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Milly Johnson
UN INDIMENTICABILE
AUTUNNO D’AMORE
Questo libro è dedicato ai miei “fratelli”, autori dei testi per i biglietti
d’auguri: Paul Sear, Alec Sillifant, Fraz Worth, Pete Allwright e Tony Husband. Ragazzi, vi adoro nel modo più assoluto.
L’amore è un frutto che matura in ogni stagione ed è sempre alla portata
di ogni mano.
Madre Teresa di Calcutta
Agosto
Prima della ricompensa ci deve essere il lavoro. Si pianta prima di raccogliere. Si seminano lacrime prima di mietere gioia.
Ralph Ransom, Steps on the Stairway
Capitolo uno
Stava tutto procedendo a meraviglia con la signorina Una in
Punto. Juliet e Coco erano uniti nella loro decisione e si vantavano
entrambi del loro intuito, affilato come un rasoio. La signorina Una
in Punto aveva un piacevole profumo, diversamente dalla signorina
Dodici in Punto, che era scivolata nell’appartamento lasciando dietro
di sé una scia di puzzo di ascelle. Aveva inoltre alcune rughe di espressione, diversamente dalla signorina Undici e Mezza, che si era
iniettata talmente tanto botulino da sembrare fuggita dal museo
delle cere di Madame Tussauds. E aveva anche superato già da un
po’ i trent’anni, diversamente dalle signorine Dieci e Quarantacinque
e Nove e Cinque, che erano decisamente troppo giovani e sciocche.
Chiunque non si ricordasse della prima uscita al cinema del film
Karate Kid – Per vincere domani veniva automaticamente escluso
dalla lista. La signorina Una in Punto era piacevolmente grassottella
e prosperosa, diversamente dalla signorina Dodici e Mezza, che ostentava la raffinata magrezza tipica delle eroine. Sì, il fatto che la signorina Una in Punto sembrasse poter essere felice di condividere
una torta al formaggio come spuntino di mezzanotte era l’indizio
migliore che si trattava di una brava ragazza. Secondo Juliet le persone che si gustavano il cibo erano più propense a sviluppare una
certa joie de vivre rispetto a quelle che mangiavano soltanto per nutrirsi. Tirò un sospiro di sollievo poiché la ricerca di una coinquilina
adatta stava finalmente giungendo al termine; infatti, cercare di scovare qualcuno con cui condividere la propria casa e le bollette
quando aveva ormai raggiunto un’età più adulta ed esigente era stata
per lei un’enorme e inimmaginabile spina nel fianco.
Poi Juliet le offrì un biscotto di farina integrale al cioccolato.
«Non li mangio», disse la signorina Una in Punto, mentre il suo
viso si contorceva come quello di Mr Bean. «Contengono grasso animale. E io sono vegana».
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Pronunciò quella parola come se venisse da un altro pianeta, cosa
che agli occhi di Juliet avrebbe benissimo potuto essere possibile.
Vegani, vulcaniani, per lei non c’era alcuna differenza, orecchie a
punta o meno. Puri e semplici alieni. Juliet e Coco si scambiarono
delle occhiate d’intesa. Accidenti, un’altra da eliminare, si dissero
l’un l’altra in un gioco di sguardi. Coco sapeva che Juliet avrebbe
condiviso più volentieri il suo appartamento con Harold Shipman,
uno dei più sanguinosi assassini seriali del Regno Unito, piuttosto
che con una vegana. Non avrebbe gradito che qualcuno la fissasse
come se fosse l’autrice di una serie di omicidi solo per il fatto che si
stava gustando un panino con la pancetta e il corposo burro Lurpak
o perché gironzolava per casa con le pantofole in pelle di pecora.
L’atteggiamento della signorina Una in Punto era completamente
cambiato ora che si trovava al cospetto di carnivori dichiarati nonché
bevitori di latte, e non c’era alcun motivo di continuare con il colloquio. La signorina Una in Punto sfoggiò un sorriso d’addio, freddo
come il vento siberiano, in direzione di Juliet e Coco e se ne andò arrancando sulle sue scarpe di plastica.
«Come si fa ad avere un sedere così grosso mangiando solo
sedano?», chiese Juliet meravigliata, una volta che la porta di casa fu
saldamente chiusa.
«Proprio non lo capisco», disse il suo amico Coco, intanto che si
lisciava i ricci castano scuro, pettinati in stile New Romantic, e arricciava le labbra rosse e carnose in un gesto di eccessiva perplessità.
Era alto e magro come uno stecco, ma Juliet glielo perdonava perché
aveva sempre mangiato come un lupo affamato. Aveva semplicemente un metabolismo invidiabile. «Ovviamente, se scegliessi me
come coinquilino non dovresti sottoporti a tutto questo».
«Coco», disse Juliet con tono risoluto, «tu e io finché non
vivremo insieme resteremo amici. Se vivessimo sotto lo stesso tetto,
finiremmo per fare delle scenate, in cui io ti tiro calci in testa o tu mi
cavi gli occhi. Non potrei mai condividere un appartamento con te.
Mai. E tu non potresti mai condividere un appartamento con me».
Poi adoperò le solite quattro parole che utilizzava ogni volta che
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affrontavano quella discussione, cosa che era accaduta abbastanza di
frequente negli ultimi tempi.
«Ti ricordi di Maiorca?».
Due settimane in Spagna con Coco e Hattie, la loro comune amica, erano state il massimo del divertimento, ma Juliet aveva capito
che non avrebbe mai potuto condividere un appartamento con un
uomo tanto fissato per le pulizie. E dato che Hattie se l’era poi svignata insieme a Roger, il marito di Juliet, neanche lei era in lizza per
diventare la sua coinquilina. Augurava buona fortuna a entrambi,
nonostante tutto. Perché sotto lo smalto affascinante e brillante del
suo ex marito si nascondeva un’anima buia, a lungo marinata all’interno di quel «miserabile bastardo».
Era questo il motivo per cui, dopo aver vissuto con lui per sei anni
(un uomo il cui sorriso era finito in una vaschetta a fagiolo insieme
alle sue tonsille all’età di dieci anni) Juliet non avrebbe mai più sottostimato la decisione di scegliere con chi vivere, coinquilino o compagno che fosse. I criteri non negoziabili erano: capacità di sorridere,
forma fisica e il solito vecchio asso nella manica, ovvero l’intuito.
Juliet non aveva alcuna intenzione di condividere il suo appartamento con qualcuno che avrebbe espresso la propria disapprovazione se per caso lei si fosse ficcata in bocca qualcosa che esulava dai cinque frutti quotidiani o da un cocktail di verdure.
C’erano rimaste da vedere soltanto due possibili candidate. Fino
all’arrivo della signorina Due in Punto, Juliet e Coco trascorsero il
tempo a mangiare dei cioccolatini Thorntons, per l’equivalente di
tremila calorie.
Andrea arrivò alle due precise. La sua puntualità era impressionante, ma purtroppo poco altro di lei lo era. Sembrava che avesse appena viaggiato con un Tardis, la macchina del tempo del Doctor
Who, direttamente dal 1962. Era slanciata, con dei lineamenti spigolosi, e indossava un ondeggiante vestito color verde caccola in coordinato con una collanina in stile hippy; aveva una permanente
fuori moda che la faceva sembrare come fulminata, e puzzava pesantemente di olio di patchouli, motivo per cui Coco esplose in una
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serie di colpi di tosse non appena lo respirò a pieni polmoni sulla
porta d’ingresso. Lui giudicava le persone in base al loro profumo. Le
fragranze erano sempre state una sua passione, era infatti il proprietario di un negozio di profumi gioiello: la Reggia dei Profumi di
Coco. Li conosceva e li amava tutti, ma il patchouli era confinato in
un angolo insieme ai profumi Tweed e Charlie, appena sotto il Devon
Violets.
Senza indugio, Andrea attraversò la stanza e si diresse nell’angolo
più lontano, dove iniziò a battere le mani in aria.
«Avete molta energia negativa accumulata in questo posto», disse
con lo stesso disgusto che una persona avrebbe mostrato nel trovare
degli escrementi di topo dentro al barattolo dei biscotti. «E non è
forse un bidone quello che vedo vicino al tavolo da pranzo?». Pronunciò alcuni «Povera me» in segno di disapprovazione e continuò a
battere le mani.
«Gradiresti un caffè?», le chiese Coco, con gli occhi che gli si colmavano di lacrime nello sforzo di reprimere una risata.
«Espresso. E soltanto se proviene dal commercio equo e solidale», disse Andrea, tornando con un fruscio verso il divano.
«Questo appartamento è mai stato fumigato?».
Juliet la guardò perplessa, non sapeva di cosa quella donna stesse
parlando.
«Si è offuscato in diverse occasioni», intervenne Coco. «Dopo
qualche bottiglia di vino Shiraz».
«I residui di energia hanno un tremendo bisogno di essere purificati», proseguì Andrea tirando su col naso e ignorando la battuta di
Coco. Dopodiché, girò bruscamente la testa di lato e parlò a una
presenza invisibile: «Sì, concordo in pieno».
Coco corse in cucina e si mise uno strofinaccio in bocca. Dopo
aver rovistato, trovò una bustina di caffè equo e solidale nella dispensa di Juliet. Gliel’avevano data in regalo con una rivista.
«Quindi…», iniziò Juliet con un sorriso forzato, nonostante dentro di sé sapesse già che con Andrea non sarebbe andata da nessuna
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parte. Voleva soltanto una persona normale, per l’amor del cielo! Era
davvero chiedere troppo? «Dove vivi in questo momento?»
«A Myrtle Grove, accanto a Huddersfield Road», rispose Andrea,
mentre i suoi occhi vagavano per la stanza come se stessero inseguendo qualcosa che svolazzava. «Hai mai pulito i tuoi chakra?».
“Pulito i miei cosa?”, si chiese Juliet. Per i suoi gusti, quella parola
assomigliava troppo al nome con cui chiamavano le pliche del colon
che si trovavano nel posteriore.
«Corvo mi sta chiedendo di domandartelo», Andrea sorrise,
spostando la sua completa attenzione su Juliet.
«Corvo?», domandò Juliet, cercando di ignorare la vista della
testa di Coco che faceva capolino dalla porta della cucina, alle spalle
di Andrea, con uno strofinaccio conficcato in bocca.
«Il mio spirito guida», rispose Andrea. «È un capo tribù dei Piedi
Neri, gli indiani d’America. Lo consulto su ogni cosa».
Era davvero troppo.
«Ehm, lui lo vuole un caffè?», chiese Juliet con grandi e innocenti
occhi verdi. Udì un gridolino provenire dalla cucina, mentre un po’
dell’isteria di Coco filtrava attraverso lo strofinaccio.
Andrea sospirò e sollevò la sua borsa, che sembrava realizzata a
mano con un paio di riquadri della moquette, arricciando il naso
come se qualcuno ci avesse appena piazzato sotto un pesce marcio.
«Mi dispiace. Non possiamo raggiungere un accordo. Lo capisco
dal colore della tua aura, che tende fortemente al blu-grigio. Non
credo che entreremo in sintonia; è evidente che tu non sei aperta alle
idee nuove».
Juliet balzò in piedi. «Oh, che peccato. Hai ragione, però, sono
proprio una tradizionalista fino al midollo. Sei senza dubbio una persona molto perspicace».
«Be’, certo. Sono assolutamente una cosa sola con me stessa».
Dopodiché Andrea se ne andò dall’appartamento camminando senza
fretta, con aria regale, senza gettare neanche un’occhiata indietro o
salutare.
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«Stupida donna», disse Juliet mentre la porta si chiudeva.
«Inoltre il suo modo di fare era detestabile».
«Che cosa significavano tutte quelle mosse?». Coco, che era completamente paonazzo in volto, marciò nello stesso angolo del salotto
occupato fino a poco prima da Andrea e iniziò a battere le mani
come un ballerino di flamenco con seri problemi di gestione della
rabbia. «Feng shui?»
«Feng schifo, vorrai dire. Non ho la benché minima idea di che
cosa significassero», disse Juliet esprimendo la propria
disapprovazione.
«E quell’odore, puah! È peggio del culo del diavolo». Coco mosse
l’aria nel tentativo di cacciar via quel profumo persistente.
«Comunque, per una volta sono felice che “Balla coi Corvi”, o
come si chiamava, l’abbia dissuasa dal restare. Avrebbe solamente
appiccato fuoco alle tende con i suoi segnali di fumo. Coco, credi che
ci sia ancora qualcuno di normale a questo mondo?»
«Io!», disse Coco con un ampio sorriso.
«Mi arrendo».
Non c’era stata praticamente nessuna modifica da apportare
all’appartamento quando Juliet l’aveva comprato dagli Armstrong,
una coppia di mezz’età, appena dopo il suo divorzio, avvenuto in
febbraio, grazie ai proventi piuttosto sostanziosi che aveva ottenuto
vendendo a Roger la sua parte della casa coniugale. «Due notevoli
camere da letto, un salotto arieggiato e spazioso con un’encomiabile
zona pranzo, una cucina ristrutturata da poco, un bagno in stile hollywoodiano e un’ampia dispensa», si era vantato l’agente
immobiliare.
Era evidente che in quell’appartamento, prima che finisse tra le
grinfie di Juliet, avesse vissuto una donna dal carattere dominante.
Ogni sera e durante i fine settimana, la signora Armstrong doveva
aver brandito un frustino sopra la testa del signor Armstrong, avanzando richieste impossibili da soddisfare riguardo a mensole, ripiani
in legno e bastoni per le tende in ferro battuto. E alla fine di una
giornata di duro lavoro, sembrava che si ritirassero in camere
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separate, senza nemmeno la prospettiva di una trombata di
ringraziamento per lui. E proprio quando la signora Armstrong
aveva raggiunto il suo ideale di appartamento, ecco che aveva adocchiato un posto più grande e il povero signor Armstrong era stato
costretto a rincominciare da capo a realizzare i sogni di sua moglie,
partendo dai pavimenti laminati. Tuttavia, quell’appartamento era
perfetto per Juliet. Aveva tanto spazio e soffitti belli alti, cosa che
tornava comoda se si aveva una famiglia insolitamente alta come la
sua. E nonostante il mutuo fosse esagerato – come ci si poteva aspettare da un appartamento di una certa qualità in una zona così appetibile – sarebbe bastato trovare un coinquilino per ammortizzarlo
almeno un po’.
Gli Armstrong l’avevano messo sul mercato a un prezzo non
troppo esoso nella speranza di venderlo in fretta e Juliet si era
trovata nella posizione perfetta per approfittarne. Era soltanto un
po’ vuoto. Non in termini di mobilio, ma di compagnia: ragazze che
divorano una deliziosa torta panna e cioccolato nel cuore della notte,
maschere di bellezza per il viso alle nove, prendere in prestito lo
smalto per le unghie, un film sdolcinato con un bellissimo e passionale eroe alla Darcy di Orgoglio e pregiudizio su cui fantasticare,
una bottiglia di Cabernet Sauvignon e una persona sempre pronta a
lusingarti. Lo stesso tipo di cameratismo di cui lei, Caroline e Tina
avevano goduto durante gli anni dell’università prima di crescere
troppo e scoprire di non avere più niente in comune – nemmeno
quanto bastava a volersi scambiare dei biglietti d’auguri a Natale.
Juliet cercò di non pensare a Hattie, che era stata da sempre la sua
migliore amica. Non aveva ammesso nemmeno con Coco quanto
l’inganno di Hattie l’avesse ferita. Doveva difendere la sua
reputazione di stronza tosta e sfacciata.
L’annuncio era quindi finito sia sul «South Yorkshire Herald» che
sul «Barnsley Chronicle». Juliet aveva preparato una bozza:
Coinquilina cercasi per una trentaquattrenne di buon cuore, dal sedere grosso,
sorridente, intelligente, saputella, amante delle barzellette sconce e divoratrice di
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cioccolato. I candidati non devono essere infastiditi da rumorosi genitori irlandesi
che sbucheranno in giro anche più spesso di quanto gradito e da un fratello
gemello che è solito importunare chiunque con il suo repertorio di prese da wrestling e di creazioni culinarie che saranno, più o meno, sempre presenti in casa.
Poi, ripensandoci, Juliet optò per una versione drasticamente
ridotta in modo da non allarmare nessuno:
Cercasi coinquilina sui trent’anni per condividere un appartamento molto elegante al secondo piano, insieme a professionista alla mano (eterosessuale). Stanza
spaziosa, soleggiata e indipendente, in posizione centrale ma tranquilla. Blackberry
Court, numero 3.
«E se la signorina Tre in Punto sarà pessima come tutte le altre?»,
domandò Coco, dando una sbirciatina al suo orologio.
«Non lo so, tirerò avanti con il mutuo da sola, a fatica. Che altro
posso fare?»
«Sei costretta a tirare troppo la cinghia a causa di questo posto,
per quanto incantevole sia. Un altro caffè?»
«Come vuoi», disse Juliet. «Ma non farmi la ramanzina».
«Potrei trasferirmi domani», buttò lì Coco.
«Piuttosto preferirei tagliarmi un piede e mangiarmelo dentro a
una baguette».
«Be’, non si è ancora presentata una pazza fanatica religiosa.
Forse, tempo cinque minuti, saremo rallegrati da un repertorio di
canzoni eseguite con un tamburello e delle percussioni di lattine».
«Non me ne stupirei», sospirò Juliet.
Alle tre e un quarto ancora non si era presentato nessuno. Coco
stava per dire: «Bene, quindi è finita», quando suonò il citofono.
«Salve», esordì una voce ansimante appena Juliet rispose. «Mi
scuso per il ritardo. Ho appena dovuto portare un porcospino dal
veterinario».
«Sali», disse Juliet, con un sorriso forzato. Si girò verso Coco e
scosse la testa: «Mi arrendo. Non si tratta della religione, ma di un
porcospino. E mi è sembrata una snob».
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«Oh, Gesù». Coco rivolse gli occhi al cielo. «Riportateci il Grande
Capo che Applaude negli Angoli».
Juliet aprì la porta. «Prego, entra», disse e si scostò per far passare Florence Cherrydale, che preferiva essere chiamata Floz, per poi
squadrarla da dietro, dalla testa ai piedi. Era minuta, alta più o meno
un metro e sessanta, con lunghi e ondulati capelli rosso scuro e una
figura sinuosa tipica degli anni Cinquanta. Aveva il viso paonazzo
poiché aveva corso per le scale. Sembrava inoltre troppo docile e
mansueta per i gusti di Juliet, e dava l’impressione di non essere
stata tra i primi della fila quando avevano iniziato a distribuire il
senso dell’umorismo. E aveva il timbro di voce di un tenente colonnello. “Fantastico”, pensò Juliet. Si trattava probabilmente di una
snob altezzosa che avrebbe guardato ogni cosa dall’alto in basso.
Quella giornata si era rivelata solo un modo del cacchio per sprecare
un giorno libero dal lavoro, sia per lei che per Coco.
«Mi scuso ancora tanto per il ritardo», ripeté Floz. «Ho dovuto
fermare il traffico per raccogliere un piccolo porcospino zoppicante e
non mi è andata molto bene per via di un uomo che sbraitava. Non
potevo lasciarlo a zoppicare in quel modo. Mi riferisco al porcospino,
non all’uomo che sbraitava».
«Be’, ora sei qui», Juliet stava sfoggiando un enorme sorriso, nel
frattempo pensava: “Ecco che si ricomincia”.
Intanto che Juliet preparava il bollitore per la centesima volta
quel giorno, Coco portò l’ancora tremolante Floz a fare un tour guidato dell’appartamento. La stanza libera era la più piccola delle due
camere da letto, ma a quanto pareva era comunque enorme se paragonata alla sistemazione attuale di Floz. Era inoltre a forma di L, e
quindi per Floz sarebbe stata perfetta in quanto lavorava da casa e
aveva bisogno di un piccolo ufficio.
Si spostarono poi in salotto per prendere il caffè. Mentre Floz
passava vicino a Coco, lui colse un profumo delicato di fragole di fine
estate. In risposta, gli angoli della sua bocca si curvarono verso l’alto.
Floz posò sul divano la sua borsa, che si rovesciò e, tra gli altri detriti
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tipici di una borsa, spuntò un piccolo libro: L’arte di essere felicemente single.
Floz sembrava mortificata. «Scusatemi ancora. Sono una tale
imbranata».
Le sue guance si infiammarono di nuovo come la luce rossa di un
semaforo e Juliet sentì un’improvvisa e sorprendente ondata di compassione. Ma fu Coco a salvarla.
«Ho letto un sacco di libri di quel genere», disse in tono cordiale,
mentre Floz si agitava nel tentativo di reintrodurre tutti i suoi averi
in borsa. «Le regole, Donne che amano troppo, Sbarazzati di lui…».
«…Le donne vengono da Venere, gli uomini dai loro stessi
deretani…», aggiunse Juliet.
«…La verità è che non gli piaci abbastanza», proseguì Coco, con
un triste sospiro. «Perché gli uomini lasciano sempre alzata l’asse
del water e le donne occupano il bagno per ore?…».
«Come trovare un uomo che non sia un completo idiota», aggiunse Floz. Poi sorrise, e improvvisamente sembrò un’altra persona.
Qualcuno con dentro una lampadina da mille watt che si era accesa
di punto in bianco. Anche i suoi occhi stavano sorridendo. Di un
verde chiaro, malizioso e splendente, erano gli occhi di un bambino
che sorride radioso mentre esclama: «Ho una rana in tasca».
L’intuito di Juliet le fece strappare la lista con sopra tutte le altre
possibili candidate per buttarsela dietro le spalle, tutto a causa di
quel sorriso. “Sì”, le diceva l’istinto. “Lei andrà bene”. La squilibrata
salvatrice di porcospini dalla voce molto cortese e con in borsa un
libro sull’autostima era quella giusta.
Juliet le offrì i biscotti di farina integrale al cioccolato e Floz ne
prese uno, emettendo un «Oooh» di gioia. La decisione era presa.
E fu così che per le sette di quella sera Floz Cherrydale, dopo aver
depositato valigie e scatoloni sul pavimento della sua nuova camera,
era seduta sul divano della sua nuova coinquilina per scegliere che
cosa ordinare dal menu da asporto del ristorante cinese la Grande
Muraglia, mentre guardava Valle di luna e beveva Baileys in quantità
degne di una festa.
Capitolo due
Il telefono di Juliet squillò nell’esatto momento in cui si stava sfilando il cappotto in ufficio. Era Coco che, da solito adorabile ficcanaso, la chiamava come di consueto cinque minuti prima
dell’apertura della sua Reggia dei Profumi, situata in una delle vie
dello shopping del centro città.
«Allora, com’è andata la tua prima notte con la nuova coinquilina? È successo qualcosa dopo che me ne sono andato?»
«Tipo cosa?», lo prese in giro Juliet.
«Nessun pettegolezzo?»
«Tipo cosa?»
«Oooh, sei fastidiosa questa mattina. È così che ti comporterai
adesso che hai una nuova amica?».
Juliet rise. «Questo è davvero il massimo detto da uno che mi
scarica come una patata bollente non appena ha il più piccolo
barlume di una storia amorosa».
«Non posso fare a meno di essere una persona ossessiva». Coco
tirò su col naso. «È una che parla con garbo, vero? Non come te,
banale sgualdrina. Oooh, e che profumo porta?»
«Come diavolo faccio a saperlo?»
«Qualsiasi cosa fosse, aveva un accenno di fragola. Delizioso». Si
disse di ricordarsi di chiederlo a Floz la prossima volta che l’avrebbe
vista.
«Credo che a Floz piacciano le fragole. Ha appeso alle pareti dei
piccoli quadri che le raffigurano, e quando apre la porta, dalla sua
stanza si diffonde un odore di fragole».
«Oh cielo», sorrise Coco. Sapeva che chiunque profumasse come
Floz Cherrydale non poteva che possedere un animo gentile.
«Immagino che tu non abbia avuto notizie di Darren», s’informò
Juliet con tono delicato.
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«No, ancora nulla», disse Coco, mentre il sorriso si afflosciava
fino a terra nel sentire il nome del suo ultimo amante. «Sono passate
tre settimane, sei giorni e quattordici ore. Non che stia tenendo il
conto. Credo ancora che mi chiamerà. Il mio intuito mi sta dicendo
con insistenza che sono ancora nei suoi pensieri».
«No, tesoro, non credo tu lo sia», rispose Juliet. Lei non era il
genere di persona che avrebbe mentito a Coco dandogli delle false
speranze. A che cosa sarebbe servito? Se un uomo che ti riempiva di
attenzioni spariva inaspettatamente, senza rispondere alle chiamate
o ai messaggi, non sarebbe riapparso all’improvviso fornendo una
scusa plausibile. A meno che non fosse morto – ma anche in tal caso
era improbabile che si facesse risentire.
«Va bene», disse Coco, cercando di non cedere all’ondata di
emozioni. «Cambiamo argomento. Quindi che cosa sai fino a ora di
Floz?»
«Non molto», rispose Juliet. «È single, come avrai capito dal
libro che ha fatto cadere, lavora da casa, inventa battute e poesie per
il settore dei biglietti d’auguri, guida una Renault. Insomma, cose
noiose».
«Tutto qui?»
«Per ora temo di sì, giovanotto. Sicuramente col tempo scopriremo di più», disse Juliet. «Mi piace. Abbiamo preso il caffè insieme
questa mattina. Si alza abbastanza presto per iniziare a lavorare».
«Davvero un peccato che non sia il tipo giusto per Guy», commentò Coco, che non perdeva mai l’occasione di combinare un buon
incontro amoroso.
«Ho pensato esattamente la stessa cosa», sospirò Juliet.
Sì, era un peccato che Floz fosse così piccola, che avesse i capelli
rossi e che sembrasse tanto delicata da rompersi come un guscio
d’uovo. Se fosse stata alta, statuaria e bionda, Juliet avrebbe acciuffato suo fratello e l’avrebbe trascinato a casa sua per fargli conoscere Floz cinque minuti dopo che si era trasferita.
«Avreste potuto fare un’uscita a coppie», disse Coco con gioia.
«Floz e Guy insieme a te e Piers».
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«Oh, non farmene parlare. Sarà qui a minuti, a respirare la mia
stessa aria». Juliet si sciolse al pensiero di avere qualcosa del suo
capo dentro di sé – anche se si trattava soltanto dell’esalazione del
respiro di lui nei propri polmoni.
«Stavo pensando…», disse Coco. «Che ne dici di fare qualcosa per
occupare il tempo che va da ora al momento in cui diverrai la signora
Winstanley-Black?»
“Oooh, l’idea mi piace”, pensò Juliet. Formò le parole con le labbra: «Juliet Winstanley-Black», e pensò che la facesse assomigliare a
un magistrato. «Tipo cosa?»
«Incontri su internet».
«Incontri su internet?», gli fece eco Juliet. «Come ti è venuto in
mente?»
«Sono annoiato», ammise Coco. «Vedo sempre le stesse facce
negli stessi locali e ho voglia di un po’ di carne fresca».
«Allora vai in Lamb Street da Barry il macellaio».
«Ah-ah. Marlene, la mia vicedirettrice, ha incontrato il suo fidanzato su internet. E sua cugina sta uscendo con un architetto che ha
conosciuto tramite lo stesso sito, singlebods.com. Non si iscrivono
soltanto i rifiuti della società, come quelli che partecipano al Jeremy
Kyle, quel talk show spazzatura. Dài, sarà divertente. E ho bisogno di
qualcosa per non pensare a Darren».
Proprio in quell’istante, Juliet sentì la voce vellutata di Piers
Winstanley-Black che diceva «Buongiorno» alla receptionist.
«D’accordo, ci sto», disse Juliet tagliando corto. «A dopo. È arrivato». Ed ebbe a malapena il tempo necessario per terminare la telefonata, passarsi le dita tra i lunghi e lucenti capelli neri e tirare in
fuori il petto.
Anche Amanda e Daphne, le colleghe con cui condivideva
l’ufficio, avevano raddrizzato la schiena e si stavano sistemando velocemente i capelli. Stavano tutte sperando che entrasse per scegliere una di loro e portarla di sopra nel suo ufficio per «annotare
qualcosa».
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Piers Winstanley-Black. Detentore di un prestigioso trattino nel
cognome di famiglia e, da ormai quattro anni, socio della Butters,
Black & Lofthouse, dove Juliet lavorava da quando aveva lasciato
l’università, per poi diventare la più efficiente segretaria legale nella
storia dell’ufficio. Non che ciò si fosse rivelato utile con il “ragazzo di
Ipanema”, come suo fratello gemello Guy chiamava Piers. Esattamente come diceva la canzone The boy from Ipanema, Piers
Winstanley-Black era alto e abbronzato, grande e bello, con un sorriso talmente bianco e smagliante che a confronto quello di Simon
Cowell sembrava ingiallito. Guidava macchine veloci, indossava
completi impeccabili che gli accentuavano le spalle larghe e il
girovita sottile, tonificato dalla palestra, portava scarpe realizzate a
mano e costosi dopobarba italiani, che Coco avrebbe approvato in
pieno. Nonostante mancassero pochi mesi al suo quarantesimo compleanno, Piers non si era mai sposato – anche se Juliet sospettava
che avesse un libricino nero pieno di nomi di donne in attesa di
ricevere una sua chiamata con relativa proposta di matrimonio. Di
quando in quando emergeva però dal suo mondo per accertarsi del
proprio splendore e osservare se stesso nell’atto di provocare brividi
erotici lungo le schiene femminili come fossero milioni di bollicine di
champagne. Faceva bene ad approfittarne finché poteva, in quanto
da lì a dieci anni, pensò Juliet, avrebbe potuto avere delle guance
come un Basset Hound e una pelata delle dimensioni di Marte.
Sebbene tutte e tre le donne avessero gonfiato il petto in affannosa trepidazione, gli occhi di lui non si posarono su nessuna di loro
mentre passava accanto alla porta aperta. Evidentemente, c’era
ancora molto tempo da aspettare prima che Juliet potesse incidere il
suo doppio cognome sulla testiera del letto a baldacchino che
avrebbero condiviso.
Daphne sospirò: «Se soltanto avessi vent’anni di meno…».
«Saresti comunque troppo vecchia di quindici anni per i suoi
gusti», rise Juliet. «Perfino Amanda è troppo vecchia e ha venticinque anni».
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«Non parlarmene», sbuffò Amanda. «Inoltre gli piacciono le
bionde con le gambe che arrivano al soffitto e le tette come palloni
da spiaggia». Alta un metro e trenta, con corti capelli neri e una
prima scarsa di seno, Amanda sapeva che Piers Winstanley-Black
avrebbe più probabilmente prestato attenzione alla bionda Daphne
che a lei.
«Se mi raccogliessi le tette dalle ginocchia e le arrotolassi, potrei
riuscire ad attirare il suo sguardo», ridacchiò Daphne.
«Daf, non essere volgare. In più è il tuo turno di mettere l’acqua
nel bollitore», disse Juliet, simulando il suo miglior tono autoritario.
«Signorsì, ragazza», disse Daphne alzandosi in piedi. «Una tazza
di tè al posto del sesso. La storia della mia vita».
«E purtroppo anche della mia», replicò Juliet, domandandosi
quale fosse il trucco per far sì che Pierce Winstanley-Black la guardasse con gli occhi di un uomo. Doveva esserci un trucco – c’era
sempre con gli uomini.
Capitolo tre
I genitori di Juliet riuscirono a trattenersi fino alla domenica
prima di recarsi da lei con il ridicolo pretesto di prendere in prestito
un martello.
«Papà, hai più martelli tu di tutti i grandi magazzini del fai-da-te
della città messi insieme!», rise Juliet al citofono.
«Sì, ma non riesco a trovare da nessuna parte il mio martello levachiodi», disse Perry Miller. Il suo vero nome era Percy, ma l’ultima
persona a chiamarlo così era stata quella terribile e vecchia suora,
direttrice della scuola materna Holy Family, nella contea di Cork.
«E c’è bisogno che veniate in due per portarvelo via, non è vero?»,
continuò Juliet, facendo l’occhiolino a Floz.
«Forza, falli entrare e smettila di prenderli in giro», disse Floz, i
cui occhi si accendevano come smeraldi verdi ogni volta che sorrideva. «Vogliono solo assicurarsi che tu non abbia accolto una maniaca omicida in casa tua».
«Salite, avanti», sospirò Juliet, premendo il pulsante per aprire.
«Vado a mettere l’acqua nel bollitore».
Floz si tenne pronta per il loro sguardo indagatore. Anni passati
rinchiusa in casa a lavorare l’avevano resa timorosa nei confronti degli sconosciuti.
Tuttavia, non aveva motivo di preoccuparsi, poiché Perry e
Grainne Miller entrarono gioiosamente nell’appartamento e l’abbracciarono come fosse una figlia che non vedevano da tanto tempo.
Di lì a poco erano tutti a sedere al tavolo da pranzo, intenti a condividere una tazza di tè e un vassoio pieno di focaccine tonde ai datteri
e alle noci che aveva portato Grainne, o Gron, come preferiva farsi
chiamare.
Grainne e Perry erano entrambi molto alti e Juliet assomigliava a
tutti e due. Da suo padre aveva ereditato gli audaci occhi grigi e gli
zigomi alti, da sua madre la bocca grande e carnosa e la fessura tra i
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denti davanti. I capelli di Grainne erano corti e brizzolati, ma in
giovinezza dovevano essere stati lunghi e di un bel nero corvino;
erano ricci, mentre quelli di Juliet erano liscissimi. Perry aveva una
testa di adorabili e folti capelli bianchi come la neve, oltre all’aria di
una persona molto calma e gentile.
«Quindi, che lavoro fai, Floz?», chiese Perry, mentre osservava la
pila di fascicoli posti sul tavolo da pranzo che Floz aveva passato in
rassegna quella mattina.
«Non essere così ficcanaso, Perry», lo rimproverò Grainne, con
quel suo dolce accento irlandese ancora marcato come il giorno in
cui si era trasferita a Barnsley, quarantacinque anni prima.
«Non sto facendo il ficcanaso», precisò il placido Perry. «Questo
si chiama fare conversazione».
«Non ho problemi a rispondere», disse Floz ridendo. «Sono
un’autrice freelance di biglietti d’auguri». Fu però costretta a spiegarsi meglio, in risposta alle occhiate perplesse che le indirizzarono i
signori Miller. «In sostanza, sto seduta al mio computer a sfornare
battute e poesie giorno dopo giorno. Le società di biglietti d’auguri le
comprano poi da me».
«Caspita, ci crederesti mai?», disse Grainne. «Prima d’ora non mi
ero mai domandata chi scrivesse tutte quelle frasi che compaiono sui
biglietti».
«Se fosse per mia madre le tue società farebbero soldi a palate»,
disse Juliet. «Invia dei biglietti d’auguri per ogni occasione: “Congratulazioni per esserti sbarazzata del tuo brufolo”; “Mi è dispiaciuto
sapere che sei caduto dalle scale e ti sei spaccato la testa in due”;
“Complimenti per aver cacciato quel coglione di tuo marito dalla tua
vita”».
Grainne balzò in piedi e si diresse verso la borsa che aveva lasciato vicino alla porta insieme al cappotto.
«Mi è giusto venuta in mente una cosa». Tornò indietro reggendo
in mano una busta rossa che consegnò a Floz. «È un biglietto per
dirti “Benvenuta nella tua nuova casa”», sorrise radiosa.
«Vedi?», disse Juliet. «Come volevasi dimostrare!».
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«Grazie, è molto gentile da parte sua», sorrise Floz, chiedendosi
se aprirlo davanti a tutti o serbarlo per dopo. Optò per la prima alternativa, dato che Grainne stava aspettando con un ampio sorriso
trepidante stampato in volto. Nella busta c’era un biglietto che raffigurava in copertina un’enorme focaccina, con tanto di porte e
finestre. Dentro, il messaggio diceva: «Benvenuta nella tua nuova
casa, con affetto Grainne, Perry e Guy Miller».
«Grazie, è un pensiero molto carino da parte vostra», disse Floz.
«Guy è il gatto?». Sapeva che i Miller ne avevano uno, perché sulla
lavagnetta magnetica di Juliet appesa al frigorifero c’era una fotografia di suo padre con un micio in braccio. Era un vecchio gatto
nero, con un occhio solo e senza denti. Evidentemente Guy non era il
gatto, a giudicare dall’ilarità che quel suo commento provocò.
«È mio fratello gemello», disse Juliet. «Vive con mamma e
papà».
«Be’, vive nell’appartamento della nonna, che è adiacente a casa
nostra», precisò Grainne. «Sono sicura che non gradirebbe essere
etichettato come uno che vive ancora con i genitori».
Juliet si girò sulla sedia e rovistò nel cassetto della credenza alle
sue spalle. «Guarda, è lui», e diede a Floz una fotografia di se stessa
in mezzo a due imponenti uomini vestiti con costumi da wrestling:
uno aveva fluenti capelli biondo chiaro e un gilè di pelliccia, l’altro
capelli nero corvino, ricci e sbarazzini, e gli occhi grigi di Perry, contornati da ciglia folte e scure. Floz deglutì. Con la mascella squadrata, alto e muscoloso, Guy Miller era un gran bel fusto. Sentì il
cuore martellarle nel petto.
«Questo è Steve Feast, il migliore amico di Guy». Juliet indicò
l’uomo biondo. Dal modo in cui pronunciò il suo nome, Floz capì che
non si trattava di uno dei suoi amici del cuore. «E questo è mio fratello. A proposito, dove si è cacciato Guy, mamma? Non è ancora
passato di qui per conoscere Floz».
«Sta lavorando senza sosta al ristorante», ripose Grainne. «Quel
povero ragazzo è esausto. Kenny è un maledetto schiavista! Non so
perché Guy non gli dica di metterselo in quel posto quel suo lavoro».
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Il sangue di Grainne iniziò a ribollire quando pensò a tutte le libertà
che Kenny Moulding si prendeva con suo figlio, facendolo lavorare
per dei turni così lunghi.
«Dài, Gron, a modo suo è stato buono con Guy. L’ha sempre
pagato bene per i suoi servizi», controbatté Perry, estraendo la pipa
dal taschino e stringendola tra i denti. Non l’accendeva quando era a
casa di altri, ma gli piaceva la sensazione di tenerla tra le labbra.
Grainne sbuffò. «I soldi non sono tutto, Perry. Non comprano la
felicità».
«Vero, concordo in pieno con te su questo, mia cara Gron. Tuttavia, è un bene averne un po’. Lubrificano le ruote della vita». Perry
disarmò sua moglie con un sorriso. Floz pensò che dovesse essere
impossibile sostenere una discussione con un uomo così calmo e
diplomatico. Avrebbe dovuto prendere parte alle missioni internazionali per il mantenimento della pace nel mondo. «Quindi, per
quante società di biglietti d’auguri lavori?», Perry continuò a interrogare Floz.
«Sette», rispose lei. «Anche se ricevo un incarico settimanale da
un’azienda che si chiama Status Kwo. Sono loro i principali fornitori
del mio pane quotidiano».
«Esattamente che cosa fai? Ti inviano dei disegni a cui ti devi ispirare quando scrivi?»
«A volte», disse Floz. Prese in mano una cartella e la aprì per
mostrare a Perry le pagine piene di immagini in bianco e nero. «Mi
mandano queste immagini su un CD e io scrivo i testi per loro, in
base alla ricorrenza che mi affidano. Per esempio, questo disegno di
una signora che fa oscillare un bicchiere di vino… be’, potrei abbinarlo a un testo per la festa della mamma, a proposito di una madre
che si diverte e fa baldoria, oppure potrebbe essere un biglietto per la
migliore amica, in merito al fatto che si può bere soltanto sette giorni
a settimana, altrimenti potrebbe essere un biglietto di pronta guarigione circa l’importanza del mangiare l’uva per rimettersi in forma,
ma solo se questa è stata fermentata e imbottigliata. Questo genere
di cose. A volte…», frugò nella cartella alla ricerca di un altro
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incarico, «…tutto quello che mi danno è il compito di scrivere poesie
per la festa del papà o per il giorno di San Valentino. E quando gliele
invio i loro illustratori lavorano basandosi su quello che io ho
scritto».
«Che lavoro interessante. Si guadagna bene?»
«Perry Miller! Oggi sei ossessionato dai soldi». Grainne era indignata dal fatto che suo marito fosse stato così sfrontato da chiederlo.
«Riesco a pagarci le bollette», rispose Floz, sfoggiando un ampio
sorriso in risposta al comico sfoggio d’imbarazzo di Grainne. Tuttavia, sapeva che stavano sicuramente pensando che non doveva
guadagnare poi così tanto, visto che aveva superato i trent’anni e che
era ancora costretta a condividere un appartamento in affitto. Non
rischiarò loro le idee fornendo dettagli sulla propria situazione, bensì
si mise velocemente a mostrare a Perry un esempio di incarico settimanale di Lee Status, il titolare pazzoide e anticonformista di Status
Kwo.
Juliet stava ormai mangiando la sua terza focaccina piena di
burro.
«Chi le ha fatte, tu o Guy?», domandò a sua madre, con la bocca
piena di briciole.
«Ti sei risposta da sola per il semplice fatto che le stai mangiando,
tesoro», disse Perry. «Tua madre prepara le focaccine tonde soltanto
per i rapinatori a corto di mattoni che devono spaccare un vetro».
«Sei proprio insolente», disse Grainne, assestandogli una forte
gomitata amichevole. «Proprio così, Guy le ha infornate per te
quando è tornato dal lavoro, la scorsa notte».
«È stato gentile da parte sua», disse Floz, desiderando che lui le
avesse portate di persona.
«Cucina per rilassarsi», confidò Grainne, con una voce sempre
più inasprita mentre la conversazione volgeva nuovamente verso
l’argomento ristorante. «E mio Dio, ha proprio bisogno di rilassarsi
quando torna da quel posto. Da domani si prenderà un paio di
giornate libere, grazie al cielo».
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Floz diede un altro morso alla focaccina e pensò che un uomo che
cucinasse così bene doveva essere un ottimo partito. Era passato
molto tempo dall’ultima volta che aveva sentito le farfalle nello
stomaco. Ma se Guy Miller era bello in carne e ossa quanto lo era in
fotografia, Floz sapeva che avrebbe dovuto vedersela con delle farfalle nello stomaco delle dimensioni di aquile nel momento in cui si
sarebbero finalmente incontrati.
Non avrebbe potuto essere più nel torto, neanche se si fosse
sforzata.
Capitolo quattro
Guy Miller non era soltanto stanco, era esausto. Non riusciva a ricordarsi l’ultima volta in cui aveva avuto un giorno libero dal lavoro
nelle cucine del ristorante Burgerov. Il proprietario, Kenny Moulding, lo stava prendendo per i fondelli, ne era consapevole. Aveva
gettato la maggior parte delle responsabilità del ristorante sulle
spalle di Guy con la scusa che era un eccellente coordinatore, ma da
anni Guy aveva smesso di credere alle lusinghe di Kenny. Guy sapeva
che era lui a gestire il locale perché Kenny se ne fregava. E nonostante lo pagasse bene, non era neanche lontanamente proporzionale al fardello che aveva dovuto accollarsi. Se avesse perso
Guy, Kenny sarebbe stato completamente fottuto. Inoltre, c’erano tre
settori dei quali Guy si rifiutava di prendere il controllo: assumere
del nuovo personale, licenziare i suoi incompetenti e incapaci colleghi e acquistare le provviste alimentari dagli inaffidabili commercianti che si presentavano alla porta sul retro con il cappuccio in testa
e gli occhi bassi. Kenny amava fare affari a poco prezzo, e questa era
anche la giustificazione che accampava con chi lo accusava di essere
un vero e proprio spilorcio. Infatti, in confronto a lui, Ebenezer
Scrooge di Canto di Natale sembrava un magnanimo benefattore.
Nell’ultimo periodo, Guy era talmente sfinito che Kenny si era
visto obbligato a concedergli alcuni giorni liberi, che si sarebbe meritato da tempo. A ogni modo, Guy aveva un serio bisogno di ricaricare le batterie prima di onorare la promessa di aiutare il suo
migliore amico Steve la sera successiva. Steve lavorava in proprio
come imbianchino, ma non era quello l’ambito in cui Guy avrebbe
dovuto assisterlo. La vera passione di Steve era il wrestling, faceva il
lottatore amatoriale a tempo perso, sognando di lavorare in America,
dove il wrestling continuava a essere uno sport molto seguito, con le
grandi stelle della GWE, la Global Wrestling Enterprises, l’organizzazione mondiale di tutti i wrestler. Quando Steve si esibiva sul ring,
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immaginava che il milionario promotore finanziario Will Milburn,
un vero pezzo grosso, fosse nascosto nell’ombra con lo scopo di individuare nuovi talenti; proprio per questo dava il massimo in ogni sua
esibizione.
Guy osservò il personale della cucina, intento a fingere di pulire i
ripiani di lavoro. Non osava pensare a cosa sarebbe accaduto nei due
giorni successivi in sua assenza. Era stanco di riprenderli costantemente per le loro abitudini igieniche, o meglio per la mancanza di
esse. L’unica che non doveva mai rimproverare era Gina. Alta,
carina, con le gambe lunghe e i capelli biondi, Gina aveva tre anni
meno di lui. In effetti, sulla carta Gina possedeva tutto quello che
avrebbe dovuto avere la sua ragazza ideale. Sapeva che lei lo fissava
con quei suoi occhioni azzurri quando era certa di non essere osservata, dato che, qualche volta, l’aveva colta di sorpresa. E sebbene
Guy la considerasse una bella ragazza, non aveva la tentazione a
guardarla con occhi diversi da quelli del capo. Guy non era vanitoso,
ma il fatto che piacesse a Gina non poteva essere più ovvio, e spesso
anche lui desiderava provare la stessa cosa per lei. Perché le persone
non potevano semplicemente accendere l’interruttore della propria
attrazione? La vita sarebbe stata molto più facile.
«Varto, perché stai pulendo quella superficie con lo stesso strofinaccio che hai appena usato per il ripiano della carne cruda?». Guy
provò a urlare, ma era troppo stanco per alzare la voce. Come qualcuno non fosse ancora morto di salmonella in quel posto restava un
dannato mistero. Varto era il dipendente più anziano tra i dipendenti incapaci di Kenny, ed era più inutile di tutti gli altri messi
insieme. Neanche mezz’ora prima aveva firmato e accettato una
provvista di carne di agnello consegnata alla porta sul retro da un
uomo con indosso un passamontagna. L’agnello puzzava. Guy era
andato su tutte le furie, per quanto quel poco di energia che gli
restava glielo permettesse, e aveva gettato la carne rancida nel cassonetto dei rifiuti. Gli aveva poi versato sopra lo scadente detersivo
per piatti che Kenny aveva comprato, in modo da evitare che lo
stesso Kenny chiedesse poi a Varto di raccoglierla, non appena Guy
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se ne sarebbe andato. Tuttavia, temeva che Varto l’avrebbe raccolta
in ogni caso, per poi pulirla e inserirla nel menu del giorno
successivo.
Kenny Moulding aveva fatto molti soldi negli anni grazie alla
scadente carne per hamburger e al chiosco degli hot dog. Senza dubbio aveva abbastanza soldi per permettersi una casa per le vacanze
nel Dorset e una piccola barca, ma non a sufficienza per spenderli in
adeguate attrezzature da cucina o per sostituire il mobilio del ristorante, davvero malridotto. «Arrangiarsi e riparare», questa era la filosofia di Kenny; tuttavia, se avesse usato quel suo motto con la sua signora, avrebbero divorziato ancor prima di arrivare alla fine della
frase. Il Burgerov si trovava in una posizione favolosa, ai margini
della campagna, in un tranquillo paesino chiamato Lower Hoodley,
ma abbastanza vicino alla città, per cui comunque il taxi non costava
una fortuna. Il suo menu era sorprendentemente apprezzato, ma
soltanto perché Guy lavorava sempre fino a tardi, e oltre il dovuto, al
fine di ottenere il meglio da prodotti tanto scadenti. Sapeva di essere
in grado di compiere meraviglie anche con un taglio pessimo di
carne e spesso immaginava quello che avrebbe potuto fare se avesse
avuto delle attrezzature da cucina di qualità, degli ingredienti di
prima scelta e del personale almeno un po’ competente.
C’era stato un tempo, diversi anni prima, in cui si aggiravano per
il Burgerov persone in gamba nel proprio mestiere, ma la crescente
avarizia di Kenny le aveva fatte fuggire tutte e il proprietario, che con
il passare del tempo aveva sempre meno interesse a migliorare il locale, non si era preoccupato di sostituirle con altre di pari qualità.
Stava invece optando per dipendenti che non riuscivano a distinguere le due estremità di una spatola e che pensavano di essere
vittime di una violazione dei loro diritti umani se non potevano
avere un pausa sigaretta ogni dieci minuti. Inoltre, Glenys, l’addetta
alle pulizie, era a casa con la cistite, per cui erano stati costretti a occuparsi anche delle sue mansioni, dato che Kenny non si era organizzato in nessun modo per coprire il turno.
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Guy diede la buonanotte e lasciò al resto del personale il compito
di pulire e mettere in ordine, sebbene fosse consapevo-le che non appena avrebbe varcato la soglia avrebbero tutti posato gli utensili per
accendersi le sigarette. Tutti tranne la diligente Gina. Ma, per una
volta, dal momento in cui entrò in macchina, Guy smise di preoccuparsi per quel posto. Si sentiva frastornato.
Faceva incredibilmente freddo per essere una serata d’agosto;
forse l’uomo della carne aveva indossato il passamontagna per scaldarsi e non per camuffarsi.
Guy detestava quel periodo dell’anno, quando all’estate si
susseguiva lo scuro e marrone autunno: era la stagione in cui tutto
moriva e i ricordi di tempi tristi riaffioravano nella sua mente. In
quei mesi preferiva lavorare fino a tardi. Se avesse riempito le sue
giornate con ore di duro lavoro non avrebbe avuto tempo di
rivangare il passato. Invece, pensieri indesiderati si susseguivano
senza sosta nella sua testa, come foglie arrugginite intrappolate nella
brezza. Desiderava svuotare il cervello da tutto.
Guy era talmente esausto che non notò il cartello con scritto IN
VENDITA che avevano messo fuori dal cancello di quel vecchio cottage, lungo la strada per Maltstone. A sua discolpa, il vento l’aveva
spezzato in due, spedendone una metà nell’incolto boschetto di conifere. Se l’avesse visto, forse avrebbe avuto qualcosa di molto più piacevole su cui concentrarsi, giacché fin da quando era un ragazzino
Guy Miller aveva atteso con ansia il giorno in cui Hallow’s Cottage
sarebbe stato messo in vendita. E quando decise di fare una deviazione per passare a trovare sua sorella per un caffè, si era dimenticato anche del fatto che Juliet aveva una nuova coinquilina ed
entrò con la sua chiave, come era solito fare.
Floz era appena uscita dalla vasca quando vide aprirsi di scatto la
porta dell’appartamento. Si aspettava di vedere Juliet rincasare dal
lavoro, che consisteva sostanzialmente nell’intrattenere relazioni interpersonali. Invece, entrò a grandi passi un uomo: era enorme, con
ondulati capelli neri, gli stessi occhi grigi di Juliet e di suo padre e la
stessa bocca carnosa di Grainne Miller. Il suo primo pensiero fu:
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“Wow, è il fratello di Juliet”. Il secondo fu: “Accidenti, non sono
truccata, ho i capelli bagnati, raccolti in un asciugamano, e indosso
la mia vestaglia a fantasia dalmata”. Ma non solo: aveva anche lo
shampoo negli occhi, che erano stropicciati e di sicuro anche rossi e
gonfi.
Guy pensò solo a una cosa quando vide Floz per la prima volta:
“Lacey Robinson”. Deglutì notando un’iniziale somiglianza tra la
donna minuta che stava di fronte a lui e la sua vecchia fiamma, e
venne colto completamente alla sprovvista.
«Scusa», esordì lui. «Mi sono dimenticato che c’eri anche tu. Floz,
giusto?»
«Ehm, sì», disse Floz, stringendosi ancora di più la vestaglia addosso. «Tu devi essere…».
Ma Guy stava già indietreggiando verso la porta alla velocità di un
levriero che ha assunto delle anfetamine. Nella fretta di fuggire da
quella scena, inciampò all’indietro contro il poggiapiedi e rovinò sul
tavolino, facendo volare sul tappeto ogni cosa che c’era poggiata.
Dopodiché, come se fosse stato il protagonista di un film della
famosa saga comica inglese Carry On, si alzò in piedi talmente in
fretta che finì per sbattere la testa contro il paralume sopra di lui.
«Devo andare, scusa», disse, intanto che sbatteva la porta, lasciando Floz con la netta impressione di assomigliare a Linda Blair in
L’esorcista.
Floz rimase immobile a bocca aperta. “Cribbio, sono così orribile?”. L’improvvisa pugnalata di dolore che aveva avvertito si trasformò in un’esplosione di rabbia. “È stato dannatamente scortese!”.
Non le importava che fisicamente fosse un gran bel fusto; quanto a
carattere e personalità, non era per niente un gentiluomo. Ma dopotutto, non aveva ancora imparato che ogni volta che emergeva dal
guscio, attratta dal profumo dell’amore nell’aria, tutto quello che
trovava era una mano chiusa a pugno che non aspettava altro che
colpirla in faccia per rispedirla da dove era venuta?
Non ci sarebbe stato più spazio per le romanticherie che avevano
come protagonista Guy Miller.
Capitolo cinque
Steve compose il numero al telefono e restò in attesa per verificare se lei avrebbe risposto. Rispose, e lui tirò un sospiro di sollievo
una volta che ebbe scoperto che non era caduta giù per le scale o che
non aveva acceso il forno per poi dimenticarsene e dare la casa alle
fiamme.
«Pronto, chi è?», disse una voce roca e impastata.
«Ehi, mamma, sono io. Come stai?»
«Chi è?»
«Sono io, Steve. Mamma, come stai?»
«Sto bene», disse la voce. «Perché, come dovrei stare?». Era ubriaca. Erano le dieci del mattino e lei era sbronza. Dopo tutti quegli
anni non avrebbe dovuto sorprendersene, tuttavia non riusciva ad
abituarsi.
«Sarò lì tra un’ora. Ti devo comprare qualcosa?»
«Il solito».
«Mamma, non posso. Sai che non posso». A Steve si fermò il
cuore.
«Allora non disturbarti a venire». E la linea cadde.
Steve arrivò a casa di sua madre un’ora più tardi, odiandosi per
averle comprato, insieme al resto della spesa, una bottiglia da un
quarto di litro di vodka. Era la più piccola che aveva trovato, sapeva
che se non gliel’avesse portata lei non lo avrebbe considerato.
L’abitazione bifamiliare adiacente a quella di sua madre non
avrebbe potuto essere più diversa. La casa di Sarah Burrows aveva
finestre immacolate, tende graziose e un giardino curato e ordinato,
senza traccia dei soliti divani o dei rottami di automobili che
fungevano da decorazioni da giardino in tante abitazioni di quella
zona desolata ai margini dell’area residenziale di Ketherwood. Sugli
scalini lindi sedeva un ragazzino minuto di dieci anni con una
maglietta da calcio del Barnsley.
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«Come butta, Denny?», sorrise Steve. «Non ti avevo quasi riconosciuto. Dove hai messo gli occhiali, giovanotto?»
«Si sono rotti», rispose il giovane Denny. Più Steve si avvicinava,
meglio riusciva a scorgere il leggero livido che il ragazzino aveva
sull’occhio.
«Ti sei azzuffato?», chiese Steve, un po’ preoccupato, in quanto
Denny Burrows non era un ragazzo litigioso. I Burrows erano fuori
posto in quel quartiere. Sarah Burrows era un’instancabile donna
delle pulizie, una ragazza rispettabile, e Denny era un giovanotto
tranquillo, sempre con un libro in mano.
Denny non rispose, abbassò semplicemente il capo. Steve superò
la recinzione con un balzo e si sedette sugli scalini vicino al
ragazzino.
«Tutto bene, figliolo?», chiese.
«Sì, certo», disse Denny, cercando di non dare nulla a intendere
mentre si asciugava le lacrime dagli occhi.
«Ehi, ciao, Steve», disse Sarah Burrows, comparendo dietro di
loro sulla soglia della porta. «Vuoi una tazza di tè? Denny, tu vuoi un
po’ di bollicine, tesoro?».
Denny annuì ma non parlò, dato che la voce gli si era strozzata in
gola. Steve non voleva disturbare Sarah, ma desiderava scoprire che
cosa fosse successo a Denny, per cui disse: «Che ne dici Sarah di portarci due lattine di Coca? Per favore».
Quando Sarah sparì in cucina, Steve stette in silenzio per circa
mezzo minuto poi diede una gomitata a Denny.
«Coraggio, ragazzo. Racconta allo zio Steve che cosa è successo».
«Nulla d’importante».
«A me puoi dirlo, lo sai».
Denny aprì la bocca, come se volesse dire qualcosa, poi la richiuse
di scatto.
«Non è successo nulla».
«Invece sì», disse Sarah, spuntando con due lunghi bicchieri di
Coca-Cola Light. «Sono preoccupata a morte. Si tratta di quel bastardo schifoso che risponde al nome di Tommy Paget. Quest’anno è
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la quinta volta che gli occhiali di Denny vanno in frantumi. Non mi
sono accorta di nulla finché non l’hanno colpito all’occhio. Poi ho
scoperto che aveva il corpicino ricoperto di lividi».
«Denny, devi picchiarli a tua volta, figliolo», disse Steve,
mettendo il braccio intorno alle spalle del giovanotto e rendendosi
conto di quanto fosse minuto quando lo tirò a sé.
«Sono in quattro», continuò Sarah. «Una banda. E quel cavolo di
preside è utile come una forchetta nel brodo. Ha promesso che non
avverranno più incidenti di questo tipo, ma io sono scettica. Un
bambino di dieci anni non dovrebbe ritrovarsi in questa situazione».
«Dove vive questo Tommy Paget?»
«Oooh no, Steve, al giorno d’oggi non si può dire niente ai
bambini, perché li si istiga soltanto a fare di peggio», disse senza indugio Sarah.
«Non gli dirò nulla. Sto solamente chiedendo dove vive».
«Dall’altra parte della zona residenziale. In Bridge Avenue.
Numero 95, credo. Potresti conoscere suo padre: Artie Paget. Una
volta gli piaceva spacciarsi per un ottimo pugile».
«Artie Paget è suo padre?». Ebbene sì, Steve conosceva bene Artie
Paget.
«È una sensazione terrificante, non essere in grado di proteggere
il proprio figlio». Sarah scosse lentamente la testa. Sembrava
stremata.
«Non dovreste vivere in questo quartiere, cara», disse Steve,
guardandosi intorno e osservando quanto fosse maledettamente decadente quella zona.
«Non parlarmene! Il nostro nome è in lista per un trasferimento
da più di due anni. Probabilmente non creo abbastanza trambusto,
come invece fa qualcun altro. “Chi alza la voce viene ascoltato di
più”, non è così che si dice? Almeno posso tenere d’occhio tua madre
per te mentre sono qui. A volte mi fa entrare in casa».
Steve fece un sorriso triste. «Grazie mille, Sarah».
«Vorrei poter fare di più», rispose Sarah, lasciandosi sfuggire un
sospiro.
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«So cosa intendi». Era ironico il modo in cui Christine Feast si ostinasse a distruggere se stessa con alcolici scadenti. La vita era così
preziosa, eppure Christine Feast non sembrava accorgersene.
Steve si scolò la sua bibita e diede una gomitata affettuosa al piccolo Denny prima di alzarsi in piedi. «Se hai ancora dei problemi
fammelo sapere», gli disse. «Ti insegnerò un po’ di mosse di
autodifesa».
«Ho appena iniziato a fare karate», disse Denny orgoglioso, respingendo indietro le ultime lacrime: si sentiva meglio perché Steve
era dalla sua parte. «Ci vado il mercoledì sera».
«Vai da Big Jim in Buckley Street?»
«Proprio lì», confermò Sarah.
«È stato anche il mio istruttore», disse Steve. «Jim è un buon insegnante. Se gli dici che mi conosci ti farà un po’ di sconto».
«Non mi piace fare la parte della sfrontata», si irritò Sarah. Steve
indirizzò un sorriso alla giovane donna orgogliosa e desiderò che sua
madre avesse anche solo un briciolo della sua dignità.
«Ma dài!», disse sapendo che Sarah non aveva molti soldi da
parte. «Hai già tutto l’equipaggiamento?»
«Ha detto che per ora posso allenarmi con la mia tuta», rispose
Denny.
«Tieni». Steve frugò in tasca ed estrasse qualche banconota. «Vai
a comprarti tutto quello che ti serve».
«Non osare prendere quei soldi, Dennis», intimò Sarah balzando
verso di loro per arrestare il passaggio di banconote.
«Non sono per te, sono per il bambino». Steve spinse i soldi nella
mano di Denny. «Coraggio, prendili, ragazzo. Un tizio una volta ha
fatto lo stesso con me», mentì Steve per proteggere l’orgoglio di
Sarah. Anche lui si era allenato con la sua tuta, finché il figlio di Jim
non gli aveva dato una divisa da karate di seconda mano.
«È un prestito senza interessi. Li rivoglio indietro quando otterrai
la cintura nera, intesi?».
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Steve non avrebbe accettato un rifiuto. A malincuore, Sarah lo
ringraziò seccamente. Non era mai stata una scroccona. Quel poco
che aveva se l’era guadagnato da sola.
Steve scavalcò la recinzione e fece un profondo respiro prima di
afferrare la maniglia della porta d’ingresso di sua madre.
A volte dimenticava di chiuderla a chiave – un’altra cosa di cui lui
si preoccupava di continuo. Aprì la porta con uno spintone, armandosi di coraggio all’idea di ciò che avrebbe trovato dentro. Già sentiva la puzza stantia aleggiare nell’aria. Il riscaldamento centralizzato
era bollente, il che non faceva altro che accentuare quel tanfo tremendo, senza permettergli di svanire. Al contrario, i cattivi odori si
rincorrevano l’un l’altro, mescolandosi come fossero una sorta di
bizzarro deodorante per ambienti: sigarette, sudore, qualcosa di
marcio. Eppure, soltanto un paio di giorni prima, Steve aveva pulito,
svuotato i bidoni e se n’era andato lasciando la casa in condizioni
semidecenti.
«Ciao, mamma», disse teneramente Steve, svegliandola dal suo
pisolino. Christine Feast era seduta sul divano, avvolta in una
coperta. Aprì lentamente gli occhi e si girò verso Steve, ma lo guardò
con lo stesso coinvolgimento che avrebbe manifestato nei confronti
di un candelabro.
I suoi capelli, che lui ricordava grigi da sempre, erano ultimamente molto radi. Steve avrebbe voluto spazzolarglieli, in modo che
quelli intorno al viso fossero ordinati, ma ci aveva già provato in precedenza e lei non gliel’aveva lasciato fare.
«Ti ho portato un po’ di cose. C’è un panino con uova e maionese.
Il tuo preferito». Cercò nella busta della spesa ed estrasse un panino
integrale, morbido e fresco.
«Non ho fame», rispose lei. Le sue palpebre iniziarono a richiudersi. Era ubriaca, ovviamente. Non riusciva a ricordarsi l’ultima
volta in cui l’aveva vista sobria. Il suo orologio biologico non funzionava più; si appisolava per qualche ora, beveva, si appisolava di
nuovo, beveva ancora… A volte faceva in tempo ad arrivare in bagno,
altre volte no.
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Quando Steve provò a pulire un po’, lei gli disse di levarsi dalle
palle; non gli permetteva di portarla dal dottore e si opponeva a ogni
suo tentativo di sollevarla dal divano in modo da toglierle quei vestiti
impregnati di urina. I servizi sociali non sarebbero intervenuti, e
Steve non sapeva che altro fare se non andarla a trovare e sperare in
un miracolo. Il negozio all’angolo non le negava gli alcolici, per
quanto Steve li avesse scongiurati. Inoltre, Christine pagava i ragazzi
più grandi del quartiere affinché le andassero a comprare da bere.
«Ho un incontro di wrestling questa sera», disse Steve. Era come
se lei fosse in coma e l’unico modo per stabilire un contatto fosse
parlarle normalmente, invogliandola a svegliarsi e rispondere. Non
lo faceva mai. «Sono il ragazzo buono. L’Angelo».
Le si sedette accanto per un’ora e parlò, ma lei non ascoltò nulla.
Poi, le mise un po’ di soldi in mano, nella speranza che non si comprasse ancora da bere. Ma sapeva che sarebbe andata così.
Capitolo sei
Mentre Guy, radioso nel suo svolazzante mantello da cattivo di
turno e pantaloncini lucidi neri, si apriva un varco tra la folla acclamante e irriverente, vecchie pensionate artritiche scattavano in
piedi, agili come atleti, spingendo per sporgersi nel corridoio e
colpirlo con le loro borsette. Guy sfilò sottopo-nendosi a quella
gogna, sputò e ringhiò, dopodiché scavalcò le corde con fare arrogante e salì sul ring, si sfilò la corona di plastica, si strappò il mantello
e lo consegnò nelle mani in attesa dell’assistente.
«Signore e signori, questa sera per il vostro divertimento», iniziò
ad annunciare in tono drammatico la voce dal marcato accento dello
Yorkshire che si diffondeva in tutto il locale attraverso l’impianto audio, «abbiamo il pazzo, il cattivo, il pericoloso, colui che vi piace odiare, il solo e unico: Crusher Kingstone». Il nome fu sommerso da un
insolente crescendo di irrisioni, mentre l’imponente ragazzo dai
capelli neri scattava in avanti verso il centro del ring. Lì ad aspettarlo, a un palmo dal suo naso, c’era un uomo dai capelli biondo
argento, alto esattamente un metro e novantacinque, con dei pantaloncini bianchi e delle ali attaccate alle spalle.
«La D&E Wrestling Entertainment è felice di presentarvi il suo avversario, il magnifico, l’angelico, il buono, il bellissimo, il divino e celestiale Steeeve Angel».
I fischi della folla si trasformarono in acclamazioni, mentre
l’enorme e muscoloso uomo-angelo alzava le mani e salutava gli astanti prima di togliersi le ali e consegnarle alla stessa assistente di
ring affinché le custodisse.
L’arbitro, soprannominato Little Eric, si mise in punta di piedi
(era alto solo un metro e sessanta) e spinse verso il basso le larghe
spalle dei due uomini.
«Ora, giovanotti, voglio un combattimento corretto e leale. E ricordate: Angel, tu ti arrenderai al terzo round per una presa del
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granchio. Buona fortuna, ragazzi. Date loro un bello spettacolo,
porca puttana!».
Steve annuì e indirizzò un ampio sorriso a Guy, porgendogli la
mano. Guy ringhiò e la rifiutò con uno schiaffo, spingendo ogni pensionato in sala che fosse di costituzione sana e robusta ad alzarsi in
piedi in una caotica ola di fischi striduli e vecchi pugni bitorzoluti.
«C’è ancora molto tempo prima della presa del granchio, quindi
sta’ in guardia», sussurrò Steve, preparandosi a combattere.
«Fai del tuo peggio!», disse Guy, tendendo le braccia per poi
strozzarlo senza dargli alcun preavviso.
L’incontro fu breve ma avvincente. Mentre i soccorritori
portavano via un Angel distrutto, che gridava di dolore in modo
drammatico da sopra la barella sostenendo di essersi spezzato la
schiena, Guy gironzolava per il ring prendendosi i fischi, prima di affrontare la corsa che, dopo aver attraversato la folla inferocita,
l’avrebbe riportato al sicuro negli spogliatoi. Steve saltò giù dalla
barella appena prima che i soccorritori lo facessero cadere, in quanto
di lì a poco sarebbero dovuti tornare a bordo ring per trasportare
Tarzan e Apeman, che sarebbero stati sconfitti dai Pogmoor
Brothers.
«Grazie! Questa volta ci è mancato poco che mi rompessi la spina
dorsale», disse Steve a Guy, portando dietro le mani per massaggiarsi la schiena dolorante. «Preferisco di gran lunga quando io sono
Dark Angel e tu sei Guido Goodguy. Sei uno stronzo spietato quando
fai la parte del cattivo, peggio di Alberto Masserati».
Guy esibì un largo sorriso quando Steve menzionò il più famigerato e brutale lottatore di wrestling della zona. «Nel mio lavoro diciamo che se non riesci a sopportare il calore devi uscire dalla
cucina».
«Il tuo orecchio sta sanguinando», lo avvisò Steve.
«Già, in effetti mi faceva un po’ male», disse Guy, sfregandolo e
controllandosi poi le dita. «Una di quelle vecchie mi ha colpito
mentre correvo via. Ti giuro, si mettono ancora i mattoni nella
borsa».
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I pensionati arrivavano spediti da ogni dove quando c’era un incontro, affrontando una ragionevole distanza di viaggio. Per un paio
d’ore, tornavano a essere dei pulcini, prima di regredire allo stato di
vecchi e sfiniti galli e galline che sarebbero saliti, stremati, sull’autobus per poi fare ritorno alle rispettive case di riposo. Nessuno sapeva
come avessero fatto a non dover mai fermare un incontro per portarne via qualcuno in barella a causa di un infarto. Ciononostante, a
Steve piacevano. Amava aiutarli a risvegliare quella vecchia passione, anche se durava soltanto il tempo di cuocere un uovo alla
coque. La maggior parte dei pensionati si ricordava dei giorni di
gloria del wrestling britannico, e quelle serate gli restituivano la perduta gioventù.
Ogni Natale, Guy e Steve, i due Pogmoor Brothers, Big Bad Davy,
Klondyke Kevin e alcuni degli altri lottatori prendevano delle scatole
di cioccolatini, qualche bottiglia di birra e di vino e si recavano alla
Casa dei Narcisi, vicino a Penistone, dove gli stessi vecchi e pazzi anziani che formavano il loro pubblico se ne stavano seduti nelle proprie sedie, intenti a fissare lo schermo della televisione, o il vuoto,
come se i loro spiriti fossero stati messi sotto naftalina fino alla
prossima gita alla Sala del Centenario delle Notti del Wrestling. No,
a Steve non importava se lo amavano o lo odiavano quando combatteva restando fedele al proprio personaggio, voleva soltanto che si
divertissero.
«Sul serio, amico, grazie per essere venuto», disse a Guy. «So che
non hai molto tempo libero ultimamente».
«Ah, non preoccuparti». Guy rifiutò i ringraziamenti con un gesto
della mano. «Non avrei sopportato di lasciarti senza un compagno
questa sera».
Little Derek, l’organizzatore, era a corto di un uomo poiché Flamboyant Fred Zeppelin si era rotto un polso. Era stato fortunato a
spezzarsi solo quello, dato che si era infortunato durante un incontro
con Alberto Masserati, il quale ignorava qualsiasi direzione data da
Little Eric o da Little Derek e cercava sempre di mettere l’avversario
al tappeto. Una volta salito sul ring, Alberto si trasformava in un
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soggetto al limite del sadismo. Infatti, proprio perché era un personaggio spaventoso, nessuno voleva incontrarsi con lui, eccetto il
grande Fred. Tuttavia, fuori dal ring, Alberto era un padre di
famiglia dai modi gentili, gestiva una piccola ma allegra locanda e
non c’era altro che amasse quanto cucinare, intrattenere gli ospiti e
guardare l’opera. Poteva anche esserci molta teatralità nel wrestling,
ma gli infortuni erano comuni. Una grossa parte di questi erano orchestrati, tuttavia quando Apeman, che pesava centonovanta chili,
alzava da terra l’avversario per poi schiacciarlo al suolo non c’era
nessuna garanzia che non gli avrebbe quantomeno rotto una costola.
«Ci facciamo una pinta di birra?», propose Steve, strofinandosi
velocemente l’asciugamano sui capelli biondo platino, dopo una doccia gelida. Sembrava pesantemente ossigenato, ma in realtà era il
suo colore naturale. Suo nonno paterno era svedese, anche se Steve
non l’aveva mai conosciuto, e aveva passato il gene biondo nella sua
interezza a quell’unico nipote. I suoi capelli riflettevano e
trattenevano gelosamente ogni fonte di luce, illuminandolo a tal
punto da far sembrare che indossasse un’aureola. Una volta, dopo un
incontro nel quale impersonava Thor Svensson, il Guerriero Vichingo, una giovane donna ubriaca gli aveva detto: «Oooh, sembri un
angelo». Dopodiché, gli aveva vomitato sopra le scarpe da ginnastica
nuove di zecca, che gli erano costate centoventi sterline.
Tutto sommato, il nome gli piacque e da quel momento in poi lo
aveva utilizzato spesso.
«Così mi puoi dire che cosa ti passa per quel piccolo cervello che
ti ritrovi», continuò Steve.
Guy smise per un istante di pettinarsi i capelli neri e ondulati davanti allo specchio, che lo costringeva sempre a piegarsi per vedersi
riflesso. Stava per raccontare a Steve del suo incontro con Floz, ma
poi ci ripensò.
«Non mi passa nulla per il cervello».
Steve sbuffò. «Certo, e io sono Ronnie Corbett, il comico
scozzese!». Guy riprese a pettinarsi. «Sei silenzioso e hai quello
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sguardo corrucciato alla Heathcliff di Cime Tempestose. Fai sempre
così quando c’è qualcosa che ti assilla».
«Sembri la nostra Juliet», rispose Guy, perché lei era stata la
prima a dire che il suo gemello si tramutava in una versione
meschina e irascibile di Heathcliff quando aveva dei pensieri che lo
preoccupavano.
Steve sapeva che con ogni probabilità sarebbe riuscito a estrapolare qualcosa da Guy davanti a una pinta di birra e pensò che, per il
momento, fosse meglio cambiare argomento.
«Allora, com’è la nuova coinquilina di Ju?».
Guy emise un lamento e scosse il capo.
«Così brutta, eh?». Steve fece una smorfia.
«Oh cielo», disse Guy gettando il pettine nel borsone. Mancò il
bersaglio. Borbottò un’imprecazione mentre si chinava per
raccoglierlo.
«Che diavolo hai che non va?», lo punzecchiò Steve.
Furono interrotti da Little Derek, l’organizzatore, che entrò nello
spogliatoio sventolando due buste marroni.
«Ottimo lavoro, Steve! Cinquanta sterline, più dieci aggiuntive
per le spese. Il prossimo incontro si terrà martedì trentuno, sempre
qui. Ti chiamerò per farti avere i dettagli. È bello rivederti, Guy. Ti va
di combattere un altro po’, amico?»
«No», disse Guy con tono risoluto. «Questo era un favore a Steve.
Sono troppo indaffarato, Derek».
Derek sorrise con fare paterno. Faceva parte di quel mondo da
quando era adolescente e si aggrappava all’illusione che il wrestling
fosse sul punto di ritornare in auge. Non avrebbe mai ammesso con
se stesso che il wrestling nel suo Paese era uno sport morto. Ogni incontro doveva essere pianificato con meticolosità al fine di attirare
gli scommettitori, si doveva far leva sulla loro nostalgia dei giorni
migliori, quando si esibivano i mitici Giant Haystacks, Catweazle,
Big Daddy, Mark Rocco detto “Rollerball” e Jim Breaks: i ragazzi che
tutti amavano amare e amavano odiare. Derek non riusciva a ricordarsi quante volte lui e Guy avessero sostenuto la stessa
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conversazione, riguardo al fatto che Guy stava solamente facendo
«un’ultima esibizione» per aiutare Steve, e che sarebbe stata davvero
la sua ultima volta. Tuttavia, non era mai l’ultima. Steve sapeva che
sarebbe riuscito a strappargli qualche altro combattimento se fosse
rimasto senza compagno.
«Fidati», disse Derek. «È solo questione di tempo prima che ci
mettiamo in pari con gli americani e la patria del wrestling torni a
essere la Gran Bretagna. E io sarò pronto quando accadrà. Milionari,
quei lottatori sono milionari. Superstar milionarie. E quando io diventerò ricco, anche tu lo diventerai». Dava per scontato che tutti
fossero tanto motivati dai soldi quanto lui. Non riusciva a concepire
che i ragazzi combattessero per passione. «Devo far sì che la mia piccola continui ad avere abiti firmati».
«Oh certo, la tua Chianti. Come… come sta… Chianti?», domandò
Steve, cercando inutilmente di fingersi indifferente; la sua voce
tendeva sempre ad alzarsi di tre ottave quando pronunciava il nome
di lei, mentre il resto della frase restava in un tono basso. Sembrava
un cantante di jodel che aveva bevuto troppa grappa.
«Qualcuno mi ha nominato?». Esattamente in quel momento, la
splendente Chianti Parkin, la figlia venticinquenne di Little Derek,
apparve sulla porta con le sue gambe magre, il seno gonfiato e la
lunga chioma bionda posticcia, per gentile concessione di una qualche povera donna russa che barattava i suoi capelli per un paio di
pagnotte di pane.
«Oh, ciao, Chianti, stai bene?», chiese Steve, grattandosi
nervosamente la nuca.
«Sì, sto alla grande», rispose lei, masticando avidamente una
gomma. Concesse a Steve un secondo della sua attenzione, poi distolse gli occhi da lui per posarli su Little Derek.
«Sono venuta per dirti che me ne vado, papà. Wayne è venuto a
prendermi».
«Ciao, tesoro. Passa una bella serata», disse Little Derek con tono
gentile e orgoglioso, poi baciò la figlia sulla guancia. Steve guardò
Chianti girarsi e andarsene ancheggiando, con un paio di stivali
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stretti che le arrivavano alle cosce e una gonna corta e svolazzante.
Un profondo ruggito animalesco gli crebbe in gola e in fretta lo
represse.
«Va al Four Trees questa sera. Forse lo conoscete, è quel ristorante sofisticato sui monti Pennini con una lunghissima lista d’attesa.
Quello Wayne è un uomo d’affari, o qualcosa del genere. Ha una
grossa macchina appariscente, ovviamente. Lei non considera nessuno che non abbia per lo meno una targa personalizzata. Di certo
non durerà, non dura mai. Usa e abusa, è questa la nostra Chianti».
Derek sospirò con affetto, pensando alle tendenze sadiche che sua
figlia aveva nei confronti degli uomini, poi ritornò in modalità lavorativa. «A ogni modo, devo scappare. Ciao ciao, ragazzi, e grazie.
Bell’incontro». Alzò il pollice in segno di approvazione e sparì tornando in sala per guardare gli incontri a squadre, seguiti dal combattimento finale di Grim Reaper, il “tristo mietitore” (la cui entrata
in una nuvola di fumo artificiale alzava sempre la pressione dei pensionati di tre milioni di punti percentuali) che veniva sottomesso con
una stretta alla gola dai centoquaranta chilogrammi di Jeff Leppard.
Agli anziani piaceva vedere Grim Reaper sconfitto.
«Chianti Parkin». Il sospiro di Steve diceva tutto.
«Puoi avere senz’altro di meglio», rispose Guy. Chianti Parkin
non gli diceva molto. Trasmetteva una vibrazione gelida e a Steve
serviva una persona dolce e calorosa, che fosse in grado di creare un
nido coniugale per compensare tutto quello che gli era mancato. Non
riusciva a immaginarsi Chianti con un grembiule, intenta a preparargli un pasticcio di carne ricoperto di purè, o mentre lo aspettava a casa ogni sera per dargli il benvenuto a braccia aperte.
«Come sta tua mamma?», fu la domanda successiva di Guy.
Steve sospirò di nuovo, questa volta in modo profondo e triste.
«Come al solito. Oggi sono andato a trovarla, ma non era in sé. Invece la scorsa settimana le ho portato un po’ di pesce fritto e patatine
e si è divorata tutto. È stato bello vederla mangiare qualcosa».
Guy sapeva che per Steve si trattava di un traguardo. A volte
Christine Feast non permetteva al figlio nemmeno di entrare in casa.
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Tutto dipendeva da quanto fosse paranoica in quel determinato
momento. Christine era stata un’alcolizzata cronica fin da quando
Steve era piccolo. Veniva da una famiglia di bevitori e non si era
sforzata di opporsi al suo destino.
«È delle dimensioni di un uccellino», continuò Steve, cercando di
tenere sotto controllo il tremolio della voce. Poi tossì e scacciò dalla
mente il pensiero di sua madre, almeno per il momento.
«Comunque, non preoccuparti per me e i miei problemi, andiamo a
farci una birra, così potrai raccontarmi perché è tutta la sera che
gironzoli come fossi un nerd adolescente un po’ sfigato». Avrebbe
scommesso che si trattava di problemi con le donne. E Steve sapeva
tutto riguardo ai problemi con le donne. Chianti era meno raggiungibile di Kylie Minogue.
Proprio come l’intera famiglia Miller, Steve sperava che Guy
trovasse una brava donna e che mettesse su famiglia. Era un ragazzo
serio, affidabile e adatto ad averne una di cui occuparsi e per cui
gioire. E si meritava davvero un po’ di felicità dopo tutta la merda
che aveva dovuto affrontare. Un tipo di merda diverso rispetto a
quella che lui stesso aveva dovuto superare, ma pur sempre di merda
si trattava.
Guy si mise l’enorme borsone sulla spalla. «Se te lo dico non devi
farne parola con nessuno, e intendo dire neanche una fottutissima
parola con Juliet».
«Puoi stare sicuro che sarò discreto», ribatté Steve, mortalmente
offeso.
«Certo. Be’… non posso fidarmi di lei», disse Guy. La sua gemella
era la direttrice della Scuola del Pettegolezzo. Gli balenò in mente il
terribile ricordo di quando tutti avevano saputo del suo bigliettino
segreto di San Valentino per Michaela Hall. Il bigliettino era stato
realizzato due sere prima seguendo le istruzioni di Blue Peter, un
programma televisivo per bambini: una confezione di fiocchi di
mais, fogli adesivi di plastica, la colla che usava a scuola, tempera
rossa a guazzo e mangime Trill per pappagalli. Non riusciva ad
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ascoltare Chrissie Hydne che cantava Talk of the town senza sudare
freddo.
«Quindi, che cos’è che non devo dire a Juliet?», domandò Steve,
ormai giunto al culmine della sua pazienza. Aprì con uno spintone la
porta, che scricchiolò in modo sofferente, e uscirono nell’aria calda
di una notte di metà agosto.
«Si tratta della nuova coinquilina di Juliet. L’altra sera ho fatto
una figura del cavolo davanti a lei».
«Oh, accidenti. Che cosa hai combinato? Sei inciampato sul tavolino atterrando ai suoi piedi?», rise Steve.
Lo sguardo che gli lanciò Guy gli fece capire che non era lontano
dalla verità.
Steve ascoltò il ricordo che Guy aveva di quel primo incontro. Il
modo in cui Floz gli era apparsa piccola e vulnerabile, avvolta in una
vestaglia da dalmata, e come, soltanto per un momento, si fosse fatto
prendere dal panico ricordandosi di Lacey. E aveva finito per raccontare a Steve di come avesse fatto l’uscita di scena più ignobile e puerile che si potesse immaginare.
«Non è poi così grave, o sbaglio?», disse Steve. Conosceva il
genere di donna che piaceva a Guy: alta, con le gambe lunghe e i
capelli dorati, fatta eccezione per lo spiacevole contrattempo
costituito dalla piccola e mora Lacey Robinson. «In ogni caso, perché
ti interessa così tanto che cosa pensa di te una ragazza bassa che si
veste da dalmata?».
Guy esalò un lungo e profondo respiro. «Perché era maledettamente bella».
Capitolo sette
Proprio mentre Guy stava confessando a Steve come fosse rimasto sbalordito alla vista di lei, anche senza trucco e con gli occhi
rossi e gonfi, il cellulare di Floz squillò e lei rispose all’istante
vedendo il nome che era apparso sullo schermo.
«Mi servono dieci biglietti d’auguri di San Valentino veramente
piccanti, subito», disse Lee Status, con la sua solita voce sicura che
filtrava come una brezza attraverso il telefono. «Almeno due battute
sui pompini e qualche rima sulle “tette carine”, se non ti dispiace».
Floz rise. «Non preoccuparti Lee. Per quando li vuoi?»
«Ieri».
«Non ne vuoi nessuno a proposito di un gentile e dolce ammiratore segreto?», suggerì Floz.
«No. I giovani d’oggi sono sessualmente aggressivi e non perdono
tempo con i preliminari. Mirano diretti ai genitali».
«Va bene», sospirò Floz. «Li avrò pronti per te questa sera».
«La scadenza in realtà è giovedì mattina», disse lui, e subito dopo
cadde la linea. Lee Status era un uomo indaffarato e non aveva
tempo per le chiacchiere superflue.
La mente di Floz non iniziò da subito a frullare di idee, come le
accadeva di solito dopo aver ricevuto un incarico. Al contrario, Floz
si chiese come si sarebbe sentita nel ricevere un biglietto in cui le si
diceva che aveva delle tette carine. Doveva essere davvero invecchiata, perché un biglietto del genere non l’avrebbe fatta sciogliere,
neanche se fosse stato George Clooney a mandarglielo. Senza dubbio, i biglietti di San Valentino dovevano essere romantici, ma non
troppo sdolcinati, con un pizzico di pepe, come quello che Nick le
aveva inviato dal Canada. Uno sfondo bianco con un piccolo cuore in
copertina e dentro le parole: «Voglio soltanto venirti a prendere,
portarti qui e amarti». Il cuore le scoppiò al solo pensiero, e ancora
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una volta lei soffocò quella divagazione sul nascere. Non c’era motivo
di riportare in vita simili ricordi.
Non aveva realmente capito che cosa fosse successo tra loro. O il
motivo per cui una storia d’amore piena di onestà e speranza fosse
finita in modo così brusco, o perché lui non le rispondesse al telefono o alle e-mail. Erano passati diciotto mesi da quando lui aveva
interrotto tutti i contatti, e malgrado ciò aveva scoperto che, quando
accarezzava semplicemente col pensiero il ricordo di quel biglietto, il
dolore persisteva ancora.
Era evidente che lei spaventasse gli uomini. Le era sufficiente
pensare alla sera precedente e a quel primo incontro con Guy Miller.
Erano bastati pochi secondi in sua presenza per far sì che lui scappasse a una velocità supersonica e con un tale sguardo di terrore sul
volto che lei aveva dovuto controllarsi allo specchio per assicurarsi
che non le fossero improvvisamente cresciuti dei serpenti in testa.
Da quel momento in poi, quella scena l’avrebbe perseguitata. Lui
aveva notato lo scintillio dell’attrazione negli occhi di lei e ne era rimasto disgustato? Oppure aveva temuto di tramutarsi in pietra? In
ogni caso, la prossima volta che avrebbe incontrato quell’idiota, gli
avrebbe dimostrato che il suo comportamento da imbecille non
l’aveva minimamente turbata e che lei non aveva alcun tipo di mira
su di lui. Sarebbe stata distante come una regina di ghiaccio.
Aprì un documento sul suo computer portatile e lo chiamò “San
Valentino-osé”, poi lasciò la sua mente imboccare la strada delle battute sconce. Pensò, e non era la prima volta, che forse il suo destino
era quello di scrivere biglietti d’amore per le altre persone, senza mai
riceverne a sua volta.
Capitolo otto
La sera seguente, Juliet superò fluttuando l’ingresso principale
del palazzo di Blackberry Court con Coco al seguito. Aveva appena
trascorso le ultime due ore nel glorioso spazio vitale di Piers
Winstanley-Black e nella nuvola creata dal suo costoso dopobarba.
Era certa che le pupille di lui si fossero dilatate quando avevano stabilito il contatto con le sue mentre guardavano la pratica di “Brownlee contro Goldman”. Non era la sua immaginazione, lui stava per
cadere nella sua rete, riusciva a percepirlo. Ma come un pescatore
paziente, lei avrebbe atteso finché la trota non fosse stata abbastanza
vicina da farle il solletico.
E a conclusione di una magnifica giornata, un aroma delizioso di
stufato si intrufolò nelle narici di Juliet mentre spalancava la porta
dell’appartamento.
«Oh. Mio. Dio. Che cos’è questo odore magnifico?»
«Carne tritata di manzo e ravioli», rispose Floz, che era seduta al
tavolo da pranzo a scarabocchiare degli appunti di lavoro. «Ne ho
fatto un po’ di più, se ti interessa».
«Oh, sei una creatura divina», disse Coco, intanto che si toglieva
le scarpe con un calcio. «Senza dubbio resto per il tè. In tutta la
giornata ho mangiato soltanto un Crunch Corner, uno di quegli
yogurt con le praline. Ci divoriamo una torta dopo? Dovrei tenermi
un dolce sempre a portata di mano per regolarizzare i miei livelli di
zucchero. Marlene è a casa ammalata e abbiamo avuto talmente
tanto da fare che non sono nemmeno riuscito a fare un salto alla
panetteria Greggs».
«Sapevo che saresti stata una coinquilina perfetta, Floz», sorrise
Juliet, sfilandosi le scarpe col tacco a spillo per poi sgranchirsi le dita
dei piedi. Ed era proprio la verità. Era soltanto la settima sera di Floz
a Blackberry Court, eppure sembrava che fosse lì da sempre.
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L’appartamento sembrava più accogliente, ed era piacevole tornare a
casa e trovare le luci accese, oltre alla compagnia e a simili odori.
«Pensavo che Guy fosse tornato e che ci avesse portato la cena»,
disse Juliet. Vide Floz scuotere brevemente la testa con disappunto
quando menzionò suo fratello, e si domandò perché sembrassero
provare una tale istantanea repulsione l’uno per l’altra. Non si aspettava che iniziassero a sbaciucchiarsi quando si sarebbero incontrati, ma non credeva neppure che il primo incontro li avrebbe segnati per il resto delle loro vite.
Quando Floz le aveva riferito che Guy era passato il lunedì sera,
non le aveva detto molto, oltre il fatto che lui si era dimenticato che
lei si era trasferita e perciò si era sentito in imbarazzo. No, lui non si
era presentato adeguatamente, in effetti era entrato e uscito nel giro
di un minuto. Sì, Floz aveva immaginato dalla sua corporatura e dal
suo aspetto che si trattasse del gemello di Juliet e non di un ladro
che casualmente aveva una chiave. Juliet notò come fosse sincopato
il tono di Floz mentre raccontava la vicenda. Per qualche ragione,
Guy non le aveva fatto una buona impressione. Juliet si chiedeva se
lui avesse fatto la sua espressione spaventosa alla Heathcliff quando
si erano incontrati.
Rimanendo fedele alla sua indole, Juliet chiamò Guy sul cellulare
e pretese di sapere il motivo per cui non le aveva detto che era passato e che aveva conosciuto la sua nuova coinquilina.
«Sono stato troppo impegnato!», rispose lui in modo brusco.
