non conquisterà Lambrusco, o com’è che si chiama la figlia di Little Derek». Anche Floz si stava concentrando su Steve, per la semplice ragione che stava cercando di non guardare Guy. Soprattutto perché quel costume blu era davvero attillato e gli occhi di lei continuavano a fissarlo di propria iniziativa. Per peggiorare le cose, Guy la scorse mentre lo stava fissando e lo sguardo severo che le riservò in cambio la fece sentire come se avesse fatto qualcosa di sbagliato. Probabilmente respirare. «Voglio un combattimento pulito, ragazzi», disse Little Eric. «Al tappeto al quarto round, giovanotto», sussurrò a Guy. «Neanche per sogno», disse Guy con lo stesso tono piatto di Terminator. Riusciva a vedere Floz in prima fila. Era palese che fosse venuta a vedere il suo nuovo ragazzo. Sfortunatamente sarebbe stato annientato. Ding ding! Guy afferrò Steve con una forza spropositata e lo scaraventò nell’angolo, facendogli sbattere la schiena. «Maledizione!», rise Steve. Balzò in piedi e acciuffò Guy per la testa per poi parlargli all’orecchio: «So che cosa stai pen-sando…». «Davvero?», disse Guy, mentre si divincolava abilmente dalla presa e scaraventava a terra il suo avversario traditore. Little Eric si lamentò. Non poteva permettersi che quell’incontro finisse prima del quarto round. La folla si sentiva già imbrogliata dal claudicante Leppard che se ne era andato sobbalzando come la camicetta di una ragazza prosperosa. Steve scartò di lato per evitare un colpo potente di Guy, che gli avrebbe rotto le costole – oltre al palco – se fosse andato a segno. 179/432 «Non mi approfitterò di lei, lo sai!», disse Steve. «Mi è piaciuta dalla prima volta in cui le ho posato gli occhi addosso. Le voglio veramente bene». Guy cercò di agguantare Steve ma mancò il colpo. «Come hai potuto?», grugnì. «Dannazione, Guy. Non sapevo che fossi così possessivo. Che cosa ti succede?» Guy scattò verso Steve usando la testa come ariete contro lo stomaco dell’amico. Steve, alquanto spossato, fu grato per la campana. Ding ding! Steve indietreggiò, evitando la mano gigante simile a una mannaia che virava nella sua direzione. Little Eric spinse Guy nel suo angolo, in modo non troppo gentile. «Calmati. Devi durare quattro round», disse Little Eric. Decise di non ricordare a Guy che doveva recitare la parte di quello buono perché sembrava stesse guadagnando punti agli occhi della folla. Finalmente un combattimento che assomigliava a un vero e proprio incontro, e non a due ballerini di danza classica che bisticciavano per una borsa. Ding ding! Steve e Guy si girarono intorno come granchi belligeranti. «Ti picchierò fino a ridurti in poltiglia», ringhiò Guy. «Questo è quello che credi», disse Steve, «ma non sarà così. Lei non è tua, sai? Maledizione, credo che nessuno oserebbe provare ad avanzare dei diritti su di lei! Che cosa vuoi che faccia? Vuoi che mi scusi?» «Sì, tanto per cominciare». «Lo farei se pensassi di aver fatto qualcosa per cui scusarmi!». «Già, perché non sembravi affatto colpevole questa mattina quando eri mezzo nudo in cucina con lei, o sbaglio?». A quelle parole seguì la lotta. Guy ghermì l’amico soggiogandolo con una poderosa presa al mento dalla quale Steve non riuscì a liberarsi. Mentre Guy aumentava la stretta, Steve pensò che se la sarebbe passata meglio se il suo amico non fosse venuto e se al suo posto 180/432 avesse combattuto con Alberto Masserati. Poi Guy scivolò, la stretta delle sue braccia si allentò e in una frazione di secondo Steve riuscì a liberarsi. Guy tentò di travolgere Steve, ma fallì e, in cambio, Steve lo afferrò per un braccio e lo scagliò contro le corde, togliendogli il fiato. Subito dopo, gli avvolse il braccio intorno al collo stringendolo in una morsa sotto l’ascella. “Afferrato”, pensò Steve. Poi gli tornarono in mente le parole di Guy. «Aspetta un secondo, che cosa intendi quando dici di avermi beccato mezzo nudo in cucina con lei questa mattina? Non crederai che…?». Ding ding! «Dannazione», disse Steve, mentre Little Eric li separava. «Avete altri due round da affrontare. Andateci piano». «Avrai i tuoi quattro round, non preoccuparti», disse Guy, e poi colpì Steve alla schiena mentre questi si stava ritirando nel suo angolo. La folla impazzì. Qualcuno lanciò una scarpa sul ring, colpendo Guy sul petto. «Sono sempre così aggressivi?», domandò Floz. «Be’, è un po’ diverso dal solito. Forse si tratta di un cambiamento di tattica per attirare gli scommettitori. Dopotutto, sul palco sono nemici giurati », rispose Juliet, che si stava godendo lo spettacolo. In una vita passata aveva probabilmente lavorato a maglia vicino a una ghigliottina. «Recitano molto bene», disse Floz, non troppo convinta del fatto che Guy stesse simulando la sua aggressività, che a lei sembrava parecchio reale. «Pensavo che Guy dovesse essere quello buono». «È così», disse Juliet senza distogliere gli occhi dal ring per non rischiare di perdersi nulla. «Non so perché si siano scambiati le parti». I due uomini si lanciarono delle occhiate torve, che attraversavano lo spazio che li separava. Steve era veramente adirato, dopo che aveva realizzato che Guy non era esageratamente possessivo nei 181/432 confronti di Juliet; al contrario, Guy pensava che Steve avesse trascorso la notte con Floz. Non era un buon segnale per la loro amicizia, se Guy credeva sul serio che Steve avrebbe potuto rubargli la donna per cui si era preso una cotta pazzesca. Anche se in realtà lei non era ancora sua. Ding ding! «Sei un coglione, lo sai?», disse Steve, mentre si avvicinava lentamente a lui. «Ho appena capito che hai pensato che io abbia passato la notte insieme a Floz». «Be’, di certo non sarai andato a letto con Juliet, immagino». Guy scoppiò in una risata priva di umorismo. «A dire il vero è così», affermò Steve. «Tu, maledetto bugiardo», disse Guy, e poi in un impeto d’ira si lanciò addosso a Steve, che vacillò, permettendo a Guy di sopraffarlo e bloccarlo nella cosiddetta presa Full Nelson, piegandogli le braccia all’indietro mentre gli forzava il collo in avanti. «Aaarrghghh!». «Fa male, vero?», sbottò Guy. «E questo è niente». Spinse in avanti Steve, poi lo seguì, torcendogli il corpo per farlo passare attraverso le corde. Caddero entrambi fuori dal ring, schivando per un pelo un tizio con una gamba ingessata. «Pericolo, pericolo…», urlava il pubblico incredibilmente carico. Juliet stava dirigendo i coretti nel suo lato di sala. «Sei morto, amico!», gli promise Steve, intanto che risaliva sul ring, aiutato da un paio di vecchie nonnine, ben felici di avergli toccato le gambe muscolose. «Sì, come no», ribatté guaendo Guy, mentre una donna goffa correva verso di lui e iniziava a colpirlo sulla schiena con la borsa. Scattò rapidamente sul ring per evitarla. Little Eric fece un po’ di scena e richiamò Guy, per la gioia del pubblico. Stavano ringhiando come se fossero al Colosseo intenti a osservare i cristiani che affrontavano i leoni. Ding ding! “Ebbene, che guerra sia”, pensò Steve tra sé. Se Guy voleva combattere sul serio, allora lui gli avrebbe dato esattamente ciò che 182/432 desiderava. Si sarebbe accertato che il dannato Guy Miller sostenesse un quarto round che non avrebbe mai più dimenticato. Ding ding! I due uomini si avvicinarono l’uno all’altro come tori impazziti, per poi scontrarsi al centro del ring. Con la medesima forza, fomentata dalla rabbia, nessuno dei due riuscì a costringere l’altro né oltre le corde né al tappeto, e nemmeno ebbe successo nell’afferrare l’avversario per la testa, un braccio, il collo. «Ti obbligherò ad ascoltarmi anche se fosse l’ultima cosa che faccio, stupido coglione ottuso!», gridò Steve. «Che cosa mi dirai? Che non siete riusciti a trattenervi?». Guy era ferito nel profondo del cuore. Desiderava continuare a combattere in eterno, perché mentre lottava riusciva per lo meno a evitare di crollare. Credeva che se si fosse fermato sarebbe semplicemente andato in pezzi. «Maledizione! A che gioco stanno giocando?», trasalì Juliet, capendo che quel combattimento era reale. «Questo è per non avere nemmeno le palle di ammetterlo», disse Guy in un accesso d’ira, mentre serrava le gambe di Steve tra le sue e lo osservava ruzzolare al tappeto. «Sei andato a letto con Juliet! Certo, come se potessi crederci!». «Che cosa sta dicendo?», chiese Juliet, cogliendo la parola “palle”. «Non lo so». Floz si morse il labbro. «Ma stanno discutendo per qualcosa». «Non ho mai visto Guy comportarsi così prima d’ora, né sul ring né fuori», disse Juliet pensando: “Che cosa diamine gli sta succedendo?”. Nelle due settimane precedenti, suo fratello era passato dall’essere un uomo gentile e tranquillo alle tenebre che lo avevano reso un mostro cattivo e lunatico, con capacità culinarie sprofondate al livello di quelle della madre. Sperava soltanto che non fosse sulla strada di un altro esaurimento nervoso. 183/432 «Non stanno recitando», disse Floz con voce roca, notando lo sguardo torvo negli occhi di Guy. Nemmeno Laurence Olivier avrebbe potuto simulare la rabbia in quel modo. «Di certo non può essere infastidito per il fatto che Steve e io abbiamo passato la notte insieme». Floz scosse la testa. Cielo. Allora Guy era davvero geloso di sua sorella. Non c’era da meravigliarsi che non avesse un’alta considerazione di Floz, dato che lei gli aveva usurpato il posto di migliore amico. Ecco spiegate un po’ di cose. Guy avvolse le braccia intorno alle corde, in attesa che Steve si rialzasse, così da poterlo stendere, travolgendolo con le braccia aperte e mandandolo al tappeto. Solo allora sarebbe potuto uscire dal ring per andarsene a casa. «Su, su, su, su», urlava la folla, mentre Little Derek contava: «Cinque, sei, sette…». Steve si rimise in piedi a fatica. Guy si lanciò in avanti ma Steve balzò con destrezza fuori dalla sua traiettoria e allungò una gamba verso l’esterno. Guy inciampò ma non cadde a terra. Mentre si raddrizzava, Steve gli serrò il braccio intorno al collo, tenendogli la testa in basso, in direzione della cassa toracica, ed eseguendo così la presa di Grovit. Faceva dannatamente male. «Ti ho preso. Questo, Guy Miller, è per aver creduto che ti avessi tirato un colpo basso». Steve roteò i fianchi, mentre girava il polso, fino a che non sembrò che il collo di Guy si stesse per spezzare, dopodiché gridò: «E il motivo per cui questa mattina in cucina non riuscivo a guardarti in faccia era dovuto al fatto che ero appena uscito dal letto di tua sorella. Sul serio e in tutta onestà. Mi stai ascoltando, testa di minchia? Il letto di Juliet, non di Floz!». «Balle! Arrghgh! Ju ti odiiiaaa!». «Non più. Chiediglielo tu stesso». «Ti aspetti che io ti creda?» «Dannazione, quante volte devo dirtelo? Sì». «Non tu e…». «No». 184/432 «Arrghgh!». «Arrenditi, stupido bastardo, e andiamocene a berci unabirra». Guy si arrese. Little Eric si piegò per ascoltare le parole di resa e dichiarò finito l’incontro. La folla si alzò in piedi e applaudì. Steve fece un giro d’onore, mentre Guy giaceva inerte sul ring. «Facile facile facile…», urlò la folla acclamante. Prima di quella sera, Steve e Guy non avevano mai combattuto veramente tra loro. Neppure quando Guy, qualche anno prima, era andato fuori di testa e si sarebbe addirittura schiantato contro una parete di mattoni se fosse servito a perdere un po’ di quel dolore che gli era cresciuto dentro. La manona corposa di Steve si tese per aiutarlo ad alzarsi, Guy la afferrò e insieme s’inerpicarono fuori dal ring per ritornare negli spogliatoi, intonando alcune canzoncine nel tragitto. «Mi dispiace», disse Guy, mentre si stavano spogliando. «Pensavo…». «Sì, mi hai detto che cosa pensavi». «Ho soltanto dato per scontato… Vai talmente d’accordo con Floz e…». «E invece Juliet e io no… o meglio non andavamo d’accordo», Steve terminò la frase per lui. «Be’, nessuno è più stupito di me dal cambio degli eventi, di questo puoi fidarti. Oh scusa, dimenticavo: tu non ti fidi di me, giusto?» «Non iniziare», disse Guy mortificato, mentre seppelliva la testa sotto all’asciugamano. «È solo che tu e Floz sembrate davvero fatti l’uno per l’altra», borbottò. «Non ti farei mai una cosa del genere, amico. Neanche se mi attizzasse da morire. E non è questo il caso», aggiunse in fretta Steve per mettere le cose in chiaro. «È adorabile, ma, ecco… Juliet e io vogliamo le stesse cose, credo». «Cioè?» «Un po’ di calore, un po’ di divertimento. Qualcuno con cui svegliarsi, nessuna promessa, nessun rimpianto una volta giunti alla 185/432 fine. Non le sto mancando di rispetto, Guy», disse Steve in tono sommesso. «Mi piace molto. Mi è sempre piaciuta». «Non me l’hai mai detto». «Non l’ho mai detto a nessuno», precisò Steve. «Non credevo di avere la benché minima possibilità con lei». Juliet e Floz li stavano aspettando all’uscita dello staff. «Stavate discutendo per davvero?», domandò Juliet. «Non essere sciocca», rise Steve. «Lo sai che è tutto programmato», disse Guy, riproducendo lo stesso divertimento di Steve. «Little Derek ci ha detto di esagerare un po’. Venite con noi a bervi una birra?». Mentre Juliet rispondeva affermativamente, Floz rifiutò l’invito. «Ho un po’ di lavoro da sbrigare», spiegò. Guy si sentì sprofondare. «Oh, coraggio», disse Steve, andandogli in aiuto. «Solo una. È troppo tardi per scrivere delle battute». «No davvero, non posso. È un periodo molto intenso per me e ho delle date di consegna da rispettare». «Prendi la mia macchina allora, Steve mi darà un passaggio a casa», disse Juliet consegnando le chiavi a Floz. Avrebbe scommesso sulla propria vita che Floz non avrebbe lavorato. Quindi, per quale motivo se ne stava andando a gambe levate? Scommetteva che in qualche modo c’entrava la sua “vecchia fiamma”. Floz era felice di fuggire da Guy. Lui la scombussolava. Gli sguardi che le aveva lanciato dal palco durante l’incontro erano inquietanti. Cosa era accaduto di tanto torbido nel passato di Guy per far sì che avesse bisogno dell’amicizia leale di Steve? Juliet e Coco se l’erano quasi lasciato sfuggire. Non avrebbe escluso una malattia mentale. Nessuno di loro notò l’uomo anziano con il completo elegante in fondo alla sala. Aveva scattato alcune fotografie con il telefono e le stava inviando a suo figlio. “Che serata veramente interessante”, pensava. Capitolo trentaquattro Una volta a casa, Floz andò diretta al suo computer, ma non trovò alcuna e-mail. Un macigno di delusione si stabilì dentro di lei. Si fece un caffè e si riscaldò le mani serrandole intorno alla tazza, ma non fu in grado di sciogliere il gelo che aveva nelle ossa. Si sedette alla tastiera e iniziò a scrivere. Carissimo Nick, ti scrivo giusto una breve e-mail per augurarti ogni bene, nella speranza che le cose siano facili per te. Sei spesso nei miei pensieri. Desidero ardentemente darti un po’ di conforto e mi sento così impotente poiché non posso fare nulla a causa della distanza, se non pregare per te. Sto davvero male. Vorrei soltanto averti incontrato e averti tenuto per mano, così da poterlo richiamare alla memoria piuttosto che immaginarlo. La vita al momento mi sembra veramente fredda. Ti auguro dei giorni e delle notti serene, mio amore. Baci, Cherrylips Floz si era già infilata la camicia da notte e lavata i denti, quando le arrivò una risposta. Cherrylips, allora credo sia giunta l’ora di dirci addio.Neanche per me è facile, troppi se e tutto ciò che ne consegue. Questo sarà il mio ultimo messaggio,entrambi abbiamo faccende da sbrigare ed è arrivato il momento di farlo.Prenditi cura di te e realizza un milione di sogni. Nick Floz urlò al computer: «No, no, per piacere non lasciarmi!». Non voleva che lui se ne andasse. Non voleva essere abbandonata un’altra volta nelle lande selvagge, costretta a cacciare nell’oscurità per ottenere delle informazioni. Tuttavia, lui doveva sfinirsi così 187/432 facilmente che non era giusto che lei lo facesse sentire in obbligo di scriverle. Doveva lasciarlo andare, lo sapeva, ma non se la sentiva. Si girò e rigirò nel letto e rimase sveglia ancora per molto tempo dopo che Steve e Juliet erano sgattaiolati nell’appartamento, soffocando delle risatine mentre si ritiravano in camera da letto per scaldarsi a vicenda e sentirsi desiderati. Settembre Settembre è il mese in cui ingrassano i frutti e si raccolgono le messi in cui il cielo si dipinge di rosso la sera e di oro il pomeriggio in cui si rosolano le foglie e divampano i fuochi dei falò in cui si adagia la nebbia e le grandi lune si colorano di vinaccia. Linda Flowers, Settembre Capitolo trentacinque La mattina seguente, Steve si svegliò e sorrise subito non appena vide Juliet che dormiva come un sasso accanto a lui e russava, seppur quasi impercettibilmente. Prima di quel momento non aveva mai notato quanto le sue ciglia fossero folte e nere o quale forma deliziosa avessero le sue labbra. Le sue palpebre si stavano agitando come se sognasse. Steve scivolò dall’altra parte del letto e si rannicchiò contro di lei; nel sonno, lei si accoccolò contro di lui. Era una sensazione incantevole e lui la assaporò. Era andato a letto con tante donne, a suo tempo, nella speranza di trovare quel genere di legame che l’avrebbe portato a voler restare con lei l’indomani mattina, per condividere la colazione, chiacchierare e pianificare gli appuntamenti futuri. Non gli era mai successo. Ripensò agli eventi della notte precedente e a come Guy avesse creduto che lui ci avesse provato con Floz. Voleva bene a Guy come a un fratello e sperava che sarebbe riuscito a trovare un modo per convincere Floz di essere un ragazzo fantastico. Avrebbero potuto darsi molta felicità a vicenda se si fossero messi insieme, ne era convinto… e poi i Miller pensavano che Floz fosse adorabile. I Miller erano la famiglia che lui aveva sempre sognato, il genere di famiglia che un giorno avrebbe voluto per i propri figli. Sapeva di avere la fama di essere un donnaiolo, ma nel profondo del cuore, più di ogni altra cosa, Steve desiderava una moglie, dei bambini e una casa accogliente e sicura. E voleva le stesse cose per Guy: desiderava che si sistemasse con qualcuna che fosse in grado di dargli, per lo meno, un po’ di serenità. Il suo amico aveva sprecato una grossa fetta della propria vita, ma, se tutto fosse andato per il verso giusto, l’apertura del suo nuovo ristorante avrebbe rappresentato il grande calcio d’inizio di cui aveva bisogno per ricominciare e recuperare tutto il tempo che aveva perduto dopo il suicidio di Lacey Robinson. 190/432 A proposito di ciò, si ricordò che doveva dire a Guy una cosa che sicuramente gli avrebbe rallegrato la giornata. Se ne era accorto il giorno precedente, mentre se ne andava in macchina da casa di sua madre. Cercò di afferrare il cellulare, ma le sue dita non ci arrivarono e lui non voleva scalzare Juliet dal suo abbraccio per riuscire a prenderlo. Sapeva che doveva stare attento perché per lei era solo questione di sesso, e lui le aveva mentito dicendole che anche per lui si trattava solo di quello. Sapeva che un giorno ne sarebbe uscito devastato, perché non appena Juliet avesse conosciuto qualcuno che appagava i suoi bisogni emotivi oltre che quelli sessuali, lui sarebbe stato scartato. Ciononostante, per il momento Steve Feast era felice di vivere in quel luogo e in quel tempo, fingendo con se stesso che tutto sarebbe rimasto così in eterno. Restò disteso vicino a Juliet per i successivi venti minuti, fino a che la sveglia di lei non suonò e lui si fu completamente dimenticato che doveva telefonare a Guy. Capitolo trentasei Quando si svegliò, Floz sapeva che non ci sarebbe stata un’altra email ad aspettarla, tuttavia controllò lo stesso. Doveva sperare che una delle sorelle di Nick le avrebbe fatto sapere il “quando”. Ma una lettera stava prendendo forma dentro di lei, e fu così che tornò a scrivergli. Carissimo Nick, ti scrivo senza nessuna speranza di una tua risposta. Sentiti libero di ignorarmi o di leggerla – è una tua prerogativa. Mi sento talmente privilegiata per il fatto che tu sia entrato nella mia vita. Sei sempre stato speciale – e queste parole sono dette da una vera e propria scettica, perché tu solo conosci la mia storia. Ero solita invidiare il modo in cui i miei genitori si guardavano a vicenda. Ho sempre desiderato avere qualcuno che mi adorasse in quel modo. So che all’epoca non c’era un posto concreto per me nelle loro vite – com’è ancora tutt’oggi. Erano l’uno per l’altra tutto ciò di cui avessero mai sentito il bisogno – o che avessero mai desiderato. Tu eri l’unica persona che sapevo mi avrebbe amato quanto io ti amavo a mia volta. Non troverò mai qualcuno che ti equivalga. Eri unico – accidenti a te. Suppongo tu sia circondato dal calore della tua famiglia. Mi sono sempre sembrati così meravigliosi. Con tutto il mio amore, baci, Cherrylips Premette Invio e si rese conto che doveva davvero lasciarlo andare. Gli aveva detto tutto ciò che desiderava dirgli. Soffocò le lacrime, si vestì e si preparò a scrivere delle battute per i biglietti d’auguri. Ciononostante, attese finché la sghignazzante Juliet e Steve non se ne furono andati prima di emergere dalla sua camera per la colazione. 192/432 Guy si alzò, si vestì e preparò la caffettiera. Non aveva dormito bene. Quella mattina era atteso in banca per mettere i puntini sulle I e i trattini sulle T in merito al contratto di finanziamento. Mentre negli ultimi anni si era semplicemente limitato a sopravvivere, respirare, mangiare e lavorare, in quel momento si sentiva come se fosse in procinto di abbandonare la lenta corsia di immissione per ricongiungersi all’autostrada della vita. Un pensiero che lo entusiasmava e lo terrificava allo stesso tempo. Nel corso degli anni aveva sperperato poco, aveva risparmiato e investito in modo saggio, per cui disponeva di denaro a sufficienza per comprare quasi in blocco il ristorante. Kenny probabilmente pensava di aver proposto a Guy un vero affare, ma non aveva considerato gli ingenti costi di ristrutturazione che avrebbero consentito al Burgerov di sbarazzarsi di quell’immagine da bistrot scadente e diventare un ristorante con una cucina rinomata. Guy era un cliente buono e fidato della sua banca e questa aveva già accettato di prestargli i soldi, una volta che lui avesse fatto stimare il valore dell’immobile da affidabili imprenditori edili locali. Guy doveva seriamente trovarsi un altro posto in cui vivere, un luogo che fosse grande abbastanza da starci comodi, a differenza di quel nascondiglio dove aveva fatto base per troppo tempo e verso cui non provava alcun affetto. Desiderava una casa, voleva un posto dove poter portare una donna e una cucina in cui poter dare sfogo alla creatività. La sua mente fantasticò di comprare una casa simile a Hallow’s Cottage, dove vivere… insieme a Gina, pensò inizialmente, ma scartò subito tale eventualità. Sarà anche stata disponibile nei suoi confronti, ma non era Gina che lui voleva. Ebbe l’audacia di pensare a Floz, rannicchiata accanto a lui su un grande divano in un ristrutturato Hallow’s Cottage; sopra le loro teste splendevano i raggi del sole e vicino a loro c’era un bambino in un seggiolino a dondolo. Era un’immagine talmente perfetta da farlo stare male, in quanto era evidente che Floz Cherrydale non provasse le stesse cose, per cui era sicuro che nulla di tutto ciò si sarebbe mai avverato. 193/432 In ogni caso, l’acquisto del ristorante avrebbe prosciugato tutti i suoi risparmi. La casa avrebbe dovuto aspettare. Era quello il problema: nella sua mente aveva una chiara immagine di lui e Floz a Hallow’s Cottage, e tutto il resto sarebbe stato un ripiego. E si era già accontentato così tante volte che gli sarebbero bastate per una vita intera. Capitolo trentasette Quella sera Steve arrivò a casa di Juliet e Floz con del cibo cinese da asporto, sufficiente per poterci banchettare in tre. «Ho pensato di farti una sorpresa», disse, poi notò l’odore di aglio nell’aria. «Oh, hai già mangiato?» «Stavo giusto per mettere in tavola degli spaghetti al ragù», disse Juliet. «Fa lo stesso, però, li terremo per domani. A te va bene, Floz? Ti va di mangiare il cinese con noi?» «Sì, grazie», annuì Floz, mentre chiudeva il suo taccuino e si dirigeva in cucina a prendere i piatti. Più tardi, guardarono insieme un film su Jack lo Squartatore. Poi, Floz andò a letto, lasciando Steve e Juliet appoggiati l’uno contro l’altra sul divano. «Resti?», gli chiese lei. «Be’, sì», disse lui, «però sono troppo sfinito per fare sesso, sto intonacando un soffitto e la schiena mi fa un male del diavolo». «Anch’io sono stanca», disse Juliet sbadigliando. «Allora mettiamoci a dormire, ti va? Ti farò rilassare con un massaggio». «Fantastico», disse Steve, e non c’era traccia di ironia nelle sue parole. Sorprendentemente, c’era un’e-mail di Nick nella posta in arrivo di Floz, che lei controllò come suo solito prima di andare a dormire. Cherrylips, ho un cugino che vive da solo.Ha perso sua moglie in un incidente stradale dodici anni fa e non ha figli.È intrappolato nel suo dolore.Quindi, non stringe nessuna nuova amicizia.Potrebbe iniziare a scrivere un nuovo libro ma preferisce restare bloccato in eterno sull’ultimo capitolo di uno vecchio. Sono orgoglioso e triste per il fatto che qualcuno sentirà la mia mancanza,in qualche modo rende tutto più facile se paragonata alla strada che intraprende il defunto pesciolino rosso quando va giù per lo scarico. 195/432 Quello che voglio dire è che ci sono innumerevoli uomini unici là fuori che aspettano solo di incontrare una ragazza come te e l’unico ostacolo che li blocca sei tu. Ti auguro vita, amore e avventure magnifiche (e moderatamente sicure) e forse l’abilità di mettere i vermi all’amo,soprattutto se un giorno adotterai un figlio e gli insegnerai a pescare. Nick Floz scoppiò a piangere. Per tutto il giorno aveva dovuto affrontare l’idea di lasciarlo andare, e aveva finito per sentirsi come se ce la stesse per fare, ma ora era nuovamente a pezzi. Si sedette al computer e gli scrisse quella domanda che sentiva di dovergli sottoporre. Carissimo Nick, scusami, ti sto scrivendo troppo e ti faccio stancare. Soltanto un’ultima domanda, che non richiederà nessun particolare dettaglio nella risposta. Per piacere, rispondimi una volta per tutte, senza giri di parole e in tutta onestà, perché sono in grado di sopportare la verità: ho avuto un posto nel tuo cuore in questi ultimi diciotto mesi? Cherrylips Floz provò a dormire, e ci riuscì, anche se non fu un sonno riposante. Si svegliò in piena notte, sapendo con certezza di aver ricevuto una nuova e-mail. Aveva ragione. Era talmente in sintonia con Nick che in lei si acuì la convinzione che sarebbero stati perfetti l’uno per l’altra, se il destino fosse stato dalla loro parte. Carissima Cherrylips, non mi stai scrivendo troppo.ultimamente leggo con molta più facilità di quanto non scriva.il mio controllo ortografico è andato in terapia e non mi aspetto che ritorni alla normalità.ho rinunciato alle maiuscole ma uso ancora la punteggiatura. non so se lì da te ci sono le bibite Boost ma non berle a meno che tu non sia obbligata.sembrano avere un buon sapore, ne esistono di tre colori diversi:bianco, marrone e rosa.però sanno di sporcizia a cui è stato aggiunto del dolcificante.È 196/432 nevicato sulle montagne la scorsa notte, immagino che il problema del riscaldamento globale non sia più all’ordine del giorno. fai in modo di continuare a scrivere quelle barzellette e di sor-ridere.C’è così tanta tristezza nel mondo.E per rispondere alla tua domanda: sei l’unica donna che credo di avere mai conosciuto.Sei e sarai per sempre la mia costante “se solo”. Nick Capitolo trentotto Il lunedì mattina seguente, Floz si sedette alla finestra per godersi il primo caffè del giorno insieme a una fetta di pane tostato. Le scuole avevano riaperto dopo la lunga pausa estiva. I bambini stavano camminando lungo la strada in direzione dell’edificio scolastico con addosso le loro immacolate uniformi, le scarpe lucenti e dei nuovi cappotti con tanto di manopole attaccate con una cordicella, che sbucavano dalle maniche. Alcuni sembravano poco più che bimbetti, intenti ad afferrare le mani delle loro madri per poi saltellare lungo tutto il tragitto. Era uno spettacolo dolce e struggente. Tim, l’inquilino del piano di sotto, stava rastrellando le foglie, ma non appena ne ebbe ammucchiata una pila, la brezza ci soffiò sopra e le trascinò in alto in un turbine prima che lui riuscisse a raccoglierle per riporle nel bidone verde. Il vento autunnale era come una civetta, decise Floz con un largo sorriso. La consegna di lavoro di quella settimana riguardava il Natale, ma non c’era nulla di strano al riguardo. Spesso a dicembre doveva scrivere dei testi a proposito della Pasqua, e magari i biglietti di «Buon Halloween» venivano scritti a marzo. Molto spesso scriveva rime su Babbo Natale quando i titoli dei quotidiani dicevano: «Accidenti, che giornate torride». Era un peccato che nessuno mandasse dei biglietti di «Buon autunno». Era un così piacevole periodo dell’anno. Eppure le persone camminavano freneticamente sulle foglie, accorgendosi soltanto della fastidiosa sporcizia della natura, senza prestare attenzione alla meravigliosa mescolanza di colori: scarlatto, oro, ruggine, bronzo, bordeaux, ambra, porpora, rame. Lanciavano un’occhiata frettolosa verso l’alto, in direzione della grande e rossastra luna settembrina, che una volta era stata tanto importante poiché aiutava i contadini a lavorare la sera fino a tardi ai loro raccolti. Non riuscivano a scorgere tra i rovi i lamponi e le more, che si facevano 198/432 sempre più grandi e dolci, o lo smisurato sanguinamento dei papaveri nei campi. Dell’autunno Floz aveva sempre amato il fatto che brulicasse di attività. Alle feste del raccolto, la gente nelle chiese cantava inni appassionati a proposito di “chicchi di cereali maturi” e della “dolce e rinfrescante pioggia”, i bambini raccoglievano svariati generi alimentari dentro delle ceste, per poi darle in regalo ai poveri. A Halloween, le famiglie svuotavano le zucche e le posizionavano fuori dalle loro porte per far sapere a scheletri e streghette che in quella casa avrebbero potuto esserci dei “dolcetti” se avessero bussato e promesso di non fare degli “scherzetti”. Poi, quando arrivava novembre, l’aria serale si riempiva di crepitii, di fumo e di sfrigolanti barbecue, di scoppiettanti fuochi d’artificio e dei loro boati, di scoppi e di festeggiamenti. Eppure, la maggior parte della gente pensava d’istinto che l’autunno fosse una “non-stagione”, ovvero una semplice stagione tappabuchi tra l’amata estate e lo scintillante inverno. Floz avrebbe avuto più ragioni degli altri per odiare l’autunno, tuttavia non riusciva a convincersi che Dio avesse scelto di dipingere quella stagione usando una tavolozza così bella di colori se non avesse avuto l’intenzione di trasmettere un messaggio di speranza: la terra non stava morendo, bensì si stava preparando a riposarsi e rinnovarsi e sarebbe sopravvissuta per tornare a fiorire. E lei aveva davvero bisogno di continuare a credere che ci fosse un Dio – e un paradiso. Uscì a fare una passeggiata per i negozi e finì al supermercato Morrisons, dove vagò oziosamente lungo le corsie senza però avvistare nulla che riuscisse a stuzzicarle l’appetito. Al momento il cibo non le interessava più di tanto, ma si obbligava a mangiare quando si sentiva debole e senza forze. Abbassò lo sguardo sul carrello della spesa. Avrebbe potuto giurare di averci messo delle patate, ma non ce n’erano. C’era, però, un grande sacchetto di cipolle di cui non aveva bisogno. Era stremata: fisicamente poiché non dormiva per niente bene, e mentalmente dato che pensava a Nick e tentava di colmare i vuoti della propria conoscenza e di scoprire che cosa gli stesse 199/432 accadendo, che cosa stessero passando la sua famiglia, i suoi nipoti, perfino i suoi cani. Aveva due bellissimi husky: Amak e Pilitak. Si ricordò che Nick le aveva detto che erano nomi inuit. Amak, il nome della femmina, significava “vivace”; Pilitak, il nome del maschio, significava “utile”. Aveva la sensazione che molte persone si sarebbero disperate per la dipartita di quell’uomo, forte e adorabile. Così come molti animali. Era quasi una settimana che non riceveva notizie da lui e temeva il peggio. Il non sapere la stava distruggendo. La donna alla cassa chiese a Floz se si sentiva bene, dato che alcune lacrime le stavano scendendo lungo le guance mentre infilava la spesa nelle buste. «Sì, sto bene». Floz cercò di apparire allegra. «Credo di essere allergica a questo eye-liner». Era una sporca bugia, ma la cassiera stette gentilmente al gioco. «Una volta ne avevo uno simile», disse, intanto che si alzava in piedi per aiutare Floz a imbustare. «I miei occhi erano pesti. E non costava neanche poco». Floz ridacchiò con gratitudine. C’erano delle persone deliziose su questo pianeta, che facevano sì che la vita filasse via un po’ più liscia, anche solo rivolgendoti una o due parole gentili. Nel parcheggio, Floz notò un uomo che trafficava sotto il cofano della macchina. «Accendi il motore, Gron», stava urlando a qualcuno seduto nel posto del guidatore. La voce le fu subito familiare. «Signor Miller? Si sente bene?». Perry Miller si raddrizzò. «Oh ciao, cara Floz». Si piegò in avanti e le diede un bacio sulla guancia. «Abbiamo un problema alla macchina. Non riesco a capire che cosa ci sia che non va. Le ho appena fatto la revisione, accidenti». Grainne emerse dalla macchina e la salutò con la mano. «Ciao, Floz», disse con fare allegro. «La macchina ci sta dando qualche problema. Le abbiamo appena fatto la revisione…». 200/432 «Gliel’ho già detto, Gron», si intromise Perry con una strana stanchezza nella voce. Floz notò che aveva un aspetto affaticato. Era un uomo di settant’anni, che dava l’impressione di avere la stessa energia di uno di venti. Era abituato ad accorrere in aiuto di tutti i membri della sua famiglia; il ruolo di chi veniva “salvato” si scontrava chiaramente con il suo orgoglio. «Be’, che ne dite se vi accompagnassi a casa?», suggerì Floz. «No, no, possiamo prendere un taxi», disse Perry. «Tu sarai sicuramente indaffarata». «Niente affatto», disse Floz. «Lasci che posi la spesa e che porti qui la mia macchina». «Grazie mille», sorrise Grainne, che sembrava sollevata. «Il mio gelato deve essersi quasi sciolto». Qualche minuto dopo, Floz stava guidando verso di loro. Soltanto per un istante, immaginò che quelli fossero i suoi genitori e che li stava aiutando perché avevano bisogno di lei. In ogni caso, i suoi veri genitori non si sarebbero mai trovati in una simile posizione di necessità. Non aveva alcun dubbio che quando sarebbe successo qualcosa a uno dei due, l’altro lo avrebbe seguito di lì a poco. Non avrebbero mai voluto nessun altro eccetto loro stessi – era sempre stato così, e lo sarebbe sempre stato. Con un colpo di tosse scacciò la commozione che stava prendendo il sopravvento dentro di lei. Non si sarebbe mai liberata della sensazione di essere un sovrappiù rispetto alle esigenze di sua madre e di suo padre. «Ho riferito allo sportello del servizio clienti che la vostra macchina non parte e mi hanno detto di mettere questo sul parabrezza», disse Floz, consegnando a Perry un foglio di carta che diceva: PARCHEGGIO DI VEICOLO AUTORIZZATO. «Così non le faranno la multa per essere rimasto posteggiato qui per più di due ore». «Oh, è molto gentile da parte tua, cara Floz», disse con entusiasmo Grainne. Caricarono la spesa dei Miller nel portabagagli, dopodiché Floz partì in direzione di Maltstone. 201/432 «Mi dispiace se ti abbiamo disturbato», disse Grainne, spaparanzata sul sedile posteriore. «Davvero, non siete di nessun disturbo», rispose sinceramente Floz. «Non riesco a capire che cosa abbia che non va». Perry stava ancora rimuginando sul problema della macchina. «Perry è sempre stato bravo con le automobili», disse Grainne. «Deve trattarsi di qualcosa di strano se non riesce a individuarlo. Non importa. Più tardi, ci penseranno Guy e Steve. E se neanche loro sono in grado, di sicuro conoscono qualcuno che ne sa di più. Ci sarà di certo un meccanico tra i loro amici del wrestling». Quando arrivarono a casa, Perry insistette per dare a Floz una banconota da cinque sterline per la benzina. Floz fu altrettanto insistente e si rifiutò di prenderla. «Floz, non voglio che tu paghi di tasca tua», disse Perry con tono severo. «Perry, non prenderò i suoi soldi», ribatté Floz, mentre trasportava la loro spesa. «La smetta di insistere». Poi si allontanò in auto prima che i due la tenessero in ostaggio fino a che lei non avesse messo i soldi in borsa. «Che ragazza dolce», sorrise Grainne, salutandola con la mano fino a quando la macchina di Floz non sparì dalla loro vista. «Davvero», annuì Perry. «Però mi chiedo che cosa la preoccupi. I suoi occhi erano terribilmente tristi. Hai notato come erano rossi?» «Ho pensato la stessa cosa», ammise Perry, estraendo la pipa dalla tasca. «Ragazza adorabile, ma triste». «Come si fa a non voler vedere spesso una figlia come quella?». Il sorriso di Grainne svanì. «Alcune donne sono o troppo stupide o troppo egoiste». «Ho smesso molti anni fa di giudicare gli altri in base ai miei princìpi, mia cara», disse Perry, cingendo con il braccio le spalle della moglie e conducendola dentro. «A questo mondo esistono 202/432 molte persone che non riescono ad amare, e sono proprio felice che noi non ne facciamo parte». Quella sera, Juliet entrò in casa come una scheggia e si diresse a grandi passi verso Floz, esibendo uno sguardo omicida. «Grazie a te e alla tua dannata gentilezza con i miei genitori, siamo stati invitati al pranzo di domenica», mugugnò. «E per peggiorare le cose sarà mia madre a cucinare. Grazie mille, Floz. La prossima volta lasciali nel maledetto parcheggio». Floz scoppiò a ridere. «Credi sia divertente, Floz Cherrydale», disse Juliet. «Aspetta che ti ricoverino d’urgenza per un’intossicazione e poi mi dirai». Capitolo trentanove Nonostante il terrore esagerato e fasullo di Juliet in merito all’incombente pranzo della domenica, Floz non vedeva davvero l’ora di andarci. Sarebbe riuscita a distrarsi da Nick e da come lui potesse stare. Erano trascorsi undici giorni dalla sua ultima e-mail. Ma i suoi sogni a occhi aperti erano stati pieni di lui e abbandonarvisi era stato fin troppo semplice. Nei suoi sogni, vivevano insieme in una capanna di legno sulla sponda di un lago. Lei scriveva al portatile, lui andava a pescare; avrebbero mangiato quello che lui aveva preso, seduti a un tavolo all’esterno, sotto un porticato, nelle notti illuminate da una grande e bianchissima luna. Immaginava che lui l’avrebbe trascinata a letto e l’avrebbe baciata fintanto che le sue terminazioni nervose non fossero andate in fiamme. Le avrebbe detto: «Ti amo», e lei avrebbe capito che era serissimo. La sua eterna “se solo”, come lui era quella di lei. Juliet si fece il segno della croce con la mano destra prima di aprire con uno spintone la porta d’ingresso del numero 1 di Rosehip Gardens. «Se muoio a causa della cucina di mia madre, Floz, tornerò a tormentarti», disse. «Non essere sciocca», rise Floz, mentre seguiva Juliet in casa. Un piacevole odore di carne arrosto diede loro il benvenuto. «Ciaooo», disse Perry, salutando entrambe con un bacio. «Siete arrivate per prime. Ho appena visto passare la macchina di Steve, suppongo sia andato a prendere Guy». Il cuore di Floz sobbalzò nel petto. Dunque ci sarebbe stato anche Guy? Che cosa aveva di così speciale quell’uomo da riuscire a farle battere il cuore a ritmi bizzarri? «Che cos’era successo con la macchina, papà?», chiese Juliet. «L’alternatore», rispose Perry. «Guy e Steve me l’hanno messo a posto». 204/432 «Tua mamma sa di te e Steve?», sussurrò Floz. «Che cosa? Che non abbiamo una relazione ma che facciamo solo del sesso selvaggio? Ehm, no, Floz», Juliet le rispose bisbigliando, mentre faceva una smorfia alla Elvis Presley. «Be’, ottima osservazione», disse Floz, che avrebbe voluto aggiungere: “Solo sesso, un corno!”. C’era un affetto genuino tra Steve e Juliet. Qualsiasi idiota se ne sarebbe accorto. «Quel pollo ha un odore di tutto rispetto», disse Juliet. «Ne avete comprato uno già sfornato da Morrisons e lo state soltanto riscaldando?» «No, affatto. Ed è tacchino», disse Grainne. Poi si rivolse a Floz: «Onestamente, se si sta ad ascoltare la mia famiglia si direbbe che io riesca a bruciare l’acqua. Sono sempre riuscita a fare un rispettabile pranzo domenicale». La porta d’ingresso si aprì ed entrarono Guy e Steve. «Ciao, ragazze», salutò Steve con la mano, cercando di apparire disinvolto, diversamente da come si sarebbe comportato un fidanzato. Guy rivolse loro un cenno del capo. Floz gli rispose a sua volta con un cenno, ma sorrise a Steve. «Floz, stai perdendo peso?», disse Steve notando che le sue guance parevano un po’ più scavate del solito. «Non ti sembra che sia dimagrita, Guy?». Steve aveva orchestrato quella battuta in favore dell’amico. Alle donne faceva sempre piacere ricevere un complimento del genere. Guy pensò che, nonostante l’osservazione di Steve fosse a fin di bene, Floz avrebbe potuto sentirsi a disagio se tutti si fossero messi a valutare il suo fisico, e desiderava perciò andare in suo aiuto. Il suo istinto gli disse che il miglior modo per farlo era rispondere dicendo: «In realtà, non l’ho notato». «Sei proprio adorabile». Juliet fece schioccare la lingua. «Hai sempre avuto il dono della parlantina, Guy». «Non intendevo dire che non è dimagrita», ribatté Guy stando sulla difensiva. «Volevo soltanto dire che non l’ho osservata… per nulla… in quel modo… in nessun modo, in realtà…». 205/432 Steve mugugnò. Gli balenò nella mente l’immagine di un uomo che si scavava un’enorme fossa, andando sempre più in profondità. Vide le gote di Floz diventare rosa, per poi volgere allo scarlatto, decise quindi di intervenire. Batté le mani e iniziò ad aprire una bottiglia di rosé frizzante che aveva comprato per le ragazze. «Pensavo avreste portato Raymond con voi», disse Grainne. «Questo fine settimana è via per un qualche convegno», rispose Juliet. «Il suo tempismo è stato perfetto, se volete sapere come la penso». «Non riesco ad aprire questa maledetta bottiglia», grugnì Steve, dopodiché emise un gridolino. Si era tagliato un dito con il filo metallico intorno al tappo. «Dammi qui», disse Guy. Afferrò la bottiglia ed estrasse il tappo che schizzò via come una pallottola, mancando di poco Floz. Guy premette la mano sull’imboccatura mentre la schiuma saliva velocemente, fino a che non zampillò fuori per poi finire sulla maglia di Floz. «Mamma mia!», disse Grainne, correndo a prendere un asciugamano. «La tua deliziosa camicetta bianca!». «Fa lo stesso», disse Floz, desiderando gettarsi oltre la cornice della finestra, superare con un balzo la recinzione del giardino e correre il più lontano possibile da Guy Miller. «Mi dispiace così tanto», disse Guy, mentre si premeva la punta delle dita contro la fronte, al colmo della disperazione. «Non fa nulla», ripeté Floz, asciugandosi con il dorso della mano, fino a quando non arrivò l’asciugamano e lei si rese conto con orrore che la sua camicetta era diventata trasparente, rendendo distintamente visibile il suo reggiseno di pizzo con le rifiniture rosa. Il vino rosé le sgocciolava dalla frangia. Non aveva mani a sufficienza per cercare di tamponare le zone bagnate, asciugarsi i capelli e coprirsi il seno. «Probabilmente è successo perché non è fresco ed è rotolato avanti e indietro per la macchina», spiegò Steve. «Scusatemi, avrei dovuto comprarlo ieri sera e conservarlo in frigo». 206/432 «Fa tutto parte del piano generico che ci porterà alla distruzione», sospirò Juliet. «Spacciati, siamo tutti spacciati». Il timer del forno scattò. «Oooh, tutti a tavola, per favore!». Grainne batté le mani con entusiasmo. Steve si fiondò nel posto verso cui Guy si stava dirigendo, obbligandolo a sedersi di fronte a Floz. L’altro cercò di evitare di guardare nella direzione del suo reggiseno, che si intravedeva oltre la camicetta, ma fallì proprio nella frazione di secondo in cui lei lo sorprese. Floz ebbe la battuta pronta e, indicando in alto con la mano, disse con voce severa: «I miei occhi sono qui». «Qualcuno vuole del vino?», chiese Guy, sollevando quel poco che era rimasto della prima bottiglia di rosé. Ci mancò poco che non la fece cadere giacché era bagnata e gli scivolò tra le mani. «Faccio io, posso?», disse Steve. Con fare esperto, riempì tre flûte per le signore, poi versò del bianco per sé, Perry e Guy. Grainne portò in sala dei piatti stracolmi di fette di petto di tacchino, cavolini di Bruxelles, uno sformato di patate con verza, burro e cipolla, dello Yorkshire pudding dall’aspetto uniforme e delle radici di pastinaca al forno, oltre a un purè di carote e rape. «Mamma, questo Yorkshire pudding è surgelato, vero? Hai barato», disse Juliet, anche se dovette ammettere di essere impressionata dall’aspetto normale di quelle portate. «Non riuscirei mai a preparare lo Yorkshire pudding», disse Grainne. «E per fortuna, visto che ne esiste uno buonissimo surgelato, non devo impazzire per farlo». «Ha un aspetto magnifico», constatò Perry. Steve si gettò sul cibo. Gli era sempre piaciuto mangiare a quella tavola, in compagnia della famiglia Miller. Grainne sarebbe riuscita a preparare in modo pessimo anche delle fette di pane tostato con sopra i fagioli, ma il cibo non era mai stato la ragione principale per lui. Non riusciva a ricordare di aver mai mangiato a tavola con sua madre e, in ogni caso, a casa sua non erano mai esistite quelle chiacchiere e quelle risate che era riuscito a trovare lì, a Rosehip Gardens. 207/432 «Allora, come va il wrestling, Steven?», chiese Perry, mentre versava un po’ di salsa sulle patate, per poi cercare di eliminarne i grumi. Aveva la consistenza delle uova di rana. «Si procede a singhiozzi», disse Steve. «È bello ritrovarsi con gli altri ragazzi, ma uno a uno stanno tutti smettendo». «È un peccato», disse Grainne. «Immagino che i ragazzini si interessino soltanto alla scena americana». «Più o meno», sospirò Steve. «È lì che la scena è più attiva. Inoltre, il wrestling britannico non viene più trasmesso in televisione». «Non riesci a ottenere un lavoro là da loro, Steven?». Perry stava schiacciando i grumi con il retro della forchetta. «Mi piacerebbe», disse Steve, seguendo l’esempio di Perry e girando la forchetta per amalgamare la salsa. «Chi è che comanda là? Posso scambiarci una parolina in tuo favore», sorrise Grainne. «Si chiama Will Millburn», disse Steve, scolandosi una sorsata di emergenza di vino. Quanto sale aveva messo Grainne nelle carote e nelle rape? «Anche lui è un bravo lottatore di wrestling?», chiese Perry. Guy si intromise per rispondere al posto di Steve, che aveva iniziato a tossire in modo violento. «No, è un nanerottolo basso». “Accidenti”. Poi si rivolse in fretta a Floz: «Nessuna offesa, Floz». “Accidenti”. «Non mi sono offesa, non preoccuparti», rispose Floz stizzita. «Quanto sei alta, Floz?», chiese Perry. «Direi un metro e cinquantacinque circa». «Un metro e cinquantotto», rispose Floz, in attesa di sentire che cosa avrebbe detto Guy. «E quanto pesi?» «Papà!». Juliet fu la prima ad alzare le mani in segno di frustrazione. 208/432 «È davvero piccina», disse Perry. «Mi dispiace se ti ho imbarazzato, Floz. Volevo soltanto dire che sei una piccola… come si chiamano quegli esserini fatati?» «Gnomi?», disse Guy. “Merda”. «Ninfe. Volevo dire ninfe!». «Esatto, una piccola ninfa», disse Perry. «Niente a che vedere con una ninfomane?». Steve scoppiò in una risata fragorosa. «Vedi che cosa intendevo dire?». Juliet si rivolse a Floz: «La prossima volta chiama il soccorso stradale e nasconditi dietro il cespuglio più vicino. Non permettergli mai più di essere in debito con te». Per fortuna, la conversazione intorno al tavolo si spostò sui progetti di Perry per il giardino. Una gnometta dal culo basso e con una maglia fradicia e trasparente come Floz finalmente poté starsene in disparte, nell’ombra, lontana dai riflettori che la privavano della sicurezza in se stessa. Come dolce, Grainne portò in tavola una torta foresta nera dall’aspetto piuttosto discutibile. «Dovresti togliere i noccioli dalle ciliegie, mamma», disse Juliet, visto che ci mancò poco che si spezzasse un molare. «Mi pare di avvertire un sapore di pistacchio…», riflettéPerry. «Sì, me ne erano avanzati alcuni. Ho pensato che avrebbero aggiunto un tocco interessante». «Credo che in futuro lasceremo che sia Guy a cucinare i pranzi dei giorni di festa», disse Perry, facendo l’occhiolino al figlio. «Mamma ha preparato un pranzo migliore di quanto non abbia fatto io l’ultima volta che ho cucinato qui», disse Guy, mentre si toglieva il nocciolo di una ciliegia dalla bocca. «Quel giorno ho combinato un vero pasticcio». Finalmente si era presentata l’occasione per mettere le cose in chiaro con Floz, in caso pensasse che quelli fossero i suoi abituali standard cu-linari. «Stavi andando alla grande, Grainne, finché non è arrivata la torta», disse Perry, alzandosi dalla sedia per riempire i bicchieri di tutti con un altro po’ di vino. 209/432 «Ho preparato dei cioccolatini alla menta fatti in casa da prendere con il caffè», annunciò Grainne con orgoglio. Si chiese perché la sua dichiarazione fosse stata accolta con un pesante silenzio invece che con una fragorosa esultanza. Non ci fu modo di sottrarsi ai baci dell’arrivederci che seguirono il caffè e i cioccolatini alla menta fatti in casa, con tanto di uva sultanina affogata in una crema di menta. I Miller erano una famiglia espansiva e amavano le dimostrazioni d’affetto. Floz si innervosì temendo che Guy le colpisse l’occhio con il naso o che si sarebbero di nuovo scontrati con le teste. Si nascose dietro a Juliet, nella speranza di cavarsela rivolgendogli un semplice cenno con la mano. «Guy, hai salutato Floz?». Perry Miller spinse il figlio in avanti. “Cielo”, pensò Guy. “Cielo”, pensò Floz. Floz alzò la testa in attesa della commozione cerebrale che sarebbe seguita. Guy chinò il capo, in attesa che il suo corpo facesse qualcosa di inaspettato e la ferisse mortalmente. Guy fece del suo meglio per darle un bacio sulla guancia, Floz fece del suo meglio per offrirgli la propria guancia. Guy si mosse troppo presto, Floz si mosse troppo tardi e come risultato le labbra di Guy atterrarono con una precisione perfetta su quelle di lei. Il bacio sembrò allo stesso tempo fugace ed eterno. Guy notò come fossero morbide le labbra di lei e, ancora una volta, avvertì una lieve fragranza di fragole sulla sua pelle. Floz notò come fossero forti le labbra di lui, avvertì un aroma di caffè e whisky provenire dal suo alito e, mentre si scostava, colse un accenno della fragranza del suo dopobarba: un profumo di cedro e aria fresca. Aveva l’odore di una passeggiata autunnale in un bosco dopo la pioggia. Per una frazione di secondo ci furono solamente loro due nella stanza e non pensarono ad altro che non fosse la sensazione delle labbra sulle labbra. Nessun Nick, nessuna Lacey, nessun passato, nessun futuro, esisteva soltanto quel momento. 210/432 Entrambi avrebbero segretamente rivissuto nelle loro menti quel bacio; anche Floz ripercorse spesso quegli istanti, così come Guy, nonostante una parte di lei non facesse che protestare e ricordarle che quel ragazzo era proprio un tipo da evitare. Capitolo quaranta «Sono preoccupata per Floz», disse Juliet quella stessa sera. Era accoccolata con Steve sul divano, e la sua coinquilina aveva deciso per l’ennesima volta di ritirarsi presto in camera sua. «Hai mai pensato che potrebbe essere stanca ed è per questo che decide di andare a dormire presto?», disse Steve, intanto che giocherellava con una ciocca dei capelli neri di Juliet. «Be’, ha un pessimo aspetto per essere una che va spesso a letto così presto. I suoi occhi mi dicono che non dorme bene. Inoltre hai ragione: ha perso peso». E non era tutto. Juliet non lo disse ad alta voce, perché le sarebbe sembrato di fare del volgare pettegolezzo se gli avesse riferito che la sera Floz non la aspettava più per bere il suo primo bicchiere di vino. Di solito, quando Juliet rientrava, ne aveva già bevuto uno, o forse due. «Le hai chiesto se c’è qualcosa che non va?» «Certo che sì. Ha detto che non c’è nulla che non va, ma è evidente che non è così». «È semplicemente molto più riservata di te», disse Steve, mentre prendeva un cioccolatino per metterlo tra le labbra di Juliet, perché sapeva che quello era il suo gusto preferito. «Non tutti hanno voglia di parlare quando c’è qualcosa che non va». «C’è qualcosa che non va, lo so e andrò in fondo alla faccenda», disse Juliet. «In un modo o nell’altro. Comunque, facciamo sesso questa sera?» «Se ti va», disse Steve. «Be’, trattieni il tuo entusiamo», disse Juliet in tono seccato, allontanandosi da lui; tuttavia, il braccio di Steve era avvolto intorno a quello di lei e lui la riattirò a sé. «Mi piacerebbe tanto fare sesso con te. Ma sono altrettanto felice di restare qui disteso così», precisò. 212/432 «Bene, allora è deciso. Staremo qui distesi per un po’ e poi faremo sesso. Così saremo entrambi felici». Fare sesso quella sera fu un bonus insperato, perché a Juliet quel giorno non era venuto il ciclo, che di solito era puntuale come un orologio. Non era preoccupata… si trattava soltanto di un giorno. Per il momento. Capitolo quarantuno Steve girò intorno alla Mercedes sportiva a due posti nuova di zecca. Era riuscito a malapena a reprimere i mormorii compiaciuti che aveva sulla punta della lingua, mentre il venditore gli mostrava tutti gli accessori e gli optional, consapevole di avere l’affare a portata di mano. Era il genere di macchina che avrebbe attratto Chianti Parkin come una calamita sessuale. Eppure, per qualche inspiegabile ragione, Steve non stava affatto pensando a lei mentre ne studiava le caratteristiche. Stava pensando a Juliet, seduta sul sedile del passeggero, con i capelli che fluttuavano dietro di lei, mentre sfrecciavano lungo una strada costiera sotto il sole. «Avrà bisogno di un finanziamento?», chiese il venditore. «No», rispose Steve. «Pagherò con la carta di credito». Era tanto tempo che Steve risparmiava per quel momento: saettare fuori di lì con una macchina da gradasso che poteva definire sua. Però, il venditore era troppo sfacciatamente sicuro di aver concluso l’affare, per cui Steve aggiunse in modo disinvolto: «Ovviamente, sempre se decido di prenderla». «E perché non dovrebbe acquistarla?», rise il signor Venditore Sbruffone. «Be’, sto valutando anche una Porsche e una Jaguar su cui ho già fatto dei giri di prova, ecco perché», mentì Steve in modo convincente. «Nulla regge il confronto con questo gioiellino», disse il signor Sbruffone. «Oh, non sono d’accordo», disse Steve. «Il giro in Jaguar, le assicuro, è stato molto confortevole. Quell’auto filava liscia come la seta. E in curva rimaneva incollata alla strada». «Be’, ma lei non conosce davvero bene le macchine di questa categoria…». 214/432 «E invece sì», lo interruppe Steve. «Riparo e potenzio automobili da quando ho undici anni». Un fatto che corrispondeva sostanzialmente alla verità. Molto spesso il sabato lavorava per un uomo severissimo che possedeva un’officina nel suo quartiere. Non menzionò il fatto che molte delle macchine lussuose che entravano da quella saracinesca erano sfasciate e venivano riverniciate e smerciate nel cuore della notte, oppure truccate per i furti. Il sorriso viscido del giovane venditore svanì mentre iniziava a rendersi conto che avrebbe potuto non essere all’altezza della situazione se avessero cominciato a scambiarsi pareri sulle specifiche delle macchine. «Forse gradirebbe fare un giro con l’automobile?», disse. «Altrimenti, può disporre di una nostra offerta che le permette di noleggiare un modello simile a un prezzo veramente vantaggioso fino a una settimana, così da poter apprezzare l’effetto che una macchina di questo calibro avrà sulla sua vita». «Magnifico. Mi farò sentire», disse Steve stringendogli la mano, per fargli capire che per il momento aveva intenzione di andarsene. Uscì impettito dal salone di esposizione e ritornò alla sua automobile, che aveva parcheggiato davanti a un palazzo abbandonato lì accanto. Affisso al muro c’era un enorme annuncio svolazzante che diceva: IN VENDITA. Fu così che si ricordò di ciò che doveva dire a Guy e gli telefonò immediatamente. Capitolo quarantadue Juliet stava fissando il vuoto con uno sguardo confuso stampato in volto. In quel momento, le stavano passando per la testa molti pensieri che non gradiva. In primo luogo: stava seriamente pensando di cucinare la cena per Steve quella sera. Ciò avrebbe fatto sconfinare la loro storia di “solo sesso” nel pericoloso territorio delle relazioni. Non poteva avere un rapporto serio con Steve: era un deficiente. Per quasi trent’anni era stata convinta che fosse un deficiente. Ciononostante, non faceva che pensare a quando era a letto con lui, quanto in quelle occasioni fosse tenero con lei, nonché altruista, e fu costretta ad ammettere che quell’uomo non aveva tutti i torti quando sosteneva di essere un dono divino per le donne. Con nessun altro amante aveva raggiunto degli orgasmi così intensi tanto in fretta, nemmeno con Roger. In secondo luogo, si stava trasformando in Coco, poiché controllava in continuazione il suo telefono per vedere se le fossero arrivati dei messaggi da Steve e, quando scopriva che non ce n’erano, si accertava che il cellulare funzionasse correttamente. Quando lui le mandava un messaggio o la chiamava, lei si ravvivava come un gambo di sedano in un recipiente d’acqua. Inoltre, Steve Feast era diventato il tasto numero uno della sua selezione rapida. Si sentiva lievemente vulnerabile. Tra tutti gli uomini sulla piazza, il suo cuore aveva deciso di aprirsi a Steve Feast – e quando ciò succedeva, c’era sempre il rischio di restare ferita. E in terzo luogo, che diamine di fine aveva fatto il suo dannatissimo ciclo? Non poteva essere incinta, perché avevano usato il preservativo. Solo la prima volta si erano lasciati trasportare dall passione e avevano iniziato a fare sesso non protetto, prima che Steve si fermasse e uscisse da lei, comportandosi da persona assennata e infilandosi un Durex. Sapeva che era altamente improbabile che non le fosse venuto il ciclo perché era incinta, tuttavia voleva comunque 216/432 avere una prova tangibile al riguardo, in modo da poter “depennare tale pensiero dalla lista delle preoccupazioni”. Era talmente assorta nelle sue riflessioni da non accorgersi nemmeno che Piers Winstanley-Black aveva fatto capolino nell’ufficio ed era in attesa che lei si esibisse nelle sue abituali moine. Quando Juliet non lo fece, lui ne fu piuttosto offeso e – come è proprio della natura ostinata degli uomini – il suo interesse nei confronti di quella creatura prosperosa, che improvvisamente si mostrava indifferente al suo fascino, aumentò in maniera considerevole. Capitolo quarantatré La macchina si arrestò a fianco alla casa con uno stridio di gomme. Pochi secondi dopo aver ricevuto la telefonata da Steve, Guy si era preparato e vestito, e si era diretto a Hallow’s Cottage, che si trovava piuttosto distante dalla strada che andava da Maltstone a Higher Hoppleton, cercando di non schiacciare troppo il piede sull’acceleratore. Stava quasi tremando mentre si arrestava bruscamente in prossimità del cartello che diceva IN VENDITA. A quanto pareva, l’agenzia immobiliare Stanby’s Estate Agency cercava di vendere il cottage. Stava componendo il loro numero al telefono, quando notò che la porta d’ingresso della casa di campagna era aperta e scorse un uomo pelato e alquanto grassoccio con occhiali spessi portare fuori un sacco nero dell’immondizia. Guy balzò fuori dalla macchina e gli urlò: «Mi scusi, vive qui? Mi può dare alcuni dettagli a proposito della casa, se non le dispiace?». L’uomo fece un salto, si riprese e poi disse: «Le faccio fare il giro del cottage, se vuole, dal momento che sono qui. Però farebbe meglio ad avanzare lungo il vialetto con la macchina». «Grazie, fantastico», urlò Guy voltandosi appena, mentre si affrettava a tornare all’automobile. Parcheggiò e ridiscese. «Mi scuso per essere venuto qui senza preavviso, ma ho scoperto solo questa mattina che la casa è in vendita». «Non è da molto che è sul mercato», disse l’uomo, tendendo la mano e presentandosi. «Sono Grant Taylor, il nipote della proprietaria. Be’, della defunta proprietaria. Mia zia è morta a luglio, e noi ora viviamo nel Norfolk; il viaggio è abbastanza lungo e la proprietà è un po’ trascurata, come può vedere». Fece un gesto per indicare il giardino. «Comunque, entri pure. Scusi, non posso offrirle una tazza di tè, perché ho fatto staccare l’elettricità fino a che non la venderemo». 218/432 «Oh, non si preoccupi», disse Guy, mentre lo seguiva dentro. «Sono davvero felice di averla incontrata. Stavo per fissare un appuntamento con l’agente immobiliare per fare una visita quando l’ho vista. Sono venuto qui con mia nonna una volta, quando ero un ragazzino e ho pensato che questo cottage fosse bellissimo». Si rimproverò per aver dimostrato troppo entusiasmo, ma non era riuscito a trattenersi. «Ora non è più così bello», disse Grant. «Non viene ristrutturato da almeno trent’anni. È come fare un salto indietro nel passato. Tra l’altro, è un periodo pessimo per vendere una casa, figuriamoci una come questa. Si senta libero di curiosare in giro». «Non mi vuole accompagnare?» «No, se la caverà da solo. Non c’è nulla da sgraffignare, ragazzo», rise Grant. Guy iniziò dalla stanza in cui si trovava. Aveva un soffitto incredibilmente alto per essere un edificio così vecchio, ed era inoltre ben illuminata. Era una grande stanza quadrata, Guy se la immaginò con dei nuovi infissi e un grande fuoco che ardeva in un ampio camino ricavato scavando una nicchia nella parete. Poi, andò in cucina e immaginò luccicanti ripiani da lavoro e un’isola al centro; c’era anche Floz, visibilmente incinta, seduta a un tavolo da pranzo in legno, intenta a scrivere al suo portatile. Si immaginò di chinarsi su di lei per baciarla sulle labbra, come aveva fatto a casa dei suoi genitori, anche se non intenzionalmente. Riusciva ad avvertire l’odore di fragole nell’aria. C’era un guardaroba, che lui vide pieno di scarpine per bambini e di eleganti scarpe da donna con il tacco a spillo. La camera accanto poteva essere una specie di stanza di servizio, che avrebbe svolto la funzione di ufficio o stanza dei giochi, dove lui e i bambini avrebbero cercato di battersi a vicenda giocando a tennis con la Wii. Salite le scale, c’era un bagno spazioso con due finestre, ma invece di notare l’orribile mobilio verde, Guy vide se stesso insieme a Floz, entrambi intenti a insaponarsi a vicenda nella doccia. E nella più grande delle tre camere da letto, si visualizzò mentre si rotolava su 219/432 un ampio letto a baldacchino, intrappolando Floz tra le lenzuola. Dovette sistemarsi per bene i pantaloni prima di tornare al piano di sotto. Il cottage aveva intorno terreno a sufficienza per ampliarlo se ce ne fosse stato bisogno, oltre a un vecchio garage pericolante che necessitava di essere demolito e ricostruito, e quella che sembrava un stalla, abbastanza grande per due cavalli. In breve, c’era molto lavoro da fare per rendere Hallow’s Cottage parzialmente presentabile. Sarebbe costato abbastanza – ma accidenti, ne sarebbe valsa la pena. Immagini dai colori vivaci stavano danzando vivide nella mente di Guy. «A quanto la vende?», chiese. «L’agente immobiliare ha detto che vale 200.000 sterline», disse Grant. Il cuore di Guy sprofondò. «Ma un po’ per il periodo in cui ci troviamo, un po’ per tutto il lavoro che c’è da sbrigare, ho deciso di scendere a 160.000, sterlina più sterlina meno. Voglio vendere in fretta. È interessato?». Il respiro di Guy si fece corto e veloce. «Sì, sono molto interessato», disse. Il buonsenso gli diceva che avrebbe fatto meglio a stare zitto. Se avesse comprato il ristorante non avrebbe avuto i soldi né tanto meno il tempo di fare tutti i lavori necessari. Ma il cuore di Guy Miller stava martellando per l’entusiasmo e non avrebbe dato credito a nessuna di quelle voci interiori che cercavano di farlo ragionare in maniera sensata. Era sempre stato troppo pacato e agiva con prudenza da ormai troppo tempo. Inoltre, gli uomini pavidi non conquistavano certo le affascinanti donzelle. Capitolo quarantaquattro Nella toilette del personale, Juliet fece pipì sopra alla bacchetta del test di gravidanza e attese. Non poteva essere incinta. Steve era rimasto dentro di lei per alcuni secondi soltanto. E se invece lo era? Mentre aspettava pensò a che cosa avrebbe significato se il test fosse risultato positivo. Si sentiva come se fosse ritornata all’Orchards Hotel, al cospetto di quel pazzo antiabortista. «Che cosa faresti?». «Onestamente non lo so!». «Non lo sai? Non sai se uccideresti o meno il sangue del tuo sangue?». Ebbene, ora che si trovava faccia a faccia con la concreta possibilità di essere incinta, sapeva che mai e poi mai avrebbe scelto di abortire. Tuttavia, era una circostanza folle. Lei, Juliet Miller, incinta? Non aveva mai preso seriamente in considerazione l’idea di avere dei bambini. Roger aveva gli stessi istinti paterni di Erode e Juliet apprezzava fin troppo la propria indipendenza e la propria libertà per volere tra i piedi dei marmocchi. Aveva il vago sospetto che se avesse detto a Steve che era incinta, lui ne sarebbe stato pateticamente felice. Lui stesso era un bambinone. Riusciva benissimo a immaginarselo sfrecciare per la stanza insieme al figlio, mentre giocavano a Superman e gli insegnava le mosse del wrestling. Per la prima volta, Juliet immaginò di essere nuovamente sposata, di avere un marito e di osservare sua madre e suo padre che emettevano dei versetti vezzosi da sopra la culla di un neonato. Lei reggeva un maschietto sul fianco, oppure stringeva la mano di una femminuccia. E poi si proiettò avanti negli anni, fino a vedere l’adolescente foruncoloso che avrebbe spezzato il cuore di sua figlia. L’orologio di Juliet suonò: il tempo di attesa prestabilito era terminato. Abbassò lo sguardo verso il bastoncino. Era negativo. 221/432 Pensava che sarebbe stata molto più sollevata di quanto in realtà non si sentisse. Capitolo quarantacinque Cherrylips, stamattina sento meno l’effetto dei farmaci e sono meno balbuziente.dimmi che stai bene, che la vita è bella e che il futuro riserva promesse e avventure,che hai delle speranze e dei sogni, che il sole che sorge ti porta gioia e che il suono delle risate ti riscalda. questo è ciò che vorrei sentirti dire.che quando pensi alle cose positive della tua vita ti accorgi che superano in numero tutto il resto, che i tuoi cari illuminano la tua vita.le cose importanti che rendono l’esistenza piacevole ed eterna.che la tua vita è un regalo per te e che il tuo futuro lungo e felice è una speranza per me. Nick Floz ricevette un’e-mail dopo tredici giorni di silenzio e il suo livello di gioia si impennò come il disco nel gioco del martello dopo che André il Gigante (il compianto lottatore di wrestling francese) aveva colpito la leva. Aveva cercato con tutte le sue forze di non apparire depressa quando era in compagnia di Juliet, specialmente dopo che la sua nuova amica le aveva chiesto apertamente se era contrariata perché Steve passava spesso la notte da loro. «Sei così giù di morale negli ultimi tempi, ci siamo chiesti se fosse questa la ragione», le aveva detto. «Oh no, per piacere non pensatelo neanche», disse Floz, turbata dall’idea che la vedessero come una musona. L’ultima cosa che voleva fare era smorzare l’entusiasmo nella relazione tra Juliet e Steve. «Che cosa mi dici della tua vecchia fiamma, Floz?», osò domandare Juliet. «Siete ancora in contatto?» «Sì, lo siamo», rispose Floz in modo pacato, con un sorriso amorevole, riportando però con fermezza la conversazione su Juliet. Era evidente che non fosse disposta a rispondere ad altre domande su di lui. «Sono contenta che tu e Steve facciate “coppia”. Quel ragazzo è così gentile». 223/432 «Non siamo una coppia». Juliet mise le cose in chiaro. «Si tratta solo di sesso. Niente di più». «Va bene, ti credo», sorrise Floz. «Ma di qualsiasi cosa si tratti, sembrate entrambi felici e io sono contenta per voi. Ovviamente non mi dà fastidio che lui passi le notti qui». Ed era la verità, non le dispiaceva. Desiderava poter avere quello che avevano loro. Tornare a scrivere a Nick aveva spalancato un portone nel suo cuore e desiderava ardentemente sentire le braccia di un uomo intorno a sé – nello stesso modo in cui Steve cingeva Juliet. Steve la guardava con gli occhi sgranati, tanto che Floz si meravigliava che quelle pupille così dilatate non esplodessero. E aveva un sorriso sdolcinato stampato in viso. E per quanto entrambi protestassero che non si trattava di una storia stabile, era abbastanza ovvio che nessuno dei due frequentasse l’altro solamente “per il sesso”. Mentre Floz rileggeva l’e-mail di Nick, quell’iniziale vampata di gioia si frantumò per terra. Nulla era cambiato, lui stava ancora morendo. Si sentiva come se un’enorme piaga che aveva dentro fosse stata punzecchiata fino ad aprirsi e sanguinare. Non voleva che lui soffrisse, voleva che fosse sereno, ma non voleva che morisse. Nulla di tutto ciò aveva senso. Nemmeno il fatto che il più grande amore della sua vita fosse un uomo che non aveva mai incontrato. Era sempre stata una donna assennata e pratica, eppure era così che erano andate le cose. E quando la malattia gli avrebbe fatto esalare l’ultimo respiro, lei si sarebbe forse sentita infedele se in futuro si fosse avvicinata a un altro uomo? Nick l’avrebbe forse osservata dal cielo e si sarebbe sentito ferito per il fatto che il suo cuore aveva voltato pagina? Bramava di avere qualcuno di reale, che fosse lì con lei e che la toccasse, la baciasse, l’amasse. Si sentiva scavata dentro, svuotata come una zucca di Halloween. Capitolo quarantasei Durante la domenica notte successiva, dopo un infernale turno al Burgerov, Guy si era seduto al piccolo tavolo del suo appartamento con un blocchetto, una penna e una calcolatrice. In qualsiasi modo facesse i conti, non sarebbe mai stato in grado di permettersi Hallow’s Cottage. Doveva scegliere tra il ristorante e la casa in campagna: gli serviva il ristorante e voleva la casa. In realtà non sussisteva alcuna gara o competizione, ma la sua testa e il suo cuore si facevano guerra a vicenda. Floz Cherrydale aveva risvegliato un drago dentro di lui, che non vedeva l’ora di togliersi di dosso la polvere che gli era caduta addosso negli ultimi anni e sfidare il mondo, fare colpo su di lei e conquistarla, a dispetto della vecchia fiamma di cui Juliet gli aveva parlato. Si sentiva pieno di fuoco e di passione nei confronti della vita. C’erano soltanto alcuni ostacoli da superare, come trovare all’incirca duecentomila sterline e convincere la donna dei suoi sogni a non detestarlo e ad abbandonare il piano di ritornare insieme all’uomo misterioso, chiunque fosse costui. Floz si svegliò nel cuore della notte, dopo aver sognato che Nick era disteso accanto a lei. Era stato un sogno così vivido e convincente che era riuscita a percepire la mano di lui sulla coscia, l’odore della sua pelle, che sapeva di una camminata autunnale dopo la pioggia. Era il profumo di Guy. Non aveva idea di quale odore avrebbe avuto Nick, forse sale e pino; in ogni caso, non l’avrebbe mai saputo, non gli avrebbe mai sfiorato il viso con le dita. Le lacrime iniziarono a rigarle le guance quando si rese conto che si trovava da sola nel suo letto e che l’unica fragranza sul cuscino era la propria. Si alzò per prendere dei fazzoletti. Era veramente stanca, ma aveva perso la capacità di dormire un sonno che fosse profondo e 225/432 rigenerante. Si diresse con passo felpato verso la cucina, si preparò un caffè decaffeinato e lo allungò con un bel po’ di brandy. Dopodiché, quando ebbe finito, se ne preparò un altro. Capitolo quarantasette «Come va la relazione di solo sesso?», chiese Coco quando il mattino successivo, come prima cosa, chiamò Juliet. «Bene», disse Juliet tirando su col naso con fare diffidente. «Ci stiamo divertendo moltissimo, nulla di più». Non menzionò il fatto che, a volte, Steve restava a dormire da lei senza che in realtà facessero sesso, e che stavano semplicemente accoccolati nel letto a sbaciucchiarsi e parlare. «Come sta Gideon? Ti sta tenendo lontano da me. Mi sono dimenticata che aspetto hai. Sei grasso e biondo con un piercing alle labbra?» «Va bene, mi arrendo. In ogni caso, ultimamente tu sei sempre insieme a Steve, signorina, quindi ti bastino cinque parole: fatti un esame di coscienza. Ora, ritorniamo a Gideon: è favoloso». Coco sospirò come fosse Judy Garland che si preparava a cantare Somewhere over the rainbow. «Mi piace sul serio, Ju. E anch’io credo di piacergli davvero. Almeno così ha detto. Ma sappiamo tutti che le parole sono vane». «Non tutti gli uomini sono fatti della stessa pasta», specificò Juliet. «Gideon potrebbe proprio essere la persona che non ti deluderà». «Spero sia così», commentò Coco, sorridendo. «Il sesso è perfetto». «Risparmiami i dettagli scabrosi», ribatté in fretta Juliet. «Lo farò se anche tu lo farai». Coco rabbrividì al pensiero di un uomo e una donna che facevano sesso. «E come sta l’adorabile Floz?» «Mmm, l’adorabile Floz. Questo sì che è un mistero». «Oooh», disse Coco, amante dei pettegolezzi. «Che cosa intendi?» «È tremendamente silenziosa in questo periodo e so che non dorme bene la notte, perché l’ho sentita alzarsi nelle ore più stupide per prepararsi da bere. In tutta onestà, sembra malata». 227/432 «Le hai chiesto qual è il problema?» «Certo che sì, e ha detto che non c’è nulla che non va». «Che cosa mi dici della misteriosa vecchia fiamma?» «Be’», Juliet si accertò che nessuno stesse origliando, «quando le ho chiesto di lui ha cambiato argomento». Attraverso la finestra, Juliet scorse Piers che usciva dalla sua grande BMW nera. L’automobile meno elegante della sua piccola flotta. «Sai che cosa penso? Che non si tratti di una vecchia fiamma, ma che sta parlando con qualcuno su internet. Ciò spiegherebbe perché va a letto così presto. O meglio, perché si ritira presto in camera sua. Inoltre credo che scriva a questo uomo misterioso per così tante ore che la mattina dopo è sfinita». Era l’unica soluzione possibile. Juliet era incredibilmente orgogliosa di se stessa per aver capito tutto. «Non ha senso», disse Coco, tirando su col naso. «È stata lei a sostenere che avresti dovuto tramutare il prima possibile una relazione virtuale in una reale. Quindi, perché non esce mai per incontrarsi con lui? E ciò non spiega perché sia così visibilmente depressa, o sbaglio?» «Mmm», rifletté Juliet. Be’, quelle obiezioni mandavano all’aria la sua teoria. Poi, osservò improvvisamente la faccenda da una diversa angolatura. «Hai ragione. Senti qua. Floz era irremovibile e non voleva iscriversi a singlebods.com con noi, ma sembrava che sapesse un sacco di cose a proposito degli appuntamenti online. Forse si imbarazza un po’ ad ammettere che si è iscritta a un sito del genere, dopo averne parlato con noi in maniera tanto critica. Forse sta facendo tutto quello che a noi ha detto di non fare, d’altronde tutti sappiamo quanto sia difficile seguire i nostri stessi consigli». «Forse», concordò Coco. «E probabilmente è giù perché si sente un po’ sola, vedendo te e Steve che ci date dentro, e Gideon e me andare così d’accordo dopo esserci conosciuti su internet; a tal punto che sta provando a vedere come procede con il tipo ma preferisce tenere tutto segreto. Oh, mi auguro che abbia trovato qualcuno di gentile». 228/432 «Oh cielo, no. Spero di non farla sentire esclusa. Le ho chiesto se fosse così e lei ha detto di no. E se non mi stesse dicendo la verità per non ferire i miei sentimenti? Devo scoprire che cosa le sta succedendo, Coco. Che cosa faccio?» «Devo andare, Ju. Ci penserò su e ti farò sapere. È appena arrivato l’agente di commercio. È molto bello». «Ehi, occhi bassi! Sei impegnato». «Lo so», ridacchiò Coco. «Ciao, tesoro». Juliet chiuse la telefonata e rifletté sugli enigmi che in quei giorni le tenevano la mente occupata. Prima di tutto, c’era sempre lo stesso mistero: che diamine di fine aveva fatto il suo ciclo? Capitolo quarantotto CL Oggi sono tornato a casa.l’assistenza domiciliare mi spaventa, sono stato seduto al mattino.dormivo mentre perdevo copiosamente il sangue dal naso e lei è andata nel panico quando è venuta a svegliarmi.ho un naso che sembra una torcia e un litro di globuli rossi come ricompensa.odio gli ospedali.avevo detto loro che sarei andato a casa ma ho dovuto aspettare fino a oggi per andarmene. N Floz lesse l’e-mail e tornò a immaginarsi l’omone, raccoglitore e cacciatore, delle sue foto, ridotto a dover subire tutte quelle umiliazioni mentre si aggrappava alle ultime briciole di dignità e indipendenza che a ogni ora scivolavano sempre più via da lui. Non riusciva nemmeno a scrivere i loro nomi per intero nel-l’e-mail. Si alzò dalla sedia e si allungò per prendere i fazzoletti sul davanzale. Fuori, dei bambini con dei cestini in mano camminavano in fila indiana all’uscita da scuola, a due a due, serpeggiando lungo la strada. Doveva esserci la festa del raccolto, pensò Floz, e probabilmente erano diretti alla chiesa con i loro doni di generi alimentari e frutta che avevano racimolato per i poveri della zona. Erano tutti imbacuccati per far fronte al vento tagliente che stava strappando le foglie rimaste sugli alberi, facendole turbinare in mulinelli contro i muri delle case. «Castagne, sto raccogliendo castagne, mi sto impegnando per trovare le più grandi e belle», canticchiavano. Il fatto di vederli fece nascere nel cuore di Floz una leggerezza di cui aveva un disperato bisogno. Poi Lee Status (grazie al cielo) le telefonò e la ricondusse completamente al tempo presente quando le chiese se sarebbe riuscita a scrivergli, entro la fine della giornata, dieci battute a proposito delle tette. Capitolo quarantanove Piers Winstanley-Black studiò Juliet mentre lei era intenta a cercare un documento nell’armadietto. Lavorava per lui da oltre quattro anni, ma solo di recente l’aveva davvero notata. Piers non avrebbe detto che Juliet corrispondesse fisicamente al suo solito modello di donna, ovvero una ragazza magra come un chiodo, bionda e con tette enormi. In genere la personalità si trovava molto in basso nella sua lista delle priorità. Si stava annoiando a morte a frequentare sempre ragazze di quel tipo però. C’era poco brivido nella conquista: davano uno sguardo al suo Rolex o a una delle sue lussuose macchine e calavano all’istante le loro mutandine. E ogni forma di orgoglio concessagli da quei bellissimi trofei che scortava nei ristoranti aveva una vita altrettanto breve. Uscire a cena con una donna che pensava che Puccini fosse il nome di un cocktail da aperitivo non era più neanche molto divertente. Non riusciva a capire perché non avesse considerato prima Juliet come potenziale compagna. Aveva il pacchetto completo: un corpo come quello della Dea Madre, un seno favoloso e delle gambe lunghe e armoniose, capelli neri folti e lucenti, labbra rosse e carnose e scintillanti occhi grigio ardesia. Si vestiva in modo magnifico, trasudava sicurezza sessuale e aveva un sorriso sfrontato, con quella sua fessura tra i denti davanti. Era inoltre brillante, intelligente e professionale. E, ultimamente, gli rivolgeva degli sguardi disinteressati che gli facevano venire voglia di conquistarla per tornare a vedere quell’adorazione che le aveva letto negli occhi fin da quando le si era presentato come il suo nuovo capo. Erano in ufficio da soli. Lui aveva deliberatamente atteso che Daphne e Amanda fossero a pranzo prima di andare nell’ufficio di lei con il pretesto di cercare un documento che sapeva trovarsi sulla sua scrivania, al piano di sopra. 231/432 «Ehm, Juliet?», la chiamò. Lei non rispose, un altro atteggiamento che lo fece lievemente eccitare. «Juliet!». «Oh sì, scusa, Piers», gli disse, rivolgendogli un sorriso. Era però un sorriso da dipendente, non quello “solito”, a cui si era abituato. «Stavo pensando: sei impegnata giovedì sera?» «Giovedì?». Oh cielo, Juliet sperava che non le avrebbe chiesto di lavorare fino a tardi. Stava pensando di domandare a Steve se aveva voglia di andare al cinema per vedere quel nuovo film d’azione di cui le aveva parlato in modo entusiasta. «Non lo so». Faceva la difficile. Accidenti. Avrebbe dovuto persuaderla. «Mi chiedevo se avessi voglia di uscire a cena con me». Dannazione. Juliet proprio non se l’aspettava. Cena. Con Piers Winstanley-Black! L’aveva atteso più di quanto la bella addormentata avesse fatto per il suo principe. «Sarebbe meraviglioso», rispose lei, mantenendo un tono distaccato, calmo e pacato, senza provare il benché minimo desiderio di correre per la stanza urlando “Sììì” come aveva immaginato avrebbe fatto se si fosse mai trovata in quella posizione. «Pensavo che potremmo provare quel nuovo ristorante vicino a Huddersfield. Il Four Trees». «Il Four Trees!». Juliet si sforzò di non balbettare in modo troppo evidente. Il Four Trees era un ristorante chic e molto costoso, e la lista d’attesa per ottenere un tavolo era lunga di settimane, se non mesi, per chiunque non conoscesse qualcuno in grado di ungere le maniglie giuste. Il capocuoco si era formato presso Raul Cruz, il celebre superchef spagnolo che faceva assomigliare il migliore sulla piazza al cuoco di una mensa. «Fantastico». «Il mio autista ti passerà a prendere, così possiamo bere insieme un bicchiere di vino», disse Piers. «Credo mi piacerà cenare con te, Juliet». «Sì, sarà indubbiamente molto piacevole», disse Juliet, tornando a focalizzare la sua attenzione sul documento e chiedendosi perché, 232/432 dopo un’iniziale euforia sia fisica che mentale, la prospettiva di un appuntamento con l’uomo dei suoi sogni non fosse eccitante neanche la metà di come era sempre stata la lunga attesa. «Sei sotto shock, è questo il motivo», le disse Coco più tardi al telefono dell’ufficio. «Non pensavi che sarebbe mai accaduto e la tua mente non riesce a elaborare il fatto che invece è successo». «Io, a cena con Piers Winstanley-Black! Juliet Winstanley-Black. La signora Winstanley-Black». «E poi sostieni che sono io quello avventato», disse Coco. «A ogni modo, ascoltami: ti ho telefonato per darti alcune informazioni. Indovina chi mi ha appena mandato un messaggio?» «Il Papa? Deirdre di Coronation Street, la telenovela? Non lo so… stupiscimi». «Darren», disse Coco con gioia. «Darren? Lo stesso Darren che è svanito nel nulla?» «Sì!». «Che cosa ha detto?» «“Ciao, come stai? Mi sei mancato”». «Non così tanto da alzare quel cavolo di telefono», sbuffò Juliet. «Spero tu gli abbia detto di andare a quel paese». «No», disse Coco con un sorriso ampio e alquanto compiaciuto. «Gli rendo il trattamento del silenzio e lo ignoro». «Buon per te», disse Juliet, meravigliata. «Riprendi in mano il controllo della situazione e non dare spazio a quel bastardo». «Cosa incredibilmente facile, visto che ormai c’è Gideon nella mia vita», fece Coco con un sospiro soddisfatto. «Ieri sera mi ha portato dei cioccolatini e dello champagne, insieme al DVD di Un amore splendido che abbiamo guardato dall’inizio alla fine. È stata una serata davvero piacevole. Comunque, parliamo meno di me e più di te: che cosa indosserai per il tuo grande appuntamento? Qualcosa di nero e sofisticato? Vuoi che domani venga con te a caccia di un vestito?» 233/432 «Sì, grazie», lo supplicò Juliet. Cambiò posizione sulla sedia e, dato che aveva il cellulare nella tasca posteriore dei pantaloni, mise in pratica il suo abituale scherzetto e chiamò il numero uno della selezione rapida, cosa che faceva esasperare Coco, il quale arrivava al punto di obbligarla a togliere il suo numero dal menu di selezione. Tuttavia, in quel momento era Steve il suo attuale numero uno e quando il telefono gli vibrò in tasca, Steve rispose e si rese subito conto che Juliet l’aveva chiamato per sbaglio. Stava parlando con qualcun altro a un telefono fisso, a giudicare dal fatto che poteva sentire solo metà della conversazione. «Lo hai detto a Steve?», chiese Coco. «Ancora no. In ogni caso, l’accordo era che saremmo stati insieme soltanto finché io non avessi conquistato Piers o lui quella tale Lambrusco. Ovviamente, glielo dovrò dire prima di uscire con Piers giovedì». «Sì», ribatté Coco. «Suppongo che tra voi dovrà finire se tu esci con il capo». «In ogni caso non sono mai “uscita” con Steve, si trattava solo di sesso. Lui lo sa e io lo so», disse Juliet. «Non potrei seriamente pensare di avere una relazione stabile con uno come Steve Feast, per l’amor del cielo. È un deficiente». «Sei un po’ troppo dura», disse Coco. «Ho sempre pensato che non fosse male nemmeno la metà di come lo dipingevi tu. E poi ricordati quello che ha fatto per tuo fratello quando ha avuto bisogno di un amico». Juliet non lo ammise con Coco, ma anche lei sapeva di essere stata un po’ troppo dura. Si stava affannando a negare e non riusciva a capirne il vero motivo. Steve riattaccò il cellulare. Avvertì un dolore acuto al petto che gli si diffuse per tutto il corpo, fino a che non ne fu sopraffatto. Non sapeva perché era così a pezzi a causa di quello che aveva appena sentito. Sapeva che Juliet aveva sempre sostenuto che lui fosse un deficiente e le regole erano state ben chiare fin dal primo minuto: il 234/432 loro era un accordo di “solo sesso”, e per di più era provvisorio. Non aveva imparato nulla di nuovo sentendola parlare al telefono. Forse era giunto il momento di fare un giro di prova su quella Mercedes e di provarci seriamente con Chianti Parkin, andando all’attacco armato di tutto il suo fascino e di un’automobile costosa. Dimenticandosi così, una volta per tutte, di quella stramaledetta Juliet Miller. Capitolo cinquanta Quando Juliet ricevette il brusco messaggio da parte di Steve che le comunicava che non sarebbe andato da lei quella sera dal momento che era troppo impegnato, cercò di non ammettere con se stessa di aver avvertito una pugnalata di delusione. Nelle tre settimane che erano seguite al loro accordo di fare “solo sesso”, Juliet lo aveva visto ogni giorno e aveva dato per scontato che tutto sarebbe continuato così. Ma ora le sembrava che lui fosse diventato freddo nei suoi confronti, e ciò le forniva il pretesto necessario per dimenticarsi di lui e concentrarsi sul grande appuntamento. Si chiese perché Piers Winstanley-Black avesse improvvisamente puntato i riflettori della sua attenzione su di lei e se fosse perché lei aveva distolto i propri da lui. Una volta che Darren si era reso conto che Coco non lo desiderava più ardentemente era tornato alla riscossa con la coda tra le gambe. Ci sarebbe stato molto da commentare a proposito del vecchio adagio: «Trattali male e ti correranno dietro». Si trattava solo di un gioco. Sarebbe stato bello avere una relazione stabile, saltando a piè pari tutte quelle seghe mentali che le storie amorose si portano inevitabilmente dietro. Quel pomeriggio, Piers le aveva perfino portato un caffè, con somma gioia di Daphne e Amanda, che mimavano baci da dietro la schiena di lui. Inoltre, quel giorno Piers sembrava bighellonare nei paraggi del suo ufficio, lasciandosi sfuggire alcuni complimenti adulatori a compensazione di tutti gli anni trascorsi a ignorarla. Juliet ne era incredibilmente lusingata. Telefonò a Floz e le chiese se le andava di ordinare del cibo cinese insieme a Coco, poiché desiderava festeggiare la notizia del suo imminente appuntamento. Alla Grande Muraglia, ti davano quattro menu al prezzo di dieci sterline, inclusa la consegna. Poi, ci mancò poco che telefonasse a Steve. Si fermò giusto in tempo, mentre si 236/432 chiedeva che impegni tanto dannatamente importanti avesse per quella sera. «Saremo cooosì sazi, visto che dovremo dividerci quattro menu in tre», disse Coco, mentre si distendeva sul divano di Juliet in pose che lo facevano assomigliare a un gatto siamese, un gatto che però indossava dei jeans dal cavallo basso e camicie molto costose. «No, non lo saremo. Ho invitato Guy per pareggiare i numeri», disse Juliet. «Guy?», le fece eco Floz. “Ottimo”. Si chiese se avrebbe provato a salutarla con un bacio e, in caso affermativo, su quale punto del suo viso sarebbero atterrate le sue labbra. Poi si chiese perché si stesse ponendo quelle domande e cercò di scacciare simili pensieri dalla propria mente. «Brindiamo al mio appuntamento con il bellissimo Piers Winstanley-Black», annunciò Juliet, proponendo un brindisi per se stessa mentre alzava un calice di vino bianco Zinfandel. «Lo hai già detto a Steve?», chiese Floz. «No», rispose Juliet, senza riuscire a celare l’irritazione nella voce. «Avevo intenzione di dirglielo questa sera, ma mi ha mandato un messaggio per dirmi che è impegnato». Steve aveva parcheggiato fuori dalla palestra di Little Derek con la Mercedes sportiva più o meno nuova che gli avevano noleggiato per una settimana a un prezzo ribassato, così da invogliarlo all’acquisto. Sentiva l’esigenza di scacciare i pensieri di Juliet e Piers Angus-Black dalla sua mente allenandosi con dei pesi spropositati. Tuttavia, non servì a granché, in quanto loro erano ancora lì nei suoi pensieri e si stavano scambiando dei sorrisi, seduti al tavolo di un raffinato ristorante. In ogni caso, il destino doveva essere evidentemente dalla sua parte, perché mentre faceva scattare la serratura della portiera, la piccola ed elegante Spitfire di Chianti girò l’angolo e parcheggiò 237/432 dietro al suo paraurti. Attraverso il parabrezza, Steve vide le labbra di lei formare un «Caspita». Accidenti, un tempismo veramente perfetto. «Ciao, Chianti», disse Steve, intanto che osservava le gambe lunghe e longilinee di lei che si distendevano per uscire dalla macchina. «Come stai?» «Ciao, Steve», disse Chianti. Finalmente, pronunciò il suo nome con una traccia di interesse. «Questa è la tua nuova macchina?» «Oh, sì», disse Steve, esibendo la stessa indifferenza che si era spesso esercitato a praticare davanti allo specchio nell’eventualità che quel giorno arrivasse. «L’ho appena ritirata». Chianti osservò Steve, cercando di contestualizzarlo. Era bello e aveva un corpo fantastico, lo aveva sempre pensato, ma non lo faceva abbastanza ricco da permettersi una macchina del genere. All’improvviso, Steve Feast era diventato interessante. E al momento non c’era nessun altro all’orizzonte. «È comoda?», chiese, per poi toccare il cofano con le lunghe dita curate. «Molto», disse Steve. «Quindi, dove mi porti questo venerdì?», chiese Chianti, mentre scuoteva con fare provocante i lunghi capelli biondi e si mordeva il labbro. «Dove ti porto v… venerdì?». “Cribbio”, pensò Steve. Era stato più facile di quanto si fosse immaginato. «Ehm. Che ne dici di provare la cucina tailandese del Sole al Tramonto? È un posto carino». «Va bene. Ci vediamo qui alle sette». «Sì, nessun problema», disse Steve, con un’apparente freddezza che celava il caos che si era impossessato della sua mente. Cielo! «Vieni in palestra?», chiese Chianti. «Ci sono appena stato», disse Steve. «Per oggi ho già fatto la mia razione di pesi». Poi contrasse il massiccio bicipite verso di lei, che tornò a sgranare gli occhi. Sembrava che avesse visto Steve per la prima volta. Le pupille nere di Chianti si erano dilatate rivelando il suo apprezzamento. «Allora ci vediamo venerdì». 238/432 «Ciao, Steve», sorrise Chianti, mentre sbatteva le lunghe ciglia finte come fossero le ali di un pipistrello. Dopodiché, entrò in palestra con fare pomposo, e quando la porta si chiuse dietro di lei Steve strinse i pugni in segno di vittoria. La prospettiva di Chianti Parkin nella sua macchina e al suo braccio gli avrebbe fatto dimenticare Juliet in un batter d’occhio. Le avrebbe telefonato per comunicarle che stava per mettere fine alla loro relazione di “solo sesso” prima che lei avesse l’opportunità di riferirgli del suo appuntamento di giovedì con Winstanley-Black. Sperava che la soddisfazione che ne avrebbe tratto avrebbe alleviato l’intenso e opprimente dolore che dimorava nel suo petto. Juliet stava guardando il menu del cinese e si stava chiedendo perché lo stomaco le stesse brontolando e perché, allo stesso tempo, avesse una nausea infernale. Perfino il pensiero del manzo croccante piccante, il suo piatto preferito, non le faceva venire affatto l’acquolina in bocca. «Probabilmente hai i nervi tesi per giovedì», disse Coco. «Io non mi innervosisco», precisò Juliet. «Come ben sai». Poi agitò il vino nel suo bicchiere. Non si sentiva nervosa. «Perché non hai portato Gideon con te?», chiese Floz. «Non vedo l’ora di incontrarlo. Sembra affascinante». «Non esiste», rise Juliet. «È un prodotto dell’immaginazione sessualmente frustrata di Coco». «Esiste eccome», fu la risposta di Coco. «Lavorerà tutta la notte nel tentativo di riparare il sistema operativo di un computer in un ufficio, per non interrompere la loro giornata lavorativa. È un ragazzo veramente dedito al lavoro. Anche questa è una novità per me. Di solito finisco con dei furfanti svogliati». «E tu ci credi che lavorerà per tutta la notte?», lo prese in giro Juliet. «Certo che sì, maliziosa!». Coco le diede una pacca sul braccio. «Sa che in passato sono rimasto scottato, per cui mi telefona spesso per rassicurarmi. È davvero paziente e premuroso». 239/432 «Credo che questo Gideon mi piacerà soltanto quando, finalmente, lo vedremo», ammiccò Juliet. «Vedi? Non ci sono solo degli svitati su internet». Coco rivolse uno sguardo furtivo in direzione di Floz per vedere se avrebbe reagito a quella sua affermazione. Floz non ebbe nessuna reazione. O invece sì? Il modo in cui teneva gli occhi incollati al menu sottolineava un’assenza di riscontro che poteva essere benissimo interpretata come una reazione. Il citofono suonò e Floz trasalì. Era Guy, e lei ebbe un fremito di turbamento. Juliet gli aprì la porta; a giudicare dal tempo che impiegò doveva aver salito gli scalini dieci alla volta. “Chiaramente non li sta salendo di corsa per me”, pensò Floz. Indossava un paio di jeans e un’elegante camicia rosa, che gli sottolineava le larghe spalle. Floz desiderò che l’avessero avvertita del suo arrivo. Si sentiva trasandata nei suoi comodi fuseaux e nell’ampia maglietta grigia con delle stupide fragole rosse stampate sopra; ma a Juliet potevano sorgere dei dubbi se si fosse andata a cambiare. In confronto alla sua nuova amica, Hercule Poirot era uno sprovveduto qualunque. «Ciao, caro», urlò Coco, e poi gli mandò dei baci emettendo un paio di smack. «Ciao, Coco. Ciao, Floz». Guy salutò timidamente con la mano. “Bene”, pensò Floz. Dunque, non l’avrebbe salutata con un bacio. Gli occhi di lei furono attratti dalla bocca di lui mentre diceva qualcosa a Juliet. Sembravano soffici come quando lui l’aveva inavvertitamente baciata, con un accenno di caffè e di whisky nell’alito. “Per l’amor del cielo, torna in te, Floz”. Era davvero scombussolata. Forse era colpa di quel sogno in cui Nick e Guy si fondevano in un’unica persona. Doveva sforzarsi di separarli, e in fretta. «Mi sa che sto per ammalarmi», disse Juliet con una smorfia, mentre si asciugava la fronte sudata. 240/432 «Sei stata nei pressi di qualche scuola?», le chiese Coco. «Forse ti sei presa uno di quei germi che aleggiano costantemente lì nei paraggi». «Sì, in effetti mi piace aggirarmi vicino alle scuole, Coco. È un’abitudine che devo assolutamente perdere». Coco rifletté per un momento, poi scoppiò a ridere di cuore. «Va bene, hai vinto tu. Non riesco a immaginarti vicino a nessuna scuola». «A proposito di scuole, forse vi verrà da ridere, ma sappiate che ho fatto un test di gravidanza questa settimana», disse Juliet, provocando notevoli manifestazioni di stupore in Coco, Guy e Floz. Poi sollevò le mani per contenere le domande ancor prima che arrivassero. «Non preoccupatevi, era negativo, quindi nessuno deve dire niente a Steve. Però il mio ciclo è in ritardo». «Menopausa?», suggerì Coco. «Stronzetto sfacciato!», disse Juliet. «Non sono preoccupata. Credo mi stia per arrivare perché ho il seno veramente indolenzito». Floz percepì un rossore insinuarsi sul suo viso. Si sentiva in imbarazzo a parlare di seni e cicli mestruali con Guy nella stanza. Non che a lui sembrasse importare qualcosa; evidentemente ci era abituato. Un Heathcliff in particolare sintonia con il suo lato femminile? Molto improbabile. In ogni caso, Coco non era a suo agio a discutere di quell’argomento. «Oh, per piacere!». Si coprì le orecchie. «Scegli dal menu, per favore, e ordiniamo. Nonostante sia parecchio affamato, rischi di disgustarmi con i tuoi ripugnanti discorsi a proposito del ciclo». «Hai mai saltato un ciclo, Floz?», chiese Juliet, ignorandolo. Floz deglutì. «Magari è tutta colpa dell’agitazione o dello stress», disse, fissando intensamente il menu. «Forse se smetti di pensarci ti… arriverà». «Va bene», concordò Juliet. «Ci proverò. Avete tutti un menu? Bene, allora ordiniamo». Il cibo arrivò venti minuti dopo, esattamente quando Coco aveva terminato con il suo monologo su Darren, che gli aveva inviato 241/432 svariati messaggi nella speranza di farsi perdonare e avere un’altra opportunità. Era una storia tragica, ma Coco la raccontò gesticolando in modo così plateale che tutti scoppiarono a ridere. Inoltre, era uscito da quel luogo buio in cui Darren l’aveva relegato per un po’ e adesso era felicemente impegnato con Gideon. Guy era ben contento di starsene seduto in disparte, lasciando Coco al centro dell’attenzione. In questo modo sarebbe per lo meno riuscito a godere appieno della gentile presenza di Floz, senza dover aprire la bocca e correre il pericolo di turbarla. Sapeva che rischiava di essere scambiato per una persona noiosa per il fatto che se ne stava zitto, ma lo preferiva all’eventualità di allontanarla ulteriormente. Juliet non voleva sembrare una guastafeste, per cui si sforzò di mangiare un po’, ma il suo stomaco non sembrava apprezzare. «Che cosa avete che non va, ragazze?», osservò Coco. «Sembra che non abbiate nemmeno toccato quello che avevate nel piatto. Hai le guance abbastanza scavate, Floz. Sei dimagrita ancora, vero? La mia cacchio di mano sinistra pesa più di te al momento, ragazza. Prenditi un po’ di quel riso fritto. È un ordine». «A dire il vero, sono piena», disse Floz, consapevole di avere attirato anche l’attenzione di Guy. «Va tutto bene, tesoro?», insistette Coco, nella speranza che Floz confessasse i suoi segreti dopo un po’ di blanda persua-sione. «Sto bene, Coco». «Non è che lavori troppo? Sembri un po’ stanca. Non è vero, Guy?». E poi guardò Guy per conferma. Guy aveva paura di commentare, dato che in presenza di Floz diceva sempre qualcosa di sbagliato. Si limitò quindi ad annuire, il che fu ugualmente incriminante. «Oh, davvero?», Floz deglutì. Credeva di aver fatto un buon lavoro con il trucco nel coprire i cerchi neri sotto gli occhi. Evidentemente non era così. «Ti serve un bel massaggio. È così che mi rilasso io quando sono stressato», disse Coco. 242/432 «Un tempo Guy ha fatto un corso di massaggi», si intromise Juliet. «Un corso intensivo in fisioterapia dello sport», la corresse Guy, preoccupato della piega che stava per prendere la conversazione. «Vero, ma i massaggi facevano parte del corso», lo rimbeccò Juliet. «Perché non…». «Sto bene!», intervenne Floz. Non riusciva a immaginare le mani di Guy Miller intorno al suo collo. Era più probabile che l’avrebbe strangolata piuttosto che massaggiata. «Dormi bene ultimamente?», continuò Coco. “Alla faccia di chi voleva sommergerla di lusinghe”, pensò Juliet, lanciandogli un’occhiata di ammonimento. Coco stava riuscendo a far sembrare lei subdola. «Bene», annuì Floz. «Dormo bene». Si sentì avvampare sotto gli sguardi attenti di tutti. «Tutta la notte?», chiese Coco. «Per l’amor del cielo», sbottò Juliet. «Sei stato reclutato dall’MI5?» «Sono semplicemente preoccupato per la mia amica», disse Coco. «Non si tratta di problemi con un uomo, vero? Juliet ha detto che una vecchia fiamma è tornata di recente nella tua vita». Juliet diede un calcio a Coco sotto il tavolo. «Non stavamo spettegolando su di te», aggiunse Coco in fretta. «Ju me l’ha solamente accennato, perché… be’, lei mi dice tutto». Le guance di Floz avevano attraversato tutte le gradazioni di rosa ed erano al momento di un rosso fluorescente. Si alzò talmente in fretta che per un secondo le sembrò di svenire. «Qualcuno vuole del caffè?», disse in modo affannato. «Vuoi che ti dia una mano?», chiese Guy. «No, grazie», rispose Floz con un tono sincopato e sulla difensiva. «Credo di riuscire a preparare il bollitore». «Complimenti, Coco», sussurrò Juliet, quando furono sicuri che Floz fosse fuori portata d’orecchio. «Ci sei andato giù duro». 