«Come mai? Dovevi aiutare Steve Feast con il suo stupido wrestling?», si indignò Juliet. Riserbava un tono di voce speciale per il
migliore amico di suo fratello, un tono di disdegno e antipatia, attenuato però da una lieve e invidiosa gratitudine per tutto quello che
aveva fatto per Guy durante il suo periodo buio.
«Comunque, che cosa ne pensi?», continuò Juliet.
«Riguardo a cosa?». Guy raggirò la domanda, visto che non desiderava essere costretto a emettere un verdetto.
«Floz. Che cosa ne pensi di lei?»
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«Non ho pensato nulla di lei», disse Guy. «Era mezza svestita
quando ho fatto irruzione, per cui le ho fatto le mie scuse e me ne
sono andato».
E si rifiutò di fornire ulteriori dettagli. Dalle sue parole, Juliet dedusse che neanche lui aveva avuto una buona impressione di Floz.
Era davvero un peccato perché il suo gemello era fin troppo carino
per stare da solo e avrebbe potuto essere bello per entrambi se ci
fosse stata un’attrazione reciproca. Guy era lo stesso ragazzo che
Juliet era solita picchiare con la sua Tiny Tears, la bambola che piangeva, e con cui litigava per avere lo stilofono che apparteneva a entrambi; eppure lei vinceva sempre, nonostante la differenza di
stazza, poiché impresso nel DNA di Guy c’era il motto che diceva: «Le
donne non si toccano nemmeno con un fiore».
C’erano così tanti imbecilli presuntuosi in giro per il mondo che
facevano perdere la testa alle ragazze con promesse false e frivole
(per non parlare degli uomini omosessuali, che Juliet conosceva
bene in quanto era stata testimone della disastrosa vita amorosa di
Coco), che Guy e la sua tranquilla e umile solidità venivano completamente ignorate. O meglio, con la sua altezza e il suo fisico non
poteva evitare di attirare una prima occhiata, tuttavia non riusciva
mai ad assicurarsi un secondo, e più accurato, sguardo.
Juliet fece saltare il tappo di una bottiglia di Cabernet Sauvignon
e versò tre generosi bicchieri.
«Tieni, smettila di lavorare e bevine un sorso», disse gettando
l’occhio oltre la spalla di Floz. «Che cosa stai scrivendo?»
«Dei biglietti sconci di San Valentino», rispose Floz. «Per la
Status Kwo».
«“Credo tu sia super-favolosa, ti adoro. Non vedo l’ora di baciarti.
E di spremere le tue bellissime XXX”», Coco lesse da sopra la spalla di
lei. «Che lavoro brillante che hai Floz».
«Non è esattamente Keats, vero?», disse Floz rispondendo al suo
sorriso.
«Con me funzionerebbe», rifletté Juliet. «Se fosse Piers
Winstanley-Black a mandarmelo, intendo».
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«Chi è Piers Winstanley-Black?», chiese Floz.
«Non le hai ancora parlato di PWB?». Coco simulò uno svenimento. «Devi essere l’unica persona al mondo a non conoscere il suo
nome».
«Ignoralo. Piers è semplicemente l’uomo più formidabile dell’universo», ribatté Juliet con un sospiro da ragazzina innamorata.
«Avvocato, trentanove fantastici anni, occhi del colore del mare
caraibico e labbra come cuscini rossi».
«Bleah!», fece Coco. «Stavi andando così bene finché non sei arrivata alla parte delle labbra, Ju».
«Celibe?», domandò Floz.
«Assolutamente sì», disse Juliet con veemenza. «Non provo desiderio per le proprietà già rivendicate. Non dopo quello che mi è
successo».
«Che cosa ti è successo, Juliet?»
«Non le hai parlato neanche di questo?», sbuffò Coco. Poi, sprofondò nella poltrona e si preparò per lo spettacolo.
«Da dove inizio?», rise Juliet, allungando una mano verso il cassetto dietro di lei per estrarre una scatola mezza mangiata di cioccolatini Thorntons, che tese poi a Floz. Anche in quello si compensavano: Juliet preferiva le praline, esattamente al contrario di
Floz. Non avevano nulla da invidiare a Bonnie e Clyde.
«Ebbene, sono stata sposata con Roger per sei anni», iniziò
Juliet. «Lo scorso luglio – due settimane dopo il nostro anniversario,
dopo che lui mi aveva scopata in ogni camera della nostra nuovissima casa con tre camere da letto – sono tornata a casa prima dal lavoro e ho scoperto che lui stava iniziando, piuttosto cortesemente, a
preparare una valigia per me».
Floz spalancò la bocca per lo stupore.
«A quanto pareva, il nostro matrimonio era finito. Ed era tutta
colpa mia». Ci fu una breve pausa, mentre Juliet prendeva un paio di
praline e la bocca di Floz si spalancava ancora di più. «Roger mi ha
spiegato che tutte quelle piccole cose di me che un tempo lo attraevano si erano trasformate in grossi problemi da cui era disgustato. A
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un certo punto avevo smesso di essere divertente ed ero diventata
chiassosa. Avevo cessato di essere provocante ed ero divenuta volgare. Non ero più una dea voluttuosa, bensì una vacca grassa. Era
questo il motivo, mi ha detto, per cui aveva una relazione con Hattie,
la mia migliore amica».
«La nostra migliore amica», rettificò Coco. «Andavamo tutti a
scuola insieme fin dai tempi dell’asilo. Non riuscivo a credere di non
essermene accorto. Di solito il mio intuito è affilato come la sciabola
di Sinbad il marinaio».
«Cribbio», disse Floz in mancanza di una parola più adeguata.
«Che cosa hai fatto?». Non si sarebbe aspettata che Hattie fosse rimasta la “migliore amica” dopo che Juliet aveva scoperto tutto.
«Gli ho lasciato dire la sua, ovviamente», bofonchiò Juliet alla
maniera di Fenella Fielding nel film Carry on Screaming. «Poi l’ho
preso per la collottola e ho cacciato lui e la valigia vuota fuori dalla
porta. Dopodiché ho gettato il contenuto del suo armadio fuori dalla
finestra della camera da letto in modo che lui potesse fare la sua valigia invece che la mia. Oh, subito dopo ho telefonato a uno degli
avvocati con cui lavoro».
Karren Brookside era una strega malvagia e spietata che veniva
direttamente dall’inferno. Non succhiava soltanto il sangue per le
sue clienti (esclusivamente donne), esigeva anche le vene, le arterie,
tutti gli organi interni ed entrambi i testicoli. Poi serviva il tutto su
piatti d’oro insieme a un ottimo Château Pétrus del 1945. In confronto a Karren Brookside, Hannibal Lecter era innocuo come Anna
dai capelli rossi.
«Le palle di Roger si trovavano nel suo portafogli, quindi quello
era il luogo migliore in cui colpirlo», disse Juliet, che sembrava divertirsi a raccontare la storia del proprio divorzio. «Mi ha supplicato
di riprenderlo, chiedendomi di perdonare e dimenticare tutto, soltanto un mese dopo le brutalità di Karren».
«Ma tu non l’hai fatto?»
«No, certo che no», rispose Juliet, sconvolta all’idea che Floz
avesse anche solo considerato che avrebbe potuto farlo. A differenza
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di suo fratello, Juliet aveva sempre avuto un grande senso di autostima, e chiunque avesse provato a maltrattarla avrebbe dovuto affrontare parecchie avversità.
In passato Juliet aveva commesso degli errori con gli uomini, ma
appena aveva capito di non essere in cima ai loro piani, aveva
sempre tagliato i ponti ed era scappata. Pete, il suo primo ragazzo,
era un tipo abbastanza carino; tuttavia, nel momento in cui lei comprese che la ragione di tutte quelle serate intime trascorse a casa era
da ricercare nel fatto che lui non voleva far vedere ai suoi amici che
stava uscendo con una ragazza piuttosto grassa, Pete faceva già parte
della storia. Poi fu il turno di Gary, che non si faceva mai vivo senza
portare dei cioccolatini e che spendeva una fortuna per portarla fuori
a mangiare, insistendo che lei prendesse il dolce. Pensava di aver
vinto la lotteria, poiché aveva trovato un uomo che celebrava le sue
curve con grande entusiasmo. Poi, scoprì il suo nascondiglio segreto
di videocassette americane: donne grosse come balene a cui
venivano date da mangiare delle torte alla panna, incapacitate a
muoversi e che dipendevano totalmente da chi le nutriva. Dopo
averla fatta finita con lui, le servirono settimane prima di riuscire a
guardare di nuovo in faccia un bignè.
«Che cosa ci racconti di te, Floz?», chiese Coco. «Com’è stata la
tua vita amorosa?».
Floz sembrava un po’ intimorita dalla luce dei riflettori puntata
addosso.
«Un paio di ragazzi durante l’adolescenza, ma niente di serio,
sono stata sposata per dieci anni con Chris. Ci siamo semplicemente
allontanati l’uno dall’altra e abbiamo divorziato tre anni fa».
Il suo racconto era piuttosto noioso, pensarono sia Juliet che
Coco, che speravano in uno scambio di informazioni più equo. Coco
fece pressione per estrapolare qualcosa in più.
«Com’è successo che vi siete allontanati?»
«Non lo so. Ci siamo semplicemente disamorati». Floz scrollò
timidamente le spalle.
«Nessun altro da allora?», la spronò Juliet.
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«Nessuno», rispose Floz troppo in fretta. «Che cosa mi dici di te?
Qualcuno dopo Roger?»
«No», disse Juliet con tono monotono. «No, nessuno dopo lui. Mi
tengo libera per Piers Winstanley-Black. Ma un anno è lungo senza
fare sesso. Se mai finiremo insieme, scoprirà che la mia patatina è
piena di ragnatele», ridacchiò, provocando dei gridolini di disgusto
in Coco. «Non so come tu abbia fatto a sopportare tre anni di astinenza, Floz».
«Il mio massimo è stato un mese», disse Coco. «Ed è stato sufficientemente tremendo».
«Qual è la tua storia, Coco?», chiese Floz. «È questo il tuo vero
nome?»
«Adesso sì», annuì lui. «Glielo puoi dire se vuoi, Ju».
Coco si coprì le orecchie mentre Juliet si piegava in avanti verso
Floz e le sussurrava: «Il suo vero nome è Raymond, ma lui lo odia.
Bisogna rivolgersi a lui solamente chiamandolo Coco».
«Ah, capisco», disse Floz, che non riusciva a pensare a nessuno
che assomigliasse meno di lui a un Raymond. Forse era perché uno
dei presidi che aveva avuto a scuola si chiamava così, e si trattava di
un uomo enorme e piazzato che giocava a rugby e parlava con la voce
di Lee Marvin. «Hai scelto questo nome perché hai gli occhi del
colore del cacao?»
«Floz, sono innamorato di te», disse Coco, battendo le mani dalla
gioia. «Che cosa adorabile da dire».
«No, è perché vuole essere come Coco Chanel», disse Juliet. «Il
suo negozio è sommerso di sue foto. Inoltre, adora i suoi profumi».
«Comunque, ritorniamo alla mia orribile vita amorosa». Coco estrasse un fazzoletto da una confezione lì vicina.
«Si innamora in un batter d’occhio. E sempre di bastardi disfunzionali», si intromise Juliet. «Non riuscirebbe a scegliere un uomo
degno neanche se gli atterrasse in grembo con una raccomandazione
da parte di Dio in persona».
«Non so cosa sia successo con Darren», disse Coco. «Un minuto
prima tutto va bene, e quello dopo non risponde né ai messaggi né
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alle telefonate. È semplicemente sparito. Nessuna spiegazione, nessun addio, niente». I suoi occhi si riempirono di lucciconi.
«Il silenzio è un’arma crudele da usare», disse Floz con
gentilezza.
«Lo so», concordò Juliet. «Non avere la decenza di dire a qualcuno “abbiamo chiuso” è da crudeli smidollati. E Darren avrebbe
dovuto sapere che Coco si sarebbe fatto in quattro pur di scoprire la
ragione dietro all’accaduto. Non che gli importasse abbastanza da
evitargli tutto ciò».
«Te lo avranno già detto, però meriti molto di più del genere di
trattamento che ti ha riservato lui». La voce di Floz era dolce e gentile. «Non è rispettoso. Vuoi davvero un uomo che ti tratti con così
poca premura?»
«Lo so», disse Coco, tamponandosi gli occhi. «Almeno la mia
testa lo sa, il mio cuore deve ancora mettersi al passo. Ovviamente,
potrebbe soltanto essersi preso un po’ di tempo per riordinare i suoi
sentimenti. Gli uomini sono come degli elastici, a quanto pare…».
«Coco, quale scusa potrebbe mai avere? A meno che non si tratti
di un operatore umanitario impegnato in missioni di vitale importanza, un nuovo Terry Waite per intenderci, e che dei terroristi internazionali non gli abbiano legato entrambe le mani a un termosifone, non c’è assolutamente nessuna scusa per questo genere di comportamento schifoso», disse Juliet, un po’ spazientita dal fatto che
troppe volte avessero già sostenuto quella conversazione. «Non riesco proprio a capire perché lo rivorresti indietro. Se avesse la faccia
tosta di rispuntare nella tua vita, io gli direi di andare a f…».
Coco si tappò le orecchie con le mani mentre Juliet si lanciava in
una discussione.
«Il chiarimento alla fine di una storia è fondamentale per andare
avanti», disse Floz compensando con il suo punto di vista più indulgente la sfuriata di Juliet alla Ian Paisley, il politico nordirlandese.
«È dura quando non riesci a ottenerlo».
«Coco, te l’ho già detto: se non ti concedono un chiarimento, devi
riuscire a metterti il cuore in pace da solo. Il suo silenzio infame e
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bastardo costituisce di per sé tutto il chiarimento di cui hai
bisogno».
Consapevole che le sue parole fossero dure, Juliet mise un braccio
intorno a Coco e lo tirò verso la sua spalla. «Floz ha ragione, meriti
molto di più. E l’uomo dei tuoi sogni è là fuori da qualche parte con il
tuo nome tatuato sul culo».
A quella battuta Coco ridacchiò e piagnucolò allo stesso tempo.
«Almeno non era un pervertito come il suo predecessore». Juliet
fece l’occhiolino a Floz. Sapeva che raccontare proprio quella storia
sarebbe servito a tirare Coco su di morale.
«Rappresentante di profumi. Mi ha corteggiato, si è trasferito da
me e poi ha deciso che non era certo di essere completamente gay.
Voleva andare a letto con una donna per capire se gli sarebbe
piaciuto. La gente riesce a essere davvero dannatamente rivoltante»,
ringhiò Coco a denti stretti.
Floz ridacchiò nel vedere Coco che rabbrividiva al pensiero di una
tale perversione.
«Credo che a tutti noi serva un ragazzo onesto», disse Juliet, ricordandosi poi della recente idea di Coco. «Sììì, certamente! Registriamoci a quel sito e troviamo qualche bel fusto. Alla nostra età sono
rari come lo sterco di un cavallo a dondolo». Prese il suo computer
portatile, lo aprì ed effettuò l’accesso.
«Prova singlebods.com», cinguettò Coco. «È quello che usava
Marlene. Ha detto che è il migliore al momento».
«Quindi non ti piace Steve, l’amico di tuo fratello?», chiese Floz a
Juliet.
«Steve Feast? Starai scherzando», Juliet rise sonoramente. «È un
vero e proprio deficiente. Lo è sempre stato».
«Anche lui veniva a scuola con noi», spiegò Coco. «Le tirava
sempre le trecce, oppure scappava con il suo cappello per farsi inseguire da lei».
«E crescendo è diventato ancora più infantile», continuò Juliet,
tornando a riempire i bicchieri di vino. «Più di una volta l’ho visto
nei pub mentre sollevava due donne alla volta sulle spalle per dare
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prova di quanto fosse forte o per mettere in mostra i muscoli, dato
che indossava una maglietta senza maniche».
«Alla fine è un tipo a posto, davvero».
«No, non lo è, Coco. È un grande marpione. Sempre pronto a inseguire le donne, ma nessuna di loro rimane a lungo al suo fianco; il
che dovrebbe farti capire qualcosa».
«È stato veramente un buon amico per Guy», aggiunse Coco; poi
dallo sguardo che gli lanciò Juliet capì che non avrebbe dovuto dirlo.
«Ops». Si mise le dita davanti alle labbra.
Floz si chiese che cosa avesse detto Coco di così sbagliato, ma
aveva il sentore che avrebbe fatto meglio a non domandarlo.
Juliet tornò a focalizzare la sua attenzione sull’obiettivo a portata
di mano: «Bene. Ci siamo, inizia tu, Floz».
«Neanche per sogno», disse Floz. Il tono della sua voce era tanto
risoluto quanto le permettevano le sue corde vocali. «Non voglio trovare degli appuntamenti su internet».
Ma Juliet non la stava ad ascoltare. Aveva una missione. «Che aspetto ha il tuo uomo ideale?», le chiese.
«Davvero, non mi interessa…».
«Oh, coraggio», intervenne Coco, esaltato come una scimmia,
mentre batteva le mani con entusiasmo. «Sarà uno spasso, soprattutto se lo facciamo insieme. Inseriamo i tuoi dati per primi».
«Non sono minimamente interessata». Floz era irremovibile.
Juliet, d’altro canto, aveva qualche problema ad accettare la parola
“no”. Provò un approccio diverso per persuadere Floz a unirsi a loro.
«D’accordo, allora assecondami. Se ti andasse di farlo, che aspetto avrebbe il tuo lui? Giuro che non farò nulla con le informazioni
che ci darai. Sono soltanto curiosa».
«Prometti?»
«Prometto».
«Allora, va bene». Floz provò a rifletterci. Se doveva immaginarsi
il suo uomo ideale, si sarebbe ritrovata a descrivere Guy. Lo stesso
Guy che ovviamente la odiava talmente tanto che al solo vederla indietreggiava come Dracula davanti a Van Helsing. Quindi mentì, e
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descrisse tutto ciò che non corrispondeva al maledetto Guy Miller.
«Non troppo alto, capelli biondi… occhi marroni».
«Abbigliamento?»
«Un completo elegante».
«Lavoro?»
«Qualcosa in un ufficio, credo».
«Oh, per piacere, fallo con noi», implorò Coco. «Sarà veramente
uno spasso».
«No», disse Floz con una punta di acciaio nella voce. «Ma se voi
due siete decisi, allora ascoltate il mio consiglio: state attenti. Non
scegliete un uomo che vive troppo lontano per incontrarvi, e quando
sentite che c’è sintonia con qualcuno, fissate un appuntamento il
prima possibile, se non volete rischiare di invaghirvi di una persona
che non è veramente come si descrive. Incontrarlo è l’unico modo
per stabilire se vi piacete davvero o no».
«Oooh, sembra tu stia parlando per esperienza personale, Floz»,
disse Juliet mentre stringeva gli occhi sospettosa.
«No», replicò Floz. «Lo dico perché ho letto molti articoli sulle
riviste, perché guardo spesso Jeremy Kyle e per via di un sano e vecchio buonsenso. State molto, ma molto attenti».
Quella stessa sera, Floz restò distesa nel letto senza riuscire a
dormire poiché qualcosa dentro di lei si era risvegliato. Sentimenti
che aveva represso tanto a lungo erano rispuntati come un pupazzo a
molla fuggiasco che all’improvviso risalta fuori dalla sua scatola e
non vuole più tornare dentro. Ed era tutta colpa del fratello di Juliet.
Non riusciva a spiegarsi perché l’avesse turbata così tanto né perché
la ferisse che lui se ne fosse andato in quel modo. Come osava farla
sentire così male? Passava dal dolore alla rabbia, ed entrambe le
emozioni le impedivano di addormentarsi. Era tanto tempo che non
le piaceva nessuno, in effetti si era chiesta se sarebbe mai più successo. Poi, Guy Miller era entrato maestosamente nella sua vita e le
aveva fatto capire che il suo cuore era più che capace di andare su di
giri e di risvegliarsi, provando interesse per qualcuno. Il problema
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era che quando un cuore si esponeva, la vulnerabilità era la prima
cosa che ci si precipitava dentro.
L’episodio con Guy Miller, unito al suo incarico per San
Valentino, aveva rivangato dei ricordi ancora più profondi e pericolosi. Il ricordo di Nick Vermeer era tornato a incombere in maniera
minacciosa e fervida nella sua mente e non dava segno di volersi
acquietare.
Due anni e mezzo prima, si era iscritta a languagepals.com, solamente per dare una rinfrescata alle sue competenze scritte di tedesco
e per passare le serate solitarie dopo il suo divorzio. Non stava cercando una storia romantica, e in ogni caso non l’avrebbe cercata su
internet, quell’infame parco giochi per ciarlatani e ladri d’amore.
Nick Vermeer si era messo in contatto con lei dal Canada, offrendole
il suo aiuto.
A parte il tedesco, fu subito chiaro che non avevano nulla in
comune. Lui andava a caccia, possedeva delle pistole e amava pescare, mentre lei non sapeva distinguere un’estremità della canna da
pesca dall’altra. «Ti insegnerò io», le aveva promesso. Lui amava i
grandi spazi aperti, mentre la visione che Floz aveva dell’inferno corrispondeva a un luogo pieno di attrezzature da campeggio. Ciononostante, si era ritrovata a scrivergli per ore e a chattare con lui, poi,
dopo quattro mesi, lui l’aveva chiamata. Lei era rimasta inebriata a
lungo dopo aver sentito la sua voce, che era esattamente come si aspettava che fosse: una parlata lenta, dolce e mascolina, sicura di sé,
arguta e molto, ma molto seducente.
Lui le spediva lettere e bigliettini. Lei ricambiava, inviando le proprie lettere a una casella postale, poiché lui era in procinto di
vendere la sua casa a Osoyoos, una baita di tronchi sul limitare di un
bosco. Dalle fotografie dell’esterno che le aveva inviato, Floz era
certa che all’interno ci fossero mobili ricoperti di pelliccia e che ogni
notte un fuoco crepitasse nel caminetto.
Poi Nick pianificò di andare a trovarla, perché il loro legame era
qualcosa di pazzesco, che gli aveva fatto perdere la testa e doveva
scoprire se in carne e ossa avrebbero avuto la stessa sintonia che
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c’era nelle loro lettere e nelle loro conversazioni telefoniche. Non
c’era mai stato nessun accenno a oscenità gratuite nelle sue parole
(era un perfetto gentiluomo), anche se traboccavano di appassionate
promesse.
Floz aveva iniziato a documentarsi su dove portarlo quando
sarebbe venuto. Al telefono, parlavano con entusiasmo dei ristoranti
carini in cui avrebbero mangiato, di una gita a Londra per vedere
uno spettacolo e delle escursioni in macchina che avrebbero fatto per
le campagne. Se tutto andava bene, diceva che avrebbe portato Floz
in Canada in autunno, poiché sosteneva che se l’avesse visitata in
quella stagione non se ne sarebbe mai più andata. Poi,
all’improvviso, appena dopo il giorno di San Valentino dell’anno precedente, tutti i contatti con lui erano cessati. Floz si era sentita in
lutto. Aveva controllato i siti dei quotidiani canadesi per vedere se
era stato ferito o ucciso, perché senza dubbio doveva esserci stato un
grave motivo per non essersi più fatto vivo, ma non trovò nulla. E poi
scoprì che il suo profilo era stato cancellato da languagepals.com.
Sì, sapeva esattamente che cosa stava passando il povero Coco.
Anche in quel momento, dopo tutto quel tempo, le lacrime
sfioravano la superficie in cerca di consolazione ogni volta che
pensava a Nick Vermeer. Avevano avuto un rapporto intenso per un
anno, e le doleva ancora ripensare al fatto che fosse completamente
sparito dalla sua vita. La sua scomparsa era stata per lei come un
lutto.
Capitolo nove
Guy sorseggiava la sua seconda pinta di birra nel pub Lamp. Il
suo corpo era seduto di fronte a Steve, ma la sua mente era altrove.
«Sei proprio di compagnia questa sera, tenendo conto che è la tua
serata libera», disse Steve scolandosi la birra e urtando il bicchiere
dell’amico con il proprio. «Un’altra?»
«Sì, fai pure», sospirò Guy. Era meglio restare lì con Steve piuttosto che ritornare a Maltstone nel suo appartamento vuoto, adiacente alla casa di famiglia. Per lui l’abitazione di Rosehip Gardens
non era mai stata niente di più che un nascondiglio, un luogo dove
appoggiare la testa, nonostante il fatto che, ripensandoci bene, erano
ormai troppi anni che “appoggiava la testa” in quel posto. Fino a quel
momento, il matrimonio e il cosiddetto tetto coniugale lo avevano
evitato. Ciò che era successo con Lacey, dieci anni prima, l’aveva segnato per il resto della sua vita. Non voleva riavvicinarsi di nuovo a
una donna e rischiare di esporsi a tutto quel dolore, alla confusione e
all’invalidante senso di colpa.
E invece aveva incontrato Floz Cherrydale.
In qualche modo, la combinazione di quella ridicola vestaglia, dei
grandi occhi lacrimosi e di quella nuvola profumata di fragole che la
avvolgeva gli aveva provocato un’esplosione primitiva all’interno del
torace, che aveva inviato una scarica a tutti i neuroni e i vasi sanguigni del suo corpo. Era rimasto strabiliato ed era stato spinto in
una buca talmente profonda da dubitare che sarebbe mai stato in
grado di uscirne.
Aveva ripetuto quella scena nella sua mente così tante volte, che
se si fosse trattato di una videocassetta il nastro si sarebbe rovinato
per l’usura. Il suo cuore palpitava come un sacchetto pieno di falene,
mentre lui tornava a rabbrividire al ricordo di se stesso nell’atto di
urtare contro il tavolino per poi disseminare ogni cosa sul pavimento. Non si era neanche fermato per aiutarla a mettere in ordine.
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Scacciò quel ricordo con una scrollata di spalle, intanto che Steve
tornava con due pinte.
«Dovresti chiederle di uscire», disse.
«A chi?», chiese Guy in tutta innocenza.
«Sai di chi parlo, rimbambito», gli rimproverò Steve. A dire il
vero, era piuttosto eccitato all’idea che a Guy piacesse qualcuno. Cercava in continuazione di convincerlo a uscire con Gina, che sbavava
letteralmente come un segugio davanti a un osso ogni volta che Guy
era nei paraggi. Ma poiché lo conosceva da una vita, Steve era fin
troppo consapevole del fatto che Guy fosse un uomo onesto. Non
sarebbe uscito con una ragazza che non gli piaceva. Non lo aveva mai
fatto, neanche quando durante l’adolescenza avevano gli ormoni in
subbuglio. Per lui, sesso e sentimenti erano due aspetti interconnessi. Ma quella era una notizia incoraggiante. Guy aveva visto
quella donna una volta soltanto e ne era già preso. L’amore era una
belva curiosa, Steve doveva ammetterlo. D’altronde, era probabile
che fosse quello il motivo per cui lui stesso si era innamorato allo
stesso tempo di due donne molto diverse, nessuna delle quali si
sarebbe mai accorta della sua esistenza.
«So a cosa stai pensando», continuò Guy. «Pensi che mi piaccia
perché il mio primo pensiero è stato che assomigliava a Lacey Robinson. Ebbene, non è così, perché non le assomiglia».
«Non stavo pensando a nulla del genere, in realtà», si difese
Steve. «Stavo invece riflettendo sul fatto che Lacey Robinson non
dovrebbe proprio più essere nella tua mente. Ha già combinato
troppi casini».
«È piccola come Lacey, ma la somiglianza finisce lì».
«Bene. Perché una Lacey Robinson è sufficiente per tutta la vita».
«Non iniziare», disse Guy a voce bassa. «Era un’anima in pena».
«So che cosa era». Steve sapeva che Guy non avrebbe mai parlato
male di Lacey Robinson, perché non era mai riuscito a liberarsi dal
senso di colpa per non essere stato in grado di salvarla da se stessa.
Per Guy, Lacey Robinson sarebbe sempre stata una donna vulnerabile il cui cuore era stato spezzato troppe volte, anche se lei non era
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mai riuscita a sopportare il dolore. Per Steve, Lacey Robinson era
l’equivalente di un’attentatrice suicida. Non le interessava quante
persone avrebbe fatto affondare insieme a lei quando spingeva il bottone dell’autodistruzione.
«Ho fatto veramente una figura del cavolo davanti a Floz». Guy si
prese la testa fra le mani.
«Devi tornare all’appartamento e comportarti in modo normale,
senza inciampare sui mobili per poi fuggire», gli suggerì Steve. «Le
hai fatto di sicuro una cattiva prima impressione, per cui devi rimediare con la seconda».
«Sì, questo lo capisco», disse Guy. «Non so che cosa mi sia successo. Non è per niente il mio genere di donna. Ma è stato come…».
Scosse la testa, perché quello che aveva detto sembrava insensato.
«Un fulmine?», suggerì Steve. Sapeva tutto sui fulmini. Era stato
colpito da uno molto grande ai tempi della scuola elementare. Ne avvertita ancora l’eco.
«Sì», annuì Guy. «Non ho mai sperimentato nulla del genere
prima d’ora. Pensavo che la gente che sosteneva di essersi innamorata a prima vista stesse soltanto sparando un mucchio di balle. Ma è
esattamente come mi sono sentito: amore a prima vista. Almeno per
me. Non sono affatto sicuro che per Floz sia stata la stessa cosa».
La mente di Steve iniziò a ronzare.
«La tua Juliet continuava a blaterare di quella macchia di umidità
sulla parete della cucina. Verrò con te all’appartamento. Daremo
un’occhiata per capire se è il caso di dare una passata di intonaco. Mi
sembra una ragione plausibile per cui chiamarle».
Guy pensò che sembrasse alquanto forzato, ma Steve era lanciato.
«Sì, faremo così. Se diciamo loro che passeremo domani verso l’ora
del tè, potrebbero chiederci di restare a mangiare qualcosa, così tu
puoi fare una bella chiacchierata con lei, sfoggiando il tuo fascino e
la tua arguzia. E i muscoli. Come farà Floz a resisterti?»
«Non devi rivelare a Juliet il vero motivo per cui andiamo da
loro», lo avvertì Guy.
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«Certo che no». Steve esibì un ampio sorriso, compiaciuto per il
suo piano. Ed era molto bravo a mantenere i segreti. L’unica cosa
che Steve non aveva mai detto a Guy era che, fin dai tempi delle elementari, si era preso una cotta tremenda per Juliet Miller.
Capitolo dieci
Il mattino seguente, Floz passò qualche minuto a guardare, in
tutta tranquillità, fuori dalla finestra che si affacciava sui giardini
comunali, mentre beveva il suo secondo caffè. Era una bellissima
giornata di metà agosto, il cielo era di un azzurro intenso e il sole
giallo stava alto nel cielo come fosse una goccia dilimone.
Tuttavia, c’erano alcune foglie ingiallite sugli alberi, in procinto di
cadere, e delle chiazze marroni in mezzo al verde. Evidentemente,
l’estate era agli sgoccioli.
Il suo primo compito della giornata fu inviare per e-mail i biglietti
sconci di San Valentino a Lee Status, che le telefonò pochi minuti
dopo averli ricevuti.
«Grazie per i biglietti di San Valentino, bambola. Ora ho un fantastico lavoro urgente per te!».
«Dimmi tutto», disse Floz, che sperava si trattasse di qualcosa di
carino e divertente, dato che aveva terribilmente bisogno di un po’ di
sollievo dopo la tremenda nottata che aveva trascorso. Aveva
sognato che Nick era ricomparso nella sua vita e doveva essersi sentita veramente euforica nel sogno, perché non appena si era svegliata
e aveva capito che si trattava soltanto di un sogno si era sentita
affranta.
«Biglietti d’auguri per i malati terminali», disse Lee. «“Mi dispiace che tu stia morendo”, e via discorrendo».
Floz farfugliò in cerca di una risposta, prima di riuscire a trovare
la voce. «Starai scherzando! Chi vorrebbe ricevere un bigliettino che
dice: “Mi dispiace che tu stia morendo”?».
Lee la ignorò e proseguì: «Puoi davvero scatenare la tua vena poetica. Non menzionare nessuna malattia in particolare, ovviamente,
soltanto dei bellissimi e calorosi versi, del tipo: “Ti auguro forza e un
angelo custode” e altre cagate del genere».
«Lee, parli sul serio?»
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«Assolutamente sì», disse Lee, con una traccia di allegria nella
voce. «Il fatturato della nostra serie dal titolo “Ci incontreremo
ancora” è salito alle stelle. Mandare un bigliettino ai parenti morti è
la nuova moda. La morte è il futuro. Credo dipenda dalla popolarità
di tutti questi film di fantascienza».
Floz aveva scritto tanti versi per i biglietti plastificati e impermeabili della serie “Ci incontreremo ancora”, che erano ideati appositamente per essere lasciati sulle tombe.
«C’è differenza tra una poesia affettuosa per un amato defunto e
quest’altra nuova serie. Ad esempio, che titolo le darai tanto per
cominciare?»
«Non lo so», rifletté Lee. «“La porta della morte”? Forse è un po’
troppo crudo. Lo so, lo so! Che cosa ne dici di “Aspettando Dio”?
Però, questo titolo potrebbe escludere gli atei. Uhm… Comunque, il
titolo per la serie può aspettare. Se te ne viene in mente uno te lo
pagherò».
«D’accordo», sospirò Floz. Un lavoro era un lavoro, sia che si trattasse di scrivere biglietti per i vivi, che per i defunti o i morenti.
Le occorsero più o meno due ore per scrivere la prima poesia ed
esserne soddisfatta. Poi, pensò a quello stesso bigliettino esposto in
una cartoleria, alla tristezza di qualcuno che avrebbe potuto comprarlo, all’angoscia della persona che l’avrebbe potuto ricevere. Non
era per niente un lavoro che le si addiceva, per quanto le servissero i
soldi.
Appena prima di fermarsi per pranzo, Floz aggiornò il suo sito internet. Non aveva molte visite, ma era uno strumento utile per farsi
pubblicità. Gibby, il ragazzo che l’aveva creato per lei, aveva incluso
una pagina per lasciare i commenti. A volte capitava che ricevesse
delle e-mail spazzatura che non avevano alcun senso, oltre agli occasionali annunci che circolavano in rete e che le chiedevano se voleva
collegarsi a un blog di casalinghe seducenti della sua zona, o se desiderava ottenere un pene più grande. Ma l’e-mail che trovò quel
giorno sul suo sito non era la solita spazzatura. Era inviata da un
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anonimo e diceva semplicemente: «Sono felice che stai bene,
Cherrylips».
Avrebbe potuto essere una coincidenza, ma lei non pensava che
fosse quello il caso. C’era soltanto una persona che l’aveva mai
chiamata “Cherrylips”. Floz continuò a scrivere le poesie, ma per
tutto il resto della giornata, si chiese se quella e-mail gliel’avesse
mandata lui. Di certo non le avrebbe riscritto dopo un anno e mezzo.
Ma chi altri poteva essere? Si chiese se magari, pensando a lui,
avesse rilasciato un qualche tipo di richiamo nel cosmo, a cui Nick
aveva risposto. C’erano molte persone nel mondo che non avrebbero
definito spazzatura quella sua teoria.
Juliet le telefonò mentre Floz rifletteva mangiando un panino.
«Che cosa stai facendo?», tuonò la voce di Juliet. «Va bene per te
se Guy fa un salto da noi più tardi? Insieme a Steve». Nel pronunciare quell’ultimo nome, il disprezzo tornò a insinuarsi nella sua
voce.
Mentre Juliet provava disdegno pensando al secondo nome, Floz
si agitò per il primo. Cercò di sembrare indifferente alla prospettiva
di vedere di nuovo Guy Miller.
«Certo», disse Floz, con un tono freddo come un cetriolo conservato nel congelatore per tutta la notte. «A che ora vengono?»
«Ho detto loro alle sei, se per te va bene», rispose Juliet.
Floz guardò l’orologio: aveva cinque ore per ottenere l’aspetto di
una persona che non ha fatto nessuno sforzo per prepararsi.
«Certo», ripeté, pensando che aveva bisogno di trovare un’altra
parola che la facesse sembrare sicura di sé.
«Ordineremo il riso al curry a domicilio», le riferì Juliet.
«Posso preparare un po’ di pasta», suggerì in fretta Floz. «Niente
di speciale».
«Oooh, sarebbe fantastico», disse Juliet, che preferiva di gran
lunga un pasto preparato in casa al cibo da asporto. «Non stare a impazzire, però; si tratta soltanto di Guy e Steve».
«Non ti piace molto Steve, vero?», disse Floz.
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«No», rispose Juliet. «E fai attenzione, Floz, perché è un vero e
proprio donnaiolo. Però, è anche un imbianchino maledettamente
bravo e ho bisogno di lui per sistemare la parete della cucina».
Floz si chiese per quale ragione, allora, dovesse venire anche Guy.
Non servivano due persone per sistemare una macchia sulla parete.
Dopo la loro brusca presentazione, credeva che l’appartamento fosse
l’ultimo posto dove lui sarebbe voluto andare senza una valida ragione. Diede voce al suo dubbio.
«Per quale motivo… tuo fratello viene con lui?»
«Perché quei due sono culo e camicia», rispose Juliet. «Passo a
prendere un po’ di vino prima di tornare a casa. Ciao, tesoro», dopodiché riagganciò.
Capitolo undici
Floz si fiondò al supermercato e, in fretta e furia, comprò della
farina per la macchina del pane, della pasta fresca, un pollo già cotto
e ogni genere di verdure che si potesse condire con una salsa di vino
bianco. Per il dessert si buttò sul semplice: lamponi eccessivamente
costosi, panna e meringhe per preparare l’Eton Mess, il tradizionale
dolce inglese. Al quale avrebbe però aggiunto una chicca: un pizzico
di Pernod proveniente dall’eccentrica scorta di liquori e spiriti di
Juliet. La maggior parte della scorta era composta da indesiderati regali aziendali, un’altra parte era invece da imputare al fatto che a
Juliet piacesse vedere delle bottiglie bizzarre e stravaganti con dei
contenuti colorati e non riusciva mai a fare a meno di comprare l’ultima novità al supermercato o di acquistarne alcune quando andava
in vacanza.
Dopo che tutta la spesa fu riposta nella dispensa, Floz si precipitò
a fare il giro della casa con l’aspirapolvere, e subito dopo scivolò
nella vasca da bagno per immergersi in una qualche sostanza profumata e lavarsi i capelli. Scegliere cosa mettersi equivaleva a trovarsi
in un campo minato. Un vestito svolazzante comunicava che si era
impegnata troppo, i suoi vecchi jeans e una maglietta indicavano invece che ci aveva messo troppo poco impegno. Dopo aver provato e
scartato metà del suo guardaroba, optò per una maglietta blu in stile
hippy e dei jeans azzurri, in coordinato con una collana con ciondolo
blu a forma di cuore. Dopodiché si mise il grembiule e cominciò a
preparare la cena.
Floz pensò di aver indovinato il giusto equilibrio per il suo abbigliamento, finché Juliet non arrivò a casa e disse immediatamente:
«Oooh, come sei carina! Ma non c’era bisogno che ti mettessi in ghingheri per quei due, sai?»
«Oh, non mi sono messa in ghingheri», protestò Floz. «Io…
ehm… mi sono rovesciata addosso del caffè prima, per cui mi sono
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cambiata la maglia». Aveva tutta l’aria di sembrare una bugia e Floz
rabbrividì, ma Juliet non sembrò notarlo. Era troppo impegnata a
inspirare a pieni polmoni l’aroma del sugo della pasta, facendo dei
profondi respiri.
«Ha un odore delizioso», commentò. «Sei una brava cuoca, vero?
Scommetto che farai addirittura una buona impressione su Guy».
«Quindi Guy è una buona forchetta?», chiese Floz.
«È capocuoco, non te l’avevo detto?», gridò Juliet, mentre si dirigeva nella sua camera da letto per togliersi gli abiti da lavoro.
“Merda, merda, merda”, pensò Floz. Sapeva che lavorava in un
ristorante, ma per qualche ragione si era messa in testa che fosse un
cameriere a cui ogni tanto piaceva cucinare, non un cuoco professionista. E non si trattava soltanto di un professionista, era addirittura capocuoco! Che disastro! Se fosse rimasto per più di trenta
secondi in sua presenza, questa volta senza darsela a gambe, avrebbe
sicuramente criticato il piatto di pasta da dilettante che lei aveva cucinato o, peggio, avrebbe vomitato. Avrebbe fatto meglio ad aggiungere un po’ di odori per arricchire il sapore? Santo cielo, non era
affatto una cuoca sicura di sé. Perché aveva aperto quella sua boccaccia offrendosi di preparare la cena? Avrebbero potuto ordinare il riso
al curry, come Juliet aveva suggerito.
La macchina del pane suonò per indicare la fine del suo ciclo. Floz
sbirciò, preparandosi a vedere uno stramaledetto disastro, invece
non fu così: il pane aveva una bella crosta e un odore divino. Occorreva soltanto dargli una spruzzata con un po’ di acqua salata, cospargerlo di semi di papavero e di sesamo e riporlo per una quindicina di
minuti nel forno preriscaldato. Si diede da fare con il pane, mentre
sentiva Juliet cantare Get this party started da dietro la porta della
sua camera.
Un uccellino a cucù scattò fuori dall’orologio appeso alla parete
annunciando che erano le sei in punto. Floz si sentiva stupidamente
nervosa. Per poco non fece cadere il pane, mentre il citofono iniziava
a suonare, segnalando che gli ospiti erano arrivati.
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«Li fai entrare tu, Floz?», disse Juliet dal bagno. Floz fece finta di
non aver sentito. Non voleva essere lasciata da sola con Steve, che
non aveva ancora conosciuto, e Guy, che aveva conosciuto e
spaventato a morte. Il citofono suonò di nuovo, e Juliet emerse dal
bagno proprio mentre Floz stava attraversando la stanza per andare
a rispondere.
«Vado io, non preoccuparti», disse Juliet, alzando la cornetta.
«Sì, salite», disse, mostrando una disinvolta familiarità.
Fuori dalla porta, Steve minacciò Guy agitando un dito: «Ora ricordati, devi essere gentile e sorridente e non darle l’impressione di
essere terrorizzato da lei».
Guy stava fremendo. Neanche lo spaventoso Alberto Masserati lo
impauriva sul ring, eppure la prospettiva di vedere ancora Floz gli
faceva vacillare le ginocchia. La porta si aprì con un lieve rumore
metallico e Steve la spinse. Non lasciò intendere a Guy quanto anche
lui fosse emozionato all’idea di vedere la sensuale Juliet. Anche dopo
tutti quegli anni, tremava ancora come una gelatina in sua presenza,
nonostante lo celasse dietro un’insolente messinscena di spavalderia
che lei aveva finito per fraintendere.
Steve entrò nell’appartamento per primo con disinvoltura e il suo
solito passo arrogante. Andò diretto da Juliet, mentre un lato del suo
labbro superiore si alzava come quello di Elvis Presley.
«Come va, Jules?», le disse. «Come stanno le tue tettine?»
«Ciao, Steve», ribatté Juliet in tono piatto, per niente impressionata dalla sua entrata irriverente. «Vieni a conoscere Floz. Floz,
questo è Steve, Steve questa è Floz».
«Oh, ciao Floz», disse Steve, porgendo la sua manaccia enorme.
«Ho sentito parlare molto di te».
«Davvero?», chiese subito Juliet.
Primo errore. Guy avrebbe potuto ucciderlo. Per fortuna quel
giorno Steve aveva la mente pronta.
«Be’, no… ehm… in fin dei conti, non è così che si dice?»
«Nel tuo caso probabilmente sì», sbuffò Juliet. Santo cielo, era
davvero un idiota. Bello, ma un idiota totale. Lo era sempre stato.
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Anche alle elementari. Era talmente pieno di sé che sarebbe potuto
esplodere.
Guy entrò nella stanza a qualche passo di distanza da Steve.
«Voi due vi siete già incontrati, vero?», disse Juliet. Guy annuì in
direzione di Floz, tutte le parole gli si erano bloccate in gola, incollate a un fascio di nervi che non riusciva a oltrepassare la laringe.
Come conseguenza, non riuscì a proferire la divertente e spiritosa
battuta che si era esercitato a ripetere nel suo appartamento: «Ciao
di nuovo, Floz. Non ti avevo riconosciuto con i vestiti addosso, ah
ah!». Invece, tutto ciò che riuscì a fare fu annuire lanciandole uno
sguardo torvo. E sfoggiando la sua espressione da Heathcliff.
E Floz, che si aspettava che avrebbe fatto almeno uno sforzo rivolgendole un “Ciao” e sorridendole, si irritò al punto da limitarsi a
rispondergli, a sua volta, con un cenno del capo. Non aveva alcuna
intenzione di esporsi in modo che lui potesse poi respingerla.
«Mmh, sento odore di cibo», disse Steve sfoderando un ampio
sorriso. «Ottimo, perché sto morendo di fame. Fammi vedere dove si
trova questa macchia di umidità, Ju.». Disse quelle parole in modo
da farle risultare sconce, come se la macchia di umidità si trovasse
nelle mutande di Juliet e non sulla parete. Juliet non si aspettava
nulla di diverso da lui, ma non avrebbe mai immaginato, neanche in
un milione di anni, che il suo umorismo fosse fomentato dalla tensione che derivava dal trovarsi in sua presenza.
«Ti dispiacerebbe aprire le bottiglie, Floz?», le chiese Juliet, lasciandola sola nella stessa stanza con suo fratello. Erano entrambi a
proprio agio come un cobra con una mangusta. Floz fu grata di avere
qualcosa da fare, ovvero stappare il Cabernet Sauvignon e il Pinot
Grigio. Disgraziatamente, il tappo sembrava essere stato in ammollo
nel cemento per un mese prima di venir inserito nella bottiglia.
Guy si chiese se avrebbe dovuto aiutarla. Era lievemente preoccupato per il fatto che se lo avesse fatto sarebbe potuto apparire come
uno sbruffone di cattivo gusto, eppure, d’altra parte, sembrava davvero scortese non offrirsi e continuare a osservarla mentre lei si
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affannava. Alla fine, vedendo che Floz stava diventando viola, si sentì in dovere di farsi avanti.
«Posso provarci io?»
«Sì, grazie», disse Floz. Tuttavia, proprio mentre glielo stava passando, il cavatappi cadde, ed entrambi scattarono in avanti per afferrarlo. L’impasse si risolse in una collisione di testa con relativo effetto sonoro, non diverso dal rumore di una noce di cocco colpita con
poca delicatezza da un martello a due teste. Floz emise un grido, fu
quella che si fece più male avendo ricevuto il colpo proprio su una
tempia. Si rialzò di scatto, afferrandosi la testa, convinta che, se si
fosse guardata allo specchio, si sarebbe ritrovata con la fronte
sanguinante.
«Scusa. Tutto a posto?», domandò Guy.
«Sto bene», rispose Floz mentre delle scintille le esplodevano in
testa. Floz non escludeva la possibilità che Guy lo avesse fatto deliberatamente. Magari era una caratteristica dei gemelli: sentiva che
Floz si stava mettendo tra lui e sua sorella, per cui stava cercando di
ucciderla.
Guy estrasse il tappo con facilità, nella speranza di non sembrare
troppo presuntuoso, come se pensasse: “Guardate come sono forte,
mentre tu sei soltanto una delicata ragazzina!”.
«Rosso o bianco?», gridò Guy.
«Bianco!», risposero all’unisono dalla cucina.
«Floz?», domandò Guy, cercando di non guardare il bernoccolo
che iniziava a crescerle in testa.
«Ehm, rosso per me», disse, toccandosi il cranio che le pulsava
dolorosamente. «Vado un attimo ehm…». Si prese la testa bernoccoluta tra le mani e si diresse verso il bagno per valutare i danni.
«Ti prendo un po’ di ghiaccio?», iniziò a chiederle Guy, con la
voce che gli si affievoliva mentre si rendeva conto che lei non l’aveva
sentito. Che cos’altro sarebbe successo?, si chiese, mentre inclinava
la bottiglia, mancava il bicchiere e il vino rosso schizzava ovunque
sulla tovaglia bianca e immacolata di Juliet.
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Steve uscì per primo dalla cucina parlando nel linguaggio dell’imbianchino. Juliet lo seguiva, reggendo un piatto di pasta con in
cima del formaggio fumante.
«Sì, posso farlo: scalfisco uno strato di intonaco… lo gratto via…
uso la cazzuola». Tuttavia se sperava di impressionare Juliet con
quelle parole era completamente fuori strada.
«E quanto mi farai pagare per tutto ciò?», chiese Juliet in un
modo che lo dissuadeva dal chiedere una qualsiasi somma di denaro,
come se, per ogni uomo, l’onore di svolgere tale lavoro avrebbe
dovuto essere di per sé sufficiente.
«Oh, non lo so», rifletté Steve. «Che ne dici di invitarci di nuovo a
cena quando avrò finito?»
«D’accordo», disse Juliet, «affare fatto. Dov’è Floz? E che cos’hai
combinato con la mia tovaglia, Guy? E come mai la tua testa sta
sanguinando?»
«Floz, ehm, è appena andata in bagno», disse Guy, toccandosi il
capo per poi ritrovarsi del sangue sul dito. «Ci siamo scontrati con le
teste».
«Come diavolo avete fatto a scontrarvi con le teste?», domandò
Steve, pensando alla loro differenza di altezza. Che cosa aveva fatto
lei, era salita su una scala per colpirlo?
Guy non rispose, nel frattempo Floz emerse dal bagno con quella
che sembrava essere la protuberanza di un corno che stava per
spuntarle in fronte.
«Maledizione!», disse Juliet. «Lascia che ti prenda un po’ di
ghiaccio».
«Fa lo stesso», disse Floz. «Credo non diventerà più grande di
così».
«Scommetto che lo avrai già detto svariate volte!», disse Steve.
Juliet gli lanciò uno sguardo truce e si diresse in cucina per
avvolgere due buste di piselli congelati avvolte in uno strofinaccio.
«Possiamo mangiare?», s’informò Guy, cercando di riportare la
situazione alla normalità, quando Juliet ritornò con due fagotti
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giganti. Floz si premette il suo contro la testa, sentendosi come la
diva di un melodramma, intanto che Juliet continuava ad agitarsi.
«Passami un piatto», disse Steve, affondando il suo cucchiaio.
«Oooh, questo piatto è al di sotto dei tuoi abituali standard culinari, Ju», la prese in giro Guy.
«Veramente l’ha fatto Floz», disse Juliet.
«Maledizione», sbottò Steve sottovoce. Non era bastato che il suo
amico avesse colpito la ragazza che gli piaceva, ora aveva anche insultato la sua cucina.
«Stavo scherzando. Ha un aspetto delizioso», disse Guy con una
reazione esagerata che, però, non ottenne il risultato sperato.
«Non mi offendo se non la mangi», ribatté Floz in modo gelido,
da dietro la busta di piselli.
Steve intervenne per salvare la situazione con la sua solita mancanza di tatto.
«Be’, anche se fa schifo, senza dubbio mi piacerà, perché sto
morendo di fame e mangerei qualsiasi cosa». Fu quindi il turno di
Guy di mortificarsi per lei. Tra tutti e due, l’avrebbero costretta a
chiamare i Samaritans, il servizio di assistenza telefonica per le persone con disturbi emotivi.
Nonostante tutto, la pasta era squisita, e sia Guy che Steve ritennero che l’unico modo per farglielo capire fosse di mangiarne il più
possibile, in segno di gradimento, facendo in modo di impegnare le
loro bocche esclusivamente per masticare ed emettere quanti più
mugolii di approvazione possibili.
«Indovinate un po’? Ci troveremo degli appuntamenti romantici
su internet», annunciò Juliet.
«Di chi parli?», chiese Steve, cercando di nascondere in fretta
l’improvvisa ondata di panico che aveva preso possesso della sua
voce.
«Di noi. Floz, Coco e io».
Floz aveva la bocca piena di pane e non riusciva a parlare. Agitò la
mano che non era impegnata a reggere il fagotto per comunicare che
non era assolutamente vero, ma Juliet era lanciata.
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«Per me un clone di Piers Winstanley-Black e un tipo biondo e
basso che si veste con abiti eleganti per Floz».
«Non voglio trovare appuntamenti su internet», disse Floz masticando la crosta.
«Oh coraggio, Floz. Quello giusto per te è la fuori da qualche
parte. Sei rimasta zitella abbastanza a lungo ormai».
Juliet ridacchiò, inconsapevole di quanto Floz si sentisse mortificata all’idea che Guy pensasse che lei avrebbe potuto fare shopping
di uomini su internet. Anche se forse pensava che avrebbe dovuto
farlo. Specialmente dopo che Juliet aveva annunciato che erano anni
che lei era una reietta d’amore. Floz provò a proferire un’obiezione
balbuziente. Tuttavia, si rese conto che avrebbe potuto essere scambiata per la “donna che promette troppo”1, per cui stette zitta e sfogò
il suo senso di irritazione premendosi la busta di piselli ancora più
forte sul bernoccolo.
Guy stava cercando di apparire distaccato, ma la sua testa era un
groviglio di pensieri ronzanti. “La donna promette troppo”, dedusse
lui.
Quindi stava cercando un uomo? Un uomo che di aspetto era il
suo esatto contrario. Poteva fargliene una colpa? Dopo averle quasi
sfondato il cranio, aver insultato la sua cucina ed essere fuggito come
un idiota totale la sera precedente? Voleva apparire spiritoso e
amichevole, ma non riusciva a pensare a una sola cosa da dire
mentre si trovava a quella tavola, almeno fino a che non arrivò l’Eton
Mess ai lamponi.
«È molto graziosa», disse. «È una torta Pavlova che hai fatto cadere per terra?». Rise, ma era l’unico a farlo. La battuta non gli era
uscita come desiderava, a giudicare dall’espressione afflitta di Steve.
Guy ritornò in modalità silenziosa, in stile monaco trappista, nella
quale si sentiva più al sicuro.
Non restarono per il caffè. Guy decise di optare per un contenimento dei danni e lasciò la scena del crimine subito dopo la battuta
della Pavlova caduta per terra.
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«Perché andiamo via così presto?», sibilò Steve, mentre la porta
dell’appartamento si chiudeva alle loro spalle. «Credevo volessi
gettare un ponte per la vostra relazione».
«Ho gettato un ponte», sospirò Guy. «Esattamente come quello
sul fiume Kwai».
«Non era il ponte che è stato fatto saltare in aria?», gli domandò
Steve confuso.
Guy annuì gravemente e scese le scale.
1 William Shakespeare, Amleto, atto
2010.
III,
scena
II,
Newton Compton, Roma
Capitolo dodici
La sera successiva, Floz se ne stava seduta a divertirsi immensamente ascoltando Coco e Juliet che compilavano i loro questionari per gli appuntamenti su internet al computer portatile di
Juliet.
«Quanto è assurdo che si possa specificare il colore degli occhi
che desideri che abbia il tuo compagno?», disse Juliet.
«È un po’ troppo esagerato», ribatté Coco. «Segna le mie preferenze. Marroni, verdi, azzurri, grigi, strabici e guerci».
«Colore dei capelli?»
«Qualsiasi».
«Tatuaggi e piercing?»
«Qualsiasi».
«Fascia di reddito?».
Qui Coco si fece esigente: «Sopra le cinquantamila sterline. Non
voglio qualcuno che abbia il sussidio di disoccupazione».
«È un importo alto. Forse meglio puntare alla fascia tra le venticinquemila e le cinquantamila?»
«Se proprio devo», disse Coco tirando su col naso.
«Una breve descrizione di te stesso», lo esortò Juliet.
«Mmm, fammi pensare. Che ne dici di: “Ragazzo magro, slanciato, in ottima forma, molto attraente, dagli occhi color cacao, capace
di esibirsi in incredibili mosse di danza e con fianchi sinuosi, cerca
equivalente per divertimento e spasso, possibilmente con la persona
giusta”».
«Fianchi sinuosi?», lo prese in giro Juliet. «E in ottima forma?
Quando è stata l’ultima volta che hai fatto dell’esercizio fisico?»
«Ho un’ottima forma fisica di natura, e sono flessuoso!». Coco
balzò in piedi come fosse il ballerino Louie Spence su un trampolino
e cominciò a spingere l’inguine avanti e indietro. «Avrei potuto
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insegnare una cosetta o due a Michael Jackson, se ci fossimo incontrati, e se lui non fosse morto, ovviamente».
«Certo, forse a proposito di come si fa la pastella cotta al forno
dello Yorkshire pudding, ma non a proposito del ballo», disse Juliet.
«Non riesci neanche a coordinarti quando ti masturbi».
«Capitano tutte a me», sospirò Coco.
Dopo che Juliet ebbe compilato la sua iscrizione, andarono tutti a
curiosare su singlebods.com alla ricerca di possibili futuri compagni.
«Santo cielo!», dileggiò Coco. «Se lui ha trentacinque anni, io
sono una top model. Non puoi avere un doppio mento come quello a
meno che tu non stia abusando del tuo corpo da almeno cinquant’anni».
«Guarda questo», ridacchiò Juliet. «Potrebbe mangiare una mela
attraverso un recinto di filo spinato con i denti che si ritrova».
La situazione non migliorò granché neppure quando guardarono
la sezione degli uomini eterosessuali.
«Questo è quello giusto per te, Jul», rise Coco. «Gli piace la
fantascienza, camminare al tramonto, tenersi per mano e baciarsi sul
divano. Bleah!».
«Sì, e guarda che cosa vuole dalla sua compagna: “Deve essere tra
il metro e cinquanta e il metro e sessantacinque, deve avere necessariamente dei capelli lunghi e non tinti, nessun tatuaggio o piercing
e preferibilmente non deve neanche truccarsi». Juliet s’indignò:
«Vorrei incontrare un uomo che osa dirmi di non truccarmi, è
proprio un coglione pedante!».
Floz avrebbe voluto essere una mosca per sbirciare cosa sarebbe
accaduto se Juliet fosse mai andata a un appuntamento con un uomo
del genere.
«Adesso sono depresso», disse Coco, che sperava in una schermata piena di fusti in attesa di una sua chiamata. «Credo andrò a
casa e mi taglierò i polsi in una vasca inondata di bagnoschiuma
Radox».
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«Non riusciresti mai a togliere le macchie dal tuo tappeto rosa»,
disse Juliet. «Inoltre, non vorresti che i paramedici ti vedessero in
un bagno di sangue. Troppo ripugnante».
«Basta, non parliamone più», disse Coco, mentre la sua risata si
spegneva all’improvviso. Floz notò lo sguardo che si scambiarono in
quel momento, uno sguardo molto eloquente. Non chiese di cosa si
trattava, gliel’avrebbero detto loro se avessero voluto che lei lo
sapesse.
Juliet salutò Coco con animo altrettanto sconfortato. Gli uomini
di quel sito facevano sembrare interessante perfino Steve Feast.
Poco prima di andare a letto, Floz andò a spegnere lo schermo del
computer alla scrivania all’angolo. Fu allora che notò di aver ricevuto
un’altra e-mail all’indirizzo del suo sito internet. “Stavo guardando
tra le pagine del tuo sito. Sono felice di sapere che stai bene, Cherrylips. Mi sei mancata”. Floz avvertì una fitta pungente alla nuca.
Doveva essere lui: doveva essere Nick. Ma perché? Che cosa significava? Sapeva che presto ci sarebbe stato un terzo messaggio e che
quella notte avrebbe dormito un sonno agitato. Si rese conto che non
lo aveva eliminato dal suo cuore anche se si era convinta di averlo
fatto. Il dolore era come un drago assopito dentro di lei, un drago
che però sembrava essere in procinto di svegliarsi, suo malgrado.
Capitolo tredici
Il mattino seguente, Kenny Moulding si precipitò da Guy non appena questi apparve in cucina. Indossava il suo solito completo gessato beige, la camicia nera con la cravatta, e portava ai piedi le
lunghe e strette scarpe marroni fatte a mano. I suoi folti capelli bianchi erano pettinati in avanti per ottenere quella che lui sosteneva essere un’acconciatura di tendenza (cosa che sarebbe stata vera se
fossero stati gli anni Settanta) al fine di convincere la gente che
aveva vent’anni in meno rispetto ai sessantuno che risultavano dai
documenti. I suoi abiti costavano una fortuna, tuttavia li abbinava
talmente male che riusciva sempre ad avere l’aspetto di uno che
comprava i vestiti di seconda mano. Lo stile stava a lui come i
gemelli Kray, i famosi criminali londinesi, stavano al lavoro a maglia.
Aveva il suo inconfondibile sigaro Romeo y Julieta serrato tra le labbra chirurgicamente perfette, e reggeva in mano una rivista arrotolata, quando distolse l’attenzione di Guy dalle prove di cottura di
alcune salsicce, che sembravano fatte di segatura piuttosto che di
maiale. Kenny agitò un braccio e fece cenno all’imponente capocuoco di andare nel suo ufficio, facendo tintinnare tutti i bracciali
d’oro che aveva al polso.
«Che cosa ne pensi?», domandò Kenny, prendendo un catalogo
da sopra una scatola di funghi spugnosi e lanciandolo verso Guy in
modo che potesse raccoglierlo e osservarlo. Le pagine mostravano
delle immagini di un gruppo di appartamenti adiacenti a una piscina, in una qualche località calda e soleggiata.
«Me ne vado a Tossa», annunciò Kenny grattandosi il mento.
Che era più o meno dove Guy avrebbe voluto mandarlo ogni volta
che vedeva quello stupido idiota.
«Tossa del Mar», specificò Kenny, scambiando il silenzio di Guy
per ignoranza. «Spagna».
«Molto carino», rispose Guy.
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«Vendo tutto e mi trasferisco là. Ho comprato quell’appartamento alla fine, quello con i cesti sospesi di fiori».
«Be’, buon per te», iniziò a dire Guy. Poi si rese conto di quello
che avrebbe potuto dirgli Kenny. «Vendi tutto? La tua casa o il ristorante?», gli domandò.
«Entrambi», disse Kenny. «Ne ho abbastanza di questo fottutissimo posto. È un lavoro in cui si sgobba troppo. Sto diventando vecchio per questa pagliacciata di ristorante».
“È proprio il colmo”, pensò Guy, considerando che nelle rare occasioni in cui Kenny si degnava di farsi vivo, tutto quello che faceva
era starsene seduto nel suo ufficio a leggere un giornale e mettersi le
dita nel naso o, in alternativa, scegliere su quale cavallo scommettere. Aveva una donna, Sandra, che gli teneva la contabilità e
fungeva da segretaria, e Glenys, la donna delle pulizie, che faceva del
suo meglio nonostante stesse per compiere settantacinque anni. La
cosa più stressante che Kenny aveva da fare era pensare a come
spendere i suoi guadagni.
«Sì, vendo tutto quanto».
Guy avvertì la prima ondata di panico. Sarebbe rimasto senza lavoro. Non aveva abbastanza fiducia nelle sue abilità, come invece
avrebbe dovuto. E aveva la fedina penale sporca, il che non l’avrebbe
reso un candidato appetibile per un nuovo capo.
«Ti concedo il diritto di prelazione per rilevare l’attività», disse
Kenny, mentre si riaccendeva il sigaro, strisciando il fiammifero sul
cartello con scritto VIETATO FUMARE.
«A me?»
«Esatto, a te, giovanotto».
“Sta vaneggiando”, si disse Guy, ma sapeva che non era così.
Quando Kenny faceva delle dichiarazioni del genere, Guy sapeva che
aveva già svolto tutte le operazioni preliminari e che dietro la proposta c’era un progetto serio. Per un attimo si sentì in preda alle vertigini per via dell’immensità di quello che Kenny gli stava
proponendo.
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«Potremmo aggirare tutti quegli agenti immobiliari bugiardi e
bastardi se tu comprassi direttamente da me, giovanotto. Senza dubbio avrai sempre sognato di possedere un ristorante tutto tuo».
Kenny spalancò le braccia. Guy esaminò l’irregolare strato d’intonaco, di un colore viola prugna con il bordo decorato da motivi
floreali marroni, le finestre crepate e le piastrelle mancanti. Tuttavia,
soltanto per un istante, vide la medesima stanza con delle dolci tonalità pastello e un pavimento con piastrelle bianche e nere. Vide poi
la porta dell’ufficio che si apriva di scatto su di una lucida e impeccabile cucina in acciaio. Con l’immaginazione proseguì oltre, fino alla
sala del ristorante, dove alti menu erano adagiati su dei graziosi tavolini. Vide delle pesanti tende alle lunghe e strette finestre, udì in
sottofondo la musica di un quartetto d’archi. Proprio come in un ristorante dove era capitato una volta per sbaglio mentre era in vacanza
a Firenze. Era rimasto immobile ammirando il perfetto connubio di
eleganza e finta trasandatezza: le pareti di una tenue tinta verde e
panna, le bellissime tende ad arazzo. Aveva saputo all’istante che se
avesse mai posseduto un ristorante, avrebbe fatto in modo che
avesse la stessa atmosfera placida di quel luogo. Rise brevemente tra
sé. Florence, ovvero Firenze. Quella parola sembrava perseguitarlo.
«Dove cazzo è il mio tramezzino?». Una voce profonda e tonante
fece esplodere la nuvoletta dei suoi pensieri, mentre la testa di un
camionista faceva capolino in cucina e iniziava a urlare in direzione
di Igor, uno dei camerieri.
Guy tornò di colpo con i piedi per terra.
«Ti meriti questo posto», disse Kenny, con una rara delicatezza
nella voce, spigolosa e rauca a causa della sigarette. «Mi sei sempre
stato d’aiuto, giovanotto. Per questo motivo lo puoi avere a un buon
prezzo. Ma solo se ti sbrighi. Non voglio restare qui a lungo».
Guy aprì la bocca ma non gli uscì nulla. Vide della carne vera,
dell’agnello di qualità certificata, uova talmente fresche che le galline
non si erano ancora accorte della loro assenza. Vide il personale con
dei grembiuli puliti, tutto in rispetto delle norme igieniche. Vide i
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clienti che ritornavano, premi, stelle Michelin e nessuna minaccia incombente da parte dell’ufficio d’igiene.
«Allora?».
Guy aveva dei risparmi. Restava da vedere se bastavano a coprire
la somma che Kenny gli avrebbe chiesto per il ristorante. Ciononostante fu pervaso da un’ebbrezza improvvisa. Come avrebbe potuto
permettere che il Burgerov andasse a un altro proprietario? Qualcuno che magari poteva riuscire nell’impossibile missione di abbassare ulteriormente gli standard qualitativi. Il Burgerov era il suo
regno e non l’avrebbe abbandonato senza combattere.
«Sì», disse Guy, soffocando una scarica di adrenalina.
«Sì cosa, giovanotto?»
«Sì, comprerò il Burgerov da te, Kenny. Purché il prezzo sia
abbordabile».
«Lo sarà. Te lo prometto».
Guy fremette per l’eccitazione, mentre afferrava la mano tesagli
da Kenny Moulding per stringerla con fermezza. Avvertì un’ondata
di cambiamenti nella sua anima. Di solito i cambiamenti lo
turbavano, ma per la prima volta dopo tanto tempo, Guy Miller percepì una forza interiore svegliarsi dentro di lui, una forza che accolse
a braccia aperte.
Capitolo quattordici
Era lunedì mattina e Coco come prima cosa telefonò a Juliet.
«Innanzitutto, ti sei seduta di nuovo sul tuo cellulare e mi hai
chiamato per sbaglio. Ti spiacerebbe togliermi dalla selezione rapida,
Ju? Oppure perdere del peso sul sedere?»
«Ops, scusa… sì lo farò. Anzi, lo faccio subito. Toglierti dalla
selezione rapida, intendo».
«L’hai detto anche l’ultima volta».
«Appena finiamo la chiamata, lo giuro. Non me ne
dimenticherò».
«Bene. A ogni modo, ascolta la mia novità: ho un appuntamento!». Coco urlò talmente forte nel telefono che Juliet dovette allontanare la cornetta dall’orecchio per non diventare sorda.
«Lo hai trovato sul sito di appuntamenti online? Di già?», disse
Juliet.
«Sì. Venerdì sera appena sono tornato a casa ho caricato le mie
foto e ho ricevuto tantissime risposte. Ho scelto uno di Bretton. È
bellissimo, ha tutto ciò che cerco in un uomo. Lo incontro questa
sera. Si chiama Gideon e lavora con i computer. Sembra un cervellone. A quanto pare ha una memoria fotografica».
«Spero che tu abbia scelto qualche posto in centro e ben illuminato dove incontrarvi», lo mise in guardia Juliet. «Leggendo il
giornale di domani non voglio scoprire che ti hanno trovato morto
nei campi».
«Be’, se succedesse tutto l’entusiasmo di questa giornata sarebbe
smorzato», sbuffò Coco. «In realtà, ci incontriamo da Papà Giuseppe, nel centro di Barnsley. A entrambi piace molto la cucina
italiana. Abbiamo tanto in comune, è sorprendente».
«Fammi rapporto domani», gli ordinò Juliet, prima di riagganciare in fretta dato che Pier Winstanley-Black stava entrando
nell’edificio. Quel giorno Piers era radioso nel suo gessato blu scuro.
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Entrò con una camminata da spaccone e superò la scrivania di Juliet
con disinvoltura, concedendole un «Buongiorno» incredibilmente
stentato, consapevole del fatto che anche solo una briciola dei suoi
saluti sarebbe stata sufficiente a sciogliere i cuori – e non solo – di
tutte le donne presenti in ufficio. Sprigionava ventate di arroganza,
facendo breccia nella libido di Juliet. Se solo avesse potuto avere
cinque minuti da trascorrere con lui in una stanza chiusa, pensò sorridendo tra sé, Piers non avrebbe mai più guardato un’altra donna.
«È un uomo attraente», mugugnò Daphne, smettendo di inserire
i dati. «È proprio un peccato che non gli piacciano le donne più
vecchie».
«O le più piccole», aggiunse Amanda.
Juliet non disse nulla, formò semplicemente con le labbra le parole “sarai mio”, in direzione dell’ufficio di Piers.
Subito dopo pranzo Juliet diede una sbirciata alla sua pagina del
sito internet per gli appuntamenti e scoprì di aver ricevuto della
posta. E a giudicare dalla foto del profilo non si trattava di un
ragazzo per niente male. Essendo alto un metro e ottanta – proprio
come lei – era leggermente più basso di quanto le sarebbe piaciuto,
ma la foto, anche se un po’ sgranata, rivelava un sorriso aperto e cordiale e dei denti curati. L’e-mail diceva:
Ciao,
mi piace molto il tuo profilo e la tua fotografia. Mi chiamo Ralph (si pronuncia
Ralf non Rafe come dicono certe persone presuntuose!). Ho una piccola tipografia,
una casa di proprietà, i denti sono i miei, i capelli sono i miei, stessa cosa per gli
arti e la testa. Vuoi chattare più tardi su MSN?
Juliet annuì allo schermo come per trasmettere una risposta affermativa. Non era brutto, indossava vestiti eleganti, aveva un buon
senso dell’umorismo e sapeva scrivere la parola “presuntuose” correttamente. Fino a quel momento sembrava abbastanza
promettente.
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Floz aveva scritto quattro poesie sulla morte ed era stremata dal
punto di vista emotivo. Le variazioni sul tema erano limitate e lei era
al capolinea, proprio come gli sventurati futuri destinatari dei bigliettini. Sapeva che questa serie sarebbe “morta”. Nessuno poteva dire
che Lee Status non fosse innovativo, ma stavolta era troppo fuori
strada per convincerla di avere per le mani una serie vincente.
Non era la prima volta che Lee aveva un’idea estrema. Il mercato
dei biglietti d’auguri era di larghe vedute, ma era sufficiente la notizia di un evento di un certo rilievo per alterare la corrente degli acquisti. Nessuno voleva più comprare dei biglietti d’auguri con raffigurate delle pistole, dopo tutte le carneficine avvenute negli ultimi
anni. La serie dei biglietti d’auguri di Lee basata sugli assassini seriali fu, tanto per dire un eufemismo, priva di tatto; tuttavia, il suo
biglietto di Harold Shipman che riportava dentro la frase «Più invecchi più ti trovo attraente» fu causa di scandalo, anche nelle cartolerie
all’avanguardia e alla moda. Lee era un convinto sostenitore del fatto
che “nessuna pubblicità è cattiva pubblicità”, e nonostante quei biglietti finirono al macero, quello stesso anno Lee riuscì comunque a
cambiare la sua Porsche con una di un modello più recente.
Floz decise che non sarebbe più riuscita a scrivere altre poesie per
i malati terminali. Era un lavoro troppo deprimente. Inviò a Lee ciò
che aveva scritto fino a quel momento e ricontrollò la posta in arrivo
nella sua casella e-mail. Fu così che vide un nome che non avrebbe
mai pensato di rivedere: Nick Vermeer.
La pelle iniziò a formicolarle a causa di un miscuglio di emozioni
che non riusciva a definire. Quindi era Nick che aveva mandato i
messaggi indirizzati a Cherrylips. E ora l’aveva contattata
direttamente. Voleva fare doppio clic per aprire l’e-mail, ma aveva
timore delle parole che sarebbero così apparse sullo schermo. E
dell’effetto che avrebbero potuto farle. Avrebbe dovuto cancellarla.
L’ultima e-mail che aveva ricevuto da lui risaliva a diciotto mesi
prima. Aveva continuato a scrivergli per tutta l’estate, nella speranza
di persuaderlo a risponderle, ma non aveva ricevuto mai niente.
Esattamente un anno prima, aveva deciso che lui era morto per lei, e
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che se si fosse mai degnato di ricontattarla dopo essere sparito in
modo così crudele, avrebbe cancellato l’e-mail senza pensarci due
volte. Eppure ora, di fronte a un prezioso contatto da parte sua,
scoprì che relegare quella e-mail nel cestino sarebbe stato difficile
quanto rasarsi le sopracciglia con l’epilatore di Juliet. Lentamente
posizionò il cursore sopra l’e-mail e fece doppio clic con il tasto
sinistro.
Cherrylips,
dicono che ogni storia necessiti di una fine, anche se non lieta.Ti avevo detto
che mio padre era morto, ma non sono sicuro di averti mai raccontato come è accaduto.Ho dovuto guardare mio padre combattere contro il cancro e perdere, e ho
assistito alle ripercussioni sofferte da mia madre.
Ero, e ancora sono, completamente ammaliato da una ragazza inglese e ora è
troppo tardi per farglielo sapere.Nel febbraio dello scorso anno ho sostenuto degli
esami medici in previsione di un nuovo contratto di lavoro come ingegnere a Cuba.
Quando superi i quarant’anni, ti sottopongono a degli esami che ti fanno desiderare di averne trentanove.Da quelle analisi,dall’esame alla prostata e dalla biopsia è
risultato che ogni relazione che avrei potuto avere sarebbe stata breve.Il cancro
stava troppo bene nella mia prostata per andarsene.Odio i racconti brevi che non
hanno un lieto fine.Mi sono sottoposto a un’operazione, ho fatto la chemioterapia e
ho promesso a mia madre che avrei vissuto in eterno. A luglio di quest’anno ho
scoperto, grazie a una visita di controllo,che la mia promessa non sarebbe potuta
essere mantenuta.La leucemia linfatica acuta colpisce una persona su mille tra chi
si sottopone a chemioterapia.È impossibile vincere la lotteria con delle probabilità
così scarse, eppure questa volta ce l’ho fatta.Domani mi attende la prova finale, ma
ho già sistemato tutte le mie questioni.Tutte tranne una.Avrei desiderato tantissimo avere la possibilità di conoscerti, ma non era destino.Sono scomparso perché
stavo cercando di superare quello che mi stava accadendo. Come si fa a spiegare
una cosa del genere a qualcuno che vive così lontano?Ho letto il tuo sito internet,e
ho cercato di seguire la tua vita da lontano.
Sono quasi riuscito a conoscere una fantastica donna, e rimpiango di non
averlo fatto.
Nick V
Floz la rilesse più e più volte. A metà della terza lettura non riusciva più a vedere lo schermo a causa delle lacrime che le riempivano
gli occhi. Lei sapeva che dopo il genere di relazione che avevano
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avuto lui non avrebbe potuto semplicemente abbandonarla, senza
avere una buona ragione. Non si erano mai incontrati, ma tra loro
c’era stato un lungo e intenso rapporto: avevano parlato per ore al
telefono, si erano scritti, avevano fatto dei progetti. Erano riusciti a
conoscersi veramente tramite il potere delle parole.
Floz sapeva di dovergli rispondere immediatamente, e le parole le
sgorgarono fuori. La porta tra lei e Nick si era riaperta e non voleva
che si chiudesse.
Nick,
avere notizie da te è un sollievo della peggior sorta. Mi sono chiesta talmente
tante volte che cosa ti fosse successo, dove fossi, se stessi bene. Negli anni ho imparato a credere nella filosofia che se qualcuno ti vuole contattare, allora lo farà, se
non lo fa significa che non è abbastanza interessato. Nel tuo caso sono andata contro tutti i miei istinti e ho continuato a scriverti perché non mi sarei mai aspettata
che mi saresti piaciuto così tanto. È stata una sorpresa per me scoprire di provare
dei sentimenti così stupidamente profondi, considerando che non ti ho mai
incontrato.
Sono ancora single, ovviamente. Credo di essere una persona troppo complicata per riuscire a trovare un compagno.
Sto evitando l’argomento perché non riesco a pensare a nessuna fottutissima
cosa da dirti che sia adatta. Sono incredibilmente dispiaciuta di sentire le tue
novità e, allo stesso tempo, sono davvero commossa per il fatto che tu mi abbia
scritto. Mi sento completamente svuotata.
Anche a me sarebbe piaciuto avere la possibilità di conoscerti meglio. Sono
stata contenta di poterti scrivere: gli uomini spiritosi, seducenti e intelligenti sono
pochissimi al mondo. Credo che in un mondo parallelo saremmo potuti essere una
coppia formidabile, anche se non convenzionale. Del resto, io e le convenzioni
siamo sempre stati degli estranei. Chi lo sa dove vanno a finire le relazioni? Non ho
mai creduto che tutta questa energia e vitalità spariscano nel nulla.
Ti penso moltissimo, caro. E vorrei tanto avere avuto l’occasione di toccarti.
Baci,
Cherrylips
Premette Invio, senza darsi pena di rileggere l’e-mail; decise piuttosto di spedire la prima stesura, che era stata scritta con il cuore in
mano e gli occhi pieni di lacrime. Se le parole avessero avuto anche
solo un po’ di potere, allora lui sarebbe stato curato dalla forza delle
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sue? Sperava di sì, ma sapeva che si stava illudendo. Pianse fino a
che non le fecero male gli occhi e non finì le lacrime che aveva a
disposizione.
Capitolo quindici
Guy sbraitò a Varto dopo averlo sorpreso mentre si toglieva il
cerume dall’orecchio per poi pulirsi sul grembiule. Quando quel
posto sarebbe stato suo, avrebbe davvero fatto il culo a qualcuno, ma
per il momento li avrebbe tenuti all’oscuro della notizia, come Kenny
aveva richiesto. Tuttavia, una volta che il suo nome sarebbe stato sui
documenti, Varto sarebbe stato cacciato via insieme a tutti gli altri
rifiuti umani che Kenny aveva assunto. Guy nutriva il segreto desiderio di riempire il posto con personale veramente appassionato, che
avesse voglia di imparare da lui e che non volesse soltanto servire
della listeria su un piatto. Voleva persone che traessero vere soddisfazioni dal cibo, che desiderassero costruire qualcosa con lui ed esserne fieri, persone che non volevano avvelenare i clienti.
Smise di sognare a occhi aperti e si accorse che Gina lo stava fissando con quei suoi occhioni azzurri. Li volse velocemente altrove,
imbarazzata. Guy sapeva che quella ragazza aveva una cotta per lui e
avrebbe voluto provare la stessa cosa. Ma la vita aveva l’abitudine di
rendere tutto più difficile.
Si chiese se essere il proprietario di un ristorante gli avrebbe concesso qualche punto in più agli occhi di Floz. Forse avrebbe dovuto
proporre un pranzo di famiglia durante il quale avrebbe potuto dare
la notizia della sua imminente acquisizione e cucinare un favoloso
arrosto per tutti? Domenica. Domenica non avrebbe lavorato. Sì,
l’avrebbe fatto domenica.
Capitolo sedici
«Stai bene?», chiese Juliet.
Floz stava facendo finta di comportarsi come al solito, ma c’era
qualcosa che non andava. Juliet non sarebbe stata sorpresa se
alzando lo sguardo avesse visto una grande nuvola nera sopra la
testa della sua nuova amica.
Inoltre i suoi occhi apparivano un po’ vitrei, come se avesse pianto di recente.
«Sto bene», rispose Floz, sfoderando all’istante un sorriso a
trentadue denti talmente radioso e perfetto da sembrare falso come
le tette di Barbie.
«Be’, è ovvio che non è vero», disse Juliet. «Ma non mi immischierò. Anche se vorrei. Un bicchiere di vino rosso?». Si alzò dal divano
proprio mentre iniziava la sigla di Valle di luna e si diresse verso il
mobile bar.
«Sono solo un po’ stanca», spiegò Floz. «Mi hanno dato un lavoro
davvero atroce. Devo scrivere frasi per dei biglietti… biglietti d’auguri alle persone che stanno morendo». Provò a trattenersi, ma
scoppiò a piangere. A quanto pareva, aveva una nuova scorta di lacrime a disposizione.
«Oh, maledizione. Che lavoro tremendo!», disse Juliet, la cui
curiosità era ormai totalmente soddisfatta. Si era accorta quasi da
subito che Floz era una dal cuore tenero e quell’incarico doveva essere stato veramente sconvolgente per lei. Aprì in fretta la bottiglia
di vino e versò due abbondanti bicchieri.
«Grazie», disse Floz, sorridendole in risposta alla sua affettuosa
preoccupazione. Aprì la bocca per raccontare a Juliet di Nick, ma la
richiuse di colpo subito dopo. Era un argomento deprimente e insolito. Juliet avrebbe potuto non capire quanto ci si possa sentire vicini a una persona con cui non ci si è mai incontrati, e non voleva che
pensasse che lei fosse pazza.
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Inoltre, venendo da una famiglia di militari che si trasferiva da
una casa all’altra, da un paese all’altro, per Floz era difficile fidarsi di
qualcuno e farsi degli amici, poiché si era abituata fin da piccola a essere strappata via da loro. Eppure lì, a Blackberry Court, sentiva che
Juliet sarebbe stata la prima amica a essere una costante nella sua
vita, e in quanto tale la sua opinione era importante.
«Sei gentile», disse Floz, bevendo una lunga sorsata e cercando di
non pensare a quale reazione avrebbe avuto Nick leggendo la sua email, e se le avrebbe risposto. I suoi sentimenti erano talmente
ruvidi che le sembrava che le avessero tolto lo strato superiore della
pelle, e persino respirare la faceva sof-frire.
«Ho qualcosa che ti tirerà un po’ su di morale», disse Juliet. «Ho
ricevuto un messaggio da Guy. Cucinerà per noi il pranzo di domenica a casa di mia mamma – il suo appartamento è troppo piccolo.
Ahimè, ci sarà anche Steve». Ancora una volta sbuffò pronunciando
quel nome.
«Splendido», disse Floz, poiché non riusciva a pensare ad altro da
dire. Il cibo era l’ultima cosa che le passava per la testa. E la ricomparsa di Nick Vermeer aveva scacciato dalla sua mente tutti i pensieri relativi al bel Guy Miller, sosia di Heathcliff.
Iniziò presto a fingersi stanca, così da potersi defilare senza sollevare domande e mettersi al suo computer a scrivere un’altra e-mail.
Nella sua mente si stava sviluppando l’idea che quella che aveva
scritto era impostata male. Anche Juliet aveva altri programmi, e augurò la buonanotte a Floz.
Caro Nick,
nello stesso istante in cui questo pomeriggio ho cliccato invio, ho saputo che mi
sarei rimproverata per tutta la giornata: ti ho detto troppo? Ti ho detto abbastanza? Ti ho detto la cosa giusta?
Ho pregato di aver interpretato male la tua e-mail, che ci fossero più speranze
di quelle che tu riesci a vedere. E se contattarmi ti farà stare meglio, per piacere
fallo. Allo stesso modo, se non te la senti, non farlo. Io capisco.
Volevo soltanto dirti che il mio affetto e la mia passione per te restano immutati dentro di me. Sebbene non ci siamo incontrati, sento di conoscerti davvero
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bene. Sei sempre stato difficile da eguagliare. Nessuno ci è mai arrivato vicino, a
essere onesta.
Spero che tua sorella e la tua famiglia ti diano tutto l’amore e il conforto necessario, ma sono sicura che sarà così. E io, ovviamente, sono soltanto a un’e-mail o a
una telefonata di distanza se c’è qualsiasi cosa che posso fare per te.
Con affetto, baci,
Cherrylips
Floz sperò che le pareti dell’appartamento fossero abbastanza
spesse da non permettere a Juliet di sentirla singhiozzare. O di udire
il suo cuore che si spezzava, perché era sicura di averlo sentito
rompersi fragorosamente dentro il suo petto.
Non appena Floz si ritirò per la notte, Juliet si collegò immediatamente a singlebods.com. Pensò di curiosare per il sito così da scoprire se c’era qualcuno che viveva entro un raggio di quindici chilometri
circa che non fosse un mostro a due teste.
C’erano alcuni messaggi che la aspettavano nel suo “centro dei
contatti”.
Il primo era succinto: «La vita è troppo breve, quindi facciamolo
per tutta la notte». Ad accompagnare il messaggio c’era la fotografia
del profilo di un uomo a petto nudo dall’aspetto lurido con un viso
che assomigliava a una deforme noce sott’aceto. Juliet fece una
smorfia e gli impedì di contattarla di nuovo. Sentiva di aver bisogno
di una doccia semplicemente per aver guardato la sua foto. Il
secondo era da parte dell’appassionato di fantascienza a cui piacevano le passeggiate romantiche e pomiciare sul divano.
Quindi, ti è piaciuto quello che hai visto quando mi hai dato un’occhiata? Il mio
è un account pro (Juliet dubitava fosse vero) e riesco a vedere chi mi ha visualizzato, in questo modo posso ricambiare il favore e fare un saluto a mia volta se
mi piace quello che vedo Vorrei chiederti se ti piacerebbe uscire con me per un
caffè Possiamo incontrarci in un luogo pubico (Juliet sperava intendesse dire pubblico) e vedere che cosa ne sarà Che cosa ne pensi tesoro?
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A parte il fatto che sembrava non avesse mai sentito parlare
dell’esistenza dei punti fermi, Juliet disse rivolta allo schermo: «Grazie, ma no». Non aveva alcuna intenzione di degnarlo di una
risposta.
La terza e-mail era di Ralph.
Ciao, mi chiedevo se eri disponibile per una chiacchierata. Se sì, probabilmente
questa sera sarò al computer a lavorare quindi ci colleghiamo su MSN? Questa è la
mia e-mail…
Juliet doveva scegliere se trascorrere la serata guardando un documentario poliziesco sull’assalto al treno postale di Glasgow-Londra
o stabilendo un contatto con un potenziale amante. Due ore più
tardi, dopo una molto piacevole conversazione virtuale, si scoprì impaziente all’idea di andare a cena con lui la sera successiva.
Capitolo diciassette
La mattina seguente, Floz si svegliò tardi e si rese conto di aver
pianto nel sonno, visto che la sua guancia e il cuscino sottostante
erano bagnati. Attendere che le linee di comunicazione tra lei e Nick
si riaprissero costituiva una situazione dolceamara. Mentre scriveva
la successiva lettera per lui, la sua mente cercava di riempire gli
spazi vuoti degli ultimi diciotto mesi: quanto doveva aver sofferto. Il
tempismo era stato veramente tragico. Floz pensò che se fosse stata
così male, contrariamente a lui, avrebbe cercato ulteriormente il suo
contatto, e non di distaccarsi da lui. Ma non sarebbe stato egoista e
avido da parte sua cercare di fare un passo avanti nella loro relazione
quando non c’era futuro? Non conosceva la risposta. Fare ciò che
Nick aveva fatto richiedeva una forza che evidentemente lei non
aveva. Tutto ciò che sapeva era di essere grata a Nick per aver scelto
di tornare nella sua vita, e dubitava che avrebbe trovato una qualsiasi sorta di pace fino a che lui non l’avesse lasciata ancora, per l’ultima volta.
Juliet era così emozionata dalla prospettiva di un vero appuntamento dal vivo che per poco non si dimenticò di andare in estasi
quando Piers Winstanley-Black entrò nell’ufficio con il suo solito
passo noncurante. Coco le telefonò dalla Reggia dei Profumi appena
prima che scattassero le nove sull’orologio, come suo solito.
«Allora, com’è andata? Morivo dalla voglia di una tua telefonata.
Avrai trovato almeno cinque chiamate perse da parte mia», disse
Juliet con entusiasmo.
«Sono appena tornato!», disse Coco. «Siamo stati svegli tutta la
notte a parlare!».
«Solo a parlare?»
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«Be’, abbiamo pomiciato un po’», rivelò Coco con un pizzico di
imbarazzo nella voce.
«Bleah, due uomini che pomiciano. Sto per sentirmi male».
«Che maleducata! E ha anche pagato per me».
«Cosa? L’hai fatto pagare per pomiciare con te?», lo prese in giro
Juliet.
«Sciocchina. Intendo dire che ha offerto tutto. Non mi ha permesso di mettere mano al portafoglio. È la prima volta che mi succede, davvero», esclamò Coco.
«Oooh, impressionante», disse Juliet, che non era mai stata a un
appuntamento con qualcuno tanto generoso.
«Lui. È. Favoloso. Sono innamorato».
«Oh cielo, ecco che ricominciamo», disse Juliet. «Comunque, non
sei l’unico ad avere un appuntamento. Anche io ne ho uno. Questa
sera. All’ora di pranzo vado a fare un po’ di acquisti, se ti va, potresti
venire con me per aiutarmi a scegliere un vestito nuovo».
«Non posso», disse Coco. «Ho una spedizione in arrivo dal
magazzino. Spero soltanto che si ricordino di includere il nuovo profumo di Victoria Beckham nella consegna. Altrimenti darò di matto.
Comunque, ho divagato; allora, con chi hai un appuntamento?»
«Ralph, quarant’anni, casa di proprietà, tipografia di proprietà,
faccia di proprietà, tutto di proprietà. Inoltre è molto ca-rino».
«Dove vi incontrate?»
«Mi prepara una cenetta a casa sua».
«Oh, Ju…».
Juliet aveva previsto una simile reazione e lo interruppe subito:
«Non preoccuparti. Farò in modo di lasciarti delle tracce in caso che
sia un omicida seriale. Ti darò il suo nome per intero, l’indirizzo e
telefonerò sia a te e che a Floz quando arrivo».
«Ce l’hai subito? Ho carta e penna a portata di mano».
«Va bene, resta in linea». Juliet estrasse l’agenda dalla borsa. «Si
chiama Ralph Green e abita in Riffington Place, numero 10».
«Riffington Place, numero 10… perché mi dice qualcosa?», rimuginò Coco, mentre prendeva l’appunto.
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«Non ne ho idea, ma è nell’elenco telefonico, ho controllato… se
ciò ti fa stare meglio».
«Lo sai vero che non è per niente assennato andare a casa di qualcuno?», domandò Coco, con la voce carica di preoccupazione. «A me
dici di fissare l’appuntamento in un luogo sicuro e poi tu entri nel
salotto di un ragno come una stupida mosca?»
«Sì, ma sono una mosca dannatamente grande che sarebbe
meglio non far arrabbiare. Ed è stato Ralph a dirmi di accertarmi che
un buon amico sapesse dove sarei andata».
«D’accordo, allora va bene. Però dobbiamo stabilire un codice e
se ti trovi in un qualsiasi tipo di guaio quando ti chiamo per controllare come stai, mi dici la parola…», si sforzò di pensare,
«squartatore».
«Sarebbe troppo ovvio, non pensi?», rise Juliet. «Dirò “favoloso”,
va bene?»
«Non sono tranquillo, Ju».
«Smettila di stressarmi, checca isterica che non sei altro. Starò
bene».
Juliet non vedeva l’ora che arrivassero le sette di sera. Si prese
una lunga pausa pranzo e andò in giro per negozi, perché doveva
comprare un abito che fosse attillato e stupendo per la serata. Fare
sesso al primo appuntamento, tra l’altro al buio, non era un’opzione
da prendere in considerazione, ma lei e Ralph avrebbero potuto perdere il controllo e imboccare il sentiero dei preliminari.
In realtà, era davvero piuttosto sconsiderato da parte sua andare
a casa di lui, ma era certa che Ralph fosse un ragazzo rispettabile
(sperava soltanto che non sarebbe stato troppo rispettabile). Inoltre,
Ralph le aveva detto di assicurarsi che i suoi amici sapessero esattamente dove lei si trovava. O meglio glielo aveva “scritto”, perché in
realtà non si erano veramente parlati su MSN. Tuttavia, dopo aver
guardato la foto del suo profilo, Juliet si chiese come avrebbe potuto
la sua voce non essere sensuale.
Comprò un tubino corto satinato di colore viola scuro e delle
scarpe abbinate in pelle scamosciata con la zeppa. Una volta tornata
102/432
in ufficio telefonò a Floz per riferirle dell’appuntamento, poiché
quando era uscita per andare a lavorare Floz stava ancora dormendo
– cosa alquanto insolita per lei.
«Floz, torno a casa alle cinque e mezza in punto e mi serve il
bagno per un po’ di tempo, quindi se pensavi di lavarti, potresti
farmi il piacere di rimandare?»
«Certo», disse Floz. «Farò in modo che tutto sia pronto per
quanto entrerai in scena. Che tipo è? Dove l’hai conosciuto? E dove ti
porta?»
«L’ho trovato su singlebods.com», disse Juliet, prevedendo che
cosa le avrebbe detto Floz quando le avrebbe riferito che andava a
cena a casa di lui. «E sì, starò attenta; e sì, ti darò il suo indirizzo e il
numero di telefono, e prometto che non mi farò uccidere».
«Va bene», disse Floz, cercando di sembrare un po’ più allegra e
ottimista di quanto non fosse. Per lo meno, Juliet stava facendo la
cosa giusta dato che stava traghettando una relazione virtuale nella
vita vera il più velocemente possibile. Le relazioni virtuali avevano il
potenziale di ferirti tanto quanto quelle della vita reale. Forse ti segnavano ancora di più, perché i partner virtuali erano fatti su misura,
e i loro difetti erano appianati dall’immaginazione, fortemente determinata a creare un compagno perfetto.
Coco telefonò a Juliet a metà pomeriggio. Non era dell’umore
migliore.
«Gideon non mi ha chiamato».
«Sono soltanto le due e mezza», lo rimproverò Juliet. «Sii
paziente».
«Ha detto che mi avrebbe telefonato e non lo ha fatto. Non riesco
a capirlo: abbiamo trascorso una serata piacevole». Coco era
sull’orlo delle lacrime.
«Rilassati, tesoro mio», disse Juliet con fare gentile. «Potrebbe
essere impegnato oppure starà guidando. Vai a lavorare un po’ e
toglitelo dalla testa».
«D’accordo», disse Coco, riattaccando.
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«Era Raymond al telefono?», rise Daphne, mentre poggiava una
tazza di caffè sulla scrivania di Juliet. Aveva abitato per trent’anni
nella stessa via in cui viveva la famiglia di Coco ed era al corrente del
suo vero nome. Daphne, così come Grainne e Perry, non si era mai
sentita a suo agio nel rivolgersi a lui col nome di Coco.
«Sì», disse Juliet. «È un po’ agitato. Ha avuto un appuntamento e
il ragazzo in questione non gli ha ancora telefonato».
«La pazienza non è mai stata il suo forte», annuì Daphne. «Harry
non mi ha contattata per due settimane dopo il nostro primo appuntamento. Tuttavia, ha avuto subito le idee più chiare non appena
ha scoperto dell’esistenza di un altro ragazzo che mi portava a ballare. Ha fatto la sua mossa alla velocità di un maledetto treno
espresso».
«Da quanto tempo sei sposata, Daphne?», chiese Amanda,
togliendosi le cuffie auricolari per unirsi alla pausa caffè.
«Ventinove anni. Il venti novembre festeggiamo le nozze di perla.
Abbiamo organizzato una festicciola a casa della nostra Linda e siete
entrambe invitate. Ha ampliato la casa facendo costruire una stanza
per le feste», aggiunse Daphne con orgoglio.
«Oooh, fantastico», strillò Amanda. «Che cosa vi ha spinto a
sposarvi a novembre, comunque? Non c’era un freddo glaciale?».
Daphne scosse la testa. «È stato il giorno più bello di fine autunno. Le foglie volavano nell’aria come coriandoli e il sole sembrava
una grande pallina di gelato alla crema. Ho sempre pensato che l’autunno fosse la stagione più adorabile».
«Credo tu abbia ragione», concordò Juliet. Non aveva mai
pensato quanto sarebbe stato delizioso un matrimonio autunnale.
Il telefono dell’ufficio di Juliet squillò di nuovo e interruppe il
viaggio di Daphne lungo la strada, ricca di foglie, che apparteneva ai
ricordi.
«Gideon non ha ancora chiamato», si lamentò Coco. «Perché?
Che cosa c’è che non va in me? Dovrei telefonargli io?».
Juliet sospirò. I drammi relazionali di Coco le erano mancati
cooosì tanto. O meglio: per nulla.
104/432
«Andavamo proprio d’accordo». Un’ondata di singhiozzi si stava
accumulando nella voce di Coco. «Non può essere un altro di quelli
che spariscono nel nulla senza avvisare, vero?».
Juliet si morse la lingua, perché se avesse detto quello che le passava per la testa, Coco avrebbe probabilmente sviluppato delle
tendenze suicide.
«Tesoro, se lo chiami tu sembrerai insistente. Sei uno che vale la
pena inseguire, quindi lascia che sia lui a rincorrerti. Non dovresti ricordargli della tua presenza se non sei tra i suoi pensieri, poiché se
questo è il caso allora lui non è la persona giusta».
«Ma…».
«Sii semplicemente paziente. Se ti vuole telefonare, lo farà. Se
non ti vuole telefonare, allora non è l’uomo che fa per te».
«Bastardo!», sbottò Coco. «Sono talmente arrabbiato che potrei
esplodere».
«Allora esplodi», rise lievemente Juliet. «E non perdere la speranza, perché c’è qualcuno là fuori che non ti deluderà».
Mentre diceva quelle parole a Coco, sperò di sembrare più convinta di quanto non fosse. Da quando Hattie e Roger l’avevano
tradita, Juliet aveva iniziato a chiedersi con sempre più frequenza se
ci fosse qualcuno là fuori a cui lei sarebbe riuscita ad affidare il
proprio cuore.
Capitolo diciotto
Mezz’ora dopo, Coco telefonò a Juliet per dirle che anche se
Gideon l’avesse chiamato sarebbe stato inutile perché tanto ormai
aveva cancellato il suo numero dal telefono. La richiamò di nuovo
mentre Juliet stava aprendo la porta del suo appartamento per dirle
che Gideon l’aveva contattato e gli aveva spiegato che era stato fuori
tutto il giorno con un cliente. Coco era in estasi e Gideon era stato
nuovamente aggiunto alla lista dei suoi contatti.
«Oh cielo, non diventerà mai facile, il gioco del corteggiamento»,
si lamentò Juliet, lasciandosi cadere sul divano a fianco a Floz per
cinque minuti prima di cominciare il grande rito dei preparativi per
un appuntamento. «È tutto il giorno che Coco mi stressa». E continuò spiegandole il motivo per cui Coco non stava più nelle sue
mutande di Calvin Klein dalla rabbia.
«Povero Coco», disse Floz. «È difficile aprirsi e tornare a essere
vulnerabili».
Juliet tirò su col naso. «Personalmente, non capisco il problema.
Se tu ti sei divertito, ma il tuo compagno non ti ha contattato il
giorno dopo, è evidente che non è interessato abbastanza da volerti
rivedere: semplice. Se sei una che vale la pena inseguire, allora lo
faranno». Alzò le mani per comunicare a gesti quanto fosse stupido e
ovvio.
«Le donne tendono a voler dare una spiegazione a tutto: “Oh, non
mi ha chiamato perché ha perso il telefono”, oppure “È stato rapito
dagli alieni”, o “Forse è stato investito”. Crederanno a tutto piuttosto
che ammettere: “Lui non vuole rivedermi più e non ha il coraggio di
dirmelo”. Ora vado a preparare il bollitore, prima di saltare in vasca.
Tè o caffè?».
Floz ripose caffè, e fu sollevata di non dover addentrarsi nell’argomento e spiegarle che a volte esistevano delle ragioni veramente
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valide per cui qualcuno avrebbe potuto tagliare di punto in bianco i
ponti e sparire.
Più tardi, salutò Juliet con la mano, dopodiché lesse l’e-mail che
le era arrivata un’ora prima, ma che voleva conservare per quando
sarebbe stata da sola.
Cherrylips,
ho parlato con mia mamma questa mattina e ho annullato la chemioterapia.Il
dottore non ha fatto tanta resistenza,ha solamente detto che capiva.Vado a fare un
gita a Warhorse con la mia familia per pescare.Il week-end in arrivo sarà troppo
bello per trascorrerlo dentro casa, e io sono stato in casa per troppo tempo ultimamente. Ti mando un allegato, l’ho rinominato ma che cosa mi potranno mai fare al
riguardo?Si tratta del mio punto di vista su praticamente ogni cosa.Spero non ci
faranno mai una canzone rap,significherebbe la fine della civiltà per il resto dei
giorni a venire.
Mi sarebbe piaciuto portarti a pescare, anche se avrei dovuto infilare i vermi su
tutti i tuoi ami,ma ciò fa ormai parte di un’altra vita e di un posto che non mi resta
che sognare. La suggestione genera spesso altra suggestione.
Nick
Floz si ricordò di come lui avesse programmato di portarla a pescare per una giornata intera e di cucinare quello che avrebbero preso
sul barbecue nei boschi dietro casa. Sentì un dolore profondo dentro
di sé. Aprì il cassetto della scrivania, estrasse gli auricolari e li inserì
a lato del computer, dopodiché aprì l’allegato, intitolato “Come mi
sento ora a proposito della vita”. L’apertura gentile degli strumenti
ad arco della versione di Louis Armstrong di What a wonderful
world partì, e lei ascoltò le parole, cercando di immaginare lo stato
mentale di un uomo che aveva accettato il fatto che a breve se ne
sarebbe andato, e singhiozzò nell’appartamento vuoto. Il suono era
quello di un animale in pena.
Capitolo diciannove
Coco era di certo su di giri per Gideon, ma la sua eccitazione era
nulla se paragonata a quella di Juliet, totalmente fuori di sé davanti
alla prospettiva di un uomo che avrebbe cucinato la cena per lei, una
proposta che pensava fosse molto seducente. Aveva cercato di non
essere stupida perdendosi a pianificare il futuro, ma le stavano passando per la testa delle immagini indecorose di ciò che sarebbe accaduto dopo qualche appuntamento, immagini di Ralph che le
toglieva il vestito e la baciava su tutto il corpo con fare esperto.
Il suo navigatore le stava dicendo che doveva girare in Riffington
Place. Provò a scorgere i numeri delle case: 96, 94, 92… Aveva
ancora tanta strada da fare prima di arrivare al 10. Si trovava in un
quartiere tranquillo alla periferia di un paese che si chiamava Lower
Hoppleton, un luogo che assomigliava alle lande dei pensionati. 38,
36, 34… Mancava poco. Juliet stava esplodendo per l’attesa. 24, 22,
20… Controllò di nuovo il foglio con sopra scritto il numero di Ralph. Sì, era decisamente il 10.
Quando lo trovò, mandò un messaggio a Floz per dirle che era arrivata e telefonò a Coco.
«Oooh, com’è la casa?», chiese Coco con entusiasmo.
«È una villetta a un solo piano, e la porta ha una vetrata colorata
che ritrae l’immagine di un grande uccello».
Coco riuscì a cogliere una nota di tristezza nella voce di lei: «Cosa
c’è che non va?»
«Niente», disse Juliet, che non aveva menzionato le tende con le
decorazioni pacchiane alle finestre, dove invece si era immaginata di
vedere delle veneziane in legno, o la siepe tagliata a forma di galletto.
O gli gnomi che sbirciavano da dietro il fogliame in giardino.
«Vai e divertiti. Non giudicare un uomo dalla sua porta
d’ingresso», disse Coco. «In ogni caso levati dalle palle, devo andare
a farmi una doccia. Non sei la sola ad avere un appuntamento questa
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sera, carina. Comunque, terrò il cellulare in tasca per tutto il tempo
in caso tu abbia bisogno di me. Ricorda, “favoloso” è la parola
d’ordine».
Juliet afferrò la bottiglia di vino e chiuse la portiera della macchina. Sì, Coco aveva ragione, era troppo critica. Avrebbe avuto qualcosa di cui lamentarsi se la casa fosse stata una topaia fatiscente con
una vecchia macchina parcheggiata in mezzo al giardino. L’eccitazione iniziò a pervaderla, mentre i suoi tacchi ticchettavano
lungo il vialetto lastricato di pietre irregolari. Vide che il campanello
era vicino a una targhetta con il nome della casa: HOLMLEA. Desiderò
non averlo notato, poiché una tale dozzinalità la faceva raccapricciare. Spinse il pulsante con il dito e una melodia squillante e di cattivo gusto iniziò a suonare: erano le prime battute della sigla di
EastEnders, la telenovela inglese. All’improvviso, avvertì una morsa
di terrore allo stomaco, che per fortuna svanì non appena vide la
sagoma dietro alla porta, che attribuì subito al bellissimo Ralph. Poi,
la morsa tornò, mentre la porta si apriva e Ralph si palesava di
fronte a lei; sembrava più vecchio e robusto rispetto alla foto del suo
profilo, indossava un cardigan marrone scuro e delle pantofole abbinate. Le foto che aveva caricato sul profilo erano evidentemente
degli scatti ben riusciti.
Ralph fece un ampio sorriso vedendo Juliet e le disse con una
voce che sembrava uscirgli dal naso evitando del tutto di passare
dalla laringe: «Entra, cara Juliet, entra. Il tè è quasi pronto».
Tutto ciò che Juliet avrebbe voluto, era ritornare di corsa alla
macchina, tuttavia non voleva essere maleducata dopo che lui si era
preso il disturbo di cucinare la cena. Si disse che sarebbe rimasta
un’ora – ciò non l’avrebbe uccisa. Ralph si spostò di lato per lasciarla
entrare e le diede un bacio sulla guancia. Per lo meno aveva un buon
odore. Era palese che si fosse rasato per l’occasione, mettendosi un
po’ di colonia. Bastava a compensare gli gnomi e il cardigan, oltre
che le pantofole e la voce nasale?
“Non essere cattiva”, le disse la voce interiore della ragione. “Tuo
padre indossa ogni genere di pantofole e occasionalmente anche un
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cardigan e a tua madre non fanno venire voglia di vomitare. Per non
parlare delle tue pantofole con il coniglietto, Juliet Miller”.
Juliet seguì Ralph lungo uno stretto corridoio, le pareti erano disseminate di ritratti di famiglia incorniciati in bianco e nero e color
seppia; entrarono infine in un ordinato salotto dalla forma quadrata
con un caminetto piastrellato e un arredamento in una gamma limitata di colori che andavano dal marrone, al beige, a un tenue verde
vomito. Un’enorme radio di altri tempi era posizionata in un angolo.
Sembrava un oggetto risalente alla guerra. Si aspettava quasi di
vedere Vera Lynn balzare alle sue spalle cantando White Cliffs of
Dover.
«Ho pensato che facesse un po’ freddo, per cui ho acceso il caminetto», disse Ralph sorridendo, e Juliet notò che aveva delle briciole
marroni tra i denti inferiori. Provò a rispondere al sorriso, ma la
bocca non collaborava e finì per esibire una smorfia contorta.
«Ti ho portato questo», disse lei, consegnandogli il vino. Almeno
aveva delle belle mani, pensò mentre lui prendeva la bottiglia, nel
tentativo disperato di trovare un lato positivo e far sì che quell’ora
passasse in fretta.
«Lo teniamo per più tardi», disse lui. «Ho appena preparato
un’enorme teiera. Posso prendere il tuo cappotto?»
«Oh, fa lo stesso, lo tengo qui, dietro di me», disse Juliet
togliendoselo. La stanza era torrida a causa del grande fuoco che ardeva nel caminetto. Per via dell’ambientazione obsoleta, l’atmosfera
non sembrava tanto accogliente quanto avrebbe dovuto essere.
«Vado a prendere qualcosa da mangiare», disse Ralph, facendo
scivolare un veloce sguardo di apprezzamento sul corto abito di lei,
che si stava rivelando un acquisto completamente inadatto al tipo di
serata. Ralph indietreggiò lentamente fuori dalla porta, come se lei
fosse stata la regina e lui non osasse rivolgerle le spalle. Juliet sentì
che muoveva dei piatti nella stanza attigua, presumibilmente la cucina, e capì che era stata ingenua a pretendere di aver capito com’era
un uomo dal modo in cui scriveva. Il fusto alla Robert De Niro che si
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era immaginata si era rivelato un anziano scapolone da telefilm britannico anni Settanta.
Juliet si guardò intorno. I mobili erano antiquati e scuri, nonostante fossero stati lucidati fino a risplendere. I due divani erano voluminosi e avevano dei centrini color panna, posizionati con precisione, che coprivano lo schienale e i braccioli. Dei cuscini, con ricamate le scritte RALPH e MAMMA, erano disposti con cura. Altre vecchie
fotografie erano appese alle pareti e notò una gran quantità di
soprammobili sulle mensole: gingilli in ottone, alcune bambole
spagnole con dei vestiti vivaci dentro una vetrinetta, insieme a un
datato servizio da tè e allo strato superiore di una torta nuziale, veramente vecchia, con due sposini sbiaditi in cima. E alcuni oggetti di
porcellana con sopra scritto MAMMA.
«Eccoci qui», disse Ralph, presentandosi sulla porta con un vassoio, che posò sul grembo di Juliet. Sopra c’era un graziosa tazza da
tè in porcellana, un po’ di latte e una zuccheriera, oltre a un grande
piatto con un pasticcio a base di carne, purè di patate e carote. E una
bottiglia di salsa marrone. «Il pasticcio è una mia ricetta», disse lui
con orgoglio.
«Oh, delizioso», ribatté Juliet, demoralizzata per via di un’altra
sua fantasticheria che veniva ridotta in pezzi. Si era immaginata una
cena da tre portate seduta a un tavolo, con lunghe flûte spumeggianti
di champagne che avrebbero fatto tintinnare per brindare al loro
primo incontro.
Juliet stava morendo di fame e il cibo aveva un aspetto piuttosto
invitante, seppure banale. Prese una forchettata di pasticcio, annusandolo furtivamente per scoprire se ci fossero strani odori chimici che l’avrebbero resa incosciente, impedendole di telefonare a Floz
e a Coco di lì a un’ora per “controllare come stavano”.
Ralph si era seduto sul divano opposto al suo e la stava guardando, mentre lei masticava con evidente gioia. Juliet sorrise imbarazzata con la bocca piena, ma Ralph rimase lì a osservarla.
«Dov’è il tuo piatto?», gli chiese dopo aver preso la seconda
forchettata.
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«Oh, ho mangiato alle cinque insieme a mia madre», rispose.
«Lei non vuole mai aspettare e odia mangiare da sola. Voglio che
ceni entro le cinque e mezza, così può prendere la sua pastiglia ed essersi già addormentata per le sei e mezza. Se tutto va bene dorme per
tutta la notte, anche se non si può mai dire ultimamente». Sospirò
con affetto.
«Quindi vivi con tua madre?», chiese Juliet. Per quanto fosse
buono il pasticcio, non voleva starsene lì seduta a mangiarlo da sola
in compagnia di un uomo con dei pezzi di carne tra i denti che la
fissava.
«Sì», disse Ralph. «La sua camera da letto è quella sul retro, la
mia invece è sul davanti e lavoro nella terza stanza, che si prolunga
in giardino. Te la mostro dopo il dolce. Ho una Viennetta al caffè».
Il cervello di Juliet stava urlando “aiuto!”. Poi, il telefono le vibrò
in tasca.
«Oh, scusami», disse estraendolo e vedendo l’adorabile nome di
Floz che lampeggiava sullo schermo.
«Tutto bene?», le chiese la sua coinquilina. «So che avevo detto
che ti avrei chiamata dopo un’ora, ma ho pensato di controllare
come andava un po’ prima del previsto».
«Starai scherzando!», disse Juliet, cogliendo l’occasione per scappare a gambe levate. «Come hai fatto?»
«Fatto cosa?», disse Floz.
«Hai chiamato l’ambulanza? Non devi muoverti. Rimani esattamente dove sei. Sto arrivando!».
«Cosa?».
Juliet sollevò il vassoio e si alzò. Anche Ralph si alzò, Juliet scaraventò il vassoio nelle mani di lui.
«Oh mio Dio, mia madre è appena caduta giù dalle scale. Devo
andare da lei. Non riesco a crederci: non ha nemmeno chiamato
l’ambulanza. Mi dispiace veramente tanto interrompere così presto
la nostra serata dopo che ti sei preso tutto questo disturbo».
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«Oh, fa lo stesso, devi andare», disse Ralph con un’espressione
mortificata. «Devi prenderti cura di tua madre. Sono delle creature
molto preziose».
«Vado da sola alla porta. Grazie mille. È stato bello conoscerti».
Juliet si precipitò all’entrata, sperando che non fosse chiusa a
chiave. Non lo era.
L’aria fresca della sera la colpì in viso e lei inspirò con gratitudine.
Ralph aveva posato il vassoio da qualche parte così da poter salutare Juliet con la mano. Lo vide sotto la luce arancione dell’ingresso
che lo illuminava da dietro: una sagoma con tanto di cardigan e pantofole. Juliet salì in fretta e furia in macchina, sfoggiando la sua
migliore espressione di preoccupazione per la madre e partì sgommando. Appena svoltato l’angolo, la tensione allentò la presa sul suo
corpo, e lei guidò fino a casa in uno stato quasi rilassato di euforia.
Decise che avrebbe fatto meglio a sposare Floz Cherrydale una volta
arrivata a casa.
Capitolo venti
Floz indossava la sua assurda vestaglia con le chiazze da dalmata
quando Juliet fece irruzione nell’appartamento, gettando le braccia
al collo della sua graziosa coinquilina e schioccandole un enorme bacio umidiccio sulla guancia.
«Florence Cherrydale, ti amo e ti amerò per sempre», proruppe.
Appena Floz fu in grado di respirare, dopo essere stata spremuta
fino all’ultimo centimetro della sua anima, le chiese: «Che cosa
caspita è successo?»
«Vino, mi serve del vino se devo raccontarti passo passo, come
nei programmi televisivi per bambini tipo Art Attack», disse Juliet,
sparendo in cucina e ritornando con una bottiglia e due bicchieri.
Era soltanto un miscuglio di scadenti vini rossi, ma a causa del suo
stato mentale aveva il sapore del nettare.
Floz ascoltò mentre Juliet la metteva al corrente di Ralph, della
sua villetta a un piano e del vassoio.
«Riffington Place numero 10!», disse Floz allibita, quando sentì
l’indirizzo. «Cribbio, è un po’ troppo simile a Rillington Place numero 10 per i miei gusti».
«Oh accipicchia!». Juliet si mise le mani davanti alla bocca per lo
stupore. «L’assassinio di Rillington Place n. 10. Mi ero chiesta perché mi suonasse piuttosto familiare. In ogni caso, Ralph era troppo
rammollito per essere un omicida seriale come Christie».
«Sì, be’, da quello che mi ricordo del caso, Reginald Christie non
era esattamente un uomo virile. È per questo che gassava le vittime
prima di… assalirle. Sei stata avventata», disse Floz, «andare a casa
di uno sconosciuto è molto rischioso».
La sua voce si abbassò alla fine della frase, mentre si ricordava
che Nick in passato sarebbe dovuto andare da lei e restare nel suo
appartamento per una quindicina di giorni. Ma la sua mente respinse velocemente quel pensiero, perché lei e Nick avevano costruito
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una relazione che era durata svariati mesi ed erano arrivati a conoscersi. Nessuno poteva fingere tanto a lungo, lei se ne sarebbe accorta se lui non fosse stato onesto e sincero.
«Lo so», disse Juliet. «Ma era innocuo, davvero. E stimo che
fosse più vecchio di almeno dieci anni rispetto alle foto. Però ha fatto
un ottimo sugo di carne», arrivata alla fine si mise a ridere.
«Non dovresti scherzare. Alcune persone sono davvero astute: su
internet danno dei ritratti di se stessi che assomigliano veramente
poco a come sono invece nella vita reale. È un mare che pullula di
svitati».
«Sì, lo so», disse Juliet, mentre la sua risata si smorzava. «Ma
non possono essere tutti pazzi. Anch’io mi sono registrata sul sito e
non sono una svitata».
«Vero», disse Floz. “E nemmeno io e Nick lo siamo”. «Ma è
meglio stare attenti. Non devi più andare a casa di un uomo al primo
appuntamento. Avrebbe potuto mettere delle droghe o chissà cos’altro nel sugo di carne».
Juliet sorrise notando la preoccupazione di Floz. Era talmente
euforica per il sollievo di essersene andata che non riusciva a mettersi nei panni di chi l’aveva scampata bella. «Sì, mamma. Per lo meno
l’esperienza di Coco è stata positiva, e ciò è di buon auspicio».
«Però ricordati che si sono visti soltanto una volta fino a ora,
quindi non dobbiamo essere precipitosi».
«Oh, Floz, sei così scettica», sospirò Juliet. «Hai avuto delle esperienze veramente brutte con il meno gentil sesso?»
«Non più di quante ne abbiano avute le altre donne», disse Floz,
capendo che la conversazione si stava avvicinando troppo ad argomenti a cui non voleva pensare e preparandosi a deviare l’attenzione di Juliet. «Quindi, ritenterai con gli incontri su internet oppure
no?»
«Potrei», disse Juliet. «Almeno per conoscere una gamma più
vasta di cardigan e pantofole».
Floz colse la palla al balzo. «Allora ti lascio libera di dedicarti alla
tua missione e ti auguro una buonanotte».
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«Un altro bicchiere di vino?», propose Juliet.
«Grazie, ma per questa volta passo», disse Floz, e poi simulò uno
sbadiglio. «Sono stanca morta».
«Va bene», disse Juliet. «Allora vado a caccia di un altro po’ di
prede. Mi passeresti il mio portatile?».
Così, mentre Juliet entrava nel sito per visualizzare la lista degli
uomini, Floz si ritirò nella sua stanza, spense la luce e accese silenziosamente il monitor del suo computer. Sperò che Juliet non la sentisse scrivere alla tastiera.
Ciao omone,
credo che in questo momento tu abbia tutto il diritto di decidere per te stesso, e
se hai voglia di andare a pescare allora ci devi andare! Spero che il sole risplenda e
che tu prenda dei pesci giganteschi. Sì, avresti dovuto infilare i vermi sui miei ami
e passarmi un fazzoletto in caso avessi pensato che il pesce stava soffrendo, ma
avrei preparato il più bel cestino da picnic che si possa trovare in questo lato di
Venere.
Idiota: avrei voluto una tua visita!!!
Prendine uno grosso per me.
Baci,
Cherrylips
Juliet ritornò su singlebods.com e trovò un paio di nuove possibilità all’orizzonte. Ryan, un dirigente di marketing di Sheffield;
Jonathan, un creatore di siti web di Wakefield; e Brian, un rappresentante di commercio di Rotherham. Aprì una chat con ognuno
dei tre. Tagliò i ponti con Jonathan dopo cinque minuti quando lui la
invitò a vederlo attraverso la telecamera e lei scoprì che era completamente nudo. Peccato, aveva un corpo formidabile, ma nessuno
poteva piacergli più di se stesso. Ryan e Brian sembravano piuttosto
gentili, anzi le stavano facendo un’ottima impressione. Le chiesero
entrambi di incontrarla il prima possibile. Scelse Brian per il giorno
successivo e Ryan per il giovedì.
Floz si svegliò alle tre del mattino e si fiondò al computer, convinta che avrebbe trovato una risposta di Nick, come se lui fosse stato
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sintonizzato con lei. Aveva sempre creduto che se si fossero incontrati sarebbero stati quel genere di coppia in grado di completarsi a
vicenda le rispettive frasi, e avrebbe saputo d’istinto quando l’altro si
trovava in pericolo. “Come tuo padre e tua madre, Floz?”. No, si
disse. Non come loro, perché lei e Nick non sarebbero stati ossessionati l’uno dall’altra fino a escludere tutti gli altri. Lei e Nick non
sarebbero stati affatto come loro.
Aveva ragione: c’era un’e-mail da parte di Nick che l’aspet-tava.
Cherrylips,
una grossa parte di me è felice che tu non sia mai venuta a farmi visita.Saresti
venuta durante la fase del rifiuto e della rabbia,quando mi chiedevo perché fosse
capitato a me, e in quel periodo non piacevo nemmeno a me stesso. La parte restante di me vorrebbe che tu fossi venuta.Ho venduto la casa di Osoyoos, ma a volte
faccio un giro in macchina da quelle parti e mi domando che cosa sarebbe potuto
accadere se le cose fossero andate in maniera diversa.Ora sono tornato all’ovile a
Okanagan.
Ti saluto per il momento,
Nick
Floz cliccò subito su Rispondi e iniziò a scrivere.
03:15. Vedi che non riesco a dormire?
Caro Nick,
sono così felice che tu mi abbia riscritto. Alla fine di questa e-mail ti ricorderò il
mio numero di telefono. Se ti viene voglia di chiamarmi non trattenerti.
Prendi un pesce enorme per me. Poi rigettalo in acqua e lascialo vivere.
Baci,
Cherrylips
Capitolo ventuno
«Quindi vi siete visti un’altra volta? Com’è andata?», Juliet disse
la mattina successiva a un effervescente Coco dal telefono
dell’ufficio.
«È stato favoloso», rispose Coco raggiante. Juliet riuscì a capire
che Coco stava sorridendo – era più che ovvio. «È adorabile. E no,
non ci sono andato ancora a letto. Vorrei, ma mi sto anche divertendo a conoscerlo. Oooh, quanto sembro adulto?»
«Molto», disse Juliet, impressionata.
Poi lo aggiornò a proposito del proprio appuntamento, facendo
delle pause quando lui rideva in corrispondenza degli aneddoti
divertenti.
«Mi incontro con Brian per bere qualcosa insieme all’Old Mill alle
sette di questa sera. E vedo Ryan per una cena veloce all’Orchards
Hotel vicino a Denby alle sette e mezza di domani», disse Juliet.
«Sono entrambi luoghi pubblici ben illuminati e non c’è alcuna possibilità che mi capiti un pasticcio fatto in casa servito su un vassoio».
«Bene», disse Coco. «Sei stata fortunata. Avresti potuto essere la
mia prima amica cadavere».
«Solo tu sei in grado di farla sembrare una cosa accettabile e alla
moda», ridacchiò Juliet.
Piers Winstanley-Black sbucò con la testa dalla porta e fece un
cenno per indicare a Juliet che aveva bisogno della sua assistenza.
«Devo andare, a presto». Juliet terminò la telefonata con Coco e
prese il suo blocchetto e una penna. Se soltanto quel maledetto
uomo si fosse sbrigato a fare la sua mossa con lei l’avrebbe salvata
dalle acque incerte degli appuntamenti su internet.
«Mi dispiace aver interrotto la tua chiamata», disse Piers, mentre
salivano le scale che conducevano al suo ufficio.
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«Fa lo stesso», rispose Juliet, cercando di non sembrare senza fiato. «Era soltanto un amico che al momento mi sta facendo dare un
po’ di matto».
La sua non era un’azienda che si accigliava di fronte a un’insolita
telefonata personale. Gli avvocati erano tutti cordiali e indulgenti, in
quanto sapevano di avere del personale eccellente che lavorava sodo
per loro, andando spesso oltre il dovuto.
Piers le aprì la porta, e mentre Juliet passava la scia del dopobarba di lui virò verso di lei. Avrebbe potuto respirare il suo profumo
per tutta la giornata, ogni giorno, senza mai stancarsene.
Si sedettero ai lati opposti della sua enorme scrivania in mogano.
Piers le porse una lista.
«Devo andare in tribunale alle dieci e sono sicuro di poter lasciare
tutto ciò nelle tue mani esperte», disse lui. La sua voce era come il
miele. Avrebbe potuto stare ad ascoltarla per tutta la giornata, ogni
giorno, mentre respirava il suo odore.
«Certo, Piers», sorrise lei, prendendo la lista dalle sue grandi
mani possenti, perfettamente curate. Avrebbe potuto farsi toccare da
quelle mani per tutta la giornata, ogni giorno, mentre lo ascoltava e
respirava il suo odore. Era davvero magnifico, i suoi occhi azzurri
erano abbastanza grandi da nuotarci dentro, nuda. Avrebbe potuto
possederla sulla scrivania in quel momento, se solo lo avesse chiesto.
Ma tutto quello che Piers Winstanley-Black vedeva quando guardava Juliet era l’affidabile e sorridente ragazza dell’ufficio di sotto,
non un’amazzone con un’incredibile carica sessuale che avrebbe potuto far galoppare il suo cuore come fosse un cavallo in corsa su una
spiaggia.
Non ancora.
Juliet ritornò fluttuando alla sua scrivania, e Amanda e Daphne la
osservarono divertite.
«Allora, ti ha già fatto la proposta di matrimonio?», chiese
Daphne.
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«Voleva, riuscivo a percepirlo», rispose Juliet con aria trasognata,
mentre si sistemava sul suo magnifico fondoschiena. «Ma lo attendono in tribunale per le dieci. Sarà per un altro giorno».
«Be’, dammi abbastanza preavviso per comprarmi un cappello»,
ridacchiò Daphne.
«Sto pensando di fare un matrimonio autunnale», sospirò Juliet,
«per seguire le tue orme».
«Qualcuno vuole un altro po’ di caffè?», chiese Amanda, riportandola sulla terra. «Ho dei biscotti al cioccolato fondente da inzuppare,
a meno che tu non sia già a dieta per il tuo matrimonio».
«Allora ne voglio solo quattro», disse Juliet nel suo migliore tono
risentito da snob. «Non vorrei rimanere incastrata mentre percorro
la navata centrale».
Capitolo ventidue
Cherrylips,
la scorsa settimana mi sono messo a riguardare le tue vecchie e-mail che non
ho mai cancellato.Per la maggior parte della mia vita sono stato una persona fondamentalmente meritevole,ma così non è stato quando mi hanno diagnosticato la
malattia e ho tagliato ogni ponte scappando da te.La mia intenzione di riprendere i
contatti nasceva dal volerti far sapere che la colpa era totalmente mia. Ho detto al
mio psicoterapeuta che non voglio che si presenti nessuno a mezzanotte sulla mia
tomba per pis**arci sopra.Al momento ho molto tempo per riflettere sulle cose.
Vivo del sangue delle altre persone e dell’ossigeno in bombole.Respiro come se
stessi facendo delle telefonate oscene e dopo pochi minuti mi sento sfinito.No, non
ti telefonerò, ma grazie per il numero.Apprezzo l’offerta.
Sono sempre stato attratto da te, completamente,cosa che non posso dire riguardo alla maggior parte delle persone che conosco.Un metro e sessanta mi sembrava un po’ troppo poco per qualcuno della mia statura, ma iniziavo a pensare che
fosse l’altezza perfetta. Volevo che ti accorgersi dell’impatto che hai avuto su di me
e che sapessi il motivo per cui avevo chiuso con te.Eri in cima all’elenco delle persone che dovevo contattare per scusarmi.
Avevo dimenticato quanta presa tu abbia sul mio cuore,Cherrylips.
La scorsa notte mi sono reso conto che è tempo di dirsi addio.Sei l’ultima per
me.Passa una bella vita, ragazza mia, e prenditi cura di una gran brava persona.
Nick
L’e-mail arrivò mentre Floz si stava cucinando il pranzo, che finì
poi per gettare via. Il cuore le pesava incredibilmente nel petto e batteva a ritmo incalzante. Soffriva per un uomo che non aveva mai incontrato e che viveva dall’altra parte di un’estremamente vasta
distesa d’acqua. Eppure, la distanza era affrontabile, pensò all’improvviso. Se si fosse mossa in fretta, prima che tra di loro ci fosse
stata una distanza che non poteva attraversare.
Floz aprì la barra di ricerca di Google e cominciò a scrivere per
cercare le tariffe aeree per Kelowna, che riteneva fosse l’aeroporto
più vicino a Okanagan, dove lui viveva, anche se non aveva il suo indirizzo esatto. Poi si fermò. Conosceva Nick abbastanza da sapere
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che in nessun caso avrebbe voluto vederla in quel momento, quando
era debole e ammalato, e non l’omone forte che doveva venire a trovarla e corteggiarla – nonché amarla – per poi riportarla con sé in
Canada. Non sarebbero mai stati più vicini di quando lui leggeva le
parole di lei, e lei quelle di lui. Le parole trasportavano i loro sentimenti dal cuore di uno a quello dell’altra. Floz si sentiva oppressa
dalla tristezza. Sapeva che sarebbe dovuta andare in Canada quando
se ne sarebbe andato e che lì avrebbe camminato sui suoi passi. Non
sarebbe riuscita ad accettare l’addio di lui fino a che anche lei non
glielo avesse detto.
Juliet arrivò puntualissima all’Old Mill e fu stupita di vedere che
Brian era lì ad aspettarla, vicino alla porta del pub che fungeva anche
da ristorantino. Indossava un completo nero con una cravatta rossa
e aveva un dopobarba al pino, che Coco avrebbe apprezzato. La
buona notizia stava nel fatto che era incredibilmente alto, la cattiva
che era troppo magro per i suoi gusti. Ma Juliet si rimproverò di essere troppo esigente. Aveva un sorriso simpatico e si era vestito per
farle una buona impressione, eppure lei era lì a lamentarsi perché
era snello invece che una palla di lardo.
«Ciao, Juliet». Le diede due bacini e le disse quanto gli facesse piacere incontrarla, poi le aprì la porta e la seguì dentro. Un punto in
più per il gesto: le piacevano i gentiluomini. Era molto più all’antica
di quanto gli altri pensassero. Davano per scontato che, essendo robusta e appariscente, fosse un’irriducibile femminista brucia reggiseni, ma nulla si discostava di più dalla verità. Juliet Miller era una
classica donna forte in cerca di un uomo che avesse abbastanza carattere da tenerle testa e che non si sentisse minacciato da lei al punto
da iniziare a indietreggiare davanti alla sua forza d’animo, come Roger e tutti i suoi ex fidanzati avevano fatto.
Brian le portò da bere a un tavolo ad angolo, tranquillo e grazioso,
e le chiese se desiderava mangiare qualcosa. Juliet non aveva appetito, ma pensò che fosse stato carino da parte sua chiederglielo.
«Quindi, sei single da molto?», domandò Juliet.
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«Quattro mesi», disse Brian con un sospiro pesante.
Un possibile punto in meno per questo. «Non è poi molto
tempo».
«No, ma il matrimonio zoppicava da parecchio».
«Ah».
«Mi ha lasciato per un altro uomo», disse Brian, bevendo una
sorsata della sua mezza pinta di birra chiara. «La mia prima moglie
aveva fatto la stessa cosa. A essere sincero, credo di essere
maledetto».
«Oh, accidenti», disse Juliet. «Comunque…».
«Non appena ho presentato l’istanza di divorzio ho pensato che
fosse giunta l’ora di uscire fuori nel mondo per trovarmi una nuova
compagna».
«Sono felice di sentire che…».
«Ovviamente, per quanto riguarda le questioni economiche, ci
servirà ancora un po’ prima che tutto sia risolto».
«Sì, di solito…».
«Mi ci è voluto molto più tempo per voltare pagina dopo il mio
primo divorzio. Questa volta è stato molto più facile».
Juliet aprì la bocca per contribuire alla conversazione e spostare
l’attenzione di lui dalle sue ex mogli a lei e al tempo presente, ma
non c’era alcuna pausa da riempire nella disquisizione di Brian.
Juliet si scolò la sua birra chiara e stette lì seduta con un bicchiere
vuoto, mentre Brian dimostrava che aveva superato la rottura del
suo matrimonio proprio come il Ponte Vecchio superava il corso del
fiume Danubio.
Sebbene entrambi si fossero accordati per bere soltanto una cosa
insieme, dopo un’ora e trenta minuti la mezza pinta di birra bionda
di Brian non era ancora finita, per cui Juliet non poteva neanche
proporgli un secondo giro. La gola di Juliet era ormai paragonabile
alla sabbia del Sahara, e mentre Brian diceva per l’ennesima volta
che «È bello sapere di aver dimenticato Janet ed essere andato avanti con la vita…», lei sentì la propria voce irrompere nel monologo
di Brian.
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«Baaaasta!». Non riusciva più a sopportarlo, le sue orecchie
stavano per sanguinare. Si mise in piedi e sollevò il palmo come
fosse una vigilessa che doveva arrestare le automobili. Brian si zittì
per lo stupore e stette lì seduto a osservarla a bocca aperta,
chiedendosi quale fosse stato il motivo che l’aveva portata a ruggirgli
contro in quel modo.
«Brian, sei un uomo davvero carino, ma chiaramente non hai
ancora superato il fatto che la tua ex ti abbia lasciato. In effetti, non
sono neanche certa che tu abbia superato il fatto che la tua prima
moglie ti abbia dato il benservito».
«Io… io l’ho superato». Brian annuì, anche se in modo piuttosto
debole.
«No, non lo hai fatto. Guarda il mio bicchiere! L’ho scolato un’ora
fa, ma tu non lo hai notato. Non hai fatto nessuna domanda su di
me. Non hai notato che sto per cadere in coma».
Brian sembrava inorridito.
«Hai parlato senza sosta per un’ora e mezza della moglie numero
uno, Sue, e della moglie numero due, Janet. So che Sue è scappata
con Robin, che ti aveva installato i doppi vetri, e ha preso con sé
Ringo, il bracco ungherese, quando se ne è andata. E avevate una
Nissan Micra. So che Janet al momento è in vacanza in un cottage in
Dordogna con Neil, che è un macellaio di Morrisons. So che Sue è
una taglia quarantotto, è bionda ed è allergica al nylon, mentre Janet
è una taglia quarantaquattro, dopo aver perso una sessantina di chili
grazie alla combinazione del ballo della salsa e di Weight Watchers.
So che odia il marzapane, le piace George Michael e ha un alluce
valgo al piede sinistro delle dimensioni della cittadina di Scarborough. Che cosa sai tu di me invece?»
«Ehm…».
«Proprio così». Juliet fece spallucce.
«Non sono pronto a uscire con qualcuno, vero?», deglutì Brian,
con le lacrime agli occhi.
«Per parlarci chiaro, no: sei proprio fottuto!».
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«Mi dispiace veramente tanto», disse Brian frugandosi nella tasca
in ricerca dei fazzoletti.
Juliet pensò che negli ultimi tempi quell’uomo doveva avere
sicuramente pianto molto. Brian si soffiò il naso fragorosamente,
fece un profondo respiro e si alzò.
«Ti accompagno alla macchina», disse lui.
Dopo averla scortata fino alla sua Mini le diede un bacio impacciato sulla guancia.
«Credi che tra qualche mese potremmo incontrarci… ancora?».
La guardò pieno di speranza, ma l’espressione di lei diceva tutto.
«Già, forse è meglio di no».
«Buona fortuna, Brian. Non precipitare le cose», insistette Juliet.
«Dai l’impressione di essere un disperato totale e sei un po’ odioso al
momento, se devo essere onesta».
«Sì, sì, me lo merito», disse Brian, tirando su col naso. «Grazie».
Juliet ingranò la prima e accese il lettore CD a tutto volume:
AC/DC. Aveva voglia di ascoltare degli uomini veri e scatenati con
tanto di fegato e palle. “Che modo tremendo di sprecare una serata”,
disse a se stessa. Però, il giorno successivo sarebbe stato il turno di
Ryan: la terza volta sarebbe stata quella fortunata. E se così non
fosse stato, be’… forse, a conti fatti, gli appuntamenti su internet non
facevano per lei.
Floz era a metà di un’e-mail destinata a Nick, quando Juliet proruppe nell’appartamento, gettò la borsa, si tolse le scarpe con un calcio e si buttò sul grande divano morbido.
«Floz, impediscimi di strapparmi i capelli», urlò.
«Arrivo», disse Floz, controllandosi il viso allo specchio per accertarsi che il suo aspetto non riflettesse il suo umore. «Stavo lavoricchiando. Mi sentivo dell’umore giusto», mentì.
«Sono stata torturata per un’ora e mezza con delle storie sulle ex
mogli. Io, Juliet Miller, non sono riuscita a spiccicare una parola
nemmeno per caso. Riesci a crederci?»
«No, non ci riesco», disse Floz. «Preparo il bollitore».
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«A quel paese il bollitore, togli dal frigo quella bottiglia canadese
di vino Eiswein».
Canadese. Era circondata da cose che le ricordavano Nick.
Juliet osservò Floz che andava in cucina sorridendo. La conosceva
soltanto da un paio di settimane, eppure capiva già che sarebbero
state amiche per sempre. Coco era un ottimo amico, ma non era una
donna e Juliet sentiva la mancanza di una stretta alleata femminile,
che non avrebbe vomitato in caso la conversazione si fosse spostata
sul ciclo mestruale.
Da quando Floz si era trasferita, l’appartamento era divenuto un
luogo molto più accogliente, grazie ai suoi biglietti d’auguri, al suo
computer, alla sua divertente vestaglia da dalmata, ai suoi adorabili
quadri con le fragole e ai suoi fruttati profumi per ambienti. Juliet
pensò che ogni casa avrebbe dovuto avere una sua Floz.
Sentì uno scoppio e un gridolino provenire dalla cucina. Con i
piedi liberi dai tacchi alti e una buona amica con cui analizzare la
serata davanti a un bicchiere di fresco spumante, Juliet pensò che,
uomini o no, la vita al momento non le sembrava poi così male.
Capitolo ventitré
Floz aveva proprio bisogno di una serata allegra trascorsa ad
ascoltare Juliet che le raccontava dell’appuntamento con Brian. Alle
dieci venne loro voglia di mangiare e divorarono una pizza dalla
crosta sottile con prosciutto e ananas. Tuttavia, ridere le sfinì, e alle
undici le palpebre di Juliet si stavano chiudendo.
Floz si mise a letto, poi si alzò subito. Doveva finire di scrivere la
sua e-mail a Nick prima di andare a dormire. Aveva bisogno di dirgli
delle cose, fintanto che ne aveva ancora la pos-sibilità.
Caro Nick,
a essere onesta, pensavo tu fossi il più grande bastardo che avessi mai incontrato. Non riuscivo a credere che mi avessi tagliato fuori, sparendo in quel modo
dalla mia vita; ma poi mi sono rimproverata e ho accettato il fatto che questi incontri avvenuti su internet si basano in ogni caso su delle menzogne. Avrei voluto
venire prima a conoscenza dei retroscena.
Sapevo che non mi avresti più telefonato. Però desideravo che tu avessi il mio
numero, così da poter avere una scelta. A ogni modo, non ho mai fatto una telefonata oscena: avresti potuto essere il primo. Tienilo a portata di mano, nel caso
sentissi il bisogno di chiamarmi.
Non so quale sia stato l’aspetto di te che mi ha toccato così a fondo, soprattutto
se consideriamo che sembravamo delle persone profondamente diverse.
Mi avevi spaventato quando mi hai scritto quella tua prima e-mail introduttiva,
te l’ho mai detto? Ho pensato che se non ti avessi risposto, mi avresti dato la caccia
con una balestra. Mesi più tardi, tutto quello a cui riuscivo a pensare era che
avremmo potuto intrattenerci con dell’ottimo sesso.
Non dirmi addio finché non devi veramente. Mi sto dissuadendo dal dirtelo a
mia volta. Ma lo farò, giusto in caso non ti sentissi più, poiché non è corretto obbligarti a rispondermi quando tu stai cercando di mettere un punto a qualcosa,
mentre io sto tentando di trasformarlo in una virgola.
Spero tu abbia davanti a te dei giorni tranquilli, mio amore.
Baci,
Cherrylips
Capitolo ventiquattro
Guy stava facendo la lista della spesa per la domenica. Avrebbe
cucinato della carne di manzo. Sapeva che Floz non era vegetariana.
Per dolce avrebbe preparato la più spettacolare delle torte, con tanto
di fragole. Sapeva che lei ne andava pazza perché aveva visto l’adorabile piccola serie di quadri con le fragole che Floz aveva appeso alla
parete e aveva notato che il loro profumo filtrava fuori dalla sua
stanza quando la porta era socchiusa.
Aveva pianificato ogni cosa: innanzitutto l’avrebbe stupita con le
sue doti culinarie e con un sagace scambio di battute mentre erano
seduti al tavolo da pranzo, dopodiché l’avrebbe chiamata il giorno
successivo per sapere come stava e invitarla fuori a cena.
«Chef, per piacere, guarda che cosa ho trovato!». Antonin apparve sulla porta reggendo un topo morto per la coda. Fantastico,
proprio quello che gli serviva.
Mentre Guy rovistava freneticamente nelle credenze della cucina
del ristorante, alla ricerca di prove dell’esistenza di altri topi, Juliet
stava entrando nel parcheggio dell’Orchards Hotel, con cinque eleganti minuti di ritardo, e guidava in modo frenetico nella speranza di
parcheggiare vicino all’Audi TT che Ryan aveva detto di avere.
La vide, e vide anche Ryan. Assomigliava esattamente alle fotografie del suo profilo: era alto e aveva le spalle larghe, proprio come
si era descritto, e non c’era traccia né di un cardigan marrone né di
pantofole.
“Così va molto meglio”, pensò Juliet sfoggiando un largo sorriso,
mentre scendeva dalla macchina.
«Ah, Juliet», disse Ryan con un ampio sorriso una volta che la
ebbe individuata, mentre si dirigeva a grandi passi verso di lei. Le
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diede un bacio sulla guancia e una delicata nuvola di un gradevole
dopobarba la avvolse.
“Sto diventando proprio come Coco, che va in brodo di giuggiole
per i profumi”, pensò Juliet, ridacchiando tra sé. Eppure, per il momento quell’appuntamento sembrava veramente promettente.
«Sei esattamente come nella foto del tuo profilo», disse Ryan. La
sua voce era sonora e profonda.
«Anche tu», disse Juliet.
«Rimarresti stupita se sapessi quanto è rara questa eventualità».
Ryan rise emettendo un bel suono genuino. Tese il braccio verso di
lei: «Entriamo?».
Camminarono a passo lungo e deciso in direzione del ristorante.
“Bingo”, pensò Juliet.
Quella stessa sera Floz si sentiva claustrofobica e non aveva voglia
di stare in casa da sola. Si trascinò pertanto fuori per fare un giro al
supermercato.
Erano passati diversi giorni dall’ultima volta che aveva varcato la
soglia dell’appartamento e sapeva che un po’ di aria fresca le avrebbe
fatto bene.
Passò vicino al bancone del pesce e pensò a Nick, che avrebbe
trascorso quel fine settimana a pescare con la famiglia. Mise nel carrello alcune verdure, che in realtà non voleva, e qualche bagnoschiuma a base di erbe della Radox, nella speranza che un bagno caldo e
profumato le facesse perdere i sensi, annullando gli effetti dell’insonnia. Non aveva per nulla appetito e la sua misera spesa ne era
un’evidente prova. Nel reparto delle riviste, un titolo attrasse la sua
attenzione: «L’amore della mia vita era un uomo che non ho mai incontrato». Distolse gli occhi prima di rendersi ridicola e iniziare a piangere nel bel mezzo del supermercato.
Una volta uscita, sia la luna che il sole erano visibili: condividevano lo stesso cielo. La luna stava dicendo arrivederci al sole che
andava a morire per la serata. Perfino pensare a quell’immagine fu
doloroso per Floz.
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All’Orchards Hotel, gli antipasti erano già stati scelti e gustati, le
portate principali finite, una piacevole caraffa di vino smezzata e i
caffè già bevuti per metà. Juliet si stava divertendo immensamente.
Fino a quel momento, Ryan aveva fatto il pieno di punti: era galante,
premuroso, affascinante, le poneva delle domande e sembrava sinceramente interessato alle risposte, giacché le sue pupille erano
dilatate. Ottimi punti a suo favore.
«Ebbene, devo chiedertelo: vuoi dei figli?», domandò Ryan.
Juliet non era sicura di aver sentito bene. «Scusa?»
«Che cosa pensi a proposito dell’avere dei figli?».
“Oh, accidenti”. Però, non si poteva dire che non fosse diretto.
«Ehm, devo confessartelo, non credo di essere tagliata per essere
madre».
Juliet si era immaginata che Ryan si sarebbe alzato in piedi
mettendo fine all’appuntamento. Era sicuramente un fattore per lui
imprescindibile dato che l’aveva menzionato durante il primo appuntamento, ma lei si era sentita in dovere di rispondere con onestà.
Ciononostante lui non fece alcun movimento; congiunse i polpastrelli e rifletté sulla prossima domanda.
«Quindi, teoricamente parlando, visto che non sei tagliata per la
maternità, se ti capitasse di avere un “piccolo incidente”, che cosa
faresti?».
Juliet suppose che con “piccolo incidente” intendesse avere una
gravidanza indesiderata e non farsela addosso.
«Onestamente non lo so», disse con una risata perplessa. «Credo
di non averci mai pensato».
«Che cosa intendi dire con “non lo so”?», le labbra di Ryan si
distesero in un sorriso di teso smarrimento, piuttosto che
divertimento.
«Intendo dire che in tutta onestà non lo so. Come si può sapere in
che modo ci si comporterà in una data situazione a meno di non esserci effettivamente dentro?», ribatté Juliet, udendo il debole tintinnio di un campanello d’allarme che iniziava a suonare nel profondo
della sua materia grigia.
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«Quindi, terresti il bambino?»
«Non lo so».
«Abortiresti? Coraggio, stiamo parlando in via teorica e devi
prendere una decisione».
Juliet si schiarì la voce. Sarà anche stato vero che stavano parlando in via teorica, ma i segnali inviati dal linguaggio del corpo di
lui le lasciavano intendere che molto dipendeva da quella sua
risposta.
«Davvero, non lo so».
«Non lo sai?». Da quel momento in poi l’atteggiamento di Ryan
mutò. Non stava più chiacchierando di argomenti metaforici. «Non
sai se uccideresti o meno il sangue del tuo sangue? Un feto è un essere vivente e ha gli stessi diritti sia dentro che fuori dall’utero».
Juliet posò la sua tazzina. Parlare di quello stupido argomento
“teorico” la stava facendo infuriare. Stava rovinando quella piacevole
serata. Un minuto prima si stavano scambiando aneddoti riguardo
favolosi viaggi nelle capitali europee, quello dopo stavano discutendo
dell’omicidio dei feti. Le era venuta la pelle d’oca e, se Ryan desiderava tracciare la linea della moralità, l’avrebbe accontentato. Tuttavia, non si sentiva a suo agio a parlare di cosa lei avrebbe fatto, per
cui formulò la sua risposta sfoderando un linguaggio legale.
«Ebbene, si dovrebbero valutare diversi fattori. La gravidanza
comporta dei rischi per la salute fisica o mentale della partoriente?
C’è una possibilità che il bambino possa nascere presentando delle
anomalie fisiche o mentali…?»
«Sappiamo tutti che i dottori e le cliniche interpretano liberamente la legge in materia, “trovando” delle ragioni per poter interrompere delle gravidanze, quando queste non sussistono», si intromise Ryan. «Quindi tu sei d’accordo con il concetto dell’aborto,
ciò è cristallino». Tutto il fervore se ne era andato dal suo volto e lui
stava guardando Juliet come se fosse una sconosciuta in cui si era
appena imbattuto.
«Non ho detto che sono d’accordo con l’aborto», protestò Juliet,
che lavorava tutti i giorni con degli avvocati e pertanto era
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pienamente consapevole del fatto che alcune persone potessero distorcere abilmente la realtà.
«Credo che tu l’abbia fatto», disse Ryan. I suoi occhi erano grossi
cubetti di ghiaccio che nemmeno l’ardente candela posta tra di loro
avrebbe potuto sciogliere.
«No, non ho affatto detto questo. In ogni caso, non credo che
l’aborto sia un argomento particolarmente adatto a una cena». Juliet
si trattenne dal pronunciare alcune delle sue imprecazioni preferite,
che aveva a fior di labbra.
«Esatto, perché evidentemente togliere la vita a un bambino non
equivale a un omicidio quando se ne parla davanti a del fottuto salmone e a delle taccole», Ryan sbraitò, alzando la voce tanto che le
persone sedute al tavolo di fronte guardarono verso di loro. «Che
razza di idiota sei?»
«Scusa?», disse Juliet. Le aveva davvero appena detto una cosa
del genere?
«Come può non essere omicidio?»
«Non voglio parlarne», disse Juliet.
«Oh no, hai iniziato tu». Ryan emise una strana risatina, ma i
suoi occhi sembravano vitrei e pericolosi. «Se togli la vita a un feto si
tratta di omicidio a sangue freddo. Dimmi un caso in cui non è così».
«No, non lo farò», disse Juliet. «Sono a un primo
appuntamento».
«Nonché l’ultimo con me», ringhiò Ryan, spingendo la sedia e
alzandosi in piedi, mentre lottava per infilarsi velocemente la giacca.
Gli altri commensali li stavano guardando. «Tu sei una di quelle puttane che promuovono l’aborto come se fosse la soluzione odierna ai
metodi contraccettivi. Sei il genere di vacca ipocrita che probabilmente esigeva a gran voce che Myra Hindley, l’assassina della brughiera di Manchester, venisse impiccata senza che ti accorgessi di essere un’omicida a tua volta!».
Juliet aveva la mano sul bicchiere di vino ed era a un soffio dal
gettarglielo in faccia. Ma tutti i suoi istinti le stavano dicendo: “Per
una volta, lascia perdere. Quest’uomo è pericoloso”.
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Ryan frugò nella sua giacca e lanciò tre banconote da dieci sterline sul tavolo.
«Questa è la mia parte. Paga da sola per la tua fottutissima cena,
maledetta troia assassina».
Ryan uscì come un fulmine dal ristorante, lasciando Juliet ad
arrossire per la prima volta nella sua vita. Arrivò la cameriera per accertarsi che stesse bene e Juliet pagò velocemente la sua parte, per
poi lasciare il ristorante sentendosi tutti gli occhi della sala puntati
sulla schiena.
Quando raggiunse l’inespugnabilità della sua macchina, pensò a
quanto fosse stata fortunata a non aver concordato di andare a cena
a casa di Ryan. Era stata davvero stupida. Stava tremando con violenza mentre inseriva la chiave nel cruscotto e si dirigeva verso casa.
La sua incursione nel mondo degli appuntamenti su internet si era
definitivamente conclusa.
Capitolo venticinque
Floz non si aspettava che Juliet tornasse così presto. L’ultima
volta che si erano parlate era stato durante una veloce telefonata di
controllo, appena dopo la portata principale di Juliet, quando tutto
stava andando a meraviglia. Juliet entrò e trovò Floz sommersa da
fazzoletti e con occhi incredibilmente rossi.
«Floz, che cosa ti succede?», chiese subito Juliet, mettendo immediatamente in secondo piano la sua serata.
«Oh, sto bene», disse Floz mentre raccoglieva tutti i fazzoletti usati e cercava di fingere un sorriso. «Non preoccuparti per me. Stavo
semplicemente guardando un film strappalacrime».
«Bugiarda», disse Juliet. «Che cosa succede?».
Colta alla sprovvista, Floz sentì che la sua unica opzione era confessare tutto. Più o meno.
«Va bene. Ho ricevuto un’e-mail inaspettata da una vecchia…
fiamma», disse a Juliet. «Ha semplicemente risvegliato in me delle
emozioni».
«Buone o cattive?», domandò Juliet.
«È stato bellissimo risentirlo», rispose Floz. «Mi ero dimenticata
quanto mi piacesse».
«Vi incontrerete?»
«Vorrei potessimo», disse Floz, mordendosi il labbro. «Era davvero speciale».
«Be’, ti suggerisco di buttartici a capofitto». Juliet tolse le forcine
dai capelli e guardò lo schermo della televisione. C’era il telegiornale,
un altro soldato era stato ucciso in Afghanistan. «Non si può mai
sapere che cosa ci aspetta dietro l’angolo».
Floz deglutì. Se solo Juliet avesse saputo quanto quelle sue parole
fossero vere. «Comunque, com’è andato l’appuntamento?»
«Non intendo parlarne senza una bottiglia di vino e due bicchieri», disse Juliet. «Questa serata è stata la ciliegina sulla torta».
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Quando Juliet entrò su singlebods.com per mostrare a Floz la
foto del profilo di Ryan, trovò un’e-mail lunga e offensiva da parte di
Ryan in persona, con tanto di punteggiatura aggressiva e piena delle
peggiori imprecazioni. Non sembrava possibile che fossero state inviate dallo stesso uomo sorridente, carino e amichevole che appariva
nelle tre fotografie del suo profilo. Era delusa in modo agghiacciante,
eppure aveva sempre pensato di potersi fidare del proprio intuito.
Juliet fece rapporto su Ryan agli amministratori di singlebods.com,
poi cancellò il proprio profilo, nonostante le fossero arrivate alcune
e-mail nella casella da parte di altri potenziali pretendenti che erano
interessati a lei.
«Facciamo tabula rasa», decise Juliet, per poi cliccare “Sì” alla
domanda “Sei sicuro di voler lasciare singlebods.com?”. Non era mai
stata così sicura di qualcosa in vita sua. In un certo senso, dopo
quella serata, essere single non le sembrava poi così male.
Capitolo ventisei
Il sabato successivo andarono a fare un giro in città insieme a
Coco.
«Gideon ha detto che non devo trascurare i miei amici», disse
Coco. «Questo è il motivo per cui al momento siete voi a godere del
piacere della mia compagnia, e non lui».
«Questo Gideon mi piace sempre di più». Juliet sfoggiò un ampio
sorriso. «È il primo uomo a cui non ti sei appiccicato con la
supercolla».
«Potrei sbagliarmi ma, ancora una volta, sento di volermi fidare
di lui», sorrise Coco. «Oggi porta fuori sua mamma per il suo compleanno. Lo incontrerò più tardi».
Juliet abbassò lo sguardo verso le scarpe di Coco.
«Che cosa c’è che non va?», le chiese Coco.
«Stavo solo controllando che avessi i piedi per terra. Mi sembri
proprio con la testa tra le nuvole».
«È così». Coco fece l’occhiolino, prendendo entrambe le donne
sottobraccio. «Sto toccando il cielo con un dito».
Andarono a pranzo allo Yorkshire Rose, un pub in centro. Era
economico e allegro, i pasti consistevano in prodotti surgelati
riscaldati al microonde, tuttavia erano molto più buoni di quelle orrende e raffinate portate dell’Orchards Hotel, pensò Juliet. Era
ancora abbastanza sconvolta per via di quel pazzo di Ryan, anche se
non lo ammetteva con gli altri. Gli uomini come lui erano dei maniaci ossessivi, che si presentavano alla tua porta per far scivolare
delle bombe incendiarie nella buca della posta. Accidenti, era
proprio invecchiata, per lasciarsi intimidire a tal punto. Non riusciva
a ricordare l’ultima volta che qualcosa l’aveva spaventata. Non era
neanche così temeraria e audace da sperare che qualcuno l’avrebbe
abbracciata facendola sentire protetta.
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Juliet affrontò l’accaduto distruggendolo con l’umorismo, infatti
durante il pranzo fece ridere gli altri con pronostici su come
sarebbero potuti essere i suoi potenziali partner futuri: un assassino
amante delle asce, sotto le mentite spoglie di un bibliotecario; oppure un attentatore suicida che lavorava da Greggs, la catena di locali specializzati in panetteria e pasticceria. Floz rise insieme agli altri, ma la sua mente non si allontanava mai troppo da Nick. Gli stava
mandando le sue migliori vibrazioni, nella speranza che lui e la sua
famiglia trascorressero un magnifico fine settimana mentre pescavano in un lago scintillante. Riusciva a immaginarlo, alto e slanciato,
leggermente muscoloso, intento a ridere con un sigaro stretto tra i
denti come in una di quelle fotografie che le aveva spedito. Un anno
prima, Floz aveva bruciato i suoi biglietti e le sue fotografie nel tentativo di reciderlo dalla propria vita, quando credeva che lui l’avesse
eliminata dalla sua in un modo così tacito e spietato.
Si riportò al tempo presente e ordinò un dolce.
«Quindi, dove andrai a caccia di fusti fino a che Piers non si deciderà a posare i suoi occhi brillanti su di te?», chiese Coco.
«Chi lo sa», rispose Juliet. «Ma se a breve non faccio sesso potrei
saltare addosso a Steve Feast. Mi sono ridotta veramente male».
«Accidenti», gorgheggiò Coco. «Sei in una situazione disperata,
cara».
Arrivò un messaggio al cellulare di Coco da parte di Gideon; gli
diceva che sperava che stessero trascorrendo un piacevole pranzo insieme e gli faceva sapere che non vedeva l’ora di incontrarsi con lui
più tardi.
«Perché io non posso pagare qualcuno affinché mi presti simili
attenzioni?», domandò Juliet, digrignando i denti mentre lasciavano
il pub. Sentirono un lamento stridulo. Un ubriacone con un completo logoro stava causando una certa ilarità mentre barcollava avanti e indietro per il viale principale.
«Scommetto che ha aperto un profilo su singlebods.com», disse
Juliet. «Sarà un dirigente brillante a cui piacciono le scenate
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drammatiche da teatrino amatoriale. Lavora in proprio e ha una
Jaguar nuova di zecca in garage».
Due poliziotti si stavano dirigendo verso l’ubriacone, quando
questi si schiantò contro la vetrina del negozio di un fotografo.
«Perdindirindina», rise Juliet.
“Oh no”, pensò Floz. “Non così. Non lui”. Era proprio quello il
motivo per cui non si recava più in centro.
«Ritorniamo a casa ora?», disse, restando nascosta dietro agli
altri.
I poliziotti erano ai lati dell’ubriacone e lo stavano sostenendo.
«Due minuti, devo andare in profumeria a comprare della colla
per unghie», disse Juliet.
«Vi aspetto fuori da Thorntons. Voglio comprare un po’ di cioccolata», mentì Floz, poi sfrecciò via nella direzione opposta.
«Coraggio». Le gambe dell’ubriacone vacillarono e per poco non
trascinò un poliziotto a terra con sé.
«Devo parlare con quella donna», farfugliò l’ubriacone, indicando
un’adolescente sghignazzante dai lunghi capelli rossi.
«Puoi parlare con noi in macchina, lungo il tragitto per la
stazione di polizia».
Coco guardò Juliet. «Che cos’ha Floz?»
«Una vecchia fiamma è ritornata sulla scena. Credo sia un po’
nervosa al momento. La cioccolata è proprio ciò che le serve a mio
parere. Negli ultimi due giorni è stata davvero taciturna».
«Tutti sono taciturni se paragonati a te, tesoro», disse Coco.
«Maleducato! Ogni cinque minuti va in camera sua, poi esce con
un muso lungo come quello di un cavallo. Suppongo che sia in attesa
di ricevere delle e-mail da parte dell’uomo misterioso».
«Non le telefona? Non le manda dei messaggi?», chiese Coco.
«Come faccio a saperlo?», rise Juliet. «Se capissi qualcosa di
relazioni amorose, non avrei rischiato di essere uccisa due volte in
una settimana».
«Se si tratta di una vecchia fiamma è più probabile che le telefoni,
non credi?». Coco e Juliet rimasero in piedi a guardare i poliziotti
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che cercavano di caricare in macchina l’ubriaco che protestava. Si
era messo a cantare, intrattenendo le persone che erano andate in
centro a fare acquisti.
La sua voce era sorprendentemente pulita e cantava con un vibrato misurato. Era una voce sprecata su un tale scellerato, notarono
dei presenti.
«Magari la chiama durante il giorno quando sono al lavoro, e in
quel caso non lo saprei», disse Juliet, divertita dai tentativi di Coco
di trasformarsi in un investigatore.
«Però se non la chiama di sera…», Coco si stava concentrando,
«…per me significa che potrebbe essere sposato. Gideon dice che un
uomo che preferisce mandare messaggi o e-mail invece di parlare ha
qualcosa da nascondere».
«Coraggio, Miss Marple», disse Juliet, trascinando Coco in profumeria. Era sicura che il suo amico non fosse ancora pronto a
vendere la sua Reggia dei Profumi per unirsi alle forze di polizia.
Dall’altra parte della strada, attraverso la vetrina di Thorntons,
Floz osservò l’ubriaco che veniva sistemato nel retro della macchina
della polizia. Aveva perso peso, e alcuni denti. Le sue guance erano
scavate e sembrava molto più vecchio della sua età, con la pelle giallastra e i capelli scarmigliati. Non riusciva a credere che un tempo
aveva condiviso il letto con lui. Era diventato un barbone, un ubriaco
di cui la gente rideva. Una volta erano una coppia con una casa e un
lavoro, e un futuro. La lacerava sapere che lui aveva scelto quel percorso. Nonostante tutto quello che le aveva fatto, e la repulsione che
provava nel vederlo, Floz era ancora molto, molto dispiaciuta per lui.
Capitolo ventisette
«Allora, sei pronta per il pranzo con la famiglia e Steve?», chiese
Juliet, con un leggero ghigno che le faceva incrinare il labbro
superiore.
«Che cosa c’è tra te e lui?», disse Floz, mettendosi la borsa in
spalla.
«È tutto muscoli e niente cervello». Juliet si picchiettò la tempia.
«Trovami l’estremo opposto di Steve Feast e avrai qualcuno a cui
sarei davvero interessata».
«Mi è sembrato veramente carino». Floz sparì in cucina per andare a prendere il vino bianco dal frigo.
«L’hai incontrato solo una volta, Floz. Io, invece, lo conosco da
una vita».
«È evidente che tuo fratello non la pensa come te».
«Steve Feast trascorreva più tempo a casa nostra che non nella
sua quando era piccolo. La signora Feast era – e sfortunatamente è
tuttora – una vera e propria ubriacona. Il padre di Steve se l’è svignata prima che lui nascesse. Mia madre gli ha comprato più vestiti di
quanti gliene abbia comprati la sua. D’altra parte, è stato davvero
d’aiuto con Guy quando…». Juliet si interruppe, come se fosse appena stata salvata con uno strattone dal cadere, nell’equivalente
verbale, in un grandissimo crepaccio.
«Quando cosa?», la esortò Floz.
Juliet afferrò il cappotto. «Oh, niente. Guy ha passato un periodo
difficile qualche anno fa, e Steve l’ha aiutato a superarlo. Allora,
siamo pronte per il pranzo chez Grainne et Perry?».
“Sì”, pensò Floz. Poi rifletté: “Questo pranzo sarà fantastico: Guy
guarderà in cagnesco me, mentre Juliet guarderà in cagnesco
Steve…”.
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Il signore e la signora Miller vivevano in una villetta unifamiliare,
piuttosto spaziosa, nella tranquilla periferia di Maltstone, un
grazioso paesino con tanto di chiesa gotica e una fiera annuale di
calendimaggio. Perry Miller e il suo compianto fratello gemello Stan
erano stati i proprietari di un’affermata azienda di lavorazione della
plastica, prima di venderla a fronte di un enorme guadagno e ritirarsi. Stan era stato un appariscente direttore con l’immancabile
completo giacca e cravatta, mentre Perry non era mai stato più felice
di quando indossava la sua tuta da lavoro nel laboratorio ingegneristico. Grainne Miller era sempre stata felice nel suo ruolo di casalinga. L’unica ragione che le impediva di essere come Doris Day era
da attribuirsi al fatto che cucinava malissimo.
Juliet aprì spingendo la porta principale della casa al numero 1 di
Rosehip Gardens ed entrò in un grande ingresso dalla forma quadrata, seguita da Floz. Il profumo magnifico del pranzo domenicale
arrivò subito alle narici di entrambe. I signori Miller apparvero un
attimo dopo, con le braccia aperte, pronti ad accogliere la figlia e
l’ospite notevolmente più esile. Grainne le scoccò un grosso bacio
sulla guancia, dopodiché, come se si trovasse su un nastro trasportatore di abbracci, Floz fu passata a Perry, che le diede un abbraccio
languido. Erano il genere di persone che la facevano sentire come se
li conoscesse da sempre, e capiva appieno il motivo per cui Steve
avesse gravitato intorno a quella famiglia, giacché la sua era così
fredda e disfunzionale. Non appena pensava ai Miller le veniva
voglia di sorridere.
«Dov’è il nostro Guy?», chiese Juliet, togliendosi il cappotto.
«È in cucina», rispose Perry, ammirando la bottiglia veramente
graziosa di Sauvignon Blanc che gli era appena stata messa tra le
mani. «Steven sta aprendo un po’ di vino in salotto, andate a
salutarlo».
«No, grazie», disse Juliet sottovoce, anche se pochi secondi dopo
fu costretta a farlo, visto che Steve girò l’angolo reggendo un vassoio
di bicchieri.
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Floz lo esaminò di nuovo: mento volitivo e squadrato, capelli e
sopracciglia biondo chiaro, in contrasto con una pelle leggermente
olivastra che metteva splendidamente in risalto gli occhi di un colore
azzurro ghiaccio. Ebbene sì, era un vero bastardo con le donne, ci
avrebbe scommesso. Tuttavia pensava che avesse degli occhi gentili,
oltre a un sorriso caldo, ampio e sincero.
«Steven, appoggia quel vassoio e vieni a conoscere la nostra
Floz», disse Perry, cingendo il ragazzo con le braccia e spingendolo
in avanti.
«Ci siamo già incontrati, Pez», rispose Steve, posando il vassoio
su un tavolino.
«Pez?», Juliet alzò gli occhi al cielo.
«È bello rivederti, Floz», disse Steve, ignorandola. Steve riusciva
benissimo a capire perché Guy fosse attratto da Floz. Non era bella
come Chianti Parkin, ma aveva un aspetto estremamente dolce, con
occhi luminosi e splendenti come foglie lucide. «Prendi un po’ di
vino, Floz», le disse porgendole un bicchiere. «Ti piace il rosso?»
«Sì, grazie», rispose Floz.
«Quindi, che cos’hai fatto questa settimana?», chiese Perry, trascinando Floz in una conversazione, intanto che Juliet si dirigeva in
cucina per osservare Guy nel suo regno. Le padelle stavano gorgogliando e fumando; Guy stava tagliando l’arrosto di manzo. Juliet ne
rubò un pezzettino e Guy le diede uno schiaffo sulla mano.
«Sto solo assaggiando», disse lei, masticando con gioia. «Ti attieni ai tuoi soliti standard, devo ammetterlo».
Una padella sibilò e ne uscì un po’ di sugo.
«Oh merda!», disse Guy, guardandosi intorno con impazienza
alla ricerca di uno strofinaccio.
«Che cosa ti succede?». Juliet lo fissò incredula. «Sei agitato. Non
ti agiti mai quando cucini».
«Non sono agitato», grugnì Guy.
«Stai bene?»
«Certo che sto bene», disse Guy. «Perché non dovrei?»
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«È solo che… Non ti ho visto molto di recente. Ed è strano… Be’,
ho raccontato a Floz di quanto sei divertente e invece tu mi diventi
brontolone al pari di un enorme orso grigio di cattivo umore».
«Non credo sia giusto che continui a venirti a trovare così spesso
ora che hai un’inquilina. Vorrà la sua privacy», brontolò Guy, come
un enorme orso grigio di cattivo umore.
«Floz e Steve sembrano andare abbastanza d’accordo», rifletté
Juliet, sbirciandoli allo specchio sulla parete della cucina che rifletteva i due intenti a conversare in salotto. «Mi sembra di capire che
sia scattata una scintilla tra di loro».
Guy fece cadere un cartone di latte e imprecò, Juliet decise così di
defilarsi. Forse quel giorno sarebbe stato meglio lasciare in pace il
suo gemello.
Steve stava conducendo Floz verso una poltrona quando Juliet si
unì a loro. Le stava mostrando Stripies, Striscetto, il gatto di
famiglia: un vecchio felino con un occhio e un dente solo e delle
zampe deformi. Aveva un aspetto estremamente selvaggio, con quel
suo unico e lungo canino, tuttavia aveva il pelo morbido come il
burro.
«Perché lo avete chiamato così?», chiese Floz notando che era
completamente nero, senza nessuna traccia di striature.
Tutti i presenti nella stanza si scambiarono delle occhiate
divertite.
«Ah, questa sì che è una storia», disse Grainne.
«Per la verità, è risaputo che molti gatti neri quando sono piccoli
hanno delle strisce fantasma sul mantello», iniziò a dire Perry con
un largo sorriso. «Spariscono abbastanza presto, ma sembrano indubbiamente delle striscette».
«Oh, capisco», disse Floz.
«Comunque questo non è stato il motivo per cui lo abbiamo battezzato così», sorrise Perry, facendo di proposito l’evasivo.
«Dài, papà: raccontale la storia», lo incalzò Juliet, facendo
trapelare una gioiosa impazienza. «Va bene, comincio io. Per il mio
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diciannovesimo compleanno, mamma e papà mi comprarono una
pelliccia nera».
«E qualche sera dopo, Guy corse verso casa urlando: “Juliet,
dammi subito la tua pelliccia e un sacco dell’immondizia nero”»,
disse Grainne, prendendo le redini della storia. «E mi consegnò una
borsa bagnata, per poi uscire di corsa da casa con la pelliccia di
Juliet e un sacchetto dell’immondizia».
Floz sembrava divertita.
Perry fece alcuni tentativi di accendersi la pipa che stringeva tra
le labbra. Non appena ci riuscì, continuò la storia.
«Nella borsa c’era un micino nero, fradicio e tremante, con delle
strane zampe. Scoprimmo poi che un uomo chiamato Donald Green
lo aveva appena messo in un sacco e lo aveva gettato in un ruscello
che scorre a lato del bosco di Pogley Top. Il ruscello è conosciuto in
zona come “Pogley Stripe”, la striscia di Pogley, poiché in realtà assomiglia di più a un fosso con una sottile striscia d’acqua che gli
scorre nel mezzo. Fatto ciò, questo tale Donald se ne era andato al
pub locale dove aveva cominciato a raccontare quello che aveva appena fatto. Pensava che fosse un aneddoto divertente. Si era fatto
l’idea che, visto ciò di cui era stato capace, la gente lo avrebbe visto
come un duro».
«Idiota!», si intromise Juliet, mentre faceva il solletico al suo adorato gatto, accarezzandolo sotto il mento.
«E chi c’era a bere nel pub se non i nostri Guy e Steve?», disse
Grainne.
«Ah», Floz stava iniziando a vedere il nesso.
«Aspetta però, la storia non è finita». Il testimone tornò a Perry.
«Fu così che Guy e Steve lasciarono immediatamente il pub per andare alla ricerca del gatto e lo trovarono. Il poverino era in pessimo
stato. Il Pogley Stripe non era abbastanza profondo da riuscire ad affogarlo, ma sarebbe morto di freddo se non fosse stato salvato. I
ragazzi tornarono a casa, ci consegnarono il gatto affinché lo scaldassimo e presero la pelliccia di Juliet, poiché avevano escogitato un
piano».
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«Conoscevamo quello stro… fannullone di Don Green, era sempre
un caz… uno bello sbronzo», disse Steve, cercando di non pronunciare parolacce davanti ai signori Miller. «Quindi lo aspettammo».
«E come previsto lo videro arrivare direttamente dal pub», sussurrò Perry, facendo crescere la tensione del racconto. «Erano le undici e dieci di sera e lui era ciucco come una spugna. E lì ad attenderlo, al limitare del bosco di Pogley Top, vicino al ruscello Stripe,
c’erano i nostri eroi, Steve e Guy». Poi iniziò a ridere scioccamente
come uno scolaretto. Era un suono travolgente e Floz ne fu
contagiata.
«E Steve mette la borsa…», iniziò a dire Grainne.
«No, Gron, stai raccontando la storia troppo in fretta!», la rimproverò Perry. «Insomma, videro avanzare Donald Green e
nell’esatto momento in cui raggiunse il punto in cui avevano trovato
il gattino, Guy, avvolto nella pelliccia di Juliet, iniziò a ruggire come
un leone e afferrò Donald Green da dietro. Nel frattempo, Steve
coprì il cattivo della situazione con il sacco dell’immondizia e insieme lo spinsero nel fosso. Si tratta soltanto di uno sputo d’acqua –
come ti ho detto – non può far affogare un uomo, però immagino
che i suoi pantaloni fossero belli zuppi quando uscì strisciando. E
ancora oggi, Donald Green è convinto di essere stato attaccato dalla
Belva di Pogley. Ha toccato la sua pelliccia, capisci. È addirittura
riuscito a far pubblicare una storia al riguardo sul “Chronicle”.
Chiaramente, senza fare riferimento alla parte relativa al tentativo di
annegare un gattino».
«Ha finito per dare un po’ di soldi alla RSPCA, l’organizzazione di
beneficenza per la protezione degli animali», aggiunse Grainne. «A
quanto pare, dorme ancora con la luce accesa».
«Non credo che da quel momento in poi sia più tornato a casa
ridotto in quello stato», ridacchiò Perry.
«Che storia divertente», disse Floz, mentre dava una grattatina
sulla testa del vecchio gatto. Era davvero un brutto animaletto, con
tanto di zampe deformi e un musetto brizzolato, ma era così strano
da essere proprio adorabile. Capiva benissimo perché l’intera
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famiglia lo adorasse così tanto. Stripies aveva vissuto come un re fin
da quando aveva varcato la soglia dei Miller. Avanzava diritti sulla
poltrona migliore, ogni sabato mangiava salmone fresco all’ora del tè
e li ripagava con pose bizzarre, leccate e topi di campagna sventrati.
Faceva parte dell’arredamento e nessuno metteva in dubbio che ci
sarebbe stato per sempre. Floz pensava che Stripies avesse ricevuto
più amore di tante altre persone al mondo.
«Vuoi una mano, figliolo?», urlò Grainne in direzione della
cucina.
«No, sono a posto», rispose la profonda voce da basso di Guy, appena prima di un clangore di lattine e una sfilza di imprecazioni che
portarono tutti a scambiarsi degli sguardi stupiti.
«Per fortuna siamo venute in taxi: questo vino Rioja è superbo.
Ben fatto, papà!», disse Juliet riempiendosi il bicchiere.
Perry la abbracciò forte e la guardò con un’espressione che fece
salire le lacrime agli occhi di Floz. Fu costretta a sbattere le palpebre
più e più volte al fine di respingerle indietro.
«A tavola, ragazzi e ragazze», urlò Grainne.
Perry Miller piegò il braccio e lo porse alla sua ospite, Floz sorrise
e lo afferrò con la mano libera dal bicchiere. Avrebbe davvero fatto
meglio ad andarci piano con gli alcolici. Tutta quella affettuosità era
quasi dolorosa per quanto era dolce, anche se c’era sempre Guy a
raddrizzare l’ago della bilancia. Il cuoco entrò con un viso rubicondo,
reggendo una pentola piena di verdure. Salutò Floz con un cenno del
capo, cercando a malapena il contatto visivo. Lei pregò che non le si
mettesse a sedere accanto, o peggio ancora direttamente davanti. Per
fortuna, quando presero posto, scoprì che Guy si era diretto al lato
opposto del tavolo. Lei era seduta vicino a Perry e di fronte al viso allegro di Steve.
«Ora ci aspettano delle vere prelibatezze», disse Juliet chinandosi
in avanti sul tavolo in direzione di Floz. «Guy è un cuoco eccellente».
Dopo qualche minuto, la tavola era imbandita come a una festa in
onore di Bacco e gremita di radici di pastinaca bruciacchiate con il
miele, cavolfiori conditi con fin troppo formaggio Stilton e sugo di
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pancetta, purè avvizzito con salvia, piccole carote affogate nel burro,
asparagi troppo cotti, cavolini di Bruxelles poco cotti con pinoli,
crema di rafano troppo liquida, salsa di cipolla talmente densa che
avrebbe potuto essere servita a fette, e il rinomato Yorkshire pudding, i piccoli soufflé di pastella cotta al forno… o erano forse delle
frittelle? Sembrava che un bambino di tre anni si fosse impossessato
di un libro di ricette per cuochi esperti.
«Mi dispiace, ragazzi», si scusò Guy. «È… ehm…».
«Oh, non preoccuparti», lo rassicurò Perry. «A me sembra tutto
fantastico. Diamoci sotto, gente». Infilzò uno Yorkshire pudding, ma
era talmente friabile che andò in pezzi sul tavolo, lungo il tragitto per
il piatto.
La carne di manzo era buona, pensò Guy tra sé. Probabilmente
era l’unica cosa che gli era venuta bene. Non avrebbe potuto essere
più nervoso di così neanche se avesse dovuto cucinare per il sultano
del Brunei. Ciononostante, al sultano del Brunei non avevano riferito
quale fantastico cuoco lui fosse, una reputazione di cui purtroppo
non era stato all’altezza in quell’occasione. Avrebbe voluto morire
per la vergogna.
«Il cibo è ottimo». Steve si levò in difesa di Guy e prese una
forchettata di carne. «Per la miseria, Guy, questo è un ottimo taglio
di manzo».
Guy si stava agitando nella sedia come Elvis Presley, facendo
venire a Steve la voglia di ridere. Se solo Floz avesse saputo il motivo
per cui era così ansioso.
«Quando è il prossimo incontro di wrestling?», chiese Juliet.
«Trovateci un paio di biglietti e Floz e io verremo a guardarvi».
«È martedì, alla Sala del Centenario delle Notti del Wrestling.
Sono riuscito a persuadere Guy a fare un altro combattimento, dato
che siamo a corto di un uomo».
«Bene, ci saremo», disse Juliet, dando per scontato che anche
Floz sarebbe voluta andarci. Aveva la sensazione che la sua amica
avesse bisogno di essere tirata un po’ su di morale.
«Sei di queste parti, Floz?», si informò Grainne.
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Floz finì di masticare una carota e annuì. «Sono originaria di
Higher Hoppleton», disse.
«Oh, sei una tipa sofisticata allora». Steve le fece l’occhiolino
dall’altra parte del tavolo.
«Ignoralo». Juliet storse il naso. «Non saprebbe riconoscere qualcosa di sofisticato neanche se ci fosse seduto sopra col culo».
«Juliet Miller, modera il tuo linguaggio quando sei seduta alla
mia tavola». Grainne agitò la forchetta in direzione della figlia.
«I tuoi genitori sono di Higher Hoppleton, Floz?», chiese Perry.
«Papà sì, mamma è originaria di York».
«Allora sarai andata al liceo di Penistone High», dedusse Steve, e
ci mancò poco che non si rompesse un dente mordendo una
pastinaca.
«No, ci trasferivamo spesso. Papà è un generale di brigata dell’esercito».
«Ah, ecco perché hai questo adorabile accento vellutato», disse
Grainne.
Ciò spiegava anche il motivo per cui Floz non avesse nessun
amico stretto, pensò Juliet. Una volta aveva lavorato insieme alla
figlia di un altro militare che le aveva raccontato come una vita trascorsa a essere sradicata ogni pochi anni avesse influito sulla sua capacità di coltivare delle amicizie solide e durature.
«Come mai vi siete stabiliti a Barnsley?»
«Sono andata all’università a Leeds e… ehm… lì ho conosciuto il
mio ex marito. Era di Barnsley».
«E ti è piaciuta così tanto che hai deciso di restare?», disse Perry.
«Più o meno», rispose Floz.
«E dove vivono ora i tuoi genitori?», chiese Perry.
«Smettila di fare l’interrogatorio a questa povera ragazza».
Grainne rimproverò suo marito.
«No, non c’è problema», disse Floz. Non le dava fastidio. Era
lusingata che si stessero interessando a lei. Per lo meno in un modo
così spensierato e poco invasivo. «Una volta in pensione si sono
trasferiti in Francia».
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«Li vedi spesso quindi?», chiese Grainne.
«No, non proprio», rispose Floz, percependo le prime fitte di disagio. Sapeva che una famiglia unita come quella dei Miller non
sarebbe stata in grado di capire l’impostazione della sua. Juliet e Guy
erano fin troppo chiaramente il prodotto di una coppia che si amava,
e non l’effetto collaterale di una bomba indesiderata.
«Oh, è un peccato», disse Grainne. Aprì la bocca per porre un’altra domanda, ma con grande sollievo di Floz, Steve dirottò il corso
della conversazione.
«Quindi, com’è vivere con la nostra Juliet?».
Floz scorse Juliet che sospirava profondamente con fare infastidito. Avrebbe scommesso sulla sua stessa vita che stava pensando:
“Come osa riferirsi a me usando la parola nostra?”.
«È bello. Andiamo veramente d’accordo. Spero». Guardò Juliet in
attesa di una conferma. Juliet aveva la bocca piena di cavolini di
Bruxelles e annuì con veemenza.