243/432 «Ho gestito il tutto in modo sbagliato, vero?», sospirò Coco, intanto che si sventolava una mano davanti al viso. «Mi odierà?» «Non credo che ne sia capace», disse Guy, con un tono di voce un po’ troppo alto. Floz lo sentì e si chiese che cosa non fosse capace di fare. Dormire bene? Mangiare una porzione intera di riso? Trovare qualcuno che la amasse? Scommise che si trattava di quell’ultima opzione. Desiderò non aver menzionato affatto la sua “vecchia fiamma”, perché era ovvio che Juliet avesse fatto la spia in merito. Era inoltre evidente che ne avevano spettegolato tutti insieme, chiedendosi che cosa stesse succedendo nella sua vita amorosa, e magari domandandosi perché non si incontrava mai con la sua “vecchia fiamma”; forse ne mettevano addirittura in dubbio l’esistenza – proprio come avevano scherzato riguardo a Gideon. Floz sfoderò un sorriso smagliante e impavido e portò i caffè in salotto, per scoprire che l’atmosfera al tavolo si era fatta più densa della salsa di Grainne. Coco era preoccupato di aver turbato Floz, Guy desiderava soltanto che il pavimento si spalancasse per inghiottirlo, poiché era consapevole di aver completamente sprecato l’ennesima occasione di brillare agli occhi di Floz, mentre Juliet voleva semplicemente andarsene a letto. Juliet fu svegliata da un’ondata di nausea nelle prime ore del mattino. Mentre si dirigeva al bagno, tornò a notare uno spiraglio di luce che usciva dalla fessura sotto la porta della stanza di Floz. Si avvicinò in punta di piedi e appoggiò l’orecchio alla porta. Floz era senz’altro sveglia e stava scrivendo al portatile. «Floz, sei sveglia?», le chiese, e poi bussò con delicatezza alla porta. «Sto semplicemente sbrigando un po’ di lavoro», gridò Floz, con una voce nasale che cercò di camuffare tossendo. «Vuoi del caffè?» «No, sono a posto, grazie. Stavo per spegnere il computer perché ora sono stanca. Buonanotte, Ju». 244/432 La mano di Juliet si allontanò dalla maniglia. Sapeva che se avesse aperto la porta avrebbe trovato Floz a piangere. Ma sarebbe stato crudele da parte sua metterla alle strette in quel modo, specialmente dal momento che era ovvio che desiderasse essere lasciata da sola. E Juliet si sentiva troppo fragile e stanca per irrompere dentro come un agente del corpo speciale delle forze armate britanniche facendola saltare in aria qualsiasi cosa stesse facendo. «Buonanotte allora, Floz. Dormi bene». Dietro la porta, Floz spense la stampante. Stava tagliando e incollando tutte le e-mail ricevute e inviate a Nick, aveva cambiato i caratteri scegliendo uno stile più carino, così da poterle stampare su carta increspata color avorio, per poi piegarle e conservarle come fossero vere e proprie lettere, piuttosto che e-mail. Il loro posto era in una scatola dei ricordi, decorata con un fiocco, e non dentro una chiavetta USB. Era stanca morta, ma sapeva che non avrebbe dormito senza un po’ di aiuto. Estrasse una bottiglia di brandy mezza piena dal cassetto della sua scrivania e bevve a gran sorsi attaccandosi direttamente al collo. Capitolo cinquantuno Il mattino seguente Juliet si sentiva meglio, anche se non appena ricevette il messaggio di Steve dovette ricredersi. “Indovina un po’? Venerdì esco con Chianti. Mi dispiace di non riuscire a vederti in questi giorni, lavoro di sera”. Un’improvvisa rabbia la travolse e si diffuse velocemente per tutto il suo corpo. Compose con foga il proprio messaggio di risposta. “Non preoccuparti, anch’io sono impegnata per cui non saremmo comunque riusciti a vederci. Giovedì esco a cena al Four Trees con Piers WB. Alla fine è andato tutto secondo i piani. Buona fortuna per il tuo appuntamento”. Nemmeno lei gli inviò dei baci alla fine del messaggio. Non riusciva a credere di avere le lacrime agli occhi quando spinse Invio. Si sentiva stupidamente turbata ed emotiva. «Steve non può uscire con me questa settimana», disse Juliet rivolgendosi a Coco, nel tono più asettico possibile, mentre erano a caccia di vestiti da Next. «Dice che sta lavorando e che venerdì uscirà con Chianti». «Be’, è una coincidenza, o sbaglio?», esclamò Coco, reggendo davanti a Juliet sia un sobrio vestito nero che uno scintillante abito rosso. «State seducendo entrambi i partner dei vostri sogni nella stessa settimana». «Non riesco a capire che cosa ci veda in Chianti Parkin», commentò Juliet, strappando il vestito rosso dalle mani di Coco per poi dirigersi verso i camerini. «È una sciocca Barbie di plastica». «Non sarai gelosa, vero?». Coco sorrise compiaciuto. «Di Chianti?» «Di Steve che conquista Chianti, intendo». 246/432 «Ma per piacere!», rise Juliet, e poi sparì nella cabina con l’audace abito scarlatto. «Steve Feast è un deficiente. Non l’ho forse sempre sostenuto?». Capitolo cinquantadue Guy fece irruzione nel suo ufficio e chiuse la porta della cucina prima di uccidere Igor o Stanislav. Entrambi avevano i postumi di una sbornia e non sarebbero serviti a nulla. E, come se non bastasse, era palese che avessero fatto a botte con qualcuno, oppure tra loro, a giudicare dai lividi e dalle ferite sui loro volti. Era esattamente ciò di cui aveva bisogno dai camerieri di sala quando dovevano servire un pranzo aziendale a venticinque persone. Si accasciò sulla scrivania e si prese la testa tra le mani. In che diamine si era andato a invischiare? Un ristorante sciatto con personale imbecille. Non era sicuro di avere l’energia necessaria per riuscire a tramutare quella discarica in qualcosa di speciale. Un altro sogno da aggiungere agli altri due che erano fuori dalla sua portata: Hallow’s Cottage e Floz. Bussarono timidamente alla porta. «Entra», sbraitò, nella speranza che non si trattasse di nessuno con un occhio pesto, perché sarebbe benissimo potuto andarsene di lì con un altro occhio nero. «Ciao», disse una voce allegra. Gina aprì la porta dando uno spintone con il suo sedere snello, dato che reggeva una tazza in una mano e una manciata di lettere nell’altra. «Ho pensato che ti potessero servire», disse con un ampio sorriso e con quei suoi occhioni blu, posando davanti a lui un caffè nero e fumante. «Grazie, Gina», rispose Guy. Almeno c’era qualcuno su cui poteva fare affidamento in quel posto. «Ho telefonato all’agenzia e mi hanno detto che ci manderanno un paio di cameriere. Igor può lavorare nel retro con noi. Dovrò mandare a casa Stanislav. Ha appena vomitato sugli scalini sul retro». 248/432 «Grazie, Gina», disse Guy con tono spossato. Non aveva avuto le forze di pensare a qualcosa di più innovativo. «Beviti questo caffè e prenditi una pausa». Gina gli consegnò la posta. «Non si sa mai, spulciando tra queste lettere potresti scoprire di essere il vincitore di un generoso premio», rise. «Magari», disse Guy. Lui le sorrise, sinceramente grato per tanta cordiale efficienza. «Che cosa farei senza di te?». Gina non rispose. Tornò invece in quella cucina infernale e sospirò. Non appena le fosse capitata un’occasione buona con Guy Miller, si sarebbe assicurata che lui non potesse più fare a meno di lei. Il suo aspetto ricordava la calma placida di un lago, sotto la cui superficie si nascondevano però delle acque profonde e vorticose, pronte a risucchiarlo a fondo. Lo avrebbe fatto suo e tenuto per sé, anche se sarebbe stata l’ultima cosa che avrebbe fatto. Guy aprì la prima lettera. Era l’avvocato che lo avvisava che il perfezionamento della vendita del ristorante sarebbe avvenuto prima di quanto inizialmente previsto. “Fantastico”, pensò Guy. Era proprio quello che aveva bisogno di sapere: nel prossimo futuro avrebbe portato sulle proprie spalle il pesante fardello di Kenny. La seconda era una grande busta contenente un fascicolo di fogli rilegati, inviatogli da una società di progettazione d’interni che si offriva di trasformare il Burgerov da catapecchia a reggia. Era evidente che avessero svolto i compiti per casa, e che a un certo punto avessero scattato di nascosto alcune foto degli interni del ristorante, per poi abbozzare una loro concezione di come avrebbero potuto migliorarlo. Guy rimase a bocca aperta. Sembrava che gli avessero letto nel pensiero e scorto la sua visione ideale, che corrispondeva a quel bellissimo ristorante di Firenze. Pesanti tendaggi alle finestre, tranquille tonalità di panna e verde, pareti stuccate, fiori alti al centro dei tavoli – era il Burgerov che così tante volte aveva concepito la sua fantasia. Le loro immagini erano sensazionali. In particolare per 249/432 merito dei camerieri sbarbati, privi di cicatrici e sorridenti che avevano abbozzato. Grazie a quel caffè e a quei disegni, Guy si sentiva nuovamente rinvigorito. L’esperienza relativa al Burgerov sarebbe presto stata confinata nella parte della sua mente in cui imprigionava tutti i ricordi peggiori. Un sogno, almeno, era a portata di mano. Guy Miller si era rimesso in gioco. Capitolo cinquantatré Quello stesso giovedì Steve si alzò presto, dopo aver trascorso un’agitata notte di sonno. Aveva da svolgere un lavoro piuttosto semplice d’intonacatura su una parete di un pub, e quindi non gli era mancato certo il tempo per pensare al fatto che quello era il gran giorno di Juliet e Piers. Si reputò fortunato ad aver terminato presto perché quella sera aveva un incontro di wrestling. Si fermò al Burgerov lungo la strada verso casa. Aveva bisogno di sfogarsi altrimenti sarebbe impazzito per via di tutti i possibili esiti di quell’appuntamento che gli ronzavano nella mente. «Non capisco che cosa ci veda in lui», disse Steve, seduto su uno sgabello in cucina, mentre Guy realizzava come per magia la sua favolosa maionese, preparandola da zero, con dei colpi di frusta apparentemente semplici. «Be’, se si fa eccezione per la macchina grossa, la casa grande, il lavoro brillante, il libretto degli assegni della banca più prestigiosa d’Inghilterra e i vestiti firmati. E credo anche che sia di bell’aspetto. Inoltre la porta al Four Trees. Cioè, doveva proprio portarla nel ristorante più dannatamente chic della contea?» «Ancora per poco», lo corresse Guy. «Presto il ristorante piùchic della contea sarà questo». Sospirò mentre con la coda dell’occhio scorgeva Varto intento a mandare a puttane un cocktail di gamberi. «Ovvio, è proprio questo che intendevo», disse Steve; aveva un aspetto piuttosto cupo, sebbene avesse conquistato il non plus ultra delle bionde dalle gambe lunghe, ossia Chianti Parkin. «Juliet come ha preso la notizia di te e Chianti?», chiese Guy. «Mi ha augurato buona fortuna. Davvero, mi ha augurato buona fortuna!», disse Steve, gettando in alto le mani in segno di incredulità. «Be’, è positivo, no? Entrambi avete voltato pagina nello stesso momento. Voglio dire, da quanto tempo è che provi a farti notare da 251/432 Chianti? E ora l’ha fatto. Quindi perché ti ossessioni ancora per Juliet e il suo capo?» «Non sono ossessionato!», protestò Steve. «È solo che non riesco a capire come faccia a piacerle. Ama lui e pensa che io sia un cretino». «Steve, smettila di pensare a Juliet ed esci con Chianti Parkin. Quanti litri di saliva hai versato per lei? Be’, ora quella ragazza vuole andare a cena con te». «Sì», disse Steve con la voce di uno che aveva appena firmato la propria condanna a morte, piuttosto che aver beccato sei numeri della lotteria e in più anche il numero jolly. «Hai ragione». «Desidererei avere io così tanta fortuna con le donne», ridacchiò Guy. «Con una donna, intendi», lo corresse Steve. «Una Floz equivale a tutte le donne del mio passato più le tue messe insieme». «Scusatemi». Alle spalle di Guy, Gina tossì per avvisarli della sua presenza. Lui si girò e lei gli chiese se fosse arrivata la consegna di pesce. «Le piaci», sussurrò Steve, quando lei scomparve in dispensa. «C’è anche qualcosa che puzza di marcio». Guy cambiò discorso: «Sono andato a vedere il cottage». «E…?», disse Steve, mentre osservava Gina che usciva dalla dispensa e lanciava uno sguardo a Guy. Era davvero cotta di lui. Steve non si considerava un esperto del linguaggio del corpo, ma accidenti anche Mr Bean, il più stolto degli stolti, si sarebbe accorto della sua infatuazione. «È un vero e proprio catorcio. E dovrò dimenticarmelo perché non posso neanche lontanamente permettermelo». «Hai provato a chiedere in banca?» «Sarebbe inutile», rispose Guy. «Conosco una banca a cui potresti rivolgerti», disse Steve. «Quale? La banca del paese dei balocchi?» «La banca di mamma e papà». 252/432 Per un momento, Guy smise di sbattere la frusta. «Non lo chiederei mai a loro». «Volevano darti i soldi per il ristorante. Se mio figlio avesse bisogno di soldi e io li avessi…». «Non ne ho bisogno… Il cottage è soltanto qualcosa che vorrei». «Invece ne hai bisogno», lo corresse Steve. «Ti serve per ricevere la spinta sul sedere necessaria per ricominciare a vivere. Hai bisogno di riprendere a frequentare le donne, uscire con una di loro e risvegliarti con lei la mattina», disse facendo dondolare il suo borsone oltre la spalla. «E se una vecchia fiamma è davvero tornata nella vita di Floz, chiedere a Gina di uscire. È tempo ti voltare pagina, Guy. Di guardare sempre avanti». Capitolo cinquantaquattro «Come sto?», chiese Juliet, facendo delle piroette con indosso l’abito rosso scarlatto che metteva in risalto la sua figura sinuosa e la vita sottile. «Sei adorabile», sorrise Floz. «Come ti senti?» «Fantastica», disse Juliet fingendosi in visibilio, anche se a dire la verità non si sentiva emozionata nemmeno la metà di quanto avrebbe dovuto. E nonostante non avesse mangiato nulla in tutta la giornata, non aveva la benché minima ombra della fame. La sua mente avrebbe dovuto essere satura delle immagini di Piers Winstanley-Black intento a sbaciucchiarla, ma così non era. Era invece colma di gelosia nei confronti di Steve e del suo appuntamento con Chianti della sera seguente, e odiava che tali vibrazioni negative stessero offuscando l’entusiasmo che si era aspettata di avere. Sapeva che era assurdo provare quelle sensazioni. E non era nemmeno logico. Si era chiaramente intrappolata nella rete di un qualche ragno e non stava per niente bene. Fuori, una macchina accostò, era una Bentley. Floz guardò oltre la finestra e alzò il pollice in direzione di Juliet. «È qui», disse. «Divertiti!» «Sicuramente», disse Juliet, mentre gonfiava il petto e alzava il mento. «Come potrebbe essere altrimenti?». Piers Winstanley-Black aveva gli occhi fuori dalle orbite quando Juliet salì con lui sul sedile posteriore della macchina. Eppure, nonostante il completo impeccabile, le scarpe di fattura artigianale e l’ampio sorriso affascinante, gli occhi di Juliet si rifiutarono di scintillare. Capitolo cinquantacinque Quando quella sera Steve ebbe concluso il suo incontro di wrestling, si accorse di un uomo anziano che armeggiava con il suo cellulare nell’area d’ingresso. Notò inoltre un adolescente robusto che lo urtò per sbaglio facendolo ruzzolare sopra una pila di sedie. Steve si precipitò di corsa da lui per evitare che cadesse per terra. «Tutto bene, signore?», domandò, porgendogli il braccio perché vi si appoggiasse. «Sto bene», disse l’uomo, con un forte accento bizzarro, che assomigliava per metà a quello di Arthur Scargill, il politico britannico, e per metà a quello di John Wayne. «Posso portarle qualcosa? Un bicchiere d’acqua o qualcosa del genere?» «Qual è il suo nome, figliolo?», disse l’uomo strascicando le parole. «Steve. Steve Feast». L’uomo si appoggiò al braccio di Steve mentre si rimetteva in piedi. «Mi sono divertito molto a guardarla questa sera. Ero qui anche tre settimane fa quando lei era il ragazzo cattivo in quel combattimento da quattro round. Incontro impressionante». «Oh, quella sera», ridacchiò Steve, ricordandosi che si trattava della volta in cui Guy pensava che lui fosse andato a letto con Floz. «Lei è un bravo lottatore». «Sì, lo sono», disse Steve. «Ma avrei dovuto combattere negli anni Cinquanta quando qui il wrestling era al massimo della popolarità». «Oppure combattere ora in America, dove va ancora alla grande», commentò il signore anziano. 255/432 «Mi piacerebbe», disse Steve e poi salutò il vecchio signore con la mano, dopo essersi accertato che stesse bene. «Mi piacerebbe maledettamente». Al Burgerov era una serata abbastanza tranquilla, sebbene un gruppo di undici persone avesse prenotato addirittura per le dieci. Venivano da Southampton, lungo la strada per Glasgow, e avevano pagato Kenny Moulding più del dovuto affinché desse loro da mangiare. Ovviamente, Kenny non avrebbe ridistribuito gli incassi tra il personale, che avrebbe dovuto lavorare fino a tardi per servirli. Le parole di Steve vagavano nella mente di Guy da quando se ne era andato. Aveva ragione, aveva bisogno e allo stesso tempo voleva ricongiungersi con la razza umana e tornare a sentirsi vicino a una donna. Il problema era che non desiderava una donna qualsiasi, voleva Floz Cherrydale. Doveva riuscire a riallacciare i rapporti con lei, parlarle, fare in modo che lei imparasse a conoscerlo, e che lui imparasse a conoscere lei, provarle tutte prima di allontanarsi da lei e voltare pagina. Il motivo per cui si fosse invaghito così profondamente e velocemente di qualcuno con cui aveva a malapena parlato, e che non riusciva a sopportare la sua vista, gli risultava imperscrutabile. Tutto ciò che sapeva era che non si trattava di un’infatuazione: era amore, instancabile e assoluto. E lui ci teneva così tanto a farle una buona impressione che ogni pensiero relativo alle misteriose vecchie fiamme si era estinto. Guy controllò l’orologio. Juliet in quel momento era a cena fuori, per cui Floz sarebbe stata da sola a casa. C’era ancora un’ora e mezza prima che arrivasse il gruppo di Southampton. Una scarica di adrenalina si impossessò come un vortice di tutto il suo corpo. “Sì, fallo”. Adesso o mai più. Si strappò via il grembiule e urlò a Gina: «Torno tra un’ora. Lascio a te il comando». Prese le chiavi della macchina a uscì a grandi passi nella mite serata autunnale. La luna era immensa, bassa e dello stesso colore 256/432 rosato dello champagne. Era una luna settembrina, o luna del raccolto, come era più comunemente conosciuta. Sperò che fosse un presagio del fatto che quella notte avrebbe “raccolto” l’affetto di Floz Cherrydale. Quella notte avrebbe fatto sì che lei prendesse tutte le precedenti opinioni che si era fatta su di lui e le riducesse in pezzettini. Quella notte avrebbero ricominciato tutto da capo. Capitolo cinquantasei Guy pigiò il pulsante del citofono fuori dall’appartamento di sua sorella. Era talmente ebbro delle sostanze chimiche naturali dell’entusiasmo che aveva voglia di vomitare o in alternativa di sfasciare delle automobili. «Chi è?», fece la voce gentile di Floz. «Sono Guy», disse. «Posso salire?» «Sì, certo», rispose Floz in tono gelido. Immaginò subito che cosa sarebbe accaduto nel giro di qualche minuto: lui sarebbe entrato, avrebbe chiesto di Juliet, avrebbe scoperto che Juliet non c’era e l’avrebbe usata come scusa per esibirsi in un’espressione accigliata e malinconica alla Heathcliff, come se l’assenza di sua sorella fosse da imputarsi a Floz. Guy fece le scale a due a due e aprì con uno spintone la porta dell’appartamento. «Ciao, Floz… ehm… dov’è Juliet?» “Sì”, pensò Floz. Non si era sbagliata. «È uscita. Con Piers. Non lo sapevi?», rispose Floz, preparandosi all’espressione imbronciata che sarebbe calata sul viso di lui. «Ah sì, me l’aveva detto». Guy si colpì la fronte con la mano in un gesto platealmente finto. «Posso aiutarti?», gli chiese, domandandosi che cosa diamine avesse in mente. Lei sembrava così minuta che lui avrebbe voluto abbracciarla, sollevarla e baciarla di nuovo sulle soffici labbra fino a che le sue pallide guance non fossero diventate rosse come la luna settembrina che c’era fuori. «Guy? Posso aiutarti?», ripeté Floz. Guy si riscosse dal suo sogno a occhi aperti: «Scusa. Io… ehm…mi chiedevo…». Il telefono gli suonò in tasca. La musica di I’m a Barbie Girl suonò a centinaia di decibel. «Oh cielo!». Ancora una volta non 258/432 era riuscito a far star zitto quel telefono. Lo estrasse dalla tasca e vide che Kenny Moulding lo stava chiamando. “Be’, che vada a quel paese”, pensò Guy, “per una volta dovrà aspettare”. Provò a spegnere il cellulare. Let’s go, Barbie, continuò la suoneria. Era così agitato che fece cadere il telefono, il quale scivolò sotto il divano. Si gettò a terra, rovistando per trovarlo. Aveva la sensazione che se lo avesse calpestato o magari gettato in un lago, quella dannata suoneria avrebbe comunque continuato a suonare. Non riusciva nemmeno a far leva per togliere il coperchio dalla parte posteriore così da rimuovere la batteria. Lo sbatté sul tavolino per farlo smettere, restando per tutto il tempo consapevole del fatto che Floz era rimasta lì impietrita a osservarlo, mentre lui si rendeva più ridicolo che mai. «Scusa», disse Guy. «Ho comprato il telefono su eBay. Non riesco a eliminare dalla memoria le suonerie del precedente proprietario, e per quanto provi a modificare il volume… a ogni modo, è una storia veramente noiosa, scusa. Ehm, Floz, sono venuto per chiedere…». Poi il citofono squillò con insistenza, come se qualcuno lo stesse pugnalando. «Scusami», disse Floz, andando a rispondere. Dall’altro capo della stanza Guy non ebbe difficoltà a udire i singhiozzi che provenivano dalla cornetta. «Sali, Coco», disse Floz al citofono. «Preparo il bollitore». «Oh, merda». Guy voleva dirlo sottovoce, invece il commento gli uscì forte e chiaro. “Veloce, c’è ancora tempo”, pensò Guy. «Floz, il fatto è che…». Poi Coco oltrepassò la porta e si gettò addosso a Floz. «Gideon e io abbiamo chiuso!», disse. «Si vedeva a mia insaputa con un fioraio. Ho controllato il suo cellulare e ho scoperto che gli ha fatto un sacco di telefonate. Oh, perché gli uomini sono dei bastardi? Perché, perché?». Poi vide Guy e per un attimo interruppe i suoi drammatici lamenti. «Oh, ciao Guy. Come stai?» «Bene, grazie, Coco», disse Guy, mentre la sua bocca si assottigliava in una linea arcigna. «In realtà, non sono mai stato meglio». 259/432 «Per quale motivo eri venuto, Guy?», chiese Floz, mentre sorreggeva Coco, che era nuovamente collassato sulla sua spalla. «Perché? Perché a me?», piagnucolò Coco. «Nulla. Non ha importanza», disse Guy a denti stretti. Era arrabbiato perché era arrivato veramente a un passo dal mettere le cose in chiaro con Floz. Arrabbiato perché il destino – sotto le sembianze di un gay isterico, proprietario di un negozio di profumi – gli aveva impedito di chiedere a Floz di uscire. Arrabbiato perché aveva sprecato così tanto tempo. Arrabbiato perché Hallow’s Cottage era fuori dalla sua portata, dopo tutti quegli anni trascorsi a desiderare di acquistarlo. Arrabbiato perché anche il suo maledetto telefono gli si era rivoltato contro. Poi Juliet entrò nell’appartamento e annunciò che aveva appena vomitato sul completo che Piers Winstanley-Black aveva comprato in Savile Row, la celebre via londinese di laboratori sartoriali. Capitolo cinquantasette Juliet si sedette sul divano con indosso il suo pigiama viola prugna di flanella a sorseggiare un bicchiere di limonata. L’ordine era stato ristabilito. Mentre Floz preparava il tè, Coco aveva ascoltato i venti messaggi che Gideon gli aveva lasciato in segreteria telefonica. Sembrava che non si stesse “sbattendo il fioraio”, cosa di cui lui lo aveva accusato. E se Coco fosse andato a casa sua, avrebbe scoperto che Gideon aveva cospirato con il suddetto fioraio al fine di riempirgli la camera di mazzi di fiori come sorpresa. «Dovresti fidarti di lui altrimenti lo perderai», lo avvertì Juliet. «Se inizi ad andare a caccia di indizi, troverai qualcosa da distorcere che la tua mente adatterà in base a quello che vuoi credere di lui. Non fare più l’imbecille in questo modo». «Non lo farò», disse Coco, che sembrò volare a casa sospinto da un vento di gioia. Dopo essere stato rassicurato del fatto che sua sorella soffrisse soltanto di disturbi gastrici, Guy uscì silenziosamente dall’appartamento e ritornò al lavoro, senza svelare il motivo per cui era andato lì. Aveva un’espressione talmente cupa che, a confronto, Heathcliff sembrava un comico della TV. Finalmente, la pace regnava a Blackberry Court e Juliet aprì una scatola di biscotti all’arancia ricoperti di cioccolato, poiché le era venuta un’improvvisa e feroce voglia di divorarli. Non aveva mangiato nulla tutto il giorno – se si escludeva il tortino al formaggio che era stato temporaneamente nel suo stomaco al ristorante Four Trees. «Tutti questi anni passati ad aspettare un appuntamento con Piers Winstanley-Black e poi finisco per vomitargli addosso», ridacchiò Juliet. «Riesci a crederci? Ti verrebbe da pensare che andare a degli appuntamenti con l’altro sesso dovrebbe diventare sempre 261/432 meno drammatico più si va avanti con gli anni, non è vero? Invece, evidentemente, non è così». «No, peggiora», annuì Floz con un sospiro eloquente che non aveva intenzione di farsi sfuggire, ma che Juliet notò e memorizzò come un’ulteriore prova della presenza di un uomo misterioso nella vita di Floz. Il telefono di casa suonò. Era Coco, che si vantava di come il suo appartamento assomigliasse ai giardini botanici reali di Kew, con tanto di petali di rosa sparsi ovunque sul letto. «A proposito, che cosa ci faceva Guy qui?», chiese Juliet una volta conclusa la telefonata. «Non sono riuscita a scoprirlo», disse Floz. Ci fu qualche minuto di silenzio prima che Floz osasse dire quello che moriva dalla voglia di esternare. «Mi sa che non gli piaccio molto». Juliet scosse il capo. «Non essere sciocca. Mi chiedo soltanto…». Poi si fermò. «Ti chiedi cosa?» «Mi chiedo soltanto», Juliet proseguì con prudenza, «se per caso non gli ricordi una sua ex ragazza. È solo una supposizione azzardata ma lei era alta più o meno quanto te e aveva la tua stessa corporatura. Era una vacca immusonita». «Fantastico, grazie», Floz sospirò. Evidentemente Juliet aveva frequentato la stessa scuola di fascino di suo fratello. «Scusa, non intendevo dire che tu sei una vacca immusonita», precisò Juliet. «In realtà non le assomigli per nulla nei lineamenti. Però lui è un tantino timido con te, ho notato. E mi è balenata l’idea che possa essere a causa di Lacey». «Oh», disse Floz. «Presumo quindi che non sia qualcuno con cui si è lasciato amichevolmente». «A dire il vero si sono lasciati amichevolmente e sono rimasti amici», disse Juliet. «Questo era il problema: lui era troppo buono con lei, se devo essere onesta. Lei lo usava. Era una svitata. La odiavo. La odiavamo tutti». 262/432 «Ah!», disse Floz. Quindi Guy pensava assomigliasse a una sua ex ragazza svitata. Qualcuno che tutti odiavano. La situazione andava di bene in meglio. «In ogni caso, non dovrei parlare male di… lei». Per la rabbia di Floz, Juliet si interruppe senza concludere la frase e andò a ripescare un argomento di conversazione che avevano trattato in precedenza: «Riguardo a Piers, ho esagerato un po’ quando ho detto di aver vomitato sul suo completo. Gli è finito soltanto uno schizzo sulla manica. Il pavimento si è aggiudicato il resto. C’erano le piastrelle, per cui immagino lo abbiano pulite in fretta. È stato maledettamente imbarazzante». «Be’, non potevi evitarlo». Floz riempì il bicchiere di Juliet di limonata. «Non ho avuto proprio nessuna avvisaglia che il mio antipasto stesse per riproporsi, altrimenti mi sarei precipitata in bagno. È stato davvero spaventoso». «Che cosa ha detto Piers?» «Non molto, all’inizio», disse Juliet, mortificata. «Immagino che fosse sotto shock. Non credo che nessuno gli abbia mai vomitato addosso prima d’ora, in un locale esclusivo o in un qualsiasi altro luogo. Però, devo riconoscergli i suoi meriti: mi ha accompagnato subito a casa in macchina e ha aspettato che entrassi. Per tutta la serata si è comportato da perfetto gentiluomo, proprio come immaginavo che sarebbe stato: cortese, bello, premuroso…», poi Juliet si zittì. «Ma?», si sentì costretta ad aggiungere Floz. «Ti metterai a ridere», disse Juliet. «Riderei io stessa se non mi sentissi così confusa». «Mettimi alla prova», disse Floz, dandole una piccola gomitata. «Maledetto, dannato, promiscuo Steve Feast: è tutta colpa sua!». «Che cosa intendi?». Juliet si prese la testa tra le mani: «È pazzesco. Mi trovavo lì, seduta di fronte e Piers Winstanley-Black, l’uomo dei miei sogni dietro al quale sbavo da anni. Mi aveva appena versato del vino, che costa 263/432 quindici sterline al bicchiere, io stavo scegliendo dal menu, creato da uno chef pluripremiato, e tutto quello a cui riuscivo a pensare era: “Steve stasera ha un incontro di wrestling. Che costume indosserà? Chianti sarà lì a guardarlo? Non mi ha pensato per nulla mentre ci provava con quella sgualdrina di plastica?”».Poi scoppiò in lacrime. «Oh, Floz. Non riesco a credere di doverlo ammettere ma penso di essermi innamorata di lui. Come cavolo è successo?» «Oh, tesoro». Floz abbracciò Juliet; la sua spalla era bagnata per via dei singulti di Coco. «Non so come vanno queste cose, succedono e basta, non abbiamo nessun controllo sui meccanismi del cuore. Dovresti dire a Steve quello che provi, perché credo che ne sarebbe entusiasta». «Come potrebbe esserlo?», disse Juliet. Desiderava soltanto smettere di piangere. Non si era mai abbandonata a simili debolezze da ragazzina piagnucolosa. E mai per un uomo. «Domani uscirà con la donna dei suoi sogni. Il nostro accordo prevedeva che avremmo fatto “solo sesso” e sono stata io a martellare su questo punto, insistendo che non si trattava di nulla di più. Guardami, sono un maledetto catorcio. Il ciclo mi si è fermato, sto piangendo, vomito e tutto quello che mangio ha un sapore strano. Che cavolo c’è che non va in me?». Floz spinse indietro Juliet e la guardò dritta negli occhi. «Ju, non ti piacerà quello che ti sto per dire», disse. «Cosa? Cosa?», piagnucolò Juliet. «Juliet, credo dovresti fare un altro test di gravidanza». Asda, il supermercato, restava aperto tutta la notte. Floz vi si recò in macchina per prendere un test di gravidanza, mentre Juliet restò a casa, tenendosi a distanza di sicurezza dal bagno. Dopo che Juliet ebbe nuovamente fatto pipì sul bastoncino, si sedettero entrambe sul divano e lo osservarono. Due deboli linee blu apparvero nei riquadri per poi scurirsi e definirsi. «Ma avevo fatto un test di gravidanza ed era risultato negativo», disse Juliet, troppo sconvolta per piangere. 264/432 «Forse l’hai fatto troppo presto perché funzionasse», disse Floz, anche lei un po’ stordita. «Che devo fare?», disse Juliet. Era una novità troppo grande da metabolizzare. Incinta? Di Steve Feast, che aveva odiato sin dai tempi della scuola e che nonostante tutto non riusciva a togliersi dalla testa – cosa che aveva scoperto solamente quando lui se ne era andato dalla sua vita. «Ora andrai a letto, ecco che cosa farai», disse Floz. «Perché al momento non possiamo fare nulla, è troppo tardi. E hai bisogno di rilassare mente e corpo». «Non credo che riuscirei a prendere sonno», disse Juliet. Si misero a guardare Il diario di Bridget Jones sedute vicine sul divano, finché non si appisolarono entrambe come due fermalibri spossati. Capitolo cinquantotto La mattina successiva, Juliet si svegliò per prima e distese le braccia. Si sentiva i postumi di una sbornia, era scombussolata, sconquassata e indolenzita a causa del pensiero che predominava nella sua testa e che offuscava tutto il resto. Anche il fatto che probabilmente era incinta. Ma non riusciva a non pensare a Steve che quella sera sarebbe uscito con Chianti. La bellissima, magra e non incinta (anche se tamarra) Chianti, dalle gambe lunghe e dai vestiti firmati, che lui desiderava da un’eternità. Singhiozzò contro la coperta che doveva aver afferrato nel bel mezzo della notte per coprirsi. Lo fece in modo talmente silenzioso che Floz non si svegliò. In quale situazione incasinata si era andata a cacciare? Floz si svegliò con l’odore e lo sfrigolio della pancetta. Andò in cucina per scoprire che la pancetta si trovava sul fuoco senza la supervisione di nessuno poiché Juliet era andata in bagno a vomitare. Quando uscì, asciugandosi la bocca, sembrava pallida come un cencio. Floz non avrebbe mai immaginato che una donna forte come Juliet potesse sembrare così triste, così confusa. «Mi sono data malata al lavoro», disse. «Hai fatto bene», disse Floz. «Vuoi che ci pensi io a prepa-rare?» «Non so perché ho iniziato a cucinare la pancetta. Non ne ho voglia. Credo volessi soltanto fare qualcosa». «Preparo del tè e dei toast», disse Floz, spingendo Juliet sul divano. «Mi prenderò una giornata libera, ci metteremo sedute a guardare il notiziario del mattino e Jeremy Kyle». «Mi sembra di essere uno dei partecipanti di quel talk show», sbuffò Juliet, scorgendo un’immagine di se stessa allo specchio 266/432 appeso alla parete. Aveva lo stesso colore di un pupazzo di neve anemico. Giunte a metà dei risultati del DNA relativi a una storia del filone “Scopriamo chi è il padre”, Juliet si appisolò. Floz sgattaiolò via per controllare le e-mail fintanto che poteva. C’erano un paio di lavori da parte di alcune società di biglietti d’auguri, ma nulla da parte di Nick. Si sedette sul divano vicino alla dormiente Juliet e scrisse alcune battute divertenti a proposito dei compleanni, giacché anche la sua testa era piena di pensieri di cui avrebbe desiderato sbarazzarsi. Capitolo cinquantanove Era davvero bellissima. Un corpo mozzafiato, pensò Steve, mentre faceva scorrere le sue mani su di lei. Avrebbe voluto scoparsela in quell’esatto momento, ma era una macchina e c’erano delle regole da rispettare in merito. Inserì le chiavi nel cruscotto e la accese. Lei fece le fusa mentre lui usciva lentamente dal vialetto e scivolava in strada. Avrebbe comprato una Mercedes da quel viscido venditore. E quella che aveva in mente era superiore di due modelli rispetto alla versione disponibile per il noleggio. Non vedeva l’ora di salirci e assorbirne l’odore nei polmoni. Nessun profumo era paragonabile a quello di un’automobile nuova. Steve la portò a fare un giro di riscaldamento in autostrada e si sentì come un re, mentre superava con facilità qualsiasi cosa si trovasse alla sua sinistra; stava ascoltando Silver dream machine a ripetizione dal lettore CD con dolby surround. Chi aveva bisogno delle donne quando esistevano delle macchine come quella? Si tenne ben stretto quel pensiero, perché continuava a volergli sfuggire. Era stata la giornata peggiore che Juliet ricordasse. La parte migliore fu addormentarsi e trovare l’oblio. Si svegliò con il viso sorridente di Alan Titchmarsh in televisione, ma non fu a causa della sua immagine riflessa se cinque minuti dopo avvertì degli ulteriori conati di vomito. Tuttavia, c’erano cose dentro di lei che la ferivano molto di più di quanto i muscoli tesi del suo stomaco sarebbero mai riusciti a fare. Non era in grado di pensare lucidamente. L’unica cosa che non aveva mai desiderato dalla vita era essere una madre single. La cara Floz si agitava per la casa come una chioccia dai capelli rossi: le aveva rimboccato la grande e confortevole coperta, le aveva preparato una limonata ed era uscita a comprare i biscotti allo 268/432 zenzero, perché a quanto sembrava lo zenzero aiutava a combattere il vomito, o almeno così sosteneva lei. Le lancette dell’orologio si trascinavano sul quadrante più lentamente di quanto sarebbe stato lecito se si fossero attenute alle leggi del tempo e della fisica, Juliet ne era certa. In qualche modo, si era fatta l’ora in cui trasmettevano EastEnders e Juliet provò a concentrarsi su quello che stava accadendo in televisione, ma la sua mente non fu abbastanza forte da scacciare le immagini di Steve in un completo e di Chianti in un attillato abito senza spalline taglia trentasei, scollato sulla schiena, scollato sul davanti e scollato ai lati, con tanto di tacchi alti come l’Empire State Building. Probabilmente, proprio in quell’istante, Chianti si trovava tra le braccia di Steve, lui si stava gustando il sapore di quel momento. E del corpo di lei. Fortunatamente, lo squillo del citofono interruppe quei pensieri angoscianti. «Vado io», disse Floz. «Tu stai qui e riposati». «Per piacere, dimmi che non si tratta di Coco con altre lamentele», disse Juliet. «Se così fosse questa sera non riuscirei a sopportarlo». «Ehm, no», tossì Floz un paio di secondi dopo, mentre apriva la porta al visitatore affinché salisse. «Chi è allora? Guy? Non mamma e papà. Per piacere, Floz, non farli entrare se sono loro», urlò Juliet mentre Floz apriva la porta, e Steve entrava con il suo passo rilassato. «Come stai?», chiese, in modo del tutto spontaneo. Indossava dei pantaloni neri e una camicia bianca, con una cravatta azzurra allentata, della stessa sfumatura dei suoi occhi da svedese. «Sto bene», farfugliò Juliet, ben consapevole del dislivello tra i loro abbigliamenti. Lui era elegantissimo, mentre lei indossava un pigiama informe che portava, più o meno, da ventiquattro anni. Inoltre, si sentiva ancora più sciatta poiché era completamente struccata. 269/432 Steve si gettò vicino a lei sul divano. Floz si defilò con discrezione, lasciandoli soli. Tenne le dita incrociate e augurò a Juliet tutta la fortuna del mondo. «Che ci fai qui?», disse Juliet, accostando i lembi della camicia del pigiama, in segno di pudore. «Be’, volevo venire a salutarti. Stai bene?» «La mia pancia ha…». “Un ospite”. Juliet si schiarì la gola: «Qualche scombussolamento». «Oh». Silenzio. Juliet non osava respirare. Quello era un sogno, ed era delicato come una bolla. Se si fosse mossa la bolla si sarebbe rotta e lei sarebbe tornata sul divano con una coperta di pail a guardare Phil Mitchell di EastEnders che cercava di non uccidere qualcuno. «Com’è andato il tuo appuntamento?», gli sussurrò infine. «Non così bene», disse Steve. «È per questo che sono qui». «Come mai?». Steve si girò verso Juliet, i suoi occhi chiari erano incollati a quelli di lei. «Perché non volevo stare là con lei. Volevo stare qui con te». «Davvero?», squittì Juliet. «Sì». «Però, sono passate da poco le otto. Che cosa hai detto a Chianti?». Steve si schiarì la gola: «Che avevo commesso un errore e che avremmo fatto meglio a concludere lì l’appuntamento». «Cielo, Steve, non hai davvero peli sulla lingua». «È quello che ha detto lei prima di sferrarmi un pugno». Steve si massaggiò la mascella. «Non ha detto altro?» «Praticamente no». Tralasciò la parte in cui Chianti si era messa a urlare come un’arpia, insistendo nel prendere un taxi che la portasse a casa, piuttosto che essere accompagnata da un «fottuto bastardo» chiaramente squilibrato. 270/432 «Oh. Va bene allora», disse Juliet, incredula. Era uno scherzo, ovviamente. Da lì a pochi minuti lui avrebbe detto: «Non è vero, mi ha dato buca». Ma non lo fece. Entrambi restarono seduti impietriti sul divano, non sapendo che cosa sarebbe accaduto in seguito. «Juliet», disse Steve alla fine. «So che tu pensi che io sia un deficiente…». «Steve, so che ho detto…», lei lo interruppe, e lui la interruppe a sua volta. «…ma io ti amo. E so che probabilmente ieri hai trascorso una meravigliosa serata con quel tipo con cui lavori e che mi dirai di andare a quel paese perché ti sposerai con lui, ma volevo soltanto che tu sapessi che ti amo. Va bene?». Lei non rispose e lui lo prese come un segno che non osava dirgli che aveva ragione. “Avrà trascorso una meravigliosa serata con Piers Rumpole-Kavanagh”, pensò Steve, facendo confusione con i cognomi di due famosi avvocati della televisione britannica. Sospirò pesantemente e si alzò in piedi. «Me ne vado. Mi sono reso abbastanza ridicolo. O meglio, sono stato “un deficiente”. Ancora una volta». «Anche io ti amo», Juliet parlò d’impulso con una voce alquanto tremolante. «Non so come o quando sia successo ma è accaduto e sono stata depressa come non mai fin da quando mi hai detto che tu e Chianti sareste usciti insieme». «Mi stai prendendo in giro, cazzo», disse Steve, passandosi la mano tra i capelli. «Scusa per la parolaccia. Sono sotto shock. Accidenti». Tornò a sedersi sul divano prima di cadere, dato che all’improvviso le sue gambe avevano preso a tremare quanto la voce di Juliet. «No, non sto scherzando. E tu sei la persona meno deficiente che io conosca», disse Juliet, apprezzando il fatto che Steve le avesse preso la mano e che gliel’avesse stretta teneramente, per poi portarsela alle labbra e baciarla. Lui la faceva sentire delicata. Nessuno prima d’ora l’aveva mai fatta sentire in quel modo. 271/432 «Non riesco a capacitarmene», disse Steve. Gli occhi gli si stavano riempiendo di lacrime. «Questa settimana è stata proprio assurda. Chissà che cosa succederà ora…». «Steve». Juliet fece un profondo respiro. Si erano già confidati i rispettivi sentimenti… Tanto valeva dirgli tutto. «Steve, sono incinta. Di te». Lui le stava stringendo le dita come se fossero l’unica cosa a impedirgli di cadere da un dirupo. «Un piccolo noi», fu tutto ciò che disse prima di scoppiare a piangere. Le lacrime gli riempirono quegli occhi di un azzurro intenso, rigandogli poi le guance, mentre lui non riusciva a smettere di sorridere. Nella sua stanza, anche Floz stava piangendo in modo sommesso. Era finita, definitivamente. Sul suo schermo era apparsa un’e-mail da parte di un uomo che non conosceva, un certo Chas Hanson. Il nome le era vagamente familiare, ma non riusciva a ricordarne il motivo. Aveva aperto l’e-mail per leggerla: Cara Floz, mi dispiace informarla che Nick è venuto a mancare nella giornata del ventidue settembre.Parlava spesso di lei e con grande affetto.È morto circondato dagli amici e dalla familia e mancherà a tutti. Le sue ceneri verranno sparse sul monte Robson. Coridali saluti, Chas Hanson Poi si ricordò che Chas era il nome dell’uomo che una volta Nick aveva definito il suo più vecchio amico, il fratello che non aveva mai avuto. Ecco perché quel nome le suonava familiare. Capitolo sessanta Il giorno seguente Steve parcheggiò la Mercedes a noleggio fuori dalla casa bifamiliare di sua madre e si chiese se avrebbe avuto ancora le ruote al suo ritorno. Nemmeno il fatto che lui fosse grosso come una fottuta casa di mattoni avrebbe dissuaso un tossico dal provare a intrufolarsi dentro per vedere se ci fosse qualcosa che valeva la pena di sgraffignare e rivendere in cambio di una dose da cinque sterline. Era cresciuto in quel luogo e se lo ricordava come un quartiere piuttosto duro, ma dove vivevano anche tante famiglie rispettabili, benché povere. Ormai assomigliava più a una discarica che a un complesso residenziale. Ogni volta che andava lì si sentiva claustrofobico a causa del peso dei brutti ricordi. Ma quel giorno nulla avrebbe potuto intaccare il suo buonumore. Juliet Miller lo amava e lui sarebbe diventato padre. Era così colmo di gioia che pensò che avrebbe potuto volare se solo avesse sollevato le braccia. Suo figlio non avrebbe mai dovuto uscire di casa con dei vestiti sudici e a stomaco vuoto, e avrebbe sempre saputo di essere amato e protetto. Quella mattina Juliet avrebbe voluto andare con lui a trovare sua madre. Voleva che le annunciassero insieme che stavano aspettando un bambino. Juliet pensava di sapere cosa aspettarsi, ma si sbagliava. Si conoscevano da anni ma Steve non aveva mai permesso a Guy di oltrepassare la soglia di casa sua. Amava sua madre ma si vergognava di lei e dello stato in cui si trovava l’appartamento. Il nomignolo “Sciatto”, con cui alcuni ragazzini infami lo chiamavano a scuola, gli echeggiava ancora nelle orecchie. Sebbene recentemente avesse trascorso parecchio tempo con Juliet, ciò non aveva impedito a Steve di trascurare i propri doveri verso la madre. 273/432 Eppure, di recente, lei sembrava essersi totalmente arresa. Steve sospettava che non provasse più nemmeno ad arrivare fino al bagno o che non mangiasse più se lui non era lì, eppure aveva sempre a portata di mano degli alcolici. «Ciao Steve», gridò Sarah Burrows, comparendo da dietro la sua immacolata porta d’ingresso. «Ciao cara», ricambiò Steve. «Tu e Denny state bene?» «Sì, grazie», rispose Sarah con un sorriso, troppo radioso per essere convincente. «Sono passata a controllare tua mamma l’altra sera e le ho portato un po’ di minestrone, ma non ha mangiato molto. Ho dovuto imboccarla, Steve. Ma non ne è entrato molto. Ho provato a pulirla…». «Oh, Sarah. Non dovresti sentirti in dovere di accudirla. Forse dovrei tornare a vivere qui per un po’». Il solo pensiero lo riempì di paura, però di tanto in tanto, nel corso degli anni, era stato costretto a farlo. Questa volta sospettava che lei non avrebbe avuto la forza di protestare come faceva abitualmente. Juliet avrebbe capito, non aveva dubbi. «Ho visto il figlio di Artie Paget che le consegnava degli alcolici», disse Sarah. «Detesto sparlare ma…». Paget, Paget, Paget. Ancora quel dannato nome. Un’altra generazione di Paget determinata a rovinare le loro vite. «Grazie per avermelo detto, cara. Saluta il piccolo Denny da parte mia; e grazie, Sarah. Grazie per le tue premure». Il trillo acuto del contaminuti del forno iniziò a suonare in cucina, alle spalle di Sarah. Probabilmente le ricordava che era pronto il pranzo di Denny, un minestrone denso e gorgogliante, pensò Steve. Qualcosa con cui riempire lo stomaco del suo ragazzo, preparato con amore. Gli occhi di Steve si riempirono di lacrime non appena Sarah chiuse la porta. Sua madre era sbronza sul divano, di nuovo. 