«Preferisco che sia tu a vivere con lei piuttosto che io, con tutti
quei cavolini che si è appena mangiata», scherzò Steve.
«Steven», lo rimproverò Grainne, lanciandogli uno sguardo d’acciaio con quei suoi occhi grigi.
Steve scoppiò a ridere, Perry stava ridacchiando, Grainne stava
cercando di soffocare una risatina e Floz sorrideva; soltanto Juliet
esibiva uno sguardo omicida, mentre suo fratello, preoccupato, non
si unì allo scherzo. Guy avrebbe voluto mandare indietro l’orologio
per poter ricominciare a cucinare la cena. In realtà, se avesse potuto
mandare indietro l’orologio, un’opzione migliore sarebbe stata
quella di riavvolgere il tempo al giorno in cui aveva conosciuto Floz.
Quello era senza ombra didubbio il pranzo più schifoso della storia.
Sarebbe potuto andare peggio?
Steve si allungò sul tavolo per raggiungere il pepe nero. Le
maniche erano arrotolate e rivelavano la fine del tatuaggio di un serpente che aveva sul braccio.
«Mi farò fare un tatuaggio», disse Juliet notandolo.
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«Perché dovresti volerne uno?», chiese Guy. «Sono orrendi sulle
donne».
Dal modo in cui Floz abbassò lo sguardo sul cibo e deglutì, Guy
capì che Floz doveva averne uno. “Oh cielo!”. Udì il lento rintocco
funebre di un altro errore madornale che aveva commesso.
«Che cosa fate voi due quest’anno per il vostro compleanno?»
«Diamine, mamma, mancano ancora due mesi», rise Juliet.
«Mi stavo soltanto chiedendo se organizzerete una festa per il
vostro trentacinquesimo compleanno, è una piccola pietra miliare.
Dovreste prenotare da qualche parte se non lo avete già fatto. È il
cinque novembre, la serata dei falò e dei fuochi d’artificio in cui si
commemora il fallimento della congiura delle polveri».
«Caspita, mamma», sbuffò Juliet con finto stupore, «mi ero completamente dimenticata che siamo nati il cinque novembre. Grazie
per avercelo ricordato».
«Oooh, prenderai ancora quei fuochi d’artificio cinesi, Steven?»,
chiese Perry estasiato.
«Cielo, spero di no», si spazientì Juliet. «Dovrebbero essere illegali. Potevano sentirli esplodere fin dalla Russia. Scommetto che
devono aver pensato che stessimo lanciando un attacco nucleare
contro di loro».
«Ne prenderò qualcuno, non preoccuparti». Steve esibì un largo
sorriso. «Mi vedo con Robber Johnny e Billy the Spark la prossima
settimana, per cui ne ordinerò alcuni».
«Tutti quelli che conosci tu hanno un nome stupido?», lo criticò
Juliet.
Perry batté le mani come un bambino esaltato. «Come si
chiamava quel fuoco d’artificio gigantesco, quello che abbiamo fatto
verso la fine? Era magnifico. Si era disteso in cielo proprio come un
manto».
«Il Grande Sodomita», disse Steve con orgoglio. «Davvero un
magnifico esemplare».
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«Esatto, proprio così: il “Grande Sodomita”». Perry emise un profondo sospiro come se stesse parlando di uno dei suoi nipoti
preferiti.
«Piromani inconfessati!», Juliet li accusò tutti. «Perché gli
uomini sono attratti dal fuoco?»
«Dovrete dirci che cosa volete. Al momento non ho idea di che
cosa comprarvi», disse Grainne.
«Non so che cosa voglio quest’anno per il mio compleanno», rifletté Juliet.
Guy per il suo voleva Floz. Nuda. Sotto di lui, intenta a urlare il
suo nome. Aveva soltanto due mesi per farlo accadere.
«E ovviamente sappiamo tutti che cosa riceverà Guy per il suo
compleanno», sorrise Grainne.
«Che cosa?», deglutì Guy. Per un momento, pensò che sua madre
avesse appena scorto il film a luci rosse proiettato nella sua testa.
«Un ristorante tutto tuo, figliolo», rise sua madre. «Alla salute!».
Tutti seguirono l’esempio e fecero un brindisi in onore di Guy e della
sua nuova avventura.
«Ti auguro tutta la fortuna del mondo per la tua impresa, Guy»,
disse Perry, alzando il bicchiere in direzione del figlio. «Ma vorrei
che…».
«No». Guy lo rimise al suo posto con rapidità e fermezza. Suo
padre stava provando a dargli un po’ di soldi per aiutarlo a comprare
il ristorante. Guy era fiero della sua indipendenza economica e aveva
rifiutato più e più volte. Aveva a sua disposizione il denaro necessario a rilevare il Burgerov, non gli servivano soldi dai suoi genitori.
Kenny gli aveva proposto l’affare del secolo. Era evidente che, per
qualche motivo, aveva bisogno di andarsene in fretta.
«Quando credi di rilevarlo?», chiese Juliet.
«Miro a finire tutte le pratiche per metà novembre al più tardi,
ma chiuderò per almeno un paio di mesi mentre i muratori ristruttureranno il posto da cima a fondo. Calcolo di lavorare a pieno regime per il giorno di San Valentino».
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Guy diede un morso a una pastinaca e per poco non si spezzò la
mandibola. Era davvero un pranzo orribile. Ed eccolo lì a parlare di
aprire un ristorante tutto suo. Quel giorno, persino il cibo di Varto
sarebbe sembrato commestibile al confronto.
«Come lo chiamerai?», chiese timidamente Floz.
«Non lo so», disse Guy, guardandola e sentendo il proprio cuore
sospirare. Gli occhi di lei erano così grandi e verdi. Distolse lo
sguardo prima di iniziare ad arrossire come un adolescente inetto, e
si rivolse alla tavolata: «Qualcuno ha delle idee?»
«Tutto tranne Burgerov!», disse Steve. «Dove diamine ha scovato
quel nome Kenny?»
«Stava cercando di essere originale», rispose Guy, strofinandosi il
mento.
«Be’, spero che non stia mollando tutto per diventare un creativo», affermò Perry.
«No, papà, sta mollando tutto per diventare uno che si abbronza
di professione».
«Dovrai dare un tuo tocco al locale e chiamarlo con un nome
carino», rifletté Grainne. «Che ne dici di “Da Guy”?»
«Molto originale, Gron», annuì Perry. «Avresti avuto una vera vocazione per il mondo della pubblicità».
Grainne guardò suo marito con divertita disapprovazione.
«Farai molti cambiamenti?», chiese Juliet. «E noi mangeremo
gratis?»
«Saltuariamente potrei regalarti un panino, Ju. E sì, accidenti,
cambierò molti degli attuali dipendenti», rispose Guy.
«Scommetto che non ti sbarazzerai di quella Gina», ammiccò
Juliet. «Ha una cotta per te».
«Non è reciproca», disse Guy in fretta, per mettere bene in chiaro
le cose con Floz.
Floz notò il modo in cui Guy lo disse e le sembrò un ulteriore
segno del fatto che le donne non gli interessavano granché.
«Ogni volta che sono stata al ristorante l’ho sempre vista gravitare intorno a te», lo prese in giro Juliet. Poi si lanciò in
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un’imitazione esasperata di Gina: «“Oh Guy, mi aiuteresti a sbattere
quest’uovo? Oh Guy, mi aiuteresti a tagliare questa carota? Oh Guy,
mi aiuteresti ad accarezzarmi la mia…”».
«Va bene, va bene», grugnì Guy. «Basta così».
«Quindi non ti sbarazzerai di lei?». Juliet prese un boccone di
carne e se lo ficcò in bocca.
«No».
«Non ho niente da aggiungere», borbottò compiaciuta quella civettuola di sua sorella.
Guy stava per lanciarsi in un’altra protesta, ma Juliet era una
maestra nello stravolgere le cose, per cui decise di lasciar perdere. La
sorella, con quella sua arguzia fulminante e malefica, sarebbe stata
un ottimo avvocato. Guy sperava soltanto di essere stato chiaro con
Floz e di averle fatto capire che Gina non gli piaceva affatto.
«Mi è giunta voce che questa settimana sistemerai la macchia di
umidità di Juliet, Steven», disse Grainne, non capendo perché
all’improvviso si fossero tutti zittiti.
«Non sono riuscito a trovare un autentico imbianchino», scherzò
Juliet una volta che ebbe finito di ridere.
«Ah-ha», disse Steve. «Sarò da voi domani sera alla sei in punto.
Che cosa mi cucinerete?»
«Trippa, escrementi e cipolla», disse Juliet. «Ordineremo del cibo
da asporto. Suppongo che verrai anche tu, Guy?»
«Se proprio devo». Guy scrollò le spalle nel tentativo di apparire
disinteressato, e finì per assomigliare di nuovo al burbero Heathcliff.
Floz dovette davvero sforzarsi di reprimere il disappunto che
stava lottando per prendere il sopravvento. No, Guy non doveva in
nessun modo sentirsi obbligato. Lungi da lei l’intenzione di trattenerlo dal girovagare per le lande ventose alla ricerca di Catherine
Earnshaw.
Quando cucinava, Guy era abituato a vedere i piatti puliti. Ci rimase male quando si accorse che era rimasto del cibo – e sfortunatamente non c’era neanche un piatto vuoto sul tavolo. Anche quello di
Steve aveva degli avanzi, e lui di solito mangiava tutto, per quanto
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cattivo fosse il cibo. Era l’unico che puliva sempre il proprio piatto
quando Grainne cucinava.
Steve riempì i bicchieri di tutti, mentre Guy preparava il dolce. Se
non altro avrebbe potuto riacquistare un po’ di punti grazie alla sua
torta Charlotte con sciroppo di fragole, champagne e panna montata
alle fragole: era un capolavoro.
«Il pranzo non è stato per niente male», disse Steve rilasciando
un rutto liberatorio, e particolarmente lungo, mentre toglieva i contorni dal tavolo.
«Sì, come no», sbuffò Guy.
«Va bene, hai fatto di meglio».
«Non ho mai fatto peggio di così».
«Te lo concedo, hai vinto. Faceva abbastanza schifo».
«La parola che stai cercando, Steven, è disgustoso. Se avessi ordinato queste portate nel mio ristorante non saresti mai più
tornato».
«Calmati, amico». Steve prese i piatti da dessert. «Che cosa
mangiamo adesso?»
«Una cosa che mi è riuscita bene», disse Guy con orgoglio. «Una
torta Charlotte alle fragole».
«È sempre un pezzo vincente quando stai cercando di conquistare
una ragazza e vuoi entrare nelle sue…».
«Entrare dove?», la voce di Juliet risuonò da dietro di lui. Le
braccia di Steve volarono in alto e i piatti da dessert si librarono in
volo, ma Steve riuscì in qualche modo ad acciuffarli tutti. Se si fosse
trattato di un provino per il circo non solo l’avrebbe superato ma
sarebbe stato promosso al ruolo di stella della serata.
«Nella sua lista nera rovinandole la dieta», rispose in fretta Steve.
«Chi è a dieta?», sogghignò Juliet. Non aspettando una risposta,
si rivolse a Guy e disse: «Mi offro di darti una mano. Prendo il bricco
per la panna?»
«Sì, grazie», disse Guy. L’ansia di fare buona impressione iniziava
a trapelare. Era diventato abbastanza rosso e accaldato.
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Steve non disse altro. Era già entrato nel Guinness dei primati per
aver commesso il maggior numero di gaffe in una stessa occasione.
Guy portò il dessert in sala e si compiacque dell’ondata di gioia che
la vista di quella magnifica torta provocò in tutti.
Tutti tranne Floz, che dovette declinarla poiché era allergica alle
fragole.
«Sei cosa?», urlò Guy.
«Mi dispiace tanto», disse Floz a bassa voce, percependo un’imbarazzante vampata di rossore che stava per colorarle le guance. Era
evidente che lo aveva turbato parecchio con quella sua rivelazione, a
giudicare dall’espressione stampata sul suo volto. «Vorrei poterle
mangiare, le adoro, ma non posso». Era chiaramente irascibile come
quegli chef in televisione. Non era forse vero che cacciavano dai propri ristoranti la gente che criticava il loro cibo?
«Merda, merda, merda», disse Guy sottovoce. Era finita, senza
ombra di dubbio. Non poteva andare peggio di così.
Sbagliato.
Quando Floz fece un salto in bagno, Perry si avvicinò a Juliet. «È
una ragazza così adorabile. È single?»
«Be’», cominciò a dire Juliet, accertandosi che Floz si trovasse
fuori portata di orecchio, «lo era, ma una vecchia fiamma è appena
riapparsa sulla scena».
Guy gemette fra sé. Che altro gli sarebbe successo? Perché dal
corso che aveva preso la sua vita, senza dubbio un altro evento funesto era pronto a manifestarsi.
Per quando presero il caffè, Juliet aveva già spifferato quasi tutto;
fecero inoltre un assaggio, o meglio una dozzina di assaggi, del
brandy alle ciliegie fatto in casa da Grainne, che era piuttosto buono
se si teneva conto della sua assoluta incapacità di cucinare. Juliet si
era così addolcita che permise perfino a Steve di salutarla con un bacio sulla guancia. Perry e Grainne baciarono Floz e le dissero che era
sempre la benvenuta. Anche Steve la baciò e le ricordò che si
sarebbero visti l’indomani. Tra tutte le possibili combinazioni di
scambi di baci, l’unica che non avvenne fu quella tra Guy e Floz. Lui
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le fece un saluto con la mano dalla soglia della cucina, come un
pellerossa maleducato.
Ciononostante, Floz decise di non intraprendere il gioco dell’odio
e, con entusiasmo, gli disse quanto aveva apprezzato il suo cibo,
anche se sapevano entrambi che si trattava di una bugia.
Le portate principali avevano lasciato molto a desiderare, e la
torta le avrebbe fatto venire il prurito alla testa e le avrebbe impedito
di respirare per qualche secondo. Si chiedeva come mai lui fosse così
impacciato in sua presenza. Le balenò addirittura il pensiero che
avesse saputo in anticipo che lei era allergica alle fragole.
«È andata bene», disse Steve, mentre il taxi di Floz e Juliet avanzava rumorosamente lungo la strada. Guy non rispose. Era troppo
impegnato a sbattere la testa contro la parete della cucina.
Capitolo ventotto
Non molto tempo dopo che il taxi le aveva lasciate alla porta,
Juliet stava dormendo sul divano. Floz accese il suo monitor e scoprì
con gioia di avere ricevuto un’altra lettera da Nick.
Cherrylips,
se i pesci creassero dei fan club, ne istituirebbero uno per te.Ne ho presi alcuni
e li ho lasciati andare, facendo loro sapere che era per merito tuo.Non mi divertivo
così da tanto tempo. Se fossi riuscito a trovare un sigaro sarei stato in paradiso.
Mia sorella mi ha portato alcune mie foto che ancora conservava;mia mamma è
venuta da me giovedì per prenderne in prestito diverse di me e mio padre.Vorrei
sapere come fare per dirle che papà e io staremo bene e che la aspetteremo,e che
nessuno dei due avrebbe mai voluto che lei soffrisse.Mia sorella dice che quando
sarà il momento giusto parlerà a mamma affinché te ne spedisca alcune.Ce ne sono
un paio di quando ero nell’esercito, ma sono foto di gruppo scattate a una certa
distanza e neanche io riesco a individuarmi,quindi non c’è motivo di inviartene
una di queste. Sì,ero nell’esercito (più precisamente nel Canadian Scottish Regiment, un reggimento di fanteria delle forze canadesi).Questo è il meglio che posso
fare al momento.Però hai l’opportunità di vedermi andare a cavallo per la prima
volta e sopravvivere al mio primo completo elegante.
Non voglio dimenticarmi di nessuno, ma non posso portare nessuno con
me.Prenderò la decisione migliore tra le poche opzioni che mi sono rimaste. Non
posso più sottopormi alla chemioterapia sapendo che servirà soltanto a prolungare
di poco il mio tempo.Forse si tratta di diserzione.So che mia madre sostiene che sia
così, ma almeno sto lasciando che sia lui ad ammazzarmi,invece di uccidermi da
solo.Non sono felice se penso ai pochi prossimi mesi che mi aspettano,ma almeno
ho accettato che li vivrò.
Vorrei che le cose fossero diverse, che tu fossi entrata prima nella mia vita e
rimpiango che tra noi non ci sia mai stata una storia vera, ma non posso cambiare
quello che è stato.Ho ferito la ragazza più interessante che io abbia mai conosciuto
quando mi sono allontanato da te e devo abituarmi a conviverci.
Nick
In allegato c’erano due fotografie di un ragazzino: nella prima non
sembrava affatto felice di indossare uno di quei completi con balze
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sul davanti, che soltanto un giocatore di bingo avrebbe potuto apprezzare; nella seconda aveva un largo sorriso ed era seduto sopra
un cavallo a dondolo. Le identificò all’istante come versioni più piccole dell’uomo di cui Floz si ricordava nelle fotografie che Nick le
aveva inviato in passato. Fotografie che desiderava aver conservato.
Il ragazzino in quelle foto fece sì che lei lo guardasse con il cuore
di una madre. Si immaginò che cosa potesse provare la madre di
Nick, si ricordò del figlio che non aveva mai visto crescere e sbocciare, con il solo risultato di scoprire che il suo autunno era arrivato
presto. Per una madre ben poche disgrazie erano peggiori del perdere un bambino.
Capitolo ventinove
Sorprendentemente, Floz dormì di un sonno profondo, pur alzandosi presto – ma fu meglio così dato che Juliet non aveva sentito la
sveglia. Floz fu felice di fare dei panini con la pancetta per entrambe,
mentre Juliet si trascinava in giro cercando di prepararsi.
«Non dimenticare che stasera prendiamo del cibo da asporto con
Guy e Steve», disse Juliet, con quel suo solito accenno di scherno
nella voce.
«Non me ne dimenticherò», disse Floz. Quella notizia la rendeva
felice, poiché non avrebbe mai più cucinato per quell’uomo. Nondimeno, se i tentativi di Guy del giorno precedente erano da considerarsi come dei validi esempi, lui non aveva nessun diritto di criticare
la cucina degli altri. La pasta che aveva fatto lei era decisamente superiore ai cavolini di Bruxelles che aveva cucinato lui, dato che erano
più duri dei bicipiti di Mike Tyson.
Floz si sentì stranamente stordita e sola quando Juliet uscì con
disinvoltura dall’appartamento. Sebbene da dopo il suo divorzio
avesse vissuto da sola, non si era mai sentita particolarmente abbandonata a se stessa, ma Juliet era una presenza così notevole che era
facile avvertire l’impatto della sua assenza.
Lee Status la salvò dalla malinconia in agguato telefonandole appena prima delle nove.
«Mi hai inviato alcune poesie davvero brillanti per le persone ammalate, tra parentesi», si complimentò con Floz.
«Spero tu non ne voglia altre», ribatté lei.
«No, abbiamo scartato la serie», disse lui. «I risultati delle ricerche di mercato non erano troppo favorevoli. Ovviamente verrai
pagata lo stesso».
“Non erano troppo favorevoli? Che strano!”, pensò Floz.
«Questa settimana ho un ottimo lavoro per te. Umorismo da tutti
i giorni: piacevole e semplice. Vacci pesante con le battute sulle
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scoregge, per favore. E potrebbero tornarmi utili un paio di versi
particolarmente carini a proposito di escrementi e caccole».
Floz annuì. Lavorando in quel settore, le capitava spesso di riflettere su quale strano modo di guadagnarsi da vivere avesse trovato.
Juliet aveva dei leggeri postumi di una sbornia, e non era
dell’umore migliore per stare ad ascoltare Coco che si vantava al telefono a proposito del bellissimo fine settimana che aveva trascorso
con Gideon. Erano andati al cinema e avevano visto Harry Potter,
condividendo lo stesso secchiello di pop-corn.
«Poi è venuto a casa mia e mi ha configurato il nuovo computer. E
ha anche sistemato il dolby surround della mia TV. Onestamente, Ju,
è un vero e proprio mago con le apparecchiature tecnologiche. È favoloso, favoloso e favoloso. Lo amo».
Juliet si mise in bocca un paio di compresse di ibuprofene: «Credevo aveste deciso di andarci piano».
«Questo per me equivale ad andarci piano!».
«Muoio dalla voglia di conoscerlo», disse Juliet, cercando di sembrare entusiasta, sebbene il dolore che le tamburellava nella tempia
glielo rendesse abbastanza difficile.
«Oh, lo conoscerai. È piuttosto timido però».
«Timido? Non rispecchia il tuo solito tipo allora».
«No, non è affatto il mio solito tipo», sospirò Coco.
Tutti gli ex di Coco erano insolenti, appariscenti ed esagerati, e
prima di quel momento Coco non avrebbe mai preso in considerazione l’idea di uscire con un fanatico del computer. Gideon era
una scelta insolita. Juliet non era del tutto convinta che Coco non
fosse stato rapito dagli alieni e che questi non gli avessero riprogrammato la mente. D’altro canto, era possibile che stessero semplicemente invecchiando e che i loro gusti stessero cambiando.
«Ti va di venire da noi questa sera? Ordiniamo riso al curry a
domicilio con Guy e Steve».
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«Oooh. Steve viene spesso ultimamente. Credi che gli piaccia
Floz?», spettegolò Coco. «Come sono quando stanno insieme?
Flirtano?».
Juliet rimase a bocca aperta. «Ieri, a casa di mamma e papà, ho
notato che vanno molto d’accordo. Stasera dobbiamo osservare il
loro linguaggio del corpo per poi scambiarci le nostre impressioni»,
pianificò Juliet. Avrebbe tenuto d’occhio gli eventuali sviluppi tra
quei due, perché se Steve Feast avesse ferito l’adorabile Floz, lei gli
avrebbe dato un calcio nelle palle talmente forte da fargliele masticare come se fossero state un chewing gum.
«Grazie, ma devo rifiutare l’invito», disse Coco con un tono trasognato. «Stasera faremo una cena romantica a casa. Credo che
Gideon potrebbe fermarsi a dormire da me». Sembrava un adolescente emozionato. Proprio come si era sentita Juliet quando Roger le
aveva chiesto di uscire per la prima volta. Si chiese se avrebbe mai
più provato quelle sensazioni. Stava diventando più vecchia ed
esigente, e gli uomini carini che collezionavano più di un punto nella
sua personale tabella di desiderabilità stavano diventando più unici
che rari.
Floz si prese una pausa dallo scribacchiare una serie di battute sui
compleanni per scrivere a Nick, poiché aveva voglia di scrivergli una
lettera e avvertiva il bisogno di tenere aperte le linee di comunicazione fintanto che poteva.
Ehi Nick,
sono così felice che tu mi abbia riscritto. Ora che gli addii sono stati detti e che
non ci ostacolano più… be’, tutto quello che viene da questo momento in poi è un
grande premio e io sono ebbra di ogni tua parola, a essere onesta.
Sono così felice che lo scorso fine settimana tu ti sia divertito. Mi aspetterei di
ricevere un biglietto natalizio d’auguri da parte del pesce, ma hanno una memoria
talmente corta…
Non preoccuparti per “noi”. Hai fatto ciò che ritenevi giusto in quel momento.
Vorrei solo averti conosciuto in carne e ossa, perché hai lasciato un cratere dentro
di me quando hai smesso di scrivermi. Riesco ancora a ricordarmi della parlata
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lenta e sicura che avevi quando mi chiamavi, dei luoghi in cui avevamo deciso di
andare quando saresti venuto a trovarmi. Esercito? Cielo, ci sono tante cose che
non conosco di te. Vuoi che venga a trovarti? Anche solo per un giorno?
Se lassù non ti fanno delle proposte migliori, vieni da me a salutarmi quando
giungerà il mio turno. Suppongo che sarò ancora single e che starò sognando di
conoscere la persona giusta. Mi piace pensare che ci incontreremo – anche se non
sono certa che lassù potrai portare delle pistole. Però ho sentito dire che le trote
sono buone.
Baci,
Cherrylips
Cliccò Invio, sentendosi come se la sua anima fosse stata ridotta
in brandelli. Non riusciva a sopportare quella situazione. Estrasse
l’ultimo fazzoletto dalla scatola poggiata sulla scrivania e se lo premette contro gli occhi. Poi respirò profondamente, si ricongiunse col
mondo reale e si gettò a capofitto nella scrittura di tante altre battute
per Lee Status a proposito delle funzioni corporee. Tutto ciò mentre
cercava di non pensare a quello che sarebbe potuto succedere, se la
vita fosse stata giusta.
Capitolo trenta
Juliet studiò il menu del cibo da asporto, ma ciò che avrebbe davvero desiderato (ovvero tanto ma tanto sesso) non compariva tra le
cose da ordinare. Più invecchiava, più si eccitava durante il periodo
dell’ovulazione. Distolse i suoi pensieri da Piers Winstanley-Black
per concentrarsi sulla scelta tra un dopiaza e un rogan josh.
Floz stava preparando la tavola. Juliet sollevò gli occhi dal menu e
guardò verso la sua nuova amica. Si chiese se Steve avesse davvero
una cotta per lei, e non vedeva l’ora di osservarli insieme quella
stessa sera. E poi cos’era questa storia della misteriosa “vecchia
fiamma” di Floz? Se era vero che la loro storia d’amore stava rifiorendo, perché lei non ballava di gioia in giro per la casa?
Il citofono squillò e Juliet aprì la porta a suo fratello e a Steve, che
indossava una tuta da imbianchino.
«Come va?», salutò con il suo solito sorriso allegro. «Per piacere
ragazze, non invaghitevi troppo di me ora che indosso i miei abiti da
lavoro».
«Entra, taci e comincia a lavorare», si lamentò Juliet. Era proprio
uno scemo di prima categoria. Juliet sapeva che lui credeva davvero
di essere seducente con addosso la tuta da imbianchino. Non le era
mai passato per la testa che dentro quella dura corazza ci fosse un
ragazzino ferito che desiderava compiacere gli altri.
«Grazie, prenderò un cucchiaino di zucchero nel caffè», si difese
Steve.
«Ciao, Guy», disse Juliet, ignorandolo.
Floz sparì in cucina per preparare qualcosa da bere per Steve,
grata di avere una scusa per allontanarsi dal corrucciato Guy.
Si prese tutto il tempo necessario per fare il caffè e rimase a chiacchierare con Steve mentre lui intonacava. Guy notò che non sembrava aver fretta di raggiungerlo nell’altra stanza. L’aveva davvero
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alienata con la sua stupida goffaggine, e ogni tentativo di aggiustare
le cose sembrava essere soltanto destinato a peggiorarle.
«Guarda qui, che cosa vuoi?». Juliet spinse il menu del cibo da
asporto nelle mani di Guy.
«Ordiniamo un banchetto indiano», rispose. «Così possiamo mischiare le varie pietanze, creando abbinamenti diversi».
«Buona idea», disse Juliet, preparandosi a punzecchiare suo fratello per ottenere informazioni. «Oooh, Steve e Floz vanno molto
d’accordo, vero?». Si avvicinò a Guy. «Credi che si piacciano?»
«Non essere sciocca», scattò Guy. Un’immagine di Steve e Floz
intenti a sbaciucchiarsi si profilò nella sua mente e lui la respinse.
«Vado a ficcare un po’ il naso, per sentire di che cosa stanno
parlando».
Se si fosse trattato di una qualsiasi altra persona, Guy avrebbe
detto a sua sorella di lasciarli in pace, ma desiderava che andasse di
là a interrompere Steve e Floz. Non voleva che il suo amico entrasse
in confidenza con lei. Anche se non avrebbe mai pensato che Steve
sarebbe stato capace di invischiarsi con una donna che interessava a
lui. Avrebbe messo la propria vita nelle sue mani.
Dopo tutto quello che Steve aveva fatto per lui in passato, sapeva
che il suo amico era solido come una roccia. Ciononostante… Si ricordò di ciò che era successo tra il marito e la migliore amica di sua
sorella.
«Come procede?», disse Juliet, comparendo sulla soglia della cucina per scoprire che Floz stava svuotando la lavastoviglie, mentre
Steve puliva la sua cazzuola.
«Ho quasi finito. Devo verniciare non appena sarà asciutto»,
disse Steve. «Ahimè, Guy si è dimenticato di caricare la vernice in
macchina, quel cretino».
«E io che vi avevo promesso una cena in cambio!», esclamò
Juliet. «Ti ci sono voluti soltanto cinque minuti».
«Perché so quello che faccio, ragazza mia», ammiccò Steve. «Hai
visto quanto si fanno pagare all’ora gli imbianchini? Te la stai
cavando con poco, tesoro».
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«Non sono la tua ragazza. E nemmeno il tuo tesoro», rispose
Juliet con fare piuttosto altezzoso. «In ogni caso, sbrigati e togliti
quei vestiti, sto morendo di fame».
«Oooh, Juliet, e io che pensavo di non piacerti…».
«Nei tuoi sogni», ribatté Juliet mentre si allontanava. Il solo pensiero di avere una relazione con Steve Feast era sufficiente a farle
rigurgitare la cena ancora prima di averla mangiata.
Mentre Steve andava a togliersi la tuta da imbianchino, Floz fece
un salto in camera sua per controllare le e-mail. Non le era arrivato
nulla, eccetto un lavoro da parte di un’altra azienda di biglietti d’auguri, che voleva dei testi a proposito di una serie di fotografie su dei
buffi pappagalli. Quando Floz ritornò in salotto, Juliet stava aprendo
una bottiglia di vino Rioja e Guy stava chiamando il Taj Mahal.
Subito dopo, Steve si unì al tavolo. Si era messo un paio di jeans e
un maglione azzurro, della stessa tonalità dei suoi occhi. Persino
Juliet non riuscì a staccargli gli occhi di dosso. Non gli avrebbe mai
confessato che era bello, nonostante lo pensasse. Era già abbastanza
pieno di sé.
«Oh tieni, prima che mi dimentichi». Steve frugò nella tasca ed
estrasse una paio di biglietti. «Per domani sera. È la serata del wrestling alla Sala del Centenario. Siete ancora dell’idea di venire entrambe, giusto?»
«Sì, certo», disse Juliet, afferrandoli per poi fissarli con delle
puntine alla bacheca sulla parete dietro di lei. «Grazie per i biglietti.
Floz non vede l’ora, vero?»
«Scusa, che cos’hai detto?», disse Floz sentendo il proprio nome.
Stava pensando a Nick, cercava di immaginare che cosa stesse facendo in quel preciso momento. Come avrà dovuto sentirsi quando
aveva pensato: “Questa è stata la mia ultima gita di pesca”? Era di
nuovo pericolosamente vicina alle lacrime.
«Ho detto che non vedi l’ora di vedere l’incontro di wrestling di
domani».
«Assolutamente sì». Floz si costrinse a sorridere.
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«Domani Guy è quello buono, Guido Goodguy, e io sarò Dark Angel», disse Steve.
«Sarà molto divertente», Juliet gli sorrise. «Spero che Guy ti faccia il culo».
«Devo vincere io, per cui non credo che accadrà», disse Steve,
pensando a quanto Juliet fosse squisitamente spocchiosa. Avrebbe
voluto darle un bacio sulla bocca per farla stare zitta.
«La cena arriverà qui tra una quindicina di minuti», disse Guy,
riagganciando il telefono.
«Dicevo che domani tu sarai quello buono e io il cattivo».
«Esatto», annuì Guy.
«Come mai Kenny ti concede tutti questi permessi dal lavoro?»,
chiese Juliet. «Credevo dovessi essere morto per poter saltare un
turno».
«Mi sta tenendo buono», disse Guy. «Ma non vale davvero la
pena che io mi prenda un giorno libero. Dovresti vedere la confusione che si crea in mia assenza. Be’, comunque passerò a dare
un’occhiata dopo cena per fare un controllo a sorpresa, ecco perché
non sto bevendo». E detto ciò si versò un bicchiere di acqua tonica.
«Prevedo di trovare il caos più totale».
Dopodiché, manco farlo apposta, il telefono di Guy iniziò a vibrargli in tasca, ma lui non riuscì a rispondere abbastanza in fretta
da evitare che la sua suoneria pacchiana li assordasse tutti. Lo aveva
comprato usato su eBay e ne era stato molto soddisfatto, se non
fosse che persisteva a suonare una selezione di brani casuali – e a
tutto volume – che recuperava automaticamente dalla memoria.
Tutti i tentativi di porre rimedio a questo inconveniente erano falliti.
Mentre i Right Said Fred dicevano a tutti che erano troppo sexy
per le loro automobili, Guy avrebbe potuto bruciare per autocombustione dall’imbarazzo. Così, rivolse un secco e sonoro «Ciao!» alla
persona che lo stava chiamando, nel tentativo di recuperare un po’ di
virilità.
Caspita, pensò Floz. Guy Miller era davvero un brontolone. E
quella suoneria la diceva lunga su di lui. Credeva davvero di essere
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troppo sexy per… troppo sexy per Cime tempestose? O per Emily
Brontë?
«Dimmi.Che.Stai.Scherzando!». Guy stava ringhiando come un
lupo mannaro con la sindrome premestruale. Mentre parlava,
cominciò visibilmente a impallidire. Terminò la chiamata e disse:
«Mi dispiace, devo andare. Ci è mancato poco che Varto mandasse a
fuoco la dannata cucina».
«Oh no, che peccato», disse Juliet.
«Sì, davvero», disse Floz con un sospiro. Guy le lanciò uno
sguardo e lei seppe che lui stava pensando che fosse sarcastica. Era
davvero determinato a vedere il peggio in lei.
«Prenderò un taxi più tardi per andare a casa», disse Steve. «Ci
vediamo domani, amico. Mi passi a prendere come al solito?»
«Sì. Juliet, passo domani in mattinata a lasciarti la vernice. Ho
ancora la mia chiave, per cui entro un attimo e te la metto accanto
alla porta».
«Va bene, fratello».
Guy lasciò l’appartamento e si diresse alla macchina. Avrebbe ucciso Varto quando sarebbe riuscito ad acciuffarlo. Più per aver rovinato la sua serata e le sue possibilità di sistemare le cose con Floz
che per aver rischiato di far saltare in aria il suo futuro investimento.
Aveva la sensazione che la testa gli stesse andando a fuoco, come se
fosse un drago sanguinario pronto a sputare fiamme dal naso.
Capitolo trentuno
Arrivò loro abbastanza cibo da sfamare un esercito. Le varie
pietanze erano un po’ troppo piccanti, il che li portò a scolarsi parecchio vino. Quando Steve andò al frigorifero per prendere un’altra
bottiglia di bianco, Juliet si sporse in avanti per sussurrare a Floz.
«Vuoi che vi lasci da soli?»
«Per quale motivo?», rise Floz.
«Solo Dio sa che cosa ci potresti trovare in lui, ma…».
«Ti fermo subito». Floz alzò la mano. «Non mi piace Steve. E
sono dannatamente sicura di non piacere a lui».
«Sicura?», chiese Juliet. «Mannaggia».
«Ne sono certa», annuì Floz. «Sono pronta a sottopormi alla macchina della verità se non mi credi».
«Be’, non posso dire di non essere lievemente sollevata», sospirò
Juliet.
«Credo che Steve sia un tesoro», disse Floz, controllando che lui
non stesse tornando e che non potesse udirle.
«È un tipo a posto suppongo», ammise Juliet. Poi si rese conto
che per aver detto una cosa simile doveva essere mezza ubriaca. Uno
strano lampo di consapevolezza le fece capire che era convinta da
così tanto tempo che lui non le piacesse che si trattava sostanzialmente di un’abitudine.
Dopo un altro mezzo bicchiere di vino bianco, Floz fu costretta a
ritirarsi per la serata. Diede loro la buonanotte e si abbandonò sul
letto senza neanche controllare le e-mail. Lasciò Steve e Juliet seduti
a tavola, intenti a sgranocchiare il poppadom, il pane azzimo indiano, in un raro momento di cordialità.
«Ti va un altro bicchiere?», disse Juliet. «Mi risulta difficile ammetterlo, ma a dire il vero mi sto divertendo in tua compagnia,
Steven».
«Anche io», ribatté Steve. «E sì, mi va un altro bicchiere con te».
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«Vediamo cosa c’è in TV», disse Juliet, mentre si avvicinava barcollando alla televisione per poi lasciarsi cadere sul divano. Fece zapping: c’era un documentario sullo Strangolatore di Boston, alcune
balene che ci davano dentro e svariati adolescenti americani che piangevano in una qualche sorta di carcere minorile per delinquenti.
Nessuno di quei programmi era un consono e appropriato brusio di
sottofondo per il suo umore. Poi trovò uno dei primi vecchi film a
colori, con un’attrice famosa di cui, se fosse stata sobria, si sarebbe
ricordata il nome. Stava camminando lungo una strada di New York
illuminata dal sole e cantava qualcosa a proposito della fine dell’estate, mentre una bufera di foglie arrugginite le turbinava intorno.
«Ecco a te», disse Steve mentre consegnava a Juliet un bicchiere
di vino, per poi accasciarsi vicino a lei sul grande divano soffice. Lui
era ben oltre il limite dello spazio personale di Juliet, ma lei scoprì
che in realtà non le dava fastidio. La sensazione della gamba di lui,
calda, grande e muscolosa, contro la propria era piuttosto piacevole.
«Floz è carina, non è vero?», disse Steve.
«È adorabile», disse Juliet. «Ti piace, vero?»
«Floz?», disse Steve. «No, non mi piace in quel senso. Ma mi piace come persona». Lo disse in un modo talmente ponderato che
Juliet seppe immediatamente che la sua risposta era sincera.
«Credo sia un po’ giù al momento. La giornata di domani potrebbe rivelarsi proprio ciò di cui ha bisogno: un po’ di spensieratezza», disse Juliet, spezzando un pezzo di poppadom con i denti.
«Anche io presto mi tirerò su di morale», disse Steve. «Mi comprerò una fottuta Jaguar. Oppure una Mercedes».
«Intendi dire che ti farai allungare il pene?», disse lei. «Probabilmente te ne servirebbe uno».
«Ehi, tu! Non ho mai ricevuto nessuna lamentela!».
«Dalle tue milioni di conquiste», lo prese in giro Juliet.
«Non direi che sono così numerose», disse Steve, avvertendo che
suo malgrado la temperatura tra di loro si era abbassata di qualche
grado.
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«Va bene, allora, quando è stata l’ultima volta che hai fatto sesso?
Con qualcun’altra, intendo».
«Non mi ricordo», disse Steve. «Tanto tempo fa. Troppo».
«Chi ci crede», rise Juliet.
«Sul serio», disse Steve dimenandosi sul divano. «Te ne sarei
grato se non me lo ricordassi».
«Cribbio», disse Juliet, e poi fece tintinnare il suo bicchiere contro quello di lui. «Con chi l’hai fatto? La figlia di Little Derek?»
«Chianti Parkin? Magari», ridacchiò Steve.
«Io mi sto conservando per Piers Winstanley-Black», farfugliò
Juliet. «Racchiude in sé tutte le caratteristiche del fusto dei miei
sogni».
«È un imbecille», disse Steve con un’evidente traccia di gelosia
nella voce. «Tra un paio di anni avrà la testa come una pallina da
golf. Comunque, quei tizi del mondo legale si eccitano vincendo i
casi, non conquistando una donna».
«Cielo, mi manca il sesso», sospirò Juliet, e poi prosciugò il
bicchiere.
«Anche a me», sospirò Steve, e poi prosciugò il bicchiere anche
lui.
Steve si girò per guardare Juliet, lei si girò per guardare lui. Non
seppero dire chi fece la prima mossa, ma all’improvviso si stavano
baciando con ardore, mentre rotolavano sopra una distesa di poppadom schiacciato. Poi Juliet iniziò a trascinarlo verso la sua camera
da letto, strappandogli la maglia di dosso.
«Si tratta solo di sesso, ovviamente. Nient’altro che un reciproco
appagamento delle nostre frustrazioni».
«Oh sì, certo», ansimò Steve. «Ci stiamo soltanto alleviando il
prurito a vicenda».
Si erano già svestiti quando si lasciarono cadere sul letto di Juliet.
Steve gemette mentre le sue mani accarezzavano la pelle di lei, soffice e vellutata. Juliet gemette mentre le sue mani accarezzavano il
petto muscoloso di lui. Non era certa di come fosse finita a
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desiderare sessualmente il suo peggior nemico, ma non avrebbe permesso alla ragione di intromettersi per interromperla.
Steve era avido di lei. Non si era mai eccitato così tanto prima di
quel momento. Si sentiva come un vero e proprio animale.
«Non sono troppo brusco, vero?», le chiese per accertarsene.
«Non sei brusco abbastanza, ragazzone», rispose lei.
«Che ne dici di questo, allora?».
Juliet non rispose, per lo meno non in modo coerente. Emise soltanto una serie di acute vocali e di lievi suoni gutturali, mentre gli si
metteva sopra a cavalcioni.
La mattina successiva, Juliet si rigirò nel letto per guardare l’orologio, rischiarato dal bagliore rosa delle prime luci del mattino che
filtravano attraverso le tende. Perdinci, aveva dormito due ore. Sentendola muoversi, Steve si svegliò. Con fare assonnato la attirò a sé.
Non appena la pelle di lei toccò quella di lui, Steve si era già eccitato.
«Si tratta solo di sesso, ricordatelo», disse Juliet.
«Sì, lo so», disse Steve, per poi scivolare senza fatica dentro di lei,
mentre usava le dita in modi meravigliosi.
“Perbacco”, pensò Juliet, avvicinandosi in fretta al più veloce e intenso orgasmo che avesse mai avuto. Anche se si trattava “solo di
sesso”, era davvero magnifico.
Capitolo trentadue
Floz si svegliò dopo la migliore notte di sonno da molto tempo.
Non riusciva a ricordarsi per nulla se aveva sognato Nick e non si era
rigirata nel cuore della notte per poi alzarsi e andare a controllare le
e-mail. Il vino aveva offuscato appena il suo dolore, concedendole un
po’ di sollievo.
Non c’erano e-mail ad attenderla quando accese il computer. Si
vestì in fretta e andò a prepararsi una tazza di caffè; appena entrò in
cucina rimase sbalordita vedendo che c’era un uomo: era enorme,
con i capelli biondo platino, gambe muscolose e una vestaglia rosa di
satin con tanto di frange, stava in piedi accanto al bollitore, in attesa
che l’acqua fosse pronta. Aveva dormito sul divano? Se era così, perché indossava, o meglio cercava di indossare, la vestaglia di Juliet? Il
buonsenso suggeriva a Floz che Steve e Juliet non avrebbero mai
condiviso lo stesso letto, in nessuna circostanza. Quindi, che cosa
stava accadendo?
«Buongiorno», disse Floz.
Steve si girò, la vestaglia di satin si aprì quanto bastava affinché
Floz si accorgesse che sotto era nudo. Distolse in fretta lo sguardo e
Steve si richiuse la vestaglia.
«Scusa, Floz. Suppongo che ciò ti impedirà di avvicinarti alle salsicce per il resto della tua vita».
Nonostante l’imbarazzo, Floz rise.
«Ti sta bene», disse lei, mentre lui si annodava con fermezza la
cintura.
«È di Juliet».
«Ma dài!», commentò Floz con un largo sorriso.
Steve si asciugò delle gocce di sudore che gli si erano formate
sulla nuca.
«Quindi… ehm… come mai ce l’hai addosso?», insistette Floz.
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«Non… ehm…», iniziò a dire Steve. Ancora sudore. «Non riesco a
trovare i miei pantaloni».
«Oh», Floz sorrise compiaciuta.
«Lei è… ehm… mi ha mandato a prepararle un panino con la pancetta e devo portarle anche del tè».
«Ti ha mandato?», si sbalordì Floz. «Intendi dire che avete
dormito insieme?»
«Non abbiamo dormito molto». Steve si tappò la bocca con le
mani, accorgendosi di essere stato un tantino indiscreto. «L’acqua
sta bollendo. Vuoi una tazza di tè?»
«Caffè, grazie», disse Floz. “Bene, bene, bene”, pensò. Accidenti,
non vedeva l’ora di sentire i dettagli.
Erano entrambi in piedi in cucina, avvolti nelle loro vestaglie e intenti a fare colazione, mentre Steve cuoceva la pancetta sulla griglia
che un famoso pugile pubblicizzava in TV, quando udirono cigolare la
serratura. Guy entrò con il barattolo di vernice che aveva promesso
di lasciare sulla porta. Strano, i suoi sensi dovevano essere alterati
perché udiva il suono argentino della risata di Floz che si mescolava
con i toni profondi della voce di Steve.
«Ciao», urlò, entrando a grandi passi nella stanza. «Ho portato la
ver…».
Poi li vide. Il suo migliore amico con l’oggetto del suo amore, in
atteggiamenti intimi e semivestiti in cucina, presi a farsi dei complimenti. Si ricordò delle parole di Juliet: «Floz e Steve sembrano andare abbastanza d’accordo. Mi sembra di capire che sia scattata una
scintilla tra di loro».
Il fatto che Steve avesse l’aria profondamente turbata e che Floz si
fosse avvolta d’istinto nella vestaglia fece intendere a Guy tutto ciò
che c’era da sapere. “Verme”, pensò. Non avrebbe mai creduto
all’eventualità che il suo migliore amico ci provasse con Floz, dato
che sapeva che Guy era innamorato di lei. Ma Steve non era di certo
lì perché aveva passato la notte con Juliet – Guy ne era più che certo.
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«Vernice!», sbraitò Guy, uscendo talmente in fretta dall’appartamento che quando sbatté con violenza la porta, l’intero palazzo sembrò tremare.
«Oh merda!», disse Steve. Non avrebbe mai pensato che Guy
avesse potuto reagire così male all’idea che lui e sua sorella ci
dessero dentro. «Vieni, veloce, sostituiscimi ai fornelli, Floz». Steve
le ficcò in mano una spatola e sfrecciò dall’altra parte della stanza
per poi uscire dall’appartamento, facendo gli scalini come fosse una
controfigura di Hollywood. Arrivò appena in tempo per scaraventarsi sul cofano della macchina di Guy, mentre questi iniziava ad accelerare a tavoletta.
«Tu, coglione!», disse Guy. «Uno: avrei benissimo potuto ucciderti. Due: voglio ucciderti».
«Esci dalla macchina», disse Steve. «Senti, lei mi piace davvero, è
semplicemente successo».
«Stronzate. Scendi dal cofano e tornatene a scopare».
«Non me ne vado da questo cofano finché non avrai spento il
motore».
«Coraggio fallo, faccia di culo!».
La macchina sobbalzò in avanti e scagliò via Steve, che atterrò
sopra qualcosa di molto pungente su di una superficie erbosa.
Quando Steve riuscì a districarsi dalle spine di un vecchio roseto,
Guy se ne era già andato da un pezzo. Aveva una macchina dall’accelerazione veloce che sparò indietro una nube di polvere, neanche
fosse stata la Batmobile. Tim Onions, che viveva nell’appartamento
di sotto, uscì dal palazzo vestito con un completo nero sbiadito, che
gli calzava veramente male, e con in mano una vecchia valigetta
ventiquattrore rovinata. Si imbatté subito in un travestito che se ne
stava in piedi in mezzo a un cumulo di foglie cadute, con un indumento rosa di satin che non lasciava nulla all’immaginazione. Corse
via in direzione della sua immacolata Austin Maxi prima di rischiare
di essere stuprato. Non bastavano i drogati in città, persino gli esibizionisti si stavano trasferendo in zona.
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Al piano di sopra, Juliet stava aspettando Steve con le braccia
conserte, un po’ contrariata perché la sua colazione postcoitale a
letto era stata così bruscamente interrotta. Ammirò la sua vestaglia
migliore ricoperta di terra, piccole pietruzze e una lumaca perplessa.
«Che cosa diamine…?». Tuttavia il tono della sua voce si fece preoccupato quando vide che gli sanguinava un ginocchio. «Steve, stai
bene?»
«È tutto a posto», sbuffò. «Sto bene».
«Che cos’è successo con il nostro Guy?».
Steve prese il suo cellulare e compose il numero di Guy. Fu indirizzato subito alla segreteria. Lasciò un breve messaggio in cui chiedeva a Guy di richiamarlo, anche se immaginava che non l’avrebbe
fatto.
«Stava difendendo il tuo onore», disse Steve. «È evidente che è
molto arrabbiato per il fatto che io ti abbia sedotto».
«Tu hai sedotto me? Certo, come no. Comunque, può farsi gli affaracci suoi», disse Juliet, afferrando la cintura di raso. «Ho
trentaquattro anni, non quattro. Al diavolo il panino con la pancetta,
dove eravamo rimasti?».
Steve, però, non riuscì a svolgere il suo dovere. Non con l’immagine del viso di Guy che incombeva nella sua mente. Non voleva che
il suo migliore amico pensasse che lui avrebbe ferito sua sorella o
che ne avrebbe abusato. Ma nonostante ci avesse provato per tutta la
giornata non riuscì mai a mettersi in contatto con l’amico per
riferirglielo.
Capitolo trentatré
Quella sera, Juliet e Floz presero un taxi e si recarono alla Sala del
Centenario con buon anticipo così da aggiudicarsi degli ottimi posti
a bordo ring. La Sala del Centenario era stata in passato un bellissimo teatro, con elaborate costruzioni in pietra. Purtroppo avevano
lasciato che l’edificio diventasse sudicio, e nessuno puliva più gli escrementi dei piccioni dalla facciata. Era soltanto grazie al sostegno
della vedova molto anziana di un ex proprietario di fabbrica che la
struttura non veniva chiusa e abbandonata.
Juliet e Floz non dovettero affatto battersi con gli altri per accaparrarsi i posti davanti – delle sedie ribaltabili rivestite di velluto
marrone, che avevano passato da tempo i loro giorni migliori,
sebbene fossero ancora abbastanza comode.
«Piuttosto emozionante, vero?», si entusiasmò Juliet. «Non vedo
l’ora di vedere un po’ di bei muscoli».
«Sì», concordò Floz, che quella stessa mattina aveva visto in cucina una quantità sufficiente di carne maschile che le sarebbe bastata
per un paio di vite.
Dietro di loro, la gente iniziava a riversarsi dentro; svariati pensionati, tanti da riempire un intero autobus, molti dei quali sulla sedia a rotelle, si accomodarono nei posti più spaziosi e riservati ai disabili. La sala si riempì in un attimo, sembrava che non ci fossero più
molti posti vuoti. Il posto assunse un aspetto diverso non appena fu
gremito di gente, appariva meno squallido, con una piccola scintilla
elettrica nell’aria, come se gli avessero iniettato un po’ di vita.
«Spero vendano i gelati», disse Juliet. «Lo fanno in alcuni posti,
sai? Alla Wakefield Hall si possono prendere i pop-corn».
«Gelato, sudore e muscoli: sembra fantastico», sorrise Floz.
«In realtà è molto più divertente da guardare se c’è tanta gente»,
disse Juliet. «L’atmosfera è splendida. Gli spettatori sono calati
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sempre di più nel corso degli anni, purtroppo, ma è comunque divertente. Diverso dal guardare una telenovela, per lo meno».
«Quindi Steve fa la parte del cattivo questa sera?»
«Sì, Steve questa sera è il cattivo», gli fece eco Juliet, abbastanza
sorpresa dal fatto che non soltanto stava pronunciando il nome di lui
senza il consueto disappunto, ma che la sua voce si era addirittura
addolcita mentre le usciva dalla bocca. «Guy è quello buono, per una
volta sarà lui a perdere».
«Impaziente di vedere Steeeve nel suo costume?», la prese in giro
Floz, mentre Little Eric saltava sul ring seguito da due donne prosperose con corpi scolpiti e visi da Staffordshire bull terrier.
Juliet tirò su col naso. «Floz, ho visto Steeeve in costume tantissime volte prima d’ora. Non abbiamo una relazione, sai? Si tratta
solo di sesso».
Come previsto, Guy non chiamò per passarlo a prendere in previsione del loro incontro alla Sala del Centenario, perciò Steve dovette
andarci in macchina da solo. Guy, che era sempre in orario, non era
nello spogliatoio. C’era invece Little Derek, che stava camminando
avanti e indietro, non certo del suo umore migliore.
«Che cosa dovrei fare? Vorranno tutti indietro i loro soldi. Dove
diamine è il tuo compagno?».
Il suo umore non era stato aiutato dal fatto che Jeff Leppard, che
avrebbe dovuto vincere il sesto incontro, si fosse slogato una caviglia
scappando di corsa da Klondyke Kevin durante ilsecondo match e
avessero dovuto trasportarlo fuori di forza. Inoltre, il nuovo ragazzo,
The Barnsley Chopper, aveva quasi mandato al tappeto Grim Reaper
inciampando sui suoi stessi piedi e colpendolo prima ancora che
iniziassero il primo round. Colpa dello stupido e grosso Jessie. E Guy
non si era neanche fatto vivo quando sarebbe dovuto andare in scena
tra un minuto.
«Dovrai sfidarti con Alberto». Derek estrasse il pacchetto dalla
tasca. Non gli interessava se lì dentro era proibito fumare; se non si
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fosse acceso una sigaretta per assimilare un po’ di nicotina sarebbe
esploso.
«Assolutamente no, cacchio, Derek». Steve cominciò a fare marcia indietro. «È un pazzo».
Poi, la porta dello spogliatoio si aprì e Little Derek tirò un sospiro
di sollievo che avrebbe potuto spegnere un incendio in una foresta
mentre Guy entrava, pronto a combattere, con addosso il suo semplice costume blu e gli stivali bianchi.
«Finalmente! Dove diamine ti eri cacciato? State tutti cercando di
farmi venire un fottutissimo infarto questa sera?». Derek diede un
tiro alla sigaretta e disperse energicamente il fumo con una mano affinché non scattassero i sensori dell’allarme antincendio.
Guy non rispose. Gettò la sua borsa sulla panca e lanciò sia a
Derek che a Steve uno sguardo talmente cupo da potersi definire di
un nero “infernale”.
«Guy, prima di andare…», disse Steve.
«Risparmiatelo», ribatté Guy, con un’espressione che era per
metà Heathcliff e per metà rottweiler.
«Salite sul ring, coppia di…». Little Derek fu interrotto da Tarzan,
Apeman e i Pogmoor Brothers, che fecero irruzione nello spogliatoio
mandandolo quasi a terra.
«Guy…».
Ma Guy non era dell’umore di parlare. Era, tuttavia, dell’umore di
combattere.
Quando Steve fece la sua entrata, Juliet stava esultando abbastanza forte da essere udita sopra a tutti i fischi degli altri. Subito
dopo uscì Guy e la sala esplose in un’ovazione.
«Quindi, che cosa ne pensi?», disse Juliet.
«Ehm… Steve sembra carino», rispose Floz.
Era vero, pensò Juliet. Era molto attraente con i suoi calzoncini
neri e i lunghi capelli bianchi che gli fluttuavano dietro le spalle. Si
ricordò di quando, la notte precedente, le gambe di lui erano avviluppate intorno alle sue cosce, e si sentì fremere di desiderio. Cielo,
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che cosa le stava succedendo? Perché all’improvviso vedeva uno
Steve Feast diverso da quello che aveva visto per trent’anni?
«Niente male», riconobbe Juliet con tono indifferente. Poi notò
che Floz le stava indirizzando un largo sorriso. «So quello che stai
pensando, ma si tratta davvero solo di sesso. Un accordo vantaggioso
per entrambi fino a che Piers Winstanley-Black non sarà mio e Steve
non conquisterà Lambrusco, o com’è che si chiama la figlia di Little
Derek».
Anche Floz si stava concentrando su Steve, per la semplice ragione che stava cercando di non guardare Guy. Soprattutto perché
quel costume blu era davvero attillato e gli occhi di lei continuavano
a fissarlo di propria iniziativa. Per peggiorare le cose, Guy la scorse
mentre lo stava fissando e lo sguardo severo che le riservò in cambio
la fece sentire come se avesse fatto qualcosa di sbagliato. Probabilmente respirare.
«Voglio un combattimento pulito, ragazzi», disse Little Eric. «Al
tappeto al quarto round, giovanotto», sussurrò a Guy.
«Neanche per sogno», disse Guy con lo stesso tono piatto di Terminator. Riusciva a vedere Floz in prima fila. Era palese che fosse
venuta a vedere il suo nuovo ragazzo. Sfortunatamente sarebbe stato
annientato.
Ding ding!
Guy afferrò Steve con una forza spropositata e lo scaraventò
nell’angolo, facendogli sbattere la schiena.
«Maledizione!», rise Steve. Balzò in piedi e acciuffò Guy per la
testa per poi parlargli all’orecchio: «So che cosa stai pen-sando…».
«Davvero?», disse Guy, mentre si divincolava abilmente dalla
presa e scaraventava a terra il suo avversario traditore.
Little Eric si lamentò. Non poteva permettersi che quell’incontro
finisse prima del quarto round. La folla si sentiva già imbrogliata dal
claudicante Leppard che se ne era andato sobbalzando come la camicetta di una ragazza prosperosa.
Steve scartò di lato per evitare un colpo potente di Guy, che gli
avrebbe rotto le costole – oltre al palco – se fosse andato a segno.
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«Non mi approfitterò di lei, lo sai!», disse Steve. «Mi è piaciuta
dalla prima volta in cui le ho posato gli occhi addosso. Le voglio
veramente bene».
Guy cercò di agguantare Steve ma mancò il colpo.
«Come hai potuto?», grugnì.
«Dannazione, Guy. Non sapevo che fossi così possessivo. Che
cosa ti succede?»
Guy scattò verso Steve usando la testa come ariete contro lo
stomaco dell’amico. Steve, alquanto spossato, fu grato per la campana. Ding ding!
Steve indietreggiò, evitando la mano gigante simile a una mannaia che virava nella sua direzione. Little Eric spinse Guy nel suo angolo, in modo non troppo gentile.
«Calmati. Devi durare quattro round», disse Little Eric. Decise di
non ricordare a Guy che doveva recitare la parte di quello buono perché sembrava stesse guadagnando punti agli occhi della folla. Finalmente un combattimento che assomigliava a un vero e proprio incontro, e non a due ballerini di danza classica che bisticciavano per
una borsa.
Ding ding!
Steve e Guy si girarono intorno come granchi belligeranti.
«Ti picchierò fino a ridurti in poltiglia», ringhiò Guy.
«Questo è quello che credi», disse Steve, «ma non sarà così. Lei
non è tua, sai? Maledizione, credo che nessuno oserebbe provare ad
avanzare dei diritti su di lei! Che cosa vuoi che faccia? Vuoi che mi
scusi?»
«Sì, tanto per cominciare».
«Lo farei se pensassi di aver fatto qualcosa per cui scusarmi!».
«Già, perché non sembravi affatto colpevole questa mattina
quando eri mezzo nudo in cucina con lei, o sbaglio?».
A quelle parole seguì la lotta. Guy ghermì l’amico soggiogandolo
con una poderosa presa al mento dalla quale Steve non riuscì a liberarsi. Mentre Guy aumentava la stretta, Steve pensò che se la sarebbe
passata meglio se il suo amico non fosse venuto e se al suo posto
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avesse combattuto con Alberto Masserati. Poi Guy scivolò, la stretta
delle sue braccia si allentò e in una frazione di secondo Steve riuscì a
liberarsi. Guy tentò di travolgere Steve, ma fallì e, in cambio, Steve lo
afferrò per un braccio e lo scagliò contro le corde, togliendogli il fiato. Subito dopo, gli avvolse il braccio intorno al collo stringendolo
in una morsa sotto l’ascella. “Afferrato”, pensò Steve. Poi gli tornarono in mente le parole di Guy.
«Aspetta un secondo, che cosa intendi quando dici di avermi beccato mezzo nudo in cucina con lei questa mattina? Non crederai
che…?». Ding ding! «Dannazione», disse Steve, mentre Little Eric li
separava.
«Avete altri due round da affrontare. Andateci piano».
«Avrai i tuoi quattro round, non preoccuparti», disse Guy, e poi
colpì Steve alla schiena mentre questi si stava ritirando nel suo angolo. La folla impazzì. Qualcuno lanciò una scarpa sul ring, colpendo
Guy sul petto.
«Sono sempre così aggressivi?», domandò Floz.
«Be’, è un po’ diverso dal solito. Forse si tratta di un cambiamento di tattica per attirare gli scommettitori. Dopotutto, sul palco
sono nemici giurati », rispose Juliet, che si stava godendo lo
spettacolo. In una vita passata aveva probabilmente lavorato a
maglia vicino a una ghigliottina.
«Recitano molto bene», disse Floz, non troppo convinta del fatto
che Guy stesse simulando la sua aggressività, che a lei sembrava
parecchio reale. «Pensavo che Guy dovesse essere quello buono».
«È così», disse Juliet senza distogliere gli occhi dal ring per non
rischiare di perdersi nulla. «Non so perché si siano scambiati le
parti».
I due uomini si lanciarono delle occhiate torve, che attraversavano lo spazio che li separava. Steve era veramente adirato, dopo
che aveva realizzato che Guy non era esageratamente possessivo nei
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confronti di Juliet; al contrario, Guy pensava che Steve avesse trascorso la notte con Floz. Non era un buon segnale per la loro amicizia,
se Guy credeva sul serio che Steve avrebbe potuto rubargli la donna
per cui si era preso una cotta pazzesca. Anche se in realtà lei non era
ancora sua.
Ding ding!
«Sei un coglione, lo sai?», disse Steve, mentre si avvicinava lentamente a lui. «Ho appena capito che hai pensato che io abbia passato
la notte insieme a Floz».
«Be’, di certo non sarai andato a letto con Juliet, immagino». Guy
scoppiò in una risata priva di umorismo.
«A dire il vero è così», affermò Steve.
«Tu, maledetto bugiardo», disse Guy, e poi in un impeto d’ira si
lanciò addosso a Steve, che vacillò, permettendo a Guy di sopraffarlo
e bloccarlo nella cosiddetta presa Full Nelson, piegandogli le braccia
all’indietro mentre gli forzava il collo in avanti.
«Aaarrghghh!».
«Fa male, vero?», sbottò Guy. «E questo è niente». Spinse in avanti Steve, poi lo seguì, torcendogli il corpo per farlo passare attraverso le corde. Caddero entrambi fuori dal ring, schivando per un
pelo un tizio con una gamba ingessata.
«Pericolo, pericolo…», urlava il pubblico incredibilmente carico.
Juliet stava dirigendo i coretti nel suo lato di sala.
«Sei morto, amico!», gli promise Steve, intanto che risaliva sul
ring, aiutato da un paio di vecchie nonnine, ben felici di avergli toccato le gambe muscolose.
«Sì, come no», ribatté guaendo Guy, mentre una donna goffa correva verso di lui e iniziava a colpirlo sulla schiena con la borsa. Scattò rapidamente sul ring per evitarla.
Little Eric fece un po’ di scena e richiamò Guy, per la gioia del
pubblico. Stavano ringhiando come se fossero al Colosseo intenti a
osservare i cristiani che affrontavano i leoni. Ding ding!
“Ebbene, che guerra sia”, pensò Steve tra sé. Se Guy voleva combattere sul serio, allora lui gli avrebbe dato esattamente ciò che
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desiderava. Si sarebbe accertato che il dannato Guy Miller sostenesse un quarto round che non avrebbe mai più dimenticato.
Ding ding!
I due uomini si avvicinarono l’uno all’altro come tori impazziti,
per poi scontrarsi al centro del ring. Con la medesima forza, fomentata dalla rabbia, nessuno dei due riuscì a costringere l’altro né
oltre le corde né al tappeto, e nemmeno ebbe successo nell’afferrare
l’avversario per la testa, un braccio, il collo.
«Ti obbligherò ad ascoltarmi anche se fosse l’ultima cosa che faccio, stupido coglione ottuso!», gridò Steve.
«Che cosa mi dirai? Che non siete riusciti a trattenervi?». Guy era
ferito nel profondo del cuore. Desiderava continuare a combattere in
eterno, perché mentre lottava riusciva per lo meno a evitare di crollare. Credeva che se si fosse fermato sarebbe semplicemente andato
in pezzi.
«Maledizione! A che gioco stanno giocando?», trasalì Juliet,
capendo che quel combattimento era reale.
«Questo è per non avere nemmeno le palle di ammetterlo», disse
Guy in un accesso d’ira, mentre serrava le gambe di Steve tra le sue e
lo osservava ruzzolare al tappeto. «Sei andato a letto con Juliet!
Certo, come se potessi crederci!».
«Che cosa sta dicendo?», chiese Juliet, cogliendo la parola
“palle”.
«Non lo so». Floz si morse il labbro. «Ma stanno discutendo per
qualcosa».
«Non ho mai visto Guy comportarsi così prima d’ora, né sul ring
né fuori», disse Juliet pensando: “Che cosa diamine gli sta
succedendo?”.
Nelle due settimane precedenti, suo fratello era passato dall’essere un uomo gentile e tranquillo alle tenebre che lo avevano reso un
mostro cattivo e lunatico, con capacità culinarie sprofondate al livello di quelle della madre. Sperava soltanto che non fosse sulla
strada di un altro esaurimento nervoso.
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«Non stanno recitando», disse Floz con voce roca, notando lo
sguardo torvo negli occhi di Guy. Nemmeno Laurence Olivier
avrebbe potuto simulare la rabbia in quel modo.
«Di certo non può essere infastidito per il fatto che Steve e io abbiamo passato la notte insieme».
Floz scosse la testa. Cielo. Allora Guy era davvero geloso di sua
sorella. Non c’era da meravigliarsi che non avesse un’alta considerazione di Floz, dato che lei gli aveva usurpato il posto di migliore
amico. Ecco spiegate un po’ di cose.
Guy avvolse le braccia intorno alle corde, in attesa che Steve si rialzasse, così da poterlo stendere, travolgendolo con le braccia aperte
e mandandolo al tappeto. Solo allora sarebbe potuto uscire dal ring
per andarsene a casa.
«Su, su, su, su», urlava la folla, mentre Little Derek contava:
«Cinque, sei, sette…».
Steve si rimise in piedi a fatica. Guy si lanciò in avanti ma Steve
balzò con destrezza fuori dalla sua traiettoria e allungò una gamba
verso l’esterno. Guy inciampò ma non cadde a terra. Mentre si raddrizzava, Steve gli serrò il braccio intorno al collo, tenendogli la testa
in basso, in direzione della cassa toracica, ed eseguendo così la presa
di Grovit. Faceva dannatamente male.
«Ti ho preso. Questo, Guy Miller, è per aver creduto che ti avessi
tirato un colpo basso». Steve roteò i fianchi, mentre girava il polso,
fino a che non sembrò che il collo di Guy si stesse per spezzare, dopodiché gridò: «E il motivo per cui questa mattina in cucina non
riuscivo a guardarti in faccia era dovuto al fatto che ero appena uscito dal letto di tua sorella. Sul serio e in tutta onestà. Mi stai
ascoltando, testa di minchia? Il letto di Juliet, non di Floz!».
«Balle! Arrghgh! Ju ti odiiiaaa!».
«Non più. Chiediglielo tu stesso».
«Ti aspetti che io ti creda?»
«Dannazione, quante volte devo dirtelo? Sì».
«Non tu e…».
«No».
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«Arrghgh!».
«Arrenditi, stupido bastardo, e andiamocene a berci unabirra».
Guy si arrese. Little Eric si piegò per ascoltare le parole di resa e
dichiarò finito l’incontro. La folla si alzò in piedi e applaudì. Steve
fece un giro d’onore, mentre Guy giaceva inerte sul ring.
«Facile facile facile…», urlò la folla acclamante.
Prima di quella sera, Steve e Guy non avevano mai combattuto
veramente tra loro. Neppure quando Guy, qualche anno prima, era
andato fuori di testa e si sarebbe addirittura schiantato contro una
parete di mattoni se fosse servito a perdere un po’ di quel dolore che
gli era cresciuto dentro. La manona corposa di Steve si tese per
aiutarlo ad alzarsi, Guy la afferrò e insieme s’inerpicarono fuori dal
ring per ritornare negli spogliatoi, intonando alcune canzoncine nel
tragitto.
«Mi dispiace», disse Guy, mentre si stavano spogliando.
«Pensavo…».
«Sì, mi hai detto che cosa pensavi».
«Ho soltanto dato per scontato… Vai talmente d’accordo con Floz
e…».
«E invece Juliet e io no… o meglio non andavamo d’accordo»,
Steve terminò la frase per lui. «Be’, nessuno è più stupito di me dal
cambio degli eventi, di questo puoi fidarti. Oh scusa, dimenticavo: tu
non ti fidi di me, giusto?»
«Non iniziare», disse Guy mortificato, mentre seppelliva la testa
sotto all’asciugamano. «È solo che tu e Floz sembrate davvero fatti
l’uno per l’altra», borbottò.
«Non ti farei mai una cosa del genere, amico. Neanche se mi attizzasse da morire. E non è questo il caso», aggiunse in fretta Steve per
mettere le cose in chiaro. «È adorabile, ma, ecco… Juliet e io
vogliamo le stesse cose, credo».
«Cioè?»
«Un po’ di calore, un po’ di divertimento. Qualcuno con cui svegliarsi, nessuna promessa, nessun rimpianto una volta giunti alla
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fine. Non le sto mancando di rispetto, Guy», disse Steve in tono
sommesso. «Mi piace molto. Mi è sempre piaciuta».
«Non me l’hai mai detto».
«Non l’ho mai detto a nessuno», precisò Steve. «Non credevo di
avere la benché minima possibilità con lei».
Juliet e Floz li stavano aspettando all’uscita dello staff.
«Stavate discutendo per davvero?», domandò Juliet.
«Non essere sciocca», rise Steve.
«Lo sai che è tutto programmato», disse Guy, riproducendo lo
stesso divertimento di Steve. «Little Derek ci ha detto di esagerare
un po’. Venite con noi a bervi una birra?».
Mentre Juliet rispondeva affermativamente, Floz rifiutò l’invito.
«Ho un po’ di lavoro da sbrigare», spiegò.
Guy si sentì sprofondare.
«Oh, coraggio», disse Steve, andandogli in aiuto. «Solo una. È
troppo tardi per scrivere delle battute».
«No davvero, non posso. È un periodo molto intenso per me e ho
delle date di consegna da rispettare».
«Prendi la mia macchina allora, Steve mi darà un passaggio a
casa», disse Juliet consegnando le chiavi a Floz. Avrebbe scommesso
sulla propria vita che Floz non avrebbe lavorato. Quindi, per quale
motivo se ne stava andando a gambe levate? Scommetteva che in
qualche modo c’entrava la sua “vecchia fiamma”.
Floz era felice di fuggire da Guy. Lui la scombussolava. Gli
sguardi che le aveva lanciato dal palco durante l’incontro erano inquietanti. Cosa era accaduto di tanto torbido nel passato di Guy per
far sì che avesse bisogno dell’amicizia leale di Steve? Juliet e Coco se
l’erano quasi lasciato sfuggire. Non avrebbe escluso una malattia
mentale.
Nessuno di loro notò l’uomo anziano con il completo elegante in
fondo alla sala. Aveva scattato alcune fotografie con il telefono e le
stava inviando a suo figlio. “Che serata veramente interessante”,
pensava.
Capitolo trentaquattro
Una volta a casa, Floz andò diretta al suo computer, ma non trovò
alcuna e-mail. Un macigno di delusione si stabilì dentro di lei. Si fece
un caffè e si riscaldò le mani serrandole intorno alla tazza, ma non fu
in grado di sciogliere il gelo che aveva nelle ossa.
Si sedette alla tastiera e iniziò a scrivere.
Carissimo Nick,
ti scrivo giusto una breve e-mail per augurarti ogni bene, nella speranza che le
cose siano facili per te. Sei spesso nei miei pensieri. Desidero ardentemente darti
un po’ di conforto e mi sento così impotente poiché non posso fare nulla a causa
della distanza, se non pregare per te.
Sto davvero male. Vorrei soltanto averti incontrato e averti tenuto per mano,
così da poterlo richiamare alla memoria piuttosto che immaginarlo. La vita al momento mi sembra veramente fredda.
Ti auguro dei giorni e delle notti serene, mio amore.
Baci,
Cherrylips
Floz si era già infilata la camicia da notte e lavata i denti, quando
le arrivò una risposta.
Cherrylips,
allora credo sia giunta l’ora di dirci addio.Neanche per me è facile, troppi se e
tutto ciò che ne consegue. Questo sarà il mio ultimo messaggio,entrambi abbiamo
faccende da sbrigare ed è arrivato il momento di farlo.Prenditi cura di te e realizza
un milione di sogni.
Nick
Floz urlò al computer: «No, no, per piacere non lasciarmi!». Non
voleva che lui se ne andasse. Non voleva essere abbandonata un’altra
volta nelle lande selvagge, costretta a cacciare nell’oscurità per
ottenere delle informazioni. Tuttavia, lui doveva sfinirsi così
187/432
facilmente che non era giusto che lei lo facesse sentire in obbligo di
scriverle. Doveva lasciarlo andare, lo sapeva, ma non se la sentiva.
Si girò e rigirò nel letto e rimase sveglia ancora per molto tempo
dopo che Steve e Juliet erano sgattaiolati nell’appartamento, soffocando delle risatine mentre si ritiravano in camera da letto per scaldarsi a vicenda e sentirsi desiderati.
Settembre
Settembre è il mese in cui ingrassano i frutti e si raccolgono le messi
in cui il cielo si dipinge di rosso la sera e di oro il pomeriggio
in cui si rosolano le foglie e divampano i fuochi dei falò
in cui si adagia la nebbia e le grandi lune si colorano di vinaccia.
Linda Flowers, Settembre
Capitolo trentacinque
La mattina seguente, Steve si svegliò e sorrise subito non appena
vide Juliet che dormiva come un sasso accanto a lui e russava, seppur quasi impercettibilmente. Prima di quel momento non aveva
mai notato quanto le sue ciglia fossero folte e nere o quale forma deliziosa avessero le sue labbra. Le sue palpebre si stavano agitando
come se sognasse. Steve scivolò dall’altra parte del letto e si rannicchiò contro di lei; nel sonno, lei si accoccolò contro di lui.
Era una sensazione incantevole e lui la assaporò. Era andato a
letto con tante donne, a suo tempo, nella speranza di trovare quel
genere di legame che l’avrebbe portato a voler restare con lei l’indomani mattina, per condividere la colazione, chiacchierare e pianificare gli appuntamenti futuri. Non gli era mai successo. Ripensò agli
eventi della notte precedente e a come Guy avesse creduto che lui ci
avesse provato con Floz. Voleva bene a Guy come a un fratello e
sperava che sarebbe riuscito a trovare un modo per convincere Floz
di essere un ragazzo fantastico. Avrebbero potuto darsi molta felicità
a vicenda se si fossero messi insieme, ne era convinto… e poi i Miller
pensavano che Floz fosse adorabile. I Miller erano la famiglia che lui
aveva sempre sognato, il genere di famiglia che un giorno avrebbe
voluto per i propri figli. Sapeva di avere la fama di essere un donnaiolo, ma nel profondo del cuore, più di ogni altra cosa, Steve desiderava una moglie, dei bambini e una casa accogliente e sicura. E
voleva le stesse cose per Guy: desiderava che si sistemasse con qualcuna che fosse in grado di dargli, per lo meno, un po’ di serenità. Il
suo amico aveva sprecato una grossa fetta della propria vita, ma, se
tutto fosse andato per il verso giusto, l’apertura del suo nuovo ristorante avrebbe rappresentato il grande calcio d’inizio di cui aveva
bisogno per ricominciare e recuperare tutto il tempo che aveva perduto dopo il suicidio di Lacey Robinson.
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A proposito di ciò, si ricordò che doveva dire a Guy una cosa che
sicuramente gli avrebbe rallegrato la giornata. Se ne era accorto il
giorno precedente, mentre se ne andava in macchina da casa di sua
madre. Cercò di afferrare il cellulare, ma le sue dita non ci arrivarono e lui non voleva scalzare Juliet dal suo abbraccio per riuscire a prenderlo.
Sapeva che doveva stare attento perché per lei era solo questione
di sesso, e lui le aveva mentito dicendole che anche per lui si trattava
solo di quello. Sapeva che un giorno ne sarebbe uscito devastato,
perché non appena Juliet avesse conosciuto qualcuno che appagava i
suoi bisogni emotivi oltre che quelli sessuali, lui sarebbe stato scartato. Ciononostante, per il momento Steve Feast era felice di vivere in
quel luogo e in quel tempo, fingendo con se stesso che tutto sarebbe
rimasto così in eterno.
Restò disteso vicino a Juliet per i successivi venti minuti, fino a
che la sveglia di lei non suonò e lui si fu completamente dimenticato
che doveva telefonare a Guy.
Capitolo trentasei
Quando si svegliò, Floz sapeva che non ci sarebbe stata un’altra email ad aspettarla, tuttavia controllò lo stesso. Doveva sperare che
una delle sorelle di Nick le avrebbe fatto sapere il “quando”. Ma una
lettera stava prendendo forma dentro di lei, e fu così che tornò a
scrivergli.
Carissimo Nick,
ti scrivo senza nessuna speranza di una tua risposta. Sentiti libero di ignorarmi
o di leggerla – è una tua prerogativa.
Mi sento talmente privilegiata per il fatto che tu sia entrato nella mia vita. Sei
sempre stato speciale – e queste parole sono dette da una vera e propria scettica,
perché tu solo conosci la mia storia.
Ero solita invidiare il modo in cui i miei genitori si guardavano a vicenda. Ho
sempre desiderato avere qualcuno che mi adorasse in quel modo. So che all’epoca
non c’era un posto concreto per me nelle loro vite – com’è ancora tutt’oggi. Erano
l’uno per l’altra tutto ciò di cui avessero mai sentito il bisogno – o che avessero mai
desiderato. Tu eri l’unica persona che sapevo mi avrebbe amato quanto io ti amavo
a mia volta. Non troverò mai qualcuno che ti equivalga. Eri unico – accidenti a te.
Suppongo tu sia circondato dal calore della tua famiglia. Mi sono sempre sembrati così meravigliosi.
Con tutto il mio amore,
baci,
Cherrylips
Premette Invio e si rese conto che doveva davvero lasciarlo
andare.
Gli aveva detto tutto ciò che desiderava dirgli. Soffocò le lacrime,
si vestì e si preparò a scrivere delle battute per i biglietti d’auguri.
Ciononostante, attese finché la sghignazzante Juliet e Steve non se
ne furono andati prima di emergere dalla sua camera per la
colazione.
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Guy si alzò, si vestì e preparò la caffettiera. Non aveva dormito
bene. Quella mattina era atteso in banca per mettere i puntini sulle I
e i trattini sulle T in merito al contratto di finanziamento. Mentre
negli ultimi anni si era semplicemente limitato a sopravvivere, respirare, mangiare e lavorare, in quel momento si sentiva come se
fosse in procinto di abbandonare la lenta corsia di immissione per
ricongiungersi all’autostrada della vita. Un pensiero che lo entusiasmava e lo terrificava allo stesso tempo.
Nel corso degli anni aveva sperperato poco, aveva risparmiato e
investito in modo saggio, per cui disponeva di denaro a sufficienza
per comprare quasi in blocco il ristorante. Kenny probabilmente
pensava di aver proposto a Guy un vero affare, ma non aveva considerato gli ingenti costi di ristrutturazione che avrebbero consentito al
Burgerov di sbarazzarsi di quell’immagine da bistrot scadente e diventare un ristorante con una cucina rinomata. Guy era un cliente
buono e fidato della sua banca e questa aveva già accettato di prestargli i soldi, una volta che lui avesse fatto stimare il valore dell’immobile da affidabili imprenditori edili locali.
Guy doveva seriamente trovarsi un altro posto in cui vivere, un
luogo che fosse grande abbastanza da starci comodi, a differenza di
quel nascondiglio dove aveva fatto base per troppo tempo e verso cui
non provava alcun affetto. Desiderava una casa, voleva un posto
dove poter portare una donna e una cucina in cui poter dare sfogo
alla creatività. La sua mente fantasticò di comprare una casa simile a
Hallow’s Cottage, dove vivere… insieme a Gina, pensò inizialmente,
ma scartò subito tale eventualità. Sarà anche stata disponibile nei
suoi confronti, ma non era Gina che lui voleva. Ebbe l’audacia di
pensare a Floz, rannicchiata accanto a lui su un grande divano in un
ristrutturato Hallow’s Cottage; sopra le loro teste splendevano i raggi
del sole e vicino a loro c’era un bambino in un seggiolino a dondolo.
Era un’immagine talmente perfetta da farlo stare male, in quanto era
evidente che Floz Cherrydale non provasse le stesse cose, per cui era
sicuro che nulla di tutto ciò si sarebbe mai avverato.
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In ogni caso, l’acquisto del ristorante avrebbe prosciugato tutti i
suoi risparmi. La casa avrebbe dovuto aspettare. Era quello il problema: nella sua mente aveva una chiara immagine di lui e Floz a Hallow’s Cottage, e tutto il resto sarebbe stato un ripiego. E si era già accontentato così tante volte che gli sarebbero bastate per una vita
intera.
Capitolo trentasette
Quella sera Steve arrivò a casa di Juliet e Floz con del cibo cinese
da asporto, sufficiente per poterci banchettare in tre.
«Ho pensato di farti una sorpresa», disse, poi notò l’odore di aglio
nell’aria. «Oh, hai già mangiato?»
«Stavo giusto per mettere in tavola degli spaghetti al ragù», disse
Juliet. «Fa lo stesso, però, li terremo per domani. A te va bene, Floz?
Ti va di mangiare il cinese con noi?»
«Sì, grazie», annuì Floz, mentre chiudeva il suo taccuino e si dirigeva in cucina a prendere i piatti.
Più tardi, guardarono insieme un film su Jack lo Squartatore. Poi,
Floz andò a letto, lasciando Steve e Juliet appoggiati l’uno contro
l’altra sul divano.
«Resti?», gli chiese lei.
«Be’, sì», disse lui, «però sono troppo sfinito per fare sesso, sto
intonacando un soffitto e la schiena mi fa un male del diavolo».
«Anch’io sono stanca», disse Juliet sbadigliando. «Allora mettiamoci a dormire, ti va? Ti farò rilassare con un massaggio».
«Fantastico», disse Steve, e non c’era traccia di ironia nelle sue
parole.
Sorprendentemente, c’era un’e-mail di Nick nella posta in arrivo
di Floz, che lei controllò come suo solito prima di andare a dormire.
Cherrylips,
ho un cugino che vive da solo.Ha perso sua moglie in un incidente stradale
dodici anni fa e non ha figli.È intrappolato nel suo dolore.Quindi, non stringe nessuna nuova amicizia.Potrebbe iniziare a scrivere un nuovo libro ma preferisce restare bloccato in eterno sull’ultimo capitolo di uno vecchio. Sono orgoglioso e triste
per il fatto che qualcuno sentirà la mia mancanza,in qualche modo rende tutto più
facile se paragonata alla strada che intraprende il defunto pesciolino rosso quando
va giù per lo scarico.
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Quello che voglio dire è che ci sono innumerevoli uomini unici là fuori che aspettano solo di incontrare una ragazza come te e l’unico ostacolo che li blocca sei
tu.
Ti auguro vita, amore e avventure magnifiche (e moderatamente sicure) e forse
l’abilità di mettere i vermi all’amo,soprattutto se un giorno adotterai un figlio e gli
insegnerai a pescare.
Nick
Floz scoppiò a piangere. Per tutto il giorno aveva dovuto affrontare l’idea di lasciarlo andare, e aveva finito per sentirsi come se
ce la stesse per fare, ma ora era nuovamente a pezzi. Si sedette al
computer e gli scrisse quella domanda che sentiva di dovergli
sottoporre.
Carissimo Nick,
scusami, ti sto scrivendo troppo e ti faccio stancare. Soltanto un’ultima
domanda, che non richiederà nessun particolare dettaglio nella risposta. Per piacere, rispondimi una volta per tutte, senza giri di parole e in tutta onestà, perché
sono in grado di sopportare la verità: ho avuto un posto nel tuo cuore in questi ultimi diciotto mesi?
Cherrylips
Floz provò a dormire, e ci riuscì, anche se non fu un sonno
riposante.
Si svegliò in piena notte, sapendo con certezza di aver ricevuto
una nuova e-mail. Aveva ragione. Era talmente in sintonia con Nick
che in lei si acuì la convinzione che sarebbero stati perfetti l’uno per
l’altra, se il destino fosse stato dalla loro parte.
Carissima Cherrylips,
non mi stai scrivendo troppo.ultimamente leggo con molta più facilità di
quanto non scriva.il mio controllo ortografico è andato in terapia e non mi aspetto
che ritorni alla normalità.ho rinunciato alle maiuscole ma uso ancora la punteggiatura. non so se lì da te ci sono le bibite Boost ma non berle a meno che tu non sia
obbligata.sembrano avere un buon sapore, ne esistono di tre colori diversi:bianco,
marrone e rosa.però sanno di sporcizia a cui è stato aggiunto del dolcificante.È
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nevicato sulle montagne la scorsa notte, immagino che il problema del riscaldamento globale non sia più all’ordine del giorno.
fai in modo di continuare a scrivere quelle barzellette e di sor-ridere.C’è così
tanta tristezza nel mondo.E per rispondere alla tua domanda: sei l’unica donna che
credo di avere mai conosciuto.Sei e sarai per sempre la mia costante “se solo”.
Nick
Capitolo trentotto
Il lunedì mattina seguente, Floz si sedette alla finestra per godersi
il primo caffè del giorno insieme a una fetta di pane tostato. Le
scuole avevano riaperto dopo la lunga pausa estiva. I bambini
stavano camminando lungo la strada in direzione dell’edificio scolastico con addosso le loro immacolate uniformi, le scarpe lucenti e
dei nuovi cappotti con tanto di manopole attaccate con una cordicella, che sbucavano dalle maniche. Alcuni sembravano poco più che
bimbetti, intenti ad afferrare le mani delle loro madri per poi saltellare lungo tutto il tragitto. Era uno spettacolo dolce e struggente.
Tim, l’inquilino del piano di sotto, stava rastrellando le foglie, ma
non appena ne ebbe ammucchiata una pila, la brezza ci soffiò sopra e
le trascinò in alto in un turbine prima che lui riuscisse a raccoglierle
per riporle nel bidone verde. Il vento autunnale era come una civetta, decise Floz con un largo sorriso.
La consegna di lavoro di quella settimana riguardava il Natale,
ma non c’era nulla di strano al riguardo. Spesso a dicembre doveva
scrivere dei testi a proposito della Pasqua, e magari i biglietti di
«Buon Halloween» venivano scritti a marzo. Molto spesso scriveva
rime su Babbo Natale quando i titoli dei quotidiani dicevano: «Accidenti, che giornate torride». Era un peccato che nessuno mandasse
dei biglietti di «Buon autunno». Era un così piacevole periodo
dell’anno.
Eppure le persone camminavano freneticamente sulle foglie, accorgendosi soltanto della fastidiosa sporcizia della natura, senza prestare attenzione alla meravigliosa mescolanza di colori: scarlatto,
oro, ruggine, bronzo, bordeaux, ambra, porpora, rame. Lanciavano
un’occhiata frettolosa verso l’alto, in direzione della grande e rossastra luna settembrina, che una volta era stata tanto importante poiché
aiutava i contadini a lavorare la sera fino a tardi ai loro raccolti. Non
riuscivano a scorgere tra i rovi i lamponi e le more, che si facevano
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sempre più grandi e dolci, o lo smisurato sanguinamento dei
papaveri nei campi.
Dell’autunno Floz aveva sempre amato il fatto che brulicasse di
attività. Alle feste del raccolto, la gente nelle chiese cantava inni appassionati a proposito di “chicchi di cereali maturi” e della “dolce e
rinfrescante pioggia”, i bambini raccoglievano svariati generi alimentari dentro delle ceste, per poi darle in regalo ai poveri. A Halloween, le famiglie svuotavano le zucche e le posizionavano fuori
dalle loro porte per far sapere a scheletri e streghette che in quella
casa avrebbero potuto esserci dei “dolcetti” se avessero bussato e
promesso di non fare degli “scherzetti”. Poi, quando arrivava
novembre, l’aria serale si riempiva di crepitii, di fumo e di sfrigolanti
barbecue, di scoppiettanti fuochi d’artificio e dei loro boati, di scoppi
e di festeggiamenti. Eppure, la maggior parte della gente pensava
d’istinto che l’autunno fosse una “non-stagione”, ovvero una semplice stagione tappabuchi tra l’amata estate e lo scintillante inverno.
Floz avrebbe avuto più ragioni degli altri per odiare l’autunno,
tuttavia non riusciva a convincersi che Dio avesse scelto di dipingere
quella stagione usando una tavolozza così bella di colori se non
avesse avuto l’intenzione di trasmettere un messaggio di speranza: la
terra non stava morendo, bensì si stava preparando a riposarsi e
rinnovarsi e sarebbe sopravvissuta per tornare a fiorire. E lei aveva
davvero bisogno di continuare a credere che ci fosse un Dio – e un
paradiso.
Uscì a fare una passeggiata per i negozi e finì al supermercato
Morrisons, dove vagò oziosamente lungo le corsie senza però avvistare nulla che riuscisse a stuzzicarle l’appetito. Al momento il cibo
non le interessava più di tanto, ma si obbligava a mangiare quando si
sentiva debole e senza forze. Abbassò lo sguardo sul carrello della
spesa. Avrebbe potuto giurare di averci messo delle patate, ma non
ce n’erano. C’era, però, un grande sacchetto di cipolle di cui non
aveva bisogno. Era stremata: fisicamente poiché non dormiva per niente bene, e mentalmente dato che pensava a Nick e tentava di colmare i vuoti della propria conoscenza e di scoprire che cosa gli stesse
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accadendo, che cosa stessero passando la sua famiglia, i suoi nipoti,
perfino i suoi cani. Aveva due bellissimi husky: Amak e Pilitak. Si ricordò che Nick le aveva detto che erano nomi inuit. Amak, il nome
della femmina, significava “vivace”; Pilitak, il nome del maschio, significava “utile”.
Aveva la sensazione che molte persone si sarebbero disperate per
la dipartita di quell’uomo, forte e adorabile. Così come molti animali.
Era quasi una settimana che non riceveva notizie da lui e temeva
il peggio. Il non sapere la stava distruggendo.
La donna alla cassa chiese a Floz se si sentiva bene, dato che alcune lacrime le stavano scendendo lungo le guance mentre infilava
la spesa nelle buste.
«Sì, sto bene». Floz cercò di apparire allegra. «Credo di essere allergica a questo eye-liner».
Era una sporca bugia, ma la cassiera stette gentilmente al gioco.
«Una volta ne avevo uno simile», disse, intanto che si alzava in
piedi per aiutare Floz a imbustare. «I miei occhi erano pesti. E non
costava neanche poco».
Floz ridacchiò con gratitudine. C’erano delle persone deliziose su
questo pianeta, che facevano sì che la vita filasse via un po’ più liscia,
anche solo rivolgendoti una o due parole gentili.
Nel parcheggio, Floz notò un uomo che trafficava sotto il cofano
della macchina.
«Accendi il motore, Gron», stava urlando a qualcuno seduto nel
posto del guidatore. La voce le fu subito familiare.
«Signor Miller? Si sente bene?».
Perry Miller si raddrizzò.
«Oh ciao, cara Floz». Si piegò in avanti e le diede un bacio sulla
guancia. «Abbiamo un problema alla macchina. Non riesco a capire
che cosa ci sia che non va. Le ho appena fatto la revisione,
accidenti».
Grainne emerse dalla macchina e la salutò con la mano. «Ciao,
Floz», disse con fare allegro. «La macchina ci sta dando qualche
problema. Le abbiamo appena fatto la revisione…».
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«Gliel’ho già detto, Gron», si intromise Perry con una strana
stanchezza nella voce. Floz notò che aveva un aspetto affaticato. Era
un uomo di settant’anni, che dava l’impressione di avere la stessa energia di uno di venti. Era abituato ad accorrere in aiuto di tutti i
membri della sua famiglia; il ruolo di chi veniva “salvato” si scontrava chiaramente con il suo orgoglio.
«Be’, che ne dite se vi accompagnassi a casa?», suggerì Floz.
«No, no, possiamo prendere un taxi», disse Perry. «Tu sarai
sicuramente indaffarata».
«Niente affatto», disse Floz. «Lasci che posi la spesa e che porti
qui la mia macchina».
«Grazie mille», sorrise Grainne, che sembrava sollevata. «Il mio
gelato deve essersi quasi sciolto».
Qualche minuto dopo, Floz stava guidando verso di loro. Soltanto
per un istante, immaginò che quelli fossero i suoi genitori e che li
stava aiutando perché avevano bisogno di lei. In ogni caso, i suoi veri
genitori non si sarebbero mai trovati in una simile posizione di necessità. Non aveva alcun dubbio che quando sarebbe successo qualcosa a uno dei due, l’altro lo avrebbe seguito di lì a poco. Non
avrebbero mai voluto nessun altro eccetto loro stessi – era sempre
stato così, e lo sarebbe sempre stato.
Con un colpo di tosse scacciò la commozione che stava prendendo
il sopravvento dentro di lei. Non si sarebbe mai liberata della
sensazione di essere un sovrappiù rispetto alle esigenze di sua madre
e di suo padre.
«Ho riferito allo sportello del servizio clienti che la vostra macchina non parte e mi hanno detto di mettere questo sul parabrezza»,
disse Floz, consegnando a Perry un foglio di carta che diceva:
PARCHEGGIO DI VEICOLO AUTORIZZATO. «Così non le faranno la multa
per essere rimasto posteggiato qui per più di due ore».
«Oh, è molto gentile da parte tua, cara Floz», disse con entusiasmo Grainne.
Caricarono la spesa dei Miller nel portabagagli, dopodiché Floz
partì in direzione di Maltstone.
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«Mi dispiace se ti abbiamo disturbato», disse Grainne, spaparanzata sul sedile posteriore.
«Davvero, non siete di nessun disturbo», rispose sinceramente
Floz.
«Non riesco a capire che cosa abbia che non va». Perry stava
ancora rimuginando sul problema della macchina.
«Perry è sempre stato bravo con le automobili», disse Grainne.
«Deve trattarsi di qualcosa di strano se non riesce a individuarlo.
Non importa. Più tardi, ci penseranno Guy e Steve. E se neanche loro
sono in grado, di sicuro conoscono qualcuno che ne sa di più. Ci sarà
di certo un meccanico tra i loro amici del wrestling».
Quando arrivarono a casa, Perry insistette per dare a Floz una
banconota da cinque sterline per la benzina. Floz fu altrettanto insistente e si rifiutò di prenderla.
«Floz, non voglio che tu paghi di tasca tua», disse Perry con tono
severo.
«Perry, non prenderò i suoi soldi», ribatté Floz, mentre trasportava la loro spesa. «La smetta di insistere». Poi si allontanò in
auto prima che i due la tenessero in ostaggio fino a che lei non avesse
messo i soldi in borsa.
«Che ragazza dolce», sorrise Grainne, salutandola con la mano
fino a quando la macchina di Floz non sparì dalla loro vista.
«Davvero», annuì Perry.
«Però mi chiedo che cosa la preoccupi. I suoi occhi erano terribilmente tristi. Hai notato come erano rossi?»
«Ho pensato la stessa cosa», ammise Perry, estraendo la pipa
dalla tasca. «Ragazza adorabile, ma triste».
«Come si fa a non voler vedere spesso una figlia come quella?». Il
sorriso di Grainne svanì. «Alcune donne sono o troppo stupide o
troppo egoiste».
«Ho smesso molti anni fa di giudicare gli altri in base ai miei
princìpi, mia cara», disse Perry, cingendo con il braccio le spalle
della moglie e conducendola dentro. «A questo mondo esistono
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molte persone che non riescono ad amare, e sono proprio felice che
noi non ne facciamo parte».
Quella sera, Juliet entrò in casa come una scheggia e si diresse a
grandi passi verso Floz, esibendo uno sguardo omicida.
«Grazie a te e alla tua dannata gentilezza con i miei genitori,
siamo stati invitati al pranzo di domenica», mugugnò. «E per peggiorare le cose sarà mia madre a cucinare. Grazie mille, Floz. La
prossima volta lasciali nel maledetto parcheggio».
Floz scoppiò a ridere.
«Credi sia divertente, Floz Cherrydale», disse Juliet. «Aspetta che
ti ricoverino d’urgenza per un’intossicazione e poi mi dirai».
Capitolo trentanove
Nonostante il terrore esagerato e fasullo di Juliet in merito all’incombente pranzo della domenica, Floz non vedeva davvero l’ora di
andarci. Sarebbe riuscita a distrarsi da Nick e da come lui potesse
stare. Erano trascorsi undici giorni dalla sua ultima e-mail. Ma i suoi
sogni a occhi aperti erano stati pieni di lui e abbandonarvisi era stato
fin troppo semplice. Nei suoi sogni, vivevano insieme in una
capanna di legno sulla sponda di un lago. Lei scriveva al portatile, lui
andava a pescare; avrebbero mangiato quello che lui aveva preso, seduti a un tavolo all’esterno, sotto un porticato, nelle notti illuminate
da una grande e bianchissima luna. Immaginava che lui l’avrebbe
trascinata a letto e l’avrebbe baciata fintanto che le sue terminazioni
nervose non fossero andate in fiamme. Le avrebbe detto: «Ti amo»,
e lei avrebbe capito che era serissimo. La sua eterna “se solo”, come
lui era quella di lei.
Juliet si fece il segno della croce con la mano destra prima di aprire con uno spintone la porta d’ingresso del numero 1 di Rosehip
Gardens.
«Se muoio a causa della cucina di mia madre, Floz, tornerò a tormentarti», disse.
«Non essere sciocca», rise Floz, mentre seguiva Juliet in casa. Un
piacevole odore di carne arrosto diede loro il benvenuto.
«Ciaooo», disse Perry, salutando entrambe con un bacio. «Siete
arrivate per prime. Ho appena visto passare la macchina di Steve,
suppongo sia andato a prendere Guy».
Il cuore di Floz sobbalzò nel petto. Dunque ci sarebbe stato anche
Guy? Che cosa aveva di così speciale quell’uomo da riuscire a farle
battere il cuore a ritmi bizzarri?
«Che cos’era successo con la macchina, papà?», chiese Juliet.
«L’alternatore», rispose Perry. «Guy e Steve me l’hanno messo a
posto».
204/432
«Tua mamma sa di te e Steve?», sussurrò Floz.
«Che cosa? Che non abbiamo una relazione ma che facciamo solo
del sesso selvaggio? Ehm, no, Floz», Juliet le rispose bisbigliando,
mentre faceva una smorfia alla Elvis Presley.
«Be’, ottima osservazione», disse Floz, che avrebbe voluto aggiungere: “Solo sesso, un corno!”. C’era un affetto genuino tra Steve e
Juliet. Qualsiasi idiota se ne sarebbe accorto.
«Quel pollo ha un odore di tutto rispetto», disse Juliet. «Ne avete
comprato uno già sfornato da Morrisons e lo state soltanto
riscaldando?»
«No, affatto. Ed è tacchino», disse Grainne. Poi si rivolse a Floz:
«Onestamente, se si sta ad ascoltare la mia famiglia si direbbe che io
riesca a bruciare l’acqua. Sono sempre riuscita a fare un rispettabile
pranzo domenicale».
La porta d’ingresso si aprì ed entrarono Guy e Steve.
«Ciao, ragazze», salutò Steve con la mano, cercando di apparire
disinvolto, diversamente da come si sarebbe comportato un fidanzato. Guy rivolse loro un cenno del capo. Floz gli rispose a sua volta
con un cenno, ma sorrise a Steve.
«Floz, stai perdendo peso?», disse Steve notando che le sue
guance parevano un po’ più scavate del solito. «Non ti sembra che
sia dimagrita, Guy?». Steve aveva orchestrato quella battuta in
favore dell’amico. Alle donne faceva sempre piacere ricevere un complimento del genere.
Guy pensò che, nonostante l’osservazione di Steve fosse a fin di
bene, Floz avrebbe potuto sentirsi a disagio se tutti si fossero messi a
valutare il suo fisico, e desiderava perciò andare in suo aiuto.
Il suo istinto gli disse che il miglior modo per farlo era rispondere
dicendo: «In realtà, non l’ho notato».
«Sei proprio adorabile». Juliet fece schioccare la lingua. «Hai
sempre avuto il dono della parlantina, Guy».
«Non intendevo dire che non è dimagrita», ribatté Guy stando
sulla difensiva. «Volevo soltanto dire che non l’ho osservata… per
nulla… in quel modo… in nessun modo, in realtà…».
205/432
Steve mugugnò. Gli balenò nella mente l’immagine di un uomo
che si scavava un’enorme fossa, andando sempre più in profondità.
Vide le gote di Floz diventare rosa, per poi volgere allo scarlatto, decise quindi di intervenire. Batté le mani e iniziò ad aprire una bottiglia di rosé frizzante che aveva comprato per le ragazze.
«Pensavo avreste portato Raymond con voi», disse Grainne.
«Questo fine settimana è via per un qualche convegno», rispose
Juliet. «Il suo tempismo è stato perfetto, se volete sapere come la
penso».
«Non riesco ad aprire questa maledetta bottiglia», grugnì Steve,
dopodiché emise un gridolino. Si era tagliato un dito con il filo
metallico intorno al tappo.
«Dammi qui», disse Guy. Afferrò la bottiglia ed estrasse il tappo
che schizzò via come una pallottola, mancando di poco Floz. Guy
premette la mano sull’imboccatura mentre la schiuma saliva velocemente, fino a che non zampillò fuori per poi finire sulla maglia di
Floz.
«Mamma mia!», disse Grainne, correndo a prendere un asciugamano. «La tua deliziosa camicetta bianca!».
«Fa lo stesso», disse Floz, desiderando gettarsi oltre la cornice
della finestra, superare con un balzo la recinzione del giardino e correre il più lontano possibile da Guy Miller.
«Mi dispiace così tanto», disse Guy, mentre si premeva la punta
delle dita contro la fronte, al colmo della disperazione.
«Non fa nulla», ripeté Floz, asciugandosi con il dorso della mano,
fino a quando non arrivò l’asciugamano e lei si rese conto con orrore
che la sua camicetta era diventata trasparente, rendendo distintamente visibile il suo reggiseno di pizzo con le rifiniture rosa.
Il vino rosé le sgocciolava dalla frangia. Non aveva mani a sufficienza per cercare di tamponare le zone bagnate, asciugarsi i capelli
e coprirsi il seno.
«Probabilmente è successo perché non è fresco ed è rotolato avanti e indietro per la macchina», spiegò Steve. «Scusatemi, avrei
dovuto comprarlo ieri sera e conservarlo in frigo».
206/432
«Fa tutto parte del piano generico che ci porterà alla distruzione», sospirò Juliet. «Spacciati, siamo tutti spacciati».
Il timer del forno scattò.
«Oooh, tutti a tavola, per favore!». Grainne batté le mani con
entusiasmo. Steve si fiondò nel posto verso cui Guy si stava dirigendo, obbligandolo a sedersi di fronte a Floz. L’altro cercò di evitare
di guardare nella direzione del suo reggiseno, che si intravedeva
oltre la camicetta, ma fallì proprio nella frazione di secondo in cui lei
lo sorprese. Floz ebbe la battuta pronta e, indicando in alto con la
mano, disse con voce severa: «I miei occhi sono qui».
«Qualcuno vuole del vino?», chiese Guy, sollevando quel poco che
era rimasto della prima bottiglia di rosé. Ci mancò poco che non la
fece cadere giacché era bagnata e gli scivolò tra le mani.
«Faccio io, posso?», disse Steve. Con fare esperto, riempì tre flûte
per le signore, poi versò del bianco per sé, Perry e Guy.
Grainne portò in sala dei piatti stracolmi di fette di petto di tacchino, cavolini di Bruxelles, uno sformato di patate con verza, burro
e cipolla, dello Yorkshire pudding dall’aspetto uniforme e delle radici
di pastinaca al forno, oltre a un purè di carote e rape.
«Mamma, questo Yorkshire pudding è surgelato, vero? Hai barato», disse Juliet, anche se dovette ammettere di essere impressionata dall’aspetto normale di quelle portate.
«Non riuscirei mai a preparare lo Yorkshire pudding», disse
Grainne. «E per fortuna, visto che ne esiste uno buonissimo
surgelato, non devo impazzire per farlo».
«Ha un aspetto magnifico», constatò Perry.
Steve si gettò sul cibo. Gli era sempre piaciuto mangiare a quella
tavola, in compagnia della famiglia Miller. Grainne sarebbe riuscita a
preparare in modo pessimo anche delle fette di pane tostato con
sopra i fagioli, ma il cibo non era mai stato la ragione principale per
lui.
Non riusciva a ricordare di aver mai mangiato a tavola con sua
madre e, in ogni caso, a casa sua non erano mai esistite quelle chiacchiere e quelle risate che era riuscito a trovare lì, a Rosehip Gardens.
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«Allora, come va il wrestling, Steven?», chiese Perry, mentre versava un po’ di salsa sulle patate, per poi cercare di eliminarne i
grumi.
Aveva la consistenza delle uova di rana.
«Si procede a singhiozzi», disse Steve. «È bello ritrovarsi con gli
altri ragazzi, ma uno a uno stanno tutti smettendo».
«È un peccato», disse Grainne. «Immagino che i ragazzini si interessino soltanto alla scena americana».
«Più o meno», sospirò Steve. «È lì che la scena è più attiva.
Inoltre, il wrestling britannico non viene più trasmesso in
televisione».
«Non riesci a ottenere un lavoro là da loro, Steven?». Perry stava
schiacciando i grumi con il retro della forchetta.
«Mi piacerebbe», disse Steve, seguendo l’esempio di Perry e girando la forchetta per amalgamare la salsa.
«Chi è che comanda là? Posso scambiarci una parolina in tuo
favore», sorrise Grainne.
«Si chiama Will Millburn», disse Steve, scolandosi una sorsata di
emergenza di vino. Quanto sale aveva messo Grainne nelle carote e
nelle rape?
«Anche lui è un bravo lottatore di wrestling?», chiese Perry.
Guy si intromise per rispondere al posto di Steve, che aveva iniziato a tossire in modo violento.
«No, è un nanerottolo basso». “Accidenti”. Poi si rivolse in fretta
a Floz: «Nessuna offesa, Floz».
“Accidenti”.
«Non mi sono offesa, non preoccuparti», rispose Floz stizzita.
«Quanto sei alta, Floz?», chiese Perry. «Direi un metro e cinquantacinque circa».
«Un metro e cinquantotto», rispose Floz, in attesa di sentire che
cosa avrebbe detto Guy.
«E quanto pesi?»
«Papà!». Juliet fu la prima ad alzare le mani in segno di
frustrazione.
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«È davvero piccina», disse Perry. «Mi dispiace se ti ho imbarazzato, Floz. Volevo soltanto dire che sei una piccola… come si
chiamano quegli esserini fatati?»
«Gnomi?», disse Guy. “Merda”. «Ninfe. Volevo dire ninfe!».
«Esatto, una piccola ninfa», disse Perry.
«Niente a che vedere con una ninfomane?». Steve scoppiò in una
risata fragorosa.
«Vedi che cosa intendevo dire?». Juliet si rivolse a Floz: «La
prossima volta chiama il soccorso stradale e nasconditi dietro il
cespuglio più vicino. Non permettergli mai più di essere in debito
con te».
Per fortuna, la conversazione intorno al tavolo si spostò sui progetti di Perry per il giardino. Una gnometta dal culo basso e con una
maglia fradicia e trasparente come Floz finalmente poté starsene in
disparte, nell’ombra, lontana dai riflettori che la privavano della
sicurezza in se stessa.
Come dolce, Grainne portò in tavola una torta foresta nera
dall’aspetto piuttosto discutibile.
«Dovresti togliere i noccioli dalle ciliegie, mamma», disse Juliet,
visto che ci mancò poco che si spezzasse un molare.
«Mi pare di avvertire un sapore di pistacchio…», riflettéPerry.
«Sì, me ne erano avanzati alcuni. Ho pensato che avrebbero aggiunto un tocco interessante».
«Credo che in futuro lasceremo che sia Guy a cucinare i pranzi dei
giorni di festa», disse Perry, facendo l’occhiolino al figlio.
«Mamma ha preparato un pranzo migliore di quanto non abbia
fatto io l’ultima volta che ho cucinato qui», disse Guy, mentre si
toglieva il nocciolo di una ciliegia dalla bocca. «Quel giorno ho combinato un vero pasticcio». Finalmente si era presentata l’occasione
per mettere le cose in chiaro con Floz, in caso pensasse che quelli
fossero i suoi abituali standard cu-linari.
«Stavi andando alla grande, Grainne, finché non è arrivata la
torta», disse Perry, alzandosi dalla sedia per riempire i bicchieri di
tutti con un altro po’ di vino.
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«Ho preparato dei cioccolatini alla menta fatti in casa da prendere con il caffè», annunciò Grainne con orgoglio. Si chiese perché la
sua dichiarazione fosse stata accolta con un pesante silenzio invece
che con una fragorosa esultanza.
Non ci fu modo di sottrarsi ai baci dell’arrivederci che seguirono il
caffè e i cioccolatini alla menta fatti in casa, con tanto di uva sultanina affogata in una crema di menta. I Miller erano una famiglia espansiva e amavano le dimostrazioni d’affetto. Floz si innervosì
temendo che Guy le colpisse l’occhio con il naso o che si sarebbero di
nuovo scontrati con le teste. Si nascose dietro a Juliet, nella speranza
di cavarsela rivolgendogli un semplice cenno con la mano.
«Guy, hai salutato Floz?». Perry Miller spinse il figlio in avanti.
“Cielo”, pensò Guy.
“Cielo”, pensò Floz.
Floz alzò la testa in attesa della commozione cerebrale che
sarebbe seguita. Guy chinò il capo, in attesa che il suo corpo facesse
qualcosa di inaspettato e la ferisse mortalmente. Guy fece del suo
meglio per darle un bacio sulla guancia, Floz fece del suo meglio per
offrirgli la propria guancia. Guy si mosse troppo presto, Floz si
mosse troppo tardi e come risultato le labbra di Guy atterrarono con
una precisione perfetta su quelle di lei.
Il bacio sembrò allo stesso tempo fugace ed eterno. Guy notò
come fossero morbide le labbra di lei e, ancora una volta, avvertì una
lieve fragranza di fragole sulla sua pelle. Floz notò come fossero forti
le labbra di lui, avvertì un aroma di caffè e whisky provenire dal suo
alito e, mentre si scostava, colse un accenno della fragranza del suo
dopobarba: un profumo di cedro e aria fresca. Aveva l’odore di una
passeggiata autunnale in un bosco dopo la pioggia.
Per una frazione di secondo ci furono solamente loro due nella
stanza e non pensarono ad altro che non fosse la sensazione delle
labbra sulle labbra. Nessun Nick, nessuna Lacey, nessun passato,
nessun futuro, esisteva soltanto quel momento.
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Entrambi avrebbero segretamente rivissuto nelle loro menti quel
bacio; anche Floz ripercorse spesso quegli istanti, così come Guy,
nonostante una parte di lei non facesse che protestare e ricordarle
che quel ragazzo era proprio un tipo da evitare.
Capitolo quaranta
«Sono preoccupata per Floz», disse Juliet quella stessa sera. Era
accoccolata con Steve sul divano, e la sua coinquilina aveva deciso
per l’ennesima volta di ritirarsi presto in camera sua.
«Hai mai pensato che potrebbe essere stanca ed è per questo che
decide di andare a dormire presto?», disse Steve, intanto che
giocherellava con una ciocca dei capelli neri di Juliet.
«Be’, ha un pessimo aspetto per essere una che va spesso a letto
così presto. I suoi occhi mi dicono che non dorme bene. Inoltre hai
ragione: ha perso peso».
E non era tutto. Juliet non lo disse ad alta voce, perché le sarebbe
sembrato di fare del volgare pettegolezzo se gli avesse riferito che la
sera Floz non la aspettava più per bere il suo primo bicchiere di vino.
Di solito, quando Juliet rientrava, ne aveva già bevuto uno, o
forse due.
«Le hai chiesto se c’è qualcosa che non va?»
«Certo che sì. Ha detto che non c’è nulla che non va, ma è evidente che non è così».
«È semplicemente molto più riservata di te», disse Steve, mentre
prendeva un cioccolatino per metterlo tra le labbra di Juliet, perché
sapeva che quello era il suo gusto preferito. «Non tutti hanno voglia
di parlare quando c’è qualcosa che non va».
«C’è qualcosa che non va, lo so e andrò in fondo alla faccenda»,
disse Juliet. «In un modo o nell’altro. Comunque, facciamo sesso
questa sera?»
«Se ti va», disse Steve.
«Be’, trattieni il tuo entusiamo», disse Juliet in tono seccato, allontanandosi da lui; tuttavia, il braccio di Steve era avvolto intorno a
quello di lei e lui la riattirò a sé.
«Mi piacerebbe tanto fare sesso con te. Ma sono altrettanto felice
di restare qui disteso così», precisò.
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«Bene, allora è deciso. Staremo qui distesi per un po’ e poi faremo
sesso. Così saremo entrambi felici».
Fare sesso quella sera fu un bonus insperato, perché a Juliet quel
giorno non era venuto il ciclo, che di solito era puntuale come un
orologio. Non era preoccupata… si trattava soltanto di un giorno. Per
il momento.
Capitolo quarantuno
Steve girò intorno alla Mercedes sportiva a due posti nuova di
zecca. Era riuscito a malapena a reprimere i mormorii compiaciuti
che aveva sulla punta della lingua, mentre il venditore gli mostrava
tutti gli accessori e gli optional, consapevole di avere l’affare a portata di mano. Era il genere di macchina che avrebbe attratto Chianti
Parkin come una calamita sessuale. Eppure, per qualche inspiegabile
ragione, Steve non stava affatto pensando a lei mentre ne studiava le
caratteristiche. Stava pensando a Juliet, seduta sul sedile del passeggero, con i capelli che fluttuavano dietro di lei, mentre sfrecciavano
lungo una strada costiera sotto il sole.
«Avrà bisogno di un finanziamento?», chiese il venditore.
«No», rispose Steve. «Pagherò con la carta di credito». Era tanto
tempo che Steve risparmiava per quel momento: saettare fuori di lì
con una macchina da gradasso che poteva definire sua. Però, il venditore era troppo sfacciatamente sicuro di aver concluso l’affare, per
cui Steve aggiunse in modo disinvolto: «Ovviamente, sempre se decido di prenderla».
«E perché non dovrebbe acquistarla?», rise il signor Venditore
Sbruffone.
«Be’, sto valutando anche una Porsche e una Jaguar su cui ho già
fatto dei giri di prova, ecco perché», mentì Steve in modo
convincente.
«Nulla regge il confronto con questo gioiellino», disse il signor
Sbruffone.
«Oh, non sono d’accordo», disse Steve. «Il giro in Jaguar, le assicuro, è stato molto confortevole. Quell’auto filava liscia come la
seta. E in curva rimaneva incollata alla strada».
«Be’, ma lei non conosce davvero bene le macchine di questa
categoria…».
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«E invece sì», lo interruppe Steve. «Riparo e potenzio automobili
da quando ho undici anni». Un fatto che corrispondeva sostanzialmente alla verità. Molto spesso il sabato lavorava per un uomo
severissimo che possedeva un’officina nel suo quartiere. Non menzionò il fatto che molte delle macchine lussuose che entravano da
quella saracinesca erano sfasciate e venivano riverniciate e smerciate
nel cuore della notte, oppure truccate per i furti.
Il sorriso viscido del giovane venditore svanì mentre iniziava a
rendersi conto che avrebbe potuto non essere all’altezza della
situazione se avessero cominciato a scambiarsi pareri sulle specifiche
delle macchine.
«Forse gradirebbe fare un giro con l’automobile?», disse. «Altrimenti, può disporre di una nostra offerta che le permette di noleggiare un modello simile a un prezzo veramente vantaggioso fino a
una settimana, così da poter apprezzare l’effetto che una macchina di
questo calibro avrà sulla sua vita».
«Magnifico. Mi farò sentire», disse Steve stringendogli la mano,
per fargli capire che per il momento aveva intenzione di andarsene.
Uscì impettito dal salone di esposizione e ritornò alla sua automobile, che aveva parcheggiato davanti a un palazzo abbandonato lì
accanto. Affisso al muro c’era un enorme annuncio svolazzante che
diceva: IN VENDITA. Fu così che si ricordò di ciò che doveva dire a
Guy e gli telefonò immediatamente.
Capitolo quarantadue
Juliet stava fissando il vuoto con uno sguardo confuso stampato
in volto. In quel momento, le stavano passando per la testa molti
pensieri che non gradiva. In primo luogo: stava seriamente
pensando di cucinare la cena per Steve quella sera. Ciò avrebbe fatto
sconfinare la loro storia di “solo sesso” nel pericoloso territorio delle
relazioni. Non poteva avere un rapporto serio con Steve: era un deficiente. Per quasi trent’anni era stata convinta che fosse un deficiente. Ciononostante, non faceva che pensare a quando era a letto
con lui, quanto in quelle occasioni fosse tenero con lei, nonché altruista, e fu costretta ad ammettere che quell’uomo non aveva tutti i
torti quando sosteneva di essere un dono divino per le donne. Con
nessun altro amante aveva raggiunto degli orgasmi così intensi tanto
in fretta, nemmeno con Roger.
In secondo luogo, si stava trasformando in Coco, poiché controllava in continuazione il suo telefono per vedere se le fossero arrivati
dei messaggi da Steve e, quando scopriva che non ce n’erano, si accertava che il cellulare funzionasse correttamente. Quando lui le
mandava un messaggio o la chiamava, lei si ravvivava come un
gambo di sedano in un recipiente d’acqua. Inoltre, Steve Feast era
diventato il tasto numero uno della sua selezione rapida. Si sentiva
lievemente vulnerabile. Tra tutti gli uomini sulla piazza, il suo cuore
aveva deciso di aprirsi a Steve Feast – e quando ciò succedeva, c’era
sempre il rischio di restare ferita.
E in terzo luogo, che diamine di fine aveva fatto il suo dannatissimo ciclo? Non poteva essere incinta, perché avevano usato il preservativo. Solo la prima volta si erano lasciati trasportare dall passione e avevano iniziato a fare sesso non protetto, prima che Steve si
fermasse e uscisse da lei, comportandosi da persona assennata e infilandosi un Durex. Sapeva che era altamente improbabile che non le
fosse venuto il ciclo perché era incinta, tuttavia voleva comunque
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avere una prova tangibile al riguardo, in modo da poter “depennare
tale pensiero dalla lista delle preoccupazioni”.
Era talmente assorta nelle sue riflessioni da non accorgersi nemmeno che Piers Winstanley-Black aveva fatto capolino nell’ufficio ed
era in attesa che lei si esibisse nelle sue abituali moine. Quando
Juliet non lo fece, lui ne fu piuttosto offeso e – come è proprio della
natura ostinata degli uomini – il suo interesse nei confronti di quella
creatura prosperosa, che improvvisamente si mostrava indifferente
al suo fascino, aumentò in maniera considerevole.
Capitolo quarantatré
La macchina si arrestò a fianco alla casa con uno stridio di
gomme. Pochi secondi dopo aver ricevuto la telefonata da Steve, Guy
si era preparato e vestito, e si era diretto a Hallow’s Cottage, che si
trovava piuttosto distante dalla strada che andava da Maltstone a
Higher Hoppleton, cercando di non schiacciare troppo il piede
sull’acceleratore. Stava quasi tremando mentre si arrestava bruscamente in prossimità del cartello che diceva IN VENDITA. A quanto
pareva, l’agenzia immobiliare Stanby’s Estate Agency cercava di
vendere il cottage. Stava componendo il loro numero al telefono,
quando notò che la porta d’ingresso della casa di campagna era
aperta e scorse un uomo pelato e alquanto grassoccio con occhiali
spessi portare fuori un sacco nero dell’immondizia.
Guy balzò fuori dalla macchina e gli urlò: «Mi scusi, vive qui? Mi
può dare alcuni dettagli a proposito della casa, se non le dispiace?».
L’uomo fece un salto, si riprese e poi disse: «Le faccio fare il giro
del cottage, se vuole, dal momento che sono qui. Però farebbe meglio
ad avanzare lungo il vialetto con la macchina».
«Grazie, fantastico», urlò Guy voltandosi appena, mentre si affrettava a tornare all’automobile. Parcheggiò e ridiscese. «Mi scuso
per essere venuto qui senza preavviso, ma ho scoperto solo questa
mattina che la casa è in vendita».
«Non è da molto che è sul mercato», disse l’uomo, tendendo la
mano e presentandosi. «Sono Grant Taylor, il nipote della proprietaria. Be’, della defunta proprietaria. Mia zia è morta a luglio, e noi
ora viviamo nel Norfolk; il viaggio è abbastanza lungo e la proprietà
è un po’ trascurata, come può vedere». Fece un gesto per indicare il
giardino. «Comunque, entri pure. Scusi, non posso offrirle una tazza
di tè, perché ho fatto staccare l’elettricità fino a che non la
venderemo».
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«Oh, non si preoccupi», disse Guy, mentre lo seguiva dentro.
«Sono davvero felice di averla incontrata. Stavo per fissare un appuntamento con l’agente immobiliare per fare una visita quando l’ho
vista. Sono venuto qui con mia nonna una volta, quando ero un
ragazzino e ho pensato che questo cottage fosse bellissimo».
Si rimproverò per aver dimostrato troppo entusiasmo, ma non
era riuscito a trattenersi.
«Ora non è più così bello», disse Grant. «Non viene ristrutturato
da almeno trent’anni. È come fare un salto indietro nel passato. Tra
l’altro, è un periodo pessimo per vendere una casa, figuriamoci una
come questa. Si senta libero di curiosare in giro».
«Non mi vuole accompagnare?»
«No, se la caverà da solo. Non c’è nulla da sgraffignare, ragazzo»,
rise Grant.
Guy iniziò dalla stanza in cui si trovava. Aveva un soffitto incredibilmente alto per essere un edificio così vecchio, ed era inoltre ben
illuminata. Era una grande stanza quadrata, Guy se la immaginò con
dei nuovi infissi e un grande fuoco che ardeva in un ampio camino
ricavato scavando una nicchia nella parete. Poi, andò in cucina e immaginò luccicanti ripiani da lavoro e un’isola al centro; c’era anche
Floz, visibilmente incinta, seduta a un tavolo da pranzo in legno, intenta a scrivere al suo portatile. Si immaginò di chinarsi su di lei per
baciarla sulle labbra, come aveva fatto a casa dei suoi genitori, anche
se non intenzionalmente. Riusciva ad avvertire l’odore di fragole
nell’aria.
C’era un guardaroba, che lui vide pieno di scarpine per bambini e
di eleganti scarpe da donna con il tacco a spillo. La camera accanto
poteva essere una specie di stanza di servizio, che avrebbe svolto la
funzione di ufficio o stanza dei giochi, dove lui e i bambini avrebbero
cercato di battersi a vicenda giocando a tennis con la Wii.
Salite le scale, c’era un bagno spazioso con due finestre, ma invece
di notare l’orribile mobilio verde, Guy vide se stesso insieme a Floz,
entrambi intenti a insaponarsi a vicenda nella doccia. E nella più
grande delle tre camere da letto, si visualizzò mentre si rotolava su
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un ampio letto a baldacchino, intrappolando Floz tra le lenzuola.
Dovette sistemarsi per bene i pantaloni prima di tornare al piano di
sotto.
Il cottage aveva intorno terreno a sufficienza per ampliarlo se ce
ne fosse stato bisogno, oltre a un vecchio garage pericolante che necessitava di essere demolito e ricostruito, e quella che sembrava un
stalla, abbastanza grande per due cavalli. In breve, c’era molto lavoro
da fare per rendere Hallow’s Cottage parzialmente presentabile.
Sarebbe costato abbastanza – ma accidenti, ne sarebbe valsa la pena.
Immagini dai colori vivaci stavano danzando vivide nella mente di
Guy.
«A quanto la vende?», chiese.
«L’agente immobiliare ha detto che vale 200.000 sterline», disse
Grant. Il cuore di Guy sprofondò. «Ma un po’ per il periodo in cui ci
troviamo, un po’ per tutto il lavoro che c’è da sbrigare, ho deciso di
scendere a 160.000, sterlina più sterlina meno. Voglio vendere in
fretta. È interessato?».
Il respiro di Guy si fece corto e veloce. «Sì, sono molto interessato», disse. Il buonsenso gli diceva che avrebbe fatto meglio a
stare zitto. Se avesse comprato il ristorante non avrebbe avuto i soldi
né tanto meno il tempo di fare tutti i lavori necessari. Ma il cuore di
Guy Miller stava martellando per l’entusiasmo e non avrebbe dato
credito a nessuna di quelle voci interiori che cercavano di farlo ragionare in maniera sensata. Era sempre stato troppo pacato e agiva
con prudenza da ormai troppo tempo. Inoltre, gli uomini pavidi non
conquistavano certo le affascinanti donzelle.
Capitolo quarantaquattro
Nella toilette del personale, Juliet fece pipì sopra alla bacchetta
del test di gravidanza e attese. Non poteva essere incinta. Steve era
rimasto dentro di lei per alcuni secondi soltanto. E se invece lo era?
Mentre aspettava pensò a che cosa avrebbe significato se il test
fosse risultato positivo. Si sentiva come se fosse ritornata all’Orchards Hotel, al cospetto di quel pazzo antiabortista. «Che cosa
faresti?». «Onestamente non lo so!». «Non lo sai? Non sai se uccideresti o meno il sangue del tuo sangue?». Ebbene, ora che si
trovava faccia a faccia con la concreta possibilità di essere incinta,
sapeva che mai e poi mai avrebbe scelto di abortire. Tuttavia, era
una circostanza folle. Lei, Juliet Miller, incinta? Non aveva mai preso
seriamente in considerazione l’idea di avere dei bambini.
Roger aveva gli stessi istinti paterni di Erode e Juliet apprezzava
fin troppo la propria indipendenza e la propria libertà per volere tra i
piedi dei marmocchi.
Aveva il vago sospetto che se avesse detto a Steve che era incinta,
lui ne sarebbe stato pateticamente felice. Lui stesso era un
bambinone.
Riusciva benissimo a immaginarselo sfrecciare per la stanza insieme al figlio, mentre giocavano a Superman e gli insegnava le
mosse del wrestling.
Per la prima volta, Juliet immaginò di essere nuovamente
sposata, di avere un marito e di osservare sua madre e suo padre che
emettevano dei versetti vezzosi da sopra la culla di un neonato. Lei
reggeva un maschietto sul fianco, oppure stringeva la mano di una
femminuccia.
E poi si proiettò avanti negli anni, fino a vedere l’adolescente
foruncoloso che avrebbe spezzato il cuore di sua figlia.
L’orologio di Juliet suonò: il tempo di attesa prestabilito era terminato. Abbassò lo sguardo verso il bastoncino. Era negativo.
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Pensava che sarebbe stata molto più sollevata di quanto in realtà non
si sentisse.
Capitolo quarantacinque
Cherrylips,
stamattina sento meno l’effetto dei farmaci e sono meno balbuziente.dimmi
che stai bene, che la vita è bella e che il futuro riserva promesse e avventure,che hai
delle speranze e dei sogni, che il sole che sorge ti porta gioia e che il suono delle
risate ti riscalda. questo è ciò che vorrei sentirti dire.che quando pensi alle cose
positive della tua vita ti accorgi che superano in numero tutto il resto, che i tuoi
cari illuminano la tua vita.le cose importanti che rendono l’esistenza piacevole ed
eterna.che la tua vita è un regalo per te e che il tuo futuro lungo e felice è una speranza per me.
Nick
Floz ricevette un’e-mail dopo tredici giorni di silenzio e il suo livello di gioia si impennò come il disco nel gioco del martello dopo che
André il Gigante (il compianto lottatore di wrestling francese) aveva
colpito la leva.
Aveva cercato con tutte le sue forze di non apparire depressa
quando era in compagnia di Juliet, specialmente dopo che la sua
nuova amica le aveva chiesto apertamente se era contrariata perché
Steve passava spesso la notte da loro.
«Sei così giù di morale negli ultimi tempi, ci siamo chiesti se fosse
questa la ragione», le aveva detto.
«Oh no, per piacere non pensatelo neanche», disse Floz, turbata
dall’idea che la vedessero come una musona. L’ultima cosa che voleva fare era smorzare l’entusiasmo nella relazione tra Juliet e Steve.
«Che cosa mi dici della tua vecchia fiamma, Floz?», osò domandare Juliet. «Siete ancora in contatto?»
«Sì, lo siamo», rispose Floz in modo pacato, con un sorriso
amorevole, riportando però con fermezza la conversazione su Juliet.
Era evidente che non fosse disposta a rispondere ad altre domande
su di lui. «Sono contenta che tu e Steve facciate “coppia”. Quel
ragazzo è così gentile».
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«Non siamo una coppia». Juliet mise le cose in chiaro. «Si tratta
solo di sesso. Niente di più».
«Va bene, ti credo», sorrise Floz. «Ma di qualsiasi cosa si tratti,
sembrate entrambi felici e io sono contenta per voi. Ovviamente non
mi dà fastidio che lui passi le notti qui».
Ed era la verità, non le dispiaceva. Desiderava poter avere quello
che avevano loro. Tornare a scrivere a Nick aveva spalancato un portone nel suo cuore e desiderava ardentemente sentire le braccia di
un uomo intorno a sé – nello stesso modo in cui Steve cingeva Juliet.
Steve la guardava con gli occhi sgranati, tanto che Floz si meravigliava che quelle pupille così dilatate non esplodessero. E aveva un
sorriso sdolcinato stampato in viso. E per quanto entrambi protestassero che non si trattava di una storia stabile, era abbastanza ovvio
che nessuno dei due frequentasse l’altro solamente “per il sesso”.
Mentre Floz rileggeva l’e-mail di Nick, quell’iniziale vampata di
gioia si frantumò per terra. Nulla era cambiato, lui stava ancora
morendo. Si sentiva come se un’enorme piaga che aveva dentro fosse
stata punzecchiata fino ad aprirsi e sanguinare. Non voleva che lui
soffrisse, voleva che fosse sereno, ma non voleva che morisse. Nulla
di tutto ciò aveva senso. Nemmeno il fatto che il più grande amore
della sua vita fosse un uomo che non aveva mai incontrato. Era
sempre stata una donna assennata e pratica, eppure era così che
erano andate le cose. E quando la malattia gli avrebbe fatto esalare
l’ultimo respiro, lei si sarebbe forse sentita infedele se in futuro si
fosse avvicinata a un altro uomo? Nick l’avrebbe forse osservata dal
cielo e si sarebbe sentito ferito per il fatto che il suo cuore aveva
voltato pagina? Bramava di avere qualcuno di reale, che fosse lì con
lei e che la toccasse, la baciasse, l’amasse. Si sentiva scavata dentro,
svuotata come una zucca di Halloween.
Capitolo quarantasei
Durante la domenica notte successiva, dopo un infernale turno al
Burgerov, Guy si era seduto al piccolo tavolo del suo appartamento
con un blocchetto, una penna e una calcolatrice. In qualsiasi modo
facesse i conti, non sarebbe mai stato in grado di permettersi Hallow’s Cottage. Doveva scegliere tra il ristorante e la casa in campagna: gli serviva il ristorante e voleva la casa. In realtà non sussisteva alcuna gara o competizione, ma la sua testa e il suo cuore si
facevano guerra a vicenda.
Floz Cherrydale aveva risvegliato un drago dentro di lui, che non
vedeva l’ora di togliersi di dosso la polvere che gli era caduta addosso
negli ultimi anni e sfidare il mondo, fare colpo su di lei e conquistarla, a dispetto della vecchia fiamma di cui Juliet gli aveva parlato. Si sentiva pieno di fuoco e di passione nei confronti della vita.
C’erano soltanto alcuni ostacoli da superare, come trovare all’incirca
duecentomila sterline e convincere la donna dei suoi sogni a non detestarlo e ad abbandonare il piano di ritornare insieme all’uomo misterioso, chiunque fosse costui.
Floz si svegliò nel cuore della notte, dopo aver sognato che Nick
era disteso accanto a lei. Era stato un sogno così vivido e convincente
che era riuscita a percepire la mano di lui sulla coscia, l’odore della
sua pelle, che sapeva di una camminata autunnale dopo la pioggia.
Era il profumo di Guy. Non aveva idea di quale odore avrebbe avuto
Nick, forse sale e pino; in ogni caso, non l’avrebbe mai saputo, non
gli avrebbe mai sfiorato il viso con le dita. Le lacrime iniziarono a
rigarle le guance quando si rese conto che si trovava da sola nel suo
letto e che l’unica fragranza sul cuscino era la propria.
Si alzò per prendere dei fazzoletti. Era veramente stanca, ma
aveva perso la capacità di dormire un sonno che fosse profondo e
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rigenerante. Si diresse con passo felpato verso la cucina, si preparò
un caffè decaffeinato e lo allungò con un bel po’ di brandy. Dopodiché, quando ebbe finito, se ne preparò un altro.
Capitolo quarantasette
«Come va la relazione di solo sesso?», chiese Coco quando il mattino successivo, come prima cosa, chiamò Juliet.
«Bene», disse Juliet tirando su col naso con fare diffidente. «Ci
stiamo divertendo moltissimo, nulla di più». Non menzionò il fatto
che, a volte, Steve restava a dormire da lei senza che in realtà facessero sesso, e che stavano semplicemente accoccolati nel letto a
sbaciucchiarsi e parlare. «Come sta Gideon? Ti sta tenendo lontano
da me. Mi sono dimenticata che aspetto hai. Sei grasso e biondo con
un piercing alle labbra?»
«Va bene, mi arrendo. In ogni caso, ultimamente tu sei sempre
insieme a Steve, signorina, quindi ti bastino cinque parole: fatti un
esame di coscienza. Ora, ritorniamo a Gideon: è favoloso». Coco
sospirò come fosse Judy Garland che si preparava a cantare Somewhere over the rainbow. «Mi piace sul serio, Ju. E anch’io credo di
piacergli davvero. Almeno così ha detto. Ma sappiamo tutti che le
parole sono vane».
«Non tutti gli uomini sono fatti della stessa pasta», specificò
Juliet. «Gideon potrebbe proprio essere la persona che non ti
deluderà».
«Spero sia così», commentò Coco, sorridendo. «Il sesso è perfetto».
«Risparmiami i dettagli scabrosi», ribatté in fretta Juliet.
«Lo farò se anche tu lo farai». Coco rabbrividì al pensiero di un
uomo e una donna che facevano sesso. «E come sta l’adorabile
Floz?»
«Mmm, l’adorabile Floz. Questo sì che è un mistero».
«Oooh», disse Coco, amante dei pettegolezzi. «Che cosa intendi?»
«È tremendamente silenziosa in questo periodo e so che non
dorme bene la notte, perché l’ho sentita alzarsi nelle ore più stupide
per prepararsi da bere. In tutta onestà, sembra malata».
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«Le hai chiesto qual è il problema?»
«Certo che sì, e ha detto che non c’è nulla che non va».
«Che cosa mi dici della misteriosa vecchia fiamma?»
«Be’», Juliet si accertò che nessuno stesse origliando, «quando le
ho chiesto di lui ha cambiato argomento».
Attraverso la finestra, Juliet scorse Piers che usciva dalla sua
grande BMW nera. L’automobile meno elegante della sua piccola
flotta. «Sai che cosa penso? Che non si tratti di una vecchia fiamma,
ma che sta parlando con qualcuno su internet. Ciò spiegherebbe perché va a letto così presto. O meglio, perché si ritira presto in camera
sua. Inoltre credo che scriva a questo uomo misterioso per così tante
ore che la mattina dopo è sfinita». Era l’unica soluzione possibile.
Juliet era incredibilmente orgogliosa di se stessa per aver capito
tutto.
«Non ha senso», disse Coco, tirando su col naso. «È stata lei a
sostenere che avresti dovuto tramutare il prima possibile una
relazione virtuale in una reale. Quindi, perché non esce mai per incontrarsi con lui? E ciò non spiega perché sia così visibilmente depressa, o sbaglio?»
«Mmm», rifletté Juliet. Be’, quelle obiezioni mandavano all’aria
la sua teoria. Poi, osservò improvvisamente la faccenda da una diversa angolatura. «Hai ragione. Senti qua. Floz era irremovibile e
non voleva iscriversi a singlebods.com con noi, ma sembrava che
sapesse un sacco di cose a proposito degli appuntamenti online.
Forse si imbarazza un po’ ad ammettere che si è iscritta a un sito del
genere, dopo averne parlato con noi in maniera tanto critica. Forse
sta facendo tutto quello che a noi ha detto di non fare, d’altronde
tutti sappiamo quanto sia difficile seguire i nostri stessi consigli».
«Forse», concordò Coco. «E probabilmente è giù perché si sente
un po’ sola, vedendo te e Steve che ci date dentro, e Gideon e me andare così d’accordo dopo esserci conosciuti su internet; a tal punto
che sta provando a vedere come procede con il tipo ma preferisce
tenere tutto segreto. Oh, mi auguro che abbia trovato qualcuno di
gentile».
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«Oh cielo, no. Spero di non farla sentire esclusa. Le ho chiesto se
fosse così e lei ha detto di no. E se non mi stesse dicendo la verità per
non ferire i miei sentimenti? Devo scoprire che cosa le sta succedendo, Coco. Che cosa faccio?»
«Devo andare, Ju. Ci penserò su e ti farò sapere. È appena arrivato l’agente di commercio. È molto bello».
«Ehi, occhi bassi! Sei impegnato».
«Lo so», ridacchiò Coco. «Ciao, tesoro».
Juliet chiuse la telefonata e rifletté sugli enigmi che in quei giorni
le tenevano la mente occupata. Prima di tutto, c’era sempre lo stesso
mistero: che diamine di fine aveva fatto il suo ciclo?
Capitolo quarantotto
CL
Oggi sono tornato a casa.l’assistenza domiciliare mi spaventa, sono stato seduto al mattino.dormivo mentre perdevo copiosamente il sangue dal naso e lei è
andata nel panico quando è venuta a svegliarmi.ho un naso che sembra una torcia
e un litro di globuli rossi come ricompensa.odio gli ospedali.avevo detto loro che
sarei andato a casa ma ho dovuto aspettare fino a oggi per andarmene.
N
Floz lesse l’e-mail e tornò a immaginarsi l’omone, raccoglitore e
cacciatore, delle sue foto, ridotto a dover subire tutte quelle umiliazioni mentre si aggrappava alle ultime briciole di dignità e indipendenza che a ogni ora scivolavano sempre più via da lui. Non riusciva nemmeno a scrivere i loro nomi per intero nel-l’e-mail.
Si alzò dalla sedia e si allungò per prendere i fazzoletti sul
davanzale.
Fuori, dei bambini con dei cestini in mano camminavano in fila
indiana all’uscita da scuola, a due a due, serpeggiando lungo la
strada. Doveva esserci la festa del raccolto, pensò Floz, e probabilmente erano diretti alla chiesa con i loro doni di generi alimentari e
frutta che avevano racimolato per i poveri della zona. Erano tutti imbacuccati per far fronte al vento tagliente che stava strappando le
foglie rimaste sugli alberi, facendole turbinare in mulinelli contro i
muri delle case.
«Castagne, sto raccogliendo castagne, mi sto impegnando per
trovare le più grandi e belle», canticchiavano.
Il fatto di vederli fece nascere nel cuore di Floz una leggerezza di
cui aveva un disperato bisogno.
Poi Lee Status (grazie al cielo) le telefonò e la ricondusse completamente al tempo presente quando le chiese se sarebbe riuscita a
scrivergli, entro la fine della giornata, dieci battute a proposito delle
tette.
Capitolo quarantanove
Piers Winstanley-Black studiò Juliet mentre lei era intenta a cercare un documento nell’armadietto. Lavorava per lui da oltre quattro
anni, ma solo di recente l’aveva davvero notata. Piers non avrebbe
detto che Juliet corrispondesse fisicamente al suo solito modello di
donna, ovvero una ragazza magra come un chiodo, bionda e con tette
enormi. In genere la personalità si trovava molto in basso nella sua
lista delle priorità. Si stava annoiando a morte a frequentare sempre
ragazze di quel tipo però.
C’era poco brivido nella conquista: davano uno sguardo al suo
Rolex o a una delle sue lussuose macchine e calavano all’istante le
loro mutandine. E ogni forma di orgoglio concessagli da quei bellissimi trofei che scortava nei ristoranti aveva una vita altrettanto
breve. Uscire a cena con una donna che pensava che Puccini fosse il
nome di un cocktail da aperitivo non era più neanche molto
divertente.
Non riusciva a capire perché non avesse considerato prima Juliet
come potenziale compagna. Aveva il pacchetto completo: un corpo
come quello della Dea Madre, un seno favoloso e delle gambe lunghe
e armoniose, capelli neri folti e lucenti, labbra rosse e carnose e scintillanti occhi grigio ardesia. Si vestiva in modo magnifico, trasudava
sicurezza sessuale e aveva un sorriso sfrontato, con quella sua fessura tra i denti davanti. Era inoltre brillante, intelligente e professionale. E, ultimamente, gli rivolgeva degli sguardi disinteressati che
gli facevano venire voglia di conquistarla per tornare a vedere
quell’adorazione che le aveva letto negli occhi fin da quando le si era
presentato come il suo nuovo capo.
Erano in ufficio da soli. Lui aveva deliberatamente atteso che
Daphne e Amanda fossero a pranzo prima di andare nell’ufficio di lei
con il pretesto di cercare un documento che sapeva trovarsi sulla sua
scrivania, al piano di sopra.
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«Ehm, Juliet?», la chiamò. Lei non rispose, un altro atteggiamento che lo fece lievemente eccitare. «Juliet!».
«Oh sì, scusa, Piers», gli disse, rivolgendogli un sorriso. Era però
un sorriso da dipendente, non quello “solito”, a cui si era abituato.
«Stavo pensando: sei impegnata giovedì sera?»
«Giovedì?». Oh cielo, Juliet sperava che non le avrebbe chiesto di
lavorare fino a tardi. Stava pensando di domandare a Steve se aveva
voglia di andare al cinema per vedere quel nuovo film d’azione di cui
le aveva parlato in modo entusiasta. «Non lo so».
Faceva la difficile. Accidenti. Avrebbe dovuto persuaderla.
«Mi chiedevo se avessi voglia di uscire a cena con me».
Dannazione. Juliet proprio non se l’aspettava. Cena. Con Piers
Winstanley-Black! L’aveva atteso più di quanto la bella addormentata avesse fatto per il suo principe.
«Sarebbe meraviglioso», rispose lei, mantenendo un tono distaccato, calmo e pacato, senza provare il benché minimo desiderio di
correre per la stanza urlando “Sììì” come aveva immaginato avrebbe
fatto se si fosse mai trovata in quella posizione.
«Pensavo che potremmo provare quel nuovo ristorante vicino a
Huddersfield. Il Four Trees».
«Il Four Trees!». Juliet si sforzò di non balbettare in modo troppo
evidente.
Il Four Trees era un ristorante chic e molto costoso, e la lista d’attesa per ottenere un tavolo era lunga di settimane, se non mesi, per
chiunque non conoscesse qualcuno in grado di ungere le maniglie
giuste.
Il capocuoco si era formato presso Raul Cruz, il celebre superchef
spagnolo che faceva assomigliare il migliore sulla piazza al cuoco di
una mensa. «Fantastico».
«Il mio autista ti passerà a prendere, così possiamo bere insieme
un bicchiere di vino», disse Piers. «Credo mi piacerà cenare con te,
Juliet».
«Sì, sarà indubbiamente molto piacevole», disse Juliet, tornando
a focalizzare la sua attenzione sul documento e chiedendosi perché,
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dopo un’iniziale euforia sia fisica che mentale, la prospettiva di un
appuntamento con l’uomo dei suoi sogni non fosse eccitante
neanche la metà di come era sempre stata la lunga attesa.
«Sei sotto shock, è questo il motivo», le disse Coco più tardi al
telefono dell’ufficio. «Non pensavi che sarebbe mai accaduto e la tua
mente non riesce a elaborare il fatto che invece è successo».
«Io, a cena con Piers Winstanley-Black! Juliet Winstanley-Black.
La signora Winstanley-Black».
«E poi sostieni che sono io quello avventato», disse Coco. «A ogni
modo, ascoltami: ti ho telefonato per darti alcune informazioni. Indovina chi mi ha appena mandato un messaggio?»
«Il Papa? Deirdre di Coronation Street, la telenovela? Non lo so…
stupiscimi».
«Darren», disse Coco con gioia.
«Darren? Lo stesso Darren che è svanito nel nulla?»
«Sì!».
«Che cosa ha detto?»
«“Ciao, come stai? Mi sei mancato”».
«Non così tanto da alzare quel cavolo di telefono», sbuffò Juliet.
«Spero tu gli abbia detto di andare a quel paese».
«No», disse Coco con un sorriso ampio e alquanto compiaciuto.
«Gli rendo il trattamento del silenzio e lo ignoro».
«Buon per te», disse Juliet, meravigliata. «Riprendi in mano il
controllo della situazione e non dare spazio a quel bastardo».
«Cosa incredibilmente facile, visto che ormai c’è Gideon nella mia
vita», fece Coco con un sospiro soddisfatto. «Ieri sera mi ha portato
dei cioccolatini e dello champagne, insieme al DVD di Un amore
splendido che abbiamo guardato dall’inizio alla fine. È stata una
serata davvero piacevole. Comunque, parliamo meno di me e più di
te: che cosa indosserai per il tuo grande appuntamento? Qualcosa di
nero e sofisticato? Vuoi che domani venga con te a caccia di un
vestito?»
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«Sì, grazie», lo supplicò Juliet. Cambiò posizione sulla sedia e,
dato che aveva il cellulare nella tasca posteriore dei pantaloni, mise
in pratica il suo abituale scherzetto e chiamò il numero uno della
selezione rapida, cosa che faceva esasperare Coco, il quale arrivava al
punto di obbligarla a togliere il suo numero dal menu di selezione.
Tuttavia, in quel momento era Steve il suo attuale numero uno e
quando il telefono gli vibrò in tasca, Steve rispose e si rese subito
conto che Juliet l’aveva chiamato per sbaglio. Stava parlando con
qualcun altro a un telefono fisso, a giudicare dal fatto che poteva
sentire solo metà della conversazione.
«Lo hai detto a Steve?», chiese Coco.
«Ancora no. In ogni caso, l’accordo era che saremmo stati insieme soltanto finché io non avessi conquistato Piers o lui quella tale
Lambrusco. Ovviamente, glielo dovrò dire prima di uscire con Piers
giovedì».
«Sì», ribatté Coco. «Suppongo che tra voi dovrà finire se tu esci
con il capo».
«In ogni caso non sono mai “uscita” con Steve, si trattava solo di
sesso. Lui lo sa e io lo so», disse Juliet. «Non potrei seriamente
pensare di avere una relazione stabile con uno come Steve Feast, per
l’amor del cielo. È un deficiente».
«Sei un po’ troppo dura», disse Coco. «Ho sempre pensato che
non fosse male nemmeno la metà di come lo dipingevi tu. E poi ricordati quello che ha fatto per tuo fratello quando ha avuto bisogno
di un amico».
Juliet non lo ammise con Coco, ma anche lei sapeva di essere
stata un po’ troppo dura. Si stava affannando a negare e non riusciva
a capirne il vero motivo.
Steve riattaccò il cellulare. Avvertì un dolore acuto al petto che gli
si diffuse per tutto il corpo, fino a che non ne fu sopraffatto. Non
sapeva perché era così a pezzi a causa di quello che aveva appena
sentito. Sapeva che Juliet aveva sempre sostenuto che lui fosse un
deficiente e le regole erano state ben chiare fin dal primo minuto: il
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loro era un accordo di “solo sesso”, e per di più era provvisorio. Non
aveva imparato nulla di nuovo sentendola parlare al telefono.
Forse era giunto il momento di fare un giro di prova su quella
Mercedes e di provarci seriamente con Chianti Parkin, andando
all’attacco armato di tutto il suo fascino e di un’automobile costosa.
Dimenticandosi così, una volta per tutte, di quella stramaledetta
Juliet Miller.
Capitolo cinquanta
Quando Juliet ricevette il brusco messaggio da parte di Steve che
le comunicava che non sarebbe andato da lei quella sera dal momento che era troppo impegnato, cercò di non ammettere con se
stessa di aver avvertito una pugnalata di delusione. Nelle tre settimane che erano seguite al loro accordo di fare “solo sesso”, Juliet lo
aveva visto ogni giorno e aveva dato per scontato che tutto sarebbe
continuato così. Ma ora le sembrava che lui fosse diventato freddo
nei suoi confronti, e ciò le forniva il pretesto necessario per dimenticarsi di lui e concentrarsi sul grande appuntamento. Si chiese perché
Piers Winstanley-Black avesse improvvisamente puntato i riflettori
della sua attenzione su di lei e se fosse perché lei aveva distolto i propri da lui. Una volta che Darren si era reso conto che Coco non lo desiderava più ardentemente era tornato alla riscossa con la coda tra le
gambe. Ci sarebbe stato molto da commentare a proposito del vecchio adagio: «Trattali male e ti correranno dietro». Si trattava solo di
un gioco. Sarebbe stato bello avere una relazione stabile, saltando a
piè pari tutte quelle seghe mentali che le storie amorose si portano
inevitabilmente dietro.
Quel pomeriggio, Piers le aveva perfino portato un caffè, con
somma gioia di Daphne e Amanda, che mimavano baci da dietro la
schiena di lui. Inoltre, quel giorno Piers sembrava bighellonare nei
paraggi del suo ufficio, lasciandosi sfuggire alcuni complimenti adulatori a compensazione di tutti gli anni trascorsi a ignorarla. Juliet ne
era incredibilmente lusingata.
Telefonò a Floz e le chiese se le andava di ordinare del cibo cinese
insieme a Coco, poiché desiderava festeggiare la notizia del suo imminente appuntamento. Alla Grande Muraglia, ti davano quattro
menu al prezzo di dieci sterline, inclusa la consegna. Poi, ci mancò
poco che telefonasse a Steve. Si fermò giusto in tempo, mentre si
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chiedeva che impegni tanto dannatamente importanti avesse per
quella sera.
«Saremo cooosì sazi, visto che dovremo dividerci quattro menu in
tre», disse Coco, mentre si distendeva sul divano di Juliet in pose
che lo facevano assomigliare a un gatto siamese, un gatto che però
indossava dei jeans dal cavallo basso e camicie molto costose.
«No, non lo saremo. Ho invitato Guy per pareggiare i numeri»,
disse Juliet.
«Guy?», le fece eco Floz. “Ottimo”. Si chiese se avrebbe provato a
salutarla con un bacio e, in caso affermativo, su quale punto del suo
viso sarebbero atterrate le sue labbra. Poi si chiese perché si stesse
ponendo quelle domande e cercò di scacciare simili pensieri dalla
propria mente.
«Brindiamo al mio appuntamento con il bellissimo Piers
Winstanley-Black», annunciò Juliet, proponendo un brindisi per se
stessa mentre alzava un calice di vino bianco Zinfandel.
«Lo hai già detto a Steve?», chiese Floz.
«No», rispose Juliet, senza riuscire a celare l’irritazione nella
voce. «Avevo intenzione di dirglielo questa sera, ma mi ha mandato
un messaggio per dirmi che è impegnato».
Steve aveva parcheggiato fuori dalla palestra di Little Derek con la
Mercedes sportiva più o meno nuova che gli avevano noleggiato per
una settimana a un prezzo ribassato, così da invogliarlo all’acquisto.
Sentiva l’esigenza di scacciare i pensieri di Juliet e Piers Angus-Black
dalla sua mente allenandosi con dei pesi spropositati. Tuttavia, non
servì a granché, in quanto loro erano ancora lì nei suoi pensieri e si
stavano scambiando dei sorrisi, seduti al tavolo di un raffinato
ristorante.
In ogni caso, il destino doveva essere evidentemente dalla sua
parte, perché mentre faceva scattare la serratura della portiera, la
piccola ed elegante Spitfire di Chianti girò l’angolo e parcheggiò
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dietro al suo paraurti. Attraverso il parabrezza, Steve vide le labbra
di lei formare un «Caspita». Accidenti, un tempismo veramente
perfetto.
«Ciao, Chianti», disse Steve, intanto che osservava le gambe
lunghe e longilinee di lei che si distendevano per uscire dalla macchina. «Come stai?»
«Ciao, Steve», disse Chianti. Finalmente, pronunciò il suo nome
con una traccia di interesse. «Questa è la tua nuova macchina?»
«Oh, sì», disse Steve, esibendo la stessa indifferenza che si era
spesso esercitato a praticare davanti allo specchio nell’eventualità
che quel giorno arrivasse. «L’ho appena ritirata».
Chianti osservò Steve, cercando di contestualizzarlo. Era bello e
aveva un corpo fantastico, lo aveva sempre pensato, ma non lo
faceva abbastanza ricco da permettersi una macchina del genere.
All’improvviso, Steve Feast era diventato interessante. E al momento
non c’era nessun altro all’orizzonte.
«È comoda?», chiese, per poi toccare il cofano con le lunghe dita
curate.
«Molto», disse Steve.
«Quindi, dove mi porti questo venerdì?», chiese Chianti, mentre
scuoteva con fare provocante i lunghi capelli biondi e si mordeva il
labbro.
«Dove ti porto v… venerdì?». “Cribbio”, pensò Steve. Era stato
più facile di quanto si fosse immaginato. «Ehm. Che ne dici di provare la cucina tailandese del Sole al Tramonto? È un posto carino».
«Va bene. Ci vediamo qui alle sette».
«Sì, nessun problema», disse Steve, con un’apparente freddezza
che celava il caos che si era impossessato della sua mente. Cielo!
«Vieni in palestra?», chiese Chianti.
«Ci sono appena stato», disse Steve. «Per oggi ho già fatto la mia
razione di pesi». Poi contrasse il massiccio bicipite verso di lei, che
tornò a sgranare gli occhi. Sembrava che avesse visto Steve per la
prima volta. Le pupille nere di Chianti si erano dilatate rivelando il
suo apprezzamento. «Allora ci vediamo venerdì».
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«Ciao, Steve», sorrise Chianti, mentre sbatteva le lunghe ciglia
finte come fossero le ali di un pipistrello. Dopodiché, entrò in
palestra con fare pomposo, e quando la porta si chiuse dietro di lei
Steve strinse i pugni in segno di vittoria. La prospettiva di Chianti
Parkin nella sua macchina e al suo braccio gli avrebbe fatto dimenticare Juliet in un batter d’occhio. Le avrebbe telefonato per comunicarle che stava per mettere fine alla loro relazione di “solo sesso”
prima che lei avesse l’opportunità di riferirgli del suo appuntamento
di giovedì con Winstanley-Black. Sperava che la soddisfazione che ne
avrebbe tratto avrebbe alleviato l’intenso e opprimente dolore che
dimorava nel suo petto.
Juliet stava guardando il menu del cinese e si stava chiedendo
perché lo stomaco le stesse brontolando e perché, allo stesso tempo,
avesse una nausea infernale. Perfino il pensiero del manzo croccante
piccante, il suo piatto preferito, non le faceva venire affatto l’acquolina in bocca.
«Probabilmente hai i nervi tesi per giovedì», disse Coco.
«Io non mi innervosisco», precisò Juliet. «Come ben sai». Poi
agitò il vino nel suo bicchiere. Non si sentiva nervosa.
«Perché non hai portato Gideon con te?», chiese Floz. «Non vedo
l’ora di incontrarlo. Sembra affascinante».
«Non esiste», rise Juliet. «È un prodotto dell’immaginazione sessualmente frustrata di Coco».
«Esiste eccome», fu la risposta di Coco. «Lavorerà tutta la notte
nel tentativo di riparare il sistema operativo di un computer in un
ufficio, per non interrompere la loro giornata lavorativa. È un
ragazzo veramente dedito al lavoro. Anche questa è una novità per
me. Di solito finisco con dei furfanti svogliati».
«E tu ci credi che lavorerà per tutta la notte?», lo prese in giro
Juliet.
«Certo che sì, maliziosa!». Coco le diede una pacca sul braccio.
«Sa che in passato sono rimasto scottato, per cui mi telefona spesso
per rassicurarmi. È davvero paziente e premuroso».
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«Credo che questo Gideon mi piacerà soltanto quando, finalmente, lo vedremo», ammiccò Juliet.
«Vedi? Non ci sono solo degli svitati su internet». Coco rivolse
uno sguardo furtivo in direzione di Floz per vedere se avrebbe reagito a quella sua affermazione. Floz non ebbe nessuna reazione. O
invece sì? Il modo in cui teneva gli occhi incollati al menu sottolineava un’assenza di riscontro che poteva essere benissimo interpretata come una reazione.
Il citofono suonò e Floz trasalì. Era Guy, e lei ebbe un fremito di
turbamento. Juliet gli aprì la porta; a giudicare dal tempo che impiegò doveva aver salito gli scalini dieci alla volta. “Chiaramente non
li sta salendo di corsa per me”, pensò Floz.
Indossava un paio di jeans e un’elegante camicia rosa, che gli sottolineava le larghe spalle. Floz desiderò che l’avessero avvertita del
suo arrivo.
Si sentiva trasandata nei suoi comodi fuseaux e nell’ampia
maglietta grigia con delle stupide fragole rosse stampate sopra; ma a
Juliet potevano sorgere dei dubbi se si fosse andata a cambiare. In
confronto alla sua nuova amica, Hercule Poirot era uno sprovveduto
qualunque.
«Ciao, caro», urlò Coco, e poi gli mandò dei baci emettendo un
paio di smack.
«Ciao, Coco. Ciao, Floz». Guy salutò timidamente con la mano.
“Bene”, pensò Floz. Dunque, non l’avrebbe salutata con un bacio. Gli
occhi di lei furono attratti dalla bocca di lui mentre diceva qualcosa a
Juliet. Sembravano soffici come quando lui l’aveva inavvertitamente
baciata, con un accenno di caffè e di whisky nell’alito. “Per l’amor del
cielo, torna in te, Floz”. Era davvero scombussolata. Forse era colpa
di quel sogno in cui Nick e Guy si fondevano in un’unica persona.
Doveva sforzarsi di separarli, e in fretta.
«Mi sa che sto per ammalarmi», disse Juliet con una smorfia,
mentre si asciugava la fronte sudata.
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«Sei stata nei pressi di qualche scuola?», le chiese Coco. «Forse ti
sei presa uno di quei germi che aleggiano costantemente lì nei
paraggi».
«Sì, in effetti mi piace aggirarmi vicino alle scuole, Coco. È
un’abitudine che devo assolutamente perdere».
Coco rifletté per un momento, poi scoppiò a ridere di cuore. «Va
bene, hai vinto tu. Non riesco a immaginarti vicino a nessuna
scuola».
«A proposito di scuole, forse vi verrà da ridere, ma sappiate che
ho fatto un test di gravidanza questa settimana», disse Juliet, provocando notevoli manifestazioni di stupore in Coco, Guy e Floz. Poi
sollevò le mani per contenere le domande ancor prima che arrivassero. «Non preoccupatevi, era negativo, quindi nessuno deve
dire niente a Steve. Però il mio ciclo è in ritardo».
«Menopausa?», suggerì Coco.
«Stronzetto sfacciato!», disse Juliet. «Non sono preoccupata.
Credo mi stia per arrivare perché ho il seno veramente indolenzito».
Floz percepì un rossore insinuarsi sul suo viso. Si sentiva in imbarazzo a parlare di seni e cicli mestruali con Guy nella stanza. Non
che a lui sembrasse importare qualcosa; evidentemente ci era abituato. Un Heathcliff in particolare sintonia con il suo lato femminile?
Molto improbabile.
In ogni caso, Coco non era a suo agio a discutere di quell’argomento. «Oh, per piacere!». Si coprì le orecchie. «Scegli dal menu,
per favore, e ordiniamo. Nonostante sia parecchio affamato, rischi di
disgustarmi con i tuoi ripugnanti discorsi a proposito del ciclo».
«Hai mai saltato un ciclo, Floz?», chiese Juliet, ignorandolo.
Floz deglutì. «Magari è tutta colpa dell’agitazione o dello stress»,
disse, fissando intensamente il menu. «Forse se smetti di pensarci
ti… arriverà».
«Va bene», concordò Juliet. «Ci proverò. Avete tutti un menu?
Bene, allora ordiniamo».
Il cibo arrivò venti minuti dopo, esattamente quando Coco aveva
terminato con il suo monologo su Darren, che gli aveva inviato
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svariati messaggi nella speranza di farsi perdonare e avere un’altra
opportunità. Era una storia tragica, ma Coco la raccontò gesticolando in modo così plateale che tutti scoppiarono a ridere. Inoltre, era
uscito da quel luogo buio in cui Darren l’aveva relegato per un po’ e
adesso era felicemente impegnato con Gideon. Guy era ben contento
di starsene seduto in disparte, lasciando Coco al centro dell’attenzione. In questo modo sarebbe per lo meno riuscito a godere appieno
della gentile presenza di Floz, senza dover aprire la bocca e correre il
pericolo di turbarla. Sapeva che rischiava di essere scambiato per
una persona noiosa per il fatto che se ne stava zitto, ma lo preferiva
all’eventualità di allontanarla ulteriormente.
Juliet non voleva sembrare una guastafeste, per cui si sforzò di
mangiare un po’, ma il suo stomaco non sembrava apprezzare.
«Che cosa avete che non va, ragazze?», osservò Coco. «Sembra
che non abbiate nemmeno toccato quello che avevate nel piatto. Hai
le guance abbastanza scavate, Floz. Sei dimagrita ancora, vero? La
mia cacchio di mano sinistra pesa più di te al momento, ragazza.
Prenditi un po’ di quel riso fritto. È un ordine».
«A dire il vero, sono piena», disse Floz, consapevole di avere attirato anche l’attenzione di Guy.
«Va tutto bene, tesoro?», insistette Coco, nella speranza che Floz
confessasse i suoi segreti dopo un po’ di blanda persua-sione.
«Sto bene, Coco».
«Non è che lavori troppo? Sembri un po’ stanca. Non è vero,
Guy?». E poi guardò Guy per conferma.
Guy aveva paura di commentare, dato che in presenza di Floz
diceva sempre qualcosa di sbagliato. Si limitò quindi ad annuire, il
che fu ugualmente incriminante.
«Oh, davvero?», Floz deglutì. Credeva di aver fatto un buon lavoro con il trucco nel coprire i cerchi neri sotto gli occhi. Evidentemente non era così.
«Ti serve un bel massaggio. È così che mi rilasso io quando sono
stressato», disse Coco.
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«Un tempo Guy ha fatto un corso di massaggi», si intromise
Juliet.
«Un corso intensivo in fisioterapia dello sport», la corresse Guy,
preoccupato della piega che stava per prendere la conversazione.
«Vero, ma i massaggi facevano parte del corso», lo rimbeccò
Juliet. «Perché non…».
«Sto bene!», intervenne Floz. Non riusciva a immaginare le mani
di Guy Miller intorno al suo collo. Era più probabile che l’avrebbe
strangolata piuttosto che massaggiata.
«Dormi bene ultimamente?», continuò Coco.
“Alla faccia di chi voleva sommergerla di lusinghe”, pensò Juliet,
lanciandogli un’occhiata di ammonimento. Coco stava riuscendo a
far sembrare lei subdola.
«Bene», annuì Floz. «Dormo bene». Si sentì avvampare sotto gli
sguardi attenti di tutti.
«Tutta la notte?», chiese Coco.
«Per l’amor del cielo», sbottò Juliet. «Sei stato reclutato
dall’MI5?»
«Sono semplicemente preoccupato per la mia amica», disse Coco.
«Non si tratta di problemi con un uomo, vero? Juliet ha detto che
una vecchia fiamma è tornata di recente nella tua vita».
Juliet diede un calcio a Coco sotto il tavolo.
«Non stavamo spettegolando su di te», aggiunse Coco in fretta.
«Ju me l’ha solamente accennato, perché… be’, lei mi dice tutto».
Le guance di Floz avevano attraversato tutte le gradazioni di rosa
ed erano al momento di un rosso fluorescente. Si alzò talmente in
fretta che per un secondo le sembrò di svenire. «Qualcuno vuole del
caffè?», disse in modo affannato.
«Vuoi che ti dia una mano?», chiese Guy.
«No, grazie», rispose Floz con un tono sincopato e sulla difensiva.
«Credo di riuscire a preparare il bollitore».
«Complimenti, Coco», sussurrò Juliet, quando furono sicuri che
Floz fosse fuori portata d’orecchio. «Ci sei andato giù duro».
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«Ho gestito il tutto in modo sbagliato, vero?», sospirò Coco, intanto che si sventolava una mano davanti al viso. «Mi odierà?»
«Non credo che ne sia capace», disse Guy, con un tono di voce un
po’ troppo alto. Floz lo sentì e si chiese che cosa non fosse capace di
fare. Dormire bene? Mangiare una porzione intera di riso? Trovare
qualcuno che la amasse? Scommise che si trattava di quell’ultima
opzione. Desiderò non aver menzionato affatto la sua “vecchia
fiamma”, perché era ovvio che Juliet avesse fatto la spia in merito.
Era inoltre evidente che ne avevano spettegolato tutti insieme,
chiedendosi che cosa stesse succedendo nella sua vita amorosa, e
magari domandandosi perché non si incontrava mai con la sua “vecchia fiamma”; forse ne mettevano addirittura in dubbio l’esistenza –
proprio come avevano scherzato riguardo a Gideon.
Floz sfoderò un sorriso smagliante e impavido e portò i caffè in
salotto, per scoprire che l’atmosfera al tavolo si era fatta più densa
della salsa di Grainne. Coco era preoccupato di aver turbato Floz,
Guy desiderava soltanto che il pavimento si spalancasse per inghiottirlo, poiché era consapevole di aver completamente sprecato l’ennesima occasione di brillare agli occhi di Floz, mentre Juliet voleva
semplicemente andarsene a letto.
Juliet fu svegliata da un’ondata di nausea nelle prime ore del mattino. Mentre si dirigeva al bagno, tornò a notare uno spiraglio di luce
che usciva dalla fessura sotto la porta della stanza di Floz. Si avvicinò
in punta di piedi e appoggiò l’orecchio alla porta. Floz era senz’altro
sveglia e stava scrivendo al portatile.
«Floz, sei sveglia?», le chiese, e poi bussò con delicatezza alla
porta.
«Sto semplicemente sbrigando un po’ di lavoro», gridò Floz, con
una voce nasale che cercò di camuffare tossendo.
«Vuoi del caffè?»
«No, sono a posto, grazie. Stavo per spegnere il computer perché
ora sono stanca. Buonanotte, Ju».
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La mano di Juliet si allontanò dalla maniglia. Sapeva che se
avesse aperto la porta avrebbe trovato Floz a piangere. Ma sarebbe
stato crudele da parte sua metterla alle strette in quel modo, specialmente dal momento che era ovvio che desiderasse essere lasciata da
sola. E Juliet si sentiva troppo fragile e stanca per irrompere dentro
come un agente del corpo speciale delle forze armate britanniche facendola saltare in aria qualsiasi cosa stesse facendo.
«Buonanotte allora, Floz. Dormi bene».
Dietro la porta, Floz spense la stampante. Stava tagliando e incollando tutte le e-mail ricevute e inviate a Nick, aveva cambiato i caratteri scegliendo uno stile più carino, così da poterle stampare su carta
increspata color avorio, per poi piegarle e conservarle come fossero
vere e proprie lettere, piuttosto che e-mail. Il loro posto era in una
scatola dei ricordi, decorata con un fiocco, e non dentro una
chiavetta USB.
Era stanca morta, ma sapeva che non avrebbe dormito senza un
po’ di aiuto. Estrasse una bottiglia di brandy mezza piena dal cassetto della sua scrivania e bevve a gran sorsi attaccandosi
direttamente al collo.
Capitolo cinquantuno
Il mattino seguente Juliet si sentiva meglio, anche se non appena
ricevette il messaggio di Steve dovette ricredersi.
“Indovina un po’? Venerdì esco con Chianti. Mi dispiace di non
riuscire a vederti in questi giorni, lavoro di sera”.
Un’improvvisa rabbia la travolse e si diffuse velocemente per
tutto il suo corpo. Compose con foga il proprio messaggio di
risposta.
“Non preoccuparti, anch’io sono impegnata per cui non saremmo
comunque riusciti a vederci. Giovedì esco a cena al Four Trees con
Piers WB. Alla fine è andato tutto secondo i piani. Buona fortuna per
il tuo appuntamento”. Nemmeno lei gli inviò dei baci alla fine del
messaggio.
Non riusciva a credere di avere le lacrime agli occhi quando
spinse Invio.
Si sentiva stupidamente turbata ed emotiva.
«Steve non può uscire con me questa settimana», disse Juliet
rivolgendosi a Coco, nel tono più asettico possibile, mentre erano a
caccia di vestiti da Next. «Dice che sta lavorando e che venerdì uscirà
con Chianti».
«Be’, è una coincidenza, o sbaglio?», esclamò Coco, reggendo
davanti a Juliet sia un sobrio vestito nero che uno scintillante abito
rosso. «State seducendo entrambi i partner dei vostri sogni nella
stessa settimana».
«Non riesco a capire che cosa ci veda in Chianti Parkin», commentò Juliet, strappando il vestito rosso dalle mani di Coco per poi
dirigersi verso i camerini. «È una sciocca Barbie di plastica».
«Non sarai gelosa, vero?». Coco sorrise compiaciuto.
«Di Chianti?»
«Di Steve che conquista Chianti, intendo».
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«Ma per piacere!», rise Juliet, e poi sparì nella cabina con l’audace abito scarlatto. «Steve Feast è un deficiente. Non l’ho forse
sempre sostenuto?».
Capitolo cinquantadue
Guy fece irruzione nel suo ufficio e chiuse la porta della cucina
prima di uccidere Igor o Stanislav. Entrambi avevano i postumi di
una sbornia e non sarebbero serviti a nulla. E, come se non bastasse,
era palese che avessero fatto a botte con qualcuno, oppure tra loro, a
giudicare dai lividi e dalle ferite sui loro volti. Era esattamente ciò di
cui aveva bisogno dai camerieri di sala quando dovevano servire un
pranzo aziendale a venticinque persone.
Si accasciò sulla scrivania e si prese la testa tra le mani. In che
diamine si era andato a invischiare? Un ristorante sciatto con personale imbecille. Non era sicuro di avere l’energia necessaria per
riuscire a tramutare quella discarica in qualcosa di speciale. Un altro
sogno da aggiungere agli altri due che erano fuori dalla sua portata:
Hallow’s Cottage e Floz.
Bussarono timidamente alla porta.
«Entra», sbraitò, nella speranza che non si trattasse di nessuno
con un occhio pesto, perché sarebbe benissimo potuto andarsene di
lì con un altro occhio nero.
«Ciao», disse una voce allegra. Gina aprì la porta dando uno spintone con il suo sedere snello, dato che reggeva una tazza in una
mano e una manciata di lettere nell’altra.
«Ho pensato che ti potessero servire», disse con un ampio sorriso
e con quei suoi occhioni blu, posando davanti a lui un caffè nero e
fumante.
«Grazie, Gina», rispose Guy. Almeno c’era qualcuno su cui poteva
fare affidamento in quel posto.
«Ho telefonato all’agenzia e mi hanno detto che ci manderanno
un paio di cameriere. Igor può lavorare nel retro con noi. Dovrò
mandare a casa Stanislav. Ha appena vomitato sugli scalini sul
retro».
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«Grazie, Gina», disse Guy con tono spossato. Non aveva avuto le
forze di pensare a qualcosa di più innovativo.
«Beviti questo caffè e prenditi una pausa». Gina gli consegnò la
posta. «Non si sa mai, spulciando tra queste lettere potresti scoprire
di essere il vincitore di un generoso premio», rise.
«Magari», disse Guy. Lui le sorrise, sinceramente grato per tanta
cordiale efficienza. «Che cosa farei senza di te?».
Gina non rispose. Tornò invece in quella cucina infernale e
sospirò. Non appena le fosse capitata un’occasione buona con Guy
Miller, si sarebbe assicurata che lui non potesse più fare a meno di
lei. Il suo aspetto ricordava la calma placida di un lago, sotto la cui
superficie si nascondevano però delle acque profonde e vorticose,
pronte a risucchiarlo a fondo. Lo avrebbe fatto suo e tenuto per sé,
anche se sarebbe stata l’ultima cosa che avrebbe fatto.
Guy aprì la prima lettera. Era l’avvocato che lo avvisava che il perfezionamento della vendita del ristorante sarebbe avvenuto prima di
quanto inizialmente previsto. “Fantastico”, pensò Guy. Era proprio
quello che aveva bisogno di sapere: nel prossimo futuro avrebbe
portato sulle proprie spalle il pesante fardello di Kenny. La seconda
era una grande busta contenente un fascicolo di fogli rilegati, inviatogli da una società di progettazione d’interni che si offriva di
trasformare il Burgerov da catapecchia a reggia. Era evidente che
avessero svolto i compiti per casa, e che a un certo punto avessero
scattato di nascosto alcune foto degli interni del ristorante, per poi
abbozzare una loro concezione di come avrebbero potuto
migliorarlo.
Guy rimase a bocca aperta. Sembrava che gli avessero letto nel
pensiero e scorto la sua visione ideale, che corrispondeva a quel bellissimo ristorante di Firenze. Pesanti tendaggi alle finestre, tranquille tonalità di panna e verde, pareti stuccate, fiori alti al centro dei
tavoli – era il Burgerov che così tante volte aveva concepito la sua
fantasia. Le loro immagini erano sensazionali. In particolare per
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merito dei camerieri sbarbati, privi di cicatrici e sorridenti che
avevano abbozzato.
Grazie a quel caffè e a quei disegni, Guy si sentiva nuovamente
rinvigorito. L’esperienza relativa al Burgerov sarebbe presto stata
confinata nella parte della sua mente in cui imprigionava tutti i ricordi peggiori. Un sogno, almeno, era a portata di mano. Guy Miller
si era rimesso in gioco.
Capitolo cinquantatré
Quello stesso giovedì Steve si alzò presto, dopo aver trascorso
un’agitata notte di sonno. Aveva da svolgere un lavoro piuttosto
semplice d’intonacatura su una parete di un pub, e quindi non gli era
mancato certo il tempo per pensare al fatto che quello era il gran
giorno di Juliet e Piers. Si reputò fortunato ad aver terminato presto
perché quella sera aveva un incontro di wrestling. Si fermò al Burgerov lungo la strada verso casa. Aveva bisogno di sfogarsi altrimenti
sarebbe impazzito per via di tutti i possibili esiti di quell’appuntamento che gli ronzavano nella mente.
«Non capisco che cosa ci veda in lui», disse Steve, seduto su uno
sgabello in cucina, mentre Guy realizzava come per magia la sua favolosa maionese, preparandola da zero, con dei colpi di frusta apparentemente semplici. «Be’, se si fa eccezione per la macchina grossa,
la casa grande, il lavoro brillante, il libretto degli assegni della banca
più prestigiosa d’Inghilterra e i vestiti firmati. E credo anche che sia
di bell’aspetto. Inoltre la porta al Four Trees. Cioè, doveva proprio
portarla nel ristorante più dannatamente chic della contea?»
«Ancora per poco», lo corresse Guy. «Presto il ristorante piùchic
della contea sarà questo». Sospirò mentre con la coda dell’occhio
scorgeva Varto intento a mandare a puttane un cocktail di gamberi.
«Ovvio, è proprio questo che intendevo», disse Steve; aveva un
aspetto piuttosto cupo, sebbene avesse conquistato il non plus ultra
delle bionde dalle gambe lunghe, ossia Chianti Parkin.
«Juliet come ha preso la notizia di te e Chianti?», chiese Guy.
«Mi ha augurato buona fortuna. Davvero, mi ha augurato buona
fortuna!», disse Steve, gettando in alto le mani in segno di
incredulità.
«Be’, è positivo, no? Entrambi avete voltato pagina nello stesso
momento. Voglio dire, da quanto tempo è che provi a farti notare da
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Chianti? E ora l’ha fatto. Quindi perché ti ossessioni ancora per
Juliet e il suo capo?»
«Non sono ossessionato!», protestò Steve. «È solo che non riesco
a capire come faccia a piacerle. Ama lui e pensa che io sia un
cretino».
«Steve, smettila di pensare a Juliet ed esci con Chianti Parkin.
Quanti litri di saliva hai versato per lei? Be’, ora quella ragazza vuole
andare a cena con te».
«Sì», disse Steve con la voce di uno che aveva appena firmato la
propria condanna a morte, piuttosto che aver beccato sei numeri
della lotteria e in più anche il numero jolly. «Hai ragione».
«Desidererei avere io così tanta fortuna con le donne», ridacchiò
Guy.
«Con una donna, intendi», lo corresse Steve.
«Una Floz equivale a tutte le donne del mio passato più le tue
messe insieme».
«Scusatemi». Alle spalle di Guy, Gina tossì per avvisarli della sua
presenza. Lui si girò e lei gli chiese se fosse arrivata la consegna di
pesce.
«Le piaci», sussurrò Steve, quando lei scomparve in dispensa.
«C’è anche qualcosa che puzza di marcio».
Guy cambiò discorso: «Sono andato a vedere il cottage».
«E…?», disse Steve, mentre osservava Gina che usciva dalla dispensa e lanciava uno sguardo a Guy. Era davvero cotta di lui. Steve
non si considerava un esperto del linguaggio del corpo, ma accidenti
anche Mr Bean, il più stolto degli stolti, si sarebbe accorto della sua
infatuazione.
«È un vero e proprio catorcio. E dovrò dimenticarmelo perché
non posso neanche lontanamente permettermelo».
«Hai provato a chiedere in banca?»
«Sarebbe inutile», rispose Guy.
«Conosco una banca a cui potresti rivolgerti», disse Steve.
«Quale? La banca del paese dei balocchi?»
«La banca di mamma e papà».
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Per un momento, Guy smise di sbattere la frusta. «Non lo
chiederei mai a loro».
«Volevano darti i soldi per il ristorante. Se mio figlio avesse
bisogno di soldi e io li avessi…».
«Non ne ho bisogno… Il cottage è soltanto qualcosa che vorrei».
«Invece ne hai bisogno», lo corresse Steve. «Ti serve per ricevere
la spinta sul sedere necessaria per ricominciare a vivere. Hai bisogno
di riprendere a frequentare le donne, uscire con una di loro e risvegliarti con lei la mattina», disse facendo dondolare il suo borsone
oltre la spalla. «E se una vecchia fiamma è davvero tornata nella vita
di Floz, chiedere a Gina di uscire. È tempo ti voltare pagina, Guy. Di
guardare sempre avanti».
Capitolo cinquantaquattro
«Come sto?», chiese Juliet, facendo delle piroette con indosso
l’abito rosso scarlatto che metteva in risalto la sua figura sinuosa e la
vita sottile.
«Sei adorabile», sorrise Floz. «Come ti senti?»
«Fantastica», disse Juliet fingendosi in visibilio, anche se a dire la
verità non si sentiva emozionata nemmeno la metà di quanto
avrebbe dovuto. E nonostante non avesse mangiato nulla in tutta la
giornata, non aveva la benché minima ombra della fame.
La sua mente avrebbe dovuto essere satura delle immagini di
Piers Winstanley-Black intento a sbaciucchiarla, ma così non era.
Era invece colma di gelosia nei confronti di Steve e del suo appuntamento con Chianti della sera seguente, e odiava che tali vibrazioni
negative stessero offuscando l’entusiasmo che si era aspettata di
avere. Sapeva che era assurdo provare quelle sensazioni. E non era
nemmeno logico. Si era chiaramente intrappolata nella rete di un
qualche ragno e non stava per niente bene.
Fuori, una macchina accostò, era una Bentley. Floz guardò oltre la
finestra e alzò il pollice in direzione di Juliet.
«È qui», disse. «Divertiti!»
«Sicuramente», disse Juliet, mentre gonfiava il petto e alzava il
mento. «Come potrebbe essere altrimenti?».
Piers Winstanley-Black aveva gli occhi fuori dalle orbite quando
Juliet salì con lui sul sedile posteriore della macchina. Eppure, nonostante il completo impeccabile, le scarpe di fattura artigianale e l’ampio sorriso affascinante, gli occhi di Juliet si rifiutarono di scintillare.
Capitolo cinquantacinque
Quando quella sera Steve ebbe concluso il suo incontro di wrestling, si accorse di un uomo anziano che armeggiava con il suo cellulare nell’area d’ingresso. Notò inoltre un adolescente robusto che lo
urtò per sbaglio facendolo ruzzolare sopra una pila di sedie. Steve si
precipitò di corsa da lui per evitare che cadesse per terra.
«Tutto bene, signore?», domandò, porgendogli il braccio perché
vi si appoggiasse.