274/432 «Ciao mamma», disse Steve con voce sommessa. Le toccò una mano e lei la ritrasse. «Che cosa vuoi?», borbottò. «Non ho niente per te». «Sono io, mamma, Steve. Ho delle ottime notizie». «Oh, sei tu». La testa di Christine Feast annuì, sorretta da un collo sottile. Lui la guardò, era adagiata contro il malridotto divano arancione e le lacrime iniziarono a rigargli le guance. Quella era la stessa immagine che si ricordava di ogni Natale: sua madre arrabbiata e inetta, con o senza uno dei passeggeri patrigni, ridotti nello stesso stato. Lui viveva di bastoncini di pesce che aveva imparato a friggere da solo, tra un pasto e l’altro che consumava alla tavola dei Miller. Giurò che un giorno avrebbe avuto dei figli suoi e che avrebbe condiviso con loro l’infanzia che non aveva mai avuto. Così tante volte si era immaginato di avere quei bambini con Juliet, e adesso il suo sogno si stava per realizzare. Desiderava che sua madre condividesse la sua gioia. Non era poi così vecchia. Era ancora in tempo per riprendersi. «Mamma, diventerai nonna», disse. «La mia ragazza avrà un bambino». La signora Feast aprì gli occhi ma non dimostrò in alcun modo di avere capito. Poi fu colta da una tosse che scosse il suo corpo emaciato. Steve andò nella cucina fatiscente per prenderle un bicchiere d’acqua. Si chiese come avesse potuto diventare così sporca in così poco tempo. L’aveva lavata a fondo l’ultima volta che era stato lì, aveva perfino sfregato con la paglietta d’acciaio tutta la sporcizia sedimentata sulle piastrelle. Ma non era mai riuscito a sbarazzarsi di quell’odore di marcio, per quanta candeggina utilizzasse. La signora Feast si chinò in avanti, in preda ai conati di vomito. «Ecco, mamma, prendi un po’ d’acqua». Lasciò che lui le portasse il bicchiere alle labbra. Mentre beveva le dita di lei si chiusero intorno a quelle del figlio; entrambi avvertirono un brivido di freddo, nonostante l’intenso calore che l’impianto di riscaldamento diffondeva nella stanza. Poi, lei cominciò a respirare 275/432 con affanno e artigliò la camicia di Steve, cercando disperatamente di fare entrare aria nei polmoni. E Steve non esitò a chiamare l’ambulanza. Per lo meno le autorità sarebbero state in grado di fare qualcosa per lei dove lui aveva fallito. Capitolo sessantuno C’era parecchia differenza tra la Juliet Miller di venerdì sera, prima della visita di Steve, e quella di sabato mattina, dopo che Steve se ne era andato. Tra i suoi vari attacchi di nausea, Juliet era avvolta in una soffice bolla di amore. Emerse dalla sua stanza da letto, stiracchiandosi e fluttuando come il personaggio di un film con Rock Hudson e Doris Day. «Buongiorno, Floz. Puoi smetterla di preoccuparti per me adesso perché sono al settimo cielo», disse Juliet, notando che la sua coinquilina stava svuotando la lavastoviglie in cucina. «Buongiorno», rispose Floz, mentre svolazzava indaffarata, preparando il caffè e inserendo il pane nel tostapane, in modo che Juliet non si accorgesse di quanto sembrasse sconvolta. La testa le martellava intensamente. Il brandy l’aveva stordita, ma bisognava pagare un prezzo per avere un tale privilegio. «State bene entrambi?» «Steve è andato da sua madre per controllare come sta. Non ha voluto che andassi con lui. So che è un’alcolizzata e posso immaginarmi lo stato in cui si trova, eppure… sarà la nonna del mio bambino. Dovrei incontrarla dopo tutti questi anni». «Non l’hai mai vista?», chiese Floz. «Mai», rispose Juliet. «Povero Steve», disse Floz. «Come mai sua madre si è ridotta in quello stato?» «Non ne ha mai parlato», disse Juliet, apprezzando proprio in quel momento il fatto che Steve non avesse mai giocato la carta del “povero me”, cosa che avrebbe potuto fare se fosse stato davvero egocentrico. «Una volta Guy mi ha detto che anche lei veniva da una famiglia di alcolizzati. Immagino che abbia semplicemente imboccato la strada che già conosceva. Alcune persone non combattono 277/432 con sufficiente forza, vero? Accettano semplicemente il cammino che possono percorrere facendo il minimo sforzo». Floz annuì. Un’immagine di Chris, il suo ex marito, le attraversò per un istante la mente. Avevano avuto così tanta pressione su di loro quando si erano sposati. Dormiva forse meglio in una cella della polizia con lo stomaco pieno di birra più di quanto avesse mai fatto quando era sobrio e carico di responsabilità? L’alcol era davvero un perfido redentore? «Quando torna, comunicheremo la notizia a mia madre e mio padre. Non riesco a immaginare cosa penseranno. Avranno molte notizie da assimilare». Juliet afferrò il Gaviscon e bevve attaccandosi al collo della bottiglia. Prima di quel momento, non aveva mai avuto bruciore di stomaco. Era davvero uno degli effetti collaterali della gravidanza più atroci. «Saranno elettrizzati», disse Floz, mentre si girava verso il frigorifero, per dare poche opportunità a Juliet di vederla con gli occhi gonfi. Juliet proruppe in una sciocca risatina: «Io e Steve Feast! Avremo un bambino! Cacchio, questa non me la sarei mai aspettata. A pranzo ho un appuntamento con Coco per svelargli la bella novità. Vuoi venire?» «No, grazie. Passerò la giornata a scrivere biglietti per la festa del papà», rispose Floz. «Cade a pennello», rise Juliet, e poi sparì in bagno. Capitolo sessantadue Steve si sedette vicino al letto di sua madre. Con un camice da ospedale, sembrava pulita come non l’aveva mai vista. Era priva di sensi e proprio per quel motivo lui riusciva a prenderle la mano senza che lei la ritraesse. Pensò di non esserle mai piaciuto. Non si ricordava nemmeno che lei gli avesse mai detto di volergli bene o che gli avesse mai dato un bacio. O di averla tenuta per mano, nonostante lui avesse desiderato ardentemente che lei lo accompagnasse a scuola come facevano le mamme di tutti gli altri bambini. Le accarezzò le nocche ruvide e fletté le dite di lei intorno alle sue, fingendo di stringerle la mano. Sapeva che cercare di ottenere un po’ di amore da lei era patetico, poiché sua madre non aveva affetto da dargli. «Mamma, diventerò padre», le ripeté Steve, nella speranza che questa volta lo sentisse. «Diventerai nonna. Scommetto che ti piace l’idea, non è così? Scommetto che ti farà tornare a star bene e ti darà uno scopo per cui vivere». Sapeva che quando il bambino sarebbe arrivato lui l’avrebbe sommerso di coccole, lo avrebbe accompagnato a scuola e gli avrebbe regalato i ricordi di un genitore dalle grandi mani affettuose che lo tenevano stretto perché era importante. Si dice che non ti può mancare qualcosa che non hai mai avuto, eppure Steve Feast non era d’accordo, perché, a causa di tutto l’affetto che gli era mancato, avvertiva dentro di sé un dolore lancinante. Era andato a letto con tantissime donne nella speranza di trovare un po’ di calore, anche se solo per poco tempo. E così era stato, ma quel calore non era paragonabile all’affetto di una madre che lo accompagnava a scuola la mattina, prendendolo per mano. Ma Juliet Miller era diversa. Con lei avrebbe potuto quasi dimenticare quanto era stato squallido e freddo il suo passato. I 279/432 sentimenti che lei nutriva per lui erano onesti e lui amava il modo possessivo in cui le braccia di lei lo cingevano, persino nel sonno. Voleva trascorrere il resto della sua vita con quella donna, farla diventare sua moglie, dare il suo cognome e una casa al bambino che portava in grembo. Steve strinse la mano flaccida di sua madre, poi in un’improvvisa esplosione di consapevolezza lei la ritrasse. Dopodiché il suo petto si arrestò e i macchinari iniziarono a suonare, le infermiere accorsero e, ancora una volta, lui fu spinto via da lei. Telefonò a Guy alle quattro. Non chiamò Juliet perché non voleva che andasse in ospedale nelle sue condizioni, che stesse a contatto con la morte. Voleva prendersi cura della sua donna, non che fosse lei a doversi prendere cura di lui. Quando Guy arrivò in ospedale, la signora Feast se ne era già andata. Non avrebbe mai visto i suoi nipoti, non sarebbe mai più tornata a star bene. Steve singhiozzò sulla spalla di Guy, così come Guy aveva singhiozzato in passato sulla sua; desiderava solo portare indietro l’orologio per eliminare il dolore, curare sua madre e farla sentire felice, visto che lei non riusciva a trovare da sola la strada per la serenità. Capitolo sessantatré Caro Chas, mi dispiace terribilmente disturbarti. In una delle sue lettere Nick mi aveva detto che avrebbe dato disposizioni a sua sorella di inviarmi una sua foto. Ne ho alcune di lui quando era un ragazzino ma, purtroppo, non ho conservato quelle dove era adulto. Credi che, quando il momento sarà adeguato, potrai chiederle ciò da parte mia? Penso veramente tanto a lui, mi aiuterebbe a sfogarmi per la sua perdita, e ne ho davvero bisogno. Distinti saluti, Floz Cherrydale Floz, vedrò quello che posso fare per te.Vivo a Calgary ma andrò a Okanagan all’inizio del prossimo anno e lo menzionerò.Farò del mio meglio affinché te ne inviino alcune. Non preoccuparti di disturbare. Il primo fine settimana di ottobre uscirò a fare un giro con la mia barca e passerò il giorno a bighellonare e a ricordare Nick.Un paio di anni fa mi ha insegnato come si pescano i salmoni.Ne prenderò alcuni per lui. Chas Capitolo sessantaquattro Perry e Grainne restarono assolutamente estasiati per la notizia del bambino, anche se furono un po’ sconvolti di scoprire che Steve era il padre e che lui e Juliet stavano portando avanti una «storia d’amore segreta», come lei aveva deciso di ribattezzarla, al posto di «festa del sesso». Tuttavia, quelli furono dei giorni confusi, con una così bella notizia da festeggiare nel mezzo di un momento molto triste per Steve. Il lunedì sera Juliet si svegliò e trovò Steve seduto nell’angolo del letto, intento a osservare una vecchia foto di sua madre che risaliva a quando era molto più giovane. Si era messa in posa per la macchina fotografica in un giardino sommerso dalla vegetazione, in compagnia del figlio. Steve teneva in alto la mano affinché lei gliela prendesse; le mani della signora Feast erano congiunte davanti a lei. «Ehi», disse Juliet, abbracciandolo da dietro. «Vieni a dormire». «Avrei dovuto fare di più per aiutarla». Steve tirò su col naso. «Avrei dovuto costringerla ad andare in un centro di riabilitazione». «Non ci sarebbe andata, amore. Se non ci sei riuscito tu, nessuno ce l’avrebbe mai fatta». «Per piacere, domani non venire al funerale con me», sussurrò Steve. «Ho detto a Guy che voglio dirle addio da solo». «Invece verrò, accidenti», disse Juliet. «Non potrei mai lasciarti ad affrontare tutto questo da solo». «Sarà deprimente». «È un funerale. Non mi aspetto che ci siano dei pagliacci». A Steve venne inaspettatamente da ridere, per cui si arrese. «Grazie», disse. «Non devi ringraziarmi», puntualizzò Juliet, baciandolo sulla guancia paffuta. 282/432 «Mi hai dato la speranza», disse Steve teneramente. «Mi stai dando tutto quello che volevo dalla vita. Vorrei soltanto che anche Guy fosse così fortunato». Juliet annuì appoggiandosi alla sua spalla. Se anche suo fratello – e l’adorabile Floz – avessero trovato qualcuno da amare, come lei e Steve avevano fatto, sarebbe stata davvero la donna più felice del mondo. Capitolo sessantacinque Dopo il funerale, Steve guidò fino a casa di sua madre. Non voleva entrare, desiderava semplicemente dare un’ultima occhiata all’edificio. Non ne conosceva il motivo, ma sapeva solo che quello era il momento giusto per mostrare a Juliet il luogo da cui veniva, da cui era scappato e in cui lei e il loro bambino non sarebbero mai finiti. Mentre parcheggiava la macchina, riuscì a stento a credere ai suoi occhi quando vide che la recinzione di Sarah era sfondata e che c’erano dei solchi di ruote sul prato. Il cesto sospeso da pallacanestro era stato staccato e capovolto e Sarah stava raccogliendo la terra con la scopa, facendo delle pause per asciugarsi le lacrime con il dorso della mano. «Che cosa diavolo è successo?», chiese Steve, schizzando fuori dall’auto. «Oh ciao, Steve. È andato tutto bene, caro? Mi dispiace di non essere riuscita a venire. Non ho osato lasciare la casa… temevo che loro tornassero». Steve non rispose alla domanda, piuttosto gliene fece una a sua volta: «Qualora tornasse chi, Sarah? Che cosa ti è suc-cesso?». Poi il piccolo Denny apparve sullo sfondo: aveva il labbro inferiore gonfio e un occhio nero che teneva chiuso. «È ancora colpa del figlio di Artie Paget?». La forte e tranquilla Sarah sembrava affranta mentre scrollava le spalle. «Va bene», disse Steve, traendo un profondo e sinistro respiro. Juliet stava uscendo dalla macchina. «Resta dentro, amore», fece Steve a denti stretti, mentre tornava marciando verso il posto del guidatore. «Qualsiasi cosa tu stia pensando, non farla», lo implorò Sarah. «Risolverò questa faccenda. Non preoccuparti. Una volta per tutte, questa storia finirà», disse Steve. Si ricordò dell’indirizzo che 284/432 Sarah gli aveva dato l’ultima volta che era stato lì. In ogni caso, sarebbe stato facile individuare dove viveva Artie Paget. La sua casa aveva un’enorme antenna parabolica fissata alla parete e una Jaguar d’epoca parcheggiata fuori. Inoltre, attraverso la finestra, Steve poteva scorgere in salotto il più grande televisore del mondo. «Juliet, non uscire dalla macchina, tesoro. Promettimi che starai qui seduta. Ricordati che stai aspettando un bambino», disse Steve. E, per una volta, Juliet Miller fece come le era stato detto. Steve martellò alla porta di Artie Paget con il suo pugno potente. E tornò a martellare quando non ottenne risposta, visto che era sicuro che ci fosse qualcuno in casa. Venne alla porta un piccolo bambino presuntuoso, con dei capelli piuttosto lunghi e delle scarpe da ginnastica che costavano più degli arredi della casa della madre di Steve. Era alto come un ragazzino di dieci anni, ma aveva gli occhi duri di un adulto che ha imparato ad arrangiarsi per strada. «Va bene, va bene», disse. «Chi sei?» «Tu devi essere Tommy», disse Steve, tenendo sotto stretto controllo la rabbia – per il momento. «Chi è che lo vuole sapere?» «Voglio parlare con tuo padre». «Perché?» «Non ti deve interessare il motivo, chiedigli semplicemente se, per piacere, può uscire subito». Una coppia di vicini era apparsa sulla soglia e qualche tenda si era mossa mentre Steve guardava Tommy Paget che indietreggiava lentamente in casa e chiudeva la porta con calma dietro di sé. Steve non era particolarmente paziente e quando Artie Paget non si materializzò immediatamente, il suo pugno si abbatté di nuovo sulla porta, questa volta più violento. Steve stava per martellare ancora quando l’uscio si aprì e, lì in piedi, apparve il robusto e ripugnante Artie Paget, con la sua abbronzatura, i capelli tinti di un biondo banana e un incisivo d’oro. Steve sapeva che Artie aveva la reputazione di un duro, poiché 285/432 sollevava un po’ di pesi in palestra, fumava un grosso sigaro e si pavoneggiava in giro indossando un completo di Crombie, la famosa griffe britannica. Steve sapeva anche che era uno zimbello agli occhi dei veri gangster a cui aspirava assomigliare. Artie Paget: padre del piccolo idiota che senza dubbio aveva fornito veleno a Christine Feast, facendone un’attività lucrativa. Artie Paget: capo della banda della scuola che aveva diffuso il nomignolo di “Steve lo Sciatto”. «Chi cazzo sei?», ringhiò Artie. «Sono qui per tuo figlio, Tommy», disse Steve, omettendo le presentazioni formali. «Sta dando fastidio ad alcuni miei amici con le sue “buffonate da ragazzino”». «Cacchio, sei proprio “Steve lo Sciatto”». Le labbra di Artie si tirarono in un sorriso sgradevole prima di ammosciarsi e tornare al solito broncio accigliato. «Vaffanculo!», affermò sogghignando e poi tentò di chiudere la porta, non aspettandosi che questa sarebbe stata riaperta con un calcio. «Come dicevo, si tratta di Tommy». Tommy era in piedi dietro suo padre, a braccia conserte, con la testa inclinata secondo un’angolatura caparbia e un sorrisetto compiaciuto e sicuro di sé stampato su quel suo viso da ragazzino sbruffone. «Che cazzo! Steve lo Sciatto cerca di dirmi che cosa devo fare? Tutto ciò è maledettamente divertente! Come sta quell’ubriacona di tua madre di questi ultimi tempi? Non ha ancora imparato come si apre il rubinetto della vasca?», rise Artie, mentre un’ondata di ricordi allettanti della sua infanzia gli risaliva in fretta alla mente. «Faresti meglio a dire a tuo figlio di smetterla di comportarsi da bullo con i bambini a scuola e di non distruggere le proprietà degli altri», disse Steve, mentre la mascella gli si contraeva al sentir nominare sua madre. Ma frenò la sua rabbia, per il bene di Sarah. «O cosa? Gli farai il culo, Sciatto?», lo prese in giro Artie. «No, lo farò a te», disse Steve, controllandosi le unghie con aria indifferente. 286/432 Artie Paget, consapevole di avere molti occhi puntati addosso, proruppe in una risatina presuntuosa, mise una mano nella tasca dei pantaloni e fece per tornare dentro. Poi, senza preavviso, si girò e sferrò un pugno verso il naso di Steve. Indossava alla mano un brutale tirapugni di ottone, che avrebbe spiaccicato il naso di Steve contro il viso, se solo l’avesse toccato. Tuttavia, Steve aveva fatto molti allenamenti di box ai suoi tempi, oltre che di wrestling, e tra le altre cose sapeva “volare come una farfalla”. Mentre Artie Paget si sbilanciava in avanti, il pugno di Steve partì da sotto in un montante eseguito con perizia. Il pugno racchiudeva in sé anni di dolore e nostalgia, frustrazione, sofferenza e lacrime. In tutta Wakefiled poterono udire la mandibola di Artie spezzarsi. Artie Paget rimase disteso a terra, frignando come un bambino. Non si sarebbe potuto riprendere da un pugno del genere, e nemmeno lo desiderava perché sapeva che ce ne sarebbero stati tanti altri a seguire. Steve non si era nemmeno scomposto. «Tu… bastardo!», fu tutto ciò che Artie riuscì a dire, mentre cercava di recuperare un minimo di dignità, emettendo una serie di rumori simili a ringhi, ma non volendo allo stesso tempo fornire altre ragioni a Steve per tornare a picchiarlo. Del sangue gli colò tra le dita. «E la sai una cosa, Paget, ogni volta che Tommy oserà anche solo guardare Denny o la casa di sua madre, tornerò e ti pesterò. Mi hai capito? Te lo sei ficcato in quel tuo cervellino? Perché ciò che ti sto dicendo è molto semplice. Occupati di tuo figlio, oppure io mi occuperò di te. E continuerò a farlo finché non la smetterà». Artie annuì in modo riluttante. «È un sì quello?», insistette Steve. «Ho detto sì, va bene», grugnì Artie, sputando sangue mentre rispondeva. «Bene», disse Steve, e poi si lisciò il competo nero. «Grazie». A giudicare dai deboli applausi che ricevette da alcune delle case dei vicini, suppose che Artie Paget non fosse l’uomo più benvoluto del quartiere. Steve aprì la portiera della macchina, si infilò dentro e 287/432 si allacciò la cintura, consapevole per tutto il tempo del fatto che Juliet lo stava guardando intensamente. «Cosa c’è?», domandò lui. «Non sei uno che minaccia soltanto, vero?», disse lei, completamente esterrefatta. «Sei davvero bravo a fare a pugni». «Certo che sono bravo a fare a pugni, donna. Sono un dannato lottatore di wrestling». «Ma io credevo che fosse tutto finto. Credevo che in fin dei conti foste tutti dei rammolliti». «Be’, allora ti sbagliavi, no?», sbuffò lui. Steve era una grossa palla di testosterone in un completo nero veramente elegante e si sarebbe avvalso di tutto ciò una volta arrivato agli uffici comunali delle case popolari, verso cui si stava dirigendo e da dove non se ne sarebbe andato finché qualcuno non gli avesse assicurato che Sarah e Danny sarebbero stati trasferiti fuori da Ketherwood prima che l’autunno fosse finito. Quell’anno Babbo Natale sarebbe arrivato prima per loro. Capitolo sessantasei Caro Chas, scusami se ti disturbo ancora, questa è davvero l’ultima volta, ma mi chiedevo se mi potessi dire quando era il compleanno di Nick, in modo che possa commemorarlo. Spero tu stia bene. Mi manca tanto parlare con lui. Floz Floz, il compleanno di Nick era il quattordici aprile. Chas Quando Floz ricevette l’e-mail di Chas rimase confusa. Era certa, per via delle precedenti conversazioni che aveva sostenuto con Nick, che il suo compleanno fosse in autunno. Si ricordò di quando aveva condiviso con lei il ricordo di un compleanno festeggiato in un qualche bellissimo giardino. Aveva ancora l’indirizzo salvato tra i suoi siti preferiti: i giardini Butchart a Victoria. Era a circa 4800 chilometri e due ore di viaggio in traghetto da dove lui viveva quando era bambino. Le aveva detto che non gli era permesso rincorrere gli scoiattoli, raccogliere fiori o giocare nel fango. «Insomma non era un paradiso per un bambino di sei anni che si aspettava una torta e una festa». Era certa di quel che lui le aveva detto. E quindi era quasi altrettanto sicura che il suo compleanno fosse all’inizio di ottobre. Era probabile che Chas si fosse sbagliato? Non molto, dato che lui e Nick erano amici d’infanzia. Cercò Nick Vermeer su Google, poi la data della sua morte, la data del suo compleanno e il monte Robson, ma non trovò nulla. Non c’era né un necrologio online, cosa che si sarebbe aspettata di trovare, né una pagina di condoglianze su Facebook aperta dai suoi amici e dalla sua famiglia, o dai suoi ex compagni dell’esercito. Sapeva che il suo lavoro, come promettente ingegnere presso gli impianti di trivellazione, avrebbe dovuto fornire 289/432 qualche risultato, ma non trovò nulla. Non c’era una sola parola in tutta la rete riguardo a un uomo chiamato Nick Vermeer. Capitolo sessantasette Quando le arrivò la proposta di matrimonio, Juliet non era in cima alla torre Eiffel come aveva a lungo fantasticato, ma in un’economica friggitoria lungo la strada, il giorno successivo al funerale della signora Feast. Juliet aveva proposto a Steve di camminare fino in città e andare a vedere un film. Sapeva che lui adorava il cinema e pensava che lo avrebbe tirato su di morale. Dopo il film, andarono in un pub nelle vicinanze per bere qualcosa – una limonata nel caso di Juliet, un paio di vodka doppie per Steve. Tornarono sempre a piedi, giacché era una serata fresca e piacevole, con un cielo pieno di stelle. Delle secche foglie marroni si stavano rincorrendo freneticamente lungo la strada, impazienti, e non attesero che l’omino verde segnalasse loro quale fosse il momento sicuro per attraversare. Dalla parte opposta della friggitoria c’era un parco giochi, e alcuni bambini – fuori a un’ora troppo tarda per loro – stavano lanciando in alto dei bastoncini verso gli alberi di castagno, nel tentativo di fare cadere qualche riccio. Le braccia di Steve avvolsero Juliet e lei assaporò quella sensazione. Decisero di ordinare qualcosa da Cod Almighty, che si trovava appena svoltato l’angolo in Blackberry Court. «Due porzioni di fish and chips, due vaschette di piselli e due focaccine dolci», disse Juliet, veramente affamata per la prima volta da secoli. Steve inspirò e il suo stomaco borbottò in segno di apprezzamento. Erano giorni che anche lui non mangiava degnamente, e pertanto i due bicchieri di vodka che aveva bevuto al pub gli erano saliti alla testa, facendolo sentire un po’ sballato. Ne dedusse di aver bevuto abbastanza. Guardò Juliet e stentò a credere che fosse sua. Era una ragazza di una tenacia formidabile, anche ai tempi della scuola. Quando pensava a lei, si sentiva invadere dal calore e dall’affetto. Cribbio, 291/432 quella donna lo aveva trasformato in un ragazzino melenso. Con lei resisteva più che quando aveva vent’anni con le altre ragazze. E una volta appagato l’aspetto sessuale, coccolarsi e dormire insieme era altrettanto magnifico. Così come svegliarsi e vedere il sorriso di lei che si illuminava quando lui le portava una tazza di tè. O sguazzare insieme nella vasca, sebbene stessero un po’ stretti – lui le attorcigliava le gambe intorno e le strofinava il viso sul collo. O parlare con lei, ridere con lei, discutere verbalmente, e fisicamente, con lei. Esibì un largo sorriso e sentì che era il momento giusto per proferire quelle parole. «Juliet Miller, mi vuoi sposare?». In quello stesso istante, la commessa chiese: «Volete anche il sale e l’aceto?». Juliet si immobilizzò, di fatto ogni cosa sembrò immobilizzarsi. Fatta eccezione per Steve, che barcollava leggermente a causa dell’effetto della vodka, la friggitoria sembrava una natura morta. Mancavano solo dei grappoli d’uva e un vaso sullo sfondo. Juliet era talmente sotto shock che gli diede la risposta che avrebbe dovuto indirizzare all’attonita commessa. «Ehm… no grazie», disse Juliet. «Fa lo stesso, allora», disse Steve. «Mi riferivo al sale e all’aceto. Che cosa hai appena detto, Steve?», chiese Juliet. Aveva davvero appena udito quello che credeva? Si sentì vagamente stordita. «Ho detto: “Mi vuoi sposare?”». «Oh», disse Juliet. «Allora ho sentito bene». «Quindi?». Steve andò a sbattere contro il bancone. «Perché non me lo chiedi domattina quando sei sobrio?», disse Juliet, ansimando. Era una domanda troppo importante e sapeva che lui non era del tutto lucido. «Va bene», disse lui. Steve pagò per il cibo d’asporto e camminarono in silenzio verso casa. 292/432 Il resto della serata fu paragonabile a una foschia indistinta. Nessuno dei due tornò a menzionare la proposta, sebbene la mente di Juliet la stesse ripetendo all’infinito. Una volta giunti a casa, né Steve né Juliet riuscirono a mangiare granché. A un certo punto, lui menzionò addirittura il meteo. Quando andarono a letto, si diedero il bacio della buonanotte, poi si misero entrambi a fissare il buio, chiedendosi che cosa avrebbe portato loro il mattino, senza accorgersi che anche l’altro stava facendo la stessa identica cosa. Capitolo sessantotto Quando Juliet aprì gli occhi, Steve si era già svegliato da almeno un’ora, ed era rimasto lì disteso, con il braccio sul cuscino, sotto la testa di lei. Juliet si ricordò all’istante della proposta e deglutì con forza. «Buongiorno», disse lei sbadigliando, senza osare guardarlo. I suoi nervi erano già ridotti a pezzi. «Buongiorno», rispose lui. Affermare che il silenzio che seguì fu un po’ imbarazzante sarebbe come dire che il sole era un po’ caldo. Tutti e due restarono distesi supini, a fissare la lampadi-na, mentre i loro cuori correvano come dei levrieri a caccia di lepri. «Ti ricordi che cosa ho detto ieri sera?», chiese infine Steve. «Sì», disse Juliet in un sussurro. «Oh al diavolo, vorrei che tu non avessi risposto così», si lamentò Steve. Floz fu svegliata da alcuni schianti che provenivano dal salotto. Si precipitò fuori dalla sua camera, aspettandosi di vedere il ladro più rumoroso del mondo, ma trovò invece Steve rannicchiato dietro il divano e Juliet che gli stava scagliando addosso delle scarpe come fossero missili. «Bastardo!», stava urlando lei. «Juliet, ascoltami!». Steve fece capolino oltre la spalliera, per cercare di spiegarsi, poi la ricacciò dietro, per nascondersi, mentre Juliet gli scagliava contro una scarpa col tacco. «Che cosa diamine sta succedendo?», urlò Floz. «Mi dispiace se ti abbiamo svegliato, Floz, ma questo… questo porco mi ha fatto una proposta di matrimonio e poi l’ha ritirata». 294/432 «Ahi!», disse Steve mentre una grossa scarpa Crocs rossa centrava il bersaglio, colpendolo in testa. «Floz, falla smettere. Lascia che ti spieghi, Ju. Io non l’ho ritirata. Juliet, dammi dieci secondi di tregua!». Ma Juliet non era dell’umore giusto per ascoltarlo e gli lanciò uno stivale a mo’ di granata. «A ogni modo, non sei uno da sposare. Non ti sposerei neanche se fossi l’ultimo…». Floz si gettò su Juliet mentre lei raccoglieva una scarpa con un tacco a spillo di dodici centimetri. «Basta!», le urlò. «Così lo ucciderai!». «Appunto», ribatté Juliet. «Ju, per piacere, ascolta», disse Steve, sventolando un fazzoletto bianco in segno di resa. «Smettila, prima di far male al bambino», insistette Floz, decisa a non lasciare andare il braccio di Juliet. Juliet stava ansimando per lo sforzo, tuttavia le parole di Floz ebbero l’effetto desiderato. Sì, il suo bambino era in ascolto; doveva calmarsi. «Hai dieci secondi, testa di minchia», disse Juliet, formando l’ultima parola con le labbra in modo che il suo bambino non la udisse. Steve trovò il coraggio di alzarsi e spuntò a mezzo busto da dietro il divano. «Non volevo che ti ricordassi che avevo fatto la proposta…», Steve vide la bocca di Juliet che tornava a fare una smorfia scoprendo i denti, per cui continuò in fretta, «perché non avrei dovuto farlo in una friggitoria del cacchio. Speravo che te ne fossi dimenticata soltanto perché, se così fosse stato, avrei potuto portarti in qualche posto carino e farti una proposta come si deve, vicino a un fiume o davanti a un bicchiere di champagne, mi sarei inginocchiato e ti avrei dato un anello. Non davanti a una donna che ci chiedeva se volessimo del sale e dell’aceto sul nostro dannatissimo merluzzo!». Juliet deglutì. «Oh», fu tutto ciò che riuscì a pronunciare in risposta. 295/432 «È questo che volevo dire», disse Steve. Si alzò in piedi mentre la presa di Juliet sulla scarpa si allentava, e questa le cadeva di mano. «Allora?», disse Floz, a braccia conserte. «Quell’uomo merita delle scuse». «Mi dispiace», disse Juliet. Sentì il suo stomaco ridursi in poltiglia. Nei romanzi, aveva letto di uomini capaci di tanta tenerezza, ma non pensava che lei ne avrebbe mai beneficiato. Rimase nuovamente impressionata dai modi rispettosi e amorevoli di Steve. «Juliet, so che abbiamo appena iniziato a uscire insieme, ma ci conosciamo da una vita. Voglio che il bambino nasca come figlio del signore e della signora Feast…». «Oh, Steve». «E se tra noi non funzionerà, di questi ultimi tempi divorziare non è poi così complicato…». Floz alzò una mano. «Shh! Smettila finché sei ancora in tempo, Steven». Steve seguì il consiglio di Floz e non terminò la frase, ma ne iniziò una nuova: «Voglio solo sposarti, Ju. E voglio sposarti in fretta». «Non mi serve dello champagne o uno scenario sofisticato, Steve. Così va benissimo, grazie», disse Juliet: d’altronde una bottiglia di spumante o una grande luna fuori dalla finestra non avrebbero potuto farla sentire ancora più sdolcinata e melensa di quanto non si sentisse già in quel momento. Steve protese le braccia e Juliet scivolò nel suo abbraccio. «Dopo il lavoro andremo a scegliere un anello, ti va?». Floz prese il suo cappotto e l’ombrello e lasciò l’appartamento, così da concedere loro un po’ d’intimità. Si sentiva confusa e a un passo dal crollo. Le nuvole erano pesanti e grigie, ma la brezza era troppo forte perché lei riuscisse a tenere alto l’ombrello. Non importava. Desiderava che il vento impetuoso la travolgesse e spazzasse via tutti i suoi pensieri, l’uno dopo l’altro. Una frizzante passeggiata autunnale sotto la pioggia era esattamente ciò di cui aveva bisogno. Ottobre A me pare che la gioventù sia come la primavera, stagione troppo elogiata […] e in genere memorabile più per venti maligni che per dolci brezze. L’autunno è la più dolce stagione, e la mancanza dei fiori è più che compensata dai frutti. Samuel Butler, Così muore la carne Capitolo sessantanove Questa volta Guy era determinato a fare le cose per bene. La festa che si sarebbe tenuta la sera successiva al fidanzamento ufficiale – ovvero non quello avvenuto in friggitoria – avrebbe lasciato tutti a bocca aperta, specialmente Floz. Il pavimento della cucina di sua madre e suo padre avrebbe avuto bisogno di essere rinforzato, considerando quanto cibo aveva in mente di cucinare. La cena di Natale della regina, al confronto sarebbe stata un Happy Meal del McDonald’s. Perry e Grainne erano ancora in uno stato di estasi per via del bambino in arrivo e per la notizia, data loro quella mattina, che Juliet e Steve si sarebbero sposati il giorno del compleanno di Juliet, ovvero il cinque novembre. Erano preoccupati che stessero facendo tutto un po’ troppo in fretta, ma poi si ricordarono che anche loro si erano incontrati e sposati nel giro di quattro mesi. Il parroco locale di Maltstone, il reverendo Glossop – altrimenti conosciuto come il reverendo Gossip, per l’assidua propensione al pettegolezzo – aveva ricevuto una cancellazione proprio per quel giorno. Dovevano scegliere tra quella data e il quattro marzo e, visto che quest’ultima corrispondeva all’anniversario del primo matrimonio di Juliet, sposarsi in quel giorno era assolutamente fuori discussione. Tutti concordavano sul fatto che, come data di matrimonio, oltre che di compleanno, la sera del cinque novembre – ossia la serata dei falò in commemorazione della congiura delle polveri – si addicesse perfettamente a Juliet. Guy aveva telefonato a sua sorella per accertarsi che Floz non avesse nessun’altra allergia alimentare, oltre quella alle fragole, poiché non voleva correre alcun rischio. Fortunatamente, non ne aveva. Come antipasto, avrebbe preparato la spigola, la sua specialità, un trionfo di vari tipi di carne come portata principale e un tris di dolci al cioccolato per dessert. Grazie a quel menu, avrebbe solleticato i 298/432 suoi sensi. L’avrebbe sedotta con il cibo: Floz sarebbe stata come creta nelle sue mani. Floz era seduta da sola nell’appartamento e trovava difficile concentrarsi sull’incarico di quel giorno: delle poesie in merito alle “congratulazioni per la tua gravidanza”. Osservò le immagini che Lee Status le aveva inviato per e-mail affinché lei le accoppiasse ai testi. Il disegnatore aveva realizzato delle immagini favolose di donne in stato di estasi con grandi pance rotonde. Floz pensò alla pancia di Juliet che cresceva ogni giorno di più, a come avrebbe premuto con orgoglio contro i suoi vestiti, a come sarebbe cambiato il suo modo di camminare, a come avrebbe posato la mano sul suo addome per sentire il bambino che si agitava dentro di lei. Si immaginò Juliet e Steve distesi a letto, incantati a osservare la pancia di lei che si muoveva, mentre il bambino si agitava lì dentro, dimenandosi per trovare una posizione comoda. Pensò a Juliet addormentata su una sedia a dondolo, mentre il suo respiro calmo e delicato cullava il bambino affinché dormisse insieme a lei. Sarebbe sembrata bellissima. Tuttavia, Floz inviò un’e-mail a Lee Status e gli mentì dicendo che aveva dei disturbi di stomaco e che non sarebbe stata in grado di portare a termine quell’incarico. Poi si rannicchiò a letto e cercò di non pensare, così da riuscire a dormire, ma dopo un’ora circa si arrese. Si alzò e sentì il suono che le indicava l’arrivo di un’e-mail. Chas Hanson le aveva mandato una lettera. Se fosse stata in una busta, l’avrebbe aperta strappandola. Floz, ti scrivo soltanto per accertarmi che sia tutto a posto. Ricordati che la soffirenza, dopo un certo tempo,supera il picco più alto, lasciando in regalo tanti bei ricordi. Ho semplicemente pensato che queste mie parole potessero darti conforto. Chas 299/432 Floz lesse l’e-mail più e più volte. Non sapeva se ciò fosse vero; alcune sofferenze si depositavano nel suo cuore e non raggiungevano mai il loro acme, bisognava solo imparare a conviverci. Tuttavia, Chas era stato gentile a inviarle quel messaggio, nel tentativo di confortarla. Sembravano delle parole che avrebbe potuto dire Nick. Steve fu il primo ad arrivare a casa dei Miller. Aveva appena ritirato la sua macchina nuova. Alla luce delle circostanze, aveva venduto la sua Volvo per una monovolume a sette posti con un grande bagagliaio, dei sedili comodi e un’infinità di dispositivi di sicurezza: la macchina ideale per una famiglia. Si allontanò dal benzinaio immaginando il seggiolino del bambino sul sedile posteriore e Juliet con un anello al dito seduta accanto a lui, probabilmente impegnata a insegnargli il modo corretto di guidare. Era un’emozione molto più intensa di quella che un motore di quattromila di cilindrata a iniezione avrebbe mai potuto dargli. Coco arrivò subito dopo, in taxi; si esibì in una stravagante entrata, mandando baci a destra e a manca, e restò esterrefatto quando vide l’anello di fidanzamento di Juliet, con tanto di diamante solitario. Era da solo perché, a quanto pareva, Gideon era troppo timido per conoscere tutta la famiglia in una volta sola. «Sei certo che esista?», lo prese in giro Steve. «Non l’ha ancora visto nessuno». «Guarda». Coco armeggiò per un attimo con il suo cellulare, poi lo ficcò sotto al naso di Steve. «Ecco una foto di noi due insieme». L’immagine era però sfocata e scura. Tutto ciò che Steve riuscì a intuire fu che si trattava di due teste maschili accostate. «Potrebbe essere chiunque», obiettò. «Be’, non è così. Siamo Gideon e io, per cui taci», disse Coco stizzito. «Champagne, Raymond?», chiese Grainne, porgendogli una lunga flûte di spumante rosé. «Se devo». Coco sospirò con fare drammatico. C’erano soltanto tre persone che avevano l’autorizzazione a chiamarlo Raymond in 300/432 sua presenza: i signori Miller e sua nonna. Tuttavia, ultimamente sua nonna era un po’ invecchiata e si rivolgeva più di sovente a lui chiamandolo Brenda. «Merda!». L’esclamazione proveniente dalla cucina fu accompagnata da un clangore di pentole che precipitavano al suolo. «Tutto a posto in cambusa?», gridò Perry, fremendo di gioia mentre lo champagne gli scendeva gelido giù per la gola. «A posto, papà», rispose Guy, pur non convincendo nessuno. «Vuoi che ti aiuti, tesoro?», chiese Grainne. «No, no, no», urlarono tutti in segno di protesta. Qualcuno suonò al campanello e Guy ebbe un tuffo al cuore. Dovevano essere arrivate Floz e Juliet. Si diede una controllata veloce al minuscolo specchio appeso alla parete della cucina. Dopodiché uscì. «Ciao», disse. Floz non c’era, vide soltanto sua sorella. «Floz non viene?», sbraitò ansioso. «Sta parcheggiando la macchina», disse Juliet. «La lasceremo qui e la passeremo a prendere domani. Oh ciao, Juliet, è bello vederti, Juliet!», aggiunse in tono sarcastico. «È bello vederti, Juliet», disse Guy, tirando un grosso sospiro di sollievo prima di ritornare in cucina. «Che cos’ha?», chiese Juliet a Steve, indicando la schiena del fratello che stava scomparendo dalla loro vista. «Sai com’è quando cucina: un perfezionista». «Perché ha pronunciato il nome di Floz in modo così aggressivo? Gli dispiace che ci sia anche lei?» «Non essere sciocca». Steve fece una risatina nervosa perché non voleva spifferare il segreto di Guy. Specialmente non a Juliet e alla sua lingua lunga. Ciononostante, Juliet dedusse da quella risata metallica che Steve sapeva più di quello che lasciava a intendere. Forse Floz aveva ragione, dopotutto, forse a suo fratello non piaceva poi così tanto. Che strano. Floz parcheggiò la macchina sovrappensiero. L’ultima e-mail di Chas le ronzava in testa come un’ape impazzita. “La soffirenza, dopo 301/432 un certo tempo, supera il picco più alto…”. Non sapeva il motivo per cui stesse rimuginando su quelle parole. Sperò soltanto che il suo cervello riuscisse a elaborare una soluzione e le sputasse una risposta. Si lisciò il vestito, un abito verde con una cintura in vita. Faceva risaltare il verde dei suoi occhi, mentre i suoi capelli sembravano, a confronto, dello stesso colore delle fiamme dei falò. Suonò al campanello, le parole dell’ultima e-mail di Chas continuavano a ripetersi come un disco rotto. Guy sentì arrivare Floz. Sporse la testa fuori dalla cucina e la osservò con indosso quel vestito verde, con i capelli dai morbidi ricci che le ricadevano sulle spalle. Alzò una manona, le disse «ciao» e si ritirò subito, prima che Floz potesse ricambiare il gesto. Adesso Juliet riusciva a capire quello che intendeva Floz. Non avrebbe potuto salutarla in maniera più sbrigativa neanche se ci avesse provato. Be’, così non andava bene. Avrebbe sistemato le cose tra loro a costo di morire. Non poteva permettere che la sua amica e suo fratello non si sopportassero a vicenda. L’affettuosità di Coco compensò la freddezza di Guy. Balzò verso Floz per abbracciarla e poi la passò al resto della famiglia Miller e Steve affinché la salutassero baciandola sulla guancia. «Non ti chiedi come Piers prenderà la notizia di tutte queste novità nella tua vita sentimentale?», disse Steve, sfiorando il bicchiere di Juliet, pieno di vino Eisberg non alcolico, con la sua flûte da champagne. «Certo che me lo chiedo», disse lei. Non aggiunse che Piers, che al momento si trovava a Londra, le aveva inviato tantissimi messaggi in cui la supplicava di uscire con lui per un secondo appuntamento, e che lei gli aveva risposto che aveva perso la testa per una «vecchia fiamma che si era riaccesa» (queste erano state le sue esatte parole) che aveva chiesto la sua mano, piuttosto inaspettatamente. Non aveva accennato alla gravidanza, forse il dettaglio più crudele da dare a un uomo così infatuato. Un dettaglio che, inoltre, avrebbe 302/432 fatto meglio a menzionare in seguito, quando avrebbe discusso del congedo di maternità. Rise scioccamente tra sé, pensando che aveva respinto Piers Winstanley-Black per Steve. Gli gettò un’occhiata di nascosto, mentre lui stava ridendo con suo padre e Coco. “Come ho potuto pensare che fosse un deficiente?”. Era talmente alto e grande e massiccio e bello, e inoltre continuava a sfiorarle il braccio con la mano, come se gli piacesse la sensazione di essere costantemente in contatto con lei. Era tanto romantico da farla andare in brodo di giuggiole. Non si era mai sentita così cotta per nessuno, mai! Nemmeno i primi tempi per Roger, quando lui la faceva struggere con tutte quelle battute sdolcinate prese direttamente dai film spazzatura di serie B, battute che comunque all’epoca le erano sembrate virili e favolose. «Come va il… ehm… corteggiamento, Raymond?», domandò Perry, che stava cercando di adeguarsi al Ventunesimo secolo, ma trovava ancora un po’ strano chiedere a un uomo come stesse procedendo la sua storia d’amore con un altro uomo. «Oh, Perry, ho trovato la mia anima gemella. Un giorno saremo come te e Grainne». «E invece tu, Floz?», chiese Grainne. «Ti sei trovata un giovanotto carino con cui sistemarti?». Tutti gli occhi si spostarono su Floz. Anche in cucina, Guy posò gli utensili per tendere l’orecchio. “L’ho trovato e l’ho perso, poi è tornato ed è morto”. Floz deglutì e lo sguardo le si offuscò. Il suo disagio fu evidente a tutti. Juliet balzò in sua difesa. «Cielo, quanto sono imbarazzanti i genitori? Sediamoci tutti a tavola e aspettiamo la cena», disse mentre lanciava un’occhiata di biasimo a sua madre. Steve, Coco e Juliet si scambiarono degli sguardi d’intesa. Juliet era ora convinta al cento per cento che Floz avesse un problema segreto con un uomo. 303/432 E prese la decisione di scoprire, una volta per tutte, cosa stesse accadendo nella vita della sua amica, che era diventata così depressa. Guy ritornò a predisporre la spigola nei piatti, chiedendosi perché Floz non avesse risposto alla domanda e perché tutti si fossero precipitati a sedersi. Sarebbe stato semplice per lei dire: «No, non ancora». Allora perché non l’aveva fatto? «La cena è servita», disse e apparve con i primi cinque piatti in bilico sulle braccia. Servì per prime le signore, cosa che quei camerieri idioti di Kenny non facevano mai, per quanto Guy avesse molto insistito al riguardo. Si sedette al suo posto a capotavola, vicino a Floz, poiché era lì che Juliet le aveva detto di sedersi. Juliet aveva intenzione di fare di tutto purché diventassero amici. Il pesce era cotto a puntino: fu un trionfo. Tutti stavano emettendo dei versetti di approvazione. «Era davvero buono», sospirò Juliet, mentre si tamponava le labbra con un tovagliolo. «Sei proprio un buon partito!». Steve alzò gli occhi al cielo. Sperò che Juliet non stesse per cimentarsi nel gioco delle coppie. «Non è vero, Floz? Non è un buon partito?». Juliet diede una forte gomitata alla sua amica. Steve diede un calcio a Juliet sotto il tavolo e, quando lei lo guardò in tralice, Steve le lanciò un’occhiata di avvertimento. «Sì, certo», disse Floz, fissando il piatto vuoto con aria imbarazzata. «Lascia che ti aiuti a portar via i piatti», disse Steve, mentre si alzava velocemente in piedi e iniziava a raccoglierli, per poi seguire Guy in cucina, dove venne subito aggredito verbalmente dall’amico. «Dimmi che non hai detto niente a Juliet!». «No, non l’ho fatto», Steve ribatté con un sussurro, teso. «Credi onestamente che le direi che sbavi dietro a Floz?» «A che gioco sta giocando, allora?», disse Guy. «Chi cazzo lo sa?», disse Steve. «Limitati a mettere in tavola la portata principale e farciscile quel suo becco in modo che non riesca a parlare». 304/432 La conversazione in sala da pranzo si era spostata sui matrimoni. Guy cominciò ad affettare l’arrosto di tacchino e Steve il tenero cosciotto di agnello. «Non voglio un abito enorme», disse Juliet. «Devi prenderti un abito con la gonna larga!», gridò Coco, disgustato. «Non puoi certo indossarne uno semplice e banale. E chi vorrai come damigelle?» «Floz, ovviamente», disse Juliet. «E te, in qualità di equivalente maschile. Voglio che percorriate la navata centrale dietro di me, anche se non mi aspetto che tu indosserai un vestito lungo, ovviamente». «Grazie al cielo», sbuffò Coco. «Non sono un travestito!». «Oh, che notizia fantastica», disse Floz. «Non ho mai fatto la damigella prima d’ora». «Neanche io», cinguettò Coco. «Che colore saranno i nostri abiti?» «Stavo pensando a dei colori caldi», rifletté Juliet, rimuginando sulla conversazione avuta con Daphne a proposito del suo matrimonio autunnale. «Oooh, che eleganza». Coco emise un gridolino di gioia. «Devi iniziare a organizzare tutto, Juliet». Grainne bevve un sorso di vino. «Secondo i miei calcoli ti restano trentacinque giorni prima del cinque novembre». «Per tutti i diavoli!», esclamò Juliet. «Be’, se non ci riesci tu, allora non ce la può fare nessuno», sorrise Floz. «Sei una vera forza della natura». Steve e Guy iniziarono a trasportare in sala delle terrine di verdure e uno Yorkshire pudding perfettamente riuscito. «Oh, a proposito, questa mattina abbiamo prenotato all’Oak Leaf per il ricevimento nuziale», annunciò Juliet, aspettandosi che tutti iniziassero a osservarla attoniti. «So quello che state per dire, ma non voglio che tu stia in cucina quel giorno, Guy. E poi il Burgerov è una topaia». 305/432 «Concordo», disse Guy. «È un peccato che non sarà riammodernato in tempo per il vostro matrimonio, altrimenti non avrei accettato un no come risposta. Potrei occuparmi del catering da qualche altra parte se voi…». «Non voglio assolutamente che tu faccia nulla quel giorno che non sia unirti ai festeggiamenti ed essere il testimone dello sposo. È deciso. Quindi non insistere, ne soffrirei». “La soffirenza, dopo un certo tempo, supera il picco più alto…”. «Dunque, che cosa farai con l’appartamento?», chiese Perry, infilzando una grossa e croccante patata al forno. «Che cosa intendi?», ribatté Juliet, con la bocca piena di carote caramellate. «Be’, presumo che ti trasferirai da Steve. Non puoi trasportare un passeggino su e giù per quelle scale a Blackberry Court. Non c’è l’ascensore, vero?». Juliet lasciò cadere la forchetta. Era accaduto tutto talmente in fretta che non aveva riflettuto sulle questioni pratiche. Suo padre aveva ragione, anche se comunque casa di Steve era troppo piccola per qualsiasi progetto a lungo termine, dato che aveva soltanto una camera da letto. E se avesse venduto, dove sarebbe andata Floz? Alzò lo sguardo verso la sua amica e si accorse che era appena stata colpita dallo stesso fulmine a ciel sereno. E se avesse guardato di lato, avrebbe notato che quel fulmine era riuscito a stendere anche Guy. «Floz», disse Juliet. «Non avevo per nulla pensato all’appartamento». «Be’, di sicuro dovrai pensarci», disse Floz con una voce calma da cui non trapelava affatto l’ansia che si era appena impossessata di lei. Viveva con Juliet da meno di due mesi, ma si sentiva davvero a casa. Quali erano le possibilità che trovasse di nuovo un appartamento e una coinquilina del genere? Era stata troppo fortunata a trovare il delizioso condominio di Blackberry Court dove vivere insieme a Juliet, per non parlare di quella meravigliosa famiglia che l’aveva 306/432 accolta a braccia aperte. La prospettiva di lasciare tutto ciò le faceva venire i brividi. Juliet scoppiò in lacrime. «Ormoni!», fu il verdetto di Grainne mentre si alzava rapidamente in piedi per cingere con un braccio le spalle della figlia. «Oh, Floz, mi dispiace», singhiozzò Juliet. «In tutta sincerità, non avevo mai pensato all’eventualità di dover traslocare». «Non essere sciocca», disse Floz, con un sorriso coraggioso. «Adoro il mio appartamento», pianse Juliet. «Odio casa di Steve». «Anche io la odio», disse Steve. «Dovremo sbarazzarci di entrambe e cercare un altro posto. È a malapena grande per me, figuriamoci se ci siete anche tu e il bambino». «O magari i bambini», buttò lì Grainne. «Oh mio Dio, potrei aspettare dei gemelli!», Juliet non poteva sopportare altro. La sua famiglia era una fabbrica di gemelli. Lei e Guy erano la quinta generazione. «Quanto tempo occorrerà per vendere tutto e trasferirsi?». Vendere due proprietà, partorire un bambino e organizzare un matrimonio, era davvero troppo e Juliet si sentì piombare addosso una tonnellata di macerie. Tutto ciò che riuscì a fare fu piangere ancor più copiosamente. «Oh cielo, che cosa ho fatto?», disse Perry, che non riusciva a ricordare l’ultima volta in cui aveva visto sua figlia piangere. «Io e la mia boccaccia». «Be’, per il momento Floz potrebbe trasferirsi nell’appartamento di Guy», suggerì Steve, cercando di rendersi utile, così da non rovinare quel pasto delizioso. «Cosa?», disse Guy. «Una volta che avrai comprato Hallow’s Cottage e ti sarai trasferito lì, intendevo», disse Steve, cogliendo l’occasione di vuotare il sacco, nella speranza di far sì che il suo amico ricevesse l’aiuto che si rifiutava di chiedere alla famiglia. «Hallow’s Cottage?», domandò Perry. «Non è mai stato in vendita, o sbaglio? Lo vendono adesso, dopo tutti questi anni?» 307/432 «Scordatevi di Hallow’s Cottage», disse Guy in tono burbero. «Lo so, lo so, non puoi permettertelo, me l’hai già detto», disse Steve, piantando velocemente il seme delle buone intenzioni nel bel mezzo della stagione dei raccolti. Juliet si era asciugata gli occhi e Grainne era ritornata al suo posto, ma l’atmosfera intorno al tavolo era cambiata come quando una nube minacciosa oscura il sole. Né Juliet né Grainne avevano più voglia di mangiare. Juliet si stava preoccupando per Floz. Grainne si stava preoccupando per Juliet che si preoccupava per Floz. Steve si stava preoccupando poiché non avrebbe dovuto dire nulla in merito a Hallow’s Cottage. Perry si stava preoccupando di aver rovinato l’atmosfera. Guy era seccato per il fatto che Steve avesse tirato fuori la storia di Hallow’s Cottage, che non avrebbe mai posseduto e tantomeno condiviso con una donna come Floz. E se lei avesse lasciato l’appartamento, non avrebbe più avuto alcuna possibilità di passare a trovare sua sorella per vederla. E se si fosse trasferita lontano? Soltanto Stripies, che si stava strusciando contro la gamba di Guy sotto il tavolo nella speranza di ricevere qualche pezzettino di carne, sembrava spensierato. Praticamente nessuno mangiò il dolce. Guy pulì i piatti e gettò gli avanzi nel bidone. In fin dei conti, la sua fantastica cena non aveva sedotto Floz; aveva soltanto fatto da scenario a vicende molto più importanti che si stavano per mettere in moto a causa di tutte novità. Juliet si sentiva stanca e aveva un leggero mal di testa, per cui Steve accompagnò lei e Floz fino a casa, con la sua nuova station-wagon. Guy caricò la lavastoviglie, schiaffando i piatti negli appositi spazi. «Figliolo, posso parlarti?». Perry apparve sulla porta della cucina, con la pipa in bocca. Guy si drizzò. «Certo, papà, che cosa c’è?» «Steve ha detto che non puoi permetterti Hallow’s Cottage». «Steve ha la lingua troppo lunga», disse Guy. «L’ho appena guardato su internet». «Allora capirai perché non prendo nemmeno in considerazione l’idea di comprarlo. È una discarica». Guy chiuse la lavastoviglie e 308/432 cercò di non tenere a freno la forza che si era accumulata nel suo braccio. «Tua madre e io abbiamo parlato». Guy sollevò una mano per interromperlo: «No. So quello che stai per dire, e la risposta è no». «La risposta è sì», disse Perry con calma. «Daremo a Juliet una grossa somma per il suo matrimonio e per il bambino, e daremo a te lo stesso importo. È il momento giusto per farlo, figliolo. I soldi ci sono per tutti e due e non c’è motivo di aspettare che moriamo. Tua madre e io preferiamo che voi ne usufruiate e che li abbiate quando ne avete bisogno». Allungò la mano, nella quale conservava un assegno. Guy guardò l’assegno. Era intestato a lui per una somma di centottantamila sterline. «Papà, sono un casino di soldi!», disse Guy, tenendo le mani lungo i fianchi. «Quando tuo zio Stan e io abbiamo venduto la fabbrica abbiamo ricavato un grosso profitto dal terreno attiguo, poiché abbiamo ottenuto una concessione edilizia. Tua madre e io siamo più che a posto economicamente, e ci piacerebbe vederti comprare quella casa piuttosto che dover aspettare la nostra morte per ereditare quello che vogliamo che tu abbia, come è successo con Stan e i suoi figli. Solo Dio sa da quanto tempo stiamo cercando di dare qualcosa a voi due, è tempo che tu ne capisca il senso. Prendi i soldi, figliolo, e compra la casa. La desideri fin da quando eri bambino». Perry sventolò l’assegno davanti a Guy e quando lui si ostinò a non prenderlo lo mise nelle mani del figlio e gli fece chiudere le dita intorno a quel pezzo di carta. «Ecco, non era poi così difficile, vero?» «Papà, non so cosa dire». «Di’: “Grazie, papà”. Sarà sufficiente». «Grazie, papà». 