«Sto bene», disse l’uomo, con un forte accento bizzarro, che assomigliava per metà a quello di Arthur Scargill, il politico britannico,
e per metà a quello di John Wayne.
«Posso portarle qualcosa? Un bicchiere d’acqua o qualcosa del
genere?»
«Qual è il suo nome, figliolo?», disse l’uomo strascicando le
parole.
«Steve. Steve Feast».
L’uomo si appoggiò al braccio di Steve mentre si rimetteva in
piedi.
«Mi sono divertito molto a guardarla questa sera. Ero qui anche
tre settimane fa quando lei era il ragazzo cattivo in quel combattimento da quattro round. Incontro impressionante».
«Oh, quella sera», ridacchiò Steve, ricordandosi che si trattava
della volta in cui Guy pensava che lui fosse andato a letto con Floz.
«Lei è un bravo lottatore».
«Sì, lo sono», disse Steve. «Ma avrei dovuto combattere negli
anni Cinquanta quando qui il wrestling era al massimo della
popolarità».
«Oppure combattere ora in America, dove va ancora alla grande»,
commentò il signore anziano.
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«Mi piacerebbe», disse Steve e poi salutò il vecchio signore con la
mano, dopo essersi accertato che stesse bene. «Mi piacerebbe
maledettamente».
Al Burgerov era una serata abbastanza tranquilla, sebbene un
gruppo di undici persone avesse prenotato addirittura per le dieci.
Venivano da Southampton, lungo la strada per Glasgow, e avevano
pagato Kenny Moulding più del dovuto affinché desse loro da mangiare. Ovviamente, Kenny non avrebbe ridistribuito gli incassi tra il
personale, che avrebbe dovuto lavorare fino a tardi per servirli.
Le parole di Steve vagavano nella mente di Guy da quando se ne
era andato.
Aveva ragione, aveva bisogno e allo stesso tempo voleva ricongiungersi con la razza umana e tornare a sentirsi vicino a una donna. Il
problema era che non desiderava una donna qualsiasi, voleva Floz
Cherrydale. Doveva riuscire a riallacciare i rapporti con lei, parlarle,
fare in modo che lei imparasse a conoscerlo, e che lui imparasse a
conoscere lei, provarle tutte prima di allontanarsi da lei e voltare pagina. Il motivo per cui si fosse invaghito così profondamente e velocemente di qualcuno con cui aveva a malapena parlato, e che non
riusciva a sopportare la sua vista, gli risultava imperscrutabile. Tutto
ciò che sapeva era che non si trattava di un’infatuazione: era amore,
instancabile e assoluto. E lui ci teneva così tanto a farle una buona
impressione che ogni pensiero relativo alle misteriose vecchie
fiamme si era estinto.
Guy controllò l’orologio. Juliet in quel momento era a cena fuori,
per cui Floz sarebbe stata da sola a casa. C’era ancora un’ora e mezza
prima che arrivasse il gruppo di Southampton. Una scarica di adrenalina si impossessò come un vortice di tutto il suo corpo. “Sì, fallo”.
Adesso o mai più.
Si strappò via il grembiule e urlò a Gina: «Torno tra un’ora. Lascio a te il comando».
Prese le chiavi della macchina a uscì a grandi passi nella mite
serata autunnale. La luna era immensa, bassa e dello stesso colore
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rosato dello champagne. Era una luna settembrina, o luna del raccolto, come era più comunemente conosciuta. Sperò che fosse un
presagio del fatto che quella notte avrebbe “raccolto” l’affetto di Floz
Cherrydale. Quella notte avrebbe fatto sì che lei prendesse tutte le
precedenti opinioni che si era fatta su di lui e le riducesse in pezzettini. Quella notte avrebbero ricominciato tutto da capo.
Capitolo cinquantasei
Guy pigiò il pulsante del citofono fuori dall’appartamento di sua
sorella. Era talmente ebbro delle sostanze chimiche naturali
dell’entusiasmo che aveva voglia di vomitare o in alternativa di sfasciare delle automobili.
«Chi è?», fece la voce gentile di Floz.
«Sono Guy», disse. «Posso salire?»
«Sì, certo», rispose Floz in tono gelido. Immaginò subito che cosa
sarebbe accaduto nel giro di qualche minuto: lui sarebbe entrato,
avrebbe chiesto di Juliet, avrebbe scoperto che Juliet non c’era e
l’avrebbe usata come scusa per esibirsi in un’espressione accigliata e
malinconica alla Heathcliff, come se l’assenza di sua sorella fosse da
imputarsi a Floz.
Guy fece le scale a due a due e aprì con uno spintone la porta
dell’appartamento.
«Ciao, Floz… ehm… dov’è Juliet?»
“Sì”, pensò Floz. Non si era sbagliata.
«È uscita. Con Piers. Non lo sapevi?», rispose Floz, preparandosi
all’espressione imbronciata che sarebbe calata sul viso di lui.
«Ah sì, me l’aveva detto». Guy si colpì la fronte con la mano in un
gesto platealmente finto.
«Posso aiutarti?», gli chiese, domandandosi che cosa diamine
avesse in mente.
Lei sembrava così minuta che lui avrebbe voluto abbracciarla, sollevarla e baciarla di nuovo sulle soffici labbra fino a che le sue pallide
guance non fossero diventate rosse come la luna settembrina che
c’era fuori.
«Guy? Posso aiutarti?», ripeté Floz.
Guy si riscosse dal suo sogno a occhi aperti: «Scusa. Io… ehm…mi
chiedevo…». Il telefono gli suonò in tasca. La musica di I’m a Barbie
Girl suonò a centinaia di decibel. «Oh cielo!». Ancora una volta non
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era riuscito a far star zitto quel telefono. Lo estrasse dalla tasca e
vide che Kenny Moulding lo stava chiamando. “Be’, che vada a quel
paese”, pensò Guy, “per una volta dovrà aspettare”. Provò a spegnere
il cellulare. Let’s go, Barbie, continuò la suoneria. Era così agitato
che fece cadere il telefono, il quale scivolò sotto il divano. Si gettò a
terra, rovistando per trovarlo. Aveva la sensazione che se lo avesse
calpestato o magari gettato in un lago, quella dannata suoneria
avrebbe comunque continuato a suonare. Non riusciva nemmeno a
far leva per togliere il coperchio dalla parte posteriore così da
rimuovere la batteria. Lo sbatté sul tavolino per farlo smettere, restando per tutto il tempo consapevole del fatto che Floz era rimasta lì
impietrita a osservarlo, mentre lui si rendeva più ridicolo che mai.
«Scusa», disse Guy. «Ho comprato il telefono su eBay. Non riesco
a eliminare dalla memoria le suonerie del precedente proprietario, e
per quanto provi a modificare il volume… a ogni modo, è una storia
veramente noiosa, scusa. Ehm, Floz, sono venuto per chiedere…».
Poi il citofono squillò con insistenza, come se qualcuno lo stesse
pugnalando.
«Scusami», disse Floz, andando a rispondere. Dall’altro capo
della stanza Guy non ebbe difficoltà a udire i singhiozzi che
provenivano dalla cornetta.
«Sali, Coco», disse Floz al citofono. «Preparo il bollitore».
«Oh, merda». Guy voleva dirlo sottovoce, invece il commento gli
uscì forte e chiaro.
“Veloce, c’è ancora tempo”, pensò Guy.
«Floz, il fatto è che…».
Poi Coco oltrepassò la porta e si gettò addosso a Floz.
«Gideon e io abbiamo chiuso!», disse. «Si vedeva a mia insaputa
con un fioraio. Ho controllato il suo cellulare e ho scoperto che gli ha
fatto un sacco di telefonate. Oh, perché gli uomini sono dei bastardi?
Perché, perché?». Poi vide Guy e per un attimo interruppe i suoi
drammatici lamenti. «Oh, ciao Guy. Come stai?»
«Bene, grazie, Coco», disse Guy, mentre la sua bocca si assottigliava in una linea arcigna. «In realtà, non sono mai stato meglio».
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«Per quale motivo eri venuto, Guy?», chiese Floz, mentre sorreggeva Coco, che era nuovamente collassato sulla sua spalla.
«Perché? Perché a me?», piagnucolò Coco.
«Nulla. Non ha importanza», disse Guy a denti stretti. Era arrabbiato perché era arrivato veramente a un passo dal mettere le cose in
chiaro con Floz. Arrabbiato perché il destino – sotto le sembianze di
un gay isterico, proprietario di un negozio di profumi – gli aveva impedito di chiedere a Floz di uscire. Arrabbiato perché aveva sprecato
così tanto tempo. Arrabbiato perché Hallow’s Cottage era fuori dalla
sua portata, dopo tutti quegli anni trascorsi a desiderare di acquistarlo. Arrabbiato perché anche il suo maledetto telefono gli si era
rivoltato contro.
Poi Juliet entrò nell’appartamento e annunciò che aveva appena
vomitato sul completo che Piers Winstanley-Black aveva comprato
in Savile Row, la celebre via londinese di laboratori sartoriali.
Capitolo cinquantasette
Juliet si sedette sul divano con indosso il suo pigiama viola
prugna di flanella a sorseggiare un bicchiere di limonata. L’ordine
era stato ristabilito. Mentre Floz preparava il tè, Coco aveva ascoltato
i venti messaggi che Gideon gli aveva lasciato in segreteria telefonica. Sembrava che non si stesse “sbattendo il fioraio”, cosa di cui lui
lo aveva accusato. E se Coco fosse andato a casa sua, avrebbe
scoperto che Gideon aveva cospirato con il suddetto fioraio al fine di
riempirgli la camera di mazzi di fiori come sorpresa.
«Dovresti fidarti di lui altrimenti lo perderai», lo avvertì Juliet.
«Se inizi ad andare a caccia di indizi, troverai qualcosa da distorcere
che la tua mente adatterà in base a quello che vuoi credere di lui.
Non fare più l’imbecille in questo modo».
«Non lo farò», disse Coco, che sembrò volare a casa sospinto da
un vento di gioia.
Dopo essere stato rassicurato del fatto che sua sorella soffrisse
soltanto di disturbi gastrici, Guy uscì silenziosamente dall’appartamento e ritornò al lavoro, senza svelare il motivo per cui era andato
lì. Aveva un’espressione talmente cupa che, a confronto, Heathcliff
sembrava un comico della TV.
Finalmente, la pace regnava a Blackberry Court e Juliet aprì una
scatola di biscotti all’arancia ricoperti di cioccolato, poiché le era
venuta un’improvvisa e feroce voglia di divorarli. Non aveva
mangiato nulla tutto il giorno – se si escludeva il tortino al formaggio che era stato temporaneamente nel suo stomaco al ristorante
Four Trees.
«Tutti questi anni passati ad aspettare un appuntamento con
Piers Winstanley-Black e poi finisco per vomitargli addosso», ridacchiò Juliet. «Riesci a crederci? Ti verrebbe da pensare che andare a
degli appuntamenti con l’altro sesso dovrebbe diventare sempre
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meno drammatico più si va avanti con gli anni, non è vero? Invece,
evidentemente, non è così».
«No, peggiora», annuì Floz con un sospiro eloquente che non
aveva intenzione di farsi sfuggire, ma che Juliet notò e memorizzò
come un’ulteriore prova della presenza di un uomo misterioso nella
vita di Floz.
Il telefono di casa suonò. Era Coco, che si vantava di come il suo
appartamento assomigliasse ai giardini botanici reali di Kew, con
tanto di petali di rosa sparsi ovunque sul letto.
«A proposito, che cosa ci faceva Guy qui?», chiese Juliet una volta
conclusa la telefonata.
«Non sono riuscita a scoprirlo», disse Floz. Ci fu qualche minuto
di silenzio prima che Floz osasse dire quello che moriva dalla voglia
di esternare. «Mi sa che non gli piaccio molto».
Juliet scosse il capo. «Non essere sciocca. Mi chiedo soltanto…».
Poi si fermò.
«Ti chiedi cosa?»
«Mi chiedo soltanto», Juliet proseguì con prudenza, «se per caso
non gli ricordi una sua ex ragazza. È solo una supposizione azzardata
ma lei era alta più o meno quanto te e aveva la tua stessa corporatura. Era una vacca immusonita».
«Fantastico, grazie», Floz sospirò. Evidentemente Juliet aveva
frequentato la stessa scuola di fascino di suo fratello.
«Scusa, non intendevo dire che tu sei una vacca immusonita»,
precisò Juliet. «In realtà non le assomigli per nulla nei lineamenti.
Però lui è un tantino timido con te, ho notato. E mi è balenata l’idea
che possa essere a causa di Lacey».
«Oh», disse Floz. «Presumo quindi che non sia qualcuno con cui
si è lasciato amichevolmente».
«A dire il vero si sono lasciati amichevolmente e sono rimasti
amici», disse Juliet. «Questo era il problema: lui era troppo buono
con lei, se devo essere onesta. Lei lo usava. Era una svitata. La
odiavo. La odiavamo tutti».
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«Ah!», disse Floz. Quindi Guy pensava assomigliasse a una sua ex
ragazza svitata. Qualcuno che tutti odiavano. La situazione andava di
bene in meglio.
«In ogni caso, non dovrei parlare male di… lei». Per la rabbia di
Floz, Juliet si interruppe senza concludere la frase e andò a ripescare
un argomento di conversazione che avevano trattato in precedenza:
«Riguardo a Piers, ho esagerato un po’ quando ho detto di aver
vomitato sul suo completo. Gli è finito soltanto uno schizzo sulla
manica. Il pavimento si è aggiudicato il resto. C’erano le piastrelle,
per cui immagino lo abbiano pulite in fretta. È stato maledettamente
imbarazzante».
«Be’, non potevi evitarlo». Floz riempì il bicchiere di Juliet di
limonata.
«Non ho avuto proprio nessuna avvisaglia che il mio antipasto
stesse per riproporsi, altrimenti mi sarei precipitata in bagno. È
stato davvero spaventoso».
«Che cosa ha detto Piers?»
«Non molto, all’inizio», disse Juliet, mortificata. «Immagino che
fosse sotto shock. Non credo che nessuno gli abbia mai vomitato addosso prima d’ora, in un locale esclusivo o in un qualsiasi altro
luogo. Però, devo riconoscergli i suoi meriti: mi ha accompagnato
subito a casa in macchina e ha aspettato che entrassi. Per tutta la
serata si è comportato da perfetto gentiluomo, proprio come immaginavo che sarebbe stato: cortese, bello, premuroso…», poi Juliet si
zittì.
«Ma?», si sentì costretta ad aggiungere Floz.
«Ti metterai a ridere», disse Juliet. «Riderei io stessa se non mi
sentissi così confusa».
«Mettimi alla prova», disse Floz, dandole una piccola gomitata.
«Maledetto, dannato, promiscuo Steve Feast: è tutta colpa sua!».
«Che cosa intendi?».
Juliet si prese la testa tra le mani: «È pazzesco. Mi trovavo lì, seduta di fronte e Piers Winstanley-Black, l’uomo dei miei sogni dietro
al quale sbavo da anni. Mi aveva appena versato del vino, che costa
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quindici sterline al bicchiere, io stavo scegliendo dal menu, creato da
uno chef pluripremiato, e tutto quello a cui riuscivo a pensare era:
“Steve stasera ha un incontro di wrestling. Che costume indosserà?
Chianti sarà lì a guardarlo? Non mi ha pensato per nulla mentre ci
provava con quella sgualdrina di plastica?”».Poi scoppiò in lacrime.
«Oh, Floz. Non riesco a credere di doverlo ammettere ma penso di
essermi innamorata di lui. Come cavolo è successo?»
«Oh, tesoro». Floz abbracciò Juliet; la sua spalla era bagnata per
via dei singulti di Coco. «Non so come vanno queste cose, succedono
e basta, non abbiamo nessun controllo sui meccanismi del cuore.
Dovresti dire a Steve quello che provi, perché credo che ne sarebbe
entusiasta».
«Come potrebbe esserlo?», disse Juliet. Desiderava soltanto
smettere di piangere. Non si era mai abbandonata a simili debolezze
da ragazzina piagnucolosa. E mai per un uomo. «Domani uscirà con
la donna dei suoi sogni. Il nostro accordo prevedeva che avremmo
fatto “solo sesso” e sono stata io a martellare su questo punto, insistendo che non si trattava di nulla di più. Guardami, sono un maledetto catorcio. Il ciclo mi si è fermato, sto piangendo, vomito e tutto
quello che mangio ha un sapore strano. Che cavolo c’è che non va in
me?».
Floz spinse indietro Juliet e la guardò dritta negli occhi.
«Ju, non ti piacerà quello che ti sto per dire», disse.
«Cosa? Cosa?», piagnucolò Juliet.
«Juliet, credo dovresti fare un altro test di gravidanza».
Asda, il supermercato, restava aperto tutta la notte. Floz vi si recò
in macchina per prendere un test di gravidanza, mentre Juliet restò
a casa, tenendosi a distanza di sicurezza dal bagno. Dopo che Juliet
ebbe nuovamente fatto pipì sul bastoncino, si sedettero entrambe sul
divano e lo osservarono. Due deboli linee blu apparvero nei riquadri
per poi scurirsi e definirsi.
«Ma avevo fatto un test di gravidanza ed era risultato negativo»,
disse Juliet, troppo sconvolta per piangere.
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«Forse l’hai fatto troppo presto perché funzionasse», disse Floz,
anche lei un po’ stordita.
«Che devo fare?», disse Juliet. Era una novità troppo grande da
metabolizzare. Incinta? Di Steve Feast, che aveva odiato sin dai
tempi della scuola e che nonostante tutto non riusciva a togliersi
dalla testa – cosa che aveva scoperto solamente quando lui se ne era
andato dalla sua vita.
«Ora andrai a letto, ecco che cosa farai», disse Floz. «Perché al
momento non possiamo fare nulla, è troppo tardi. E hai bisogno di
rilassare mente e corpo».
«Non credo che riuscirei a prendere sonno», disse Juliet.
Si misero a guardare Il diario di Bridget Jones sedute vicine sul
divano, finché non si appisolarono entrambe come due fermalibri
spossati.
Capitolo cinquantotto
La mattina successiva, Juliet si svegliò per prima e distese le braccia. Si sentiva i postumi di una sbornia, era scombussolata, sconquassata e indolenzita a causa del pensiero che predominava nella
sua testa e che offuscava tutto il resto. Anche il fatto che probabilmente era incinta. Ma non riusciva a non pensare a Steve che quella
sera sarebbe uscito con Chianti. La bellissima, magra e non incinta
(anche se tamarra) Chianti, dalle gambe lunghe e dai vestiti firmati,
che lui desiderava da un’eternità.
Singhiozzò contro la coperta che doveva aver afferrato nel bel
mezzo della notte per coprirsi. Lo fece in modo talmente silenzioso
che Floz non si svegliò. In quale situazione incasinata si era andata a
cacciare?
Floz si svegliò con l’odore e lo sfrigolio della pancetta. Andò in cucina per scoprire che la pancetta si trovava sul fuoco senza la supervisione di nessuno poiché Juliet era andata in bagno a vomitare.
Quando uscì, asciugandosi la bocca, sembrava pallida come un cencio. Floz non avrebbe mai immaginato che una donna forte come
Juliet potesse sembrare così triste, così confusa.
«Mi sono data malata al lavoro», disse.
«Hai fatto bene», disse Floz. «Vuoi che ci pensi io a prepa-rare?»
«Non so perché ho iniziato a cucinare la pancetta. Non ne ho
voglia. Credo volessi soltanto fare qualcosa».
«Preparo del tè e dei toast», disse Floz, spingendo Juliet sul divano. «Mi prenderò una giornata libera, ci metteremo sedute a
guardare il notiziario del mattino e Jeremy Kyle».
«Mi sembra di essere uno dei partecipanti di quel talk show»,
sbuffò Juliet, scorgendo un’immagine di se stessa allo specchio
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appeso alla parete. Aveva lo stesso colore di un pupazzo di neve
anemico.
Giunte a metà dei risultati del DNA relativi a una storia del filone
“Scopriamo chi è il padre”, Juliet si appisolò. Floz sgattaiolò via per
controllare le e-mail fintanto che poteva. C’erano un paio di lavori da
parte di alcune società di biglietti d’auguri, ma nulla da parte di
Nick. Si sedette sul divano vicino alla dormiente Juliet e scrisse alcune battute divertenti a proposito dei compleanni, giacché anche la
sua testa era piena di pensieri di cui avrebbe desiderato sbarazzarsi.
Capitolo cinquantanove
Era davvero bellissima. Un corpo mozzafiato, pensò Steve,
mentre faceva scorrere le sue mani su di lei. Avrebbe voluto scoparsela in quell’esatto momento, ma era una macchina e c’erano delle
regole da rispettare in merito. Inserì le chiavi nel cruscotto e la accese. Lei fece le fusa mentre lui usciva lentamente dal vialetto e
scivolava in strada. Avrebbe comprato una Mercedes da quel viscido
venditore. E quella che aveva in mente era superiore di due modelli
rispetto alla versione disponibile per il noleggio. Non vedeva l’ora di
salirci e assorbirne l’odore nei polmoni. Nessun profumo era paragonabile a quello di un’automobile nuova.
Steve la portò a fare un giro di riscaldamento in autostrada e si
sentì come un re, mentre superava con facilità qualsiasi cosa si
trovasse alla sua sinistra; stava ascoltando Silver dream machine a
ripetizione dal lettore CD con dolby surround. Chi aveva bisogno
delle donne quando esistevano delle macchine come quella? Si tenne
ben stretto quel pensiero, perché continuava a volergli sfuggire.
Era stata la giornata peggiore che Juliet ricordasse. La parte
migliore fu addormentarsi e trovare l’oblio. Si svegliò con il viso sorridente di Alan Titchmarsh in televisione, ma non fu a causa della
sua immagine riflessa se cinque minuti dopo avvertì degli ulteriori
conati di vomito. Tuttavia, c’erano cose dentro di lei che la ferivano
molto di più di quanto i muscoli tesi del suo stomaco sarebbero mai
riusciti a fare. Non era in grado di pensare lucidamente. L’unica cosa
che non aveva mai desiderato dalla vita era essere una madre single.
La cara Floz si agitava per la casa come una chioccia dai capelli
rossi: le aveva rimboccato la grande e confortevole coperta, le aveva
preparato una limonata ed era uscita a comprare i biscotti allo
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zenzero, perché a quanto sembrava lo zenzero aiutava a combattere
il vomito, o almeno così sosteneva lei.
Le lancette dell’orologio si trascinavano sul quadrante più lentamente di quanto sarebbe stato lecito se si fossero attenute alle leggi
del tempo e della fisica, Juliet ne era certa. In qualche modo, si era
fatta l’ora in cui trasmettevano EastEnders e Juliet provò a concentrarsi su quello che stava accadendo in televisione, ma la sua
mente non fu abbastanza forte da scacciare le immagini di Steve in
un completo e di Chianti in un attillato abito senza spalline taglia
trentasei, scollato sulla schiena, scollato sul davanti e scollato ai lati,
con tanto di tacchi alti come l’Empire State Building. Probabilmente,
proprio in quell’istante, Chianti si trovava tra le braccia di Steve, lui
si stava gustando il sapore di quel momento. E del corpo di lei.
Fortunatamente, lo squillo del citofono interruppe quei pensieri
angoscianti.
«Vado io», disse Floz. «Tu stai qui e riposati».
«Per piacere, dimmi che non si tratta di Coco con altre lamentele», disse Juliet. «Se così fosse questa sera non riuscirei a
sopportarlo».
«Ehm, no», tossì Floz un paio di secondi dopo, mentre apriva la
porta al visitatore affinché salisse.
«Chi è allora? Guy? Non mamma e papà. Per piacere, Floz, non
farli entrare se sono loro», urlò Juliet mentre Floz apriva la porta, e
Steve entrava con il suo passo rilassato.
«Come stai?», chiese, in modo del tutto spontaneo. Indossava dei
pantaloni neri e una camicia bianca, con una cravatta azzurra allentata, della stessa sfumatura dei suoi occhi da svedese.
«Sto bene», farfugliò Juliet, ben consapevole del dislivello tra i
loro abbigliamenti. Lui era elegantissimo, mentre lei indossava un
pigiama informe che portava, più o meno, da ventiquattro anni.
Inoltre, si sentiva ancora più sciatta poiché era completamente
struccata.
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Steve si gettò vicino a lei sul divano. Floz si defilò con discrezione,
lasciandoli soli. Tenne le dita incrociate e augurò a Juliet tutta la fortuna del mondo.
«Che ci fai qui?», disse Juliet, accostando i lembi della camicia
del pigiama, in segno di pudore.
«Be’, volevo venire a salutarti. Stai bene?»
«La mia pancia ha…». “Un ospite”. Juliet si schiarì la gola: «Qualche scombussolamento».
«Oh». Silenzio.
Juliet non osava respirare. Quello era un sogno, ed era delicato
come una bolla. Se si fosse mossa la bolla si sarebbe rotta e lei
sarebbe tornata sul divano con una coperta di pail a guardare Phil
Mitchell di EastEnders che cercava di non uccidere qualcuno.
«Com’è andato il tuo appuntamento?», gli sussurrò infine.
«Non così bene», disse Steve. «È per questo che sono qui».
«Come mai?».
Steve si girò verso Juliet, i suoi occhi chiari erano incollati a quelli
di lei.
«Perché non volevo stare là con lei. Volevo stare qui con te».
«Davvero?», squittì Juliet.
«Sì».
«Però, sono passate da poco le otto. Che cosa hai detto a
Chianti?».
Steve si schiarì la gola: «Che avevo commesso un errore e che
avremmo fatto meglio a concludere lì l’appuntamento».
«Cielo, Steve, non hai davvero peli sulla lingua».
«È quello che ha detto lei prima di sferrarmi un pugno». Steve si
massaggiò la mascella.
«Non ha detto altro?»
«Praticamente no». Tralasciò la parte in cui Chianti si era messa a
urlare come un’arpia, insistendo nel prendere un taxi che la portasse
a casa, piuttosto che essere accompagnata da un «fottuto bastardo»
chiaramente squilibrato.
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«Oh. Va bene allora», disse Juliet, incredula. Era uno scherzo, ovviamente. Da lì a pochi minuti lui avrebbe detto: «Non è vero, mi ha
dato buca». Ma non lo fece. Entrambi restarono seduti impietriti sul
divano, non sapendo che cosa sarebbe accaduto in seguito.
«Juliet», disse Steve alla fine. «So che tu pensi che io sia un
deficiente…».
«Steve, so che ho detto…», lei lo interruppe, e lui la interruppe a
sua volta.
«…ma io ti amo. E so che probabilmente ieri hai trascorso una
meravigliosa serata con quel tipo con cui lavori e che mi dirai di andare a quel paese perché ti sposerai con lui, ma volevo soltanto che
tu sapessi che ti amo. Va bene?».
Lei non rispose e lui lo prese come un segno che non osava dirgli
che aveva ragione. “Avrà trascorso una meravigliosa serata con Piers
Rumpole-Kavanagh”, pensò Steve, facendo confusione con i
cognomi di due famosi avvocati della televisione britannica. Sospirò
pesantemente e si alzò in piedi.
«Me ne vado. Mi sono reso abbastanza ridicolo. O meglio, sono
stato “un deficiente”. Ancora una volta».
«Anche io ti amo», Juliet parlò d’impulso con una voce alquanto
tremolante. «Non so come o quando sia successo ma è accaduto e
sono stata depressa come non mai fin da quando mi hai detto che tu
e Chianti sareste usciti insieme».
«Mi stai prendendo in giro, cazzo», disse Steve, passandosi la
mano tra i capelli. «Scusa per la parolaccia. Sono sotto shock. Accidenti». Tornò a sedersi sul divano prima di cadere, dato che all’improvviso le sue gambe avevano preso a tremare quanto la voce di
Juliet.
«No, non sto scherzando. E tu sei la persona meno deficiente che
io conosca», disse Juliet, apprezzando il fatto che Steve le avesse
preso la mano e che gliel’avesse stretta teneramente, per poi portarsela alle labbra e baciarla. Lui la faceva sentire delicata. Nessuno
prima d’ora l’aveva mai fatta sentire in quel modo.
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«Non riesco a capacitarmene», disse Steve. Gli occhi gli si stavano
riempiendo di lacrime. «Questa settimana è stata proprio assurda.
Chissà che cosa succederà ora…».
«Steve». Juliet fece un profondo respiro. Si erano già confidati i
rispettivi sentimenti… Tanto valeva dirgli tutto. «Steve, sono incinta.
Di te».
Lui le stava stringendo le dita come se fossero l’unica cosa a impedirgli di cadere da un dirupo.
«Un piccolo noi», fu tutto ciò che disse prima di scoppiare a piangere. Le lacrime gli riempirono quegli occhi di un azzurro intenso,
rigandogli poi le guance, mentre lui non riusciva a smettere di
sorridere.
Nella sua stanza, anche Floz stava piangendo in modo sommesso.
Era finita, definitivamente. Sul suo schermo era apparsa un’e-mail
da parte di un uomo che non conosceva, un certo Chas Hanson. Il
nome le era vagamente familiare, ma non riusciva a ricordarne il
motivo. Aveva aperto l’e-mail per leggerla:
Cara Floz,
mi dispiace informarla che Nick è venuto a mancare nella giornata del ventidue
settembre.Parlava spesso di lei e con grande affetto.È morto circondato dagli amici
e dalla familia e mancherà a tutti. Le sue ceneri verranno sparse sul monte Robson.
Coridali saluti,
Chas Hanson
Poi si ricordò che Chas era il nome dell’uomo che una volta Nick
aveva definito il suo più vecchio amico, il fratello che non aveva mai
avuto. Ecco perché quel nome le suonava familiare.
Capitolo sessanta
Il giorno seguente Steve parcheggiò la Mercedes a noleggio fuori
dalla casa bifamiliare di sua madre e si chiese se avrebbe avuto
ancora le ruote al suo ritorno.
Nemmeno il fatto che lui fosse grosso come una fottuta casa di
mattoni avrebbe dissuaso un tossico dal provare a intrufolarsi dentro
per vedere se ci fosse qualcosa che valeva la pena di sgraffignare e
rivendere in cambio di una dose da cinque sterline. Era cresciuto in
quel luogo e se lo ricordava come un quartiere piuttosto duro, ma
dove vivevano anche tante famiglie rispettabili, benché povere.
Ormai assomigliava più a una discarica che a un complesso residenziale. Ogni volta che andava lì si sentiva claustrofobico a causa del
peso dei brutti ricordi.
Ma quel giorno nulla avrebbe potuto intaccare il suo buonumore.
Juliet Miller lo amava e lui sarebbe diventato padre. Era così colmo
di gioia che pensò che avrebbe potuto volare se solo avesse sollevato
le braccia. Suo figlio non avrebbe mai dovuto uscire di casa con dei
vestiti sudici e a stomaco vuoto, e avrebbe sempre saputo di essere
amato e protetto.
Quella mattina Juliet avrebbe voluto andare con lui a trovare sua
madre. Voleva che le annunciassero insieme che stavano aspettando
un bambino. Juliet pensava di sapere cosa aspettarsi, ma si
sbagliava. Si conoscevano da anni ma Steve non aveva mai permesso
a Guy di oltrepassare la soglia di casa sua. Amava sua madre ma si
vergognava di lei e dello stato in cui si trovava l’appartamento. Il
nomignolo “Sciatto”, con cui alcuni ragazzini infami lo chiamavano a
scuola, gli echeggiava ancora nelle orecchie.
Sebbene recentemente avesse trascorso parecchio tempo con
Juliet, ciò non aveva impedito a Steve di trascurare i propri doveri
verso la madre.
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Eppure, di recente, lei sembrava essersi totalmente arresa. Steve
sospettava che non provasse più nemmeno ad arrivare fino al bagno
o che non mangiasse più se lui non era lì, eppure aveva sempre a
portata di mano degli alcolici.
«Ciao Steve», gridò Sarah Burrows, comparendo da dietro la sua
immacolata porta d’ingresso.
«Ciao cara», ricambiò Steve. «Tu e Denny state bene?»
«Sì, grazie», rispose Sarah con un sorriso, troppo radioso per essere convincente. «Sono passata a controllare tua mamma l’altra
sera e le ho portato un po’ di minestrone, ma non ha mangiato
molto. Ho dovuto imboccarla, Steve. Ma non ne è entrato molto. Ho
provato a pulirla…».
«Oh, Sarah. Non dovresti sentirti in dovere di accudirla. Forse
dovrei tornare a vivere qui per un po’».
Il solo pensiero lo riempì di paura, però di tanto in tanto, nel
corso degli anni, era stato costretto a farlo.
Questa volta sospettava che lei non avrebbe avuto la forza di protestare come faceva abitualmente. Juliet avrebbe capito, non aveva
dubbi.
«Ho visto il figlio di Artie Paget che le consegnava degli alcolici»,
disse Sarah. «Detesto sparlare ma…».
Paget, Paget, Paget. Ancora quel dannato nome. Un’altra generazione di Paget determinata a rovinare le loro vite.
«Grazie per avermelo detto, cara. Saluta il piccolo Denny da parte
mia; e grazie, Sarah. Grazie per le tue premure».
Il trillo acuto del contaminuti del forno iniziò a suonare in cucina,
alle spalle di Sarah. Probabilmente le ricordava che era pronto il
pranzo di Denny, un minestrone denso e gorgogliante, pensò Steve.
Qualcosa con cui riempire lo stomaco del suo ragazzo, preparato con
amore.
Gli occhi di Steve si riempirono di lacrime non appena Sarah chiuse la porta.
Sua madre era sbronza sul divano, di nuovo.
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«Ciao mamma», disse Steve con voce sommessa. Le toccò una
mano e lei la ritrasse.
«Che cosa vuoi?», borbottò. «Non ho niente per te».
«Sono io, mamma, Steve. Ho delle ottime notizie».
«Oh, sei tu». La testa di Christine Feast annuì, sorretta da un
collo sottile. Lui la guardò, era adagiata contro il malridotto divano
arancione e le lacrime iniziarono a rigargli le guance. Quella era la
stessa immagine che si ricordava di ogni Natale: sua madre arrabbiata e inetta, con o senza uno dei passeggeri patrigni, ridotti nello
stesso stato. Lui viveva di bastoncini di pesce che aveva imparato a
friggere da solo, tra un pasto e l’altro che consumava alla tavola dei
Miller. Giurò che un giorno avrebbe avuto dei figli suoi e che avrebbe
condiviso con loro l’infanzia che non aveva mai avuto. Così tante
volte si era immaginato di avere quei bambini con Juliet, e adesso il
suo sogno si stava per realizzare. Desiderava che sua madre condividesse la sua gioia. Non era poi così vecchia. Era ancora in tempo
per riprendersi.
«Mamma, diventerai nonna», disse. «La mia ragazza avrà un
bambino».
La signora Feast aprì gli occhi ma non dimostrò in alcun modo di
avere capito. Poi fu colta da una tosse che scosse il suo corpo
emaciato.
Steve andò nella cucina fatiscente per prenderle un bicchiere
d’acqua. Si chiese come avesse potuto diventare così sporca in così
poco tempo. L’aveva lavata a fondo l’ultima volta che era stato lì,
aveva perfino sfregato con la paglietta d’acciaio tutta la sporcizia
sedimentata sulle piastrelle. Ma non era mai riuscito a sbarazzarsi di
quell’odore di marcio, per quanta candeggina utilizzasse.
La signora Feast si chinò in avanti, in preda ai conati di vomito.
«Ecco, mamma, prendi un po’ d’acqua».
Lasciò che lui le portasse il bicchiere alle labbra. Mentre beveva le
dita di lei si chiusero intorno a quelle del figlio; entrambi avvertirono
un brivido di freddo, nonostante l’intenso calore che l’impianto di
riscaldamento diffondeva nella stanza. Poi, lei cominciò a respirare
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con affanno e artigliò la camicia di Steve, cercando disperatamente
di fare entrare aria nei polmoni. E Steve non esitò a chiamare l’ambulanza. Per lo meno le autorità sarebbero state in grado di fare
qualcosa per lei dove lui aveva fallito.
Capitolo sessantuno
C’era parecchia differenza tra la Juliet Miller di venerdì sera,
prima della visita di Steve, e quella di sabato mattina, dopo che Steve
se ne era andato. Tra i suoi vari attacchi di nausea, Juliet era avvolta
in una soffice bolla di amore. Emerse dalla sua stanza da letto, stiracchiandosi e fluttuando come il personaggio di un film con Rock
Hudson e Doris Day.
«Buongiorno, Floz. Puoi smetterla di preoccuparti per me adesso
perché sono al settimo cielo», disse Juliet, notando che la sua coinquilina stava svuotando la lavastoviglie in cucina.
«Buongiorno», rispose Floz, mentre svolazzava indaffarata, preparando il caffè e inserendo il pane nel tostapane, in modo che Juliet
non si accorgesse di quanto sembrasse sconvolta. La testa le martellava intensamente. Il brandy l’aveva stordita, ma bisognava
pagare un prezzo per avere un tale privilegio. «State bene
entrambi?»
«Steve è andato da sua madre per controllare come sta. Non ha
voluto che andassi con lui. So che è un’alcolizzata e posso immaginarmi lo stato in cui si trova, eppure… sarà la nonna del mio bambino.
Dovrei incontrarla dopo tutti questi anni».
«Non l’hai mai vista?», chiese Floz.
«Mai», rispose Juliet.
«Povero Steve», disse Floz. «Come mai sua madre si è ridotta in
quello stato?»
«Non ne ha mai parlato», disse Juliet, apprezzando proprio in
quel momento il fatto che Steve non avesse mai giocato la carta del
“povero me”, cosa che avrebbe potuto fare se fosse stato davvero
egocentrico. «Una volta Guy mi ha detto che anche lei veniva da una
famiglia di alcolizzati. Immagino che abbia semplicemente imboccato la strada che già conosceva. Alcune persone non combattono
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con sufficiente forza, vero? Accettano semplicemente il cammino che
possono percorrere facendo il minimo sforzo».
Floz annuì. Un’immagine di Chris, il suo ex marito, le attraversò
per un istante la mente. Avevano avuto così tanta pressione su di
loro quando si erano sposati. Dormiva forse meglio in una cella della
polizia con lo stomaco pieno di birra più di quanto avesse mai fatto
quando era sobrio e carico di responsabilità? L’alcol era davvero un
perfido redentore?
«Quando torna, comunicheremo la notizia a mia madre e mio
padre. Non riesco a immaginare cosa penseranno. Avranno molte
notizie da assimilare». Juliet afferrò il Gaviscon e bevve attaccandosi
al collo della bottiglia. Prima di quel momento, non aveva mai avuto
bruciore di stomaco. Era davvero uno degli effetti collaterali della
gravidanza più atroci.
«Saranno elettrizzati», disse Floz, mentre si girava verso il frigorifero, per dare poche opportunità a Juliet di vederla con gli occhi
gonfi.
Juliet proruppe in una sciocca risatina: «Io e Steve Feast! Avremo
un bambino! Cacchio, questa non me la sarei mai aspettata. A
pranzo ho un appuntamento con Coco per svelargli la bella novità.
Vuoi venire?»
«No, grazie. Passerò la giornata a scrivere biglietti per la festa del
papà», rispose Floz.
«Cade a pennello», rise Juliet, e poi sparì in bagno.
Capitolo sessantadue
Steve si sedette vicino al letto di sua madre. Con un camice da ospedale, sembrava pulita come non l’aveva mai vista. Era priva di
sensi e proprio per quel motivo lui riusciva a prenderle la mano
senza che lei la ritraesse.
Pensò di non esserle mai piaciuto. Non si ricordava nemmeno che
lei gli avesse mai detto di volergli bene o che gli avesse mai dato un
bacio. O di averla tenuta per mano, nonostante lui avesse desiderato
ardentemente che lei lo accompagnasse a scuola come facevano le
mamme di tutti gli altri bambini.
Le accarezzò le nocche ruvide e fletté le dite di lei intorno alle sue,
fingendo di stringerle la mano. Sapeva che cercare di ottenere un po’
di amore da lei era patetico, poiché sua madre non aveva affetto da
dargli.
«Mamma, diventerò padre», le ripeté Steve, nella speranza che
questa volta lo sentisse. «Diventerai nonna. Scommetto che ti piace
l’idea, non è così? Scommetto che ti farà tornare a star bene e ti darà
uno scopo per cui vivere».
Sapeva che quando il bambino sarebbe arrivato lui l’avrebbe sommerso di coccole, lo avrebbe accompagnato a scuola e gli avrebbe
regalato i ricordi di un genitore dalle grandi mani affettuose che lo
tenevano stretto perché era importante. Si dice che non ti può mancare qualcosa che non hai mai avuto, eppure Steve Feast non era
d’accordo, perché, a causa di tutto l’affetto che gli era mancato, avvertiva dentro di sé un dolore lancinante. Era andato a letto con tantissime donne nella speranza di trovare un po’ di calore, anche se
solo per poco tempo. E così era stato, ma quel calore non era paragonabile all’affetto di una madre che lo accompagnava a scuola la
mattina, prendendolo per mano.
Ma Juliet Miller era diversa. Con lei avrebbe potuto quasi dimenticare quanto era stato squallido e freddo il suo passato. I
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sentimenti che lei nutriva per lui erano onesti e lui amava il modo
possessivo in cui le braccia di lei lo cingevano, persino nel sonno.
Voleva trascorrere il resto della sua vita con quella donna, farla diventare sua moglie, dare il suo cognome e una casa al bambino che
portava in grembo.
Steve strinse la mano flaccida di sua madre, poi in un’improvvisa
esplosione di consapevolezza lei la ritrasse. Dopodiché il suo petto si
arrestò e i macchinari iniziarono a suonare, le infermiere accorsero
e, ancora una volta, lui fu spinto via da lei.
Telefonò a Guy alle quattro. Non chiamò Juliet perché non voleva
che andasse in ospedale nelle sue condizioni, che stesse a contatto
con la morte. Voleva prendersi cura della sua donna, non che fosse
lei a doversi prendere cura di lui.
Quando Guy arrivò in ospedale, la signora Feast se ne era già andata. Non avrebbe mai visto i suoi nipoti, non sarebbe mai più tornata a star bene. Steve singhiozzò sulla spalla di Guy, così come Guy
aveva singhiozzato in passato sulla sua; desiderava solo portare indietro l’orologio per eliminare il dolore, curare sua madre e farla sentire felice, visto che lei non riusciva a trovare da sola la strada per la
serenità.
Capitolo sessantatré
Caro Chas,
mi dispiace terribilmente disturbarti. In una delle sue lettere Nick mi aveva
detto che avrebbe dato disposizioni a sua sorella di inviarmi una sua foto. Ne ho alcune di lui quando era un ragazzino ma, purtroppo, non ho conservato quelle dove
era adulto. Credi che, quando il momento sarà adeguato, potrai chiederle ciò da
parte mia? Penso veramente tanto a lui, mi aiuterebbe a sfogarmi per la sua perdita, e ne ho davvero bisogno.
Distinti saluti,
Floz Cherrydale
Floz,
vedrò quello che posso fare per te.Vivo a Calgary ma andrò a Okanagan all’inizio del prossimo anno e lo menzionerò.Farò del mio meglio affinché te ne inviino alcune. Non preoccuparti di disturbare.
Il primo fine settimana di ottobre uscirò a fare un giro con la mia barca e
passerò il giorno a bighellonare e a ricordare Nick.Un paio di anni fa mi ha insegnato come si pescano i salmoni.Ne prenderò alcuni per lui.
Chas
Capitolo sessantaquattro
Perry e Grainne restarono assolutamente estasiati per la notizia
del bambino, anche se furono un po’ sconvolti di scoprire che Steve
era il padre e che lui e Juliet stavano portando avanti una «storia
d’amore segreta», come lei aveva deciso di ribattezzarla, al posto di
«festa del sesso».
Tuttavia, quelli furono dei giorni confusi, con una così bella notizia da festeggiare nel mezzo di un momento molto triste per Steve.
Il lunedì sera Juliet si svegliò e trovò Steve seduto nell’angolo del
letto, intento a osservare una vecchia foto di sua madre che risaliva a
quando era molto più giovane. Si era messa in posa per la macchina
fotografica in un giardino sommerso dalla vegetazione, in compagnia
del figlio. Steve teneva in alto la mano affinché lei gliela prendesse;
le mani della signora Feast erano congiunte davanti a lei.
«Ehi», disse Juliet, abbracciandolo da dietro. «Vieni a dormire».
«Avrei dovuto fare di più per aiutarla». Steve tirò su col naso.
«Avrei dovuto costringerla ad andare in un centro di riabilitazione».
«Non ci sarebbe andata, amore. Se non ci sei riuscito tu, nessuno
ce l’avrebbe mai fatta».
«Per piacere, domani non venire al funerale con me», sussurrò
Steve. «Ho detto a Guy che voglio dirle addio da solo».
«Invece verrò, accidenti», disse Juliet. «Non potrei mai lasciarti
ad affrontare tutto questo da solo».
«Sarà deprimente».
«È un funerale. Non mi aspetto che ci siano dei pagliacci».
A Steve venne inaspettatamente da ridere, per cui si arrese. «Grazie», disse.
«Non devi ringraziarmi», puntualizzò Juliet, baciandolo sulla
guancia paffuta.
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«Mi hai dato la speranza», disse Steve teneramente. «Mi stai
dando tutto quello che volevo dalla vita. Vorrei soltanto che anche
Guy fosse così fortunato».
Juliet annuì appoggiandosi alla sua spalla. Se anche suo fratello –
e l’adorabile Floz – avessero trovato qualcuno da amare, come lei e
Steve avevano fatto, sarebbe stata davvero la donna più felice del
mondo.
Capitolo sessantacinque
Dopo il funerale, Steve guidò fino a casa di sua madre. Non voleva
entrare, desiderava semplicemente dare un’ultima occhiata all’edificio. Non ne conosceva il motivo, ma sapeva solo che quello era il momento giusto per mostrare a Juliet il luogo da cui veniva, da cui era
scappato e in cui lei e il loro bambino non sarebbero mai finiti.
Mentre parcheggiava la macchina, riuscì a stento a credere ai suoi
occhi quando vide che la recinzione di Sarah era sfondata e che
c’erano dei solchi di ruote sul prato. Il cesto sospeso da pallacanestro
era stato staccato e capovolto e Sarah stava raccogliendo la terra con
la scopa, facendo delle pause per asciugarsi le lacrime con il dorso
della mano.
«Che cosa diavolo è successo?», chiese Steve, schizzando fuori
dall’auto.
«Oh ciao, Steve. È andato tutto bene, caro? Mi dispiace di non essere riuscita a venire. Non ho osato lasciare la casa… temevo che loro
tornassero».
Steve non rispose alla domanda, piuttosto gliene fece una a sua
volta: «Qualora tornasse chi, Sarah? Che cosa ti è suc-cesso?».
Poi il piccolo Denny apparve sullo sfondo: aveva il labbro inferiore gonfio e un occhio nero che teneva chiuso.
«È ancora colpa del figlio di Artie Paget?».
La forte e tranquilla Sarah sembrava affranta mentre scrollava le
spalle.
«Va bene», disse Steve, traendo un profondo e sinistro respiro.
Juliet stava uscendo dalla macchina.
«Resta dentro, amore», fece Steve a denti stretti, mentre tornava
marciando verso il posto del guidatore.
«Qualsiasi cosa tu stia pensando, non farla», lo implorò Sarah.
«Risolverò questa faccenda. Non preoccuparti. Una volta per
tutte, questa storia finirà», disse Steve. Si ricordò dell’indirizzo che
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Sarah gli aveva dato l’ultima volta che era stato lì. In ogni caso,
sarebbe stato facile individuare dove viveva Artie Paget. La sua casa
aveva un’enorme antenna parabolica fissata alla parete e una Jaguar
d’epoca parcheggiata fuori. Inoltre, attraverso la finestra, Steve poteva scorgere in salotto il più grande televisore del mondo.
«Juliet, non uscire dalla macchina, tesoro. Promettimi che starai
qui seduta. Ricordati che stai aspettando un bambino», disse Steve.
E, per una volta, Juliet Miller fece come le era stato detto.
Steve martellò alla porta di Artie Paget con il suo pugno potente.
E tornò a martellare quando non ottenne risposta, visto che era
sicuro che ci fosse qualcuno in casa.
Venne alla porta un piccolo bambino presuntuoso, con dei capelli
piuttosto lunghi e delle scarpe da ginnastica che costavano più degli
arredi della casa della madre di Steve. Era alto come un ragazzino di
dieci anni, ma aveva gli occhi duri di un adulto che ha imparato ad
arrangiarsi per strada.
«Va bene, va bene», disse. «Chi sei?»
«Tu devi essere Tommy», disse Steve, tenendo sotto stretto controllo la rabbia – per il momento.
«Chi è che lo vuole sapere?»
«Voglio parlare con tuo padre».
«Perché?»
«Non ti deve interessare il motivo, chiedigli semplicemente se,
per piacere, può uscire subito».
Una coppia di vicini era apparsa sulla soglia e qualche tenda si era
mossa mentre Steve guardava Tommy Paget che indietreggiava
lentamente in casa e chiudeva la porta con calma dietro di sé. Steve
non era particolarmente paziente e quando Artie Paget non si materializzò immediatamente, il suo pugno si abbatté di nuovo sulla porta,
questa volta più violento.
Steve stava per martellare ancora quando l’uscio si aprì e, lì in
piedi, apparve il robusto e ripugnante Artie Paget, con la sua abbronzatura, i capelli tinti di un biondo banana e un incisivo d’oro.
Steve sapeva che Artie aveva la reputazione di un duro, poiché
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sollevava un po’ di pesi in palestra, fumava un grosso sigaro e si
pavoneggiava in giro indossando un completo di Crombie, la famosa
griffe britannica. Steve sapeva anche che era uno zimbello agli occhi
dei veri gangster a cui aspirava assomigliare. Artie Paget: padre del
piccolo idiota che senza dubbio aveva fornito veleno a Christine
Feast, facendone un’attività lucrativa. Artie Paget: capo della banda
della scuola che aveva diffuso il nomignolo di “Steve lo Sciatto”.
«Chi cazzo sei?», ringhiò Artie.
«Sono qui per tuo figlio, Tommy», disse Steve, omettendo le
presentazioni formali. «Sta dando fastidio ad alcuni miei amici con
le sue “buffonate da ragazzino”».
«Cacchio, sei proprio “Steve lo Sciatto”». Le labbra di Artie si tirarono in un sorriso sgradevole prima di ammosciarsi e tornare al
solito broncio accigliato. «Vaffanculo!», affermò sogghignando e poi
tentò di chiudere la porta, non aspettandosi che questa sarebbe stata
riaperta con un calcio.
«Come dicevo, si tratta di Tommy».
Tommy era in piedi dietro suo padre, a braccia conserte, con la
testa inclinata secondo un’angolatura caparbia e un sorrisetto
compiaciuto e sicuro di sé stampato su quel suo viso da ragazzino
sbruffone.
«Che cazzo! Steve lo Sciatto cerca di dirmi che cosa devo fare?
Tutto ciò è maledettamente divertente! Come sta quell’ubriacona di
tua madre di questi ultimi tempi? Non ha ancora imparato come si
apre il rubinetto della vasca?», rise Artie, mentre un’ondata di ricordi allettanti della sua infanzia gli risaliva in fretta alla mente.
«Faresti meglio a dire a tuo figlio di smetterla di comportarsi da
bullo con i bambini a scuola e di non distruggere le proprietà degli
altri», disse Steve, mentre la mascella gli si contraeva al sentir nominare sua madre. Ma frenò la sua rabbia, per il bene di Sarah.
«O cosa? Gli farai il culo, Sciatto?», lo prese in giro Artie.
«No, lo farò a te», disse Steve, controllandosi le unghie con aria
indifferente.
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Artie Paget, consapevole di avere molti occhi puntati addosso,
proruppe in una risatina presuntuosa, mise una mano nella tasca dei
pantaloni e fece per tornare dentro. Poi, senza preavviso, si girò e
sferrò un pugno verso il naso di Steve. Indossava alla mano un brutale tirapugni di ottone, che avrebbe spiaccicato il naso di Steve contro il viso, se solo l’avesse toccato. Tuttavia, Steve aveva fatto molti
allenamenti di box ai suoi tempi, oltre che di wrestling, e tra le altre
cose sapeva “volare come una farfalla”.
Mentre Artie Paget si sbilanciava in avanti, il pugno di Steve partì
da sotto in un montante eseguito con perizia. Il pugno racchiudeva
in sé anni di dolore e nostalgia, frustrazione, sofferenza e lacrime. In
tutta Wakefiled poterono udire la mandibola di Artie spezzarsi.
Artie Paget rimase disteso a terra, frignando come un bambino.
Non si sarebbe potuto riprendere da un pugno del genere, e nemmeno lo desiderava perché sapeva che ce ne sarebbero stati tanti altri a seguire. Steve non si era nemmeno scomposto.
«Tu… bastardo!», fu tutto ciò che Artie riuscì a dire, mentre cercava di recuperare un minimo di dignità, emettendo una serie di rumori simili a ringhi, ma non volendo allo stesso tempo fornire altre
ragioni a Steve per tornare a picchiarlo. Del sangue gli colò tra le
dita.
«E la sai una cosa, Paget, ogni volta che Tommy oserà anche solo
guardare Denny o la casa di sua madre, tornerò e ti pesterò. Mi hai
capito? Te lo sei ficcato in quel tuo cervellino? Perché ciò che ti sto
dicendo è molto semplice. Occupati di tuo figlio, oppure io mi occuperò di te. E continuerò a farlo finché non la smetterà».
Artie annuì in modo riluttante.
«È un sì quello?», insistette Steve.
«Ho detto sì, va bene», grugnì Artie, sputando sangue mentre
rispondeva.
«Bene», disse Steve, e poi si lisciò il competo nero. «Grazie».
A giudicare dai deboli applausi che ricevette da alcune delle case
dei vicini, suppose che Artie Paget non fosse l’uomo più benvoluto
del quartiere. Steve aprì la portiera della macchina, si infilò dentro e
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si allacciò la cintura, consapevole per tutto il tempo del fatto che
Juliet lo stava guardando intensamente.
«Cosa c’è?», domandò lui.
«Non sei uno che minaccia soltanto, vero?», disse lei, completamente esterrefatta. «Sei davvero bravo a fare a pugni».
«Certo che sono bravo a fare a pugni, donna. Sono un dannato
lottatore di wrestling».
«Ma io credevo che fosse tutto finto. Credevo che in fin dei conti
foste tutti dei rammolliti».
«Be’, allora ti sbagliavi, no?», sbuffò lui.
Steve era una grossa palla di testosterone in un completo nero
veramente elegante e si sarebbe avvalso di tutto ciò una volta arrivato agli uffici comunali delle case popolari, verso cui si stava dirigendo e da dove non se ne sarebbe andato finché qualcuno non gli
avesse assicurato che Sarah e Danny sarebbero stati trasferiti fuori
da Ketherwood prima che l’autunno fosse finito. Quell’anno Babbo
Natale sarebbe arrivato prima per loro.
Capitolo sessantasei
Caro Chas,
scusami se ti disturbo ancora, questa è davvero l’ultima volta, ma mi chiedevo
se mi potessi dire quando era il compleanno di Nick, in modo che possa commemorarlo. Spero tu stia bene. Mi manca tanto parlare con lui.
Floz
Floz,
il compleanno di Nick era il quattordici aprile.
Chas
Quando Floz ricevette l’e-mail di Chas rimase confusa. Era certa,
per via delle precedenti conversazioni che aveva sostenuto con Nick,
che il suo compleanno fosse in autunno. Si ricordò di quando aveva
condiviso con lei il ricordo di un compleanno festeggiato in un qualche bellissimo giardino. Aveva ancora l’indirizzo salvato tra i suoi siti
preferiti: i giardini Butchart a Victoria. Era a circa 4800 chilometri e
due ore di viaggio in traghetto da dove lui viveva quando era
bambino. Le aveva detto che non gli era permesso rincorrere gli scoiattoli, raccogliere fiori o giocare nel fango. «Insomma non era un
paradiso per un bambino di sei anni che si aspettava una torta e una
festa». Era certa di quel che lui le aveva detto. E quindi era quasi altrettanto sicura che il suo compleanno fosse all’inizio di ottobre.
Era probabile che Chas si fosse sbagliato? Non molto, dato che lui
e Nick erano amici d’infanzia. Cercò Nick Vermeer su Google, poi la
data della sua morte, la data del suo compleanno e il monte Robson,
ma non trovò nulla. Non c’era né un necrologio online, cosa che si
sarebbe aspettata di trovare, né una pagina di condoglianze su Facebook aperta dai suoi amici e dalla sua famiglia, o dai suoi ex compagni dell’esercito. Sapeva che il suo lavoro, come promettente ingegnere presso gli impianti di trivellazione, avrebbe dovuto fornire
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qualche risultato, ma non trovò nulla. Non c’era una sola parola in
tutta la rete riguardo a un uomo chiamato Nick Vermeer.
Capitolo sessantasette
Quando le arrivò la proposta di matrimonio, Juliet non era in
cima alla torre Eiffel come aveva a lungo fantasticato, ma in un’economica friggitoria lungo la strada, il giorno successivo al funerale
della signora Feast.
Juliet aveva proposto a Steve di camminare fino in città e andare
a vedere un film. Sapeva che lui adorava il cinema e pensava che lo
avrebbe tirato su di morale. Dopo il film, andarono in un pub nelle
vicinanze per bere qualcosa – una limonata nel caso di Juliet, un
paio di vodka doppie per Steve. Tornarono sempre a piedi, giacché
era una serata fresca e piacevole, con un cielo pieno di stelle. Delle
secche foglie marroni si stavano rincorrendo freneticamente lungo la
strada, impazienti, e non attesero che l’omino verde segnalasse loro
quale fosse il momento sicuro per attraversare. Dalla parte opposta
della friggitoria c’era un parco giochi, e alcuni bambini – fuori a
un’ora troppo tarda per loro – stavano lanciando in alto dei bastoncini verso gli alberi di castagno, nel tentativo di fare cadere qualche
riccio. Le braccia di Steve avvolsero Juliet e lei assaporò quella
sensazione. Decisero di ordinare qualcosa da Cod Almighty, che si
trovava appena svoltato l’angolo in Blackberry Court.
«Due porzioni di fish and chips, due vaschette di piselli e due focaccine dolci», disse Juliet, veramente affamata per la prima volta da
secoli.
Steve inspirò e il suo stomaco borbottò in segno di apprezzamento. Erano giorni che anche lui non mangiava degnamente, e pertanto i due bicchieri di vodka che aveva bevuto al pub gli erano saliti
alla testa, facendolo sentire un po’ sballato. Ne dedusse di aver
bevuto abbastanza.
Guardò Juliet e stentò a credere che fosse sua. Era una ragazza di
una tenacia formidabile, anche ai tempi della scuola. Quando
pensava a lei, si sentiva invadere dal calore e dall’affetto. Cribbio,
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quella donna lo aveva trasformato in un ragazzino melenso. Con lei
resisteva più che quando aveva vent’anni con le altre ragazze. E una
volta appagato l’aspetto sessuale, coccolarsi e dormire insieme era
altrettanto magnifico. Così come svegliarsi e vedere il sorriso di lei
che si illuminava quando lui le portava una tazza di tè. O sguazzare
insieme nella vasca, sebbene stessero un po’ stretti – lui le attorcigliava le gambe intorno e le strofinava il viso sul collo. O parlare
con lei, ridere con lei, discutere verbalmente, e fisicamente, con lei.
Esibì un largo sorriso e sentì che era il momento giusto per proferire
quelle parole.
«Juliet Miller, mi vuoi sposare?».
In quello stesso istante, la commessa chiese: «Volete anche il sale
e l’aceto?».
Juliet si immobilizzò, di fatto ogni cosa sembrò immobilizzarsi.
Fatta eccezione per Steve, che barcollava leggermente a causa dell’effetto della vodka, la friggitoria sembrava una natura morta. Mancavano solo dei grappoli d’uva e un vaso sullo sfondo. Juliet era talmente sotto shock che gli diede la risposta che avrebbe dovuto indirizzare all’attonita commessa.
«Ehm… no grazie», disse Juliet.
«Fa lo stesso, allora», disse Steve.
«Mi riferivo al sale e all’aceto. Che cosa hai appena detto, Steve?»,
chiese Juliet. Aveva davvero appena udito quello che credeva? Si
sentì vagamente stordita.
«Ho detto: “Mi vuoi sposare?”».
«Oh», disse Juliet. «Allora ho sentito bene».
«Quindi?». Steve andò a sbattere contro il bancone.
«Perché non me lo chiedi domattina quando sei sobrio?», disse
Juliet, ansimando. Era una domanda troppo importante e sapeva
che lui non era del tutto lucido.
«Va bene», disse lui.
Steve pagò per il cibo d’asporto e camminarono in silenzio verso
casa.
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Il resto della serata fu paragonabile a una foschia indistinta. Nessuno dei due tornò a menzionare la proposta, sebbene la mente di
Juliet la stesse ripetendo all’infinito. Una volta giunti a casa, né
Steve né Juliet riuscirono a mangiare granché. A un certo punto, lui
menzionò addirittura il meteo. Quando andarono a letto, si diedero
il bacio della buonanotte, poi si misero entrambi a fissare il buio,
chiedendosi che cosa avrebbe portato loro il mattino, senza accorgersi che anche l’altro stava facendo la stessa identica cosa.
Capitolo sessantotto
Quando Juliet aprì gli occhi, Steve si era già svegliato da almeno
un’ora, ed era rimasto lì disteso, con il braccio sul cuscino, sotto la
testa di lei. Juliet si ricordò all’istante della proposta e deglutì con
forza.
«Buongiorno», disse lei sbadigliando, senza osare guardarlo. I
suoi nervi erano già ridotti a pezzi.
«Buongiorno», rispose lui.
Affermare che il silenzio che seguì fu un po’ imbarazzante sarebbe
come dire che il sole era un po’ caldo.
Tutti e due restarono distesi supini, a fissare la lampadi-na,
mentre i loro cuori correvano come dei levrieri a caccia di lepri.
«Ti ricordi che cosa ho detto ieri sera?», chiese infine Steve.
«Sì», disse Juliet in un sussurro.
«Oh al diavolo, vorrei che tu non avessi risposto così», si lamentò
Steve.
Floz fu svegliata da alcuni schianti che provenivano dal salotto.
Si precipitò fuori dalla sua camera, aspettandosi di vedere il ladro
più rumoroso del mondo, ma trovò invece Steve rannicchiato dietro
il divano e Juliet che gli stava scagliando addosso delle scarpe come
fossero missili.
«Bastardo!», stava urlando lei.
«Juliet, ascoltami!».
Steve fece capolino oltre la spalliera, per cercare di spiegarsi, poi
la ricacciò dietro, per nascondersi, mentre Juliet gli scagliava contro
una scarpa col tacco.
«Che cosa diamine sta succedendo?», urlò Floz.
«Mi dispiace se ti abbiamo svegliato, Floz, ma questo… questo
porco mi ha fatto una proposta di matrimonio e poi l’ha ritirata».
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«Ahi!», disse Steve mentre una grossa scarpa Crocs rossa
centrava il bersaglio, colpendolo in testa. «Floz, falla smettere. Lascia che ti spieghi, Ju. Io non l’ho ritirata. Juliet, dammi dieci secondi
di tregua!».
Ma Juliet non era dell’umore giusto per ascoltarlo e gli lanciò uno
stivale a mo’ di granata.
«A ogni modo, non sei uno da sposare. Non ti sposerei neanche se
fossi l’ultimo…».
Floz si gettò su Juliet mentre lei raccoglieva una scarpa con un
tacco a spillo di dodici centimetri.
«Basta!», le urlò. «Così lo ucciderai!».
«Appunto», ribatté Juliet.
«Ju, per piacere, ascolta», disse Steve, sventolando un fazzoletto
bianco in segno di resa.
«Smettila, prima di far male al bambino», insistette Floz, decisa a
non lasciare andare il braccio di Juliet. Juliet stava ansimando per lo
sforzo, tuttavia le parole di Floz ebbero l’effetto desiderato.
Sì, il suo bambino era in ascolto; doveva calmarsi.
«Hai dieci secondi, testa di minchia», disse Juliet, formando l’ultima parola con le labbra in modo che il suo bambino non la udisse.
Steve trovò il coraggio di alzarsi e spuntò a mezzo busto da dietro
il divano.
«Non volevo che ti ricordassi che avevo fatto la proposta…», Steve
vide la bocca di Juliet che tornava a fare una smorfia scoprendo i
denti, per cui continuò in fretta, «perché non avrei dovuto farlo in
una friggitoria del cacchio. Speravo che te ne fossi dimenticata soltanto perché, se così fosse stato, avrei potuto portarti in qualche
posto carino e farti una proposta come si deve, vicino a un fiume o
davanti a un bicchiere di champagne, mi sarei inginocchiato e ti
avrei dato un anello. Non davanti a una donna che ci chiedeva se volessimo del sale e dell’aceto sul nostro dannatissimo merluzzo!».
Juliet deglutì. «Oh», fu tutto ciò che riuscì a pronunciare in
risposta.
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«È questo che volevo dire», disse Steve. Si alzò in piedi mentre la
presa di Juliet sulla scarpa si allentava, e questa le cadeva di mano.
«Allora?», disse Floz, a braccia conserte. «Quell’uomo merita
delle scuse».
«Mi dispiace», disse Juliet. Sentì il suo stomaco ridursi in
poltiglia. Nei romanzi, aveva letto di uomini capaci di tanta
tenerezza, ma non pensava che lei ne avrebbe mai beneficiato. Rimase nuovamente impressionata dai modi rispettosi e amorevoli di
Steve.
«Juliet, so che abbiamo appena iniziato a uscire insieme, ma ci
conosciamo da una vita. Voglio che il bambino nasca come figlio del
signore e della signora Feast…».
«Oh, Steve».
«E se tra noi non funzionerà, di questi ultimi tempi divorziare
non è poi così complicato…».
Floz alzò una mano. «Shh! Smettila finché sei ancora in tempo,
Steven».
Steve seguì il consiglio di Floz e non terminò la frase, ma ne iniziò
una nuova: «Voglio solo sposarti, Ju. E voglio sposarti in fretta».
«Non mi serve dello champagne o uno scenario sofisticato, Steve.
Così va benissimo, grazie», disse Juliet: d’altronde una bottiglia di
spumante o una grande luna fuori dalla finestra non avrebbero potuto farla sentire ancora più sdolcinata e melensa di quanto non si
sentisse già in quel momento.
Steve protese le braccia e Juliet scivolò nel suo abbraccio.
«Dopo il lavoro andremo a scegliere un anello, ti va?».
Floz prese il suo cappotto e l’ombrello e lasciò l’appartamento,
così da concedere loro un po’ d’intimità. Si sentiva confusa e a un
passo dal crollo.
Le nuvole erano pesanti e grigie, ma la brezza era troppo forte
perché lei riuscisse a tenere alto l’ombrello. Non importava. Desiderava che il vento impetuoso la travolgesse e spazzasse via tutti i suoi
pensieri, l’uno dopo l’altro. Una frizzante passeggiata autunnale
sotto la pioggia era esattamente ciò di cui aveva bisogno.
Ottobre
A me pare che la gioventù sia come la primavera, stagione troppo elogiata […] e in genere memorabile più per venti maligni che per dolci brezze.
L’autunno è la più dolce stagione, e la mancanza dei fiori è più che compensata dai frutti.
Samuel Butler, Così muore la carne
Capitolo sessantanove
Questa volta Guy era determinato a fare le cose per bene. La festa
che si sarebbe tenuta la sera successiva al fidanzamento ufficiale –
ovvero non quello avvenuto in friggitoria – avrebbe lasciato tutti a
bocca aperta, specialmente Floz. Il pavimento della cucina di sua
madre e suo padre avrebbe avuto bisogno di essere rinforzato, considerando quanto cibo aveva in mente di cucinare. La cena di Natale
della regina, al confronto sarebbe stata un Happy Meal del McDonald’s.
Perry e Grainne erano ancora in uno stato di estasi per via del
bambino in arrivo e per la notizia, data loro quella mattina, che
Juliet e Steve si sarebbero sposati il giorno del compleanno di Juliet,
ovvero il cinque novembre. Erano preoccupati che stessero facendo
tutto un po’ troppo in fretta, ma poi si ricordarono che anche loro si
erano incontrati e sposati nel giro di quattro mesi. Il parroco locale
di Maltstone, il reverendo Glossop – altrimenti conosciuto come il
reverendo Gossip, per l’assidua propensione al pettegolezzo – aveva
ricevuto una cancellazione proprio per quel giorno. Dovevano scegliere tra quella data e il quattro marzo e, visto che quest’ultima corrispondeva all’anniversario del primo matrimonio di Juliet, sposarsi
in quel giorno era assolutamente fuori discussione. Tutti concordavano sul fatto che, come data di matrimonio, oltre che di compleanno, la sera del cinque novembre – ossia la serata dei falò in
commemorazione della congiura delle polveri – si addicesse perfettamente a Juliet.
Guy aveva telefonato a sua sorella per accertarsi che Floz non
avesse nessun’altra allergia alimentare, oltre quella alle fragole, poiché non voleva correre alcun rischio. Fortunatamente, non ne aveva.
Come antipasto, avrebbe preparato la spigola, la sua specialità, un
trionfo di vari tipi di carne come portata principale e un tris di dolci
al cioccolato per dessert. Grazie a quel menu, avrebbe solleticato i
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suoi sensi. L’avrebbe sedotta con il cibo: Floz sarebbe stata come
creta nelle sue mani.
Floz era seduta da sola nell’appartamento e trovava difficile concentrarsi sull’incarico di quel giorno: delle poesie in merito alle “congratulazioni per la tua gravidanza”. Osservò le immagini che Lee
Status le aveva inviato per e-mail affinché lei le accoppiasse ai testi.
Il disegnatore aveva realizzato delle immagini favolose di donne in
stato di estasi con grandi pance rotonde. Floz pensò alla pancia di
Juliet che cresceva ogni giorno di più, a come avrebbe premuto con
orgoglio contro i suoi vestiti, a come sarebbe cambiato il suo modo di
camminare, a come avrebbe posato la mano sul suo addome per sentire il bambino che si agitava dentro di lei. Si immaginò Juliet e
Steve distesi a letto, incantati a osservare la pancia di lei che si
muoveva, mentre il bambino si agitava lì dentro, dimenandosi per
trovare una posizione comoda. Pensò a Juliet addormentata su una
sedia a dondolo, mentre il suo respiro calmo e delicato cullava il
bambino affinché dormisse insieme a lei. Sarebbe sembrata
bellissima.
Tuttavia, Floz inviò un’e-mail a Lee Status e gli mentì dicendo che
aveva dei disturbi di stomaco e che non sarebbe stata in grado di
portare a termine quell’incarico. Poi si rannicchiò a letto e cercò di
non pensare, così da riuscire a dormire, ma dopo un’ora circa si
arrese.
Si alzò e sentì il suono che le indicava l’arrivo di un’e-mail. Chas
Hanson le aveva mandato una lettera. Se fosse stata in una busta,
l’avrebbe aperta strappandola.
Floz,
ti scrivo soltanto per accertarmi che sia tutto a posto. Ricordati che la soffirenza, dopo un certo tempo,supera il picco più alto, lasciando in regalo tanti bei
ricordi. Ho semplicemente pensato che queste mie parole potessero darti conforto.
Chas
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Floz lesse l’e-mail più e più volte. Non sapeva se ciò fosse vero; alcune sofferenze si depositavano nel suo cuore e non raggiungevano
mai il loro acme, bisognava solo imparare a conviverci. Tuttavia,
Chas era stato gentile a inviarle quel messaggio, nel tentativo di confortarla. Sembravano delle parole che avrebbe potuto dire Nick.
Steve fu il primo ad arrivare a casa dei Miller. Aveva appena ritirato la sua macchina nuova. Alla luce delle circostanze, aveva venduto
la sua Volvo per una monovolume a sette posti con un grande bagagliaio, dei sedili comodi e un’infinità di dispositivi di sicurezza: la
macchina ideale per una famiglia. Si allontanò dal benzinaio immaginando il seggiolino del bambino sul sedile posteriore e Juliet con
un anello al dito seduta accanto a lui, probabilmente impegnata a insegnargli il modo corretto di guidare. Era un’emozione molto più intensa di quella che un motore di quattromila di cilindrata a iniezione
avrebbe mai potuto dargli.
Coco arrivò subito dopo, in taxi; si esibì in una stravagante entrata, mandando baci a destra e a manca, e restò esterrefatto quando
vide l’anello di fidanzamento di Juliet, con tanto di diamante solitario. Era da solo perché, a quanto pareva, Gideon era troppo timido
per conoscere tutta la famiglia in una volta sola.
«Sei certo che esista?», lo prese in giro Steve. «Non l’ha ancora
visto nessuno».
«Guarda». Coco armeggiò per un attimo con il suo cellulare, poi
lo ficcò sotto al naso di Steve. «Ecco una foto di noi due insieme».
L’immagine era però sfocata e scura. Tutto ciò che Steve riuscì a intuire fu che si trattava di due teste maschili accostate.
«Potrebbe essere chiunque», obiettò.
«Be’, non è così. Siamo Gideon e io, per cui taci», disse Coco
stizzito.
«Champagne, Raymond?», chiese Grainne, porgendogli una
lunga flûte di spumante rosé.
«Se devo». Coco sospirò con fare drammatico. C’erano soltanto
tre persone che avevano l’autorizzazione a chiamarlo Raymond in
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sua presenza: i signori Miller e sua nonna. Tuttavia, ultimamente
sua nonna era un po’ invecchiata e si rivolgeva più di sovente a lui
chiamandolo Brenda.
«Merda!». L’esclamazione proveniente dalla cucina fu accompagnata da un clangore di pentole che precipitavano al suolo.
«Tutto a posto in cambusa?», gridò Perry, fremendo di gioia
mentre lo champagne gli scendeva gelido giù per la gola.
«A posto, papà», rispose Guy, pur non convincendo nessuno.
«Vuoi che ti aiuti, tesoro?», chiese Grainne.
«No, no, no», urlarono tutti in segno di protesta.
Qualcuno suonò al campanello e Guy ebbe un tuffo al cuore.
Dovevano essere arrivate Floz e Juliet. Si diede una controllata veloce al minuscolo specchio appeso alla parete della cucina. Dopodiché uscì. «Ciao», disse. Floz non c’era, vide soltanto sua sorella.
«Floz non viene?», sbraitò ansioso.
«Sta parcheggiando la macchina», disse Juliet. «La lasceremo qui
e la passeremo a prendere domani. Oh ciao, Juliet, è bello vederti,
Juliet!», aggiunse in tono sarcastico.
«È bello vederti, Juliet», disse Guy, tirando un grosso sospiro di
sollievo prima di ritornare in cucina.
«Che cos’ha?», chiese Juliet a Steve, indicando la schiena del fratello che stava scomparendo dalla loro vista.
«Sai com’è quando cucina: un perfezionista».
«Perché ha pronunciato il nome di Floz in modo così aggressivo?
Gli dispiace che ci sia anche lei?»
«Non essere sciocca». Steve fece una risatina nervosa perché non
voleva spifferare il segreto di Guy. Specialmente non a Juliet e alla
sua lingua lunga.
Ciononostante, Juliet dedusse da quella risata metallica che Steve
sapeva più di quello che lasciava a intendere. Forse Floz aveva ragione, dopotutto, forse a suo fratello non piaceva poi così tanto. Che
strano.
Floz parcheggiò la macchina sovrappensiero. L’ultima e-mail di
Chas le ronzava in testa come un’ape impazzita. “La soffirenza, dopo
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un certo tempo, supera il picco più alto…”. Non sapeva il motivo per
cui stesse rimuginando su quelle parole. Sperò soltanto che il suo
cervello riuscisse a elaborare una soluzione e le sputasse una
risposta.
Si lisciò il vestito, un abito verde con una cintura in vita. Faceva
risaltare il verde dei suoi occhi, mentre i suoi capelli sembravano, a
confronto, dello stesso colore delle fiamme dei falò. Suonò al campanello, le parole dell’ultima e-mail di Chas continuavano a ripetersi
come un disco rotto.
Guy sentì arrivare Floz. Sporse la testa fuori dalla cucina e la osservò con indosso quel vestito verde, con i capelli dai morbidi ricci
che le ricadevano sulle spalle. Alzò una manona, le disse «ciao» e si
ritirò subito, prima che Floz potesse ricambiare il gesto.
Adesso Juliet riusciva a capire quello che intendeva Floz. Non
avrebbe potuto salutarla in maniera più sbrigativa neanche se ci
avesse provato. Be’, così non andava bene. Avrebbe sistemato le cose
tra loro a costo di morire. Non poteva permettere che la sua amica e
suo fratello non si sopportassero a vicenda.
L’affettuosità di Coco compensò la freddezza di Guy. Balzò verso
Floz per abbracciarla e poi la passò al resto della famiglia Miller e
Steve affinché la salutassero baciandola sulla guancia.
«Non ti chiedi come Piers prenderà la notizia di tutte queste
novità nella tua vita sentimentale?», disse Steve, sfiorando il bicchiere di Juliet, pieno di vino Eisberg non alcolico, con la sua flûte da
champagne.
«Certo che me lo chiedo», disse lei. Non aggiunse che Piers, che al
momento si trovava a Londra, le aveva inviato tantissimi messaggi in
cui la supplicava di uscire con lui per un secondo appuntamento, e
che lei gli aveva risposto che aveva perso la testa per una «vecchia
fiamma che si era riaccesa» (queste erano state le sue esatte parole)
che aveva chiesto la sua mano, piuttosto inaspettatamente. Non
aveva accennato alla gravidanza, forse il dettaglio più crudele da
dare a un uomo così infatuato. Un dettaglio che, inoltre, avrebbe
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fatto meglio a menzionare in seguito, quando avrebbe discusso del
congedo di maternità.
Rise scioccamente tra sé, pensando che aveva respinto Piers
Winstanley-Black per Steve.
Gli gettò un’occhiata di nascosto, mentre lui stava ridendo con
suo padre e Coco. “Come ho potuto pensare che fosse un deficiente?”. Era talmente alto e grande e massiccio e bello, e inoltre
continuava a sfiorarle il braccio con la mano, come se gli piacesse la
sensazione di essere costantemente in contatto con lei. Era tanto romantico da farla andare in brodo di giuggiole. Non si era mai sentita
così cotta per nessuno, mai! Nemmeno i primi tempi per Roger,
quando lui la faceva struggere con tutte quelle battute sdolcinate
prese direttamente dai film spazzatura di serie B, battute che
comunque all’epoca le erano sembrate virili e favolose.
«Come va il… ehm… corteggiamento, Raymond?», domandò
Perry, che stava cercando di adeguarsi al Ventunesimo secolo, ma
trovava ancora un po’ strano chiedere a un uomo come stesse procedendo la sua storia d’amore con un altro uomo.
«Oh, Perry, ho trovato la mia anima gemella. Un giorno saremo
come te e Grainne».
«E invece tu, Floz?», chiese Grainne. «Ti sei trovata un giovanotto carino con cui sistemarti?».
Tutti gli occhi si spostarono su Floz. Anche in cucina, Guy posò gli
utensili per tendere l’orecchio.
“L’ho trovato e l’ho perso, poi è tornato ed è morto”.
Floz deglutì e lo sguardo le si offuscò. Il suo disagio fu evidente a
tutti. Juliet balzò in sua difesa.
«Cielo, quanto sono imbarazzanti i genitori? Sediamoci tutti a tavola e aspettiamo la cena», disse mentre lanciava un’occhiata di biasimo a sua madre.
Steve, Coco e Juliet si scambiarono degli sguardi d’intesa. Juliet
era ora convinta al cento per cento che Floz avesse un problema segreto con un uomo.
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E prese la decisione di scoprire, una volta per tutte, cosa stesse
accadendo nella vita della sua amica, che era diventata così depressa.
Guy ritornò a predisporre la spigola nei piatti, chiedendosi perché
Floz non avesse risposto alla domanda e perché tutti si fossero precipitati a sedersi. Sarebbe stato semplice per lei dire: «No, non
ancora». Allora perché non l’aveva fatto?
«La cena è servita», disse e apparve con i primi cinque piatti in
bilico sulle braccia. Servì per prime le signore, cosa che quei camerieri idioti di Kenny non facevano mai, per quanto Guy avesse molto
insistito al riguardo. Si sedette al suo posto a capotavola, vicino a
Floz, poiché era lì che Juliet le aveva detto di sedersi. Juliet aveva intenzione di fare di tutto purché diventassero amici.
Il pesce era cotto a puntino: fu un trionfo. Tutti stavano
emettendo dei versetti di approvazione.
«Era davvero buono», sospirò Juliet, mentre si tamponava le labbra con un tovagliolo. «Sei proprio un buon partito!».
Steve alzò gli occhi al cielo. Sperò che Juliet non stesse per cimentarsi nel gioco delle coppie.
«Non è vero, Floz? Non è un buon partito?». Juliet diede una
forte gomitata alla sua amica.
Steve diede un calcio a Juliet sotto il tavolo e, quando lei lo
guardò in tralice, Steve le lanciò un’occhiata di avvertimento.
«Sì, certo», disse Floz, fissando il piatto vuoto con aria
imbarazzata.
«Lascia che ti aiuti a portar via i piatti», disse Steve, mentre si
alzava velocemente in piedi e iniziava a raccoglierli, per poi seguire
Guy in cucina, dove venne subito aggredito verbalmente dall’amico.
«Dimmi che non hai detto niente a Juliet!».
«No, non l’ho fatto», Steve ribatté con un sussurro, teso. «Credi
onestamente che le direi che sbavi dietro a Floz?»
«A che gioco sta giocando, allora?», disse Guy.
«Chi cazzo lo sa?», disse Steve. «Limitati a mettere in tavola la
portata principale e farciscile quel suo becco in modo che non riesca
a parlare».
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La conversazione in sala da pranzo si era spostata sui matrimoni.
Guy cominciò ad affettare l’arrosto di tacchino e Steve il tenero cosciotto di agnello.
«Non voglio un abito enorme», disse Juliet.
«Devi prenderti un abito con la gonna larga!», gridò Coco, disgustato. «Non puoi certo indossarne uno semplice e banale. E chi
vorrai come damigelle?»
«Floz, ovviamente», disse Juliet. «E te, in qualità di equivalente
maschile. Voglio che percorriate la navata centrale dietro di me,
anche se non mi aspetto che tu indosserai un vestito lungo,
ovviamente».
«Grazie al cielo», sbuffò Coco. «Non sono un travestito!».
«Oh, che notizia fantastica», disse Floz. «Non ho mai fatto la
damigella prima d’ora».
«Neanche io», cinguettò Coco. «Che colore saranno i nostri
abiti?»
«Stavo pensando a dei colori caldi», rifletté Juliet, rimuginando
sulla conversazione avuta con Daphne a proposito del suo matrimonio autunnale.
«Oooh, che eleganza». Coco emise un gridolino di gioia.
«Devi iniziare a organizzare tutto, Juliet». Grainne bevve un
sorso di vino. «Secondo i miei calcoli ti restano trentacinque giorni
prima del cinque novembre».
«Per tutti i diavoli!», esclamò Juliet.
«Be’, se non ci riesci tu, allora non ce la può fare nessuno», sorrise Floz. «Sei una vera forza della natura».
Steve e Guy iniziarono a trasportare in sala delle terrine di verdure e uno Yorkshire pudding perfettamente riuscito.
«Oh, a proposito, questa mattina abbiamo prenotato all’Oak Leaf
per il ricevimento nuziale», annunciò Juliet, aspettandosi che tutti
iniziassero a osservarla attoniti. «So quello che state per dire, ma
non voglio che tu stia in cucina quel giorno, Guy. E poi il Burgerov è
una topaia».
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«Concordo», disse Guy. «È un peccato che non sarà riammodernato in tempo per il vostro matrimonio, altrimenti non avrei accettato un no come risposta. Potrei occuparmi del catering da qualche altra parte se voi…».
«Non voglio assolutamente che tu faccia nulla quel giorno che
non sia unirti ai festeggiamenti ed essere il testimone dello sposo. È
deciso. Quindi non insistere, ne soffrirei».
“La soffirenza, dopo un certo tempo, supera il picco più alto…”.
«Dunque, che cosa farai con l’appartamento?», chiese Perry, infilzando una grossa e croccante patata al forno.
«Che cosa intendi?», ribatté Juliet, con la bocca piena di carote
caramellate.
«Be’, presumo che ti trasferirai da Steve. Non puoi trasportare un
passeggino su e giù per quelle scale a Blackberry Court. Non c’è l’ascensore, vero?».
Juliet lasciò cadere la forchetta. Era accaduto tutto talmente in
fretta che non aveva riflettuto sulle questioni pratiche. Suo padre
aveva ragione, anche se comunque casa di Steve era troppo piccola
per qualsiasi progetto a lungo termine, dato che aveva soltanto una
camera da letto. E se avesse venduto, dove sarebbe andata Floz?
Alzò lo sguardo verso la sua amica e si accorse che era appena
stata colpita dallo stesso fulmine a ciel sereno. E se avesse guardato
di lato, avrebbe notato che quel fulmine era riuscito a stendere anche
Guy.
«Floz», disse Juliet. «Non avevo per nulla pensato
all’appartamento».
«Be’, di sicuro dovrai pensarci», disse Floz con una voce calma da
cui non trapelava affatto l’ansia che si era appena impossessata di
lei. Viveva con Juliet da meno di due mesi, ma si sentiva davvero a
casa.
Quali erano le possibilità che trovasse di nuovo un appartamento
e una coinquilina del genere? Era stata troppo fortunata a trovare il
delizioso condominio di Blackberry Court dove vivere insieme a
Juliet, per non parlare di quella meravigliosa famiglia che l’aveva
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accolta a braccia aperte. La prospettiva di lasciare tutto ciò le faceva
venire i brividi.
Juliet scoppiò in lacrime.
«Ormoni!», fu il verdetto di Grainne mentre si alzava rapidamente in piedi per cingere con un braccio le spalle della figlia.
«Oh, Floz, mi dispiace», singhiozzò Juliet. «In tutta sincerità, non
avevo mai pensato all’eventualità di dover traslocare».
«Non essere sciocca», disse Floz, con un sorriso coraggioso.
«Adoro il mio appartamento», pianse Juliet. «Odio casa di
Steve».
«Anche io la odio», disse Steve. «Dovremo sbarazzarci di entrambe e cercare un altro posto. È a malapena grande per me, figuriamoci se ci siete anche tu e il bambino».
«O magari i bambini», buttò lì Grainne.
«Oh mio Dio, potrei aspettare dei gemelli!», Juliet non poteva
sopportare altro. La sua famiglia era una fabbrica di gemelli. Lei e
Guy erano la quinta generazione. «Quanto tempo occorrerà per
vendere tutto e trasferirsi?». Vendere due proprietà, partorire un
bambino e organizzare un matrimonio, era davvero troppo e Juliet si
sentì piombare addosso una tonnellata di macerie. Tutto ciò che
riuscì a fare fu piangere ancor più copiosamente.
«Oh cielo, che cosa ho fatto?», disse Perry, che non riusciva a ricordare l’ultima volta in cui aveva visto sua figlia piangere. «Io e la
mia boccaccia».
«Be’, per il momento Floz potrebbe trasferirsi nell’appartamento
di Guy», suggerì Steve, cercando di rendersi utile, così da non rovinare quel pasto delizioso.
«Cosa?», disse Guy.
«Una volta che avrai comprato Hallow’s Cottage e ti sarai
trasferito lì, intendevo», disse Steve, cogliendo l’occasione di vuotare
il sacco, nella speranza di far sì che il suo amico ricevesse l’aiuto che
si rifiutava di chiedere alla famiglia.
«Hallow’s Cottage?», domandò Perry. «Non è mai stato in
vendita, o sbaglio? Lo vendono adesso, dopo tutti questi anni?»
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«Scordatevi di Hallow’s Cottage», disse Guy in tono burbero.
«Lo so, lo so, non puoi permettertelo, me l’hai già detto», disse
Steve, piantando velocemente il seme delle buone intenzioni nel bel
mezzo della stagione dei raccolti.
Juliet si era asciugata gli occhi e Grainne era ritornata al suo
posto, ma l’atmosfera intorno al tavolo era cambiata come quando
una nube minacciosa oscura il sole. Né Juliet né Grainne avevano
più voglia di mangiare. Juliet si stava preoccupando per Floz.
Grainne si stava preoccupando per Juliet che si preoccupava per
Floz. Steve si stava preoccupando poiché non avrebbe dovuto dire
nulla in merito a Hallow’s Cottage. Perry si stava preoccupando di
aver rovinato l’atmosfera. Guy era seccato per il fatto che Steve
avesse tirato fuori la storia di Hallow’s Cottage, che non avrebbe mai
posseduto e tantomeno condiviso con una donna come Floz.
E se lei avesse lasciato l’appartamento, non avrebbe più avuto alcuna possibilità di passare a trovare sua sorella per vederla. E se si
fosse trasferita lontano? Soltanto Stripies, che si stava strusciando
contro la gamba di Guy sotto il tavolo nella speranza di ricevere
qualche pezzettino di carne, sembrava spensierato.
Praticamente nessuno mangiò il dolce. Guy pulì i piatti e gettò gli
avanzi nel bidone. In fin dei conti, la sua fantastica cena non aveva
sedotto Floz; aveva soltanto fatto da scenario a vicende molto più
importanti che si stavano per mettere in moto a causa di tutte novità.
Juliet si sentiva stanca e aveva un leggero mal di testa, per cui Steve
accompagnò lei e Floz fino a casa, con la sua nuova station-wagon.
Guy caricò la lavastoviglie, schiaffando i piatti negli appositi spazi.
«Figliolo, posso parlarti?». Perry apparve sulla porta della cucina,
con la pipa in bocca.
Guy si drizzò. «Certo, papà, che cosa c’è?»
«Steve ha detto che non puoi permetterti Hallow’s Cottage».
«Steve ha la lingua troppo lunga», disse Guy.
«L’ho appena guardato su internet».
«Allora capirai perché non prendo nemmeno in considerazione
l’idea di comprarlo. È una discarica». Guy chiuse la lavastoviglie e
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cercò di non tenere a freno la forza che si era accumulata nel suo
braccio.
«Tua madre e io abbiamo parlato».
Guy sollevò una mano per interromperlo: «No. So quello che stai
per dire, e la risposta è no».