309/432 Guy gettò le sue possenti braccia al collo del padre e lo abbracciò forte. Amava veramente tanto quell’uomo. E aveva percepito l’amore del padre in ogni singolo giorno della sua vita. Quando finalmente si separarono, Perry tornò ad alzare la sua pipa e soffiò. Poi si girò per andare a comunicare a Grainne la buona notizia: Guy aveva accettato i soldi. «Va’ a comparare la casa, figliolo», gli disse, voltandosi appena. Floz scovò delle immagini di Osoyoos su internet. Sembrava stupendo, esattamente come lui gliel’aveva descritto nelle passate email. Voleva vederlo presto, durante la stagione preferita di Nick. Solo allora sarebbe riuscita a dirgli davvero addio. Sebbene restare ancorata alla sofferenza le sembrasse più allettante che andare alla deriva verso una direzione sconosciuta. “La soffirenza, dopo un certo tempo, supera il picco più alto”. Capitolo settanta Juliet era stranamente giù di corda. Durante il fine settimana aveva passato ore su internet a cercare delle case adatte a una famiglia. Sua madre e suo padre avevano dato a lei e a Steve una grossa somma di denaro da usare per il matrimonio e una nuova casa; era tutto molto emozionante, ma lei si sentiva ancora in colpa per Floz. Lunedì, durante la pausa pranzo, telefonò a Steve. Stava per mettersi a piangere. «Senti, nella peggiore delle ipotesi», disse lui gentilmente, «possiamo affittare un posto abbastanza grande in modo che Flozpossa vivere con noi fino a che non trova una sistemazione adeguata. Che te ne pare?». Juliet sorrise per la prima volta quella mattina. «Non ti dispiacerebbe?» «No, certo che no», disse Steve. «Dovremo mettere in vendita le nostre case a un prezzo ragionevole, per avere buone possibilità di liberarcene in fretta. Poi, ci compreremo casa da qualche parte. È una situazione un po’ ingarbugliata ma sono sicuro che alla fine tutto si risolverà». «Ti amo, Steve Feast». Steve fece uno sdolcinato sorriso. Sperò soltanto che la magia della loro favola a lieto fine contagiasse anche Floz e Guy. Quella mattina Guy stava gironzolando per Hallow’s Cottage insieme a Jeff Leppard, il cui vero nome era Bob Sedgewick: Bob, lo straordinario muratore. «Be’, Crusher», osservò Jeff, «non dovresti fare dei lavori poi così consistenti». Tutti i lottatori di wrestling tendevano a rivolgersi l’un l’altro con i loro pseudonimi, sia dentro che fuori dal ring. 311/432 «E quindi non dovresti farli neanche tu. Se accetti il lavoro». «Possiamo farcela? Certo che sì», rise Jeff. «Questo inverno sarà tranquillo, per cui posso organizzare una squadra non appena concluderai la vendita, se mi comunichi le tempistiche con un po’ di preavviso». «Metterò immediatamente in moto le cose», disse Guy. «Il tetto è solido come una roccia», continuò Jeff, «almeno di questo non ti devi preoccupare. Le pareti hanno bisogno di uno strato impermeabile, ovviamente, e di una riverniciatura globale, ma presumo che chiederai ad Angel di occuparsene. I pavimenti dovrebbero essere carteggiati, ma diventeranno splendidi, ci puoi giurare. Guarda queste assi in quercia. Sono proprio favolose, davvero». Jeff fu travolto dalla stessa visione di Guy, mentre immaginava come sarebbe stata la casa dopo che i suoi ragazzi ci avessero lavorato. Mancava Floz in mutande, con tanto di tacchi alti e grembiule, mentre friggeva la pancetta su uno di quei fantastici vecchi fornelli Aga, che loro avrebbero avuto in cucina. Quando Juliet rincasò, quella sera, c’era un bigliettino ad aspettarla che le diceva che Floz era uscita a fare shopping a Meadowhall, un centro commerciale di Sheffield; poi notò che la segreteria telefonica stava lampeggiando. «Messaggio per la signorina Cherrydale. Le ho inviato per e-mail i costi dei voli per il Canada e delle opzioni per l’alloggio, come da lei richiesto. Desidero soltanto controllare che abbia ricevuto il tutto, poiché sembrava che avesse abbastanza fretta di organizzare il viaggio». Canada? Perché diamine Floz andava in Canada, e in fretta? Aveva forse a che fare con la cosiddetta misteriosa “vecchia fiamma”? Capitolo settantuno Appena terminò il messaggio in segreteria telefonica, il citofono suonò. «Sono io. Fammi salire. Ho una sorpresa per te», gorgheggiò Coco. Juliet gli aprì e Coco entrò poco dopo… e non da solo. L’uomo che era con lui era alto e ben piazzato, aveva dei folti e ricci capelli marroni e degli occhiali neri alla moda, l’esatto opposto di tutti i precedenti compagni di Coco. Non aveva né piercing, né tatuaggi, né ciocche rosa o strani pantaloni. Gideon indossava un elegante completo da intellettualoide del computer. Era molto bello, decise Juliet, aveva l’aria di un affascinante uomo d’affari. «Lui è Gideon», disse Coco, sprizzando gioia da tutti i pori. «Stavamo facendo un giretto in zona e Gideon ha detto: “Perché non passiamo a salutare le tue amiche?”. Dov’è l’adorabile Floz?» «A Meadowhall, a fare shopping», spiegò Juliet, per poi salutare Gideon con un bacio amichevole e garbato. Usava un dopobarba fantastico. «Volete un caffè?», chiese, e nello stesso momento il citofono riprese a suonare; Juliet borbottò che a volte, in quell’appartamento, sembrava di essere alla stazione ferroviaria di King’s Cross, nel centro di Londra. Era Steve che aveva fatto un salto per vedere se andava tutto bene. Aveva Guy al seguito. Un Guy che restò altrettanto deluso nell’apprendere che Floz era uscita. Ciononostante, Coco fu entusiasta di poter fare sfoggio di Gideon in presenza di ulteriori amici. E di provare a Steve che esisteva veramente. «Sono preoccupata per Floz», disse Juliet, riempiendo quattro tazze di caffè e un bicchiere d’acqua frizzante per se stessa. «Andrà in Canada». «Canada? In vacanza? O per viverci?», strillò Guy, poi mise a freno la sua angoscia. «Perché?» 313/432 «Mi piacerebbe saperlo». «Entrambi abbiamo la sensazione che ci sia qualcosa che non va in Floz», disse Coco, premendosi una mano contro il cuore. «Non ho un buon presentimento». «Allora vai a spiare il suo computer», rise Steve. Non si aspettava certo che Juliet lo avrebbe preso in parola. «Potrei farlo, vero? Mentre è fuori», disse Juliet, e poi posò il suo bicchiere d’acqua e fece per dirigersi alla porta di Floz. «Ferma, ferma, non puoi farlo!», protestò Guy. «Posso farlo e lo farò», ribatté Juliet. «Stavo solo scherzando», disse Steve. Ma lei si era già diretta in camera di Floz. «Non puoi intrometterti in questo modo negli affari di qualcun altro!», urlò Guy dietro a sua sorella. «A volte è un bene che qualcuno si intrometta», disse lei intenzionalmente rivolgendosi a suo fratello. Lui sapeva che cosa intendeva dire. Ma Juliet aveva una missione ed era inarrestabile. «Tu, mettiti di guardia!», disse, indicando a suo fratello di appostarsi alla porta d’ingresso. «Gideon, Coco ha detto che sei un genio al computer. Aiutami». «Io…». Il povero Gideon non si sentiva per nulla a suo agio a entrare senza permesso nel computer di un completo estraneo, ma Juliet aveva parlato e lui avvertì immediatamente la forza delle sue parole. Docile come un agnellino, la seguì nella stanza di Floz, che sapeva di fragole. «Va bene, come indovino la password?», chiese Juliet mentre accendeva lo schermo di Floz. «È incredibile quante persone abbiano la parola “password” come password», disse Gideon, facendo un tentativo con “pass-word” e dando prova che aveva ragione, visto che videro apparire il desktop di Floz. «Sei un genio», disse Coco, estremamente impressionato. 314/432 «Vai nella sua posta», gli ordinò Juliet. Gideon cliccò sull’icona della posta e Juliet passò in rassegna le cartelle sulla sinistra: Lee Status, Finanze, Canada, House of Cards… «Clicca su Canada», disse con lo stesso entusiasmo che avrebbe mostrato se avesse indovinato la combinazione di una cassaforte. Un rumore proveniente dal salotto li fece trasalire. «Scusate, sono stato io, ho urtato la lampada», urlò Guy. «Oh, santo cielo, leggi qui!», esclamò Juliet all’improvviso, dandosi dei colpetti sul cuore. «Davvero, non dovremmo…», disse Gideon. «“Dicono che ogni storia…”», iniziò Coco e poi lesse fino alla fine della prima e-mail. «Oh cielo, è un’e-mail da parte di un uomo moribondo». Steve apparve sulla soglia. Anche lui sapeva che stavano facendo qualcosa di sbagliato, ma fu invogliato a guardare sopra la spalla di Coco per leggere insieme a loro. Poi comparve Guy, che era stato attratto da tutti quegli «oooh» e quegli «ah». Guy lesse le parole che Floz aveva scritto a Nick, quelle pagine in cui lei aveva dato libero sfogo al suo cuore. Era certo che stesse piangendo mentre scriveva. Era geloso, geloso di un uomo che esercitava una tale attrazione su di lei. Geloso di un uomo afflitto da una malattia incurabile. Passarono da un’e-mail all’altra della cartella Canada, poi aprirono la prima in cui Chas annunciava la morte di Nick e il funerale. A quel punto sia Coco che Juliet avevano le guance rigate di lacrime. «Oh cielo, è una storia così triste», disse Coco, tirando su con il naso. «Povera Floz. Non avrei mai immaginato…». «Be’, divertente», osservò Gideon in tono sommesso. «Divertente? Che cosa intendi, Gid? Non ci trovo nulla di divertente», ribatté duramente Coco. «No, amore, non “divertente” in senso stretto». Gideon eseguì dei calcoli con le dita. «Stando a questa e-mail e a quando l’ha inviata, basandosi sull’orario canadese, dovrebbero essere trascorsi soltanto due giorni, durante i quali Nick sarebbe morto e cremato, le sue 315/432 ceneri sparse, e la notizia riportata a Floz. È accaduto tutto molto in fretta». La sua mente analitica era stata stuzzicata e aveva cominciato a darsi da fare. Scorse le e-mail avanti e indietro: aveva un fiuto da segugio e stava seguendo una traccia. «Anche questo non ha senso», mormorò tra sé. «Mi chiedo… Passami una penna, Coco». Coco scattò sull’attenti. Poi udirono una chiave nella porta dell’appartamento. «Guy, veloce, vai!», gridò Juliet. Guy scattò fuori dalla stanza di Floz e afferrò la maniglia della porta d’ingresso, opponendo resistenza al tentativo di Floz di entrare. «Sbrigati!», sibilò Juliet a Gideon, che si stava scrivendo qualcosa sulla mano. «Oh, e guarda qui, c’è un’e-mail da parte dell’agente di viaggi. Cancellala, fa’ in fretta». «Non puoi…», iniziò a dire Steve, ma era troppo tardi. «Immagino tu abbia cancellato anche il messaggio in segreteria telefonica, vero? Oh, Juliet». Era sicuro che fosse andata così, non aveva bisogno di una sua conferma. «Dannazione, lo schermo si è bloccato», disse Gideon, vedendo apparire un conto alla rovescia. «Dovrebbe fare un po’ di manutenzione a questo computer. Va lentissimo». «Stacca la spina… fa’ qualcosa!». Juliet era in preda al panico. Fuori, Floz stava dando degli strattoni alla maniglia della porta, consapevole che Guy la stava tirando dall’altra parte, poiché lo aveva intravisto nei pochi istanti intercorsi fra il momento in cui era riuscita ad aprirla e quello in cui lui l’aveva richiusa di colpo. «Guy, sono io!», disse Floz, come sempre sconcertata dalle pagliacciate di quell’uomo. Che cosa aveva in mente? «Sì», disse Guy, non trovando niente di meglio da dire. Sapeva che questo gesto non avrebbe per nulla migliorato i loro rapporti. Come diamine poteva giustificarsi? «Veloce», mimò con le labbra a Juliet, che aveva sollevato le mani, impotente. 316/432 «Fammi entrare», disse Floz. «Che cosa sta succedendo?». Non riusciva neanche lontanamente a spiegarsi il motivo per cui il fratello della sua coinquilina stesse tenendo chiusa la porta, in modo che lei non riuscisse a entrare. Coco sollevò cinque dita in direzione di Guy: cinque secondi e poi avrebbe potuto lasciare la presa. Intanto Juliet si scaraventò sul divano, Steve si catapultò vicino a lei e Gideon e Coco finsero di essere assorti in un’innocente conversazione con Juliet e Steve. Guy fece il conto alla rovescia e poi rilasciò la maniglia. Floz aprì timidamente la porta e con altrettanta cautela mise piede nell’appartamento, temendo che Guy avesse altre sorprese in serbo per lei. «Scusa», disse lui. Non avrebbe potuto sembrare più patetico neanche se si fosse impegnato. «È soltanto uno dei miei scherzetti». «Guy Miller, non sei spiritoso», stridette Juliet, cercando di correre in suo aiuto, ma fallì miseramente. «Ha pensato che sarebbe stato divertente non farti entrare», spiegò a Floz. «Sì, l’avevo intuito», disse Floz, che oltrepassò Guy il più velocemente possibile per dirigersi da Coco, che era in piedi accanto a Gideon. «Indovina chi è lui?», disse Coco, indicando il suo ragazzo. «Tu devi essere Floz», disse Gideon, sporgendosi in avanti per baciarla su una guancia. Floz annuì e lo salutò a mezza voce. Stava ancora cercando di capire perché un uomo di trentaquattro anni volesse inscenare un gioco che anche un bambino di cinque avrebbe reputato troppo infantile. «Abbiamo fatto una visita al volo. Dobbiamo andare», cinguettò Coco in tono nervoso. «Ho bisogno di cibo. E ho promesso che avrei cucinato io». «Anch’io devo andare, tra un’ora lavoro», disse Guy, dubitando che Floz fosse anche solo minimamente interessata. Anche Steve si alzò in piedi. Fu un irrequieto esodo di massa. 317/432 «Non è carino Gideon?», disse Juliet, dopo aver salutato Steve con un bacio e aver chiuso la porta. «Sono davvero felice che tu lo abbia incontrato prima che se ne andassero». Floz annuì. Ma si chiese perché Gideon avesse delle scritte rosse sulle mani. E perché tutti si fossero comportati in modo così bizzarro quando lei era entrata. Le stranezze di quella serata non finirono lì. Il cellulare di Juliet suonava in continuazione, e ogni volta lei spariva in cucina per rispondere. Ci furono almeno cinque chiamate durante la serata, e chissà quanti messaggi. «Stai bene?», chiese Floz. «Sì», rispose Juliet, che non sembrava per niente tranquilla. «Esco soltanto per un attimo». «A quest’ora?». Erano le dieci e mezza. «Sì. Voglio… prendere una boccata d’aria. Ci vediamo tra poco». «Juliet, stai davvero bene? Vuoi che venga con te?» «No!», sbraitò lei, poi ripeté, questa volta con più calma: «Scusa, intendevo dire “No, grazie”. Non ci metterò molto. Faccio giusto un salto fuori. Non c’è nulla di cui tu ti debba preoccupare. Sul serio», mentì Juliet. Capitolo settantadue Juliet e Coco erano in piedi dietro Gideon, che stava lavorando al portatile rosa di Coco. «Vedete come ha scritto la parola “soffirenza”?», disse Gideon. Sullo schermo davanti a lui c’era un’e-mail inviata da Nick a Floz, che Gideon si era inoltrato dal computer di Floz. «In modo sbagliato», disse Juliet. «Esattamente. E vedete il modo in cui è stata scritta qui?». Aprì un’altra e-mail. Questa volta da parte di Chas Hanson. «Allo stesso modo: sbagliato», disse Juliet. «Nick Vermeer e Chas Hanson fanno gli stessi errori. Ed entrambi scrivono “familia”, quando invece dovrebbero scrivere “famiglia”». «Quindi? Saranno andati alla stessa scuola e inoltre i canadesi sono delle schiappe con la grammatica e l’ortografia». Juliet scrollò le spalle. Fino a quel momento non aveva notato nulla di incriminante, anche se Coco le aveva detto che doveva andare subito da lui per vedere che cosa avevano scoperto. «Ed entrambi hanno gli stessi problemi con lo spazio dopo la punteggiatura. Cioè, a volte lo mettono a volte no», continuò Gideon. «Accidenti», disse Juliet cercando di non sembrare sarcastica. «Potrei mostrarti qualche altra somiglianza, di espressione come di sintassi, ma lascerò stare perché il punto principale della mia tesi è un altro», spiegò Gideon. Scrisse un indirizzo al computer e spinse invio. Apparve una pagina piena di scritte incomprensibili. «Non è un programma conosciuto ai più, ma per fortuna io posso accedervi». «Che cosa significa tutto ciò?», chiese Juliet. 319/432 «Significa che sia Nick che Chas Hanson», disse Coco, «hanno inviato quelle e-mail a Floz dallo stesso computer. Basandomi sulle prove messe insieme finora, credo si tratti della stessa persona». Capitolo settantatré Il pomeriggio seguente, Juliet e Steve si sedettero a prendere un caffè nel minuscolo appartamento di Guy. Juliet aveva lavorato durante la sua ora di pausa pranzo e se ne era andata prima dall’ufficio. Steve era passato a prenderla in macchina ed erano andati dritti a casa di Guy per un veloce incontro di emergenza, prima che Guy andasse al ristorante per iniziare il turno. «Non so come affrontare la faccenda», disse Juliet, «ma devo dirle qualcosa. Floz sta pianificando di partire per il Canada». «Ma perché?», disse Guy. «Ci vuole andare per visitare il luogo dove si presume che abbiano sparso le ceneri di questo Nick? Non riesco a capire dove stia il raggiro, se davvero esiste». Per lui restava tutto un mistero, sebbene ci avesse riflettuto abbastanza, da quando la sera precedente Juliet l’aveva chiamato per riferirgli che cosa aveva scoperto Gideon. «Gideon è assolutamente sicuro che questo Nick e Chas siano la stessa persona?», chiese Steve. Come gli altri, non aveva un’idea di che cosa stesse succedendo. Il telefono di Juliet squillò. Era Coco. Juliet lo mise in vivavoce. «Dove sei?», chiese Coco. «Da Guy. Stavamo parlando di cosa fare con Floz. Quanto è sicuro Gideon del fatto che Chas e Nick siano la stessa per-sona?» «Molto. Il computer di Guy è acceso? Qual è il suo indirizzo? Vorrei inviargli subito un’e-mail». Guy dettò il suo indirizzo e-mail e aprì il portatile sul tavolo. Nel giro di pochi secondi, ricevette una notifica dal suo programma di posta. Guy l’aprì e scoprì che si trattava di un articolo di giornale. HANSON, Cody Campbell, nato il 14 aprile 1979, morto il 22 settembre 2009. Nato a Victoria, nella provincia della Columbia Britannica. Lo compiangono la moglie Lysa Hanson, la madre Mary Hanson, il padre Chas Hanson, la sorella 321/432 Serena May Vermeer, il cognato Rocco Vermeer, i nipoti Veronica e Vincente Vermeer, e i cugini May Campbell Hanson e Constance Campbell Hanson. Luogo e data della funzione commemorativa saranno annunciati a breve. Non fiori ma donazioni al CDS Military Family Fund (il fondo canadese a favore dei familiari dei militari), presso CFPS, via Lafleur 379, Ottawa, Ontario. Potete porgere le vostre condoglianze alla famiglia all’indirizzo [email protected] Pubblicato nel «Victoria Post», in data 27 settembre 2009. «Sei ancora in linea?», chiese Coco. «Ti passo Gideon». «Ciao Gideon», disse Juliet, che era a dir poco confusa. «Chi cacchio è Cody Campbell Hanson?» «Un tale che si è suicidato l’anno scorso», disse Gideon. «Ho setacciato internet e ho trovato questo necrologio in un quotidiano canadese. Guarda il nome del padre». Juliet lesse: «“Lo compiangono la moglie Lysa, la madre Mary Hanson, il padre Chas Hanson”… Chas Hanson?» «Continua a leggere». «Va bene: “il padre Chas Hanson, la sorella bla bla e il cognato Rocco Vermeer, i nipoti Veronica e Vincente”, eccetera. Non capisco». «Floz ha chiesto a Chas quando fosse il compleanno di Nick e lui le ha detto che era il 14 aprile. Che è anche il compleanno di Cody. E sia Nick che Cody sono morti il 22 settembre; anche se Cody è morto l’anno scorso e Nick si presume che sia morto quest’anno, nel 2010. Inoltre, vedi che Nick ha lo stesso cognome del cognato di Chas: Vermeer?» «Ma chi diamine è questo Cody?» «Vi sto inviando un’e-mail in questo momento. Ho trovato l’articolo negli archivi del “British Columbia Times”, un altro quotidiano canadese». Guy aprì l’allegato. UN UOMO SALTA INCONTRO ALLA MORTE DA UN PALAZZO 322/432 La polizia ha bloccato l’accesso a un’ampia area di piazza Fallon, a Victoria, dopo che un uomo di trent’anni si è buttato dal palazzo residenziale di dodici piani in cui viveva, trovando la morte. Il signor Cody Campbell Hanson è stato portato al Victoria General Hospital, ma al suo arrivo ne è stata subito annunciata la morte. Si pensa che la moglie del signor Hanson, sua coniuge da due anni, avesse lasciato l’appartamento quella stessa mattina per andare a vivere con un uomo non meglio identificato, con cui sembrerebbe avesse una relazione. «Dannazione», disse Guy. «Però, ancora non capisco come si incastrino tutti i pezzi fra loro». «Neanche io, ma questo coglione di nome Chas Hanson lo sa», disse Juliet, furiosa. «Che cosa facciamo, ragazzi?» «Potremmo riferire a Floz quello che abbiamo scoperto fino a ora, oppure…», Gideon si interruppe e sospirò. «Oppure cosa? Coraggio, Gideon. Aiutaci», lo supplicò Juliet. «È una cosa del tutto immorale e veramente sbagliata». «Diccelo e basta, per favore». «Be’», disse Gideon lentamente, odiandosi per ciò che stava per suggerire, «potrei creare un nuovo indirizzo e-mail fasullo e qualcuno potrebbe fingersi Floz e scrivere a questo Chas. Ma per piacere, non voglio essere io». «Juliet, tu saresti la persona più indicata», disse Coco. «No, non è vero», sbuffò Juliet. «Però potrei scrivergli qualcosa del tipo: “Dimmi che cosa sta succedendo, lurido bastardo”. Non pensate che sarebbe un po’ troppo rischioso, visto che viviamo entrambe nella stessa casa? Mi scoprirebbe senz’altro». «Non voglio che Juliet si senta sotto pressione», precisò Steve. «Guy, fallo tu». «Cosa?», Guy lo osservò con terrore. «Guadagnerai punti», mormorò Steve sottovoce. «Salvala da questa situazione e potrai essere il suo eroe, caro mio». «Sì, Guy, fallo tu», disse Juliet, senza pensarci due volte. «Gideon, invia a Guy l’indirizzo e-mail fasullo. Guy, devi dire a questo pervertito che tu, ovvero Floz, hai cambiato indirizzo e-mail. Non vogliamo che per errore scriva ancora alla vera Floz, giusto?» 323/432 «Be’, questo è un rischio che dovremo correre», sospirò Gideon. «Va bene, me ne occuperò io», disse Guy. Dovevano salvare Floz da quella situazione. Nessuno di loro riusciva a trovare un senso. Tuttavia, condividevano tutti l’opinione che quella vicenda avesse dell’incredibile. «Che cosa scriverai?», chiese Juliet. «Non lo so», rispose Guy. «Lascia che ci pensi su. Gli manderò un’e-mail prima di andare al lavoro. Ho un’ora e mezza per escogitare qualcosa». «Oh cielo», disse Juliet, mentre prendeva il suo cappotto. «Per il bene di Floz spero che non si tratti di uno spietato truffatore. Quanto può essere bastardo un uomo per fingersi moribondo?» «Molto», disse Steve. Ma proprio come aveva appreso crescendo, non tutti, nel corso della loro esistenza, avevano a cuore il bene degli altri. Steve era solo felice che la sua vita fosse piena di persone buone e altruiste. Quando Juliet e Steve se ne furono andati, Guy si mise seduto davanti allo schermo del portatile, a fissarlo. Che cosa diavolo avrebbe detto a questo Chas Hanson per fargli confessare che era un pazzoide? Si ricordò delle dolci parole che Floz gli aveva scritto. Era evidente che lei avesse una grande capacità di amare, ma si chiese se fosse mai stata davvero amata a sua volta. La parte della lettera che riguardava i suoi genitori gli fece venire voglia di abbracciarla e coccolarla. Doveva essere davvero terribile vedersi come un effetto collaterale non desiderato. Provò a pensare a cosa avrebbe scritto una persona gentile come Floz a Chas Hanson per fargli confessare i giochetti malati che stava inscenando. Non riusciva a immaginarsela arrabbiata a tal punto da minacciare qualcuno, nemmeno se si fosse trattato di una persona perversa come quell’uomo chiaramente era. Iniziò a scrivere. Chas, 324/432 mi dispiace contattarti ancora. Stavo facendo una ricerca approfondita su internet e ho trovato il necrologio qui allegato. Credo che ci siano troppe coincidenze perché vengano ignorate. Per piacere, dimmi che cosa sta succedendo. Sto iniziando a pensare che Nick non sia mai esistito, ma devo sapere la verità perché sto soffrendo. Per favore, mi puoi rispondere a questo indirizzo e-mail? Ho chiuso l’altro perché era infettato da un virus. Cordialmente, Floz Cherrydale Avrebbe dato ventiquattr’ore di tempo a Chas Hanson per rispondere, dopodiché avrebbe alzato la posta in gioco. E se il signor Chas Hanson, o chiunque egli fosse, non avesse collaborato, Guy era pronto ad andare da lui per estorcergli di persona tutta la verità. Capitolo settantaquattro «Ciao bambola!», cinguettò la voce dozzinale di Lee Status dall’altra parte della cornetta. «Ho bisogno che tu faccia un lavoro il prima possibile, io sto per imbarcarmi su un aereo per Berlino. Si tratta ancora della festa della mamma, tesoro. Abbonda con le solite vecchie, classiche battute: la mamma che fa tutto, si preoccupa, tiene unita la famiglia, svolge più cose contemporaneamente, e via discorrendo. Sai come funziona». «Sì, va bene, Lee. Nessun problema». «Ah sì, e tante frasette per le “nuove mamme”. Il genere di biglietto che un papà comprerebbe per darlo alla moglie in occasione dell’arrivo del bambino. Ce la fai in una settimana a partire da oggi?» «Va bene». «Grazie, bambola». Il tempismo di Lee era pressoché perfetto, pensò Floz. Poi, Juliet entrò allegramente a casa e le chiese se avesse voglia di andare con lei, nel tardo pomeriggio, a fare shopping a Meadowhall per scegliere un po’ di cose per il bambino. Aveva pensato che un’uscita spensierata, passata a comprare qualcosa per una nuova vita, le avrebbe distolto la mente dal canadese defunto – reale o immaginario che fosse. Come d’abitudine, Juliet avrebbe accettato solamente una risposta positiva. Si esibì nel suo solito repertorio di ricatti emotivi a fin di bene. «Floz, non so da dove iniziare a comprare le cose per la maternità. Per favore, aiutami. Steve è inutile. Non gli interessa altro che guardare i go-kart e i giocattoli enormi. Sto cominciando a sognare che il bambino è arrivato e tutto ciò che ho pronto è un paio di guantoni da boxe. Inoltre, voglio prendere qualcos’altro per il compleanno di Steve di domani. Quella checca che non è altro adora i bagnoschiuma di Lush». 326/432 Così Floz, che era una ragazza buona e gentile, prese le chiavi della macchina e disse: «Va bene, andiamo e rilassiamoci. Guido io». Una volta nel negozio Debenhams, Juliet sollevò una piccola tutina blu e un’altra uguale rosa. «Mi arrischio a comprarla di un colore? O le prendo entrambe e tengo lo scontrino?», sospirò. «Perché non opti per questa?», le consigliò Floz, reggendo in alto una piccolissima tutina bianca. «Oh mio Dio!», sussultò Juliet. «Quant’è bella?» «Mi piacciono i bambini vestiti di bianco candido». «Hai proprio ragione, Floz». Juliet guardò le tutine verdi e gialle che aveva messo nel cestello e andò a riporle sugli scaffali per sostituirle con quelle bianche. Floz prese un’altra piccola tutina bianca e la sollevò davanti sé, tenendola da sotto le braccia. Provò a immaginarsela con dentro un bambino piccolo. Se la appoggiò sulla spalla, immaginò la bocca di un bebè, il suo respiro delicato e caldo contro il collo, nella speranza di ricevere qualcosa da mangiare, le piccole dita che si arcuavano, l’odore del talco per bambini. Aprì gli occhi. Non aveva senso pensare a cose del genere. Non più. I bambini sarebbero stati destinati a essere sempre quelli degli altri. Le storie d’amore sarebbero state destinate a essere sempre quelle degli altri. Le sue speranze stavano svanendo in fretta e il suo destino sarebbe stato quello di una donna costretta a invecchiare da sola. Nemmeno le magnifiche sfumature dell’autunno riuscivano a esercitare il loro effetto magico su di lei. Cercò di riprendersi, mentre Juliet la chiamava per mostrarle dei graziosi e minuscoli guanti a manopola. Quella notte, Floz andò a letto e pensò che Juliet e Steve sarebbero diventati genitori. Il loro bambino sarebbe stato veramente fortunato. Non sarebbe soltanto stato cresciuto con amore, ma gli avrebbero dedicato anche tantissimo tempo. Non sarebbe stato rifilato a delle ragazze alla pari o a delle tate, mentre i suoi 327/432 genitori vivevano la vita di una coppia senza figli. Riusciva benissimo a vedere Steve che fingeva di essere un cavallo, con un bambino sorridente sulla schiena. Juliet che cucinava dei dolcetti ai cornflakes, con il grembiule imbrattato di cioccolato. Riusciva a immaginarsi il vecchio Stripes, seduto soddisfatto vicino al bambino; Grainne e Perry che telefonavano desiderosi di badare al bambino. Vide persino gli occhi del piccino che si illuminavano mentre lo “zio Guy” lo faceva roteare come un aeroplano. Sì, Guy sarebbe stato meraviglioso con i bambini. Era evidente che quel ragazzo non era troppo brillante nel relazionarsi con le donne, ma Floz avrebbe scommesso che era molto gentile con i bambini e le persone anziane. Anche Nick sarebbe stato uno splendido padre. Non aveva avuto l’opportunità di legare una lenza all’amo per suo figlio o di insegnarli come individuare le impronte di un orso nel bosco. E ora se ne era andato. Capitolo settantacinque Guy rientrò dal lavoro nelle prime ore del mattino. Odiava quel posto. Varto aveva mandato in sala due bistecche di filetto con ciocche di capelli nella salsa al pepe nero. E Guy aveva visto uno scarafaggio che attraversava il pavimento della cucina. Kenny non gli permetteva di licenziare Varto fino a che non sarebbe stato al sicuro fuori dai giochi poiché, come Guy aveva scoperto quella stessa sera, Kenny si stava sbattendo la madre di Varto, di nascosto dalla moglie. Il che spiegava perché Varto pensasse di essere intoccabile. Guy non vedeva l’ora di sbarazzarsi di quello sciagurato arrogante, pigro, sporco e ladro. Andò diretto al portatile, ma non gli era arrivata nessuna e-mail da parte di Chas Hanson. Bene, dopo il turno di lavoro che aveva avuto, non c’era nessuna possibilità che Guy gli avrebbe concesso la grazia delle ventiquattr’ore per rispondere. Gli riscrisse, armato di alcune informazioni aggiuntive che aveva trovato su internet, dopo aver fatto una ricerca approfondita su Chas Hanson, durante la sua pausa al lavoro. Caro Chas, per piacere aiutami. Devo sapere che cosa sta succedendo. Se non ricevo notizie da te, contatterò il «Victoria Post» per cercare di scoprire la verità. Sono certa che saranno interessati ad aiutarmi a risolvere questo mistero. Di questi tempi, grazie a internet, non è così difficile seguire delle tracce e io ho bisogno di capire. Potresti farmi risparmiare tempo e patemi d’animo, e tu potresti evitarti una figuraccia, se mi rispondi. Ho scoperto che c’è una Lysa Hanson su Facebook, amica di Rocco Vermeer e di May e Constance Campbell Hanson, le persone menzionate nel necrologio. Se sarà necessario, coinvolgerò anche loro nella mia indagine. Non lascerò cadere questa faccenda fino a che non scoprirò l’intera storia. Floz 329/432 Dopodiché Guy si addormentò. Si svegliò poco prima delle nove del mattino dopo e scoprì che Chas Hansons aveva reagito alla sua minaccia e gli aveva risposto. Capitolo settantasei Guy telefonò immediatamente a Steve e gli lesse l’e-mail di Chas Hanson. «Cazzo», commentò Steve. «Non posso dirglielo», disse Guy. «Invece devi, amico». Steve stava parlando a bassa voce perché si trovava nell’appartamento di Juliet e Floz era in cucina a prepararsi la colazione. «E prima lo fai meglio è. Oggi, direi». «La prenderà meglio se sarà Juliet a riferirglielo». «Sì, forse hai ragione. Allora glielo chiedo appena si alza». «Chiedermi cosa, festeggiato?», disse Juliet sbadigliando, che si era svegliata al suono del suo nome. E fu così che Steve le passò il telefono in modo che Guy la potesse aggiornare sulle ultime novità. Steve si dileguò dall’appartamento in modo furtivo. Sperava soltanto che Guy avesse ragione e che Juliet fosse la persona più adatta per rivelare la notizia a Floz. A confronto di Juliet, un elefante in una cristalleria era come un agnello in un recinto. «Dov’è Steve?», chiese Floz, mentre Juliet emergeva dalla sua camera. «Ho un biglietto di compleanno per lui. E una bottiglia di vino». «È andato a casa per sbrigare una faccenda», disse Juliet facendo spallucce. «Stai bene, Juliet? Hai ancora le nausee mattutine?», le domandò Floz, esaminando l’espressione preoccupata dell’amica. «Oggi non ti è permesso essere malata, lo sai. Non se questa sera devi andare in quell’albergo molto sciccoso insieme a Steve». «No, non mi sento male», rispose Juliet. Era da tanto che non vedeva l’ora di andare in quell’albergo, ma non aveva certo intenzione 331/432 di concedersi una notte di passione mentre Floz se stava da sola con il cuore che si frantumava in mille pezzi sopra il tappeto. «Vuoi che ti prepari qualcosa da mangiare?», chiese Floz. «Delle fette di pane tostato? Cereali? Yogurt?» «No, Floz, non voglio niente da mangiare». Juliet si versò un po’ di succo e si domandò come avrebbe cominciato il discorso. Non le mancavano mai le parole. Quindi, come era possibile che ogni cosa che desiderava dire le si bloccasse in gola come se fosse stata un blocco di cemento? Il telefono suonò nell’esatto momento in cui Juliet stava aprendo la bocca per compiere il lavoro sporco. Floz rispose. «Sì, sono la signorina Cherrydale… No, non mi ricordo di aver visto una vostra e-mail… È strano, non ho ricevuto nem-meno il messaggio sulla segreteria telefonica. Se mi rispedite nuovamente i dettagli vi chiamerò subito e prenoterò in matti-nata». «Prenotare cosa?», le chiese Juliet. «Vado via per qualche giorno», disse Floz, coprendo il microfono. «Dove?» «Canada». «Canada? Perché ci vai, Floz?» «Perché… io… è una vacanza». «Floz, di’ loro che li richiamerai. Devo parlarti. È urgente. Per piacere, siediti». Qualsiasi cosa stessa passando per la testa di Juliet aveva tutta l’aria di essere una faccenda molto seria; Floz fece come le era stato chiesto. «Qual è il problema? Si tratta di te e Steve?», le chiese, preoccupata. «Non c’è un modo facile di dirtelo», disse Juliet, facendo un profondo respiro. «Siamo entrati nel tuo computer e abbiamo letto le email di Nick». Floz trasalì per lo stupore. «La colpa è mia, solo e soltanto mia. Ero preoccupata per te, e tu non mi volevi dire che cosa ci fosse che non andava, quando invece 332/432 era chiaro che c’era qualche problema, quindi noi abbiamo guardato…». «Noi chi?», chiese Floz lentamente. «Solo io. E Steve. E… Guy». «Steve e Guy?» «E Coco… e… Gideon». Floz voleva alzarsi ma era troppo sconvolta e mortificata per riuscire a muoversi. «Perché l’avete fatto?» «Perché ci preoccupiamo per te». Floz si cinse con le braccia, stringendosi come se volesse difendersi. «Avete commesso un grosso errore, Juliet…». «Per piacere, Floz, non ho finito». «Che altro c’è?», stridette Floz, con un insolito fuoco nella voce. «Guy ha scritto a Chas Hanson spacciandosi per te». «Cosa… perché?». Guy aveva oltrepassato il confine del reame delle stranezze agli occhi di Floz. Aveva compiuto il giro della morte. «Perché gliel’ho chiesto io. Gideon ha scoperto che… che Chas e Nick ti scrivevano dallo stesso computer». «Non essere sciocca. Vivono a centinaia di chilometri di distanza. Vivevano». Juliet prese i fogli che aveva nascosto nel cassetto. Gideon aveva stampato le e-mail incriminanti e aveva cerchiato le prove. «Fanno gli stessi errori di ortografia. Guarda: “soffirenza”». «La soffirenza, dopo un certo tempo, supera il picco più alto». Ecco che cosa aveva notato Floz, la presenza di una “i” al posto della “e”, non il sentimento. «E inoltre sbagliano entrambi a scrivere un’altra parola. Guarda: scrivono “familia” invece di “famiglia”. Ci sono anche altre analogie, vedi? Sono tutte evidenziate e classificate secondo diversi colori». «Che cosa mi stai dicendo?», chiese Floz. «Ti sto dicendo che non c’è nessun Nick Vermeer, solo Chas Hanson. Lo ha ammesso con Guy». 333/432 Nella stanza cadde un silenzio piatto e pesante, di quelli che precedono un’esplosione nucleare. «No, no. Vi sbagliate», disse Floz, con un debole tremolio nella voce. «Abbiamo fatto un po’ di ricerche e abbiamo scoperto che Chas Hanson aveva un figlio, che si è suicidato l’anno scorso». Juliet trovò la copia dell’articolo del quotidiano e la passò a Floz, poi le diede il necrologio. Floz notò i nomi e le date. Ma nulla di tutto ciò aveva alcun senso. I nomi appartenevano alle persone errate, le date corrispondevano agli eventi sbagliati. Vincente era il secondo nome di Nick. Rocco era il nome del suo primo cane, della razza alskan malamute. Le aveva detto che una delle sue sorelle si chiamava Veronica… «Poi è arrivato questa nella casella postale del falso indirizzo email». Juliet le consegnò l’ultimo tassello del puzzle e Floz lesse l’email. Cara Floz, Nick non è mai esistito.Sfortunatamente mi ero spinto troppo oltre con te e non sapevo come chiuderla.Quindi ho smesso semplicemente di scriverti.Quando è morto mio figlio ero completamente smarrito.Ho pensato allora che avrei dovuto ricontattarti così da poter lasciar morire, in qualche modo, il frutto della mia immaginazione e farti capire, allo stesso tempo, che avevi lasciato il segno su qualcuno.La mia creazione immaginaria ti aveva abbandonato e ferito e, secondo un mio pensiero del tutto bizzarro,ho pensato che, in qualche modo, ti avrebbe consentito di voltare pagina.Quando mi hai chiesto la data del mio compleanno, stavo pensando a mio figlio e ho usato la sua.A modo mio, per quanto strano, stavo cercando di riportarlo in vita, anche se si trattava soltanto di una fantasia. La mia depressione e le sue conseguenze hanno rovinato delle vite ed è giunta l’ora di fare ammenda.Nel tentativo di sfuggire alla mia stessa realtà,ho ferito il prossimo.Nick assomiglia così tanto a mio figlio perché non riuscivo a superare la sua morte.Non ti sto chiedendo di perdonarmi perché non me lo merito.Dovrò affrontare la mia soffirenza nel mondo reale, e non tramite una creazione della mia fantasia. Sono in debito con te poiché mi hai riportato alla realtà e so che ti potrà sembrare forzato, ma anch’io sono consapevole del fatto che la mia depressione è letale tanto per me stesso quanto per gli altri. CH 334/432 Le mani di Floz stavano tremando tanto che il foglio vibrava. «Nick non è mai esistito?», sussurrò. «No, tesoro». «Mi sono innamorata di un uomo che non è mai esistito». «Ti sei innamorata di una creazione di una mente malata». «Gli ho parlato. Mi ha inviato delle foto». «Hai parlato con Chas Hanson. Non so che aspetto abbia, non riusciamo a trovare da nessuna parte delle sue foto, ma questa è una di Cody, il figlio defunto di Chas Hanson. Guy l’ha trovata su Facebook. C’è una pagina di condoglianze aperta per lui». Juliet le consegnò la foto di un uomo sorridente, a lato di una macchina rossa. «Non può essere». I battiti del cuore di Floz stavano correndo all’impazzata e lei si sentì girare la testa per via dello shock. «Nelle foto che Nick mi ha inviato assomiglia a quest’uomo, solo che sembra più vecchio. Aveva detto di avere quarant’anni». «Deve averne parecchi di più, Floz. Suo figlio aveva trent’anni quando è morto l’anno scorso. Abbiamo trovato anche queste foto nella pagina commemorativa». Juliet le passò due foto di Cody da bambino. In una era a cavalcioni su un cavallo a dondolo, nell’altra indossava un completo con una camicia a balze e sembrava a disagio. Floz deglutì. «Nick ha detto che queste erano foto sue di quando era bambino!». «Ha mentito. Sono del figlio di Chas. Mi dispiace dovertelo dire, Floz. È un imbroglione». «Ma perché avrebbe dovuto mentire? Non mi ha mai chiesto dei soldi, si è comportato sempre da gentiluomo…». «Be’, certo non hai tutti i torti. Tuttavia, ti ha succhiato le emozioni, Floz. Alla grande. Quel bastardo». Floz chiuse i pugni e iniziò a colpirsi le cosce. Le lacrime cominciarono a scorrerle lungo le guance. «Non riesco a credere di essere stata così stupida», disse piangendo. «Mi fidavo di lui. Gli ho detto tutto di me; persino più di quanto abbia mai raccontato al mio ex marito. Lo amavo. Amavo un 335/432 uomo che non esisteva». Dopodiché si mise a ridere, una risata vacua e affranta, che ferì Juliet nell’anima. «Oh, Floz, tu non sei stupida, sono loro a essere scaltri. Molto, molto scaltri e manipolatori». «Come può una persona…». «Non lo so. Ma quello che so è che dovresti prendere le distanze da questa situazione. Non farti coinvolgere dalla confusione perversa e dai giochetti che il suo dolore ha generato». «Stavo per partire per il Canada per camminare sui passi di un uomo che non è mai esistito. Un uomo per cui ho sofferto. Stavo per andare nel luogo dove pensavo avessero sparso le sue ceneri». «Lo so, tesoro». “E Steve e Coco e Gideon e Guy sanno che razza di idiota io sia. Perché, più di tutti, mi imbarazza il fatto che lo sappia Guy Miller?”. Poi, all’improvviso, Floz balzò in piedi e si asciugò gli occhi. «Sai, hai ragione. Devo solo allontanarmi da lui e dimenticare l’intera faccenda». «Devi, Floz», disse Juliet, con una voce che traboccava di preoccupazione. «Guardiamo qualcosa in TV e beviamoci tanto tè con delle fette biscottate», disse Floz, battendo le mani. «Lascia che mi concentri su qualcosa di futile. Siediti lì, io vado a preparare il bollitore». Floz sparì in cucina. E Juliet credette alla maschera raggiante e allegra con cui Floz si era coperta il volto. Capitolo settantasette «Sei certa di star bene?», disse più tardi Juliet, mentre trascinava alla porta il suo borsone, perfetto per una notte fuori casa. Steve stava salendo le scale per venirlo a prendere. «Sì», rispose Floz con un sorriso rilassato. «Certo che sto bene. Ho chiuso con lui, è finita. Grazie per avermi accudito oggi, ma ora vai e passa una serata favolosa con il tuo fidanzato». «Starò in pensiero per te». «Non osare», disse Floz, che aveva fatto del suo meglio durante tutta la giornata per convincere Juliet che stava bene. Desiderava semplicemente che Juliet se ne andasse così da potersi togliere quella maschera estenuante. Voleva rannicchiarsi su se stessa ed escludere il mondo. Voleva cadere nell’oblio più totale. Non desiderava svegliarsi fino a che quel dolore attanagliante non fosse svanito. Fotografie di piccoli bambini e giovani ragazzi stavano turbinando nella sua mente. Tombe e funerali di persone che non erano mai esistite… Salutò Juliet e Steve con la mano, poi prese la bottiglia di whisky dalla credenza dietro il tavolo da pranzo. Era disgustoso e le seccò la gola. Ma lei voleva farsi del male, perché aveva bisogno di prendersela con qualcuno e l’unico bersaglio disponibile era lei stessa. Per le nove, Floz era talmente devastata da ricordarsi a malapena del telefono che aveva suonato e di aver detto in tono spigliato a Guy che sì, stava perfettamente bene. Certo che stava bene. Dopo aver riagganciato il telefono, Guy tentò di iniziare a pianificare, per la quarta volta, il menu della serata d’inaugurazione del suo nuovo ristorante, ma fallì nel suo intento. Non riusciva a concentrarsi. I suoi pensieri erano rivolti all’appartamento di sua sorella. Aveva un presentimento che non riusciva a scrollarsi di dosso. C’era qualcosa che lo turbava nel modo in cui Floz gli aveva 337/432 detto che stava “bene”. Lei stava ridendo, e quel “bene” era fin troppo allegro. Juliet gli aveva telefonato poco prima dicendogli che Floz era al corrente di tutta la storia e che aveva preso incredibilmente bene la notizia. Ciononostante, gli chiese se non gli sarebbe dispiaciuto chiamarla più tardi, con qualche scusa, per accertarsene al cento per cento. «Sto bene. Davvero, sto bene. Perché non dovrei?». C’era una nota fasulla nella sua voce. Proprio come quando dieci anni prima aveva telefonato a Lacey chiedendole se stesse bene. E lui le aveva creduto. Schizzò via dalla sedia e afferrò le chiavi della macchina; fu quasi un’unica azione ininterrotta, si affrettò a infilarsi il cappotto e chiuse la porta dell’appartamento. Lungo la strada, era consapevole di guidare troppo velocemente. Non ricevette nessuna risposta al citofono quando suonò, per cui entrò con le sue chiavi. Le luci nell’appartamento erano accese e la TV era sparata a tutto volume. Floz era seduta sul divano, collassata contro i cuscini. Sul tavolino c’erano una bottiglia di whisky palesemente vuota e un’altra di vino rosso Syrah, anch’essa finita. C’erano due bicchieri sul tavolo. Uno si era rovesciato e stava facendo colare del vino rosso sul tavolo; l’altro era pieno di Harveys Bristol Cream, lo sherry che Juliet teneva nella credenza per quando passava a trovarla sua madre. A Guy stava venendo mal di testa al solo pensiero dello stato in cui Floz si sarebbe svegliata la mattina successiva. Controllò velocemente in giro e nei bidoni per accertarsi che non ci fossero tracce di confezioni vuote di farmaci, ma per fortuna non trovò nulla. Era stato proprio il pensiero di lei che ingeriva delle pillole che gli aveva fatto spingere il piede sull’acceleratore. La mise seduta e le diede dei gentili buffetti sulle guance. «Floz, riesci a sentirmi? Floz, svegliati». 338/432 «Guy», disse Floz, improvvisamente consapevole di una presenza, mentre strizzava gli occhi per metterla a fuoco. Gli rivolse un ampio sorriso. «Oh, guarda, è Guy, quello che mi odia». Poi scivolò giù dal divano a mo’ di anguilla e lui si tuffò per afferrarla. «Accidenti», esclamò. Questo era quello che pensava? Che lui la odiava? Floz rideva ma i suoi occhi erano rossi e sulle sue guance c’erano svariati rigagnoli neri. Aveva pianto molto. «È tutto a posto. Sto bene», disse in tono aggressivo mentre provava a respingere Guy. Pochi secondi dopo, il suo corpo iniziò a dimenarsi in preda alle convulsioni. Proprio come faceva Stripies quando stava per sbarazzarsi di una palla di pelo. «Oh, merda», disse Guy, prendendola da sotto le braccia per sollevarla e portarla velocemente in bagno; tuttavia, impiegò troppo tempo per metterla nella giusta posizione e il primo fiotto di vomito si riversò come un proiettile sulla camicia di lei, in modo alquanto pittoresco. Il secondo centrò la tazza del water. Floz si lamentò, mentre il suo corpo cercava violentemente di liberarsi del veleno che aveva ingerito. Guy le scostò i lunghi capelli rosso fuoco dal viso e li tenne con una mano; con l’altra le massaggiava distrattamente la schiena, dicendole cose del tipo: «Coraggio, alzati». Fuoriuscì una gran quantità di un liquido dai colori brillanti, ma niente cibo. Un mugolio indicò finalmente che aveva finito e Floz, con un’eleganza sorprendente, si asciugò la bocca con il tappetino del bagno. Guy afferrò un asciugamano dal lavandino e lo inumidì, occupandosi del rubinetto e strizzando l’acqua in eccesso, sempre mentre sorreggeva Floz, che gli si era accasciata sull’altro braccio. Le pulì il viso e le tolse i rigagnoli neri dalle guance. Floz rispose al fresco dell’asciugamano con un delizioso e seducente «Aahh», che per un istante lo spinse a pensare a lei che emetteva lo stesso suono ma in altre circostanze. In quello scenario però lei aveva le gambe sopra le sue spalle. Le ciglia di Floz erano lunghe e nere, Guy non era mai stato così vicino al suo viso prima di quel momento, non aveva mai 339/432 visto la piccola cicatrice che le attraversava entrambe le labbra, né i minuscoli nei neri sugli zigomi. Guy si guardò intorno alla ricerca di un appiglio. La camicia di lei era fradicia e maleodorante, con del vomito rappreso. Doveva levargliela. La issò in piedi, e quando le sue gambe cedettero, lui la sollevò nuovamente per poi condurla, come fosse stata una bambina, fino alla sua camera, dove la distese delicatamente sul letto, mentre cercava un’altra maglia pulita nell’armadio. Quando si girò, lei era supina e russava piano. «Oh no, non osare, signorina», disse lui. «Se adesso dormi, domattina ti sveglierai con un mal di testa colossale». La fece sedere; era floscia come una bambola di pezza. Sembrava spossata ed esausta. Guy desiderò che quel canadese perverso si trovasse in quella stanza. Lo avrebbe costretto a guardare in che stato si trovava Floz a causa sua. “Vedi quello che le hai fatto? Vedi i danni che hai causato? Avrebbe potuto soffocare nel suo stesso vomito e morire a causa tua, bastardo”. Le dita di lui ghermirono il bottone più in alto della camicia di Floz, poi le ritrasse di scatto come se lei lo avesse appena schiaffeggiato. Accidenti, non poteva farlo. Si sentiva un pervertito. E se lei si fosse svegliata e avesse pensato che lui la stesse…? Tuttavia, si rese conto che non c’era assolutamente alcuna possibilità che lei si svegliasse all’improvviso, cogliendolo sul fatto mentre la svestiva. Si guardò intorno in cerca di aiuto, come se si aspettasse di vedere comparire per miracolo Juliet; ma Juliet non era lì e non sarebbe tornata almeno fino all’indomani, non c’era modo di sfuggire a quella situazione. Non poteva lasciarla sporca del suo stesso vomito. Si sfregò le mani, come per scaldarsele, e poi afferrò il primo bottone. Uscì dall’asola. “Ottimo, fin qui tutto bene”. Anche il secondo si sfilò senza inghippi. Il terzo era tra i suoi seni e lui distolse gli occhi intanto che il bottone scivolava fuori dal buco, per poi sentirsi mortificato mentre le slacciava gli ultimi tre. Aveva svestito svariate donne, ma questa volta era diverso. Tanto per iniziare, erano sempre state tutte coscienti, e ricambiavano sfilando dalle 340/432 asole i bottoni di lui. Guy aveva fantasticato a lungo su quel momento, quando avrebbe tolto i vestiti alla donna che si trovava lì con lui. Be’, più che altro pensava di strapparglieli, se doveva essere sincero, mentre lei emetteva dei piccoli e gutturali gemiti di eccitazione e gli mordeva il lobo. Non doveva più pensarci. In quel momento vestiva i panni di un fidato principe azzurro sul cavallo bianco; non era giusto da parte sua intrattenersi in pensieri così ignobili. Le fece scivolare la camicia oltre le spalle, cercando di non guardare il reggiseno di pizzo color crema, davvero delizioso, che copriva due seni color crema, altrettanto deliziosi. Tre piccoli cuori tatuati erano appena visibili da sopra la curvatura del suo seno, due erano rosa e uno blu. Caspita era bellissima, persino in quell’occasione, con la camicia sporca di vomito, gli occhi gonfi e rossi e i capelli scarmigliati, neanche fosse un incrocio tra Don King, il pugile, e l’uomo selvaggio del Borneo. Dopodiché notò una vecchia cicatrice a croce sul suo stomaco, dai bordi irregolari. Doveva aver subito una grossa operazione. Guy tornò a dedicarsi al proprio lavoro: le fece passare velocemente le braccia nelle maniche dell’altra camicia, nonostante lei opponesse resistenza, e nella fretta infilò tutti i bottoni nelle asole sbagliate; una volta che ebbe finito, tirò un sospiro di sollievo. «Coraggio, signorina, è ora di bere un po’ d’acqua». La sollevò, nonostante la sfilza di insolite ingiurie che pronunciò lei, e tenendola da sotto le braccia, la guidò fino al lavandino in cucina. Con una mano era impegnato a impedirle di scivolare sul pavimento, con l’altra riempì un bicchiere da una pinta di acqua. Fece marcia indietro fino al divano e la fece sedere sulle sue ginocchia, obbligandola a bere come un’infermiera con un bambino disidratato, mentre Floz protestava stizzita nel tentativo di allontanare il bicchiere. Lui le immobilizzò entrambe le mani e lei si contorse sul suo grembo. Lui deglutì. La sua immaginazione era iperattiva. Rischiava seriamente l’autocombustione. “Concentrati, concentrati, diamine!”. La incoraggiò a bere l’acqua, lentamente, così da evitare che lei la rigurgitasse. Doveva idratarla per bene. Solo allora Guy cedette alle 341/432 sue piagnucolose richieste di lasciarla dormire. Floz si fece cadere con grazia contro il petto di lui e per qualche minuto Guy assaporò la sensazione del corpo di lei tra le proprie braccia, mentre aveva le narici piene di profumo alla fragola. Dopodiché la sollevò, la trasportò in camera sua e la fece scivolare sotto la trapunta, mettendola su un fianco. La lasciò completamente vestita, poiché non era sicuro che il suo cuore sarebbe riuscito a sopportare di sbottonarle nuovamente un qualsiasi vestito. Era già entrato nella fase in cui aveva bisogno dei betabloccanti. «Pressione arteriosa ai massimi», avrebbero annunciato i medici di ER. Le sfilò le scarpe prima di rimboccarle con cura la trapunta, e pensò a quanto graziose fossero le dita dei suoi piedi. «Ripigliati, che cazzo, Guy», disse una voce angelica, seppure scurrile, da sopra la sua spalla. Guy avrebbe voluto prendersi a cinghiate da solo: sprofondò nella poltrona che si trovava in camera di Floz. Lei stava dormendo tranquillamente e ronfava come un bambino felice. Guy sarebbe rimasto soltanto un po’ per accertarsi che non si sentisse di nuovo male, prima di spostarsi sul divano in salotto. Soltanto per un po’. Capitolo settantotto Gli occhi di Floz si aprirono a fatica e la sua mente turbinò nel tentativo frenetico di mettere a fuoco la situazione. Aveva aperto la bottiglia di whisky e bastò il ricordo di quell’odore a provocarle dei conati di vomito. Aveva bevuto anche del vino. E si ricordava di aver parlato con Guy al telefono. E qualcuno le aveva tenuto indietro i capelli mentre vomitava nel water. “No, per piacere, fa che non sia stato lui”. Poi si immobilizzò. C’era qualcuno nella sua camera, poteva sentirlo respirare. Lentamente, scostò la trapunta e girò la testa verso il punto da cui proveniva quel rumore. Sbatté più volte le palpebre, nella speranza che la figura rannicchiata sulla poltrona fosse un’illusione, ma non era così. Guy Miller si era davvero addormentato in camera sua, con le braccia conserte e il collo inclinato con un’angolatura veramente innaturale. “Che caz…”. Il grugnito involontario che le uscì dal profondo della gola svegliò Guy di soprassalto. Rimasero entrambi seduti, impettiti e diritti, nei loro rispettivi giacigli. «Ciao», disse lui con voce assonnata. «Come ti senti?». Il collo gli faceva un male atroce. Floz si rese conto all’improvviso di essere completamente vestita. Oh no, lui l’aveva messa a letto. Guardò in basso. Non aveva mai indossato quella camicia. Quando se l’era messa? Se l’era messa lei? Oppure l’aveva fatto lui per lei? “Oh, per piacere, no”. «Oh, cielo», disse Floz dando voce alle sue paure. La sua mente venne bombardata da una serie di istantanee. Si trattava del peggior album fotografico del mondo: Floz che vomita, Floz che cerca di comportarsi da sobria e la sua preferita Floz che fa pipì sul tappeto e Guy che la pulisce. Quale di queste immagini corrispondeva alla realtà e quale no? “Nooo!”. Eppure, si ricordava distintamente un asciugamano. Deglutì. Un attimo, lui le aveva pulito il viso, ora se lo 343/432 ricordava. Chiuse gli occhi e se li sfregò ma non servì a cancellare i ricordi. In ogni caso, il colore dei suoi occhi era più brillante nell’oscurità. Perché non aveva mal di testa? Desiderava averlo. Voleva trovarsi nel Paese delle Cefalee, dove il dolore era troppo intenso per pensare a qualsiasi altra cosa. Eventi che voleva disperatamente dimenticare. In effetti, voleva cancellare tutta la sua vita. Non voleva morire, perché avrebbe rischiato di risvegliarsi per soffrire in eterno, provando le stesse sensazioni che la stavano travolgendo in quel momento. Desiderava non esistere. «Floz, ti sei ubriacata. L’abbiamo fatto tutti». «Ho vomitato, vero?», chiese lei, umiliata. “Sì, lo hai fatto”, disse una piccola voce irritante e infame nella sua testa. “Lui ti teneva indietro i capelli mentre vomitavi sul pavimento del bagno, ricordi?”. «Un po’». Guy sollevò le mani in un gesto che voleva significare: «E allora?». “Ti ricordi di esserti seduta sulle sue ginocchia?”, la provocò quella vocina. “Scommetto che non riesci a ricordarti quello che gli hai detto, lurida sgualdrina”. «Ho detto qualcosa?», disse Floz, con le mani ancora premute sugli occhi. «Solo “bleah”». Accidenti, questo migliorava o peggiorava le cose? «Floz, ti sei ubriacata, hai pianto, hai vomitato», disse Guy, con la stessa autorevolezza di Giulio Cesare. «Ti ho dato un po’ d’acqua in modo che avessi meno mal di testa e ti ho messa a letto. Fine della storia. Non hai fatto nulla di sbagliato. Tranne ballare a seno nudo». Gli occhi di Floz si spalancarono fino a raggiungere le dimensioni di due fari. Guy mise le mani in avanti: «No, scusa, non avrei dovuto dirtelo. Stavo solamente cercando di rallegrarti un po’. Davvero. Non hai ballato per nulla. Scusa». «Ti ho telefonato?». Certo che no. Perché avrebbe dovuto telefonare a lui? 344/432 «No, io ho telefonato a te per sapere se stavi bene. Dopo tutta quella… faccenda di Nick». “Chiedigli perché indossi quella camicia”, le suggerì la vocetta malvagia. Portava il reggiseno? Quello bianco e comodo che metteva a lavare con qualsiasi bucato colorato? Guy l’aveva visto? «Senti, vado a prepararti un po’ di tè». Guy si allungò per stiracchiarsi, visto che si sentiva tutto indolenzito a seguito della nottata trascorsa rannicchiato su quella piccola poltrona. «No, fa lo stesso. Hai già fatto abbastanza per me». «Insisto». «No, per favore». «Floz, fai finta che io sia Juliet e che, come lei, non accetti un no come risposta, va bene?». Floz sospirò, poi fece lentamente un cenno di assenso. Attese che lui fosse uscito zoppicando dalla stanza, prima di mettere piede fuori dal letto. O meglio ancora, mettere piede fuori dalla giostra, perché si sentiva proprio su una giostra. Non le serviva uno specchio per sapere che aveva un aspetto orribile. Tuttavia, dato che era una stronzetta a cui piaceva torturarsi da sola, gli rivolse un’occhiata furtiva. Sorpresa! Era sorprendente: non aveva le occhiaie! E nemmeno alcuna traccia di trucco. Malgrado ciò, la sua frangia era scompigliata e appiccicata alla fronte e c’erano delle deliziose borse sotto un paio di graziosi occhi color rosa ciclamino. Il tutto era messo splendidamente in risalto dall’orrenda camicia psichedelica, che continuava a dimenticarsi di mettere nei sacchi per la beneficenza. Ciononostante, il sollievo e la gioia la travolsero quando notò che la camicia era abbottonata come solo un ubriaco avrebbe potuto fare – doveva averla allacciata da sola. Uscì in punta di piedi con una bracciata di vestiti puliti e si diresse in bagno per farsi una doccia. Le sembrava di barcollare un po’ e avvertiva un lieve senso di nausea, giacché non aveva niente nello stomaco. Una spruzzata d’acqua, seguita da un velo di trucco, la fecero sentire quasi umana. 345/432 Guy stava friggendo la pancetta. Lo stomaco vuoto e nauseato di Floz reagì all’odore con un brontolio primordiale. «Sembri un po’ meno verde lime sulle guance». Guy le rivolse un sorriso e tirò in fuori una sedia da sotto il tavolo, in corrispondenza del posto che aveva apparecchiato per lei, con tanto di tazza di tè. Gli occhi di lui erano grigi e scintillanti e il suo viso era molto più bello, dato che non la stava guardando con quella sua solita espressione corrucciata. «Siediti», le ordinò. «E mangia». Le mise davanti un sandwich sfrigolante. Floz non riusciva a ricordare se prima di quel momento un uomo le avesse mai preparato la colazione. Nick le aveva promesso che, quando sarebbe venuto a trovarla, le avrebbe cucinato una vera colazione canadese, quella dei cacciatori. “Nick, che non esisteva”. Guy aveva tolto tutto il grasso dalla pancetta, notò Floz. Lei odiava il grasso. Chissà come lui lo sapeva e aveva agito di conseguenza. Non sembrava lo stesso Guy che non le permetteva di entrare nel proprio appartamento. Poi capì tutto: “È stato quando stavano guardando il mio computer”. Ed era stato Guy a setacciare la rete e a scoprire per lei la verità su Nick/Chas. E la scorsa notte si era preso cura di lei. Non lo avrebbe fatto se non gli fosse piaciuta, giusto? Come aveva fatto a fraintendere ogni cosa? Prima di rendersene conto, le lacrime iniziarono a rigarle le guance più velocemente di quanto riuscisse ad asciugarle. Diede un morso al panino, più per soffocare i singhiozzi che per placare la fame. Guy la sentì tirare su col naso alle sue spalle, ma si tenne occupato a tagliare il pane per il proprio panino mentre canticchiava. Floz sapeva che stava fingendo di non sentirla per risparmiarle un po’ di dignità. «Grazie per aver scoperto tutto riguardo a… insomma, lo sai», disse lei a bassa voce. «Però, una parte di me non voleva che le cose andassero così. Sarebbe stato più semplice continuare a credere che lui era reale piuttosto che scoprire la verità». Guy portò il suo panino con la pancetta al tavolo e si sedette. 346/432 «Floz, ci sono delle persone veramente strane in circolazione. Restare aggrappata all’immagine di un uomo perfetto che non è mai esistito avrebbe condizionato troppo la tua vita. Nessuno in futuro sarebbe stato all’altezza di quella fantasia». Floz pensò a Nick: alto, con la giusta quantità di muscoli asciutti, galante e intelligente, con una leggera inflessione canadese. Un personaggio che lui stesso aveva modellato nel tempo basandosi sul concetto che lei aveva di uomo ideale. Guy aveva terribilmente ragione. Chas Hanson aveva una voce cortese, ammesso che le sue telefonate fossero attendibili… ma era un uomo molto più vecchio di quanto avesse lasciato a intendere, e solo Dio sapeva quale aspetto avesse. Lei non sapeva se le foto che lui le aveva spedito fossero dei vecchi scatti o se magari non erano nemmeno sue. Non c’era da meravigliarsi se aveva condotto la loro relazione giusto a un passo dal possibile incontro, prima di tirarsene fuori. «E poi quanto ti sarebbe costato un viaggio in Canada? Non solo in termini economici, ma anche in emozioni sprecate?» «Mi sento una stupida», disse Floz in tono spossato. Aveva i nervi tesi come se fosse appena sbarcata da un giro sulle montagne russe. «Non sei una stupida», disse Guy. Le mani di lui erano sul tavolo, vicine a quelle di lei. Erano gigantesche. Si immaginò Nick con delle mani del genere, lunghe dita che l’accarezzavano e la stringevano. Nick Nick Nick. «Floz, anche le persone più intelligenti vengono attratte da questi pazzoidi. Tanto per la cronaca, avendo visto le lettere, scommetterei qualsiasi cosa sul fatto che a quel tipo stavi a cuore. Sapeva che eri una persona genuina e credo che si sia invischiato in una fantasia che desiderava davvero fosse reale. Credo inoltre che la morte di suo figlio lo abbia totalmente fottuto e che stesse cercando di restare aggrappato con le unghie al passato. Io…». «Per piacere smettila», disse Floz. Era tremendamente imbarazzata all’idea che qualcuno avesse potuto vedere che cosa si celava nel suo cuore. Specialmente Guy, che con ogni probabilità la riteneva un’imbecille fatta e finita. Lei aveva aperto il suo cuore in quelle lettere, credendo che fossero destinate soltanto agli occhi di 347/432 Nick, e ora diverse persone le avevano lette. Tutti sapevano che perfino i suoi stessi genitori non la amavano. «Una volta avevo un’amica», iniziò a dire Guy. Non riusciva a credere di aver cominciato a raccontarle quella storia, ma poiché pensava che avrebbe aiutato Floz, era preparato a ritornare in quel luogo oscuro. «Eravamo usciti insieme soltanto un paio di volte prima di lasciarci. Non era il solito tipo di donna di cui mi invaghisco, era così piccola e fragile e io desideravo proteggerla, ma accidenti, era una faticaccia. Era attratta dai drammi degli uomini disadattati che la trattavano in malo modo e non era in grado di accettare che io la rispettassi, per cui tra noi finì. Ma riuscimmo a restare amici. Si chiamava Lacey. Lacey Robinson. Abbiamo studiato alla stessa scuola di cucina». Poi si fermò, chiedendosi se Floz volesse ascoltare quella storia di totale infelicità, ma lei gli fece cenno di proseguire. «Era ossessiva quando si innamorava: il partner diventava il centro del suo mondo. Non era salutare per lei. L’uomo poi la lasciava, o scompariva, e lei si rivolgeva a me, il suo unico amico, per piangere sulla mia spalla. Poi, un giorno, iniziò a frequentarsi con un tale di nome Jamie, conosciuto su internet: era “perfetto”. Aveva tutto ciò che lei desiderava. Era quello giusto. Viveva a Durham per cui non si vedevano spesso, e ciò contribuì a mantenere viva la fiamma. Si incontravano in ristoranti romantici a pranzo, ma mai a casa di lui e non trascorrevano mai la notte insieme. Lei stava pianificando di lasciare tutto per andare a vivere su da lui. «Poi, un giorno, Jamie smise di contattarla. Non rispondeva al telefono, ai messaggi o alle e-mail… Ci mancò poco che lei impazzisse, era a pezzi, si sforzava di capire che cosa gli avesse fatto per indurlo a comportarsi così. Insomma, Lacey guidò fino a Durham. Come sia riuscita a non avere un incidente resta un mistero. Lui non voleva uscire da casa sua, per cui lei rimase seduta fuori, per ore; dopodiché arrivò la sua ragazza. A quanto pareva, il signor Amore Perfetto era in realtà il signor AmoreTraditore, che si divertiva ad adescare delle ragazze per poi sbarazzarsene quando la cosa si faceva 348/432 troppo seria. La fase della conquista lo eccitava e non gliene fregava nulla se in questo modo spezzava il cuore delle sue vittime. Inutile a dirsi, Lacey era devastata. Mi telefonò quando arrivò a casa per raccontarmi tutto, ma sembrava a posto, come se l’avesse presa bene. Mi disse che scoprire la verità l’aveva liberata da lui e che stava bene. Veramente bene. Non avrei dovuto crederle, perché lei non stava mai bene. Ma stavo lavorando, ed ero stanco, e non ho dato retta al mio istinto che mi diceva di guidare fino a casa sua. Quella stessa notte si riempì di pillole e di alcolici, si tagliò i polsi e si uccise». «Oh, Guy. Di certo non te ne puoi fare una colpa». «Avrei potuto salvarla se fossi andato da lei», disse lui, respingendo con un colpo di tosse il sentimento che rischiava di prendere il sopravvento. «Sogno ancora il dolore che deve avere provato a uccidersi in quel modo. A essere onesto, per un po’ ho perso la retta via. Steve mi ha accudito, ha lottato per strapparmi le bottiglie di vodka dalle mani e mi ha messo a letto in più occasioni di quante io mi ricordi. Fidati, Floz, non puoi affogare le tue pene perché sono maledetti nuotatori da medaglia d’oro alle olimpiadi, e nessuno lo sa meglio di me. Ho perso il lavoro, mi sono fatto arrestare per rissa, non sapevo più quale fosse il mio ruolo nel mondo. Kenny Moulding mi avrà anche stremato più del dovuto nel corso degli anni, ma mi ha dato un lavoro quando nessun altro era disposto a farlo». «Non devi incolparti per la sua morte», ripeté Floz in tono gentile. «Alcune persone nascono con il pulsante dell’autodistruzione, e una volta che viene attivato, non c’è nulla che si possa fare per arrestarlo». «Vorrei poterci credere». Floz rifletté per un istante prima di parlare. «So di aver ragione, Guy, perché conosco una persona fatta esattamente così». Fece una pausa. «Aveva una moglie, una sua attività e una bella casa. Poi…». “Così tanti giorni bui. Così tante cose che andavano storte. Così tanta tristezza”. «La sua attività iniziò ad andare male. C’era bisogno di investire parecchi soldi per salvarla, ma lui non disponeva di una somma tale e non riuscì nemmeno a 349/432 racimolarla. Quindi, quando le banche gli rifiutarono i prestiti, si diede al gioco d’azzardo, nella speranza di fare una grossa vincita che lo salvasse». “Gli piaceva il gioco d’azzardo. L’eccitazione cancellava tutta la tristezza”. «Presumo che non vinse nulla», disse Guy. «In realtà, all’inizio fu davvero fortunato. Forse se non avesse avuto quei colpi di fortuna, le cose sarebbero andate diversamente. Poi la sorte cambiò, ma lui era convinto che sarebbe tornata, che c’era una grossa vincita proprio dietro l’angolo. Insomma, finì per perdere al gioco tutto ciò che possedeva. Sua moglie non riuscì ad aiutarlo. Ora è uno degli ubriaconi della città. Uno di quegli idioti che stanno seduti sulle panchine fuori dai bagni pubblici con del sidro scadente e della birra forte». “È per questo che non vado spesso in città, per evitare di vederlo. Per evitare di vedere il mio ex marito”. «Ero solita guardare quegli ubriaconi e chiedermi come avessero fatto a ridursi così, da dove venissero, cosa fossero stati in passato. Non sono certo nati tracannando da delle lattine». «Però non si è ucciso, Floz. C’è una bella differenza». «No, ma non era più lui, non gli importava più di nessuno se non di se stesso. Si sta uccidendo, solo che il suo è un metodo molto più lento. Nessuno è riuscito a fermarlo, il pulsante era stato premuto e non c’è stato modo di tornare indietro. Anche sua moglie ha perso tutto, ma ha deciso di andare avanti e sopravvivere. È molto difficile cercare di proteggere qualcuno che è ostinato a farsi del male, che si rinchiude nel proprio mondo e getta via la chiave». “E fino a poco tempo fa non mi ero mai resa conto di quanto fosse facile scivolare giù per la discesa”. Le mani di Guy si chiusero sopra quelle di lei per poi stringerle. Erano grandi e forti, pensò Floz. Quelle di lei erano piccole e fredde, pensò Guy. C’era un silenzio rassicurante nella stanza, un’aria serena e calma. Floz disse in tono umile: «Per piacere non raccontare nulla di tutto ciò a Juliet o a Steve». Le mani di lui erano ancora sulle sue e le 350/432 piaceva. Il pollice di Guy fece un singolo tentativo di accarezzarle il polso. «Non lo farei mai», disse Guy. «Sarà il nostro segreto, va bene?». Gli occhi di lui erano gentili e affettuosi, sembravano il manto di un lupo grigio. Floz si rese conto in quell’attimo come mai Lacey fosse riuscita a trovare un breve momento di sollievo dalle sofferenze del suo cuore tra le braccia di lui, che la cingevano e stringevano. Voleva che quelle braccia la cingessero. Voleva che la stringessero. Voleva essere tenuta stretta contro il corpo protettivo di Guy Miller. Poi, Juliet e Steve entrarono rumorosamente nell’appartamento e le loro mani si staccarono. «Ciaooo, siamo noi. Oooh…». Juliet vide Guy. «Che cosa ci fai tu qui a quest’ora?». Le sue sopracciglia si inarcarono. «No, no, niente di quello che pensi», disse Guy. «Ero semplicemente passato per vedere se…». Oh accidenti, non riusciva a pensare a una scusa plausibile che giustificasse perché si trovava lì da solo con Floz a quell’ora del mattino. «… se eravate tornati», intervenne Floz. «Perché Guy voleva vedere Steve per… ehm… gli abiti per il matrimonio». «Sì, esatto», disse Guy, mimando un “grazie” con le labbra in direzione di Floz quando Juliet si girò per guardare Steve. «Spero tu non stia per andare a comprare qualcosa senza avermi prima consultato», disse Juliet, puntando le mani sui fianchi con fermezza. «No», disse Guy. «Ma difficilmente troveremo i completi della nostra taglia direttamente appesi sulle grucce di un negozio, per cui ho pensato che avremmo fatto meglio a iniziare le nostre ricerche il prima possibile». «C’è quella cucitrice in Lamb Street». «Cucitrice?», dissero Guy e Steve all’unisono. «Se mi lasciate finire», brontolò Juliet. «È sposata con un sarto e sono molto svelti a lavorare. Si è battuta per il movimento di emancipazione femminile e poi si è trovata un marito thailandese». «Ottima idea», disse Steve. «Ci andiamo subito dato che sei qui?» 351/432 «Perché no!». Steve lasciò il borsone di Juliet e si affrettò a uscire insieme a Guy. «Allora, amico», disse Steve. «Che cosa sta succedendo tra voi due?». A volte gli uomini erano peggio delle donne quando si trattava di spettegolare. «Stai bene?», chiese Juliet nel tono più delicato che la sua voce roca le permettesse. «Ti ho pensato». «Sì, sto bene», disse Floz, mentre versava a Juliet una tazza di tè dalla teiera. «Guy mi ha raccontato di Lacey». «Lui è troppo buono quando parla di lei», disse Juliet. «Era una stronza narcisista. Avrei voluto farla tornare in vita solo per ucciderla con le mie mani, dopo aver visto quello che ha fatto passare a Guy. Ti ha detto che scriveva sulle pareti “Nessuno mi ama” e “Vi odio tutti” e altre cose carine del genere? Desiderava ferire il tizio che l’aveva scaricata molto più di quanto volesse vivere. E fu anche uno sforzo inutile, perché a lui non importava un fico secco. Finì invece per crocifiggere Guy, perché è stato lui a guidare fino a casa sua e a trovarla». Floz si portò le mani alla bocca. «No, questo non me l’aveva detto». «Non ho mai riconosciuto a Steve il merito per quello che ha fatto per Guy negli anni in cui mio fratello era a pezzi», disse Juliet. «Era l’unico abbastanza forte da tirarlo fuori dalle risse e metterlo a letto quando arrivava ad affogarsi il cervello nell’alcol. Ero troppo impegnata a vedere lo Steve che volevo vedere, e non l’uomo adorabile e gentile che è. Mi ero abituata al fatto che non mi piacesse. Grazie al cielo mi sono ricreduta perché sono davvero fortunata a stare con un uomo come lui». «È vero», disse Floz con un ampio sorriso. «Vorrei che anche tu trovassi il tuo Steve, Floz», disse Juliet, mentre gli occhi le si riempivano di lacrime. 352/432 «Anch’io», disse Floz. «Cielo, questi dannati ormoni!», commentò Juliet, allungando la mano verso i fazzoletti, a metà tra il riso e il pianto. Quella notte, Floz si girò e rigirò nel letto; tutta la storia di Nick Vermeer le rimbombava in testa. Sapeva che doveva farla finita, che doveva farlo per se stessa: doveva scrivergli e dirgli tutto quello che pensava. “Avrei dovuto insospettirmi nello stesso istante in cui mi ha scritto la data di compleanno fasulla, perché mi sono ricordata che una volta mi avevi detto che era in ottobre. Sei davvero un bugiardo molto convincente. Sei un ignobile bastardo totalmente deviato. Ti odio…”. Il cuore le stava battendo forte, degli insulti le stavano prendendo forma nella mente; poi le apparve in testa una visione di Jamie, l’ex di Lacey. Come Lacey, anche lei desiderava ferire Chas Hanson. Ma quale garanzia c’era che ciò sarebbe accaduto? A che cosa sarebbe servito? Doveva essersi già reso conto di essere un uomo deviato, senza il bisogno che lei glielo dicesse chiaro e tondo. Pensò al modo violento in cui suo figlio si era ucciso. Quanto doveva essere profonda la ferita che aveva dentro, giacché aveva cresciuto un bambino, l’aveva amato e poi aveva dovuto seppellirlo dopo che questi si era tolto la vita in un modo terribile, violento e tragico? Floz sfogò il proprio malumore sulle pagine, si liberò di tutte le cose che avrebbe voluto dire a Chas Hanson, se lui le fosse apparso davanti. Poi, dopo aver messo l’ultimo punto, premette il tasto per cancellare. Quelle parole accusatorie restarono ad aleggiare lì nell’aria, ma lei non le avrebbe inviate a Chas per non accrescere il suo dolore. Capitolo settantanove «Allora?». Juliet emerse dal camerino: sembrava un gigantesco rotolo di carta igienica. Perfino una sposa gitana sarebbe apparsa sobria a confronto. Floz cercò di non ridacchiare, ma Coco non si fece scrupoli ed entrambi scoppiarono a ridere fragorosamente. «Te l’avevo detto che sarei sembrata una cretina!», sorrise Juliet. «E non voglio un abito bianco. Voglio qualcosa di leggermente diverso, che sia più mio». «Non mi divertivo così da anni», disse Coco, asciugandosi le lacrime agli occhi. «È più divertente dello scherzo fatto ad André Previn per mano di Morecambe e Wise, il celebre duo comico». «Potrei suggerirle una cosa del genere», disse la graziosa signora che gestiva il negozio. Il tesserino affermava che si chiamava FREYA, era alta ed elegante, ed esercitava lo stesso effetto calmante del Prozac sulle spose nervose. Freya le porse un vestito smanicato, lungo e semplice, dalla linea molto morbida. Era di una tenue sfumatura dorata, e Juliet e la sua combriccola sospirarono all’unisono per lo stupore. «Questo sì che è magnifico». Juliet prese la gruccia e ne osservò il colore. «Molto autunnale, non crede?», sorrise Freya. «E fare le scarpe e il velo dello stesso colore». Juliet chiuse la tenda del camerino, dopo aver detto a Freya che non le serviva aiuto. Uscì pochi minuti dopo: era una perfetta sposa tutta curve. Il sorriso sul suo volto era più grande di una falce di luna nuova. «Non sono davvero meravigliosa con questo vestito?». Gli occhi di Coco si riempirono di lacrime e iniziò a sventolare le mani come una foca squilibrata. «Oh, questo sì che è l’abito giusto! Ju, sei uno schianto». 354/432 Juliet si osservò allo specchio. Quando si sarebbe sposata – tra ventisette giorni – la sua pancia sarebbe stata più grande per via del bambino, ma non aveva importanza poiché la forma stessa dell’abito avrebbe nascosto il pancione. Si sentiva stupenda in quel vestito e desiderava essere veramente bella per Steve. Suo marito e il padre dei suoi figli. Aveva usato il plurale perché sapeva che stava aspettando dei gemelli. Nessun medico gliel’aveva confermato, ma lei lo sapeva. Allo stesso modo in cui aveva segretamente saputo di essere incinta ancora prima che il test di gravidanza desse il suo responso. «Bene, ora dobbiamo occuparci delle mie damigelle», disse Juliet, mentre Freya le apriva la cerniera. «Inizieremo con gli abiti da donna». Quando Freya suggerì un abito marrone per Floz, Coco e Juliet storsero il naso, ma avrebbero dovuto fidarsi della signora. Freya mostrò loro tre vestiti di un intenso color cioccolato. Il primo era troppo elaborato e faceva sembrare Floz abbastanza tozza, ma il secondo, un abito senza spalline con bolero abbinato, metteva perfettamente in risalto le sue deliziose forme sinuose. «Oh, Floz, mi viene voglia di leccarti», disse Coco. «Non in senso sessuale, non sto per cambiare sponda, non ti preoccupare. È solo che sembra che tu sia fatta di cioccolato al latte». I capelli rossi di Floz sembravano fiamme in contrasto con il marrone intenso del tessuto. Freya se la immaginò con delle piccole foglie intrecciate nei capelli, al posto di un copricapo. Ancora una volta, aveva ragione. Raccolse i capelli di Floz, lasciandoli morbidi, e li fissò con delle spille a forma di foglia. Disse che poteva replicare quelle stesse foglioline sul velo di Juliet, cucendone alcune sopra, ma poi Juliet scorse un alto diadema dorato che rifletteva più luce di una sfera specchiata – e la decisione fu presa all’istante. Juliet era estasiata poiché tutto si stava sistemando più velocemente del previsto. Coco scelse un’enorme cravatta da dandy in una simile sfumatura di cioccolato. All’improvviso, ebbe una visione di se stesso con quella cravatta e un completo verde, per cui la fermata successiva che fecero fu la sartoria in centro, dove la fortuna fu 355/432 dalla sua e trovò un abito da uomo preconfezionato e una camicia, che non sarebbero sembrati fuori luogo addosso a Mr Darcy di Orgoglio e pregiudizio. Juliet sospirò mentre osservava le giacche e i pantaloni da uomo nelle grucce. Pensò a Steve in un completo elegante, lo immaginò intento a togliersi quegli stessi abiti la sera del matrimonio, per poi comandarle di spogliarsi all’istante. Era così autoritario nell’intimità. Per un minuto, trattenne quell’immagine nella sua mente, poi gli telefonò per dire a lui e a Guy di muovere i loro sederi fino al negozio White Wedding di Maltstone e dare un’occhiata alle cravatte marrone scuro. Quel giorno, anche loro erano in giro per farsi prendere le misure dei completi. Mentre lasciavano il negozio di abbigliamento maschile, Juliet notò come Floz fosse nervosa quando erano in città, come si guardasse intorno, come se si aspettasse che qualcuno le sarebbe saltato addosso. Aveva inoltre notato che Floz si recava raramente nel centro di Barnsley. Se aveva bisogno di comprare qualcosa andava sempre a Meadowhall, il centro commerciale. «Che cosa c’è, Floz?», rise Juliet. «Stai cercando di evitare qualcuno?» «Sì», disse Floz. Sentì che era giunto il momento di fidarsi dei suoi amici. Fece un profondo respiro: «Il mio ex marito. Non mi va di incontrarlo». «Non te ne faccio una colpa», disse Juliet. «Ho visto Roger un paio di volte in città con Hattie e non mi ha fatto molto piacere. Non è strano che delle persone che una volta ti erano così vicine siano diventate dei perfetti sconosciuti?». Floz annuì, poi fece un altro profondo respiro e proseguì, fiduciosa: «Vi ricordate di quell’ubriacone che abbiamo visto una volta, quello che cantava e che la polizia ha portato via? Era lui il mio ex marito». «Accidenti», disse Coco. «Non c’è da stupirsi che tu sia corsa a comprare della cioccolata». 356/432 «Scommetto che anche tu ti senti disgustata al pensiero che una volta andavi a letto con lui, proprio come capita a me quando penso a Roger». Il viso di Juliet si contrasse in una smorfia di repulsione. “Ecco fatto, non è stato poi così difficile lasciare entrare qualcuno nella mia vita”, pensò Floz. «Andiamo a pranzare al Yorkhsire Rose», suggerì Coco. «Perché non andiamo invece in quel piccolo bistrot vicino a Hobbyworld?», propose Floz. «Ma io sto morendo di fame adesso!». Coco sporse in fuori il labbro inferiore. «Saremo lì in quindici minuti, ed è delizioso», insistette Floz. «Concordo», disse Juliet. «Andiamoci. Floz non vuole incontrare il suo ex, per cui non obblighiamola a restare in centro». «Scusa, Floz», disse Coco. «È molto più importante che tu ti senta a tuo agio piuttosto che io dia retta al mio stomaco. Guidiamo fino a Sheffield». Dopo pranzo si riversarono dentro Hobbyworld per procurarsi degli addobbi da tavola. Floz trovò delle deliziose scatoline da regalo dorate a forma di cuore e alcune piccole decorazioni a forma di fuochi d’artificio. Comprarono dei cartellini segnaposto, dei coriandoli e dei tovaglioli con disegni di foglie, dato che il responsabile dell’Oak Leaf aveva detto loro che se volevano qualsiasi cosa che esulasse dai tovaglioli avrebbero dovuto provvedere da soli. Era di gran lunga una delle giornate più belle passate a fare shopping che Juliet avesse mai trascorso. E in serata sarebbero usciti insieme agli amici del wrestling di Steve, una volta terminati gli incontri. Quella sera, Steve sarebbe stato il lottatore buono, con tanto di grandi ali da angelo. Juliet era piuttosto allettata dall’idea di fare l’amore con un angelo. Prese mentalmente nota di ricordarsi di dire a Steve di portare il costume a casa, alla fine della serata. Capitolo ottanta La Sala del Centenario era semivuota quella sera. Il quotidiano «South Yorkshire Herald» aveva omesso di pubblicare un annuncio che servisse a incrementare il numero degli astanti, le aveva riferito Steve poco prima per messaggio. A quanto pareva, il giornle in questione non considerava il wrestling come un vero sport, per cui non l’avrebbe supportato. Juliet si infuriò quando entrò e vide così tanti posti vuoti. «Bastardi presuntuosi di un giornale incompetente», disse a Floz. «Non vogliono scrivere di un evento del genere, ma se coltivi il pomodoro più grande di Wombwell, allora sì che ti ritroverai in prima pagina, cacchio». Juliet guardò Steve che saliva sul ring e si dispiacque per lui. Amava talmente tanto quello sport. Sarebbe stato nel suo elemento se fosse nato negli anni d’oro del wrestling britannico. Ma non era così e poteva esibirsi soltanto davanti ai sostenitori più accaniti e a qualche anziano nostalgico. «Forza Steve!», urlò Floz. Poi si tappò la bocca con le mani. Si era lasciata trasportare troppo. Il vecchio signore vicino a lei la stava fissando e lei si sentì in dovere di scusarsi. «Mi scusi se ho urlato. Spero di non averla assordata», disse. «Per nulla», ribatté lui. Floz non riuscì a capire se il signore fosse originario dello Yorkshire o degli Stati Uniti, poiché aveva un accento veramente particolare. «È solo che conosco Angel», continuò Floz. «Sposerà la mia amica il prossimo mese. È davvero un bravo ragazzo». «È anche un lottatore molto bravo», disse il signore anziano. «Vive e respira per il wrestling», osservò Floz, mentre Juliet si alzava in piedi e urlava degli insulti mirati mentre Jeff Leppard cingeva il suo amante in una presa a cravatta. Floz aggiunse con un sussurro: «Tuttavia, credo preferirebbe vedersela con Steve sul ring piuttosto che con la sua signora». 358/432 Il signore anziano rise. «Che lavoro fa durante il giorno?», chiese. «È un imbianchino», disse Floz. «Ed è anche molto bravo. È uno che lavora sodo». «Bastardo!», urlò Juliet a Jeff. «Sono amici in realtà», spiegò Floz. «Più tardi, Jeff Leppard uscirà a bere qualcosa insieme a tutti gli altri ragazzi, per festeggiare il fidanzamento di Steve e Juliet. Anche lei è il benvenuto se vuole unirsi a noi. Non è una festa privata». «Ah, com’è gentile». L’anziano signore si mise a braccia conserte. «Ho sentito dire che ci saranno dei panini e degli stuzzichini». Floz non poteva sapere che genere di ripercussioni avrebbe causato quella conversazione. Di certo i ragazzi del wrestling non avrebbero permesso a Steve di fare una festicciola di fidanzamento sottotono. Di nascosto a Steve e Juliet, avevano fatto una colletta e avevano organizzato una festa “per Feast”. C’era più cibo che a un banchetto degli antichi romani, e anche qualche bottiglia di spumante per le signore, dato che gli uomini restarono fedeli alle birre. E Guy, che quella sera doveva sfortunatamente lavorare al Burgerov, aveva realizzato e inviato loro un’enorme torta a forma di ring da wrestling, con uno Steve al cioccolato fondente con tanto di ali e una Juliet vestita da demone provocante. «Mi chiedo quanto possa essere sembrato strano a Guy modellare le tette di sua sorella con la glassa», rise Juliet. Si sentì veramente commossa dal calore che percepiva in quella stanza. Durante il discorso di Steve, nel quale lui elogiò i suoi prodi compagni e il wrestling, Floz notò che il signore anziano che era seduto vicino a lei era venuto al pub e stava osservando gli sviluppi. Fu quasi schiacciato dalla porta che si spalancò quando Chianti Parkin entrò come un tornado, con suo padre e suo zio alle calcagna. Era la prima volta che Floz vedeva la leggendaria Chianti. Era alta con capelli lunghi e fruscianti, che continuava a ravvivarsi con le mani per poi farseli ricadere sulle spalle. Non c’era un filo di grasso 359/432 sul suo corpo, aveva un vitino da vespa e indossava degli stivali con il tacco a spillo che le arrivavano fino alle cosce, esaltandole un paio di gambe sottili e lunghissime. Ciononostante, Floz restò più che altro colpita dal suo viso. Avrebbe dovuto essere carino, poiché aveva tutte le carte in regola: occhi a mandorla, naso piccolo, zigomi che avrebbero potuto tagliare il metallo; eppure, le labbra erano sottili e arricciate come un sacchetto chiuso con uno stretto cordoncino. Invece di essere carina, sembrava dura e priva di carattere: nella smorfia della sua bocca si intravedeva la sua vera anima. A Floz fu subito evidente che la bellezza di Chianti era una patina molto sottile. Specialmente se poi guardava dall’altra parte, in direzione della splendida e dinamica Juliet, tutta intenta a sorridere con quelle sue labbra piene, con una luce le danzava negli occhi verdi. Sprizzava gioia e felicità, stava parlando con Alberto Masserati e i Pogmoor Brothers – Kerry e Hilary – che avevano imparato a combattere da piccoli proprio perché li avevano chiamati Kerry e Hilary, come le aveva riferito Juliet. Chianti agguantò un bicchiere di vino e lo prosciugò talmente in fretta da sembrare che volesse autopunirsi. Poi ne prese un altro. Mentre suo padre e suo zio socializzavano, Chianti fissava Steve con ostilità, e vacillava leggermente sui tacchi. Poi, quando Steve gettò indietro la testa per ridere, qualcosa sembrò scattare dentro di lei. Camminò a passo lungo e deciso verso di lui, e prima che Steve potesse accorgersi di ciò che stava accadendo, lei gli lanciò in faccia un bicchiere pieno di spumante. «Sai qual è il motivo, vero?», Chianti sorrise compiaciuta. «Se c’è qualcuno che scarica gli altri, quella sono io». L’unica reazione di Steve fu quella di asciugarsi il vino dal volto con le sue grandi mani, il che sembrò far infuriare ancora di più Chianti. Lei voleva un litigio, non una dignitosa manifestazione di indifferenza da parte di quello stupido e ottuso idiota che aveva osato porre fine a un appuntamento con lei per andare a incontrarsi con qualcun’altra. Per non parlare poi di chi era quell’altra! 360/432 «Quindi, dov’è la tua grossa, grassa e brutta fidanzata?», sghignazzò Chianti. «Se ti riferisci a me, sono qui», disse Juliet dietro di lei. Poi afferrò i capelli color ottone di Chianti, le tirò la testa all’indietro e le versò un’interna pinta di birra direttamente sulla faccia. «Le mie extension!», strillò Chianti. Alcune di queste, che non erano state incollate a dovere, si staccarono e rimasero nelle mani di Juliet. «Juliet!», urlò Steve. Ma la sua formidabile fidanzata non si sarebbe fatta zittire e nessuno – nemmeno Alberto Masserati – fu abbastanza coraggioso da intromettersi. «Come osate tu e i tuoi capelli finti entrare qui dentro e rovinare la mia festa?», disse Juliet con tono rabbioso mentre spingeva Chianti verso la porta. «Non permetterti di aggredire ancora il mio uomo, o la prossima volta ti staccherò le tue unghie finte e te le ficcherò in quelle tue poppe altrettanto finte!». Chianti gemette sbigottita mentre il suo fondoschiena atterrava sul marciapiede all’esterno del locale e Juliet si strofinava le mani. Tornò nel pub appena in tempo per vedere Little Derek che puntava il dito contro Steve. «Non osare chiedermi mai più di lavorare, giovanotto», grugnì prima di sbattere la sua pinta di birra ancora a metà sul tavolo. Poi uscì marciando dal pub, seguito dal fratello. «Be’, fantastico, dannazione», disse Steve con un profondo sospiro. «Perché diamine hai dovuto intrometterti, Ju?». Se fosse stato da solo avrebbe potuto piangere. Little Derek era l’unico agente che conosceva. Non sarebbe stato più in grado di partecipare a dei combattimenti di wrestling se lui non gli avesse passato dei lavori. «Cambierà idea, amico», disse Fred Zeppelin, dandogli una pacca sulla spalla di Steve. Tuttavia, il tono della sua voce diceva tutto il contrario, in quanto sapevano tutti che Little Derek, se voleva, sapeva essere un vero lurido pezzente: nessuno poteva permettersi di far arrabbiare la sua preziosa figlia e farla franca. «Oh cielo», disse Steve, abbassando gli occhi verso i suoi stivali. 361/432 Quando sollevò la testa, il signore anziano con l’accento bizzarro era davanti a lui, sorridente. E gli stava porgendo la mano. «Posso presentarmi?», disse. «Mi chiamo Patrick Milburn. Forse conosce mio figlio, per lo meno di nome, si tratta di William Milburn». Steve gli strinse la mano, per educazione. «Mi dispiace, non credo di conoscere suo…». Patrick Milburn mise la mano in tasca e gli diede un biglietto da visita. Steve lo lesse. Poi lo rilesse ed ebbe la sensazione che il cervello stesse per esplodergli. Il biglietto aveva stampato sopra il nome di Patrick, sotto tre grandi lettere in bianco e rosso: GWE, Global Wrestling Enterprises. William “Will” Milburn. Il capo miliardario della GWE. E quello era suo padre. «Sono in missione per scoprire dei nuovi talenti», disse Patrick Milburn. «Figliolo, ti piacerebbe venire in America nelle prossime settimane per discutere di un contratto?». Capitolo ottantuno La mattina successiva, Steve aveva i tremendi postumi di una sbronza, proprio come Jeff Leppard, Fred Zeppelin, Tarzan e l’enorme e irsuto Apeman, Klondyke Kevin e Big Bad Davy. I Pogmoor Brothers dovettero fare a turni per accompagnarli a casa. La festa che seguì l’annuncio di Patrick Milburn aveva messo in ombra i festeggiamenti che avevano preceduto l’entrata di Chianti. Ma proprio in quel momento, mentre Steve se ne stava disteso a letto con il mal di testa che iniziava a svanirgli grazie alle compresse che Juliet gli aveva dato, la realtà iniziò a intrufolarsi nei suoi sogni. «È bello che me lo abbiano chiesto», disse lui, cingendo le spalle di Juliet con un braccio. «Ma ora non posso andare. Proprio no». Juliet scrollò le spalle: «Che cosa intendi dire? Perché non ci puoi andare?» «Non ci andrei mai senza di te. E non voglio chiederti di lasciare la tua famiglia». «Tu ci andrai, Steve Feast. E io verrò con te». «E che cosa facciamo con il bambino? Tua madre e tuo padre saranno distrutti se non potranno vederlo crescere». Juliet si appoggiò contro di lui. «Steve, non so come andrà a finire questa storia. Quello che so è che è da una vita che desideri avere questa opportunità e devi coglierla. Immagino che sarai spesso in giro; quando ciò accadrà io verrò a casa e starò con mamma e papà. E poi c’è sempre Skype per quando sarò lontana da loro, e da te. Troveremo una soluzione. In qualche modo. C’è tanta gente che ci riesce». «Mi piacerebbe farlo, Ju. Soltanto per qualche giorno». «Lo farai. Non discutere con me. Dici sempre a Guy di provare a realizzare i suoi sogni, e ora è giunto il tuo momento di avere successo, tesoro». 363/432 «Sei così deliziosamente autoritaria, Juliet Miller. Ti amo più del wrestling, lo sai, vero? Hai qualcosa da ridire anche su questo?». Steve la baciò delicatamente sulla sua deliziosa e dispotica bocca. E per una volta, Juliet Miller non desiderò dire nulla, poiché sapeva che se Steve Feast l’amava più del wrestling significava che allora l’amava da impazzire. Floz guidò fino all’edicola per prendere il giornale della domenica, ma non tornò subito a casa. Al contrario, fece una lunga deviazione passando per la campagna, sorpassò Maltstone e si spinse ancora oltre sulla Higher Hoppleton Road. Era una zona gremita di cascine e alcuni campi avevano ancora delle enormi palle di fieno mietuto. Sul ciglio della strada erano sbocciati dei papaveri scarlatti, nel pieno del loro vigore; si reggevano dritti, immobili e silenziosi, con un’aria di reverenza. Oltrepassò tre signore anziane che stavano raccogliendo le ultime more polpose dalle siepi, con cui avrebbero poi preparato delle deliziose torte di mele e more, o almeno così si immaginò. Floz non era sicura di dove fosse il cottage, per cui guidò piuttosto lentamente, ma poi scorse l’avviso IN VENDITA, sbarrato con un’etichetta adesiva posta in diagonale che diceva VENDUTO. Accostò, curiosa di vedere perché Hallow’s Cottage avesse stregato a tal punto Guy. Con uno spintone aprì il cancello e dovette camminare lungo il vialetto per un tratto prima di riuscire a osservare la casa nella sua interezza, dato che le sterpaglie del giardino erano spesse e voluminose. Ciononostante, non appena posò gli occhi sulla casa, comprese subito perché Guy Miller avesse desiderato quel cottage sin da quando era un bambino. Proprio come Guy, lei non vide la vernice scrostata delle finestre, e quando guardò attraverso i vetri, non notò l’intonaco sgretolato o l’orribile moquette. Vide un fuoco crepitante nell’immenso camino, vide se stessa assorta a leggere, sdraiata su un grande e soffice divano, con un vecchio e amichevole gatto nero come Stripies che le faceva le fusa sulle ginocchia. Vide Guy Miller con un grembiule 364/432 bianco e un cappello da chef, che reggeva un grande vassoio con formaggi, pane e pâté. Floz restò senza fiato. Da dove le era sbucato quel pensiero? Perché stava pensando all’eventualità di condividere una casa proprio con Guy Miller? Floz si sentì piuttosto traballante, mentre tornava alla macchina. Capitolo ottantadue Il lunedì, di prima mattina, Guy ricevette una telefonata dal suo avvocato che gli comunicava che tutte le pratiche del ristorante erano state completate. Il Burgerov era ufficialmente suo e poteva chiuderlo, sventrarlo, suffumicarlo e farlo risorgere magnificamente come una fenice dalle ceneri. Si recò al lavoro sul presto con rinnovato vigore, pronto alla battaglia. E proprio perché ci andò presto, trovò Varto intento a far scivolare nel suo armadietto una bottiglia di vodka che aveva preso dal bancone del bar. «Buongiorno, Varto», sorrise Guy. «Dato che sei negli spogliatoi, prendi il tuo cappotto e tutti i tuoi averi e vattene dal ristorante. Sei licenziato». Varto si girò verso di lui con un ghigno arrogante stampato sul viso. «Lo sai che non puoi licenziarmi», disse. «Non è il tuo ristorante. È il ristorante del signor Moulding e credo che lui avrà qualcosa da ridire se cerchi di licenziarmi. È molto amico di mia mamma, non so se mi sono spiegato…». Guy rimase ammutolito. Varto non aveva la benché minima idea del fatto che il proprietario del Burgerov fosse cambiato. Guy pensava che fosse trapelata qualche voce, ma Varto sembrava all’oscuro di tutto. Guy batté mentalmente le mani, e si preparò a divertirsi. «Quindi non lo sapevi che sono il tuo nuovo capo? Kenny non ha detto alla “tua mamma” che ha venduto il Burgerov a me? E in qualità di tuo nuovo capo ti sto licenziando per aver rubato quella bottiglia di vodka». «Stai mentendo», disse Varto. «Non sei il proprietario». Guy notò che Varto non aveva accennato al fatto che fosse una bugia che era stato sorpreso a sgraffignare della vodka. 