«La risposta è sì», disse Perry con calma. «Daremo a Juliet una
grossa somma per il suo matrimonio e per il bambino, e daremo a te
lo stesso importo. È il momento giusto per farlo, figliolo. I soldi ci
sono per tutti e due e non c’è motivo di aspettare che moriamo. Tua
madre e io preferiamo che voi ne usufruiate e che li abbiate quando
ne avete bisogno».
Allungò la mano, nella quale conservava un assegno.
Guy guardò l’assegno. Era intestato a lui per una somma di
centottantamila sterline.
«Papà, sono un casino di soldi!», disse Guy, tenendo le mani
lungo i fianchi.
«Quando tuo zio Stan e io abbiamo venduto la fabbrica abbiamo
ricavato un grosso profitto dal terreno attiguo, poiché abbiamo ottenuto una concessione edilizia. Tua madre e io siamo più che a
posto economicamente, e ci piacerebbe vederti comprare quella casa
piuttosto che dover aspettare la nostra morte per ereditare quello
che vogliamo che tu abbia, come è successo con Stan e i suoi figli.
Solo Dio sa da quanto tempo stiamo cercando di dare qualcosa a voi
due, è tempo che tu ne capisca il senso. Prendi i soldi, figliolo, e compra la casa. La desideri fin da quando eri bambino».
Perry sventolò l’assegno davanti a Guy e quando lui si ostinò a
non prenderlo lo mise nelle mani del figlio e gli fece chiudere le dita
intorno a quel pezzo di carta.
«Ecco, non era poi così difficile, vero?»
«Papà, non so cosa dire».
«Di’: “Grazie, papà”. Sarà sufficiente».
«Grazie, papà».
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Guy gettò le sue possenti braccia al collo del padre e lo abbracciò
forte. Amava veramente tanto quell’uomo. E aveva percepito l’amore
del padre in ogni singolo giorno della sua vita.
Quando finalmente si separarono, Perry tornò ad alzare la sua
pipa e soffiò. Poi si girò per andare a comunicare a Grainne la buona
notizia: Guy aveva accettato i soldi. «Va’ a comparare la casa,
figliolo», gli disse, voltandosi appena.
Floz scovò delle immagini di Osoyoos su internet. Sembrava stupendo, esattamente come lui gliel’aveva descritto nelle passate email. Voleva vederlo presto, durante la stagione preferita di Nick.
Solo allora sarebbe riuscita a dirgli davvero addio. Sebbene restare
ancorata alla sofferenza le sembrasse più allettante che andare alla
deriva verso una direzione sconosciuta.
“La soffirenza, dopo un certo tempo, supera il picco più alto”.
Capitolo settanta
Juliet era stranamente giù di corda. Durante il fine settimana
aveva passato ore su internet a cercare delle case adatte a una
famiglia. Sua madre e suo padre avevano dato a lei e a Steve una
grossa somma di denaro da usare per il matrimonio e una nuova
casa; era tutto molto emozionante, ma lei si sentiva ancora in colpa
per Floz.
Lunedì, durante la pausa pranzo, telefonò a Steve. Stava per mettersi a piangere.
«Senti, nella peggiore delle ipotesi», disse lui gentilmente, «possiamo affittare un posto abbastanza grande in modo che Flozpossa
vivere con noi fino a che non trova una sistemazione adeguata. Che
te ne pare?».
Juliet sorrise per la prima volta quella mattina. «Non ti
dispiacerebbe?»
«No, certo che no», disse Steve. «Dovremo mettere in vendita le
nostre case a un prezzo ragionevole, per avere buone possibilità di
liberarcene in fretta. Poi, ci compreremo casa da qualche parte. È
una situazione un po’ ingarbugliata ma sono sicuro che alla fine tutto
si risolverà».
«Ti amo, Steve Feast».
Steve fece uno sdolcinato sorriso. Sperò soltanto che la magia
della loro favola a lieto fine contagiasse anche Floz e Guy.
Quella mattina Guy stava gironzolando per Hallow’s Cottage insieme a Jeff Leppard, il cui vero nome era Bob Sedgewick: Bob, lo
straordinario muratore.
«Be’, Crusher», osservò Jeff, «non dovresti fare dei lavori poi così
consistenti». Tutti i lottatori di wrestling tendevano a rivolgersi l’un
l’altro con i loro pseudonimi, sia dentro che fuori dal ring.
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«E quindi non dovresti farli neanche tu. Se accetti il lavoro».
«Possiamo farcela? Certo che sì», rise Jeff. «Questo inverno sarà
tranquillo, per cui posso organizzare una squadra non appena concluderai la vendita, se mi comunichi le tempistiche con un po’ di
preavviso».
«Metterò immediatamente in moto le cose», disse Guy.
«Il tetto è solido come una roccia», continuò Jeff, «almeno di
questo non ti devi preoccupare. Le pareti hanno bisogno di uno strato impermeabile, ovviamente, e di una riverniciatura globale, ma
presumo che chiederai ad Angel di occuparsene. I pavimenti
dovrebbero essere carteggiati, ma diventeranno splendidi, ci puoi giurare. Guarda queste assi in quercia. Sono proprio favolose,
davvero».
Jeff fu travolto dalla stessa visione di Guy, mentre immaginava
come sarebbe stata la casa dopo che i suoi ragazzi ci avessero lavorato. Mancava Floz in mutande, con tanto di tacchi alti e grembiule,
mentre friggeva la pancetta su uno di quei fantastici vecchi fornelli
Aga, che loro avrebbero avuto in cucina.
Quando Juliet rincasò, quella sera, c’era un bigliettino ad aspettarla che le diceva che Floz era uscita a fare shopping a Meadowhall, un centro commerciale di Sheffield; poi notò che la segreteria
telefonica stava lampeggiando.
«Messaggio per la signorina Cherrydale. Le ho inviato per e-mail i
costi dei voli per il Canada e delle opzioni per l’alloggio, come da lei
richiesto. Desidero soltanto controllare che abbia ricevuto il tutto,
poiché sembrava che avesse abbastanza fretta di organizzare il
viaggio».
Canada? Perché diamine Floz andava in Canada, e in fretta?
Aveva forse a che fare con la cosiddetta misteriosa “vecchia
fiamma”?
Capitolo settantuno
Appena terminò il messaggio in segreteria telefonica, il citofono
suonò.
«Sono io. Fammi salire. Ho una sorpresa per te», gorgheggiò
Coco. Juliet gli aprì e Coco entrò poco dopo… e non da solo.
L’uomo che era con lui era alto e ben piazzato, aveva dei folti e
ricci capelli marroni e degli occhiali neri alla moda, l’esatto opposto
di tutti i precedenti compagni di Coco. Non aveva né piercing, né
tatuaggi, né ciocche rosa o strani pantaloni. Gideon indossava un elegante completo da intellettualoide del computer. Era molto bello,
decise Juliet, aveva l’aria di un affascinante uomo d’affari.
«Lui è Gideon», disse Coco, sprizzando gioia da tutti i pori.
«Stavamo facendo un giretto in zona e Gideon ha detto: “Perché non
passiamo a salutare le tue amiche?”. Dov’è l’adorabile Floz?»
«A Meadowhall, a fare shopping», spiegò Juliet, per poi salutare
Gideon con un bacio amichevole e garbato. Usava un dopobarba
fantastico.
«Volete un caffè?», chiese, e nello stesso momento il citofono riprese a suonare; Juliet borbottò che a volte, in quell’appartamento,
sembrava di essere alla stazione ferroviaria di King’s Cross, nel
centro di Londra. Era Steve che aveva fatto un salto per vedere se andava tutto bene. Aveva Guy al seguito. Un Guy che restò altrettanto
deluso nell’apprendere che Floz era uscita.
Ciononostante, Coco fu entusiasta di poter fare sfoggio di Gideon
in presenza di ulteriori amici. E di provare a Steve che esisteva
veramente.
«Sono preoccupata per Floz», disse Juliet, riempiendo quattro
tazze di caffè e un bicchiere d’acqua frizzante per se stessa. «Andrà
in Canada».
«Canada? In vacanza? O per viverci?», strillò Guy, poi mise a
freno la sua angoscia. «Perché?»
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«Mi piacerebbe saperlo».
«Entrambi abbiamo la sensazione che ci sia qualcosa che non va
in Floz», disse Coco, premendosi una mano contro il cuore. «Non ho
un buon presentimento».
«Allora vai a spiare il suo computer», rise Steve. Non si aspettava
certo che Juliet lo avrebbe preso in parola.
«Potrei farlo, vero? Mentre è fuori», disse Juliet, e poi posò il suo
bicchiere d’acqua e fece per dirigersi alla porta di Floz.
«Ferma, ferma, non puoi farlo!», protestò Guy.
«Posso farlo e lo farò», ribatté Juliet.
«Stavo solo scherzando», disse Steve. Ma lei si era già diretta in
camera di Floz.
«Non puoi intrometterti in questo modo negli affari di qualcun
altro!», urlò Guy dietro a sua sorella.
«A volte è un bene che qualcuno si intrometta», disse lei intenzionalmente rivolgendosi a suo fratello. Lui sapeva che cosa intendeva dire.
Ma Juliet aveva una missione ed era inarrestabile.
«Tu, mettiti di guardia!», disse, indicando a suo fratello di appostarsi alla porta d’ingresso. «Gideon, Coco ha detto che sei un
genio al computer. Aiutami».
«Io…». Il povero Gideon non si sentiva per nulla a suo agio a entrare senza permesso nel computer di un completo estraneo, ma
Juliet aveva parlato e lui avvertì immediatamente la forza delle sue
parole.
Docile come un agnellino, la seguì nella stanza di Floz, che sapeva
di fragole.
«Va bene, come indovino la password?», chiese Juliet mentre accendeva lo schermo di Floz.
«È incredibile quante persone abbiano la parola “password” come
password», disse Gideon, facendo un tentativo con “pass-word” e
dando prova che aveva ragione, visto che videro apparire il desktop
di Floz.
«Sei un genio», disse Coco, estremamente impressionato.
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«Vai nella sua posta», gli ordinò Juliet.
Gideon cliccò sull’icona della posta e Juliet passò in rassegna le
cartelle sulla sinistra: Lee Status, Finanze, Canada, House of Cards…
«Clicca su Canada», disse con lo stesso entusiasmo che avrebbe
mostrato se avesse indovinato la combinazione di una cassaforte.
Un rumore proveniente dal salotto li fece trasalire.
«Scusate, sono stato io, ho urtato la lampada», urlò Guy.
«Oh, santo cielo, leggi qui!», esclamò Juliet all’improvviso, dandosi dei colpetti sul cuore.
«Davvero, non dovremmo…», disse Gideon.
«“Dicono che ogni storia…”», iniziò Coco e poi lesse fino alla fine
della prima e-mail. «Oh cielo, è un’e-mail da parte di un uomo
moribondo».
Steve apparve sulla soglia. Anche lui sapeva che stavano facendo
qualcosa di sbagliato, ma fu invogliato a guardare sopra la spalla di
Coco per leggere insieme a loro. Poi comparve Guy, che era stato attratto da tutti quegli «oooh» e quegli «ah».
Guy lesse le parole che Floz aveva scritto a Nick, quelle pagine in
cui lei aveva dato libero sfogo al suo cuore. Era certo che stesse piangendo mentre scriveva. Era geloso, geloso di un uomo che esercitava
una tale attrazione su di lei. Geloso di un uomo afflitto da una malattia incurabile.
Passarono da un’e-mail all’altra della cartella Canada, poi aprirono la prima in cui Chas annunciava la morte di Nick e il funerale.
A quel punto sia Coco che Juliet avevano le guance rigate di lacrime.
«Oh cielo, è una storia così triste», disse Coco, tirando su con il
naso. «Povera Floz. Non avrei mai immaginato…».
«Be’, divertente», osservò Gideon in tono sommesso.
«Divertente? Che cosa intendi, Gid? Non ci trovo nulla di divertente», ribatté duramente Coco.
«No, amore, non “divertente” in senso stretto». Gideon eseguì dei
calcoli con le dita. «Stando a questa e-mail e a quando l’ha inviata,
basandosi sull’orario canadese, dovrebbero essere trascorsi soltanto
due giorni, durante i quali Nick sarebbe morto e cremato, le sue
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ceneri sparse, e la notizia riportata a Floz. È accaduto tutto molto in
fretta».
La sua mente analitica era stata stuzzicata e aveva cominciato a
darsi da fare. Scorse le e-mail avanti e indietro: aveva un fiuto da
segugio e stava seguendo una traccia. «Anche questo non ha senso»,
mormorò tra sé. «Mi chiedo… Passami una penna, Coco». Coco scattò sull’attenti.
Poi udirono una chiave nella porta dell’appartamento.
«Guy, veloce, vai!», gridò Juliet.
Guy scattò fuori dalla stanza di Floz e afferrò la maniglia della
porta d’ingresso, opponendo resistenza al tentativo di Floz di
entrare.
«Sbrigati!», sibilò Juliet a Gideon, che si stava scrivendo qualcosa
sulla mano. «Oh, e guarda qui, c’è un’e-mail da parte dell’agente di
viaggi. Cancellala, fa’ in fretta».
«Non puoi…», iniziò a dire Steve, ma era troppo tardi. «Immagino tu abbia cancellato anche il messaggio in segreteria telefonica,
vero? Oh, Juliet». Era sicuro che fosse andata così, non aveva
bisogno di una sua conferma.
«Dannazione, lo schermo si è bloccato», disse Gideon, vedendo
apparire un conto alla rovescia. «Dovrebbe fare un po’ di manutenzione a questo computer. Va lentissimo».
«Stacca la spina… fa’ qualcosa!». Juliet era in preda al panico.
Fuori, Floz stava dando degli strattoni alla maniglia della porta,
consapevole che Guy la stava tirando dall’altra parte, poiché lo aveva
intravisto nei pochi istanti intercorsi fra il momento in cui era riuscita ad aprirla e quello in cui lui l’aveva richiusa di colpo.
«Guy, sono io!», disse Floz, come sempre sconcertata dalle
pagliacciate di quell’uomo. Che cosa aveva in mente?
«Sì», disse Guy, non trovando niente di meglio da dire. Sapeva
che questo gesto non avrebbe per nulla migliorato i loro rapporti.
Come diamine poteva giustificarsi? «Veloce», mimò con le labbra a
Juliet, che aveva sollevato le mani, impotente.
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«Fammi entrare», disse Floz. «Che cosa sta succedendo?». Non
riusciva neanche lontanamente a spiegarsi il motivo per cui il fratello
della sua coinquilina stesse tenendo chiusa la porta, in modo che lei
non riuscisse a entrare.
Coco sollevò cinque dita in direzione di Guy: cinque secondi e poi
avrebbe potuto lasciare la presa. Intanto Juliet si scaraventò sul divano, Steve si catapultò vicino a lei e Gideon e Coco finsero di essere
assorti in un’innocente conversazione con Juliet e Steve. Guy fece il
conto alla rovescia e poi rilasciò la maniglia.
Floz aprì timidamente la porta e con altrettanta cautela mise
piede nell’appartamento, temendo che Guy avesse altre sorprese in
serbo per lei.
«Scusa», disse lui. Non avrebbe potuto sembrare più patetico
neanche se si fosse impegnato. «È soltanto uno dei miei scherzetti».
«Guy Miller, non sei spiritoso», stridette Juliet, cercando di correre in suo aiuto, ma fallì miseramente. «Ha pensato che sarebbe
stato divertente non farti entrare», spiegò a Floz.
«Sì, l’avevo intuito», disse Floz, che oltrepassò Guy il più velocemente possibile per dirigersi da Coco, che era in piedi accanto a
Gideon.
«Indovina chi è lui?», disse Coco, indicando il suo ragazzo.
«Tu devi essere Floz», disse Gideon, sporgendosi in avanti per baciarla su una guancia. Floz annuì e lo salutò a mezza voce. Stava
ancora cercando di capire perché un uomo di trentaquattro anni volesse inscenare un gioco che anche un bambino di cinque avrebbe
reputato troppo infantile.
«Abbiamo fatto una visita al volo. Dobbiamo andare», cinguettò
Coco in tono nervoso. «Ho bisogno di cibo. E ho promesso che avrei
cucinato io».
«Anch’io devo andare, tra un’ora lavoro», disse Guy, dubitando
che Floz fosse anche solo minimamente interessata. Anche Steve si
alzò in piedi. Fu un irrequieto esodo di massa.
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«Non è carino Gideon?», disse Juliet, dopo aver salutato Steve
con un bacio e aver chiuso la porta. «Sono davvero felice che tu lo
abbia incontrato prima che se ne andassero».
Floz annuì. Ma si chiese perché Gideon avesse delle scritte rosse
sulle mani. E perché tutti si fossero comportati in modo così bizzarro
quando lei era entrata.
Le stranezze di quella serata non finirono lì. Il cellulare di Juliet
suonava in continuazione, e ogni volta lei spariva in cucina per
rispondere. Ci furono almeno cinque chiamate durante la serata, e
chissà quanti messaggi.
«Stai bene?», chiese Floz.
«Sì», rispose Juliet, che non sembrava per niente tranquilla.
«Esco soltanto per un attimo».
«A quest’ora?». Erano le dieci e mezza.
«Sì. Voglio… prendere una boccata d’aria. Ci vediamo tra poco».
«Juliet, stai davvero bene? Vuoi che venga con te?»
«No!», sbraitò lei, poi ripeté, questa volta con più calma: «Scusa,
intendevo dire “No, grazie”. Non ci metterò molto. Faccio giusto un
salto fuori. Non c’è nulla di cui tu ti debba preoccupare. Sul serio»,
mentì Juliet.
Capitolo settantadue
Juliet e Coco erano in piedi dietro Gideon, che stava lavorando al
portatile rosa di Coco.
«Vedete come ha scritto la parola “soffirenza”?», disse Gideon.
Sullo schermo davanti a lui c’era un’e-mail inviata da Nick a Floz,
che Gideon si era inoltrato dal computer di Floz.
«In modo sbagliato», disse Juliet.
«Esattamente. E vedete il modo in cui è stata scritta qui?». Aprì
un’altra e-mail. Questa volta da parte di Chas Hanson.
«Allo stesso modo: sbagliato», disse Juliet.
«Nick Vermeer e Chas Hanson fanno gli stessi errori. Ed entrambi scrivono “familia”, quando invece dovrebbero scrivere
“famiglia”».
«Quindi? Saranno andati alla stessa scuola e inoltre i canadesi
sono delle schiappe con la grammatica e l’ortografia». Juliet scrollò
le spalle.
Fino a quel momento non aveva notato nulla di incriminante,
anche se Coco le aveva detto che doveva andare subito da lui per
vedere che cosa avevano scoperto.
«Ed entrambi hanno gli stessi problemi con lo spazio dopo la
punteggiatura. Cioè, a volte lo mettono a volte no», continuò Gideon.
«Accidenti», disse Juliet cercando di non sembrare sarcastica.
«Potrei mostrarti qualche altra somiglianza, di espressione come
di sintassi, ma lascerò stare perché il punto principale della mia tesi
è un altro», spiegò Gideon. Scrisse un indirizzo al computer e spinse
invio. Apparve una pagina piena di scritte incomprensibili. «Non è
un programma conosciuto ai più, ma per fortuna io posso
accedervi».
«Che cosa significa tutto ciò?», chiese Juliet.
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«Significa che sia Nick che Chas Hanson», disse Coco, «hanno inviato quelle e-mail a Floz dallo stesso computer. Basandomi sulle
prove messe insieme finora, credo si tratti della stessa persona».
Capitolo settantatré
Il pomeriggio seguente, Juliet e Steve si sedettero a prendere un
caffè nel minuscolo appartamento di Guy. Juliet aveva lavorato durante la sua ora di pausa pranzo e se ne era andata prima dall’ufficio.
Steve era passato a prenderla in macchina ed erano andati dritti a
casa di Guy per un veloce incontro di emergenza, prima che Guy andasse al ristorante per iniziare il turno.
«Non so come affrontare la faccenda», disse Juliet, «ma devo
dirle qualcosa. Floz sta pianificando di partire per il Canada».
«Ma perché?», disse Guy. «Ci vuole andare per visitare il luogo
dove si presume che abbiano sparso le ceneri di questo Nick? Non riesco a capire dove stia il raggiro, se davvero esiste». Per lui restava
tutto un mistero, sebbene ci avesse riflettuto abbastanza, da quando
la sera precedente Juliet l’aveva chiamato per riferirgli che cosa
aveva scoperto Gideon.
«Gideon è assolutamente sicuro che questo Nick e Chas siano la
stessa persona?», chiese Steve. Come gli altri, non aveva un’idea di
che cosa stesse succedendo.
Il telefono di Juliet squillò. Era Coco. Juliet lo mise in vivavoce.
«Dove sei?», chiese Coco.
«Da Guy. Stavamo parlando di cosa fare con Floz. Quanto è
sicuro Gideon del fatto che Chas e Nick siano la stessa per-sona?»
«Molto. Il computer di Guy è acceso? Qual è il suo indirizzo? Vorrei inviargli subito un’e-mail».
Guy dettò il suo indirizzo e-mail e aprì il portatile sul tavolo. Nel
giro di pochi secondi, ricevette una notifica dal suo programma di
posta. Guy l’aprì e scoprì che si trattava di un articolo di giornale.
HANSON, Cody Campbell, nato il 14 aprile 1979, morto il 22 settembre 2009.
Nato a Victoria, nella provincia della Columbia Britannica. Lo compiangono la
moglie Lysa Hanson, la madre Mary Hanson, il padre Chas Hanson, la sorella
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Serena May Vermeer, il cognato Rocco Vermeer, i nipoti Veronica e Vincente Vermeer, e i cugini May Campbell Hanson e Constance Campbell Hanson. Luogo e
data della funzione commemorativa saranno annunciati a breve. Non fiori ma
donazioni al CDS Military Family Fund (il fondo canadese a favore dei familiari dei
militari), presso CFPS, via Lafleur 379, Ottawa, Ontario. Potete porgere le vostre
condoglianze alla famiglia all’indirizzo [email protected]
Pubblicato nel «Victoria Post», in data 27 settembre 2009.
«Sei ancora in linea?», chiese Coco. «Ti passo Gideon».
«Ciao Gideon», disse Juliet, che era a dir poco confusa. «Chi cacchio è Cody Campbell Hanson?»
«Un tale che si è suicidato l’anno scorso», disse Gideon. «Ho
setacciato internet e ho trovato questo necrologio in un quotidiano
canadese. Guarda il nome del padre».
Juliet lesse: «“Lo compiangono la moglie Lysa, la madre Mary
Hanson, il padre Chas Hanson”… Chas Hanson?»
«Continua a leggere».
«Va bene: “il padre Chas Hanson, la sorella bla bla e il cognato
Rocco Vermeer, i nipoti Veronica e Vincente”, eccetera. Non
capisco».
«Floz ha chiesto a Chas quando fosse il compleanno di Nick e lui
le ha detto che era il 14 aprile. Che è anche il compleanno di Cody. E
sia Nick che Cody sono morti il 22 settembre; anche se Cody è morto
l’anno scorso e Nick si presume che sia morto quest’anno, nel 2010.
Inoltre, vedi che Nick ha lo stesso cognome del cognato di Chas:
Vermeer?»
«Ma chi diamine è questo Cody?»
«Vi sto inviando un’e-mail in questo momento. Ho trovato l’articolo negli archivi del “British Columbia Times”, un altro quotidiano
canadese».
Guy aprì l’allegato.
UN UOMO SALTA INCONTRO ALLA MORTE DA UN PALAZZO
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La polizia ha bloccato l’accesso a un’ampia area di piazza Fallon, a Victoria,
dopo che un uomo di trent’anni si è buttato dal palazzo residenziale di dodici piani
in cui viveva, trovando la morte. Il signor Cody Campbell Hanson è stato portato al
Victoria General Hospital, ma al suo arrivo ne è stata subito annunciata la morte.
Si pensa che la moglie del signor Hanson, sua coniuge da due anni, avesse lasciato
l’appartamento quella stessa mattina per andare a vivere con un uomo non meglio
identificato, con cui sembrerebbe avesse una relazione.
«Dannazione», disse Guy. «Però, ancora non capisco come si incastrino tutti i pezzi fra loro».
«Neanche io, ma questo coglione di nome Chas Hanson lo sa»,
disse Juliet, furiosa. «Che cosa facciamo, ragazzi?»
«Potremmo riferire a Floz quello che abbiamo scoperto fino a ora,
oppure…», Gideon si interruppe e sospirò.
«Oppure cosa? Coraggio, Gideon. Aiutaci», lo supplicò Juliet.
«È una cosa del tutto immorale e veramente sbagliata».
«Diccelo e basta, per favore».
«Be’», disse Gideon lentamente, odiandosi per ciò che stava per
suggerire, «potrei creare un nuovo indirizzo e-mail fasullo e qualcuno potrebbe fingersi Floz e scrivere a questo Chas. Ma per piacere,
non voglio essere io».
«Juliet, tu saresti la persona più indicata», disse Coco.
«No, non è vero», sbuffò Juliet. «Però potrei scrivergli qualcosa
del tipo: “Dimmi che cosa sta succedendo, lurido bastardo”. Non
pensate che sarebbe un po’ troppo rischioso, visto che viviamo entrambe nella stessa casa? Mi scoprirebbe senz’altro».
«Non voglio che Juliet si senta sotto pressione», precisò Steve.
«Guy, fallo tu».
«Cosa?», Guy lo osservò con terrore.
«Guadagnerai punti», mormorò Steve sottovoce. «Salvala da
questa situazione e potrai essere il suo eroe, caro mio».
«Sì, Guy, fallo tu», disse Juliet, senza pensarci due volte.
«Gideon, invia a Guy l’indirizzo e-mail fasullo. Guy, devi dire a
questo pervertito che tu, ovvero Floz, hai cambiato indirizzo e-mail.
Non vogliamo che per errore scriva ancora alla vera Floz, giusto?»
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«Be’, questo è un rischio che dovremo correre», sospirò Gideon.
«Va bene, me ne occuperò io», disse Guy. Dovevano salvare Floz
da quella situazione. Nessuno di loro riusciva a trovare un senso.
Tuttavia, condividevano tutti l’opinione che quella vicenda avesse
dell’incredibile.
«Che cosa scriverai?», chiese Juliet.
«Non lo so», rispose Guy. «Lascia che ci pensi su. Gli manderò
un’e-mail prima di andare al lavoro. Ho un’ora e mezza per escogitare qualcosa».
«Oh cielo», disse Juliet, mentre prendeva il suo cappotto. «Per il
bene di Floz spero che non si tratti di uno spietato truffatore. Quanto
può essere bastardo un uomo per fingersi moribondo?»
«Molto», disse Steve. Ma proprio come aveva appreso crescendo,
non tutti, nel corso della loro esistenza, avevano a cuore il bene degli
altri. Steve era solo felice che la sua vita fosse piena di persone buone
e altruiste.
Quando Juliet e Steve se ne furono andati, Guy si mise seduto
davanti allo schermo del portatile, a fissarlo. Che cosa diavolo
avrebbe detto a questo Chas Hanson per fargli confessare che era un
pazzoide? Si ricordò delle dolci parole che Floz gli aveva scritto. Era
evidente che lei avesse una grande capacità di amare, ma si chiese se
fosse mai stata davvero amata a sua volta. La parte della lettera che
riguardava i suoi genitori gli fece venire voglia di abbracciarla e coccolarla. Doveva essere davvero terribile vedersi come un effetto collaterale non desiderato.
Provò a pensare a cosa avrebbe scritto una persona gentile come
Floz a Chas Hanson per fargli confessare i giochetti malati che stava
inscenando. Non riusciva a immaginarsela arrabbiata a tal punto da
minacciare qualcuno, nemmeno se si fosse trattato di una persona
perversa come quell’uomo chiaramente era. Iniziò a scrivere.
Chas,
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mi dispiace contattarti ancora. Stavo facendo una ricerca approfondita su internet e ho trovato il necrologio qui allegato. Credo che ci siano troppe coincidenze
perché vengano ignorate. Per piacere, dimmi che cosa sta succedendo. Sto iniziando a pensare che Nick non sia mai esistito, ma devo sapere la verità perché sto
soffrendo. Per favore, mi puoi rispondere a questo indirizzo e-mail? Ho chiuso l’altro perché era infettato da un virus.
Cordialmente,
Floz Cherrydale
Avrebbe dato ventiquattr’ore di tempo a Chas Hanson per rispondere, dopodiché avrebbe alzato la posta in gioco. E se il signor Chas
Hanson, o chiunque egli fosse, non avesse collaborato, Guy era
pronto ad andare da lui per estorcergli di persona tutta la verità.
Capitolo settantaquattro
«Ciao bambola!», cinguettò la voce dozzinale di Lee Status dall’altra parte della
cornetta. «Ho bisogno che tu faccia un lavoro il prima possibile, io sto per imbarcarmi su un aereo per Berlino. Si tratta ancora della festa della mamma, tesoro.
Abbonda con le solite vecchie, classiche battute: la mamma che fa tutto, si preoccupa, tiene unita la famiglia, svolge più cose contemporaneamente, e via discorrendo.
Sai come funziona».
«Sì, va bene, Lee. Nessun problema».
«Ah sì, e tante frasette per le “nuove mamme”. Il genere di biglietto che un papà comprerebbe per darlo alla moglie in occasione
dell’arrivo del bambino. Ce la fai in una settimana a partire da
oggi?»
«Va bene».
«Grazie, bambola».
Il tempismo di Lee era pressoché perfetto, pensò Floz. Poi, Juliet
entrò allegramente a casa e le chiese se avesse voglia di andare con
lei, nel tardo pomeriggio, a fare shopping a Meadowhall per scegliere
un po’ di cose per il bambino. Aveva pensato che un’uscita spensierata, passata a comprare qualcosa per una nuova vita, le avrebbe
distolto la mente dal canadese defunto – reale o immaginario che
fosse.
Come d’abitudine, Juliet avrebbe accettato solamente una risposta positiva. Si esibì nel suo solito repertorio di ricatti emotivi a fin
di bene.
«Floz, non so da dove iniziare a comprare le cose per la maternità. Per favore, aiutami. Steve è inutile. Non gli interessa altro che
guardare i go-kart e i giocattoli enormi. Sto cominciando a sognare
che il bambino è arrivato e tutto ciò che ho pronto è un paio di guantoni da boxe. Inoltre, voglio prendere qualcos’altro per il compleanno di Steve di domani. Quella checca che non è altro adora i
bagnoschiuma di Lush».
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Così Floz, che era una ragazza buona e gentile, prese le chiavi
della macchina e disse: «Va bene, andiamo e rilassiamoci. Guido io».
Una volta nel negozio Debenhams, Juliet sollevò una piccola
tutina blu e un’altra uguale rosa.
«Mi arrischio a comprarla di un colore? O le prendo entrambe e
tengo lo scontrino?», sospirò.
«Perché non opti per questa?», le consigliò Floz, reggendo in alto
una piccolissima tutina bianca.
«Oh mio Dio!», sussultò Juliet. «Quant’è bella?»
«Mi piacciono i bambini vestiti di bianco candido».
«Hai proprio ragione, Floz». Juliet guardò le tutine verdi e gialle
che aveva messo nel cestello e andò a riporle sugli scaffali per
sostituirle con quelle bianche.
Floz prese un’altra piccola tutina bianca e la sollevò davanti sé,
tenendola da sotto le braccia. Provò a immaginarsela con dentro un
bambino piccolo. Se la appoggiò sulla spalla, immaginò la bocca di
un bebè, il suo respiro delicato e caldo contro il collo, nella speranza
di ricevere qualcosa da mangiare, le piccole dita che si arcuavano,
l’odore del talco per bambini.
Aprì gli occhi. Non aveva senso pensare a cose del genere. Non
più. I bambini sarebbero stati destinati a essere sempre quelli degli
altri. Le storie d’amore sarebbero state destinate a essere sempre
quelle degli altri. Le sue speranze stavano svanendo in fretta e il suo
destino sarebbe stato quello di una donna costretta a invecchiare da
sola. Nemmeno le magnifiche sfumature dell’autunno riuscivano a
esercitare il loro effetto magico su di lei. Cercò di riprendersi, mentre
Juliet la chiamava per mostrarle dei graziosi e minuscoli guanti a
manopola.
Quella notte, Floz andò a letto e pensò che Juliet e Steve
sarebbero diventati genitori. Il loro bambino sarebbe stato veramente fortunato. Non sarebbe soltanto stato cresciuto con amore,
ma gli avrebbero dedicato anche tantissimo tempo. Non sarebbe
stato rifilato a delle ragazze alla pari o a delle tate, mentre i suoi
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genitori vivevano la vita di una coppia senza figli. Riusciva benissimo
a vedere Steve che fingeva di essere un cavallo, con un bambino sorridente sulla schiena. Juliet che cucinava dei dolcetti ai cornflakes,
con il grembiule imbrattato di cioccolato. Riusciva a immaginarsi il
vecchio Stripes, seduto soddisfatto vicino al bambino; Grainne e
Perry che telefonavano desiderosi di badare al bambino. Vide
persino gli occhi del piccino che si illuminavano mentre lo “zio Guy”
lo faceva roteare come un aeroplano. Sì, Guy sarebbe stato meraviglioso con i bambini. Era evidente che quel ragazzo non era troppo
brillante nel relazionarsi con le donne, ma Floz avrebbe scommesso
che era molto gentile con i bambini e le persone anziane.
Anche Nick sarebbe stato uno splendido padre. Non aveva avuto
l’opportunità di legare una lenza all’amo per suo figlio o di insegnarli
come individuare le impronte di un orso nel bosco. E ora se ne era
andato.
Capitolo settantacinque
Guy rientrò dal lavoro nelle prime ore del mattino. Odiava quel
posto. Varto aveva mandato in sala due bistecche di filetto con ciocche di capelli nella salsa al pepe nero. E Guy aveva visto uno scarafaggio che attraversava il pavimento della cucina.
Kenny non gli permetteva di licenziare Varto fino a che non
sarebbe stato al sicuro fuori dai giochi poiché, come Guy aveva
scoperto quella stessa sera, Kenny si stava sbattendo la madre di
Varto, di nascosto dalla moglie.
Il che spiegava perché Varto pensasse di essere intoccabile. Guy
non vedeva l’ora di sbarazzarsi di quello sciagurato arrogante, pigro,
sporco e ladro.
Andò diretto al portatile, ma non gli era arrivata nessuna e-mail
da parte di Chas Hanson.
Bene, dopo il turno di lavoro che aveva avuto, non c’era nessuna
possibilità che Guy gli avrebbe concesso la grazia delle ventiquattr’ore per rispondere. Gli riscrisse, armato di alcune informazioni aggiuntive che aveva trovato su internet, dopo aver fatto una ricerca
approfondita su Chas Hanson, durante la sua pausa al lavoro.
Caro Chas,
per piacere aiutami. Devo sapere che cosa sta succedendo. Se non ricevo notizie
da te, contatterò il «Victoria Post» per cercare di scoprire la verità. Sono certa che
saranno interessati ad aiutarmi a risolvere questo mistero. Di questi tempi, grazie a
internet, non è così difficile seguire delle tracce e io ho bisogno di capire. Potresti
farmi risparmiare tempo e patemi d’animo, e tu potresti evitarti una figuraccia, se
mi rispondi. Ho scoperto che c’è una Lysa Hanson su Facebook, amica di Rocco
Vermeer e di May e Constance Campbell Hanson, le persone menzionate nel necrologio. Se sarà necessario, coinvolgerò anche loro nella mia indagine. Non lascerò
cadere questa faccenda fino a che non scoprirò l’intera storia.
Floz
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Dopodiché Guy si addormentò. Si svegliò poco prima delle nove
del mattino dopo e scoprì che Chas Hansons aveva reagito alla sua
minaccia e gli aveva risposto.
Capitolo settantasei
Guy telefonò immediatamente a Steve e gli lesse l’e-mail di Chas
Hanson.
«Cazzo», commentò Steve.
«Non posso dirglielo», disse Guy.
«Invece devi, amico». Steve stava parlando a bassa voce perché si
trovava nell’appartamento di Juliet e Floz era in cucina a prepararsi
la colazione. «E prima lo fai meglio è. Oggi, direi».
«La prenderà meglio se sarà Juliet a riferirglielo».
«Sì, forse hai ragione. Allora glielo chiedo appena si alza».
«Chiedermi cosa, festeggiato?», disse Juliet sbadigliando, che si
era svegliata al suono del suo nome.
E fu così che Steve le passò il telefono in modo che Guy la potesse
aggiornare sulle ultime novità.
Steve si dileguò dall’appartamento in modo furtivo. Sperava soltanto che Guy avesse ragione e che Juliet fosse la persona più adatta
per rivelare la notizia a Floz. A confronto di Juliet, un elefante in una
cristalleria era come un agnello in un recinto.
«Dov’è Steve?», chiese Floz, mentre Juliet emergeva dalla sua
camera. «Ho un biglietto di compleanno per lui. E una bottiglia di
vino».
«È andato a casa per sbrigare una faccenda», disse Juliet facendo
spallucce.
«Stai bene, Juliet? Hai ancora le nausee mattutine?», le domandò
Floz, esaminando l’espressione preoccupata dell’amica. «Oggi non ti
è permesso essere malata, lo sai. Non se questa sera devi andare in
quell’albergo molto sciccoso insieme a Steve».
«No, non mi sento male», rispose Juliet. Era da tanto che non vedeva l’ora di andare in quell’albergo, ma non aveva certo intenzione
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di concedersi una notte di passione mentre Floz se stava da sola con
il cuore che si frantumava in mille pezzi sopra il tappeto.
«Vuoi che ti prepari qualcosa da mangiare?», chiese Floz. «Delle
fette di pane tostato? Cereali? Yogurt?»
«No, Floz, non voglio niente da mangiare». Juliet si versò un po’
di succo e si domandò come avrebbe cominciato il discorso. Non le
mancavano mai le parole. Quindi, come era possibile che ogni cosa
che desiderava dire le si bloccasse in gola come se fosse stata un
blocco di cemento?
Il telefono suonò nell’esatto momento in cui Juliet stava aprendo
la bocca per compiere il lavoro sporco. Floz rispose.
«Sì, sono la signorina Cherrydale… No, non mi ricordo di aver
visto una vostra e-mail… È strano, non ho ricevuto nem-meno il
messaggio sulla segreteria telefonica. Se mi rispedite nuovamente i
dettagli vi chiamerò subito e prenoterò in matti-nata».
«Prenotare cosa?», le chiese Juliet.
«Vado via per qualche giorno», disse Floz, coprendo il microfono.
«Dove?»
«Canada».
«Canada? Perché ci vai, Floz?»
«Perché… io… è una vacanza».
«Floz, di’ loro che li richiamerai. Devo parlarti. È urgente. Per piacere, siediti».
Qualsiasi cosa stessa passando per la testa di Juliet aveva tutta
l’aria di essere una faccenda molto seria; Floz fece come le era stato
chiesto.
«Qual è il problema? Si tratta di te e Steve?», le chiese,
preoccupata.
«Non c’è un modo facile di dirtelo», disse Juliet, facendo un profondo respiro. «Siamo entrati nel tuo computer e abbiamo letto le email di Nick».
Floz trasalì per lo stupore.
«La colpa è mia, solo e soltanto mia. Ero preoccupata per te, e tu
non mi volevi dire che cosa ci fosse che non andava, quando invece
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era chiaro che c’era qualche problema, quindi noi abbiamo
guardato…».
«Noi chi?», chiese Floz lentamente.
«Solo io. E Steve. E… Guy».
«Steve e Guy?»
«E Coco… e… Gideon».
Floz voleva alzarsi ma era troppo sconvolta e mortificata per riuscire a muoversi.
«Perché l’avete fatto?»
«Perché ci preoccupiamo per te».
Floz si cinse con le braccia, stringendosi come se volesse difendersi. «Avete commesso un grosso errore, Juliet…».
«Per piacere, Floz, non ho finito».
«Che altro c’è?», stridette Floz, con un insolito fuoco nella voce.
«Guy ha scritto a Chas Hanson spacciandosi per te».
«Cosa… perché?». Guy aveva oltrepassato il confine del reame
delle stranezze agli occhi di Floz. Aveva compiuto il giro della morte.
«Perché gliel’ho chiesto io. Gideon ha scoperto che… che Chas e
Nick ti scrivevano dallo stesso computer».
«Non essere sciocca. Vivono a centinaia di chilometri di distanza.
Vivevano».
Juliet prese i fogli che aveva nascosto nel cassetto. Gideon aveva
stampato le e-mail incriminanti e aveva cerchiato le prove.
«Fanno gli stessi errori di ortografia. Guarda: “soffirenza”».
«La soffirenza, dopo un certo tempo, supera il picco più alto».
Ecco che cosa aveva notato Floz, la presenza di una “i” al posto della
“e”, non il sentimento.
«E inoltre sbagliano entrambi a scrivere un’altra parola. Guarda:
scrivono “familia” invece di “famiglia”. Ci sono anche altre analogie,
vedi? Sono tutte evidenziate e classificate secondo diversi colori».
«Che cosa mi stai dicendo?», chiese Floz.
«Ti sto dicendo che non c’è nessun Nick Vermeer, solo Chas Hanson. Lo ha ammesso con Guy».
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Nella stanza cadde un silenzio piatto e pesante, di quelli che precedono un’esplosione nucleare.
«No, no. Vi sbagliate», disse Floz, con un debole tremolio nella
voce.
«Abbiamo fatto un po’ di ricerche e abbiamo scoperto che Chas
Hanson aveva un figlio, che si è suicidato l’anno scorso». Juliet trovò
la copia dell’articolo del quotidiano e la passò a Floz, poi le diede il
necrologio.
Floz notò i nomi e le date. Ma nulla di tutto ciò aveva alcun senso.
I nomi appartenevano alle persone errate, le date corrispondevano
agli eventi sbagliati. Vincente era il secondo nome di Nick. Rocco era
il nome del suo primo cane, della razza alskan malamute. Le aveva
detto che una delle sue sorelle si chiamava Veronica…
«Poi è arrivato questa nella casella postale del falso indirizzo email». Juliet le consegnò l’ultimo tassello del puzzle e Floz lesse l’email.
Cara Floz,
Nick non è mai esistito.Sfortunatamente mi ero spinto troppo oltre con te e non
sapevo come chiuderla.Quindi ho smesso semplicemente di scriverti.Quando è
morto mio figlio ero completamente smarrito.Ho pensato allora che avrei dovuto
ricontattarti così da poter lasciar morire, in qualche modo, il frutto della mia immaginazione e farti capire, allo stesso tempo, che avevi lasciato il segno su qualcuno.La mia creazione immaginaria ti aveva abbandonato e ferito e, secondo un
mio pensiero del tutto bizzarro,ho pensato che, in qualche modo, ti avrebbe consentito di voltare pagina.Quando mi hai chiesto la data del mio compleanno, stavo
pensando a mio figlio e ho usato la sua.A modo mio, per quanto strano, stavo cercando di riportarlo in vita, anche se si trattava soltanto di una fantasia. La mia depressione e le sue conseguenze hanno rovinato delle vite ed è giunta l’ora di fare
ammenda.Nel tentativo di sfuggire alla mia stessa realtà,ho ferito il prossimo.Nick
assomiglia così tanto a mio figlio perché non riuscivo a superare la sua morte.Non
ti sto chiedendo di perdonarmi perché non me lo merito.Dovrò affrontare la mia
soffirenza nel mondo reale, e non tramite una creazione della mia fantasia.
Sono in debito con te poiché mi hai riportato alla realtà e so che ti potrà sembrare forzato, ma anch’io sono consapevole del fatto che la mia depressione è letale
tanto per me stesso quanto per gli altri.
CH
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Le mani di Floz stavano tremando tanto che il foglio vibrava.
«Nick non è mai esistito?», sussurrò.
«No, tesoro».
«Mi sono innamorata di un uomo che non è mai esistito».
«Ti sei innamorata di una creazione di una mente malata».
«Gli ho parlato. Mi ha inviato delle foto».
«Hai parlato con Chas Hanson. Non so che aspetto abbia, non
riusciamo a trovare da nessuna parte delle sue foto, ma questa è una
di Cody, il figlio defunto di Chas Hanson. Guy l’ha trovata su Facebook. C’è una pagina di condoglianze aperta per lui». Juliet le consegnò la foto di un uomo sorridente, a lato di una macchina rossa.
«Non può essere». I battiti del cuore di Floz stavano correndo
all’impazzata e lei si sentì girare la testa per via dello shock. «Nelle
foto che Nick mi ha inviato assomiglia a quest’uomo, solo che sembra più vecchio. Aveva detto di avere quarant’anni».
«Deve averne parecchi di più, Floz. Suo figlio aveva trent’anni
quando è morto l’anno scorso. Abbiamo trovato anche queste foto
nella pagina commemorativa».
Juliet le passò due foto di Cody da bambino. In una era a cavalcioni su un cavallo a dondolo, nell’altra indossava un completo con
una camicia a balze e sembrava a disagio.
Floz deglutì. «Nick ha detto che queste erano foto sue di quando
era bambino!».
«Ha mentito. Sono del figlio di Chas. Mi dispiace dovertelo dire,
Floz. È un imbroglione».
«Ma perché avrebbe dovuto mentire? Non mi ha mai chiesto dei
soldi, si è comportato sempre da gentiluomo…».
«Be’, certo non hai tutti i torti. Tuttavia, ti ha succhiato le
emozioni, Floz. Alla grande. Quel bastardo».
Floz chiuse i pugni e iniziò a colpirsi le cosce. Le lacrime cominciarono a scorrerle lungo le guance.
«Non riesco a credere di essere stata così stupida», disse piangendo. «Mi fidavo di lui. Gli ho detto tutto di me; persino più di
quanto abbia mai raccontato al mio ex marito. Lo amavo. Amavo un
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uomo che non esisteva». Dopodiché si mise a ridere, una risata
vacua e affranta, che ferì Juliet nell’anima.
«Oh, Floz, tu non sei stupida, sono loro a essere scaltri. Molto,
molto scaltri e manipolatori».
«Come può una persona…».
«Non lo so. Ma quello che so è che dovresti prendere le distanze
da questa situazione. Non farti coinvolgere dalla confusione perversa
e dai giochetti che il suo dolore ha generato».
«Stavo per partire per il Canada per camminare sui passi di un
uomo che non è mai esistito. Un uomo per cui ho sofferto. Stavo per
andare nel luogo dove pensavo avessero sparso le sue ceneri».
«Lo so, tesoro».
“E Steve e Coco e Gideon e Guy sanno che razza di idiota io sia.
Perché, più di tutti, mi imbarazza il fatto che lo sappia Guy Miller?”.
Poi, all’improvviso, Floz balzò in piedi e si asciugò gli occhi. «Sai,
hai ragione. Devo solo allontanarmi da lui e dimenticare l’intera
faccenda».
«Devi, Floz», disse Juliet, con una voce che traboccava di
preoccupazione.
«Guardiamo qualcosa in TV e beviamoci tanto tè con delle fette
biscottate», disse Floz, battendo le mani. «Lascia che mi concentri
su qualcosa di futile. Siediti lì, io vado a preparare il bollitore».
Floz sparì in cucina. E Juliet credette alla maschera raggiante e
allegra con cui Floz si era coperta il volto.
Capitolo settantasette
«Sei certa di star bene?», disse più tardi Juliet, mentre trascinava alla porta il
suo borsone, perfetto per una notte fuori casa. Steve stava salendo le scale per
venirlo a prendere.
«Sì», rispose Floz con un sorriso rilassato. «Certo che sto bene.
Ho chiuso con lui, è finita. Grazie per avermi accudito oggi, ma ora
vai e passa una serata favolosa con il tuo fidanzato».
«Starò in pensiero per te».
«Non osare», disse Floz, che aveva fatto del suo meglio durante
tutta la giornata per convincere Juliet che stava bene. Desiderava
semplicemente che Juliet se ne andasse così da potersi togliere
quella maschera estenuante. Voleva rannicchiarsi su se stessa ed escludere il mondo. Voleva cadere nell’oblio più totale. Non desiderava
svegliarsi fino a che quel dolore attanagliante non fosse svanito. Fotografie di piccoli bambini e giovani ragazzi stavano turbinando nella
sua mente. Tombe e funerali di persone che non erano mai esistite…
Salutò Juliet e Steve con la mano, poi prese la bottiglia di whisky
dalla credenza dietro il tavolo da pranzo. Era disgustoso e le seccò la
gola. Ma lei voleva farsi del male, perché aveva bisogno di prendersela con qualcuno e l’unico bersaglio disponibile era lei stessa.
Per le nove, Floz era talmente devastata da ricordarsi a malapena
del telefono che aveva suonato e di aver detto in tono spigliato a Guy
che sì, stava perfettamente bene. Certo che stava bene.
Dopo aver riagganciato il telefono, Guy tentò di iniziare a pianificare, per la quarta volta, il menu della serata d’inaugurazione del suo
nuovo ristorante, ma fallì nel suo intento. Non riusciva a concentrarsi. I suoi pensieri erano rivolti all’appartamento di sua
sorella. Aveva un presentimento che non riusciva a scrollarsi di
dosso. C’era qualcosa che lo turbava nel modo in cui Floz gli aveva
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detto che stava “bene”. Lei stava ridendo, e quel “bene” era fin
troppo allegro.
Juliet gli aveva telefonato poco prima dicendogli che Floz era al
corrente di tutta la storia e che aveva preso incredibilmente bene la
notizia. Ciononostante, gli chiese se non gli sarebbe dispiaciuto
chiamarla più tardi, con qualche scusa, per accertarsene al cento per
cento.
«Sto bene. Davvero, sto bene. Perché non dovrei?». C’era una
nota fasulla nella sua voce. Proprio come quando dieci anni prima
aveva telefonato a Lacey chiedendole se stesse bene. E lui le aveva
creduto.
Schizzò via dalla sedia e afferrò le chiavi della macchina; fu quasi
un’unica azione ininterrotta, si affrettò a infilarsi il cappotto e chiuse
la porta dell’appartamento. Lungo la strada, era consapevole di guidare troppo velocemente.
Non ricevette nessuna risposta al citofono quando suonò, per cui
entrò con le sue chiavi.
Le luci nell’appartamento erano accese e la TV era sparata a tutto
volume. Floz era seduta sul divano, collassata contro i cuscini. Sul tavolino c’erano una bottiglia di whisky palesemente vuota e un’altra
di vino rosso Syrah, anch’essa finita. C’erano due bicchieri sul tavolo.
Uno si era rovesciato e stava facendo colare del vino rosso sul tavolo;
l’altro era pieno di Harveys Bristol Cream, lo sherry che Juliet teneva
nella credenza per quando passava a trovarla sua madre. A Guy stava
venendo mal di testa al solo pensiero dello stato in cui Floz si
sarebbe svegliata la mattina successiva. Controllò velocemente in
giro e nei bidoni per accertarsi che non ci fossero tracce di confezioni
vuote di farmaci, ma per fortuna non trovò nulla. Era stato proprio il
pensiero di lei che ingeriva delle pillole che gli aveva fatto spingere il
piede sull’acceleratore.
La mise seduta e le diede dei gentili buffetti sulle guance.
«Floz, riesci a sentirmi? Floz, svegliati».
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«Guy», disse Floz, improvvisamente consapevole di una presenza,
mentre strizzava gli occhi per metterla a fuoco. Gli rivolse un ampio
sorriso. «Oh, guarda, è Guy, quello che mi odia». Poi scivolò giù dal
divano a mo’ di anguilla e lui si tuffò per afferrarla. «Accidenti», esclamò. Questo era quello che pensava? Che lui la odiava?
Floz rideva ma i suoi occhi erano rossi e sulle sue guance c’erano
svariati rigagnoli neri. Aveva pianto molto.
«È tutto a posto. Sto bene», disse in tono aggressivo mentre
provava a respingere Guy.
Pochi secondi dopo, il suo corpo iniziò a dimenarsi in preda alle
convulsioni. Proprio come faceva Stripies quando stava per sbarazzarsi di una palla di pelo.
«Oh, merda», disse Guy, prendendola da sotto le braccia per sollevarla e portarla velocemente in bagno; tuttavia, impiegò troppo
tempo per metterla nella giusta posizione e il primo fiotto di vomito
si riversò come un proiettile sulla camicia di lei, in modo alquanto
pittoresco. Il secondo centrò la tazza del water. Floz si lamentò,
mentre il suo corpo cercava violentemente di liberarsi del veleno che
aveva ingerito. Guy le scostò i lunghi capelli rosso fuoco dal viso e li
tenne con una mano; con l’altra le massaggiava distrattamente la
schiena, dicendole cose del tipo: «Coraggio, alzati». Fuoriuscì una
gran quantità di un liquido dai colori brillanti, ma niente cibo. Un
mugolio indicò finalmente che aveva finito e Floz, con un’eleganza
sorprendente, si asciugò la bocca con il tappetino del bagno.
Guy afferrò un asciugamano dal lavandino e lo inumidì, occupandosi del rubinetto e strizzando l’acqua in eccesso, sempre mentre
sorreggeva Floz, che gli si era accasciata sull’altro braccio. Le pulì il
viso e le tolse i rigagnoli neri dalle guance. Floz rispose al fresco
dell’asciugamano con un delizioso e seducente «Aahh», che per un
istante lo spinse a pensare a lei che emetteva lo stesso suono ma in
altre circostanze. In quello scenario però lei aveva le gambe sopra le
sue spalle. Le ciglia di Floz erano lunghe e nere, Guy non era mai
stato così vicino al suo viso prima di quel momento, non aveva mai
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visto la piccola cicatrice che le attraversava entrambe le labbra, né i
minuscoli nei neri sugli zigomi.
Guy si guardò intorno alla ricerca di un appiglio. La camicia di lei
era fradicia e maleodorante, con del vomito rappreso. Doveva levargliela. La issò in piedi, e quando le sue gambe cedettero, lui la sollevò
nuovamente per poi condurla, come fosse stata una bambina, fino
alla sua camera, dove la distese delicatamente sul letto, mentre cercava un’altra maglia pulita nell’armadio. Quando si girò, lei era supina e russava piano.
«Oh no, non osare, signorina», disse lui. «Se adesso dormi, domattina ti sveglierai con un mal di testa colossale».
La fece sedere; era floscia come una bambola di pezza. Sembrava
spossata ed esausta. Guy desiderò che quel canadese perverso si
trovasse in quella stanza. Lo avrebbe costretto a guardare in che
stato si trovava Floz a causa sua. “Vedi quello che le hai fatto? Vedi i
danni che hai causato? Avrebbe potuto soffocare nel suo stesso
vomito e morire a causa tua, bastardo”.
Le dita di lui ghermirono il bottone più in alto della camicia di
Floz, poi le ritrasse di scatto come se lei lo avesse appena schiaffeggiato. Accidenti, non poteva farlo. Si sentiva un pervertito. E se lei si
fosse svegliata e avesse pensato che lui la stesse…?
Tuttavia, si rese conto che non c’era assolutamente alcuna possibilità che lei si svegliasse all’improvviso, cogliendolo sul fatto mentre
la svestiva. Si guardò intorno in cerca di aiuto, come se si aspettasse
di vedere comparire per miracolo Juliet; ma Juliet non era lì e non
sarebbe tornata almeno fino all’indomani, non c’era modo di sfuggire a quella situazione. Non poteva lasciarla sporca del suo stesso
vomito. Si sfregò le mani, come per scaldarsele, e poi afferrò il primo
bottone. Uscì dall’asola. “Ottimo, fin qui tutto bene”. Anche il
secondo si sfilò senza inghippi. Il terzo era tra i suoi seni e lui distolse gli occhi intanto che il bottone scivolava fuori dal buco, per poi
sentirsi mortificato mentre le slacciava gli ultimi tre. Aveva svestito
svariate donne, ma questa volta era diverso. Tanto per iniziare,
erano sempre state tutte coscienti, e ricambiavano sfilando dalle
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asole i bottoni di lui. Guy aveva fantasticato a lungo su quel momento, quando avrebbe tolto i vestiti alla donna che si trovava lì con
lui. Be’, più che altro pensava di strapparglieli, se doveva essere sincero, mentre lei emetteva dei piccoli e gutturali gemiti di eccitazione
e gli mordeva il lobo. Non doveva più pensarci. In quel momento
vestiva i panni di un fidato principe azzurro sul cavallo bianco; non
era giusto da parte sua intrattenersi in pensieri così ignobili.
Le fece scivolare la camicia oltre le spalle, cercando di non
guardare il reggiseno di pizzo color crema, davvero delizioso, che
copriva due seni color crema, altrettanto deliziosi. Tre piccoli cuori
tatuati erano appena visibili da sopra la curvatura del suo seno, due
erano rosa e uno blu. Caspita era bellissima, persino in quell’occasione, con la camicia sporca di vomito, gli occhi gonfi e rossi e i
capelli scarmigliati, neanche fosse un incrocio tra Don King, il pugile, e l’uomo selvaggio del Borneo. Dopodiché notò una vecchia cicatrice a croce sul suo stomaco, dai bordi irregolari. Doveva aver
subito una grossa operazione. Guy tornò a dedicarsi al proprio lavoro: le fece passare velocemente le braccia nelle maniche dell’altra
camicia, nonostante lei opponesse resistenza, e nella fretta infilò
tutti i bottoni nelle asole sbagliate; una volta che ebbe finito, tirò un
sospiro di sollievo.
«Coraggio, signorina, è ora di bere un po’ d’acqua». La sollevò,
nonostante la sfilza di insolite ingiurie che pronunciò lei, e tenendola
da sotto le braccia, la guidò fino al lavandino in cucina. Con una
mano era impegnato a impedirle di scivolare sul pavimento, con l’altra riempì un bicchiere da una pinta di acqua. Fece marcia indietro
fino al divano e la fece sedere sulle sue ginocchia, obbligandola a
bere come un’infermiera con un bambino disidratato, mentre Floz
protestava stizzita nel tentativo di allontanare il bicchiere. Lui le immobilizzò entrambe le mani e lei si contorse sul suo grembo. Lui deglutì. La sua immaginazione era iperattiva. Rischiava seriamente
l’autocombustione. “Concentrati, concentrati, diamine!”.
La incoraggiò a bere l’acqua, lentamente, così da evitare che lei la
rigurgitasse. Doveva idratarla per bene. Solo allora Guy cedette alle
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sue piagnucolose richieste di lasciarla dormire. Floz si fece cadere
con grazia contro il petto di lui e per qualche minuto Guy assaporò la
sensazione del corpo di lei tra le proprie braccia, mentre aveva le
narici piene di profumo alla fragola. Dopodiché la sollevò, la trasportò in camera sua e la fece scivolare sotto la trapunta, mettendola
su un fianco. La lasciò completamente vestita, poiché non era sicuro
che il suo cuore sarebbe riuscito a sopportare di sbottonarle nuovamente un qualsiasi vestito. Era già entrato nella fase in cui aveva
bisogno dei betabloccanti. «Pressione arteriosa ai massimi»,
avrebbero annunciato i medici di ER. Le sfilò le scarpe prima di rimboccarle con cura la trapunta, e pensò a quanto graziose fossero le
dita dei suoi piedi.
«Ripigliati, che cazzo, Guy», disse una voce angelica, seppure
scurrile, da sopra la sua spalla. Guy avrebbe voluto prendersi a
cinghiate da solo: sprofondò nella poltrona che si trovava in camera
di Floz. Lei stava dormendo tranquillamente e ronfava come un
bambino felice. Guy sarebbe rimasto soltanto un po’ per accertarsi
che non si sentisse di nuovo male, prima di spostarsi sul divano in
salotto. Soltanto per un po’.
Capitolo settantotto
Gli occhi di Floz si aprirono a fatica e la sua mente turbinò nel
tentativo frenetico di mettere a fuoco la situazione. Aveva aperto la
bottiglia di whisky e bastò il ricordo di quell’odore a provocarle dei
conati di vomito. Aveva bevuto anche del vino. E si ricordava di aver
parlato con Guy al telefono. E qualcuno le aveva tenuto indietro i
capelli mentre vomitava nel water. “No, per piacere, fa che non sia
stato lui”. Poi si immobilizzò. C’era qualcuno nella sua camera, poteva sentirlo respirare. Lentamente, scostò la trapunta e girò la testa
verso il punto da cui proveniva quel rumore. Sbatté più volte le
palpebre, nella speranza che la figura rannicchiata sulla poltrona
fosse un’illusione, ma non era così. Guy Miller si era davvero addormentato in camera sua, con le braccia conserte e il collo inclinato
con un’angolatura veramente innaturale.
“Che caz…”.
Il grugnito involontario che le uscì dal profondo della gola svegliò
Guy di soprassalto. Rimasero entrambi seduti, impettiti e diritti, nei
loro rispettivi giacigli.
«Ciao», disse lui con voce assonnata. «Come ti senti?». Il collo gli
faceva un male atroce.
Floz si rese conto all’improvviso di essere completamente vestita.
Oh no, lui l’aveva messa a letto. Guardò in basso. Non aveva mai indossato quella camicia. Quando se l’era messa? Se l’era messa lei?
Oppure l’aveva fatto lui per lei? “Oh, per piacere, no”.
«Oh, cielo», disse Floz dando voce alle sue paure. La sua mente
venne bombardata da una serie di istantanee. Si trattava del peggior
album fotografico del mondo: Floz che vomita, Floz che cerca di
comportarsi da sobria e la sua preferita Floz che fa pipì sul tappeto
e Guy che la pulisce. Quale di queste immagini corrispondeva alla
realtà e quale no? “Nooo!”. Eppure, si ricordava distintamente un asciugamano. Deglutì. Un attimo, lui le aveva pulito il viso, ora se lo
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ricordava. Chiuse gli occhi e se li sfregò ma non servì a cancellare i
ricordi. In ogni caso, il colore dei suoi occhi era più brillante nell’oscurità. Perché non aveva mal di testa? Desiderava averlo. Voleva trovarsi nel Paese delle Cefalee, dove il dolore era troppo intenso per
pensare a qualsiasi altra cosa. Eventi che voleva disperatamente dimenticare. In effetti, voleva cancellare tutta la sua vita. Non voleva
morire, perché avrebbe rischiato di risvegliarsi per soffrire in eterno,
provando le stesse sensazioni che la stavano travolgendo in quel momento. Desiderava non esistere.
«Floz, ti sei ubriacata. L’abbiamo fatto tutti».
«Ho vomitato, vero?», chiese lei, umiliata. “Sì, lo hai fatto”, disse
una piccola voce irritante e infame nella sua testa. “Lui ti teneva indietro i capelli mentre vomitavi sul pavimento del bagno, ricordi?”.
«Un po’». Guy sollevò le mani in un gesto che voleva significare:
«E allora?».
“Ti ricordi di esserti seduta sulle sue ginocchia?”, la provocò
quella vocina. “Scommetto che non riesci a ricordarti quello che gli
hai detto, lurida sgualdrina”.
«Ho detto qualcosa?», disse Floz, con le mani ancora premute
sugli occhi.
«Solo “bleah”».
Accidenti, questo migliorava o peggiorava le cose?
«Floz, ti sei ubriacata, hai pianto, hai vomitato», disse Guy, con la
stessa autorevolezza di Giulio Cesare. «Ti ho dato un po’ d’acqua in
modo che avessi meno mal di testa e ti ho messa a letto. Fine della
storia. Non hai fatto nulla di sbagliato. Tranne ballare a seno nudo».
Gli occhi di Floz si spalancarono fino a raggiungere le dimensioni
di due fari.
Guy mise le mani in avanti: «No, scusa, non avrei dovuto dirtelo.
Stavo solamente cercando di rallegrarti un po’. Davvero. Non hai
ballato per nulla. Scusa».
«Ti ho telefonato?». Certo che no. Perché avrebbe dovuto telefonare a lui?
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«No, io ho telefonato a te per sapere se stavi bene. Dopo tutta
quella… faccenda di Nick».
“Chiedigli perché indossi quella camicia”, le suggerì la vocetta
malvagia.
Portava il reggiseno? Quello bianco e comodo che metteva a lavare con qualsiasi bucato colorato? Guy l’aveva visto?
«Senti, vado a prepararti un po’ di tè». Guy si allungò per stiracchiarsi, visto che si sentiva tutto indolenzito a seguito della nottata
trascorsa rannicchiato su quella piccola poltrona.
«No, fa lo stesso. Hai già fatto abbastanza per me».
«Insisto».
«No, per favore».
«Floz, fai finta che io sia Juliet e che, come lei, non accetti un no
come risposta, va bene?».
Floz sospirò, poi fece lentamente un cenno di assenso. Attese che
lui fosse uscito zoppicando dalla stanza, prima di mettere piede fuori
dal letto. O meglio ancora, mettere piede fuori dalla giostra, perché
si sentiva proprio su una giostra. Non le serviva uno specchio per
sapere che aveva un aspetto orribile. Tuttavia, dato che era una
stronzetta a cui piaceva torturarsi da sola, gli rivolse un’occhiata
furtiva. Sorpresa! Era sorprendente: non aveva le occhiaie! E nemmeno alcuna traccia di trucco. Malgrado ciò, la sua frangia era scompigliata e appiccicata alla fronte e c’erano delle deliziose borse sotto
un paio di graziosi occhi color rosa ciclamino. Il tutto era messo
splendidamente in risalto dall’orrenda camicia psichedelica, che
continuava a dimenticarsi di mettere nei sacchi per la beneficenza.
Ciononostante, il sollievo e la gioia la travolsero quando notò che la
camicia era abbottonata come solo un ubriaco avrebbe potuto fare –
doveva averla allacciata da sola.
Uscì in punta di piedi con una bracciata di vestiti puliti e si diresse in bagno per farsi una doccia. Le sembrava di barcollare un po’ e
avvertiva un lieve senso di nausea, giacché non aveva niente nello
stomaco. Una spruzzata d’acqua, seguita da un velo di trucco, la fecero sentire quasi umana.
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Guy stava friggendo la pancetta. Lo stomaco vuoto e nauseato di
Floz reagì all’odore con un brontolio primordiale.
«Sembri un po’ meno verde lime sulle guance». Guy le rivolse un
sorriso e tirò in fuori una sedia da sotto il tavolo, in corrispondenza
del posto che aveva apparecchiato per lei, con tanto di tazza di tè. Gli
occhi di lui erano grigi e scintillanti e il suo viso era molto più bello,
dato che non la stava guardando con quella sua solita espressione
corrucciata. «Siediti», le ordinò. «E mangia».
Le mise davanti un sandwich sfrigolante. Floz non riusciva a ricordare se prima di quel momento un uomo le avesse mai preparato
la colazione. Nick le aveva promesso che, quando sarebbe venuto a
trovarla, le avrebbe cucinato una vera colazione canadese, quella dei
cacciatori. “Nick, che non esisteva”.
Guy aveva tolto tutto il grasso dalla pancetta, notò Floz. Lei
odiava il grasso. Chissà come lui lo sapeva e aveva agito di conseguenza. Non sembrava lo stesso Guy che non le permetteva di entrare nel proprio appartamento. Poi capì tutto: “È stato quando
stavano guardando il mio computer”.
Ed era stato Guy a setacciare la rete e a scoprire per lei la verità su
Nick/Chas. E la scorsa notte si era preso cura di lei. Non lo avrebbe
fatto se non gli fosse piaciuta, giusto? Come aveva fatto a fraintendere ogni cosa? Prima di rendersene conto, le lacrime iniziarono
a rigarle le guance più velocemente di quanto riuscisse ad asciugarle.
Diede un morso al panino, più per soffocare i singhiozzi che per
placare la fame. Guy la sentì tirare su col naso alle sue spalle, ma si
tenne occupato a tagliare il pane per il proprio panino mentre canticchiava. Floz sapeva che stava fingendo di non sentirla per risparmiarle un po’ di dignità.
«Grazie per aver scoperto tutto riguardo a… insomma, lo sai»,
disse lei a bassa voce. «Però, una parte di me non voleva che le cose
andassero così. Sarebbe stato più semplice continuare a credere che
lui era reale piuttosto che scoprire la verità».
Guy portò il suo panino con la pancetta al tavolo e si sedette.
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«Floz, ci sono delle persone veramente strane in circolazione. Restare aggrappata all’immagine di un uomo perfetto che non è mai esistito avrebbe condizionato troppo la tua vita. Nessuno in futuro
sarebbe stato all’altezza di quella fantasia».
Floz pensò a Nick: alto, con la giusta quantità di muscoli asciutti,
galante e intelligente, con una leggera inflessione canadese. Un personaggio che lui stesso aveva modellato nel tempo basandosi sul
concetto che lei aveva di uomo ideale. Guy aveva terribilmente ragione. Chas Hanson aveva una voce cortese, ammesso che le sue
telefonate fossero attendibili… ma era un uomo molto più vecchio di
quanto avesse lasciato a intendere, e solo Dio sapeva quale aspetto
avesse. Lei non sapeva se le foto che lui le aveva spedito fossero dei
vecchi scatti o se magari non erano nemmeno sue. Non c’era da
meravigliarsi se aveva condotto la loro relazione giusto a un passo
dal possibile incontro, prima di tirarsene fuori.
«E poi quanto ti sarebbe costato un viaggio in Canada? Non solo
in termini economici, ma anche in emozioni sprecate?»
«Mi sento una stupida», disse Floz in tono spossato. Aveva i nervi
tesi come se fosse appena sbarcata da un giro sulle montagne russe.
«Non sei una stupida», disse Guy. Le mani di lui erano sul tavolo,
vicine a quelle di lei. Erano gigantesche. Si immaginò Nick con delle
mani del genere, lunghe dita che l’accarezzavano e la stringevano.
Nick Nick Nick. «Floz, anche le persone più intelligenti vengono attratte da questi pazzoidi. Tanto per la cronaca, avendo visto le
lettere, scommetterei qualsiasi cosa sul fatto che a quel tipo stavi a
cuore. Sapeva che eri una persona genuina e credo che si sia invischiato in una fantasia che desiderava davvero fosse reale. Credo inoltre che la morte di suo figlio lo abbia totalmente fottuto e che
stesse cercando di restare aggrappato con le unghie al passato. Io…».
«Per piacere smettila», disse Floz. Era tremendamente imbarazzata all’idea che qualcuno avesse potuto vedere che cosa si
celava nel suo cuore. Specialmente Guy, che con ogni probabilità la
riteneva un’imbecille fatta e finita. Lei aveva aperto il suo cuore in
quelle lettere, credendo che fossero destinate soltanto agli occhi di
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Nick, e ora diverse persone le avevano lette. Tutti sapevano che
perfino i suoi stessi genitori non la amavano.
«Una volta avevo un’amica», iniziò a dire Guy. Non riusciva a credere di aver cominciato a raccontarle quella storia, ma poiché
pensava che avrebbe aiutato Floz, era preparato a ritornare in quel
luogo oscuro. «Eravamo usciti insieme soltanto un paio di volte
prima di lasciarci. Non era il solito tipo di donna di cui mi invaghisco, era così piccola e fragile e io desideravo proteggerla, ma accidenti, era una faticaccia. Era attratta dai drammi degli uomini disadattati che la trattavano in malo modo e non era in grado di accettare che io la rispettassi, per cui tra noi finì. Ma riuscimmo a restare amici. Si chiamava Lacey. Lacey Robinson. Abbiamo studiato
alla stessa scuola di cucina».
Poi si fermò, chiedendosi se Floz volesse ascoltare quella storia di
totale infelicità, ma lei gli fece cenno di proseguire.
«Era ossessiva quando si innamorava: il partner diventava il
centro del suo mondo. Non era salutare per lei. L’uomo poi la lasciava, o scompariva, e lei si rivolgeva a me, il suo unico amico, per
piangere sulla mia spalla. Poi, un giorno, iniziò a frequentarsi con un
tale di nome Jamie, conosciuto su internet: era “perfetto”. Aveva
tutto ciò che lei desiderava. Era quello giusto. Viveva a Durham per
cui non si vedevano spesso, e ciò contribuì a mantenere viva la
fiamma. Si incontravano in ristoranti romantici a pranzo, ma mai a
casa di lui e non trascorrevano mai la notte insieme. Lei stava pianificando di lasciare tutto per andare a vivere su da lui.
«Poi, un giorno, Jamie smise di contattarla. Non rispondeva al
telefono, ai messaggi o alle e-mail… Ci mancò poco che lei impazzisse, era a pezzi, si sforzava di capire che cosa gli avesse fatto per
indurlo a comportarsi così. Insomma, Lacey guidò fino a Durham.
Come sia riuscita a non avere un incidente resta un mistero. Lui non
voleva uscire da casa sua, per cui lei rimase seduta fuori, per ore; dopodiché arrivò la sua ragazza. A quanto pareva, il signor Amore Perfetto era in realtà il signor AmoreTraditore, che si divertiva ad adescare delle ragazze per poi sbarazzarsene quando la cosa si faceva
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troppo seria. La fase della conquista lo eccitava e non gliene fregava
nulla se in questo modo spezzava il cuore delle sue vittime. Inutile a
dirsi, Lacey era devastata. Mi telefonò quando arrivò a casa per raccontarmi tutto, ma sembrava a posto, come se l’avesse presa bene.
Mi disse che scoprire la verità l’aveva liberata da lui e che stava bene.
Veramente bene. Non avrei dovuto crederle, perché lei non stava mai
bene. Ma stavo lavorando, ed ero stanco, e non ho dato retta al mio
istinto che mi diceva di guidare fino a casa sua. Quella stessa notte si
riempì di pillole e di alcolici, si tagliò i polsi e si uccise».
«Oh, Guy. Di certo non te ne puoi fare una colpa».
«Avrei potuto salvarla se fossi andato da lei», disse lui, respingendo con un colpo di tosse il sentimento che rischiava di prendere il
sopravvento. «Sogno ancora il dolore che deve avere provato a uccidersi in quel modo. A essere onesto, per un po’ ho perso la retta via.
Steve mi ha accudito, ha lottato per strapparmi le bottiglie di vodka
dalle mani e mi ha messo a letto in più occasioni di quante io mi ricordi. Fidati, Floz, non puoi affogare le tue pene perché sono maledetti nuotatori da medaglia d’oro alle olimpiadi, e nessuno lo sa
meglio di me. Ho perso il lavoro, mi sono fatto arrestare per rissa,
non sapevo più quale fosse il mio ruolo nel mondo. Kenny Moulding
mi avrà anche stremato più del dovuto nel corso degli anni, ma mi
ha dato un lavoro quando nessun altro era disposto a farlo».
«Non devi incolparti per la sua morte», ripeté Floz in tono gentile. «Alcune persone nascono con il pulsante dell’autodistruzione, e
una volta che viene attivato, non c’è nulla che si possa fare per
arrestarlo».
«Vorrei poterci credere».
Floz rifletté per un istante prima di parlare.
«So di aver ragione, Guy, perché conosco una persona fatta esattamente così». Fece una pausa. «Aveva una moglie, una sua attività e
una bella casa. Poi…». “Così tanti giorni bui. Così tante cose che andavano storte. Così tanta tristezza”. «La sua attività iniziò ad andare
male. C’era bisogno di investire parecchi soldi per salvarla, ma lui
non disponeva di una somma tale e non riuscì nemmeno a
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racimolarla. Quindi, quando le banche gli rifiutarono i prestiti, si
diede al gioco d’azzardo, nella speranza di fare una grossa vincita che
lo salvasse». “Gli piaceva il gioco d’azzardo. L’eccitazione cancellava
tutta la tristezza”.
«Presumo che non vinse nulla», disse Guy.
«In realtà, all’inizio fu davvero fortunato. Forse se non avesse
avuto quei colpi di fortuna, le cose sarebbero andate diversamente.
Poi la sorte cambiò, ma lui era convinto che sarebbe tornata, che
c’era una grossa vincita proprio dietro l’angolo. Insomma, finì per
perdere al gioco tutto ciò che possedeva. Sua moglie non riuscì ad
aiutarlo. Ora è uno degli ubriaconi della città. Uno di quegli idioti
che stanno seduti sulle panchine fuori dai bagni pubblici con del
sidro scadente e della birra forte». “È per questo che non vado
spesso in città, per evitare di vederlo. Per evitare di vedere il mio ex
marito”. «Ero solita guardare quegli ubriaconi e chiedermi come
avessero fatto a ridursi così, da dove venissero, cosa fossero stati in
passato. Non sono certo nati tracannando da delle lattine».
«Però non si è ucciso, Floz. C’è una bella differenza».
«No, ma non era più lui, non gli importava più di nessuno se non
di se stesso. Si sta uccidendo, solo che il suo è un metodo molto più
lento. Nessuno è riuscito a fermarlo, il pulsante era stato premuto e
non c’è stato modo di tornare indietro. Anche sua moglie ha perso
tutto, ma ha deciso di andare avanti e sopravvivere. È molto difficile
cercare di proteggere qualcuno che è ostinato a farsi del male, che si
rinchiude nel proprio mondo e getta via la chiave». “E fino a poco
tempo fa non mi ero mai resa conto di quanto fosse facile scivolare
giù per la discesa”.
Le mani di Guy si chiusero sopra quelle di lei per poi stringerle.
Erano grandi e forti, pensò Floz. Quelle di lei erano piccole e fredde,
pensò Guy. C’era un silenzio rassicurante nella stanza, un’aria serena
e calma.
Floz disse in tono umile: «Per piacere non raccontare nulla di
tutto ciò a Juliet o a Steve». Le mani di lui erano ancora sulle sue e le
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piaceva. Il pollice di Guy fece un singolo tentativo di accarezzarle il
polso.
«Non lo farei mai», disse Guy. «Sarà il nostro segreto, va bene?».
Gli occhi di lui erano gentili e affettuosi, sembravano il manto di
un lupo grigio. Floz si rese conto in quell’attimo come mai Lacey
fosse riuscita a trovare un breve momento di sollievo dalle sofferenze
del suo cuore tra le braccia di lui, che la cingevano e stringevano.
Voleva che quelle braccia la cingessero. Voleva che la stringessero.
Voleva essere tenuta stretta contro il corpo protettivo di Guy Miller.
Poi, Juliet e Steve entrarono rumorosamente nell’appartamento e
le loro mani si staccarono.
«Ciaooo, siamo noi. Oooh…». Juliet vide Guy. «Che cosa ci fai tu
qui a quest’ora?». Le sue sopracciglia si inarcarono.
«No, no, niente di quello che pensi», disse Guy. «Ero semplicemente passato per vedere se…». Oh accidenti, non riusciva a pensare
a una scusa plausibile che giustificasse perché si trovava lì da solo
con Floz a quell’ora del mattino.
«… se eravate tornati», intervenne Floz. «Perché Guy voleva
vedere Steve per… ehm… gli abiti per il matrimonio».
«Sì, esatto», disse Guy, mimando un “grazie” con le labbra in
direzione di Floz quando Juliet si girò per guardare Steve.
«Spero tu non stia per andare a comprare qualcosa senza avermi
prima consultato», disse Juliet, puntando le mani sui fianchi con
fermezza.
«No», disse Guy. «Ma difficilmente troveremo i completi della
nostra taglia direttamente appesi sulle grucce di un negozio, per cui
ho pensato che avremmo fatto meglio a iniziare le nostre ricerche il
prima possibile».
«C’è quella cucitrice in Lamb Street».
«Cucitrice?», dissero Guy e Steve all’unisono.
«Se mi lasciate finire», brontolò Juliet. «È sposata con un sarto e
sono molto svelti a lavorare. Si è battuta per il movimento di emancipazione femminile e poi si è trovata un marito thailandese».
«Ottima idea», disse Steve. «Ci andiamo subito dato che sei qui?»
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«Perché no!».
Steve lasciò il borsone di Juliet e si affrettò a uscire insieme a
Guy.
«Allora, amico», disse Steve. «Che cosa sta succedendo tra voi
due?».
A volte gli uomini erano peggio delle donne quando si trattava di
spettegolare.
«Stai bene?», chiese Juliet nel tono più delicato che la sua voce
roca le permettesse. «Ti ho pensato».
«Sì, sto bene», disse Floz, mentre versava a Juliet una tazza di tè
dalla teiera. «Guy mi ha raccontato di Lacey».
«Lui è troppo buono quando parla di lei», disse Juliet. «Era una
stronza narcisista. Avrei voluto farla tornare in vita solo per ucciderla con le mie mani, dopo aver visto quello che ha fatto passare a
Guy. Ti ha detto che scriveva sulle pareti “Nessuno mi ama” e “Vi
odio tutti” e altre cose carine del genere? Desiderava ferire il tizio
che l’aveva scaricata molto più di quanto volesse vivere. E fu anche
uno sforzo inutile, perché a lui non importava un fico secco. Finì invece per crocifiggere Guy, perché è stato lui a guidare fino a casa sua
e a trovarla».
Floz si portò le mani alla bocca. «No, questo non me l’aveva
detto».
«Non ho mai riconosciuto a Steve il merito per quello che ha fatto
per Guy negli anni in cui mio fratello era a pezzi», disse Juliet. «Era
l’unico abbastanza forte da tirarlo fuori dalle risse e metterlo a letto
quando arrivava ad affogarsi il cervello nell’alcol. Ero troppo impegnata a vedere lo Steve che volevo vedere, e non l’uomo adorabile e
gentile che è. Mi ero abituata al fatto che non mi piacesse. Grazie al
cielo mi sono ricreduta perché sono davvero fortunata a stare con un
uomo come lui».
«È vero», disse Floz con un ampio sorriso.
«Vorrei che anche tu trovassi il tuo Steve, Floz», disse Juliet,
mentre gli occhi le si riempivano di lacrime.
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«Anch’io», disse Floz.
«Cielo, questi dannati ormoni!», commentò Juliet, allungando la
mano verso i fazzoletti, a metà tra il riso e il pianto.
Quella notte, Floz si girò e rigirò nel letto; tutta la storia di Nick
Vermeer le rimbombava in testa. Sapeva che doveva farla finita, che
doveva farlo per se stessa: doveva scrivergli e dirgli tutto quello che
pensava.
“Avrei dovuto insospettirmi nello stesso istante in cui mi ha
scritto la data di compleanno fasulla, perché mi sono ricordata che
una volta mi avevi detto che era in ottobre. Sei davvero un bugiardo
molto convincente. Sei un ignobile bastardo totalmente deviato. Ti
odio…”.
Il cuore le stava battendo forte, degli insulti le stavano prendendo
forma nella mente; poi le apparve in testa una visione di Jamie, l’ex
di Lacey. Come Lacey, anche lei desiderava ferire Chas Hanson. Ma
quale garanzia c’era che ciò sarebbe accaduto? A che cosa sarebbe
servito? Doveva essersi già reso conto di essere un uomo deviato,
senza il bisogno che lei glielo dicesse chiaro e tondo. Pensò al modo
violento in cui suo figlio si era ucciso. Quanto doveva essere profonda la ferita che aveva dentro, giacché aveva cresciuto un
bambino, l’aveva amato e poi aveva dovuto seppellirlo dopo che
questi si era tolto la vita in un modo terribile, violento e tragico?
Floz sfogò il proprio malumore sulle pagine, si liberò di tutte le
cose che avrebbe voluto dire a Chas Hanson, se lui le fosse apparso
davanti. Poi, dopo aver messo l’ultimo punto, premette il tasto per
cancellare. Quelle parole accusatorie restarono ad aleggiare lì
nell’aria, ma lei non le avrebbe inviate a Chas per non accrescere il
suo dolore.
Capitolo settantanove
«Allora?».
Juliet emerse dal camerino: sembrava un gigantesco rotolo di
carta igienica. Perfino una sposa gitana sarebbe apparsa sobria a
confronto. Floz cercò di non ridacchiare, ma Coco non si fece scrupoli ed entrambi scoppiarono a ridere fragorosamente.
«Te l’avevo detto che sarei sembrata una cretina!», sorrise Juliet.
«E non voglio un abito bianco. Voglio qualcosa di leggermente diverso, che sia più mio».
«Non mi divertivo così da anni», disse Coco, asciugandosi le lacrime agli occhi. «È più divertente dello scherzo fatto ad André Previn
per mano di Morecambe e Wise, il celebre duo comico».
«Potrei suggerirle una cosa del genere», disse la graziosa signora
che gestiva il negozio. Il tesserino affermava che si chiamava FREYA,
era alta ed elegante, ed esercitava lo stesso effetto calmante del Prozac sulle spose nervose.
Freya le porse un vestito smanicato, lungo e semplice, dalla linea
molto morbida. Era di una tenue sfumatura dorata, e Juliet e la sua
combriccola sospirarono all’unisono per lo stupore.
«Questo sì che è magnifico». Juliet prese la gruccia e ne osservò il
colore.
«Molto autunnale, non crede?», sorrise Freya. «E fare le scarpe e
il velo dello stesso colore».
Juliet chiuse la tenda del camerino, dopo aver detto a Freya che
non le serviva aiuto. Uscì pochi minuti dopo: era una perfetta sposa
tutta curve. Il sorriso sul suo volto era più grande di una falce di luna
nuova.
«Non sono davvero meravigliosa con questo vestito?».
Gli occhi di Coco si riempirono di lacrime e iniziò a sventolare le
mani come una foca squilibrata.
«Oh, questo sì che è l’abito giusto! Ju, sei uno schianto».
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Juliet si osservò allo specchio. Quando si sarebbe sposata – tra
ventisette giorni – la sua pancia sarebbe stata più grande per via del
bambino, ma non aveva importanza poiché la forma stessa dell’abito
avrebbe nascosto il pancione. Si sentiva stupenda in quel vestito e
desiderava essere veramente bella per Steve. Suo marito e il padre
dei suoi figli. Aveva usato il plurale perché sapeva che stava aspettando dei gemelli. Nessun medico gliel’aveva confermato, ma lei lo
sapeva. Allo stesso modo in cui aveva segretamente saputo di essere
incinta ancora prima che il test di gravidanza desse il suo responso.
«Bene, ora dobbiamo occuparci delle mie damigelle», disse Juliet,
mentre Freya le apriva la cerniera. «Inizieremo con gli abiti da
donna».
Quando Freya suggerì un abito marrone per Floz, Coco e Juliet
storsero il naso, ma avrebbero dovuto fidarsi della signora. Freya
mostrò loro tre vestiti di un intenso color cioccolato. Il primo era
troppo elaborato e faceva sembrare Floz abbastanza tozza, ma il
secondo, un abito senza spalline con bolero abbinato, metteva perfettamente in risalto le sue deliziose forme sinuose.
«Oh, Floz, mi viene voglia di leccarti», disse Coco. «Non in senso
sessuale, non sto per cambiare sponda, non ti preoccupare. È solo
che sembra che tu sia fatta di cioccolato al latte».
I capelli rossi di Floz sembravano fiamme in contrasto con il marrone intenso del tessuto. Freya se la immaginò con delle piccole
foglie intrecciate nei capelli, al posto di un copricapo. Ancora una
volta, aveva ragione. Raccolse i capelli di Floz, lasciandoli morbidi, e
li fissò con delle spille a forma di foglia. Disse che poteva replicare
quelle stesse foglioline sul velo di Juliet, cucendone alcune sopra, ma
poi Juliet scorse un alto diadema dorato che rifletteva più luce di una
sfera specchiata – e la decisione fu presa all’istante.
Juliet era estasiata poiché tutto si stava sistemando più velocemente del previsto. Coco scelse un’enorme cravatta da dandy in
una simile sfumatura di cioccolato. All’improvviso, ebbe una visione
di se stesso con quella cravatta e un completo verde, per cui la fermata successiva che fecero fu la sartoria in centro, dove la fortuna fu
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dalla sua e trovò un abito da uomo preconfezionato e una camicia,
che non sarebbero sembrati fuori luogo addosso a Mr Darcy di Orgoglio e pregiudizio.
Juliet sospirò mentre osservava le giacche e i pantaloni da uomo
nelle grucce. Pensò a Steve in un completo elegante, lo immaginò intento a togliersi quegli stessi abiti la sera del matrimonio, per poi
comandarle di spogliarsi all’istante. Era così autoritario nell’intimità.
Per un minuto, trattenne quell’immagine nella sua mente, poi gli
telefonò per dire a lui e a Guy di muovere i loro sederi fino al negozio
White Wedding di Maltstone e dare un’occhiata alle cravatte marrone scuro. Quel giorno, anche loro erano in giro per farsi prendere
le misure dei completi.
Mentre lasciavano il negozio di abbigliamento maschile, Juliet
notò come Floz fosse nervosa quando erano in città, come si guardasse intorno, come se si aspettasse che qualcuno le sarebbe saltato
addosso. Aveva inoltre notato che Floz si recava raramente nel
centro di Barnsley. Se aveva bisogno di comprare qualcosa andava
sempre a Meadowhall, il centro commerciale.
«Che cosa c’è, Floz?», rise Juliet. «Stai cercando di evitare
qualcuno?»
«Sì», disse Floz. Sentì che era giunto il momento di fidarsi dei
suoi amici. Fece un profondo respiro: «Il mio ex marito. Non mi va
di incontrarlo».
«Non te ne faccio una colpa», disse Juliet. «Ho visto Roger un
paio di volte in città con Hattie e non mi ha fatto molto piacere. Non
è strano che delle persone che una volta ti erano così vicine siano diventate dei perfetti sconosciuti?».
Floz annuì, poi fece un altro profondo respiro e proseguì, fiduciosa: «Vi ricordate di quell’ubriacone che abbiamo visto una volta,
quello che cantava e che la polizia ha portato via? Era lui il mio ex
marito».
«Accidenti», disse Coco. «Non c’è da stupirsi che tu sia corsa a
comprare della cioccolata».
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«Scommetto che anche tu ti senti disgustata al pensiero che una
volta andavi a letto con lui, proprio come capita a me quando penso
a Roger». Il viso di Juliet si contrasse in una smorfia di repulsione.
“Ecco fatto, non è stato poi così difficile lasciare entrare qualcuno
nella mia vita”, pensò Floz.
«Andiamo a pranzare al Yorkhsire Rose», suggerì Coco.
«Perché non andiamo invece in quel piccolo bistrot vicino a
Hobbyworld?», propose Floz.
«Ma io sto morendo di fame adesso!». Coco sporse in fuori il labbro inferiore.
«Saremo lì in quindici minuti, ed è delizioso», insistette Floz.
«Concordo», disse Juliet. «Andiamoci. Floz non vuole incontrare
il suo ex, per cui non obblighiamola a restare in centro».
«Scusa, Floz», disse Coco. «È molto più importante che tu ti senta
a tuo agio piuttosto che io dia retta al mio stomaco. Guidiamo fino a
Sheffield».