366/432 «Vai a chiedere a Kenny, allora. Oh, scusa non puoi. Vedi, presumo che ormai Kenny sarà su un volo per la Spagna. Con la signora Moulding. Arrivederci, Varto. Ti farò avere i tuoi documenti fiscali». Varto iniziò a sbraitare ad Antonin in modo molto drammatico nella loro lingua dell’Est Europa; quest’ultimo gli rispose, poi si rivolse a Guy con in volto la stessa espressione arrogante. «Se Varto se ne va, me ne vado anche io». «Lasciate il Burgerov allora», disse Guy con calma, ridacchiando fra sé. «E verranno via anche Igor e Stanislav. Non avrai nessuno per mandare avanti il tuo schifoso ristorante». Be’, se quella era una tecnica di ricatto, di certo non stava funzionando. Guy restò in piedi con le braccia conserte e un sorriso di puro divertimento. «Le considererò le vostre dimissioni ufficiali, posso?», disse. «Gina, farai da testimone?» «Sì», disse Gina, lieta di sentire che Guy aveva assunto il potere e ben contenta che stesse per instaurarsi un nuovo regime. Dopo che diverse ante degli armadietti furono sbattute e, presumibilmente, dopo svariate imprecazioni, Igor, Stanislav, Varto e Antonin uscirono infuriati dal ristorante, fermandosi vicino al cancello per dare a Guy l’opportunità di calmarsi e richiamarli, offrendo loro un aumento di stipendio dopo essersi scusato in ginocchio. Non si aspettavano di vedere Gina che affiggeva un avviso scritto alla finestra che annunciava che il Burgerov sarebbe rimasto chiuso fino a nuovo ordine. Trascorsero la mattinata a cancellare le poche prenotazioni che erano state fatte e a chiamare le imprese edili per chiedere loro se sarebbero riuscite a venire prima della data precedentemente fissata. Dato che tutto il personale di Guy se ne era andato, i lavori potevano tranquillamente cominciare prima della fine del mese. Ovviamente avrebbe tenuto Gina e Sandra, la signora della contabilità, insieme alla vecchia Glenys, l’addetta alle pulizie, e le avrebbe pagate anche mentre erano chiusi. Non avrebbe potuto andargli meglio. Kenny 367/432 non si era preso il disturbo di telefonargli e di fargli sapere che la transazione era stata completata molto prima del previsto, ma del resto Kenny si era tolto il ristorante e tutte le relative preoccupazioni dalla mente la mattina in cui Guy si era offerto di acquistarlo. Adesso il Burgerov non esisteva più. Nel giro di un paio di mesi si sarebbe chiamato con un altro nome, avrebbe avuto del personale entusiasta e pulito e un menu che avrebbe attirato i clienti come il canto di una sirena. Il re era morto. Lunga vita al re. Capitolo ottantatré Guy stava pensando a Floz. Non era stupido, aveva capito, ovviamente, che Floz stava parlando di suo marito quando le aveva raccontato la storia dell’uomo con il pulsante dell’autodistruzione. Poi pensò alle bellissime lettere che lei aveva inviato al fittizio Nick, e a quanto amore avesse da dare. Doveva averne messo da parte parecchio, enormi dispense di amore accantonato per qualcuno di speciale. Desiderò poter essere il destinatario. Le avrebbe restituito tutto quell’amore decuplicato. Lo splendido viso di Floz era costantemente nella mente di Guy, impresso a fuoco nel suo lobo frontale. Sapeva che avrebbe dovuto confessarglielo e chiederle di uscire a cena, senza combinare ulteriori pasticci. Non voleva concedere al destino la possibilità di mandargli ancora tutto all’aria. Quella sera Guy andò a letto con un piano molto semplice in mente. La mattina successiva Guy era in piedi fuori dal portone di Blackberry Court. Si era ripetuto almeno un milione di volte quello che avrebbe detto, e un milione di volte aveva incespicato, creando una variazione sempre più scadente di quello che aveva stabilito di dire in precedenza. Era una bellissima giornata, fresca e luminosa, con una brezza appena sufficiente a scuotere le foglie color bronzo, che erano ancora ostinatamente appese agli alberi. «Coraggio, Guy», si incitò. Il suo braccio si allungò e premette il campanello. Non successe nulla per quella che sembrò un’eternità. Ironico, pensò ridendo, che avesse trovato il fegato di compiere quel passo e lei non era in casa. Poi udì una voce soave: «Chi è?» «Oh, ciao, sono Guy. Floz, posso chiederti una favore?» «Sali», disse lei e gli aprì la porta. 369/432 Fase uno completata. Salì gli scalini tre alla volta. Lei stava aprendo la porta proprio in quel momento. Indossava un paio di jeans e una maglietta rossa, i suoi capelli erano sciolti e scompigliati sopra le spalle. «Entra, Guy», disse Floz, con un fremito lungo la schiena. Lui indossava una camicia blu, sbottonata al collo, una peluria nera era appena visibile oltre il colletto. «Ciao Floz», disse. «Senti, ehm…». “Fallo, Guy”. «Mi chiedevo se potresti dedicarmi una mezz’oretta. Devo andare a Hallow’s Cottage e…». Cacchio, non riusciva a ricordare quale scusa avesse inventato per chiederle di andarci con lui. «Mi potrebbe davvero servire un parere su…». “Pensa, pensa, idiota che non sei altro”. «Su come sistemare al meglio la casa prima che i muratori inizino a demolire le pareti». “Per un pelo”. «Certo», sorrise Floz. «Mi piacerebbe molto vederla dentro, tra l’altro. Non sono sicura che sarò di grande aiuto, ma sono felice di darle una sbirciata. Vado a prendere il cappotto». Fase due completata. Le gambe di Guy tremavano nervosamente sulla frizione. Dalla cintola in giù, avrebbe potuto fare una formidabile imitazione di Elvis. L’automobile sobbalzò girando l’angolo e lui si scusò. «Scusa, guido da soli ventitré anni», disse lui. «È colpa del peso in più che stai trasportando oggi», commentò Floz. «È evidente che ha influito su qualche componente tecnica presente sotto il cofano di cui io non conosco assolutamente il nome». Restarono in silenzio. Guy si sentì in dovere di dire qualcosa di brillante e sagace: «Oggi il tempo è delizioso». “Oh, per l’amor del cielo, Guy!”. «Adoro l’autunno», disse Floz mentre sorpassavano un campo che scoppiava di papaveri. «È una stagione così bella». «Quando ero bambino, tutti i migliori castagni erano in queste zone», sorrise Guy. Un giorno avrebbe aiutato i propri figli a far 370/432 atterrare al suolo i ricci spinosi. Poi, li avrebbero aperti per estrarre le lucenti castagne marroni, portarle a casa e affogarle nell’aceto così da indurirle per le gare a scuola, proprio come Perry aveva fatto con lui. Guy accostò nella tenuta di Hallow’s Cottage. Il proprietario non si era fatto scrupoli a prestare a Guy le chiavi affinché potesse prendere tutte le misure necessarie e chiamare i suoi amici muratori. Guy aprì con uno spintone la porta cigolante e insieme si avventurarono nell’aria viziata e leggermente umida del cottage. «Oh, caspita», disse Floz, guardandosi intorno. Vista da dentro era molto più bella rispetto a quando aveva sbirciato attraverso le finestre sudice. La stanza era immensa, e poi quel caminetto… Se lo immaginò pieno di ceppi scoppiettanti e fiamme arancioni. «Credi sia troppo grande?», domandò Guy, simulando sgomento. «Credi dovrebbe essere divisa in due stanze?» «No, per nulla», disse Floz. «È bellissima esattamente così com’è. Riesco già a figurarmela con un grande divano in pelle…». «…un grande divano in pelle», disse Guy esattamente nello stesso istante, cosa che fece ridere entrambi. «E un grande tappeto cinese», disse Floz. «Rosso», suggerì Guy, mentre si prefigurava la stessa stanza che stava immaginando Floz. «Enormi ceppi nel camino…». «E quello è il punto ideale l’albero di Natale», sorrise Floz, indicando l’angolo dove le scale terminavano in un ballatoio. Quello spazio avrebbe potuto comodamente ospitare un albero alto circa quattro metri. Guy lo vide, gremito di regali alla base: cavalli a dondolo, orsacchiotti di peluche e un cucciolo che masticava l’osso che gli avevano regalato. Risero entrambi, si girarono l’uno verso l’altra e quando i loro occhi si incontrarono il momento divenne, in un certo senso, troppo intenso. 371/432 «Vieni a vedere la cucina». Guy entrò marciando in cucina e la mostrò a Floz. Aveva bisogno di essere tutta ristrutturata, ovviamente, ma aveva una graziosa forma quadrata. Dalla parte opposta della cucina c’era una stanza più piccola, che aveva delle grandi finestre affacciate su quello che un giorno avrebbe potuto essere un giardino fiorito, e più in là dei campi coltivati. Floz si immaginò seduta a una scrivania accanto alla finestra, l’odore del caprifoglio si insinuava dentro la stanza, mentre scriveva delle graziose poesie su San Valentino, che le venivano dal cuore giacché era innamorata persa. Guy le fece cenno di salire. Si sentiva come un micino in preda alle vertigini. Stava filando tutto troppo liscio. La sua mente aveva corso troppo avanti. Si era spinto decisamente oltre alla fase in cui chiedeva a Floz di uscire con lui. La stava trasportando su per quella scalinata nell’abito da sposa e le dita di lei erano già all’opera con i bottoni della sua camicia. Guy spalancò la porta che dava sulla stanza più grande, con finestre su due pareti e travi nodose che attraversavano il soffitto. Floz sospirò davanti a una tale bellezza. Vide un letto a baldacchino e Guy che la gettava scherzosamente sopra. Indossava un abito bianco da sposa, rideva e si toglieva le scarpe. Floz sapeva di essere arrossita, e si girò pertanto verso la porta; Guy lo interpretò come un segno che era giunta l’ora di spostarsi nella stanza adiacente: una camera da letto più piccola, anche se non di molto, a forma di L, con vecchi armadi a muro in quercia profondi all’incirca cinquanta centimetri. In quella stanza Guy vide due bambini, libri e giocattoli sugli scaffali, copripiumini e tende della GWE con sopra il volto di Steve. Subito accanto si trovava un adorabile bagno nel classico stile delle campagne inglesi, con orribili mobili color avocado, e appena due passi più in là c’era un’altra camera da letto con vista sulla campagna. Floz si rese conto che probabilmente erano dieci minuti che sospirava. Ridacchiò fa sé. 372/432 «E con questo si conclude la visita guidata di Hallow’s Cottage». Guy sorrise e fece un inchino. «È magnifico». Floz gli riservò uno scroscio di applausi, per poi seguirlo al piano di sotto nel salone. Era stupita di non trovarsi in un qualche paesello incantato nella contea di Dorset, invece che ai margini di una città industriale nel nord dell’Inghilterra. «Sono così felice che comprerai questa casa. Sarà favolosa». «Mi dispiace non poter offrirti una tazza di tè», disse lui. «Avrei potuto portare un thermos, vero?». Dannazione, perché non ci aveva pensato prima? «No, non preoccuparti». «Dovrai tornare quando ci sarà l’elettricità», disse lui. Oooh, molto bene. L’aveva prevista, ma quella battuta era perfetta per iniziare il discorso. «Grazie, ci verrò», annuì Floz. Ebbe un tuffo al cuore per l’emozione. Sììì! «Non vedo l’ora di finire i lavori e trasferirmi», disse Guy. «Non vedo l’ora di cucinare in quella cucina e dormire in quella camera da letto al piano di sopra. Non vedo l’ora di addormentarmi davanti a quel fuoco crepitante. Non vedo l’ora di…». «Farti un bagno circondato da mobili color avocado?», ridacchiò Floz. «Sì, esatto, come se potessi lasciarli!», rise Guy. Gli occhi di lui erano davvero brillanti e vivaci, pensò Floz. Voleva fare scorrere le dita attraverso le onde dei suoi spessi capelli e sfiorargli le labbra con le proprie. «E cavolo, non vedo l’ora di vedere quell’albero di Natale», disse Guy. Incontrò di nuovo lo sguardo di lei. Aveva degli occhi di un verde molto intenso, pensò lui. Verdi come l’albero di Natale che un giorno avrebbero avuto in quell’angolo. «Riesci a immaginarti questo posto nel periodo natalizio?», chiese Floz. 373/432 «Quale bambino non crederà che Babbo Natale scende dal comignolo per poi uscire nel caminetto? Riesci a immaginarti una fila di calze lì appese?». Floz si girò per osservare il caminetto. Gli stava rivolgendo la schiena quando disse: «I bambini adoreranno questa casa. Ne serberanno tanti ricordi meravigliosi quando saranno adulti». Guy si sentì sopraffare dalla gioia poiché Floz era proprio sulla sua stessa lunghezza d’onda. «Io non ne ho mai voluti», aggiunse lei, guardando sempre dall’altra parte. «Sono felice per Juliet, ovviamente, ma l’essere madre non fa per me». Guy inarcò le sopracciglia. Questa non se l’aspettava. Non ebbe il tempo di elaborare appieno ciò che Floz aveva detto perché lei continuò a parlare. «In effetti, non vedo l’ora di andare a vivere in un monolocale. Stare insieme a Juliet e a Steve mi ha fatto capire che desidero senza ombra di dubbio stare da sola ancora per tanto tempo a venire. Niente coinquilini o relazioni sentimentali». «Davvero?», disse Guy, la sua voce era appena più forte di un sussurro. «Sì», rispose lei. «Ho pensato che potrei andare a vivere all’estero e trascorrere l’inverno in un posto caldo. L’aspetto positivo del mio lavoro è che posso lavorare veramente in qualsiasi parte del mondo desideri, purché abbia una connessione a internet per inviare dei file. Sono una donna in carriera e nei prossimi anni mi concentrerò totalmente sul lavoro. In effetti, ora che ci penso, farei meglio a tornare a casa, perché ho una scadenza da rispettare». Lei si girò verso di lui e sorrise, senza però quella luce che le illuminava lo sguardo. «Sì, certo», disse Guy. «Be’, grazie per essere venuta. Mi serviva il parere di una donna a proposito di cosa fare con il salone, per sapere se dividerlo o meno». «Non farlo». Floz si incamminò a grandi passi verso la porta. Sembrava una persona diversa da quella che qualche minuto prima 374/432 era in piedi con lui in quella stessa stanza. Questa Floz era molto più fredda, emanava vibrazioni simili a missili che lo obbligavano a mantenere una certa distanza. Non avrebbe potuto essere più chiaro di così: lei sospettava che lui stesse per chiederle di uscire e stava cercando di risparmiargli una figura da fesso. Il fatto che non avesse realmente pronunciato un rifiuto per lui non fu di alcun conforto. Guy si stampò in viso un’espressione impavida, finanche amichevole, mentre l’accompagnava a casa in macchina, sebbene non fosse effettivamente in grado di capire che cosa avesse detto per indurla a sbattergli la porta in faccia. La lasciò a casa e la salutò con la mano. Tra loro non c’era nessun imbarazzo apparente, ma alcuni dei ponti che li collegavano erano crollati. Guy sentì che tutte le incantevoli foto di quel futuro a Hallow’s Cottage avevano già i bordi bruciacchiati, e presto si sarebbero trasformate in cenere. Floz chiuse la porta di casa e rimase in piedi con la schiena appoggiata al muro. Forse aveva inconsapevolmente detto la verità. Forse avrebbe dovuto trasferirsi lontano, concentrarsi a migliorare la sua carriera, lavorare più ore, scrivere più testi. Avrebbe dovuto farlo, così da riuscire a sopprimere quelle immagini di Guy Miller, dell’albero di Natale e dei ceppi crepitanti che danzavano nella sua mente. Capitolo ottantaquattro «Quindi?» «Nulla da fare», disse Guy. «Oh, starai scherzando!». Steve aveva voglia di lanciare il telefono contro la parete. «Come mai?» «Onestamente non lo so». Guy aveva sviscerato quella conversazione innumerevoli volte ma non era riuscito a individuare la frase esatta che aveva fatto indietreggiare Floz. Aveva concluso che non lo avrebbe mai compreso. Era quasi andato fuori di testa nel tentativo di capire. Anzi, era proprio fuori di testa e basta. «Forse non ha capito che stavi flirtando con lei», tirò a indovinare Steve, ma anche a lui sembrava improbabile. «Credimi», disse Guy, «sapeva che stavo per comunicarle i miei sentimenti, e non voleva starmi a sentire. Non c’è nessun’altra spiegazione». «Per lo meno non avete litigato», cercò di consolarlo Steve. Era davvero pessimo quando si trattava di tirare su di morale qualcuno. «Già», fece Guy. Ma non era una consolazione sapere che da qualche parte là fuori c’era un uomo che Floz avrebbe amato e che non sarebbe stato lui. Non aveva nemmeno alcuna possibilità di divenirlo in futuro se lei avesse fatto ciò che aveva affermato e si fosse trasferita all’estero. «In ogni caso, non preoccuparti per me. Sei pronto per la partenza di domani?» «Certo che sì», sorrise Steve. Stava proprio preparando la valigia, poiché il giorno successivo avrebbe preso un volo e sarebbe andato alla sede centrale della Global Wrestling Enterprises nel Connecticut per incontrare il signor Will Milburn in persona. Avrebbe trascorso lì quattro giorni e non stava più nella pelle. Era più emozionato di un bambino che stava per andare a Disneyland. 376/432 «Divertiti, amico», disse Guy, sinceramente felice per il fatto che Steve stesse per ricevere la grande occasione che si meritava da tempo. «Lo farò», annuì Steve. «E senti, per quanto riguarda Floz, finché la barca va, evita di scrivere la parola fine alla vostra storia». Purtroppo Juliet scelse proprio quell’esatto momento per uscire ancheggiando dal bagno alle sue spalle, gorgheggiando: «I’m leaving on a jet plane! Sto per partire in aereo!». Capitolo ottantacinque Juliet si aggirava come un’anima in pena per l’appartamento. Steve se n’era andato da sole due notti e lei riusciva a sopportare a malapena la separazione. Floz le lanciò una rivista per spose. «Qui, guardati alcune foto carine e smettila di pensare a Steve», le disse. «Si sta divertendo come un matto, beato lui», sorrise Juliet. «Ha detto che è andato tutto bene e che Will Milburn vuole fargli firmare un contratto. È tutto ciò che Steve desiderava, e ancora di più! Ma mi manca davvero tanto. Di notte il letto mi sembra enorme e vuoto. Prima pensavo che la gente che diceva una cosa del genere stesse esagerando. Adoravo quando Roger era via per lavoro e io avevo il letto tutto per me. Ma odio andare a letto senza Steve». «Oooh», disse Floz, con un largo sorriso sdolcinato. «Questo è proprio amore». «Lo è», annuì Juliet. «Ti piaceva dormire insieme a tuo marito?». Floz scosse la testa per sbarazzarsi dell’immagine di lei a letto con Chris. Non riusciva più a pensare a lui come l’uomo che aveva sposato, ma solo come l’ubriacone trasandato che si rendeva ridicolo per le strade del centro. «Mi dispiace», si scusò Juliet. «Non fa nulla», disse Floz. «Probabilmente mi piaceva, suppongo. Una volta». «Era un alcolizzato quando l’hai conosciuto?», chiese Juliet. «No», rispose Floz. «Gli piaceva bere, ma non esagerava. È stato solo quando la sua attività ha iniziato ad andar male che si è dato alla bottiglia. Diceva che l’oblio gli procurava un po’ di pace». «Dai problemi economici?», continuò Juliet. «Sì». “E dal suo cuore spezzato”. Floz fece un profondo respiro. 378/432 «Floz, ti va di venire con me domani a comprare un altro po’ di cose per il bambino?» «Mi piacerebbe tanto», mentì Floz, «ma non posso. Ho una scadenza da rispettare. Non posso deludere Lee». «Non preoccuparti», sospirò Juliet, prendendo la bottiglia di Gaviscon per alleviare il bruciore di stomaco. «Sarò costretta ad andare con mia madre». «Si divertirà tanto», disse Floz. «Ritorniamo al nostro lavoro: i fiori. Di che colore e quanti?». Capitolo ottantasei Quando Steve tornò a casa era un uomo nuovo. Aveva un sorriso radioso, per via di tutte le conoscenze importanti che aveva fatto in America con Will Milburn e i suoi uomini. Aveva firmato un contratto di due anni con la GWE che sarebbe partito ufficialmente dal primo gennaio: avrebbe guadagnato più soldi di quanti ne avesse mai sognati. Sarebbe stato introdotto come The Archangel, l’estraniato fratello angelico di Gravedigger, il nome più importante della GWE. Gli sarebbe servito un po’ di tempo per abituarsi a tutte quelle novità, ma con Juliet al suo fianco, riteneva che ce l’avrebbe fatta. Lei lo faceva sentire in grado di raggiungere ogni obiettivo, persino un esame di ammissione alla facoltà di Fisica. Non vedeva l’ora di sposarla. Subito dopo essere atterrato, guidò all’impazzata fino a casa di lei per vederla. In pochi minuti, lei lo aveva già trascinato in camera da letto per un po’ di sesso di ricongiungimento. Gli ormoni della gravidanza rendevano Juliet più insaziabile che mai. Nel corso delle successive due settimane, tra una sessione d’amore e l’altra, Juliet e Steve corsero da una parte all’altra come polli senza testa per organizzare i fiori, gli inviti e il fotografo per il matrimonio. Nel frattempo, Floz era impegnata a scrivere frasi per i biglietti d’auguri. Concentrare tutte le sue energie mentali sul lavoro le impedì di pensare troppo al fatto che avrebbe dovuto lasciare Blackberry Court, e Guy Miller. Perché non gli aveva spiegato come stavano le cose quando lui l’aveva porta a Hallow’s Cottage? Stava per chiederle di uscire, lo sapeva. Invece di diventare gelida e confondergli le idee, Floz avrebbe dovuto dirgli in modo diretto perché non potevano oltrepassare quella barriera e iniziare una relazione. Da quella volta non l’aveva più visto. Lui era troppo occupato a supervisionare i lavori di ristrutturazione del nuovo ristorante. Sembrava che entrambi fossero ben contenti di avere qualcosa su cui concentrarsi. 380/432 Floz aveva smesso da poco di cercare un nuovo appartamento su internet. Ce n’era uno papabile in Greenfield Lane, per il quale aveva fissato un appuntamento per le sei in punto, ma non la entusiasmava granché. Stava mettendo il tè in infusione, quando udì delle voci fuori dalla porta di casa. Due secondi dopo, Juliet, Grainne e Coco entrarono carichi di scatole. «Ciao!», urlò Coco sospirando, esausto. «Siamo noi. Siamo stati a fare shopping, si vede?» «Mamma non mi ha permesso di portare su la culla», disse Juliet, mentre lasciava cadere i pacchi e sentiva i muscoli rilassarsi. «Numero uno: mi avrebbe spezzato la mia dannatissima schiena. Numero due: dice che porta sfiga. Hai mai sentito nulla di più stupido?» «Sono d’accordo con tua madre», fece Floz, prendendo delle altre tazze e aggiungendo dell’acqua e una bustina di tè nella teiera. «Non osare sfidare le superstizioni». «Floz, ti ricordi quando hai detto che non usi quell’armadio che c’è in camera tua?», disse Juliet. «È ancora così?» «Sì», rispose Floz, «perché?» «Credi che potrei metterci dentro un po’ di cose per il bambino?», domandò Juliet. «Non ho più spazio. È tutto davvero troppo voluminoso». Poi indicò i nuovi acquisti fatti da Babyworld, il negozio lungo la strada verso casa: un tappeto da gioco e un seggiolino per la macchina. Ne aveva comprato soltanto uno per il momento, ma sapeva che l’imminente ecografia avrebbe rivelato che gliene sarebbero serviti due. «Certamente», disse Floz. «Grazie, sei un tesoro. Riesci a immaginarti di imbracare un bambino piccolo lì dentro?» «Sì», disse Floz, ma non permise alla sua immaginazione di perdersi nei meandri di quei pensieri. Capitolo ottantasette Da fuori il numero 27 di Greenfield Lane sembrava una piccola e curata casa bifamiliare. Il padrone di casa, il signor Selby, un uomo corpulento e sudato che sbuffò e ansimò tutto il tempo mentre saliva le scale, non si vergognava per nulla del fatto che l’entrata e gli scalini avessero bisogno di una bella passata di aspirapolvere e di un paio di flaconi di polvere per moquette. «Bagno, camera da letto, salotto, cucina», disse mentre indicava, come se si stesse facendo il segno della croce in orizzontale. Il bagno era di dimensioni decenti, ma puzzava. L’acqua nel water era gialla e maleodorante, come se l’ultima persona che ci avesse fatto pipì non avesse tirato lo sciacquone. Floz non riusciva a immaginare come avrebbe potuto migliorarlo. La cucina era essenziale, arredata con una delle più vecchie ed economiche cucine di Ikea. Il pavimento era ricoperto di moquette, che era fitta a causa dell’unto. Il salotto era piccolo, quadrato e impersonale. C’era un divano che sembrava recuperato dal cassonetto dell’immondizia. La camera da letto non era molto meglio. Il pensiero di andare a dormire su quel materasso macchiato provocò in Floz un lieve senso di nausea. Aveva l’impressione che avrebbe avvertito quella macchia indipendentemente da quanti coprimaterassi avesse usato, neanche fosse stata la principessa sul pisello. «Gas ed elettricità si pagano in base alla lettura del contatore», disse il signor Selby. «Come le ho detto al telefono, voglio due mesi di anticipo, e tutti gli eventuali guasti sono a carico suo. Voglio una cauzione di cinquecento sterline e nient’altro. Rimborsabile quando se ne va se non ha rotto nulla». «Quando posso farle sapere?», disse Floz, sorridendo e cercando di non lasciargli a intendere che il pensiero trasferirsi in quel luogo le faceva venire voglia di piangere. 382/432 «Ora se le è possibile», disse il signor Selby. Sembrò stupito che lei non ne fosse stata subito ammaliata. «Be’, prima devo vedere un’altra casa», mentì Floz. «Dove sarebbe?» «Oh, ehm… a Bretton». “Per piacere non mi chieda dove a Bretton”, pregò Floz. Ma lui non lo fece. La condusse semplicemente giù per le scale e le disse: «Va bene, allora. Posso tenere fermo l’appartamento per lei. Se però qualcuno mi dà una risposta definitiva, in quel caso l’appartamento è bloccato, capisce?» «Capisco perfettamente», disse Floz. «Grazie mille». Non aveva neanche finito di dire “grazie” che il signor Selby aveva già distolto lo sguardo da lei. Evidentemente percepiva che quella ragazza avrebbe preferito tagliarsi l’orecchio piuttosto che vivere in un appartamento puzzolente e squallido, che probabilmente non sarebbe stato poi così brutto dopo una bella pulita e qualche tappeto nuovo. Floz rimase seduta in macchina e appoggiò la testa contro il volante. Non le erano mai piaciuti i cambiamenti, odiava essere sradicata da una casa dopo che aveva osato mettere radici. Il problema era che essere strappata dalla famiglia Miller pareva peggio di un’estirpazione. Le sembrava che le stessero estraendo il cuore. Decise che non appena Juliet si sarebbe sposata, si sarebbe trasferita nel primo posto che sarebbe riuscita a trovare – anche se solo per un po’. E se l’appartamento di Greenfield Lane fosse stato ancora disponibile, avrebbe fatto un profondo respiro, acquistato tutti i prodotti che trovava nella corsia del supermercato dedicata alle faccende domestiche e l’avrebbe preso in affitto. Capitolo ottantotto Tre giorni dopo Guy era in piedi al centro del ristorante e si chiedeva nuovamente in che cosa diavolo si fosse andato a cacciare. Le pareti portanti erano tutte stuccate di fresco con delle grandi chiazze in corrispondenza dei punti in cui non si erano ancora asciugate, quindi sembravano invase dall’umidità. Le vecchie tende erano state tolte dalle finestre in una bufera di polvere e ragnatele. Tutti i tavoli e le sedie da quattro soldi erano stati rimossi, i rivoltanti paralumi erano stati gettati; il locale sembrava immenso e assomigliava a una cupa e squallida sala da ballo. Cercò di immaginarselo dopo che fossero venuti gli imbianchini a dipingere le pareti di verde tenue e panna, con i nuovi lampadari e con quelle pesanti e bellissime tende alle finestre… Tuttavia, quel giorno proprio non ci riusciva. Era stanco. E voleva fare tutto ciò con qualcuno e per qualcuno – e non c’era nessuno, neanche una persona su cui potesse fantasticare. La voce di Sandra lo chiamò dall’ufficio per dirgli che aveva trovato alcuni candidati piuttosto promettenti da assumere. Oh, e gli fece inoltre vedere una lettera di Varto che diceva che avrebbe fatto loro causa per la somma di cinque milioni di sterline. Stava ridendo quando rispose al telefono e scoprì che dall’altra parte c’era sua sorella in lacrime, che lo implorava di recarsi a casa dei loro genitori, dove si stava dirigendo anche lei dal lavoro. Non aveva capito molto di quello che gli aveva detto al telefono. L’unica cosa di cui era certo era che nessuno stava male e che non si trattava di un’emergenza per questioni di salute. Guy si precipitò in casa dei suoi genitori e vide Alberto Masserati stipato nell’enorme poltrona di Perry con Stripies sulle ginocchia. 384/432 Stava accarezzando il gatto con una mano, mentre le dita giganti dell’altra reggevano una graziosa tazza da tè di porcellana. Sebbene non fosse un uomo alto, Alberto sembrava essere stato inghiottito da un guardaroba e indossava, come sempre, il suo caratteristico giubbotto di pelle che lo faceva sembrare due volte più grosso. Sul ring era un animale spaventoso, tuttavia seduto lì nel salotto di mamma e papà, appariva come se fosse sul punto di piangere. «Il maledetto Oak Leaf ha cessato l’attività!», singhiozzò Juliet, gettandosi addosso a suo fratello. «Dove diavolo farò il ricevimento nuziale a questo punto?» «Domani la figlia di Alberto doveva fare lì il ricevimento», aggiunse Grainne. «Lui c’è appena andato per saldare i conti e ha scoperto che è chiuso. Non riesce nemmeno ad avere la torta nuziale che avevano portato lì all’inizio della settimana». «Sapevo che anche Steve aveva organizzato il suo ricevimento lì», disse Alberto. «Il nocciolo della questione è che non c’è posto da nessuna parte». «Perché non lo fate al pub?», chiese Guy. Alberto gestiva una piccola locanda a Little Cawthorpe: La Vite. «Verranno centoventi invitati. Non riesco a farli entrare tutti nel mio locale. La nostra Lulu è fuori di sé». «Ci deve essere qualche posto ancora libero», disse Guy. «Mia moglie e io abbiamo chiamato ovunque. Il che significa che anche Juliet e Guy sono probabilmente fregati». «Che cosa diavolo sta succedendo?». Steve irruppe nella stanza, ancora con la tuta da imbianchino. Aveva guidato come un matto per arrivare a casa dei Miller, dopo che Juliet gli aveva telefonato in lacrime dicendogli di andare lì. «Ho una mezza intenzione di andare da quel dannato proprietario dell’Oak Leaf per spaccargli la faccia», disse Juliet. «Fidati, se fosse stata un’opzione, lo avrei già fatto», disse Alberto. «Ma ha sgraffignato quello che poteva e se l’è filata. Senza 385/432 dubbio i nostri acconti hanno contribuito a riempire il suo serbatoio della benzina». «Non so che cosa dire», commentò Guy, affannandosi a cercare una soluzione. «Io sì. Ho un’idea», disse Alberto. «Guy, se riesci a organizzare il catering per me nel tuo ristorante, io farò lo stesso per tua sorella alla mia locanda. Potrai anche avere il giardino all’aperto per fare i fuochi d’artificio di notte». «Lo farei, ma uno: non ho del personale. E due: il locale è appena stato stuccato. Sembra proprio un disastro». «Mio figlio ha un negozio di tessuti», disse Alberto. «Avremmo drappeggiato tutte le pareti dell’Oak Leaf con del tulle nero. Mia figlia ha dei gusti un po’ gotici, per cui il tema della cerimonia sarà Halloween». «È fattibile», concordò Guy. «La vecchia cucina non è stata ancora completamente smontata, grazie al cielo, sussiste il problema della mancanza di personale». «Posso darti un paio di cameriere», disse Alberto, visibilmente sudato. «Non posso prestarti il cuoco perché è lo sposo, cacchio». «Puoi fare conto su di noi», disse Grainne con voce stridula, sfoggiando un largo sorriso. «Posso fare la cameriera, ma magari non la cuoca». «Io posso dare una mano in cucina», disse Perry. «E sono sicuro che anche Steve sarà disposto a farlo». «E anche io», disse Juliet. «E sono certa che anche Floz lo farà». «Farò un giro di telefonate tra i ragazzi del wrestling per vedere se qualcuno di loro è libero. Grazie mille, Guy», si prostrò Alberto, mentre Stripies si stiracchiava e strofinava la testa contro il viso ispido di Alberto, trovandolo tanto gradevole quanto un graffiatoio riscaldato per gatti. «Gina ci aiuterà, ne sono sicuro», decise Guy. Alzò lo sguardo e scorse una sincera trepidazione sul volto delle persone che aveva davanti. Il matrimonio di sua sorella, così come quello della figlia di 386/432 Alberto, dipendeva da lui. Fu allora che Guy entrò in azione: «Va bene, Alberto, affare fatto». «Quindi mi hai concesso un congedo pagato ma hai cambiato idea e vuoi che invece venga a lavorare. Che storia è questa?», disse Gina con una voce fintamente contrariata. «Fidati, si tratta di una grossa emergenza e se decidi per il no non ti serberò rancore», disse Guy dall’altro capo del telefono. «Ovviamente, ti pagherei un extra per la serata». «Certo che verrò», disse Gina, che probabilmente avrebbe dato la stessa risposta a Guy anche se lui le avesse chiesto di tagliarsi la testa e infilarla su una picca fuori da Buckingham Palace. «Grazie mille», disse Guy riconoscente. «Ti devo un favore». «Mi devi cosa?», scherzò Gina, cogliendo la sua grande occasione. «Dovrei insistere per farmi portare a cena al Four Trees». Guy deglutì, poiché non sapeva come uscire da quella situazione senza ferire i sentimenti di lei. D’altra parte, l’idea di andare a un appuntamento con Gina era così tremenda? Floz non avrebbe potuto essere più chiara riguardo al fatto che non lo desiderava; Gina era pazza di lui. Probabilmente avrebbe dovuto voltare pagina, dimenticarsi Floz e accettare il fatto che, dopotutto, tra di loro non era destino. Forse se fosse uscito con Gina avrebbe potuto iniziare a provare qualcosa per lei. Steve e Juliet avevano attraversato una profonda trasformazione, quindi la sua non era un’idea così inverosimile, e poi non sarebbe stato conveniente? «Va bene. Che ne dici di un paio di giorni dopo il matrimonio della figlia di Alberto, ad esempio il due novembre? Conosco il maître di sala. Sono sicuro che riuscirà a infilarci da qualche parte». «Perfetto!», disse Gina, sospirando come se non riuscisse a credere alla propria fortuna e fosse sul punto di svenire da un momento all’altro. Guy mise giù il telefono ma, per quanto si sforzasse, non riusciva a immaginare lui e Gina fare l’amore davanti a quel caminetto di Hallow’s Cottage. Capitolo ottantanove In un’ora, il Burgerov fu gremito di persone. Jeff Leppard era arrivato con un camion pieno di giovanotti per allestire alcune strutture temporanee sulle quali appendere i drappeggi neri. I Miller e Floz stavano strappando gli imballaggi dai tavoli e dalle sedie prese a noleggio, e Guy stava facendo delle telefonate ai fornitori nel tentativo di ordinare delle provviste. Il sabato pomeriggio non era certo il momento migliore. «Non mi interessa se ci toccherà servire pesce fritto e patatine», disse Alberto. «Fai semplicemente del tuo meglio, amico. La cena non deve essere esclusivamente a base di manzo». Proprio in quel momento, Big Bad Davy fece il suo ingresso in quella confusione. «Ehi, amico», urlò ad Alberto. «Ho qui un furgoncino zeppo di frutta e verdura se la vuoi. Ho saputo da voci di corridoio che eri nella merda, scusa per il termine». «Sei un mito!», disse Alberto, stritolandolo in un abbraccio che avrebbe potuto frantumargli le ossa e che gli fece gridare pietà. «Staranno un po’ stretti in alcuni tavoli, Alberto», disse Guy. «Non importa», rispose Alberto. «I parenti da parte della sposa sono tutti smilzi. Puoi farcene stare venti sulla punta di uno spillo». «Ti serve della carne?», chiese Davy. «Mio fratello è un macellaio. Stammi lontano, Alberto», lo ammonì, vedendo le grandi braccia dell’uomo che si dirigevano nuovamente verso di lui. «Gli telefonerò, basta che stai alla larga da me». Quando tutti i drappeggi neri furono appesi, le tavole allestite, le tovaglie, le posate e i bicchieri predisposti, i tovaglioli piegati e i segnaposti distribuiti, la luna era già alta nel cielo. «Non me ne dimenticherò», disse Alberto, mentre cingeva Guy in un abbraccio virile ma commosso, ammaccandogli giusto un po’ le ossa solide. «Farò in modo che il matrimonio di tua sorella sia speciale come lo sarà domani quello della mia ragazza». 388/432 Guy salutò tutti con la mano. L’indomani mattina avrebbe dovuto cominciare presto, per cui avrebbe dormito sul divano in ufficio. Ma prima di mettersi a dormire, doveva preparare una torta. Capitolo novanta Quando quel sabato mattina arrivò il variopinto campionario di gente che costituiva il personale della cucina, Guy si era già preso due caffè. Non che gli servisse una marcia in più, perché l’adrenalina che gli scorreva nelle vene avrebbe potuto generare l’elettricità sufficiente ad alimentare i forni. La cucina era pervasa dal delizioso profumo della carne di manzo. Guy stava apportando i tocchi finali alla torta nuziale a quattro piani con glassatura nera e alcune ragnatele di zucchero. Era un po’ strana come torta nuziale, ma comunque sensazionale. Un’esclamazione di stupore era la reazione di chiunque entrasse in cucina e la vedesse. «Buongiorno», sorrise Guy. «Mettetevi i grembiuli, Gina vi mostrerà dove si trovano». «Buongiorno a tutti», cinguettò Gina, che era arrivata con un’ora di anticipo e aveva goduto appieno di tutto il piacevole tempo che lei e Guy avevano trascorso da soli in cucina. Lui si era preso una pausa per farle un caffè. Lei si era sciolta per quella sua premura, neanche le avesse offerto un anello di fidanzamento. Gina era al settimo cielo dal giorno precedente, quando aveva parlato con Guy. I suoi piedi non si erano ancora posati per terra ed era andata a dormire immaginandosi il futuro appuntamento, il successivo matrimonio, i figli e persino i nipoti che ne sarebbero seguiti. Ciononostante, sapeva che quella mattina avrebbe fatto meglio a non fare menzione di niente di tutto ciò, poiché quando lui indossava la sua divisa bianca non era più Guy bensì lo “chef” e si concentrava soltanto sul cibo e sul servizio. E, Dio quanto era sexy quando era indaffarato. Floz, Juliet, Perry, Steve, Grainne, Coco e Gideon si allacciarono i grembiuli. Avevano appena iniziato a pelare le verdure quando arrivarono la moglie e la figlia di Jeff Leppard, dopodiché comparirono le due cameriere di Alberto con le composizioni floreali. Tarzan, che 390/432 di giorno era Dave Ward, il fioraio, si era svegliato alle prime luci dell’alba per prepararle, ottenendo, nonostante le sue grosse dita, un risultato sorprendentemente raffinato. Era la prima volta che Floz vedeva Guy dal giorno in cui avevano guidato fino a Hallow’s Cottage. Aveva cercato con tutte le sue forze di non pensare a lui, perché era sicura di non essere la donna giusta per quell’uomo. Ma il pensiero di lui e di quel cottage continuava a insinuarsi, specialmente nei suoi sogni, quando le sue barriere difensive erano abbassate. Ora si trovavano lì, nella stessa stanza, e lei riusciva a malapena a guardarlo, poiché ogni volta che gli occhi le cadevano su di lui, il cuore iniziava a batterle forte. Ma se si escludeva il veloce cenno del capo con cui l’aveva salutata, Guy l’aveva totalmente ignorata, e ciò la feriva più di quanto avesse immaginato. Avrebbe dovuto dirgli la verità, considerò Floz vedendolo. Almeno quello glielo doveva, dopodiché lui avrebbe capito da solo perché avrebbe fatto meglio a non legarsi sentimentalmente a lei. Questo Guy in divisa bianca, creatore della torta di Halloween, era un uomo diverso dal maldestro e timido ragazzo che lei conosceva. Era sicuro di sé e aveva tutto sotto controllo, e appariva molto ma molto attraente. «Gina, controlla la carne, per piacere». «Sì, signore». La sua voce aveva addirittura un suono diverso. I cuochi in televisione, incluso il focoso chef spagnolo Raul Cruz, non erano nemmeno lontanamente attraenti quanto Guy Miller in divisa da chef. Guy imprecò sottovoce, mentre il piccolo gatto nero di cioccolato fondente che stava modellando cadeva sul pavimento. “Concentrati, idiota, concentrati”. Era la prima volta che si trovava nella stessa stanza con Floz da quando avevano guidato fino a Hallow’s Cottage e lei aveva alzato il ponte levatoio. Aveva investito ogni grammo di energia sul ristorante e sui lavori di ristrutturazione del cottage. Aveva cercato di non pensare a Floz, ma lei continuava a infiltrarsi, specialmente di notte, nei suoi sogni. 391/432 Lui non riusciva a guardarla senza che il suo cuore si spezzasse un altro po’. Quella donna non voleva ciò che lui aveva da offrirle: un cuore traboccante di amore. Grugnì e si disse di concentrarsi sul lavoro che stava facendo. Una volta che la torta fu terminata, camminò impettito in giro per il suo regno, ovvero la cucina, controllando tutti i preparativi. «Floz, chi ti ha detto di tagliare così quelle carote? Non le voglio a rondelle, le voglio arrostire intere», sbraitò contro di lei. «Scusa, Guy», disse Floz. «Devo ricominciare?» «Ovviamente. A meno che tu non abbia qualche colla magica per le carote e riesca a riattaccarle». «No, signore». Gli occhi di Gina si spostarono sulla piccola donna dai capelli rossi. «Una Floz equivale a tutte le donne del mio passato più le tue messe insieme», lo aveva detto Guy al suo amico il giorno in cui era venuto a fargli visita, e lei lo aveva sentito per caso. Quindi questa era lei. Questa era Floz. Qualcosa in quel piccolo scambio di battute intrigò Gina. Guy di solito non era così acido, nemmeno con Varto. E non aveva guardato questa Floz negli occhi mentre la rimproverava. E neppure lei aveva alzato lo sguardo verso di lui. Floz rovesciò le carote che aveva tagliato nel bidone della spazzatura. Gina osservò gli occhi del capo che la seguivano per la cucina, uno sguardo così affettuoso, dolce e totalmente in conflitto con il modo in cui le aveva appena parlato. D’intuito Gina capì che a Guy quella donna piaceva molto. E non avrebbe avuto bisogno di essere messo con le spalle al muro per chiedere a lei di uscire a cena. Con un battito di ciglia, Gina scacciò le lacrime che le pizzicarono gli occhi. Sapeva di essere ridicola, perché le era bastato osservare solo per alcuni secondi l’espressione di Guy per capire i suoi sentimenti, tuttavia sapeva anche di avere ragione. Gina raccolse un altro sacco di carote e lo mise sul piano di lavoro di Floz. «Non farci caso, è innocuo in realtà». «Grazie», disse Floz. «So che è sotto pressione». 392/432 «Essere sotto pressione è tutto per lui», disse Gina in tono affabile. «Sei un’amica di famiglia?» «Sono la coinquilina di Juliet». Floz fece scorrere velocemente lo sbucciatore lungo la carota che aveva in mano. «Ah. Quindi tutta questa confusione si ripeterà da capo tra un paio di giorni», rise Gina. «Sembra che l’amore sia nell’aria». «Per alcuni per lo meno». Gli occhi di Floz si alzarono non appena Guy urlò per chiedere a qualcuno di spostare la torta. Gina si avvicinò a Floz. «Spero non griderà così al Four Trees quando usciremo a cena. Morirei di imbarazzo». Gina osservò Floz, che rimase immobile per un istante. Sì, aveva ragione, c’era qualcosa tra Floz e Guy. Qualcosa che voleva ridurre in mille pezzi. Quell’uomo doveva essere suo; non poteva avvicinarsi così tanto a lui, dopo tutto quel tempo, senza riuscire ad agguantarlo. «Deve essere un posto molto carino», disse Floz, con una voce un po’ tremante. «Rimandiamo l’appuntamento da così tanto tempo, perché lui è troppo impegnato per via della faccenda del ristorante e per lo stress che comporta il matrimonio. Sono sicura che ne sarà valsa la pena aspettare. Chiamami se ti serve aiuto, va bene?». Gina vide di nuovo quello sguardo ferito negli occhi di Floz prima di voltarsi e ritornare alla postazione dei dolci. Doveva soltanto resistere un altro paio di giorni, dopodiché Guy sarebbe stato suo. Una volta che fosse riuscita a intrufolarsi nel suo cuore, avrebbe spazzato via Floz in modo totale e definitivo. Capitolo novantuno Con i tacchi Lulu Masserati era più alta di tre centimetri e solo un po’ meno larga di suo padre. Non che ciò le avesse impedito di scegliere un vestito a meringa: non aveva minimamente tenuto conto delle sue forme quando aveva scelto che cosa indossare. Era grande, morbida e formosa, ed esibì un enorme sorriso rosso acceso quando entrò al Burgerov insieme a suo marito, che aveva un cappello a cilindro che lo faceva assomigliare di più a un becchino che a un novello sposo. Steve sperò che avrebbe reso Lulu felice. Non gli sarebbe piaciuto essere il genero di Alberto in caso avesse combinato dei guai con la figlia. Alberto infatti era un tesoro fuori dal ring, ma con il fisico che si ritrovava aveva il potenziale per essere davvero pericoloso. Furono accolti da Grainne e dalla cameriera che portava i bicchieri di succo d’arancia e champagne, con una spruzzata verde di colorante per prodotti alimentari, come da istruzioni. Mentre loro stavano chiacchierando, Floz e Coco giravano con vassoi di canapè: datteri ripieni di formaggio cremoso, salmone affumicato e aneto su dei piccoli cracker al pepe, crostini con chorizo e pâté di fagioli, gamberi giganti caramellati, fagottini di pasta sfoglia ripieni di curry… e molti altri stuzzichini. «Il vino è in tavola? Le zucche sono illuminate?», sbraitò Guy. «Sì, signore», rispose Perry, assaporando con gusto il suo ruolo di aiuto cuoco. «Sono quasi tutti seduti, Guy», disse Steve, che indossava una divisa da cameriere. «Allora portiamo fuori questi antipasti!». Centoventi zuppe al peperone rosso furono servite ai tavoli, e subito dopo centoventi ciotole vuote furono recuperate, lavate e asciugate a mano, dato che la lavastoviglie era stata smontata per i lavori di ristrutturazione. Nel frattempo, delle piccole capesante gratinate furono servite nelle loro conchiglie. 394/432 «Avete finito con quei sorbetti? Se sono pronti, fateli uscire adesso, per piacere!», urlò Guy, osservando la sua squadra di veri e propri dilettanti che, in qualche modo, lavorava in un’armonia che lui avrebbe desiderato vedere anche con Varto, Antonin e il resto del suo vecchio personale. Centoventi sorbetti allo champagne furono portati fuori. Il menu includeva arrosto di manzo, crema di rafano, carote al forno con sciroppo d’acero, purea di pastinaca, cavolfiori con crema di formaggio Stilton e vino bianco, cipolle rosse con salsa al porto, un tripudio di verdure a foglia verde e il più croccante e gonfio Yorkshire pudding che si potesse immaginare. Guy non aveva tempo per ascoltare gli elogi che le cameriere e Steve gli riportavano. Era troppo impegnato a controllare le torri di dolcetti di pasta frolla al lampone a forma di cuore e quelle di mousse al cioccolato e panna montata allineate in attesa di essere servite come dessert. Floz osservò come lui li controllasse singolarmente, scartandone uno perché aveva un ricciolo di panna della forma sbagliata, e un altro perché il cuore disegnato lungo il bordo del piatto con la salsa al lampone non era venuto bene. Le cameriere marciarono fuori cariche di piatti da dessert. Mentre l’ultimo veniva posato in tavola, tutti in cucina si azzardarono a emettere un sospiro di sollievo. «Non so come diamine tu ci sia riuscito, ma ce l’hai fatta, figliolo», disse Perry con un sorriso raggiante e orgoglioso stampato in volto. «Perché è un genio», disse Gina. Con le braccia cinse la vita di Guy e lo abbracciò, e vide Floz girarsi dall’altra parte come se la vista di lei che toccava Guy le facesse bruciare gli occhi. Era stata un’idiota, ora Floz se ne rendeva conto. E aveva perso la sua opportunità, perché adesso Gina aveva rivendicato il proprio diritto su Guy e lui l’avrebbe portata fuori a cena e tra tutti i posti che esistevano sarebbero andati proprio al Four Trees.Gina, bionda e dalle gambe lunghe, di cui lui era destinato a innamorarsi, poiché 395/432 era una ragazza carina e dai capelli dorati, e molto probabilmente capace di dargli ciò che lui voleva. Per questo, Floz non vide la velocità con cui Guy si scostò da Gina, ma udì soltanto lui che batteva le mani. «Coraggio, non abbiamo ancora finito. Non addormentiamoci sugli allori. Dove sono quei cioccolatini alla menta fatti in casa? Dov’è il coltello da torta? Non avevo chiesto che qualcuno annodasse quel nastro nero intorno al manico? Sharon, Janice, mettete l’acqua nelle macchinette del caffè, per piacere». Dopo il caffè, fu il turno dei discorsi nuziali. Quello di Alberto fu talmente commovente che gli invitati che non lo conoscevano si illusero che quell’omone fosse una persona dal cuore tenero. Per lo meno riuscì a prendersi gioco di sé e avvisò il genero che non avrebbe mai dovuto salire insieme a lui sul ring da wrestling, neanche per scherzo. Alberto obbligò Guy a uscire dalla cucina per prendersi gli applausi che meritava. Guy entrò in sala con il suo improvvisato personale di cucina al seguito, affinché potessero assistere al suo momento di gloria. «Più che altro è merito di questi ragazzi», disse Guy, distendendo la mano verso gli altri alle sue spalle. «Hanno dovuto sopportarmi per tutta la mattina, mentre urlavo contro di loro, impartendo ordini, quando avrebbero potuto starsene seduti a casa a godersi il fine settimana. Devo ringraziare in particolare il mio secondo in comando, Gina, che svolge sempre il suo lavoro alla perfezione». Gina si illuminò, mentre riceveva uno scroscio di applausi. In ognuna delle parole di Guy, lei udiva amore, speranza e promesse. Non poté evitare di lanciare uno sguardo vittorioso a Floz, che stava applaudendo diligentemente, nonostante avesse gli occhi bassi. Dopo il pranzo, la cerimonia nuziale iniziò a scemare. Alcuni invitati avevano sostenuto un lungo viaggio e dovevano tornare a casa per recarsi al lavoro il giorno successivo, la sposa e lo sposo vennero accompagnati in aeroporto per prendere un volo per le Bahamas, che sarebbe partito nelle prime ore della serata, mentre tutti gli altri se ne andarono al pub di Alberto per farsi un ultimo cicchetto. 396/432 «Sei il benvenuto, se vuoi unirti a noi», disse Alberto, mentre stringeva la mano di Guy con il suo solito vigore, rischiando di spezzargli le ossa. «Grazie, amico, ma sono sfinito», disse Guy. Quella fu la riposta che gli diedero tutti. Desideravano soltanto trascinare i piedi per andare a trascorrere un tranquillo sabato sera. «Venerdì ricambieremo. Ci sentiamo in settimana», disse Alberto. «Non potrò mai ringraziarti a sufficienza. Sto addirittura pensando che se ci trovassimo a sfidarci sul ring ti lascerei vincere». «Come no, sono sicuro che lo faresti», lo prese in giro Guy. Non credette neanche per un minuto a quella sua affermazione. Novembre Autunno dell’anno scorso, il più bel sorriso. William Cullen Bryant Capitolo novantadue Gina andò in bagno per la quarta volta in altrettanti minuti. Affermare che era nervosa per la serata era un eufemismo. Aveva iniziato ad agghindarsi e farsi bella all’ora di pranzo, ma i preparativi in realtà erano cominciati molto prima. Da più di un anno aveva comprato la biancheria che stava indossando in quel momento, che aveva conservato avvolta nella carta velina nel cassetto in attesa di un appuntamento con Guy Miller: un corsetto nero con perizoma abbinato, autoreggenti con la riga in mezzo e un fiocchetto all’altezza della coscia. Il vestito nero che indossava sopra era nuovo, elegante e costoso. Si spruzzò il suo profumo portafortuna, fece un passo indietro per ammirarsi allo specchio e sorrise. Non poteva essere più pronta di così per muovere i primi passi nel mondo in qualità della signora Gina Miller. “Colei che aspetta verrà ricompensata”. Quando udì la macchina di Guy che rombava fuori dalla porta, il cuore iniziò a batterle all’impazzata. Si infilò le sue nuove scarpe di velluto col tacco, la nuova pelliccia sintetica color nero pantera e si mandò un bacio allo specchio dell’ingresso. Era bella e si sentiva bella, perché prima della fine della serata avrebbe sfiorato le labbra di Guy con le sue. Guy guardò Gina uscire dalla porta principale. Era deliziosa. I suoi capelli biondo dorato erano lisci e lucenti, le sue gambe magre e lunghe con quei tacchi erano mozzafiato, ma i battiti procedettero a ritmo costante, non ci fu nessun sobbalzo, soltanto una cadenza regolare. Eppure Floz, quando era intenta a tagliare le carote con addosso quell’enorme grembiule bianco, gli aveva fatto scalpitare il cuore come se fosse il famoso cavallo Red Rum che galoppava verso l’ultimo ostacolo. «Ciao», disse Gina, mentre si allacciava la cintura. I suoi occhi splendevano, il suo sorriso era dolce e speranzoso, e Guy capì che uscire con lei era stato un errore. 399/432 Mentre guidava, conversarono a proposito del matrimonio di Alberto e delle richieste di prenotazioni che Guy aveva ricevuto da due degli invitati, che avrebbero voluto organizzare dei banchetti nel suo nuovo ristorante, non appena avesse riaperto. Quando arrivarono al Four Trees e lui aprì la porta dell’automobile per Gina, seppe che lei aveva attribuito a quel suo gesto molto più valore di un semplice e spontaneo atto di galanteria. Guy avrebbe voluto ordinare dello champagne, una volta che avessero preso posto al tavolo, tuttavia decise di non farlo poiché lei lo avrebbe interpretato come una prova ulteriore di quanto lui fosse romantico. Entro la fine della serata avrebbe dovuto farle capire, in modo molto gentile, che fra loro non sarebbe successo nulla. Andarono al loro tavolo e Guy si accorse che Gina lo stava fissando mentre lui osservava la lista dei vini. Sapeva che gli occhi di lei erano grandi e innocenti, brillanti più che mai. Ciò lo fece sentire lievemente asfissiato e si allentò il colletto. «Hai delle preferenze? Rosso o bianco?», le chiese. «Bianco per me, grazie», rispose Gina. «Hanno del Pinot grigio?». Guy scorse la lista. «Ehm, sì. Anche per me va bene. Dunque, che cosa desideri come antipasto?», le domandò. «Perché non scegli tu per me?», sorrise Gina. Tantissime volte aveva visto la stessa scena nei film e le era sempre apparsa molto romantica. Guy si maledisse. Non si era reso conto che lei fosse cotta a tal punto di lui. Temeva di ferire i suoi sentimenti, ma doveva fare in modo che quella serata finisse il prima possibile. Magari, durante il corso della cena Gina avrebbe dedotto che lui non era interessato se Guy avesse emanato delle vibrazioni sufficientemente fredde, così da farle recepire il messaggio e lasciarle un po’ di dignità. Proprio come Floz aveva fatto con lui. «Non conosco i tuoi gusti però», disse Guy. «Qualsiasi cosa va bene», ribatté Gina. Accidenti. 400/432 Gina immaginava che avrebbero preso delle portate differenti. Se lui le avesse ordinato delle capesante, Gina lo avrebbe preso come un segno che Guy desiderava che lei ne infilzasse una con la forchetta per poi farla scorrere tra le labbra di lui per fargliela assaggiare. E lui avrebbe fatto lo stesso con lei, era questo che accadeva tra le coppie che amoreggiavano. Lui ordinò le capesante. “È vero amore”, pensò lei. Per sé prese delle cozze. Sembrava un piatto mascolino e seducente. «E del Pinot grigio», disse Guy al cameriere. «Quale, signore?». Il cameriere probabilmente non lavora in quel ristorante da molto tempo, quindi non conosceva bene la lista dei vini. «È il numero… ehm…». Guy aprì la carta dei vini; “Oh cielo, che sfortuna!”. «…Sessantanove». La chiuse di scatto e la consegnò subito al cameriere. Allungò la mano per prendere un po’ di pane e si tenne occupato a strapparne dei pezzettini per poi immergerli nell’olio d’oliva. Gina rimase in silenzio e gli lanciò diversi sorrisi mentre aspettavano l’arrivo degli antipasti. Guy si rese conto che, nonostante avessero lavorato insieme per tre anni, non avevano mai socializzato. Non sapeva come fosse lei al di fuori del lavoro. A giudicare dagli sguardi che gli stava inviando, era incline a pensare che Gina, tra un turno e l’altro, restasse in adorazione di un altarino dedicato a lui. Al Burgerov i suoi occhi azzurri gli erano apparsi innocenti. Quella sera invece vi notò uno sbrilluccichio selvaggio. Lui le riempì il bicchiere di vino. «Questo vino è squisito», commentò Gina. «Devi essere un esperto». «Non proprio», rise timidamente Guy. «Francese, vero? Mi piace davvero tanto la Francia», disse Gina. «Mi sarebbe piaciuto andarci quest’estate, ma è così dura andare in vacanza da soli, non credi? Mi manca la possibilità di partire con qualcuno». 401/432 «Spesso penso che per una donna debba essere ancora più dura», rispose Guy, filtrando la sua risposta come se si trattasse di uno slogan pubblicitario. «Be’, in effetti per le donne molte cose sono più difficili», sospirò Gina, come Biancaneve davanti al pozzo dei desideri, andando alla ricerca di una risposta sulla falsa riga di “come cosa?”. Risposta che Guy si sentì obbligato a offrirle. «Considera, per esempio, chiedere a un uomo di uscire». “Oh merda”, pensò Guy. «Le donne a volte devono aspettare anni prima che un uomo chieda loro di uscire. Altrimenti rischiano di risultare sfacciate e un po’ mascoline, non trovi?». Guy si esibì in una serie di gesti, corrugamenti di sopracciglia e sbuffi per indicare che non era sicuro di quella sua affermazione. Gli venne voglia di sbaciucchiare il cameriere che lo salvò portando loro gli antipasti. «Come sono le tue capesante?», chiese Guy, pentendosi immediatamente quando vide che Gina ne raccoglieva una con la forchetta per poi portarla alle labbra di Guy. Se l’avesse mangiata, il suo gesto poteva essere frainteso, se invece l’avesse rifiutata sarebbe risultato sgarbato e zoticone. Cercò di prenderla dalla forchetta di lei nel modo meno sensuale possibile. «Squisita», disse lui. «Come sono le tue cozze?» «Sono buone, grazie». «Posso provarne una?» «Certo». Guy si sentì obbligato a ricambiare il gesto della forchetta. Gina chiuse lentamente la bocca intorno alla cozza e masticò con fare seducente. «Favolosa», commentò. «Che cosa fai nel tempo libero, Gina?», chiese Guy una volta che il cameriere ebbe portato via i piatti. Non avrebbe mai pensato che la conversazione tra loro potesse essere così faticosa. Gina si era trasformata in un’adolescente fulminata dall’amore. Ci mancava poco 402/432 che gli occhi di lei sprizzassero cuori in versione fumetto verso di lui: la situazione era davvero troppo intensa e lui era un po’ a disagio. «Oooh, non molto», rispose lei, sorridendo e tornando a sospirare. Guy non si sarebbe stupito se lei avesse trascorso il suo tempo libero esercitandosi a scrivere il nome GINA MILLER. Non si sarebbe mai immaginato che lei fosse tanto innamorata. Si sentiva terribilmente in colpa adesso che era certo che non ci sarebbe stato un secondo appuntamento. «È carino qui, vero?», domandò Guy, guardandosi intorno, poiché il calore dello sguardo di Gina lo stava facendo avvampare. «Dovremmo tornarci. La prossima volta offro io». Gina fece un sorriso che andava da un orecchio all’altro. Guy non sapeva che cosa rispondere. Non poteva dire di sì perché tale risposta le avrebbe causato un ulteriore motivo di delusione; non poteva dire di no perché l’avrebbe distrutta. Scelse di andare alla toilette e si scusò con Gina. Quando tornò, le portate principali erano in tavola. Guy attese che iniziasse l’inevitabile rituale della forchetta. Non dovette aspettare a lungo. «Quindi, sei emozionato per l’arrivo del bambino di tua sorella?». Gina infilò in bocca l’ultimo boccone del suo arrosto ripieno di pâté. «Sì, lo sono, molto», rispose Guy. «Adoro i bambini». «Anch’io», annuì Gina con grande entusiasmo, felice di aver scovato un ulteriore campo in cui lei e Guy erano compatibili. Una volta tornata a casa, non sarebbe riuscita a fare a meno di scegliere quattro nomi che si addicessero al cognome Miller. Quattro maschili e quattro femminili, in caso avessero avuto tutti maschi o tutte femmine. «Scommetto che il matrimonio alla locanda di Alberto sarà eccezionale», disse Gina, certa che da un momento all’altro Guy le avrebbe chiesto di accompagnarlo. 403/432 «Credo che farà un lavoro magnifico», disse Guy, perfettamente consapevole del perché lei avesse sollevato l’argomento matrimonio. «Però staremo tutti piuttosto stipati. La sala è veramente piccola». «Tuttavia, si riesce sempre a stringersi un po’ per infilare una persona in più, non è così?», disse Gina con una risata squillante. «Scommetto che sarà delizioso e intimo proprio per il fatto che saranno tutti pigiati». Il cameriere tolse i piatti e portò loro il menu dei dolci. Guy fissò il suo, nella speranza che cambiassero argomento. «Oooh, guarda questi dolci da dividere in due!», disse Gina con un gridolino di gioia, mentre prosciugava il suo bicchiere di vino. «Non fanno per me». Guy si diede dei colpetti sullo stomaco. «Ma sentiti libera di ordinarli. Io credo prenderò soltanto un caffè. Non vado pazzo per i dolci». Era una grossa bugia. Sapeva che se ci fosse stata Floz seduta davanti a lui, sarebbe stato il primo a suggerire di dividere un dessert. Fu come se una nube fosse calata sul viso di Gina. Avere un così tale potere sulle emozioni di lei era una pesante responsabilità che Guy non desiderava accollarsi. Gina ordinò una panna cotta, mentre il cameriere le riempiva il bicchiere di vino. Era sazia ma non voleva che la cena terminasse. «Come fai ad andare d’accordo con quella Floz?», chiese lei. Il “quella” che aveva posto prima del nome era eloquente, pensò Guy. «È… è una persona piacevole. Non la conosco poi così bene», disse lui. «Non stai pensando di assumerla al ristorante, vero?» «Floz?», rise lui, e Gina si accorse dell’affetto genuino che comparve nei suoi occhi mentre pronunciava il nome di lei e ne fu molto ferita. Tracannò il vino. «No, è una scrittrice». «Non ne ho mai sentito parlare». Gina non riuscì a evitare di dare un tono critico alle sue parole. «Non scrive libri, è un’autrice di testi per i biglietti d’auguri», rispose lui, mentre ringraziava il cameriere per aver portato loro il caffè e il dolce di Gina. 404/432 «Non gli piaci molto, vero?». Gina conficcò il suo cucchiaio nella panna cotta. «Non lo so», rispose Guy, avvertendo una fitta di dolore. «Gli artistoidi sono tutti strani», continuò Gina, che aveva la parlantina sciolta a causa del vino. «Una volta sono uscita con un giornalista. Gli scrittori dovrebbero uscire solamente con altri scrittori, sono così strani. Gli insegnanti dovrebbero uscire solamente con altri insegnanti, i dottori con persone del campo medico e i cuochi con altri cuochi. Dovremmo attenerci a stare con i nostri simili. Non credi?». Guy sorseggiò il suo caffè e rispose facendo spallucce. Si sentiva davvero in colpa a pensarlo, ma non vedeva l’ora che quell’appuntamento finisse. Si era sbagliato a credere che i sentimenti potessero essere forzati: la chimica non si poteva comandare. Ciononostante, Gina non aveva alcuna intenzione di lasciarsi sfuggire Guy così presto. Ordinò un caffè corretto e lo persuase a prendere un altro espresso per tenerle compagnia mentre lei beveva il suo. «Non vedo l’ora di tornare al lavoro», disse Gina. «Mi è mancato tanto stare in cucina con te». «Anche a me è mancato il lavoro», disse Guy. «Con me?» «Scusa?», tossì Guy. «Ti è mancato lavorare con me?». Gli occhi di lei brillavano per via delle lacrime o dell’alcol, Guy non sapeva dire con precisione. «Sì, sì, certo», disse Guy, senza però ricambiare lo sguardo intenso e innamorato di lei, che sapeva di incontrare se avesse alzato il capo. Fermò un cameriere per chiedergli il conto. Sperò che facesse in fretta e si preparò a consegnarli la carta di credito. «È stata una cena piacevole, grazie Guy», disse Gina in tono dolce, assumendo un’altra personalità nella speranza di riuscire ad abbattere le sue difese. Percepiva la sua distanza, sapeva che a quell’appuntamento non ne sarebbe seguito un altro. Si era trattato di una cena di ringraziamento che lei non era riuscita a trasformare 405/432 in un appuntamento romantico. Scolò il caffè in un sorso e avvertì il calore del brandy nello stomaco. «Grazie per la tua compagnia, Gina». «Mi piaci davvero, Guy». Gli occhi di Gina si riempirono di lacrime. Non le restava che tentare un approccio più diretto. Non le importava se lui la voleva usare per una notte. Forse solo allora, tra le gambe di lei, Guy avrebbe scoperto che tra di loro c’era qualcosa. «Io…». Il benedetto cameriere arrivò con la macchinetta per le carte di credito e cercò insieme a Guy di completare la transazione, non prestando attenzione a Gina che si stava tamponando gli occhi con il tovagliolo di stoffa. Le lacrime di Gina iniziarono a scorrere più copiose, poiché divenne consapevole che non sarebbe più ritornata in quel ristorante insieme a Guy e che non si sarebbero mai fidanzati. Non le avrebbe mai detto: «Ti ricordi del nostro primo appuntamento al Four Trees?», mentre si metteva in ginocchio nel giorno dell’anniversario del loro primo incontro e le chiedeva di sposarlo. Il suo futuro e i suoi sogni stavano svanendo, per poi dileguarsi in lontananza Lei doveva far sì che lui si interessasse a lei. Lo amava da così tanto tempo. Non sapeva che cosa avrebbe fatto se lui l’avesse rifiutata. Si era spinta oltre un punto dal quale non poteva più tornare indietro. Infilò il suo braccio in quello di Guy mentre attraversavano il parcheggio, godendo della fantasia che quello fosse il suo uomo. Guy le aprì la portiera e lei salì in macchina nel modo più seducente possibile, mostrando una lunga gamba, avvolta nell’elegante tessuto di un’autoreggente, ma lui non abbassò gli occhi nemmeno per un misero istante. Lungo la strada verso casa di Gina, l’aria in macchina era talmente pesante che si sarebbe potuta tagliare con un coltello. Gina rimase seduta, sconfitta, respingendo le lacrime di ubriachezza; in parte odiava Guy per essere stato così insensibile nei suoi confronti, ma sapeva che avrebbe comunque tentato di sedurlo una volta sulla porta di casa sua. Un suo ex ragazzo le aveva detto che il suo 406/432 profumo era per metà Poison, ovvero veleno, e per metà disperazione. Guy si arrestò fuori da casa di lei, scese dalla macchina e le aprì la portiera. «Be’, grazie per la piacevole cena, Gina». Lei alzò i suoi occhioni umidi verso di lui. «Che cosa c’è che non va in me, Guy?» «Non c’è nulla che non vada in te, Gina. Assolutamente nulla». «Vuoi passare la notte da me?». Cacchio. Guy sospirò. «No, Gina. Grazie, ma no». Lei restò ferma in macchina e iniziò a singhiozzare. «Oh no, ho rovinato tutto. Non avrei dovuto dirlo. Mi piaci talmente tanto, Guy. Possiamo uscire ancora? Ricominciare tutto da capo?». Le lacrime le stavano scorrendo lungo il viso. Guy sapeva che essere delicato in quel momento con lei sarebbe stato crudele e le avrebbe creato delle false speranze. «No, Gina», disse, cercando di escludere ogni tipo di emozione dalla voce. «Credo che sarebbe sbagliato». I lineamenti del volto di Gina si deformarono. «D’accordo!». Guy cercò di non farle udire il sospiro di sollievo che esalò non appena lei si diede una spinta per uscire dalla macchina. «Forse se fossi Floz, con quei suoi occhi da cuore infranto, le cose sarebbero diverse!». «Cuore infranto? Che cosa intendi dire?» «“Oh, Guy, sto cercando di non guardarti mentre taglio le mie carote in modo del tutto sbagliato!”», la derise Gina imitando una vocina infantile. «Mentre tu cerchi di non guardarla allo stesso modo! Non tornerò a lavorare al ristorante, Guy». Fece due traballanti passi in avanti e le chiavi le caddero al suolo. Guy le raccolse per lei, dato che Gina si stava per ribaltare mentre si chinava per recuperarle. «Gina, non essere sciocca…». Lei gliele strappò dalle mani, la rabbia la avvolgeva come un’armatura. Era l’amore a dettare le regole e non si poteva forzarlo. 407/432 Non si sarebbe fatto persuadere da gambe lunghe in autoreggenti nere e da devoti occhi azzurri. Aveva deriso i suoi sforzi e aveva scelto di piazzare una donna minuta e dai capelli rossi che non sapeva tagliare le carote al centro dei pensieri di Guy. «Grazie, ma no grazie», ringhiò lei. Dopodiché la porta di casa venne aperta e chiusa con talmente tanta violenza che fu un miracolo che i pannelli in vetro non andassero in frantumi. Capitolo novantatré Due giorni prima del matrimonio, Juliet era distesa sul lettino per l’ecografia, tremando per l’emozione. La radiologa le abbassò i pantaloni di qualche centimetro e le cosparse la pancia di gel. «Cavolo, è freddo!», strillò Juliet. «Scusi», sorrise la donna, dopodiché si sedette e alzò la sonda. «Quindi, il suo dottore l’ha mandata da me per un’ecografia anticipata. Non sta avendo dei problemi, vero?» «No, tocchiamo ferro», rispose Juliet, «ma sono la quinta generazione di gemelli. Mi ha detto che riuscite a capire abbastanza presto se sono incinta di più di un bambino». «È vero», disse la radiologa, e poi si zittì per un po’, mentre spostava la sonda su e giù per la pancia di Juliet, che stava crescendo in fretta; studiò lo schermo davanti a sé e nel frattempo Steve cercò di capire, da dietro le sue spalle, cosa fossero le macchie che si muovevano. «Sì», disse infine e indicò qualcosa a Steve. «Eccoli qui: gemelli». La radiologa girò lo schermo in direzione di Juliet, che scoppiò immediatamente in lacrime, un secondo dopo Steve. «È incinta della sesta generazione di gemelli. Congratulazioni a entrambi!». Capitolo novantaquattro Floz arrivò alla boutique White Wedding un po’ prima di Juliet. «Buongiorno», disse l’adorabile Freya. «Oggi è il giorno delle prove finali. Dov’è la sposa?» «Sta arrivando», rispose Floz. «Oggi ha l’ecografia. Per vedere se aspetta dei gemelli». «Che cosa incantevole», disse Freya, mentre estraeva dall’involucro di plastica il bellissimo vestito color cioccolato di Floz e l’aiutava a infilarselo. Le calzava ancora alla perfezione. «È così bello», disse Floz. «Non avrei mai pensato a un colore del genere per una damigella». «Si addice perfettamente alla stagione e anche alla sua carnagione», disse Freya. «Credo che un giorno anche lei sarà una sposa autunnale. Si direbbe che l’autunno sia la sua stagione fortunata». «Lo spero», disse Floz a bassa voce. «La volta scorsa sono stata una sposa primaverile». «Io sono stata una sposa primaverile e una autunnale», disse Freya, mentre osservava l’immagine riflessa di Floz da sopra la sua spalla. «L’autunno mi ha portato molta più fortuna». Sistemò il grazioso copricapo di foglie sulla testa di Floz. «Credo che il mio destino sia quello di essere stata una sposa una volta soltanto», sospirò Floz. «Non ho molta fortuna in campo sentimentale». «Tutti i miei vestiti portano un pizzico di fortuna a chi li indossa». Freya sistemò alcune ciocche dei capelli rosso fuoco di Floz, disponendole intorno al copricapo. «Magari ne resterà sorpresa. Non sta a lei dire che non troverà l’amore. È l’amore che decide se rendersi o meno disponibile a lei». 410/432 «Sarebbe carino se lo facesse», disse Floz, nonostante non credesse nemmeno per un secondo che l’amore avrebbe nuovamente fatto breccia nel suo cuore. Capitolo novantacinque «Grazie per essere venuto con me», disse Steve mentre arrestava la macchina nel parcheggio. L’indomani si sarebbe recato in quel luogo per una ragione molto più felice, ma oggi aveva un compito che voleva portare a termine. «Non essere sciocco», disse Guy. «È ovvio che voglio stare al tuo fianco». Avevano appena ritirato i loro completi per il matrimonio e un enorme bouquet di fiori rosa dal fioraio accanto al sarto. «Vorrei averle portato dei fiori per il suo compleanno quando era viva», disse Steve. «Ma lei non voleva nulla che non si potesse bere». Con un colpo di tosse respinse le lacrime che minacciavano di riempirgli gli occhi, e Guy gli diede una pacca sulla spalla. Scesero dall’automobile e camminarono lungo il sentiero della chiesa. «Domani sarai qui a chiederti in che diamine di situazione ti sei cacciato», rise Guy. «Non credo», sorrise Steve. «Non vedo l’ora». Il reverendo “Gossip” era in piedi davanti alla porta della chiesa e li salutò con la mano. «Ciao, Steven, sei pronto per il grande giorno?», chiese. «Salve, reverendo Glossop», disse Steve. «Sono venuto soltanto per lasciare questi sulla tomba di mia madre. Oggi sarebbe il suo cinquantesimo compleanno». Si rattristò al pensiero di tutti quegli anni sprecati e di tutti gli altri che avrebbe potuto avere davanti a sé. Il vicario gli diede una pacca di conforto sul braccio. «Sembra che oggi ci siano diverse ricorrenze di compleanno», disse. «La ragazza laggiù, nel cimitero dei bambini, riuscite a vederla?». Steve scorse in lontananza la sagoma indistinta di una donna con un cappotto blu e annuì. 412/432 «Ha perso tre bambini più o meno in questo periodo dell’anno. Tutti quanti nati morti». Steve non riuscì a immaginarsi come si sarebbe sentito se una simile tragedia fosse capitata a lui e a Juliet. «Inoltre la povera donna ha avuto una serie sfortunata di aborti. Una storia veramente tragica», continuò il vicario. «Alla fine non ha deciso di adottare?», chiese Guy. «Suo marito… ecco». Il vicario, pettegolo com’era, si chiese se non avesse raccontato già troppo di quella storia, e diede loro la versione concisa. «Non ha reagito molto bene alla faccenda e la sua azienda è collassata. Hanno perso tutto. Veramente molto triste. Una donna così adorabile». Annuì in direzione della signora come per volerle inviare le sue migliori vibrazioni, poi tornò a rivolgersi a Steve. «In ogni caso, bisogna andare avanti. Ci vediamo domani, Steven, al tuo matrimonio». «Certo, ci vediamo domani, reverendo». Steve e Guy camminarono verso la tomba della signora Feast. Steve le aveva ordinato una stele, ma il terreno doveva assestarsi per qualche mese prima che potesse essere eretta. Per il momento c’era soltanto una semplice croce che Steve aveva costruito con dei tronchi di legno e su cui aveva inciso le parole TI VOGLIO BENE, MAMMA. Lui e Guy si chinarono e strapparono un paio di erbacce che avevano iniziato a spuntare dal terreno. «Riesci a immaginare che cosa ha dovuto affrontare quella povera donna?», disse Steve, con l’immagine dei suoi bambini ancora fresca nella mente. Non voleva pensare che sarebbe potuto accadere a qualcuno dei suoi cari. Specialmente non a Juliet. Non voleva che lei sentisse i bambini crescere dentro di sé, giorno dopo giorno, senza riuscire mai a sentirli respirare. «No, non ci riesco», disse Guy. «Non ci riesco proprio». «Solamente sentire simili storie mi spaventa», rabbrividì Steve, mentre toglieva i fiori dal loro involucro e li metteva nel vaso di fronte alla croce. Alzò lo sguardo e vide Guy che fissava un punto sopra la tomba vicina. 413/432 «Che cosa c’è?», gli chiese. «Steve, guarda». Steve girò bruscamente la testa nella direzione che Guy gli stava indicando. La “povera donna” con il cappotto blu stava uscendo dal cimitero. Ed era Floz. Avanzarono fino all’angolo del cimitero dove orsacchiotti di peluche e palloncini giacevano insieme ai fiori. «Qui», disse Steve, indicando la lapide di un angelo. Incise vi erano le parole: Lascia che i tuoi figli siano come tanti fiori, presi in prestito da Dio. Se i fiori muoiono o appassiscono, ringrazia il Signore per il suo dono prezioso. James Christopher Cherrydale, nato e morto il 4 novembre 2002 Elisabeth Jane Cherrydale, nata e morta il 14 ottobre 2004 Eleanor May Cherrydale, nata e morta il 2 novembre 2005 Riposate in pace, nostri piccoli angeli Ci rincontreremo ancora Vi ameremo per sempre, mamma e papà «Oh, mio Dio, è questo il motivo!». Fu allora che Guy capì. Tutto aveva un senso. Capì perché Floz fosse diventata improvvisamente fredda quel giorno a Hallow’s Cottage. Era accaduto quando lui stava parlando dell’eventualità di avere tanti bambini – bambini che lei non avrebbe potuto dargli. Gina aveva detto che Floz non riusciva a togliergli gli occhi di dosso nel giorno del matrimonio di Lulu Masserati. Quindi, alla fine dei conti, lui le piaceva. Ancora non sapeva che cosa se ne sarebbe fatto di tale informazione. Tutto ciò di cui era sicuro era che non si sarebbe arreso con Floz. C’era speranza, lui l’avrebbe ghermita e con essa sarebbe fuggito. Capitolo novantasei «Cielo, cielo! Voi tre ragazze, e anche tu Raymond ovviamente, sembrate un dipinto!». Perry esibì un largo sorriso, mentre ammirava sua moglie nel suo tailleur color bronzo, Floz nel suo bellissimo vestito color cioccolato, Juliet nel suo raffinato abito dorato con un diadema di fiori e foglie dorate, e Coco nel suo elegante completo. Le ragazze avevano trascorso la notte precedente al matrimonio dai Miller, che le avevano sontuosamente colmate di attenzioni. Erano venuti anche Coco e Gideon e avevano portato salsine, stuzzichini e tortine; Perry aveva preparato la sua specialità, un po’ di punch fatto in casa affogato al porto, e la serata aveva finito per trasformarsi in una piuttosto allegra festa di addio al nubilato per ambo i sessi. «Non riesco a credere che sto per sposarmi», disse Juliet, guardandosi allo specchio. Sorrise per la milionesima volta. Alberto avrebbe dato loro una delle camere della sua locanda come suite di luna di miele, e Juliet non vedeva l’ora di tuffarsi sul letto insieme a suo marito in qualità di signora Feast. Accidenti, quella stessa sera avrebbe approfittato di lui! «Anch’io non ci riesco», gracidò Coco, mentre si dava dei colpetti per scacciare il nodo in gola. «Penso che sia tutto meraviglioso». Floz annuì e sorrise, ma il suo cuore era incredibilmente pesante. Per quanto fosse felice che fosse arrivato il giorno del matrimonio, temeva di vedere Gina accoccolata accanto a Guy. In tal caso, avrebbe dovuto semplicemente impegnarsi con tutte le sue forze per non guardarli. «Il tempo sta reggendo», disse Grainne, guardando fuori dalla finestra in direzione di una bella seppur fredda giornata con un lieve accenno di foschia sopra il manto erboso. Gli alberi erano ormai spogli, le ultime foglie erano state strappate dai rami dal vento della notte; le more erano sparite da tempo, i papaveri sonnecchiavano 415/432 sotto al terreno, mentre tutte le castagne erano cadute e servivano come proiettili durante le battaglie nei cortili delle scuole. I solchi lasciati sul manto autunnale sarebbero presto diventati bianchi. Perry distribuì delle lunghe flûte di champagne e alzò il calice verso sua figlia. «Mia cara ragazza, che tu e Steve possiate essere felici quanto tua madre e io siamo stati e continuiamo a essere». Floz brindò all’amica sorridente e godette dell’affetto emanato da quell’adorabile famiglia. Desiderò poterlo conservare, poiché sentiva che il freddo inverno si trovava soltanto a distanza di un respiro. «Pronto?», chiese Guy. «Mi sto cacando sotto», disse Steve. «Si può dire: “Mi sto cacando sotto” in chiesa?» «Sono sicuro che per questa volta Dio ti perdonerà». Guy sistemò la rosa dorata che Steve portava all’occhiello. L’organista stava suonando l’equivalente religioso della musica da intrattenimento da ascensore, intanto che i banchi si gremivano di zie e lottatori di wrestling. «Sì, sono certo di avere gli anelli». Guy si diede dei colpetti sulla tasca, mentre Steve apriva la bocca per tornare a ripetergli la medesima domanda. «No, non dirò nulla a Juliet a proposito di Floz», disse Steve, mentre Guy apriva a sua volta la bocca. «So che Ju ne resterebbe sconvolta ripensando a tutte le volte che ha obbligato Floz ad andare a comprare con lei delle cose per i bambini». L’organista cambiò brano. Ta-da-da-da; ta-da-da-daaa. Erano le prime battute di Here comes the bride. Lei era lì. «Oh cazzo», disse Steve. «Scusa, Dio». «Buona fortuna, amico», disse Guy. «Anche a te, per dopo», ribatté Steve, facendogli l’occhiolino. 416/432 Alberto Masserati, insieme alla sua famiglia e al suo personale, aveva reso onore alla festa nuziale. La sala da pranzo della locanda era drappeggiata con stoffe che riprendevano tutte le sfumature autunnali, le tovaglie di lino sui tavoli erano abbinate e coriandoli a forma di piccole foglie erano sparsi ovunque. Anche le cameriere erano vestite di marrone con grembiuli bianchi e portavano delle corone di foglie tra i capelli che le facevano assomigliare a imperatrici romane a mezzo servizio. Mentre bevevano un cocktail di succo d’arancia e champagne, Floz si sentì osservata. Aveva ragione. Si voltò e notò che gli occhi di Guy erano fissi su di lei, grigi e intensi. Lui stava mostrando un interesse spudorato e non si girò dopo che lei lo sorprese a fissarla, si limitò piuttosto a sorridere e a inclinare il suo bicchiere verso di lei. Floz rispose fugacemente al sorriso e distolse lo sguardo, percependo un’ondata di rossore sulle proprie guance; si chiese perché non ci fosse Gina con lui. Quel giorno, Guy era di buonumore. Mentre stavano uscendo dalla chiesa, con la sposa e lo sposo che camminavano lungo la navata, seguiti dal testimone dello sposo e dalla damigella, lui le aveva porto il braccio affinché lei glielo cingesse. «Sei bellissima, Floz», le aveva detto. «Oh… oh, grazie», aveva risposto lei. «Sembri una ninfa dei boschi». «Non uno gnomo quindi?», aveva ribattuto lei ridacchiando. «Oh no, decisamente una ninfa». «Aspetta più tardi quando inizierò a svolazzare in giro», aveva scherzato lei, in modo impacciato. «Mi piacerebbe farti sentire come se tu stessi volando, Floz», aveva risposto lui sottovoce, ma abbastanza forte da essere udito. “Che cosa diamine intendeva dire?”, si chiese Floz. Il tono che aveva usato le aveva fatto capire, senza dubbio, che lui non stava pianificando di portarla a fare parapendio. Le aveva fatto tremare le gambe. Era felice di trovarsi all’altro capo del tavolo principale, tra Coco e Perry, lontano dallo sguardo di Guy. 417/432 Come antipasto, Alberto servì degli asparagi avvolti nel prosciutto, seguiti da una “zuppa d’autunno”, ovverosia un minestrone ricco e denso di verdure miste e servito con del pane tostato a forma di foglia. Il sorbetto al limone seguì e precedette la portata principale, costituita da medaglioni di maiale con salsa di mostarda. Come dolce furono servite delle mele ricoperte di caramello, ognuna delle quali aveva in cima un piccolo e crepitante fuoco d’artificio a forma di cuore. Subito dopo, Perry si alzò in piedi per tenere un breve e commovente discorso. Era un uomo timido e non gli piaceva stare al centro dell’attenzione. «Non sono molto bravo con i discorsi», iniziò a dire, mentre cominciavano gli applausi di incoraggiamento. «Ma vorrei ringraziare Alberto, la sua famiglia e il suo personale per aver organizzato questo delizioso ricevimento per noi. Uscite e godetevi gli applausi, amici miei». Alberto e i suoi collaboratori, ugualmente timidi, uscirono in sala, accolti e acclamati con uno scroscio di affettuosi applausi, poi sparirono nuovamente in cucina, il loro santuario. Quando era sul ring, Alberto esigeva attenzione; al di fuori, Perry in confronto era un socievole uomo di spettacolo. «E grazie a tutti i parenti che hanno affrontato il viaggio per venire al matrimonio della mia ragazza. Dirò soltanto che mi sarebbe piaciuto poter dare il benvenuto a Steve nella nostra famiglia, ma ne fa già parte da trent’anni. Ciò significa che sa in che cosa si sta andando a cacciare con mia figlia e che per questo è un uomo molto coraggioso». Quella battuta provocò un fragoroso boato di risate, in particolare quando Juliet si mise le mani sui fianchi, fingendosi offesa. «Reciterò a entrambi l’augurio tradizionale irlandese che il padre di Gron recitò a noi nel giorno del nostro matrimonio». Perry tossì e nella sala calò un silenzio assoluto. 418/432 Che voi possiate essere toccati da un pizzico della fortuna degli irlandesi, rallegrati da una canzone nel vostro cuore e riscaldati dai sorrisi delle persone che amate. Possa il Signore vegliare su di voi mentre il vostro amore cresce. Possa la luce dell’amicizia guidare i vostri sentieri nella stessa direzione. Possano le risate di bambini allietare le stanze della vostra casa. Possa la gioia di vivere l’uno per l’altra strapparvi un sorriso dalle labbra, una scintilla dai vostri occhi. «Signore e signori, vi invito ad alzare i calici per brindare alla mia bellissima Giulietta e al suo Romeo, Steven. I nuovi signori Feast». «Agli sposi!», gridarono tutti in coro e applaudirono. Grainne diede un grosso bacio sulla guancia di Perry. Ora avrebbe potuto finalmente rilassarsi e divertirsi. Guy si alzò in piedi. Appariva ancora più grande in quella piccola stanza dal soffitto basso. Floz ebbe un tuffo al cuore non appena lo vide con il frac e il panciotto nero, la cravatta color cioccolato al collo, la camicia bianca e un bocciolo di rosa, fresco e dorato, che gli risplendeva all’occhiello. Un giorno sarebbe diventato il marito delizioso di una donna molto fortunata e un padre magnifico per i loro bambini. «Signore e signori», iniziò a dire, passando in rassegna tutta la sala, per poi posare lo sguardo nuovamente su Floz prima di proseguire. «Avrei voluto raccontare una storia imbarazzante su Steve, ma ce ne sono talmente tante che non saprei da dove iniziare». I lottatori di wrestling cominciarono a urlare che anche loro ne avevano molte da raccontare. «Sono semplicemente felice che il mio migliore amico sia l’anima gemella di mia sorella», disse Guy, con una tale tenerezza nella voce che Steve fu obbligato a iniziare a deglutire per far sì che le lacrime non cominciassero a rigargli le guance. «Quello che lei non sa è che gli piaceva fin dai tempi della scuola». «Davvero?», domandò Juliet stupita. «Sì», rispose Steve. 419/432 «Perché non me l’hai detto all’epoca?», disse lei. «Non osavo», rispose lui. «Mi sarai pure piaciuta, ma mi incutevi anche una paura colossale». «Ehi, voi due, state zitti!», urlò Guy, mentre tutti gli altri ridevano. «Steve è stato il migliore amico che si possa avere. E io so che lui e Juliet saranno felici, perché oltre che un marito amorevole sarà anche il suo migliore amico». «Oh!», esclamarono le voci in coro. Alberto Masserati stava sbirciando dalla cucina, soffiandosi il naso. «E vorrei ringraziare la bellissima damigella di Juliet per averla aiutata e per essere stata sempre al suo fianco. Coco è da sempre il migliore amico di Juliet, e sebbene Floz sia entrata nelle nostre vite soltanto quest’autunno, sembra a tutti noi di conoscerla da altrettanto tempo». Guy sorrise a Floz, e lei rispose al sorriso, sentendosi accaldata, stordita, imbarazzata e onorata allo stesso tempo. «Per piacere, alzate i vostri calici per Floz e Coco». «A Floz e Coco». Guy fece l’occhiolino a Floz e lei tossì. Fu felice quando lui si sedette e le luci della ribalta si spensero per un po’, mentre lei riprendeva fiato. Dopodiché Juliet si alzò in piedi e la sala si riempì di risate soffocate. «So quello che tutti stanno pensando», disse lei. «Pensate che farò io il discorso al posto di Steve, tuttavia il matrimonio mi ha rabbonito. Anche se solo temporaneamente. Signore e signori, vi presento mio marito: lo sposo». Ci furono parecchi applausi e risate mentre Steve si alzava in piedi con un’espressione estremamente esterrefatta. «Be’, grazie, moglie», disse lui. «Adesso torna subito in cucina». «Non esagerare, amore», ribatté Juliet, svuotando il suo bicchiere di succo d’arancia. 420/432 Steve esibì un ampio sorriso. «Vorrei ringraziarvi tutti per essere venuti e per aver presenziato al matrimonio mio e della mia prima moglie». Tutti risero di cuore, inclusa Juliet. «Sul serio. I Miller sono sempre stati la mia famiglia. Quindi questa giornata significa per me molto più di quanto possa esprimere. E ovunque andremo a vivere, che sia qui o in America per qualche anno, sapete che mi prenderò cura di lei e dei nostri bambini con tutto me stesso. L’ho sempre amata. E l’amerò sempre. Devo farlo, altrimenti mi ucciderà». «Non so se ridere o piangere», disse Coco, che durante i discorsi alternava i singhiozzi alle risatine. «Signore e signori, per piacere alzate i vostri calici per la mia adorabile signora. Juliet, la sposa». «Alla sposa!». Coco collassò nel suo fazzoletto. «Oh, Floz, stiamo andando tutti alla deriva. Lei se ne va in America con Steve e tu te ne andrai solo il cielo sa dove». Floz lo abbracciò. Anche a lei sembrava la fine di un’èra incantevole. Non osava nemmeno pensare alla settimana che l’aspettava, quando avrebbe dovuto fare la valigie e, probabilmente, trasferirsi in quell’orribile casa con quella moquette puzzolente e l’ansimante padrone di casa. «Dopo il caffè ci sono i fuochi d’artificio», annunciò Alberto, mentre le cameriere iniziavano a darsi da fare con i caffè. «Sono quelli cinesi che Steve ha comprato l’anno scorso da Robber Johnny?», chiese Grim Reaper. «Sì», urlò Steve che aveva sentito la domanda. «E mi ha dato anche un Grande Sodomita». «Dannazione. Dirò all’ambulanza di stare pronta», rise Grim. «Fatti viva con noi, cara Floz». Perry versò un caffè per Floz. «Devi venire a pranzo la domenica e passarci a trovarci quando ti pare». 421/432 «Grazie», disse Floz, reprimendo le emozioni che rischiavano di prendere il sopravvento. «Anche noi usciremo a pranzo qualche volta», disse Coco, dandole dei colpetti dalla parte opposta. «Mi sembra che tu sia nella mia vita da sempre, Floz». «Non ditemi così», disse Floz, sospirando. Si guardò intorno tra la folla gioiosa e sperò di non fare una figuraccia piangendo. I Pogmoor Brothers stavano giocando a braccio di ferro; Grim Reaper aveva posizionato il suo braccio gigante intorno alle spalle gracili della sua ragazza ed era assorto in una profonda conversazione con Jeff Leppard, Big Bad Davy e le loro rispettive mogli; Klondyke Kevin stava flirtando con Amanda; Daphne e suo marito stavano ridendo per qualcosa; Juliet e Steve si stavano parlando a bassa voce, tenendosi per mano. Guy le volgeva la schiena mentre conversava con Fred Zeppelin e la sua signora. I suoi ricci capelli neri arrivavano a coprirgli appena il colletto, e Floz si chiese che cosa avrebbe provato se li avesse accarezzati. «Signore e signori, portate fuori i vostri culi per i fuochi d’artificio!», urlò Alberto. Aveva accesso le stufe a fungo e appeso file di luci colorate nel freddo giardino all’esterno. «State indietro, accidenti!», disse la signora Masserati, radunando quegli invitati della festa nuziale che si erano spinti oltre la linea bianca tracciata per terra con il gesso. «Aspettate, devo lanciare il mio bouquet», disse Juliet, girandosi e gettandolo alto nell’aria. Salì di trenta centimetri buoni sopra le mani distese di Floz e atterrò diretto in quelle di Coco. «Oh mio Dio!», scherzò lui. «Gid, ora devi sposarmi». Gideon rifletté per un istante. Poi fece restare Coco a bocca aperta. «Va bene. Perché no? La vita con te è più movimentata rispetto ai miei standard, ma mi fa stare bene. Coco, mi vuoi sposare? Per davvero?». Coco scoppiò in un’esplosione di gioia fragorosa, fino a che lo shock del primo fuoco d’artificio non lo zittì. Steve aveva la 422/432 sensazione che Robber Johhny li avesse comprati direttamente dall’IRA. Il rumore era assordante, l’eco sarebbe riuscita a far traballare una stazione spaziale in orbita. Qualcuno dovette andare a prendere le pillole per il cuore di zia Clara nella tasca del suo cappotto. Gli uomini erano in uno stato di estasi orgasmica. Floz se ne rimase in piedi ai margini della folla, intenta a osservare un cielo che all’improvviso scintillava di scoppiettii e sfrigolii colorati, mentre l’aria si saturava di quel familiare odore di fumo dei falò di fine autunno. Jeff Leppard stava distribuendo le stelline scintillanti e i lottatori di wrestling, proprio come fossero dei ragazzoni, stavano cercando di usarle per scrivere i loro nomi nell’aria. Erano tutti in coppia, si abbracciavano, oppure si appoggiavano l’uno all’altra, o si tenevano per mano. Era una scena toccante e commovente, eppure lei si sentiva come se si trovasse all’interno di un’ombra fredda e solitaria, posta all’estremità di quella folla di innamorati. Poi sentì che lui era dietro di lei. Non ebbe bisogno di girarsi per sapere che si trattava di Guy. «Affascinanti ma folli, vero?», disse lui. Lei non sapeva se si stesse riferendo agli invitati o ai fuochi d’artificio; non che la cosa le importasse, perché la sua risposta sarebbe stata in entrambi i casi la stessa. «Sì», disse lei. «Hai freddo?». Guy notò che stava tremando. «Un po’». Le braccia di lui si chiusero intorno a lei. Floz sentì il caldo respiro di lui sul suo collo mentre Guy si chinava verso di lei e coglieva il piacevole sussulto che lei si lasciò sfuggire. «Cara Floz», le disse, con la propria guancia contro quella di lei. «Credo di essermi innamorato di te». Floz si girò per guardarlo in volto. Lui vide il tremolio delle scintille dei fuochi d’artificio riflesso nei suoi occhi. «Oh, Guy, non sono la donna che fa per te». Lui le sollevò la mano e la baciò sul palmo. La sua pelle emanava quel caro e familiare profumo di fragole. 423/432 «Credo che tu sia in tutto e per tutto la donna che fa per me», disse lui. «Non mi interessa se non puoi avere figli. Sì, so tutto al riguardo, Floz. Tu sei tutto quello che voglio. Tutto il resto non mi importa». Le prese il viso tra le sue grandi mani, abbassò lentamente la testa e la baciò sulle labbra. Le braccia di lui la cinsero, Floz sentì che il suo corpo combaciava perfettamente con quello di lui, e Guy seppe che tutto ciò che aveva immaginato su di lei e su Hallow’s Cottage, su quell’albero di Natale stupidamente alto e su quell’enorme camino si sarebbe presto avverato. «Fate attenzione, gente, sto per accendere il Grande Sodomita», disse Alberto. L’enorme esplosione deflagrò in un boato assordante. Tutti rimasero rispettosamente immobili, mentre il Grande Sodomita schizzava come un missile verso la luna, per poi scoppiare in un magnifico crisantemo di fuoco dai colori dell’arcobaleno e sbocciare in cielo con un botto che andava oltre la scala Richter. E comunque non fu nulla in confronto al fuoco d’artificio che esplose nei cuori di Floz Cherrydale e Guy Miller. Epilogo Dal «South Yorkshire Herald» del 7 novembre. DONNA PARTORISCE GEMELLI MASCHI Una donna di Barnsley, moglie di Archangel, la superstar della GWE, ha dato alla luce due gemelli, di cui è stata la madre surrogata. I gemelli sono nati il giorno 5 novembre a Barnsley, nel District General Hospital, e sono i figli naturali della signora Florence Miller e del signor Guy Miller, chef pluripremiato con le stelle Michelin e proprietario del Firenze, ristorante di Lower Hoodley, una frazione di Barnsley, rinomato in tutta la nazione. La signora Juliet Feast, che ha partorito nel giorno del suo quarantesimo compleanno, è lei stessa madre di due gemelli, maschio e femmina. «È stato come un sogno e non sono stata sorpresa di aspettare dei gemelli per loro: ora ci sono sei generazioni di gemelli nella nostra famiglia», ha detto la signora Feast. «Purtroppo, mia cognata non può avere figli e io ho proposto di essere il loro utero in affitto. Mi ci è voluto un po’ per convincerli, ma sono una donna a cui è molto difficile dire di no». La signora Miller, che ha sofferto di una serie di devastanti aborti e parti di bambini nati morti, era comprensibilmente estasiata. «Non riesco ancora a crederci», ha detto. «Mia cognata è anche la mia migliore amica da anni. Ci ha regalato il mondo». I maschietti, Julius e Steven, pesavano all’incirca tre chili e settanta grammi e quattro chili. Ringraziamenti Ci sono alcune persone che vorrei ringraziare per avermi aiutato durante la stesura di questo romanzo. Innanzitutto, la magnifica, divertente e affettuosa comunità del wrestling britannico; in particolare i miei amici Tarzan Boy Darren Ward e Klondyke Kate, Sam “Dwight J. Ingleburgh” Betts, Ray Robinson, Tony Kelly e i grandi compianti: Gordon “Pedro the Gypsy” Allen, Arthur “Butcher Goodman” Betton, Herbert “Wilson Sheppard” Craddock e George “Joe Williams” Hubbard per avermi ispirato questa storia, e per avermi fornito così tanti aneddoti. Avrei tanto voluto metterli tutti nero su bianco, ma sarei stata arrestata per oltraggio al pudore. Alla favolosa e cordiale WWE, in particolare all’adorabile Heather Sanford, che fa in modo che io possa coccolarmi gli enormi lottatori di wrestling due volte all’anno, immortalando il momento con tanto di fotografie – così da imbarazzare tremendamente i miei figli Tez e George. Alla mia formidabile agente Lizzy Kremer e a tutti quelli che lavorano da Simon & Schuster per essersi occupati e presi cura di me, in particolare le mie brillanti redattrici Suzanne Baboneau e Libby Yevtushenko e il mio paziente agente pubblicitario, nonché amico, Nigel Stoneman: tutti loro sono una costante fonte di sostegno, nonostante io li faccia andare fuori di testa. A Joan “occhio d’aquila” Deitch che compie i suoi miracoli sul mio manoscritto ed è il mio portafortuna. A Jill Craven e alla nostra incantevole biblioteca – una signora che non manca mai di promuovere il mio nome e non sa nemmeno che significa “staccare dal lavoro”. A tutta la stampa dello Yorkshire che è stata con me fin dall’inizio e ha aiutato la mia carriera a fiorire: siete stati fantastici. Alla deliziosa Daphne Butters che ha vinto la gara di Supreme Cat che mirava a trovare un nome al gatto del libro. È stato un piacere incontrarti. Alla mia eccezionale famiglia e ai miei amici che mi mantengono sulla buona strada della sanità – e della pazzia – mentale. Al mio avvocato David Gordon di Atteys che ha risposto a tutte le mie incomprensibili domande con incredibile gentilezza. A Jackson Taylor, la cui piccola e stupida idea riguardo un libro sull’autunno ha veramente dato i suoi frutti. E alle fantastiche società di biglietti d’auguri che mi hanno stipendiato nel corso degli anni e che hanno fatto sì che mi potessi permettere i vestiti per la scuola, un tetto sopra la testa e del gin: Emotional Rescue, Wishing Well, Quitting Hollywood, Carlton, Paperlink, e al compianto Chris Douglas-Morris della Statics, 426/432 che ha assestato il primo emozionante calcio di inizio. Non mi sono mai divertita tanto come in quei giorni del periodo d’oro trascorsi a scrivere battute. Indice AGOSTO Capitolo uno Capitolo due Capitolo tre Capitolo quattro Capitolo cinque Capitolo sei Capitolo sette Capitolo otto Capitolo nove Capitolo dieci Capitolo undici Capitolo dodici Capitolo tredici Capitolo quattordici Capitolo quindici Capitolo sedici Capitolo diciassette Capitolo diciotto Capitolo diciannove Capitolo venti Capitolo ventuno Capitolo ventidue Capitolo ventitré Capitolo ventiquattro Capitolo venticinque Capitolo ventisei Capitolo ventisette 428/432 Capitolo ventotto Capitolo ventinove Capitolo trenta Capitolo trentuno Capitolo trentadue Capitolo trentatré Capitolo trentaquattro SETTEMBRE Capitolo trentacinque Capitolo trentasei Capitolo trentasette Capitolo trentotto Capitolo trentanove Capitolo quaranta Capitolo quarantuno Capitolo quarantadue Capitolo quarantatré Capitolo quarantaquattro Capitolo quarantacinque Capitolo quarantasei Capitolo quarantasette Capitolo quarantotto Capitolo quarantanove Capitolo cinquanta Capitolo cinquantuno Capitolo cinquantadue Capitolo cinquantatré Capitolo cinquantaquattro Capitolo cinquantacinque Capitolo cinquantasei Capitolo cinquantasette 429/432 Capitolo cinquantotto Capitolo cinquantanove Capitolo sessanta Capitolo sessantuno Capitolo sessantadue Capitolo sessantatré Capitolo sessantaquattro Capitolo sessantacinque Capitolo sessantasei Capitolo sessantasette Capitolo sessantotto OTTOBRE Capitolo sessantanove Capitolo settanta Capitolo settantuno Capitolo settantadue Capitolo settantatré Capitolo settantaquattro Capitolo settantacinque Capitolo settantasei Capitolo settantasette Capitolo settantotto Capitolo settantanove Capitolo ottanta Capitolo ottantuno Capitolo ottantatré Capitolo ottantaquattro Capitolo ottantacinque Capitolo ottantasei Capitolo ottantasette Capitolo ottantotto 430/432 Capitolo ottantanove Capitolo novanta Capitolo novantuno NOVEMBRE Capitolo novantadue Capitolo novantatré Capitolo novantaquattro Capitolo novantacinque Capitolo novantasei Epilogo Ringraziamenti @Created by PDF to ePub