Dopo pranzo si riversarono dentro Hobbyworld per procurarsi
degli addobbi da tavola. Floz trovò delle deliziose scatoline da regalo
dorate a forma di cuore e alcune piccole decorazioni a forma di fuochi d’artificio. Comprarono dei cartellini segnaposto, dei coriandoli e
dei tovaglioli con disegni di foglie, dato che il responsabile dell’Oak
Leaf aveva detto loro che se volevano qualsiasi cosa che esulasse dai
tovaglioli avrebbero dovuto provvedere da soli. Era di gran lunga
una delle giornate più belle passate a fare shopping che Juliet avesse
mai trascorso.
E in serata sarebbero usciti insieme agli amici del wrestling di
Steve, una volta terminati gli incontri. Quella sera, Steve sarebbe
stato il lottatore buono, con tanto di grandi ali da angelo. Juliet era
piuttosto allettata dall’idea di fare l’amore con un angelo. Prese mentalmente nota di ricordarsi di dire a Steve di portare il costume a
casa, alla fine della serata.
Capitolo ottanta
La Sala del Centenario era semivuota quella sera. Il quotidiano
«South Yorkshire Herald» aveva omesso di pubblicare un annuncio
che servisse a incrementare il numero degli astanti, le aveva riferito
Steve poco prima per messaggio. A quanto pareva, il giornle in questione non considerava il wrestling come un vero sport, per cui non
l’avrebbe supportato. Juliet si infuriò quando entrò e vide così tanti
posti vuoti. «Bastardi presuntuosi di un giornale incompetente»,
disse a Floz. «Non vogliono scrivere di un evento del genere, ma se
coltivi il pomodoro più grande di Wombwell, allora sì che ti ritroverai in prima pagina, cacchio».
Juliet guardò Steve che saliva sul ring e si dispiacque per lui.
Amava talmente tanto quello sport. Sarebbe stato nel suo elemento
se fosse nato negli anni d’oro del wrestling britannico. Ma non era
così e poteva esibirsi soltanto davanti ai sostenitori più accaniti e a
qualche anziano nostalgico.
«Forza Steve!», urlò Floz. Poi si tappò la bocca con le mani. Si era
lasciata trasportare troppo. Il vecchio signore vicino a lei la stava fissando e lei si sentì in dovere di scusarsi.
«Mi scusi se ho urlato. Spero di non averla assordata», disse.
«Per nulla», ribatté lui. Floz non riuscì a capire se il signore fosse
originario dello Yorkshire o degli Stati Uniti, poiché aveva un accento veramente particolare.
«È solo che conosco Angel», continuò Floz. «Sposerà la mia amica il prossimo mese. È davvero un bravo ragazzo».
«È anche un lottatore molto bravo», disse il signore anziano.
«Vive e respira per il wrestling», osservò Floz, mentre Juliet si
alzava in piedi e urlava degli insulti mirati mentre Jeff Leppard
cingeva il suo amante in una presa a cravatta. Floz aggiunse con un
sussurro: «Tuttavia, credo preferirebbe vedersela con Steve sul ring
piuttosto che con la sua signora».
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Il signore anziano rise. «Che lavoro fa durante il giorno?», chiese.
«È un imbianchino», disse Floz. «Ed è anche molto bravo. È uno
che lavora sodo».
«Bastardo!», urlò Juliet a Jeff.
«Sono amici in realtà», spiegò Floz. «Più tardi, Jeff Leppard uscirà a bere qualcosa insieme a tutti gli altri ragazzi, per festeggiare il
fidanzamento di Steve e Juliet. Anche lei è il benvenuto se vuole
unirsi a noi. Non è una festa privata».
«Ah, com’è gentile». L’anziano signore si mise a braccia conserte.
«Ho sentito dire che ci saranno dei panini e degli stuzzichini».
Floz non poteva sapere che genere di ripercussioni avrebbe causato quella conversazione.
Di certo i ragazzi del wrestling non avrebbero permesso a Steve di
fare una festicciola di fidanzamento sottotono. Di nascosto a Steve e
Juliet, avevano fatto una colletta e avevano organizzato una festa
“per Feast”. C’era più cibo che a un banchetto degli antichi romani, e
anche qualche bottiglia di spumante per le signore, dato che gli
uomini restarono fedeli alle birre. E Guy, che quella sera doveva
sfortunatamente lavorare al Burgerov, aveva realizzato e inviato loro
un’enorme torta a forma di ring da wrestling, con uno Steve al cioccolato fondente con tanto di ali e una Juliet vestita da demone
provocante.
«Mi chiedo quanto possa essere sembrato strano a Guy modellare
le tette di sua sorella con la glassa», rise Juliet. Si sentì veramente
commossa dal calore che percepiva in quella stanza. Durante il discorso di Steve, nel quale lui elogiò i suoi prodi compagni e il wrestling, Floz notò che il signore anziano che era seduto vicino a lei era
venuto al pub e stava osservando gli sviluppi. Fu quasi schiacciato
dalla porta che si spalancò quando Chianti Parkin entrò come un
tornado, con suo padre e suo zio alle calcagna.
Era la prima volta che Floz vedeva la leggendaria Chianti. Era alta
con capelli lunghi e fruscianti, che continuava a ravvivarsi con le
mani per poi farseli ricadere sulle spalle. Non c’era un filo di grasso
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sul suo corpo, aveva un vitino da vespa e indossava degli stivali con il
tacco a spillo che le arrivavano fino alle cosce, esaltandole un paio di
gambe sottili e lunghissime. Ciononostante, Floz restò più che altro
colpita dal suo viso. Avrebbe dovuto essere carino, poiché aveva tutte
le carte in regola: occhi a mandorla, naso piccolo, zigomi che
avrebbero potuto tagliare il metallo; eppure, le labbra erano sottili e
arricciate come un sacchetto chiuso con uno stretto cordoncino. Invece di essere carina, sembrava dura e priva di carattere: nella smorfia della sua bocca si intravedeva la sua vera anima. A Floz fu subito
evidente che la bellezza di Chianti era una patina molto sottile. Specialmente se poi guardava dall’altra parte, in direzione della splendida e dinamica Juliet, tutta intenta a sorridere con quelle sue labbra
piene, con una luce le danzava negli occhi verdi. Sprizzava gioia e felicità, stava parlando con Alberto Masserati e i Pogmoor Brothers –
Kerry e Hilary – che avevano imparato a combattere da piccoli
proprio perché li avevano chiamati Kerry e Hilary, come le aveva
riferito Juliet.
Chianti agguantò un bicchiere di vino e lo prosciugò talmente in
fretta da sembrare che volesse autopunirsi. Poi ne prese un altro.
Mentre suo padre e suo zio socializzavano, Chianti fissava Steve con
ostilità, e vacillava leggermente sui tacchi. Poi, quando Steve gettò
indietro la testa per ridere, qualcosa sembrò scattare dentro di lei.
Camminò a passo lungo e deciso verso di lui, e prima che Steve
potesse accorgersi di ciò che stava accadendo, lei gli lanciò in faccia
un bicchiere pieno di spumante.
«Sai qual è il motivo, vero?», Chianti sorrise compiaciuta. «Se c’è
qualcuno che scarica gli altri, quella sono io».
L’unica reazione di Steve fu quella di asciugarsi il vino dal volto
con le sue grandi mani, il che sembrò far infuriare ancora di più Chianti. Lei voleva un litigio, non una dignitosa manifestazione di indifferenza da parte di quello stupido e ottuso idiota che aveva osato
porre fine a un appuntamento con lei per andare a incontrarsi con
qualcun’altra. Per non parlare poi di chi era quell’altra!
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«Quindi, dov’è la tua grossa, grassa e brutta fidanzata?», sghignazzò Chianti.
«Se ti riferisci a me, sono qui», disse Juliet dietro di lei. Poi afferrò i capelli color ottone di Chianti, le tirò la testa all’indietro e le versò un’interna pinta di birra direttamente sulla faccia.
«Le mie extension!», strillò Chianti. Alcune di queste, che non
erano state incollate a dovere, si staccarono e rimasero nelle mani di
Juliet.
«Juliet!», urlò Steve. Ma la sua formidabile fidanzata non si
sarebbe fatta zittire e nessuno – nemmeno Alberto Masserati – fu
abbastanza coraggioso da intromettersi.
«Come osate tu e i tuoi capelli finti entrare qui dentro e rovinare
la mia festa?», disse Juliet con tono rabbioso mentre spingeva Chianti verso la porta. «Non permetterti di aggredire ancora il mio
uomo, o la prossima volta ti staccherò le tue unghie finte e te le ficcherò in quelle tue poppe altrettanto finte!».
Chianti gemette sbigottita mentre il suo fondoschiena atterrava
sul marciapiede all’esterno del locale e Juliet si strofinava le mani.
Tornò nel pub appena in tempo per vedere Little Derek che
puntava il dito contro Steve.
«Non osare chiedermi mai più di lavorare, giovanotto», grugnì
prima di sbattere la sua pinta di birra ancora a metà sul tavolo. Poi
uscì marciando dal pub, seguito dal fratello.
«Be’, fantastico, dannazione», disse Steve con un profondo
sospiro. «Perché diamine hai dovuto intrometterti, Ju?». Se fosse
stato da solo avrebbe potuto piangere. Little Derek era l’unico agente
che conosceva. Non sarebbe stato più in grado di partecipare a dei
combattimenti di wrestling se lui non gli avesse passato dei lavori.
«Cambierà idea, amico», disse Fred Zeppelin, dandogli una pacca
sulla spalla di Steve. Tuttavia, il tono della sua voce diceva tutto il
contrario, in quanto sapevano tutti che Little Derek, se voleva,
sapeva essere un vero lurido pezzente: nessuno poteva permettersi
di far arrabbiare la sua preziosa figlia e farla franca.
«Oh cielo», disse Steve, abbassando gli occhi verso i suoi stivali.
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Quando sollevò la testa, il signore anziano con l’accento bizzarro
era davanti a lui, sorridente. E gli stava porgendo la mano.
«Posso presentarmi?», disse. «Mi chiamo Patrick Milburn. Forse
conosce mio figlio, per lo meno di nome, si tratta di William
Milburn».
Steve gli strinse la mano, per educazione.
«Mi dispiace, non credo di conoscere suo…».
Patrick Milburn mise la mano in tasca e gli diede un biglietto da
visita. Steve lo lesse. Poi lo rilesse ed ebbe la sensazione che il
cervello stesse per esplodergli. Il biglietto aveva stampato sopra il
nome di Patrick, sotto tre grandi lettere in bianco e rosso: GWE,
Global Wrestling Enterprises. William “Will” Milburn. Il capo miliardario della GWE. E quello era suo padre.
«Sono in missione per scoprire dei nuovi talenti», disse Patrick
Milburn. «Figliolo, ti piacerebbe venire in America nelle prossime
settimane per discutere di un contratto?».
Capitolo ottantuno
La mattina successiva, Steve aveva i tremendi postumi di una
sbronza, proprio come Jeff Leppard, Fred Zeppelin, Tarzan e
l’enorme e irsuto Apeman, Klondyke Kevin e Big Bad Davy. I Pogmoor Brothers dovettero fare a turni per accompagnarli a casa. La
festa che seguì l’annuncio di Patrick Milburn aveva messo in ombra i
festeggiamenti che avevano preceduto l’entrata di Chianti.
Ma proprio in quel momento, mentre Steve se ne stava disteso a
letto con il mal di testa che iniziava a svanirgli grazie alle compresse
che Juliet gli aveva dato, la realtà iniziò a intrufolarsi nei suoi sogni.
«È bello che me lo abbiano chiesto», disse lui, cingendo le spalle
di Juliet con un braccio. «Ma ora non posso andare. Proprio no».
Juliet scrollò le spalle: «Che cosa intendi dire? Perché non ci puoi
andare?»
«Non ci andrei mai senza di te. E non voglio chiederti di lasciare
la tua famiglia».
«Tu ci andrai, Steve Feast. E io verrò con te».
«E che cosa facciamo con il bambino? Tua madre e tuo padre
saranno distrutti se non potranno vederlo crescere».
Juliet si appoggiò contro di lui. «Steve, non so come andrà a finire
questa storia. Quello che so è che è da una vita che desideri avere
questa opportunità e devi coglierla. Immagino che sarai spesso in
giro; quando ciò accadrà io verrò a casa e starò con mamma e papà.
E poi c’è sempre Skype per quando sarò lontana da loro, e da te.
Troveremo una soluzione. In qualche modo. C’è tanta gente che ci
riesce».
«Mi piacerebbe farlo, Ju. Soltanto per qualche giorno».
«Lo farai. Non discutere con me. Dici sempre a Guy di provare a
realizzare i suoi sogni, e ora è giunto il tuo momento di avere successo, tesoro».
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«Sei così deliziosamente autoritaria, Juliet Miller. Ti amo più del
wrestling, lo sai, vero? Hai qualcosa da ridire anche su questo?».
Steve la baciò delicatamente sulla sua deliziosa e dispotica bocca.
E per una volta, Juliet Miller non desiderò dire nulla, poiché
sapeva che se Steve Feast l’amava più del wrestling significava che
allora l’amava da impazzire.
Floz guidò fino all’edicola per prendere il giornale della domenica, ma non tornò subito a casa. Al contrario, fece una lunga deviazione passando per la campagna, sorpassò Maltstone e si spinse
ancora oltre sulla Higher Hoppleton Road. Era una zona gremita di
cascine e alcuni campi avevano ancora delle enormi palle di fieno
mietuto. Sul ciglio della strada erano sbocciati dei papaveri scarlatti,
nel pieno del loro vigore; si reggevano dritti, immobili e silenziosi,
con un’aria di reverenza. Oltrepassò tre signore anziane che stavano
raccogliendo le ultime more polpose dalle siepi, con cui avrebbero
poi preparato delle deliziose torte di mele e more, o almeno così si
immaginò. Floz non era sicura di dove fosse il cottage, per cui guidò
piuttosto lentamente, ma poi scorse l’avviso IN VENDITA, sbarrato con
un’etichetta adesiva posta in diagonale che diceva VENDUTO. Accostò,
curiosa di vedere perché Hallow’s Cottage avesse stregato a tal punto
Guy.
Con uno spintone aprì il cancello e dovette camminare lungo il
vialetto per un tratto prima di riuscire a osservare la casa nella sua
interezza, dato che le sterpaglie del giardino erano spesse e voluminose. Ciononostante, non appena posò gli occhi sulla casa, comprese
subito perché Guy Miller avesse desiderato quel cottage sin da
quando era un bambino.
Proprio come Guy, lei non vide la vernice scrostata delle finestre,
e quando guardò attraverso i vetri, non notò l’intonaco sgretolato o
l’orribile moquette. Vide un fuoco crepitante nell’immenso camino,
vide se stessa assorta a leggere, sdraiata su un grande e soffice divano, con un vecchio e amichevole gatto nero come Stripies che le
faceva le fusa sulle ginocchia. Vide Guy Miller con un grembiule
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bianco e un cappello da chef, che reggeva un grande vassoio con
formaggi, pane e pâté. Floz restò senza fiato. Da dove le era sbucato
quel pensiero? Perché stava pensando all’eventualità di condividere
una casa proprio con Guy Miller?
Floz si sentì piuttosto traballante, mentre tornava alla macchina.
Capitolo ottantadue
Il lunedì, di prima mattina, Guy ricevette una telefonata dal suo
avvocato che gli comunicava che tutte le pratiche del ristorante
erano state completate. Il Burgerov era ufficialmente suo e poteva
chiuderlo, sventrarlo, suffumicarlo e farlo risorgere magnificamente
come una fenice dalle ceneri. Si recò al lavoro sul presto con rinnovato vigore, pronto alla battaglia. E proprio perché ci andò presto,
trovò Varto intento a far scivolare nel suo armadietto una bottiglia di
vodka che aveva preso dal bancone del bar.
«Buongiorno, Varto», sorrise Guy. «Dato che sei negli spogliatoi,
prendi il tuo cappotto e tutti i tuoi averi e vattene dal ristorante. Sei
licenziato».
Varto si girò verso di lui con un ghigno arrogante stampato sul viso. «Lo sai che non puoi licenziarmi», disse. «Non è il tuo ristorante.
È il ristorante del signor Moulding e credo che lui avrà qualcosa da
ridire se cerchi di licenziarmi. È molto amico di mia mamma, non so
se mi sono spiegato…».
Guy rimase ammutolito.
Varto non aveva la benché minima idea del fatto che il proprietario del Burgerov fosse cambiato.
Guy pensava che fosse trapelata qualche voce, ma Varto sembrava
all’oscuro di tutto. Guy batté mentalmente le mani, e si preparò a
divertirsi.
«Quindi non lo sapevi che sono il tuo nuovo capo? Kenny non ha
detto alla “tua mamma” che ha venduto il Burgerov a me? E in qualità di tuo nuovo capo ti sto licenziando per aver rubato quella bottiglia di vodka».
«Stai mentendo», disse Varto. «Non sei il proprietario». Guy notò
che Varto non aveva accennato al fatto che fosse una bugia che era
stato sorpreso a sgraffignare della vodka.
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«Vai a chiedere a Kenny, allora. Oh, scusa non puoi. Vedi, presumo che ormai Kenny sarà su un volo per la Spagna. Con la signora
Moulding. Arrivederci, Varto. Ti farò avere i tuoi documenti fiscali».
Varto iniziò a sbraitare ad Antonin in modo molto drammatico
nella loro lingua dell’Est Europa; quest’ultimo gli rispose, poi si
rivolse a Guy con in volto la stessa espressione arrogante.
«Se Varto se ne va, me ne vado anche io».
«Lasciate il Burgerov allora», disse Guy con calma, ridacchiando
fra sé.
«E verranno via anche Igor e Stanislav. Non avrai nessuno per
mandare avanti il tuo schifoso ristorante».
Be’, se quella era una tecnica di ricatto, di certo non stava funzionando. Guy restò in piedi con le braccia conserte e un sorriso di
puro divertimento.
«Le considererò le vostre dimissioni ufficiali, posso?», disse.
«Gina, farai da testimone?»
«Sì», disse Gina, lieta di sentire che Guy aveva assunto il potere e
ben contenta che stesse per instaurarsi un nuovo regime.
Dopo che diverse ante degli armadietti furono sbattute e, presumibilmente, dopo svariate imprecazioni, Igor, Stanislav, Varto e Antonin uscirono infuriati dal ristorante, fermandosi vicino al cancello
per dare a Guy l’opportunità di calmarsi e richiamarli, offrendo loro
un aumento di stipendio dopo essersi scusato in ginocchio. Non si
aspettavano di vedere Gina che affiggeva un avviso scritto alla finestra che annunciava che il Burgerov sarebbe rimasto chiuso fino a
nuovo ordine.
Trascorsero la mattinata a cancellare le poche prenotazioni che
erano state fatte e a chiamare le imprese edili per chiedere loro se
sarebbero riuscite a venire prima della data precedentemente fissata.
Dato che tutto il personale di Guy se ne era andato, i lavori potevano
tranquillamente cominciare prima della fine del mese. Ovviamente
avrebbe tenuto Gina e Sandra, la signora della contabilità, insieme
alla vecchia Glenys, l’addetta alle pulizie, e le avrebbe pagate anche
mentre erano chiusi. Non avrebbe potuto andargli meglio. Kenny
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non si era preso il disturbo di telefonargli e di fargli sapere che la
transazione era stata completata molto prima del previsto, ma del
resto Kenny si era tolto il ristorante e tutte le relative preoccupazioni
dalla mente la mattina in cui Guy si era offerto di acquistarlo. Adesso
il Burgerov non esisteva più. Nel giro di un paio di mesi si sarebbe
chiamato con un altro nome, avrebbe avuto del personale entusiasta
e pulito e un menu che avrebbe attirato i clienti come il canto di una
sirena.
Il re era morto. Lunga vita al re.
Capitolo ottantatré
Guy stava pensando a Floz. Non era stupido, aveva capito, ovviamente, che Floz stava parlando di suo marito quando le aveva raccontato la storia dell’uomo con il pulsante dell’autodistruzione. Poi
pensò alle bellissime lettere che lei aveva inviato al fittizio Nick, e a
quanto amore avesse da dare. Doveva averne messo da parte parecchio, enormi dispense di amore accantonato per qualcuno di speciale. Desiderò poter essere il destinatario. Le avrebbe restituito
tutto quell’amore decuplicato.
Lo splendido viso di Floz era costantemente nella mente di Guy,
impresso a fuoco nel suo lobo frontale. Sapeva che avrebbe dovuto
confessarglielo e chiederle di uscire a cena, senza combinare ulteriori pasticci. Non voleva concedere al destino la possibilità di mandargli ancora tutto all’aria. Quella sera Guy andò a letto con un piano
molto semplice in mente.
La mattina successiva Guy era in piedi fuori dal portone di Blackberry Court. Si era ripetuto almeno un milione di volte quello che
avrebbe detto, e un milione di volte aveva incespicato, creando una
variazione sempre più scadente di quello che aveva stabilito di dire
in precedenza. Era una bellissima giornata, fresca e luminosa, con
una brezza appena sufficiente a scuotere le foglie color bronzo, che
erano ancora ostinatamente appese agli alberi.
«Coraggio, Guy», si incitò. Il suo braccio si allungò e premette il
campanello. Non successe nulla per quella che sembrò un’eternità.
Ironico, pensò ridendo, che avesse trovato il fegato di compiere quel
passo e lei non era in casa. Poi udì una voce soave: «Chi è?»
«Oh, ciao, sono Guy. Floz, posso chiederti una favore?»
«Sali», disse lei e gli aprì la porta.
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Fase uno completata. Salì gli scalini tre alla volta. Lei stava
aprendo la porta proprio in quel momento. Indossava un paio di
jeans e una maglietta rossa, i suoi capelli erano sciolti e scompigliati
sopra le spalle.
«Entra, Guy», disse Floz, con un fremito lungo la schiena. Lui indossava una camicia blu, sbottonata al collo, una peluria nera era appena visibile oltre il colletto.
«Ciao Floz», disse. «Senti, ehm…». “Fallo, Guy”. «Mi chiedevo se
potresti dedicarmi una mezz’oretta. Devo andare a Hallow’s Cottage
e…». Cacchio, non riusciva a ricordare quale scusa avesse inventato
per chiederle di andarci con lui. «Mi potrebbe davvero servire un
parere su…». “Pensa, pensa, idiota che non sei altro”. «Su come sistemare al meglio la casa prima che i muratori inizino a demolire le
pareti». “Per un pelo”.
«Certo», sorrise Floz. «Mi piacerebbe molto vederla dentro, tra
l’altro. Non sono sicura che sarò di grande aiuto, ma sono felice di
darle una sbirciata. Vado a prendere il cappotto».
Fase due completata.
Le gambe di Guy tremavano nervosamente sulla frizione. Dalla
cintola in giù, avrebbe potuto fare una formidabile imitazione di
Elvis. L’automobile sobbalzò girando l’angolo e lui si scusò.
«Scusa, guido da soli ventitré anni», disse lui.
«È colpa del peso in più che stai trasportando oggi», commentò
Floz. «È evidente che ha influito su qualche componente tecnica
presente sotto il cofano di cui io non conosco assolutamente il
nome».
Restarono in silenzio. Guy si sentì in dovere di dire qualcosa di
brillante e sagace: «Oggi il tempo è delizioso». “Oh, per l’amor del
cielo, Guy!”.
«Adoro l’autunno», disse Floz mentre sorpassavano un campo
che scoppiava di papaveri. «È una stagione così bella».
«Quando ero bambino, tutti i migliori castagni erano in queste
zone», sorrise Guy. Un giorno avrebbe aiutato i propri figli a far
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atterrare al suolo i ricci spinosi. Poi, li avrebbero aperti per estrarre
le lucenti castagne marroni, portarle a casa e affogarle nell’aceto così
da indurirle per le gare a scuola, proprio come Perry aveva fatto con
lui.
Guy accostò nella tenuta di Hallow’s Cottage. Il proprietario non
si era fatto scrupoli a prestare a Guy le chiavi affinché potesse prendere tutte le misure necessarie e chiamare i suoi amici muratori. Guy
aprì con uno spintone la porta cigolante e insieme si avventurarono
nell’aria viziata e leggermente umida del cottage.
«Oh, caspita», disse Floz, guardandosi intorno. Vista da dentro
era molto più bella rispetto a quando aveva sbirciato attraverso le
finestre sudice. La stanza era immensa, e poi quel caminetto… Se lo
immaginò pieno di ceppi scoppiettanti e fiamme arancioni.
«Credi sia troppo grande?», domandò Guy, simulando sgomento.
«Credi dovrebbe essere divisa in due stanze?»
«No, per nulla», disse Floz. «È bellissima esattamente così com’è.
Riesco già a figurarmela con un grande divano in pelle…».
«…un grande divano in pelle», disse Guy esattamente nello stesso
istante, cosa che fece ridere entrambi.
«E un grande tappeto cinese», disse Floz.
«Rosso», suggerì Guy, mentre si prefigurava la stessa stanza che
stava immaginando Floz. «Enormi ceppi nel camino…».
«E quello è il punto ideale l’albero di Natale», sorrise Floz, indicando l’angolo dove le scale terminavano in un ballatoio. Quello
spazio avrebbe potuto comodamente ospitare un albero alto circa
quattro metri.
Guy lo vide, gremito di regali alla base: cavalli a dondolo, orsacchiotti di peluche e un cucciolo che masticava l’osso che gli avevano
regalato.
Risero entrambi, si girarono l’uno verso l’altra e quando i loro occhi si incontrarono il momento divenne, in un certo senso, troppo
intenso.
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«Vieni a vedere la cucina». Guy entrò marciando in cucina e la
mostrò a Floz. Aveva bisogno di essere tutta ristrutturata, ovviamente, ma aveva una graziosa forma quadrata.
Dalla parte opposta della cucina c’era una stanza più piccola, che
aveva delle grandi finestre affacciate su quello che un giorno avrebbe
potuto essere un giardino fiorito, e più in là dei campi coltivati. Floz
si immaginò seduta a una scrivania accanto alla finestra, l’odore del
caprifoglio si insinuava dentro la stanza, mentre scriveva delle graziose poesie su San Valentino, che le venivano dal cuore giacché era
innamorata persa.
Guy le fece cenno di salire. Si sentiva come un micino in preda
alle vertigini. Stava filando tutto troppo liscio. La sua mente aveva
corso troppo avanti. Si era spinto decisamente oltre alla fase in cui
chiedeva a Floz di uscire con lui. La stava trasportando su per quella
scalinata nell’abito da sposa e le dita di lei erano già all’opera con i
bottoni della sua camicia.
Guy spalancò la porta che dava sulla stanza più grande, con
finestre su due pareti e travi nodose che attraversavano il soffitto.
Floz sospirò davanti a una tale bellezza. Vide un letto a baldacchino e
Guy che la gettava scherzosamente sopra. Indossava un abito bianco
da sposa, rideva e si toglieva le scarpe.
Floz sapeva di essere arrossita, e si girò pertanto verso la porta;
Guy lo interpretò come un segno che era giunta l’ora di spostarsi
nella stanza adiacente: una camera da letto più piccola, anche se non
di molto, a forma di L, con vecchi armadi a muro in quercia profondi
all’incirca cinquanta centimetri. In quella stanza Guy vide due
bambini, libri e giocattoli sugli scaffali, copripiumini e tende della
GWE con sopra il volto di Steve.
Subito accanto si trovava un adorabile bagno nel classico stile
delle campagne inglesi, con orribili mobili color avocado, e appena
due passi più in là c’era un’altra camera da letto con vista sulla
campagna.
Floz si rese conto che probabilmente erano dieci minuti che
sospirava. Ridacchiò fa sé.
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«E con questo si conclude la visita guidata di Hallow’s Cottage».
Guy sorrise e fece un inchino.
«È magnifico». Floz gli riservò uno scroscio di applausi, per poi
seguirlo al piano di sotto nel salone. Era stupita di non trovarsi in un
qualche paesello incantato nella contea di Dorset, invece che ai margini di una città industriale nel nord dell’Inghilterra. «Sono così felice che comprerai questa casa. Sarà favolosa».
«Mi dispiace non poter offrirti una tazza di tè», disse lui. «Avrei
potuto portare un thermos, vero?». Dannazione, perché non ci aveva
pensato prima?
«No, non preoccuparti».
«Dovrai tornare quando ci sarà l’elettricità», disse lui. Oooh,
molto bene. L’aveva prevista, ma quella battuta era perfetta per iniziare il discorso.
«Grazie, ci verrò», annuì Floz. Ebbe un tuffo al cuore per
l’emozione. Sììì!
«Non vedo l’ora di finire i lavori e trasferirmi», disse Guy. «Non
vedo l’ora di cucinare in quella cucina e dormire in quella camera da
letto al piano di sopra. Non vedo l’ora di addormentarmi davanti a
quel fuoco crepitante. Non vedo l’ora di…».
«Farti un bagno circondato da mobili color avocado?», ridacchiò
Floz.
«Sì, esatto, come se potessi lasciarli!», rise Guy.
Gli occhi di lui erano davvero brillanti e vivaci, pensò Floz. Voleva
fare scorrere le dita attraverso le onde dei suoi spessi capelli e sfiorargli le labbra con le proprie.
«E cavolo, non vedo l’ora di vedere quell’albero di Natale», disse
Guy. Incontrò di nuovo lo sguardo di lei. Aveva degli occhi di un
verde molto intenso, pensò lui. Verdi come l’albero di Natale che un
giorno avrebbero avuto in quell’angolo.
«Riesci a immaginarti questo posto nel periodo natalizio?»,
chiese Floz.
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«Quale bambino non crederà che Babbo Natale scende dal
comignolo per poi uscire nel caminetto? Riesci a immaginarti una
fila di calze lì appese?».
Floz si girò per osservare il caminetto. Gli stava rivolgendo la
schiena quando disse: «I bambini adoreranno questa casa. Ne serberanno tanti ricordi meravigliosi quando saranno adulti».
Guy si sentì sopraffare dalla gioia poiché Floz era proprio sulla
sua stessa lunghezza d’onda.
«Io non ne ho mai voluti», aggiunse lei, guardando sempre
dall’altra parte. «Sono felice per Juliet, ovviamente, ma l’essere
madre non fa per me».
Guy inarcò le sopracciglia. Questa non se l’aspettava. Non ebbe il
tempo di elaborare appieno ciò che Floz aveva detto perché lei continuò a parlare.
«In effetti, non vedo l’ora di andare a vivere in un monolocale.
Stare insieme a Juliet e a Steve mi ha fatto capire che desidero senza
ombra di dubbio stare da sola ancora per tanto tempo a venire. Niente coinquilini o relazioni sentimentali».
«Davvero?», disse Guy, la sua voce era appena più forte di un
sussurro.
«Sì», rispose lei. «Ho pensato che potrei andare a vivere all’estero
e trascorrere l’inverno in un posto caldo. L’aspetto positivo del mio
lavoro è che posso lavorare veramente in qualsiasi parte del mondo
desideri, purché abbia una connessione a internet per inviare dei
file. Sono una donna in carriera e nei prossimi anni mi concentrerò
totalmente sul lavoro. In effetti, ora che ci penso, farei meglio a tornare a casa, perché ho una scadenza da rispettare».
Lei si girò verso di lui e sorrise, senza però quella luce che le illuminava lo sguardo.
«Sì, certo», disse Guy. «Be’, grazie per essere venuta. Mi serviva il
parere di una donna a proposito di cosa fare con il salone, per sapere
se dividerlo o meno».
«Non farlo». Floz si incamminò a grandi passi verso la porta.
Sembrava una persona diversa da quella che qualche minuto prima
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era in piedi con lui in quella stessa stanza. Questa Floz era molto più
fredda, emanava vibrazioni simili a missili che lo obbligavano a
mantenere una certa distanza. Non avrebbe potuto essere più chiaro
di così: lei sospettava che lui stesse per chiederle di uscire e stava
cercando di risparmiargli una figura da fesso. Il fatto che non avesse
realmente pronunciato un rifiuto per lui non fu di alcun conforto.
Guy si stampò in viso un’espressione impavida, finanche
amichevole, mentre l’accompagnava a casa in macchina, sebbene
non fosse effettivamente in grado di capire che cosa avesse detto per
indurla a sbattergli la porta in faccia.
La lasciò a casa e la salutò con la mano. Tra loro non c’era nessun
imbarazzo apparente, ma alcuni dei ponti che li collegavano erano
crollati. Guy sentì che tutte le incantevoli foto di quel futuro a Hallow’s Cottage avevano già i bordi bruciacchiati, e presto si sarebbero
trasformate in cenere.
Floz chiuse la porta di casa e rimase in piedi con la schiena appoggiata al muro. Forse aveva inconsapevolmente detto la verità.
Forse avrebbe dovuto trasferirsi lontano, concentrarsi a migliorare la
sua carriera, lavorare più ore, scrivere più testi. Avrebbe dovuto
farlo, così da riuscire a sopprimere quelle immagini di Guy Miller,
dell’albero di Natale e dei ceppi crepitanti che danzavano nella sua
mente.
Capitolo ottantaquattro
«Quindi?»
«Nulla da fare», disse Guy.
«Oh, starai scherzando!». Steve aveva voglia di lanciare il telefono
contro la parete. «Come mai?»
«Onestamente non lo so». Guy aveva sviscerato quella conversazione innumerevoli volte ma non era riuscito a individuare la frase
esatta che aveva fatto indietreggiare Floz. Aveva concluso che non lo
avrebbe mai compreso. Era quasi andato fuori di testa nel tentativo
di capire. Anzi, era proprio fuori di testa e basta.
«Forse non ha capito che stavi flirtando con lei», tirò a indovinare
Steve, ma anche a lui sembrava improbabile.
«Credimi», disse Guy, «sapeva che stavo per comunicarle i miei
sentimenti, e non voleva starmi a sentire. Non c’è nessun’altra
spiegazione».
«Per lo meno non avete litigato», cercò di consolarlo Steve. Era
davvero pessimo quando si trattava di tirare su di morale qualcuno.
«Già», fece Guy. Ma non era una consolazione sapere che da
qualche parte là fuori c’era un uomo che Floz avrebbe amato e che
non sarebbe stato lui. Non aveva nemmeno alcuna possibilità di divenirlo in futuro se lei avesse fatto ciò che aveva affermato e si fosse
trasferita all’estero. «In ogni caso, non preoccuparti per me. Sei
pronto per la partenza di domani?»
«Certo che sì», sorrise Steve. Stava proprio preparando la valigia,
poiché il giorno successivo avrebbe preso un volo e sarebbe andato
alla sede centrale della Global Wrestling Enterprises nel Connecticut
per incontrare il signor Will Milburn in persona. Avrebbe trascorso lì
quattro giorni e non stava più nella pelle. Era più emozionato di un
bambino che stava per andare a Disneyland.
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«Divertiti, amico», disse Guy, sinceramente felice per il fatto che
Steve stesse per ricevere la grande occasione che si meritava da
tempo.
«Lo farò», annuì Steve. «E senti, per quanto riguarda Floz, finché
la barca va, evita di scrivere la parola fine alla vostra storia».
Purtroppo Juliet scelse proprio quell’esatto momento per uscire
ancheggiando dal bagno alle sue spalle, gorgheggiando: «I’m leaving
on a jet plane! Sto per partire in aereo!».
Capitolo ottantacinque
Juliet si aggirava come un’anima in pena per l’appartamento.
Steve se n’era andato da sole due notti e lei riusciva a sopportare a
malapena la separazione.
Floz le lanciò una rivista per spose.
«Qui, guardati alcune foto carine e smettila di pensare a Steve»,
le disse.
«Si sta divertendo come un matto, beato lui», sorrise Juliet. «Ha
detto che è andato tutto bene e che Will Milburn vuole fargli firmare
un contratto. È tutto ciò che Steve desiderava, e ancora di più! Ma mi
manca davvero tanto. Di notte il letto mi sembra enorme e vuoto.
Prima pensavo che la gente che diceva una cosa del genere stesse esagerando. Adoravo quando Roger era via per lavoro e io avevo il letto
tutto per me. Ma odio andare a letto senza Steve».
«Oooh», disse Floz, con un largo sorriso sdolcinato. «Questo è
proprio amore».
«Lo è», annuì Juliet. «Ti piaceva dormire insieme a tuo marito?».
Floz scosse la testa per sbarazzarsi dell’immagine di lei a letto con
Chris. Non riusciva più a pensare a lui come l’uomo che aveva
sposato, ma solo come l’ubriacone trasandato che si rendeva ridicolo
per le strade del centro.
«Mi dispiace», si scusò Juliet.
«Non fa nulla», disse Floz. «Probabilmente mi piaceva, suppongo. Una volta».
«Era un alcolizzato quando l’hai conosciuto?», chiese Juliet.
«No», rispose Floz. «Gli piaceva bere, ma non esagerava. È stato
solo quando la sua attività ha iniziato ad andar male che si è dato
alla bottiglia. Diceva che l’oblio gli procurava un po’ di pace».
«Dai problemi economici?», continuò Juliet.
«Sì». “E dal suo cuore spezzato”. Floz fece un profondo respiro.
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«Floz, ti va di venire con me domani a comprare un altro po’ di
cose per il bambino?»
«Mi piacerebbe tanto», mentì Floz, «ma non posso. Ho una
scadenza da rispettare. Non posso deludere Lee».
«Non preoccuparti», sospirò Juliet, prendendo la bottiglia di
Gaviscon per alleviare il bruciore di stomaco. «Sarò costretta ad andare con mia madre».
«Si divertirà tanto», disse Floz. «Ritorniamo al nostro lavoro: i
fiori. Di che colore e quanti?».
Capitolo ottantasei
Quando Steve tornò a casa era un uomo nuovo. Aveva un sorriso
radioso, per via di tutte le conoscenze importanti che aveva fatto in
America con Will Milburn e i suoi uomini. Aveva firmato un contratto di due anni con la GWE che sarebbe partito ufficialmente dal
primo gennaio: avrebbe guadagnato più soldi di quanti ne avesse
mai sognati. Sarebbe stato introdotto come The Archangel, l’estraniato fratello angelico di Gravedigger, il nome più importante della
GWE. Gli sarebbe servito un po’ di tempo per abituarsi a tutte quelle
novità, ma con Juliet al suo fianco, riteneva che ce l’avrebbe fatta.
Lei lo faceva sentire in grado di raggiungere ogni obiettivo, persino
un esame di ammissione alla facoltà di Fisica. Non vedeva l’ora di
sposarla. Subito dopo essere atterrato, guidò all’impazzata fino a
casa di lei per vederla. In pochi minuti, lei lo aveva già trascinato in
camera da letto per un po’ di sesso di ricongiungimento. Gli ormoni
della gravidanza rendevano Juliet più insaziabile che mai.
Nel corso delle successive due settimane, tra una sessione
d’amore e l’altra, Juliet e Steve corsero da una parte all’altra come
polli senza testa per organizzare i fiori, gli inviti e il fotografo per il
matrimonio. Nel frattempo, Floz era impegnata a scrivere frasi per i
biglietti d’auguri. Concentrare tutte le sue energie mentali sul lavoro
le impedì di pensare troppo al fatto che avrebbe dovuto lasciare
Blackberry Court, e Guy Miller. Perché non gli aveva spiegato come
stavano le cose quando lui l’aveva porta a Hallow’s Cottage? Stava
per chiederle di uscire, lo sapeva. Invece di diventare gelida e confondergli le idee, Floz avrebbe dovuto dirgli in modo diretto perché
non potevano oltrepassare quella barriera e iniziare una relazione.
Da quella volta non l’aveva più visto. Lui era troppo occupato a supervisionare i lavori di ristrutturazione del nuovo ristorante. Sembrava che entrambi fossero ben contenti di avere qualcosa su cui
concentrarsi.
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Floz aveva smesso da poco di cercare un nuovo appartamento su
internet. Ce n’era uno papabile in Greenfield Lane, per il quale aveva
fissato un appuntamento per le sei in punto, ma non la entusiasmava
granché. Stava mettendo il tè in infusione, quando udì delle voci
fuori dalla porta di casa. Due secondi dopo, Juliet, Grainne e Coco
entrarono carichi di scatole.
«Ciao!», urlò Coco sospirando, esausto. «Siamo noi. Siamo stati a
fare shopping, si vede?»
«Mamma non mi ha permesso di portare su la culla», disse Juliet,
mentre lasciava cadere i pacchi e sentiva i muscoli rilassarsi.
«Numero uno: mi avrebbe spezzato la mia dannatissima schiena.
Numero due: dice che porta sfiga. Hai mai sentito nulla di più
stupido?»
«Sono d’accordo con tua madre», fece Floz, prendendo delle altre
tazze e aggiungendo dell’acqua e una bustina di tè nella teiera. «Non
osare sfidare le superstizioni».
«Floz, ti ricordi quando hai detto che non usi quell’armadio che
c’è in camera tua?», disse Juliet. «È ancora così?»
«Sì», rispose Floz, «perché?»
«Credi che potrei metterci dentro un po’ di cose per il bambino?»,
domandò Juliet. «Non ho più spazio. È tutto davvero troppo voluminoso». Poi indicò i nuovi acquisti fatti da Babyworld, il negozio
lungo la strada verso casa: un tappeto da gioco e un seggiolino per la
macchina. Ne aveva comprato soltanto uno per il momento, ma
sapeva che l’imminente ecografia avrebbe rivelato che gliene
sarebbero serviti due.
«Certamente», disse Floz.
«Grazie, sei un tesoro. Riesci a immaginarti di imbracare un
bambino piccolo lì dentro?»
«Sì», disse Floz, ma non permise alla sua immaginazione di perdersi nei meandri di quei pensieri.
Capitolo ottantasette
Da fuori il numero 27 di Greenfield Lane sembrava una piccola e
curata casa bifamiliare. Il padrone di casa, il signor Selby, un uomo
corpulento e sudato che sbuffò e ansimò tutto il tempo mentre saliva
le scale, non si vergognava per nulla del fatto che l’entrata e gli scalini avessero bisogno di una bella passata di aspirapolvere e di un
paio di flaconi di polvere per moquette.
«Bagno, camera da letto, salotto, cucina», disse mentre indicava,
come se si stesse facendo il segno della croce in orizzontale.
Il bagno era di dimensioni decenti, ma puzzava. L’acqua nel water
era gialla e maleodorante, come se l’ultima persona che ci avesse
fatto pipì non avesse tirato lo sciacquone. Floz non riusciva a immaginare come avrebbe potuto migliorarlo. La cucina era essenziale,
arredata con una delle più vecchie ed economiche cucine di Ikea. Il
pavimento era ricoperto di moquette, che era fitta a causa dell’unto.
Il salotto era piccolo, quadrato e impersonale. C’era un divano che
sembrava recuperato dal cassonetto dell’immondizia. La camera da
letto non era molto meglio. Il pensiero di andare a dormire su quel
materasso macchiato provocò in Floz un lieve senso di nausea. Aveva
l’impressione che avrebbe avvertito quella macchia indipendentemente da quanti coprimaterassi avesse usato, neanche fosse stata la
principessa sul pisello.
«Gas ed elettricità si pagano in base alla lettura del contatore»,
disse il signor Selby. «Come le ho detto al telefono, voglio due mesi
di anticipo, e tutti gli eventuali guasti sono a carico suo. Voglio una
cauzione di cinquecento sterline e nient’altro. Rimborsabile quando
se ne va se non ha rotto nulla».
«Quando posso farle sapere?», disse Floz, sorridendo e cercando
di non lasciargli a intendere che il pensiero trasferirsi in quel luogo
le faceva venire voglia di piangere.
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«Ora se le è possibile», disse il signor Selby. Sembrò stupito che
lei non ne fosse stata subito ammaliata.
«Be’, prima devo vedere un’altra casa», mentì Floz.
«Dove sarebbe?»
«Oh, ehm… a Bretton».
“Per piacere non mi chieda dove a Bretton”, pregò Floz. Ma lui
non lo fece. La condusse semplicemente giù per le scale e le disse:
«Va bene, allora. Posso tenere fermo l’appartamento per lei. Se però
qualcuno mi dà una risposta definitiva, in quel caso l’appartamento è
bloccato, capisce?»
«Capisco perfettamente», disse Floz. «Grazie mille».
Non aveva neanche finito di dire “grazie” che il signor Selby aveva
già distolto lo sguardo da lei. Evidentemente percepiva che quella
ragazza avrebbe preferito tagliarsi l’orecchio piuttosto che vivere in
un appartamento puzzolente e squallido, che probabilmente non
sarebbe stato poi così brutto dopo una bella pulita e qualche tappeto
nuovo.
Floz rimase seduta in macchina e appoggiò la testa contro il
volante. Non le erano mai piaciuti i cambiamenti, odiava essere
sradicata da una casa dopo che aveva osato mettere radici. Il problema era che essere strappata dalla famiglia Miller pareva peggio di
un’estirpazione. Le sembrava che le stessero estraendo il cuore.
Decise che non appena Juliet si sarebbe sposata, si sarebbe
trasferita nel primo posto che sarebbe riuscita a trovare – anche se
solo per un po’. E se l’appartamento di Greenfield Lane fosse stato
ancora disponibile, avrebbe fatto un profondo respiro, acquistato
tutti i prodotti che trovava nella corsia del supermercato dedicata
alle faccende domestiche e l’avrebbe preso in affitto.
Capitolo ottantotto
Tre giorni dopo Guy era in piedi al centro del ristorante e si chiedeva nuovamente in che cosa diavolo si fosse andato a cacciare. Le
pareti portanti erano tutte stuccate di fresco con delle grandi chiazze
in corrispondenza dei punti in cui non si erano ancora asciugate,
quindi sembravano invase dall’umidità. Le vecchie tende erano state
tolte dalle finestre in una bufera di polvere e ragnatele. Tutti i tavoli
e le sedie da quattro soldi erano stati rimossi, i rivoltanti paralumi
erano stati gettati; il locale sembrava immenso e assomigliava a una
cupa e squallida sala da ballo.
Cercò di immaginarselo dopo che fossero venuti gli imbianchini a
dipingere le pareti di verde tenue e panna, con i nuovi lampadari e
con quelle pesanti e bellissime tende alle finestre… Tuttavia, quel
giorno proprio non ci riusciva. Era stanco. E voleva fare tutto ciò con
qualcuno e per qualcuno – e non c’era nessuno, neanche una persona su cui potesse fantasticare. La voce di Sandra lo chiamò dall’ufficio per dirgli che aveva trovato alcuni candidati piuttosto promettenti da assumere. Oh, e gli fece inoltre vedere una lettera di
Varto che diceva che avrebbe fatto loro causa per la somma di cinque
milioni di sterline.
Stava ridendo quando rispose al telefono e scoprì che dall’altra
parte c’era sua sorella in lacrime, che lo implorava di recarsi a casa
dei loro genitori, dove si stava dirigendo anche lei dal lavoro. Non
aveva capito molto di quello che gli aveva detto al telefono. L’unica
cosa di cui era certo era che nessuno stava male e che non si trattava
di un’emergenza per questioni di salute.
Guy si precipitò in casa dei suoi genitori e vide Alberto Masserati
stipato nell’enorme poltrona di Perry con Stripies sulle ginocchia.
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Stava accarezzando il gatto con una mano, mentre le dita giganti
dell’altra reggevano una graziosa tazza da tè di porcellana.
Sebbene non fosse un uomo alto, Alberto sembrava essere stato
inghiottito da un guardaroba e indossava, come sempre, il suo caratteristico giubbotto di pelle che lo faceva sembrare due volte più
grosso. Sul ring era un animale spaventoso, tuttavia seduto lì nel
salotto di mamma e papà, appariva come se fosse sul punto di
piangere.
«Il maledetto Oak Leaf ha cessato l’attività!», singhiozzò Juliet,
gettandosi addosso a suo fratello. «Dove diavolo farò il ricevimento
nuziale a questo punto?»
«Domani la figlia di Alberto doveva fare lì il ricevimento», aggiunse Grainne. «Lui c’è appena andato per saldare i conti e ha
scoperto che è chiuso. Non riesce nemmeno ad avere la torta nuziale
che avevano portato lì all’inizio della settimana».
«Sapevo che anche Steve aveva organizzato il suo ricevimento lì»,
disse Alberto. «Il nocciolo della questione è che non c’è posto da nessuna parte».
«Perché non lo fate al pub?», chiese Guy. Alberto gestiva una piccola locanda a Little Cawthorpe: La Vite.
«Verranno centoventi invitati. Non riesco a farli entrare tutti nel
mio locale. La nostra Lulu è fuori di sé».
«Ci deve essere qualche posto ancora libero», disse Guy.
«Mia moglie e io abbiamo chiamato ovunque. Il che significa che
anche Juliet e Guy sono probabilmente fregati».
«Che cosa diavolo sta succedendo?». Steve irruppe nella stanza,
ancora con la tuta da imbianchino. Aveva guidato come un matto per
arrivare a casa dei Miller, dopo che Juliet gli aveva telefonato in lacrime dicendogli di andare lì.
«Ho una mezza intenzione di andare da quel dannato proprietario dell’Oak Leaf per spaccargli la faccia», disse Juliet.
«Fidati, se fosse stata un’opzione, lo avrei già fatto», disse Alberto. «Ma ha sgraffignato quello che poteva e se l’è filata. Senza
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dubbio i nostri acconti hanno contribuito a riempire il suo serbatoio
della benzina».
«Non so che cosa dire», commentò Guy, affannandosi a cercare
una soluzione.
«Io sì. Ho un’idea», disse Alberto. «Guy, se riesci a organizzare il
catering per me nel tuo ristorante, io farò lo stesso per tua sorella
alla mia locanda. Potrai anche avere il giardino all’aperto per fare i
fuochi d’artificio di notte».
«Lo farei, ma uno: non ho del personale. E due: il locale è appena
stato stuccato. Sembra proprio un disastro».
«Mio figlio ha un negozio di tessuti», disse Alberto. «Avremmo
drappeggiato tutte le pareti dell’Oak Leaf con del tulle nero. Mia
figlia ha dei gusti un po’ gotici, per cui il tema della cerimonia sarà
Halloween».
«È fattibile», concordò Guy. «La vecchia cucina non è stata
ancora completamente smontata, grazie al cielo, sussiste il problema
della mancanza di personale».
«Posso darti un paio di cameriere», disse Alberto, visibilmente
sudato. «Non posso prestarti il cuoco perché è lo sposo, cacchio».
«Puoi fare conto su di noi», disse Grainne con voce stridula, sfoggiando un largo sorriso. «Posso fare la cameriera, ma magari non la
cuoca».
«Io posso dare una mano in cucina», disse Perry. «E sono sicuro
che anche Steve sarà disposto a farlo».
«E anche io», disse Juliet. «E sono certa che anche Floz lo farà».
«Farò un giro di telefonate tra i ragazzi del wrestling per vedere
se qualcuno di loro è libero. Grazie mille, Guy», si prostrò Alberto,
mentre Stripies si stiracchiava e strofinava la testa contro il viso
ispido di Alberto, trovandolo tanto gradevole quanto un graffiatoio
riscaldato per gatti.
«Gina ci aiuterà, ne sono sicuro», decise Guy. Alzò lo sguardo e
scorse una sincera trepidazione sul volto delle persone che aveva
davanti. Il matrimonio di sua sorella, così come quello della figlia di
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Alberto, dipendeva da lui. Fu allora che Guy entrò in azione: «Va
bene, Alberto, affare fatto».
«Quindi mi hai concesso un congedo pagato ma hai cambiato idea
e vuoi che invece venga a lavorare. Che storia è questa?», disse Gina
con una voce fintamente contrariata.
«Fidati, si tratta di una grossa emergenza e se decidi per il no non
ti serberò rancore», disse Guy dall’altro capo del telefono. «Ovviamente, ti pagherei un extra per la serata».
«Certo che verrò», disse Gina, che probabilmente avrebbe dato la
stessa risposta a Guy anche se lui le avesse chiesto di tagliarsi la testa
e infilarla su una picca fuori da Buckingham Palace.
«Grazie mille», disse Guy riconoscente. «Ti devo un favore».
«Mi devi cosa?», scherzò Gina, cogliendo la sua grande occasione.
«Dovrei insistere per farmi portare a cena al Four Trees».
Guy deglutì, poiché non sapeva come uscire da quella situazione
senza ferire i sentimenti di lei. D’altra parte, l’idea di andare a un appuntamento con Gina era così tremenda? Floz non avrebbe potuto
essere più chiara riguardo al fatto che non lo desiderava; Gina era
pazza di lui. Probabilmente avrebbe dovuto voltare pagina, dimenticarsi Floz e accettare il fatto che, dopotutto, tra di loro non era destino. Forse se fosse uscito con Gina avrebbe potuto iniziare a provare
qualcosa per lei. Steve e Juliet avevano attraversato una profonda
trasformazione, quindi la sua non era un’idea così inverosimile, e poi
non sarebbe stato conveniente?
«Va bene. Che ne dici di un paio di giorni dopo il matrimonio
della figlia di Alberto, ad esempio il due novembre? Conosco il
maître di sala. Sono sicuro che riuscirà a infilarci da qualche parte».
«Perfetto!», disse Gina, sospirando come se non riuscisse a credere alla propria fortuna e fosse sul punto di svenire da un momento
all’altro.
Guy mise giù il telefono ma, per quanto si sforzasse, non riusciva
a immaginare lui e Gina fare l’amore davanti a quel caminetto di
Hallow’s Cottage.
Capitolo ottantanove
In un’ora, il Burgerov fu gremito di persone. Jeff Leppard era arrivato con un camion pieno di giovanotti per allestire alcune strutture temporanee sulle quali appendere i drappeggi neri. I Miller e
Floz stavano strappando gli imballaggi dai tavoli e dalle sedie prese a
noleggio, e Guy stava facendo delle telefonate ai fornitori nel tentativo di ordinare delle provviste. Il sabato pomeriggio non era certo il
momento migliore.
«Non mi interessa se ci toccherà servire pesce fritto e patatine»,
disse Alberto. «Fai semplicemente del tuo meglio, amico. La cena
non deve essere esclusivamente a base di manzo».
Proprio in quel momento, Big Bad Davy fece il suo ingresso in
quella confusione. «Ehi, amico», urlò ad Alberto. «Ho qui un furgoncino zeppo di frutta e verdura se la vuoi. Ho saputo da voci di
corridoio che eri nella merda, scusa per il termine».
«Sei un mito!», disse Alberto, stritolandolo in un abbraccio che
avrebbe potuto frantumargli le ossa e che gli fece gridare pietà.
«Staranno un po’ stretti in alcuni tavoli, Alberto», disse Guy.
«Non importa», rispose Alberto. «I parenti da parte della sposa
sono tutti smilzi. Puoi farcene stare venti sulla punta di uno spillo».
«Ti serve della carne?», chiese Davy. «Mio fratello è un macellaio.
Stammi lontano, Alberto», lo ammonì, vedendo le grandi braccia
dell’uomo che si dirigevano nuovamente verso di lui. «Gli telefonerò,
basta che stai alla larga da me».
Quando tutti i drappeggi neri furono appesi, le tavole allestite, le
tovaglie, le posate e i bicchieri predisposti, i tovaglioli piegati e i segnaposti distribuiti, la luna era già alta nel cielo.
«Non me ne dimenticherò», disse Alberto, mentre cingeva Guy in
un abbraccio virile ma commosso, ammaccandogli giusto un po’ le
ossa solide. «Farò in modo che il matrimonio di tua sorella sia speciale come lo sarà domani quello della mia ragazza».
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Guy salutò tutti con la mano. L’indomani mattina avrebbe dovuto
cominciare presto, per cui avrebbe dormito sul divano in ufficio. Ma
prima di mettersi a dormire, doveva preparare una torta.
Capitolo novanta
Quando quel sabato mattina arrivò il variopinto campionario di
gente che costituiva il personale della cucina, Guy si era già preso
due caffè. Non che gli servisse una marcia in più, perché l’adrenalina
che gli scorreva nelle vene avrebbe potuto generare l’elettricità sufficiente ad alimentare i forni.
La cucina era pervasa dal delizioso profumo della carne di manzo.
Guy stava apportando i tocchi finali alla torta nuziale a quattro piani
con glassatura nera e alcune ragnatele di zucchero. Era un po’ strana
come torta nuziale, ma comunque sensazionale. Un’esclamazione di
stupore era la reazione di chiunque entrasse in cucina e la vedesse.
«Buongiorno», sorrise Guy. «Mettetevi i grembiuli, Gina vi
mostrerà dove si trovano».
«Buongiorno a tutti», cinguettò Gina, che era arrivata con un’ora
di anticipo e aveva goduto appieno di tutto il piacevole tempo che lei
e Guy avevano trascorso da soli in cucina. Lui si era preso una pausa
per farle un caffè. Lei si era sciolta per quella sua premura, neanche
le avesse offerto un anello di fidanzamento.
Gina era al settimo cielo dal giorno precedente, quando aveva
parlato con Guy. I suoi piedi non si erano ancora posati per terra ed
era andata a dormire immaginandosi il futuro appuntamento, il successivo matrimonio, i figli e persino i nipoti che ne sarebbero seguiti.
Ciononostante, sapeva che quella mattina avrebbe fatto meglio a
non fare menzione di niente di tutto ciò, poiché quando lui indossava la sua divisa bianca non era più Guy bensì lo “chef” e si concentrava soltanto sul cibo e sul servizio. E, Dio quanto era sexy
quando era indaffarato.
Floz, Juliet, Perry, Steve, Grainne, Coco e Gideon si allacciarono i
grembiuli. Avevano appena iniziato a pelare le verdure quando arrivarono la moglie e la figlia di Jeff Leppard, dopodiché comparirono
le due cameriere di Alberto con le composizioni floreali. Tarzan, che
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di giorno era Dave Ward, il fioraio, si era svegliato alle prime luci
dell’alba per prepararle, ottenendo, nonostante le sue grosse dita, un
risultato sorprendentemente raffinato.
Era la prima volta che Floz vedeva Guy dal giorno in cui avevano
guidato fino a Hallow’s Cottage. Aveva cercato con tutte le sue forze
di non pensare a lui, perché era sicura di non essere la donna giusta
per quell’uomo. Ma il pensiero di lui e di quel cottage continuava a
insinuarsi, specialmente nei suoi sogni, quando le sue barriere
difensive erano abbassate.
Ora si trovavano lì, nella stessa stanza, e lei riusciva a malapena a
guardarlo, poiché ogni volta che gli occhi le cadevano su di lui, il
cuore iniziava a batterle forte. Ma se si escludeva il veloce cenno del
capo con cui l’aveva salutata, Guy l’aveva totalmente ignorata, e ciò
la feriva più di quanto avesse immaginato. Avrebbe dovuto dirgli la
verità, considerò Floz vedendolo. Almeno quello glielo doveva, dopodiché lui avrebbe capito da solo perché avrebbe fatto meglio a non
legarsi sentimentalmente a lei.
Questo Guy in divisa bianca, creatore della torta di Halloween,
era un uomo diverso dal maldestro e timido ragazzo che lei conosceva. Era sicuro di sé e aveva tutto sotto controllo, e appariva molto
ma molto attraente.
«Gina, controlla la carne, per piacere».
«Sì, signore».
La sua voce aveva addirittura un suono diverso. I cuochi in televisione, incluso il focoso chef spagnolo Raul Cruz, non erano nemmeno lontanamente attraenti quanto Guy Miller in divisa da chef.
Guy imprecò sottovoce, mentre il piccolo gatto nero di cioccolato
fondente che stava modellando cadeva sul pavimento. “Concentrati,
idiota, concentrati”. Era la prima volta che si trovava nella stessa
stanza con Floz da quando avevano guidato fino a Hallow’s Cottage e
lei aveva alzato il ponte levatoio. Aveva investito ogni grammo di energia sul ristorante e sui lavori di ristrutturazione del cottage. Aveva
cercato di non pensare a Floz, ma lei continuava a infiltrarsi, specialmente di notte, nei suoi sogni.
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Lui non riusciva a guardarla senza che il suo cuore si spezzasse un
altro po’. Quella donna non voleva ciò che lui aveva da offrirle: un
cuore traboccante di amore. Grugnì e si disse di concentrarsi sul lavoro che stava facendo.
Una volta che la torta fu terminata, camminò impettito in giro per
il suo regno, ovvero la cucina, controllando tutti i preparativi.
«Floz, chi ti ha detto di tagliare così quelle carote? Non le voglio a
rondelle, le voglio arrostire intere», sbraitò contro di lei.
«Scusa, Guy», disse Floz. «Devo ricominciare?»
«Ovviamente. A meno che tu non abbia qualche colla magica per
le carote e riesca a riattaccarle».
«No, signore».
Gli occhi di Gina si spostarono sulla piccola donna dai capelli
rossi. «Una Floz equivale a tutte le donne del mio passato più le tue
messe insieme», lo aveva detto Guy al suo amico il giorno in cui era
venuto a fargli visita, e lei lo aveva sentito per caso. Quindi questa
era lei. Questa era Floz.
Qualcosa in quel piccolo scambio di battute intrigò Gina. Guy di
solito non era così acido, nemmeno con Varto. E non aveva guardato
questa Floz negli occhi mentre la rimproverava. E neppure lei aveva
alzato lo sguardo verso di lui.
Floz rovesciò le carote che aveva tagliato nel bidone della
spazzatura. Gina osservò gli occhi del capo che la seguivano per la
cucina, uno sguardo così affettuoso, dolce e totalmente in conflitto
con il modo in cui le aveva appena parlato. D’intuito Gina capì che a
Guy quella donna piaceva molto. E non avrebbe avuto bisogno di essere messo con le spalle al muro per chiedere a lei di uscire a cena.
Con un battito di ciglia, Gina scacciò le lacrime che le pizzicarono gli
occhi. Sapeva di essere ridicola, perché le era bastato osservare solo
per alcuni secondi l’espressione di Guy per capire i suoi sentimenti,
tuttavia sapeva anche di avere ragione.
Gina raccolse un altro sacco di carote e lo mise sul piano di lavoro
di Floz. «Non farci caso, è innocuo in realtà».
«Grazie», disse Floz. «So che è sotto pressione».
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«Essere sotto pressione è tutto per lui», disse Gina in tono affabile. «Sei un’amica di famiglia?»
«Sono la coinquilina di Juliet». Floz fece scorrere velocemente lo
sbucciatore lungo la carota che aveva in mano.
«Ah. Quindi tutta questa confusione si ripeterà da capo tra un
paio di giorni», rise Gina. «Sembra che l’amore sia nell’aria».
«Per alcuni per lo meno». Gli occhi di Floz si alzarono non appena Guy urlò per chiedere a qualcuno di spostare la torta.
Gina si avvicinò a Floz. «Spero non griderà così al Four Trees
quando usciremo a cena. Morirei di imbarazzo».
Gina osservò Floz, che rimase immobile per un istante. Sì, aveva
ragione, c’era qualcosa tra Floz e Guy. Qualcosa che voleva ridurre in
mille pezzi. Quell’uomo doveva essere suo; non poteva avvicinarsi
così tanto a lui, dopo tutto quel tempo, senza riuscire ad
agguantarlo.
«Deve essere un posto molto carino», disse Floz, con una voce un
po’ tremante.
«Rimandiamo l’appuntamento da così tanto tempo, perché lui è
troppo impegnato per via della faccenda del ristorante e per lo stress
che comporta il matrimonio. Sono sicura che ne sarà valsa la pena
aspettare. Chiamami se ti serve aiuto, va bene?».
Gina vide di nuovo quello sguardo ferito negli occhi di Floz prima
di voltarsi e ritornare alla postazione dei dolci. Doveva soltanto resistere un altro paio di giorni, dopodiché Guy sarebbe stato suo. Una
volta che fosse riuscita a intrufolarsi nel suo cuore, avrebbe spazzato
via Floz in modo totale e definitivo.
Capitolo novantuno
Con i tacchi Lulu Masserati era più alta di tre centimetri e solo un
po’ meno larga di suo padre. Non che ciò le avesse impedito di scegliere un vestito a meringa: non aveva minimamente tenuto conto
delle sue forme quando aveva scelto che cosa indossare. Era grande,
morbida e formosa, ed esibì un enorme sorriso rosso acceso quando
entrò al Burgerov insieme a suo marito, che aveva un cappello a
cilindro che lo faceva assomigliare di più a un becchino che a un novello sposo. Steve sperò che avrebbe reso Lulu felice. Non gli sarebbe
piaciuto essere il genero di Alberto in caso avesse combinato dei guai
con la figlia. Alberto infatti era un tesoro fuori dal ring, ma con il fisico che si ritrovava aveva il potenziale per essere davvero pericoloso.
Furono accolti da Grainne e dalla cameriera che portava i bicchieri di succo d’arancia e champagne, con una spruzzata verde di colorante per prodotti alimentari, come da istruzioni. Mentre loro
stavano chiacchierando, Floz e Coco giravano con vassoi di canapè:
datteri ripieni di formaggio cremoso, salmone affumicato e aneto su
dei piccoli cracker al pepe, crostini con chorizo e pâté di fagioli, gamberi giganti caramellati, fagottini di pasta sfoglia ripieni di curry… e
molti altri stuzzichini.
«Il vino è in tavola? Le zucche sono illuminate?», sbraitò Guy.
«Sì, signore», rispose Perry, assaporando con gusto il suo ruolo di
aiuto cuoco.
«Sono quasi tutti seduti, Guy», disse Steve, che indossava una divisa da cameriere.
«Allora portiamo fuori questi antipasti!».
Centoventi zuppe al peperone rosso furono servite ai tavoli, e
subito dopo centoventi ciotole vuote furono recuperate, lavate e asciugate a mano, dato che la lavastoviglie era stata smontata per i lavori di ristrutturazione. Nel frattempo, delle piccole capesante gratinate furono servite nelle loro conchiglie.
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«Avete finito con quei sorbetti? Se sono pronti, fateli uscire adesso, per piacere!», urlò Guy, osservando la sua squadra di veri e
propri dilettanti che, in qualche modo, lavorava in un’armonia che
lui avrebbe desiderato vedere anche con Varto, Antonin e il resto del
suo vecchio personale. Centoventi sorbetti allo champagne furono
portati fuori.
Il menu includeva arrosto di manzo, crema di rafano, carote al
forno con sciroppo d’acero, purea di pastinaca, cavolfiori con crema
di formaggio Stilton e vino bianco, cipolle rosse con salsa al porto,
un tripudio di verdure a foglia verde e il più croccante e gonfio Yorkshire pudding che si potesse immaginare.
Guy non aveva tempo per ascoltare gli elogi che le cameriere e
Steve gli riportavano. Era troppo impegnato a controllare le torri di
dolcetti di pasta frolla al lampone a forma di cuore e quelle di
mousse al cioccolato e panna montata allineate in attesa di essere
servite come dessert.
Floz osservò come lui li controllasse singolarmente, scartandone
uno perché aveva un ricciolo di panna della forma sbagliata, e un altro perché il cuore disegnato lungo il bordo del piatto con la salsa al
lampone non era venuto bene.
Le cameriere marciarono fuori cariche di piatti da dessert. Mentre
l’ultimo veniva posato in tavola, tutti in cucina si azzardarono a
emettere un sospiro di sollievo.
«Non so come diamine tu ci sia riuscito, ma ce l’hai fatta,
figliolo», disse Perry con un sorriso raggiante e orgoglioso stampato
in volto.
«Perché è un genio», disse Gina. Con le braccia cinse la vita di
Guy e lo abbracciò, e vide Floz girarsi dall’altra parte come se la vista
di lei che toccava Guy le facesse bruciare gli occhi.
Era stata un’idiota, ora Floz se ne rendeva conto. E aveva perso la
sua opportunità, perché adesso Gina aveva rivendicato il proprio diritto su Guy e lui l’avrebbe portata fuori a cena e tra tutti i posti che
esistevano sarebbero andati proprio al Four Trees.Gina, bionda e
dalle gambe lunghe, di cui lui era destinato a innamorarsi, poiché
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era una ragazza carina e dai capelli dorati, e molto probabilmente capace di dargli ciò che lui voleva. Per questo, Floz non vide la velocità
con cui Guy si scostò da Gina, ma udì soltanto lui che batteva le
mani.
«Coraggio, non abbiamo ancora finito. Non addormentiamoci
sugli allori. Dove sono quei cioccolatini alla menta fatti in casa?
Dov’è il coltello da torta? Non avevo chiesto che qualcuno annodasse
quel nastro nero intorno al manico? Sharon, Janice, mettete l’acqua
nelle macchinette del caffè, per piacere».
Dopo il caffè, fu il turno dei discorsi nuziali. Quello di Alberto fu
talmente commovente che gli invitati che non lo conoscevano si illusero che quell’omone fosse una persona dal cuore tenero. Per lo
meno riuscì a prendersi gioco di sé e avvisò il genero che non
avrebbe mai dovuto salire insieme a lui sul ring da wrestling,
neanche per scherzo. Alberto obbligò Guy a uscire dalla cucina per
prendersi gli applausi che meritava. Guy entrò in sala con il suo improvvisato personale di cucina al seguito, affinché potessero assistere al suo momento di gloria.
«Più che altro è merito di questi ragazzi», disse Guy, distendendo
la mano verso gli altri alle sue spalle. «Hanno dovuto sopportarmi
per tutta la mattina, mentre urlavo contro di loro, impartendo ordini, quando avrebbero potuto starsene seduti a casa a godersi il fine
settimana. Devo ringraziare in particolare il mio secondo in
comando, Gina, che svolge sempre il suo lavoro alla perfezione».
Gina si illuminò, mentre riceveva uno scroscio di applausi. In
ognuna delle parole di Guy, lei udiva amore, speranza e promesse.
Non poté evitare di lanciare uno sguardo vittorioso a Floz, che stava
applaudendo diligentemente, nonostante avesse gli occhi bassi.
Dopo il pranzo, la cerimonia nuziale iniziò a scemare. Alcuni invitati avevano sostenuto un lungo viaggio e dovevano tornare a casa
per recarsi al lavoro il giorno successivo, la sposa e lo sposo vennero
accompagnati in aeroporto per prendere un volo per le Bahamas, che
sarebbe partito nelle prime ore della serata, mentre tutti gli altri se
ne andarono al pub di Alberto per farsi un ultimo cicchetto.
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«Sei il benvenuto, se vuoi unirti a noi», disse Alberto, mentre
stringeva la mano di Guy con il suo solito vigore, rischiando di spezzargli le ossa.
«Grazie, amico, ma sono sfinito», disse Guy. Quella fu la riposta
che gli diedero tutti. Desideravano soltanto trascinare i piedi per andare a trascorrere un tranquillo sabato sera.
«Venerdì ricambieremo. Ci sentiamo in settimana», disse Alberto. «Non potrò mai ringraziarti a sufficienza. Sto addirittura
pensando che se ci trovassimo a sfidarci sul ring ti lascerei vincere».
«Come no, sono sicuro che lo faresti», lo prese in giro Guy. Non
credette neanche per un minuto a quella sua affermazione.
Novembre
Autunno dell’anno scorso, il più bel sorriso.
William Cullen Bryant
Capitolo novantadue
Gina andò in bagno per la quarta volta in altrettanti minuti. Affermare che era nervosa per la serata era un eufemismo. Aveva iniziato
ad agghindarsi e farsi bella all’ora di pranzo, ma i preparativi in realtà erano cominciati molto prima. Da più di un anno aveva comprato la biancheria che stava indossando in quel momento, che
aveva conservato avvolta nella carta velina nel cassetto in attesa di
un appuntamento con Guy Miller: un corsetto nero con perizoma abbinato, autoreggenti con la riga in mezzo e un fiocchetto all’altezza
della coscia. Il vestito nero che indossava sopra era nuovo, elegante e
costoso. Si spruzzò il suo profumo portafortuna, fece un passo indietro per ammirarsi allo specchio e sorrise. Non poteva essere più
pronta di così per muovere i primi passi nel mondo in qualità della
signora Gina Miller. “Colei che aspetta verrà ricompensata”.
Quando udì la macchina di Guy che rombava fuori dalla porta, il
cuore iniziò a batterle all’impazzata. Si infilò le sue nuove scarpe di
velluto col tacco, la nuova pelliccia sintetica color nero pantera e si
mandò un bacio allo specchio dell’ingresso. Era bella e si sentiva
bella, perché prima della fine della serata avrebbe sfiorato le labbra
di Guy con le sue.
Guy guardò Gina uscire dalla porta principale. Era deliziosa. I
suoi capelli biondo dorato erano lisci e lucenti, le sue gambe magre e
lunghe con quei tacchi erano mozzafiato, ma i battiti procedettero a
ritmo costante, non ci fu nessun sobbalzo, soltanto una cadenza
regolare. Eppure Floz, quando era intenta a tagliare le carote con addosso quell’enorme grembiule bianco, gli aveva fatto scalpitare il
cuore come se fosse il famoso cavallo Red Rum che galoppava verso
l’ultimo ostacolo.
«Ciao», disse Gina, mentre si allacciava la cintura. I suoi occhi
splendevano, il suo sorriso era dolce e speranzoso, e Guy capì che uscire con lei era stato un errore.
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Mentre guidava, conversarono a proposito del matrimonio di Alberto e delle richieste di prenotazioni che Guy aveva ricevuto da due
degli invitati, che avrebbero voluto organizzare dei banchetti nel suo
nuovo ristorante, non appena avesse riaperto.
Quando arrivarono al Four Trees e lui aprì la porta dell’automobile per Gina, seppe che lei aveva attribuito a quel suo gesto
molto più valore di un semplice e spontaneo atto di galanteria. Guy
avrebbe voluto ordinare dello champagne, una volta che avessero
preso posto al tavolo, tuttavia decise di non farlo poiché lei lo
avrebbe interpretato come una prova ulteriore di quanto lui fosse romantico. Entro la fine della serata avrebbe dovuto farle capire, in
modo molto gentile, che fra loro non sarebbe successo nulla.
Andarono al loro tavolo e Guy si accorse che Gina lo stava fissando mentre lui osservava la lista dei vini. Sapeva che gli occhi di lei
erano grandi e innocenti, brillanti più che mai. Ciò lo fece sentire
lievemente asfissiato e si allentò il colletto.
«Hai delle preferenze? Rosso o bianco?», le chiese.
«Bianco per me, grazie», rispose Gina. «Hanno del Pinot
grigio?».
Guy scorse la lista. «Ehm, sì. Anche per me va bene. Dunque, che
cosa desideri come antipasto?», le domandò.
«Perché non scegli tu per me?», sorrise Gina. Tantissime volte
aveva visto la stessa scena nei film e le era sempre apparsa molto
romantica.
Guy si maledisse. Non si era reso conto che lei fosse cotta a tal
punto di lui. Temeva di ferire i suoi sentimenti, ma doveva fare in
modo che quella serata finisse il prima possibile. Magari, durante il
corso della cena Gina avrebbe dedotto che lui non era interessato se
Guy avesse emanato delle vibrazioni sufficientemente fredde, così da
farle recepire il messaggio e lasciarle un po’ di dignità. Proprio come
Floz aveva fatto con lui.
«Non conosco i tuoi gusti però», disse Guy.
«Qualsiasi cosa va bene», ribatté Gina.
Accidenti.
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Gina immaginava che avrebbero preso delle portate differenti. Se
lui le avesse ordinato delle capesante, Gina lo avrebbe preso come un
segno che Guy desiderava che lei ne infilzasse una con la forchetta
per poi farla scorrere tra le labbra di lui per fargliela assaggiare. E lui
avrebbe fatto lo stesso con lei, era questo che accadeva tra le coppie
che amoreggiavano.
Lui ordinò le capesante. “È vero amore”, pensò lei. Per sé prese
delle cozze. Sembrava un piatto mascolino e seducente.
«E del Pinot grigio», disse Guy al cameriere.
«Quale, signore?». Il cameriere probabilmente non lavora in quel
ristorante da molto tempo, quindi non conosceva bene la lista dei
vini.
«È il numero… ehm…». Guy aprì la carta dei vini; “Oh cielo, che
sfortuna!”. «…Sessantanove». La chiuse di scatto e la consegnò
subito al cameriere. Allungò la mano per prendere un po’ di pane e si
tenne occupato a strapparne dei pezzettini per poi immergerli
nell’olio d’oliva.
Gina rimase in silenzio e gli lanciò diversi sorrisi mentre aspettavano l’arrivo degli antipasti. Guy si rese conto che, nonostante
avessero lavorato insieme per tre anni, non avevano mai socializzato.
Non sapeva come fosse lei al di fuori del lavoro. A giudicare dagli
sguardi che gli stava inviando, era incline a pensare che Gina, tra un
turno e l’altro, restasse in adorazione di un altarino dedicato a lui. Al
Burgerov i suoi occhi azzurri gli erano apparsi innocenti. Quella sera
invece vi notò uno sbrilluccichio selvaggio.
Lui le riempì il bicchiere di vino.
«Questo vino è squisito», commentò Gina. «Devi essere un
esperto».
«Non proprio», rise timidamente Guy.
«Francese, vero? Mi piace davvero tanto la Francia», disse Gina.
«Mi sarebbe piaciuto andarci quest’estate, ma è così dura andare in
vacanza da soli, non credi? Mi manca la possibilità di partire con
qualcuno».
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«Spesso penso che per una donna debba essere ancora più dura»,
rispose Guy, filtrando la sua risposta come se si trattasse di uno slogan pubblicitario.
«Be’, in effetti per le donne molte cose sono più difficili», sospirò
Gina, come Biancaneve davanti al pozzo dei desideri, andando alla
ricerca di una risposta sulla falsa riga di “come cosa?”. Risposta che
Guy si sentì obbligato a offrirle.
«Considera, per esempio, chiedere a un uomo di uscire».
“Oh merda”, pensò Guy.
«Le donne a volte devono aspettare anni prima che un uomo
chieda loro di uscire. Altrimenti rischiano di risultare sfacciate e un
po’ mascoline, non trovi?».
Guy si esibì in una serie di gesti, corrugamenti di sopracciglia e
sbuffi per indicare che non era sicuro di quella sua affermazione.
Gli venne voglia di sbaciucchiare il cameriere che lo salvò portando loro gli antipasti.
«Come sono le tue capesante?», chiese Guy, pentendosi immediatamente quando vide che Gina ne raccoglieva una con la forchetta
per poi portarla alle labbra di Guy. Se l’avesse mangiata, il suo gesto
poteva essere frainteso, se invece l’avesse rifiutata sarebbe risultato
sgarbato e zoticone. Cercò di prenderla dalla forchetta di lei nel
modo meno sensuale possibile.
«Squisita», disse lui.
«Come sono le tue cozze?»
«Sono buone, grazie».
«Posso provarne una?»
«Certo».
Guy si sentì obbligato a ricambiare il gesto della forchetta. Gina
chiuse lentamente la bocca intorno alla cozza e masticò con fare seducente. «Favolosa», commentò.
«Che cosa fai nel tempo libero, Gina?», chiese Guy una volta che
il cameriere ebbe portato via i piatti. Non avrebbe mai pensato che la
conversazione tra loro potesse essere così faticosa. Gina si era trasformata in un’adolescente fulminata dall’amore. Ci mancava poco
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che gli occhi di lei sprizzassero cuori in versione fumetto verso di lui:
la situazione era davvero troppo intensa e lui era un po’ a disagio.
«Oooh, non molto», rispose lei, sorridendo e tornando a
sospirare.
Guy non si sarebbe stupito se lei avesse trascorso il suo tempo
libero esercitandosi a scrivere il nome GINA MILLER. Non si sarebbe
mai immaginato che lei fosse tanto innamorata. Si sentiva terribilmente in colpa adesso che era certo che non ci sarebbe stato un
secondo appuntamento.
«È carino qui, vero?», domandò Guy, guardandosi intorno, poiché il calore dello sguardo di Gina lo stava facendo avvampare.
«Dovremmo tornarci. La prossima volta offro io». Gina fece un
sorriso che andava da un orecchio all’altro.
Guy non sapeva che cosa rispondere. Non poteva dire di sì perché
tale risposta le avrebbe causato un ulteriore motivo di delusione;
non poteva dire di no perché l’avrebbe distrutta. Scelse di andare alla
toilette e si scusò con Gina.
Quando tornò, le portate principali erano in tavola. Guy attese
che iniziasse l’inevitabile rituale della forchetta. Non dovette aspettare a lungo.
«Quindi, sei emozionato per l’arrivo del bambino di tua sorella?».
Gina infilò in bocca l’ultimo boccone del suo arrosto ripieno di pâté.
«Sì, lo sono, molto», rispose Guy. «Adoro i bambini».
«Anch’io», annuì Gina con grande entusiasmo, felice di aver scovato un ulteriore campo in cui lei e Guy erano compatibili. Una volta
tornata a casa, non sarebbe riuscita a fare a meno di scegliere quattro nomi che si addicessero al cognome Miller. Quattro maschili e
quattro femminili, in caso avessero avuto tutti maschi o tutte
femmine.
«Scommetto che il matrimonio alla locanda di Alberto sarà eccezionale», disse Gina, certa che da un momento all’altro Guy le
avrebbe chiesto di accompagnarlo.
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«Credo che farà un lavoro magnifico», disse Guy, perfettamente
consapevole del perché lei avesse sollevato l’argomento matrimonio.
«Però staremo tutti piuttosto stipati. La sala è veramente piccola».
«Tuttavia, si riesce sempre a stringersi un po’ per infilare una
persona in più, non è così?», disse Gina con una risata squillante.
«Scommetto che sarà delizioso e intimo proprio per il fatto che
saranno tutti pigiati».
Il cameriere tolse i piatti e portò loro il menu dei dolci. Guy fissò
il suo, nella speranza che cambiassero argomento.
«Oooh, guarda questi dolci da dividere in due!», disse Gina con
un gridolino di gioia, mentre prosciugava il suo bicchiere di vino.
«Non fanno per me». Guy si diede dei colpetti sullo stomaco. «Ma
sentiti libera di ordinarli. Io credo prenderò soltanto un caffè. Non
vado pazzo per i dolci». Era una grossa bugia. Sapeva che se ci fosse
stata Floz seduta davanti a lui, sarebbe stato il primo a suggerire di
dividere un dessert.
Fu come se una nube fosse calata sul viso di Gina. Avere un così
tale potere sulle emozioni di lei era una pesante responsabilità che
Guy non desiderava accollarsi.
Gina ordinò una panna cotta, mentre il cameriere le riempiva il
bicchiere di vino. Era sazia ma non voleva che la cena terminasse.
«Come fai ad andare d’accordo con quella Floz?», chiese lei. Il
“quella” che aveva posto prima del nome era eloquente, pensò Guy.
«È… è una persona piacevole. Non la conosco poi così bene»,
disse lui.
«Non stai pensando di assumerla al ristorante, vero?»
«Floz?», rise lui, e Gina si accorse dell’affetto genuino che comparve nei suoi occhi mentre pronunciava il nome di lei e ne fu molto
ferita. Tracannò il vino. «No, è una scrittrice».
«Non ne ho mai sentito parlare». Gina non riuscì a evitare di dare
un tono critico alle sue parole.
«Non scrive libri, è un’autrice di testi per i biglietti d’auguri», rispose lui, mentre ringraziava il cameriere per aver portato loro il caffè
e il dolce di Gina.
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«Non gli piaci molto, vero?». Gina conficcò il suo cucchiaio nella
panna cotta.
«Non lo so», rispose Guy, avvertendo una fitta di dolore.
«Gli artistoidi sono tutti strani», continuò Gina, che aveva la parlantina sciolta a causa del vino. «Una volta sono uscita con un
giornalista. Gli scrittori dovrebbero uscire solamente con altri scrittori, sono così strani. Gli insegnanti dovrebbero uscire solamente
con altri insegnanti, i dottori con persone del campo medico e i cuochi con altri cuochi. Dovremmo attenerci a stare con i nostri simili.
Non credi?».
Guy sorseggiò il suo caffè e rispose facendo spallucce. Si sentiva
davvero in colpa a pensarlo, ma non vedeva l’ora che quell’appuntamento finisse. Si era sbagliato a credere che i sentimenti potessero
essere forzati: la chimica non si poteva comandare.
Ciononostante, Gina non aveva alcuna intenzione di lasciarsi
sfuggire Guy così presto. Ordinò un caffè corretto e lo persuase a
prendere un altro espresso per tenerle compagnia mentre lei beveva
il suo.
«Non vedo l’ora di tornare al lavoro», disse Gina. «Mi è mancato
tanto stare in cucina con te».
«Anche a me è mancato il lavoro», disse Guy.
«Con me?»
«Scusa?», tossì Guy.
«Ti è mancato lavorare con me?». Gli occhi di lei brillavano per
via delle lacrime o dell’alcol, Guy non sapeva dire con precisione.
«Sì, sì, certo», disse Guy, senza però ricambiare lo sguardo intenso e innamorato di lei, che sapeva di incontrare se avesse alzato il
capo. Fermò un cameriere per chiedergli il conto. Sperò che facesse
in fretta e si preparò a consegnarli la carta di credito.
«È stata una cena piacevole, grazie Guy», disse Gina in tono
dolce, assumendo un’altra personalità nella speranza di riuscire ad
abbattere le sue difese. Percepiva la sua distanza, sapeva che a
quell’appuntamento non ne sarebbe seguito un altro. Si era trattato
di una cena di ringraziamento che lei non era riuscita a trasformare
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in un appuntamento romantico. Scolò il caffè in un sorso e avvertì il
calore del brandy nello stomaco.
«Grazie per la tua compagnia, Gina».
«Mi piaci davvero, Guy». Gli occhi di Gina si riempirono di lacrime. Non le restava che tentare un approccio più diretto. Non le importava se lui la voleva usare per una notte. Forse solo allora, tra le
gambe di lei, Guy avrebbe scoperto che tra di loro c’era qualcosa.
«Io…». Il benedetto cameriere arrivò con la macchinetta per le
carte di credito e cercò insieme a Guy di completare la transazione,
non prestando attenzione a Gina che si stava tamponando gli occhi
con il tovagliolo di stoffa.
Le lacrime di Gina iniziarono a scorrere più copiose, poiché divenne consapevole che non sarebbe più ritornata in quel ristorante
insieme a Guy e che non si sarebbero mai fidanzati. Non le avrebbe
mai detto: «Ti ricordi del nostro primo appuntamento al Four
Trees?», mentre si metteva in ginocchio nel giorno dell’anniversario
del loro primo incontro e le chiedeva di sposarlo. Il suo futuro e i
suoi sogni stavano svanendo, per poi dileguarsi in lontananza
Lei doveva far sì che lui si interessasse a lei. Lo amava da così
tanto tempo. Non sapeva che cosa avrebbe fatto se lui l’avesse rifiutata. Si era spinta oltre un punto dal quale non poteva più tornare
indietro.
Infilò il suo braccio in quello di Guy mentre attraversavano il
parcheggio, godendo della fantasia che quello fosse il suo uomo. Guy
le aprì la portiera e lei salì in macchina nel modo più seducente possibile, mostrando una lunga gamba, avvolta nell’elegante tessuto di
un’autoreggente, ma lui non abbassò gli occhi nemmeno per un
misero istante.
Lungo la strada verso casa di Gina, l’aria in macchina era talmente pesante che si sarebbe potuta tagliare con un coltello. Gina rimase seduta, sconfitta, respingendo le lacrime di ubriachezza; in
parte odiava Guy per essere stato così insensibile nei suoi confronti,
ma sapeva che avrebbe comunque tentato di sedurlo una volta sulla
porta di casa sua. Un suo ex ragazzo le aveva detto che il suo
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profumo era per metà Poison, ovvero veleno, e per metà
disperazione.
Guy si arrestò fuori da casa di lei, scese dalla macchina e le aprì la
portiera.
«Be’, grazie per la piacevole cena, Gina».
Lei alzò i suoi occhioni umidi verso di lui. «Che cosa c’è che non
va in me, Guy?»
«Non c’è nulla che non vada in te, Gina. Assolutamente nulla».
«Vuoi passare la notte da me?».
Cacchio.
Guy sospirò. «No, Gina. Grazie, ma no».
Lei restò ferma in macchina e iniziò a singhiozzare. «Oh no, ho
rovinato tutto. Non avrei dovuto dirlo. Mi piaci talmente tanto, Guy.
Possiamo uscire ancora? Ricominciare tutto da capo?». Le lacrime le
stavano scorrendo lungo il viso.
Guy sapeva che essere delicato in quel momento con lei sarebbe
stato crudele e le avrebbe creato delle false speranze.
«No, Gina», disse, cercando di escludere ogni tipo di emozione
dalla voce. «Credo che sarebbe sbagliato».
I lineamenti del volto di Gina si deformarono. «D’accordo!». Guy
cercò di non farle udire il sospiro di sollievo che esalò non appena lei
si diede una spinta per uscire dalla macchina. «Forse se fossi Floz,
con quei suoi occhi da cuore infranto, le cose sarebbero diverse!».
«Cuore infranto? Che cosa intendi dire?»
«“Oh, Guy, sto cercando di non guardarti mentre taglio le mie
carote in modo del tutto sbagliato!”», la derise Gina imitando una
vocina infantile. «Mentre tu cerchi di non guardarla allo stesso
modo! Non tornerò a lavorare al ristorante, Guy». Fece due traballanti passi in avanti e le chiavi le caddero al suolo. Guy le raccolse
per lei, dato che Gina si stava per ribaltare mentre si chinava per
recuperarle.
«Gina, non essere sciocca…».
Lei gliele strappò dalle mani, la rabbia la avvolgeva come
un’armatura. Era l’amore a dettare le regole e non si poteva forzarlo.
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Non si sarebbe fatto persuadere da gambe lunghe in autoreggenti
nere e da devoti occhi azzurri. Aveva deriso i suoi sforzi e aveva
scelto di piazzare una donna minuta e dai capelli rossi che non
sapeva tagliare le carote al centro dei pensieri di Guy.
«Grazie, ma no grazie», ringhiò lei.
Dopodiché la porta di casa venne aperta e chiusa con talmente
tanta violenza che fu un miracolo che i pannelli in vetro non andassero in frantumi.
Capitolo novantatré
Due giorni prima del matrimonio, Juliet era distesa sul lettino per
l’ecografia, tremando per l’emozione.
La radiologa le abbassò i pantaloni di qualche centimetro e le cosparse la pancia di gel.
«Cavolo, è freddo!», strillò Juliet.
«Scusi», sorrise la donna, dopodiché si sedette e alzò la sonda.
«Quindi, il suo dottore l’ha mandata da me per un’ecografia anticipata. Non sta avendo dei problemi, vero?»
«No, tocchiamo ferro», rispose Juliet, «ma sono la quinta generazione di gemelli. Mi ha detto che riuscite a capire abbastanza
presto se sono incinta di più di un bambino».
«È vero», disse la radiologa, e poi si zittì per un po’, mentre
spostava la sonda su e giù per la pancia di Juliet, che stava crescendo
in fretta; studiò lo schermo davanti a sé e nel frattempo Steve cercò
di capire, da dietro le sue spalle, cosa fossero le macchie che si
muovevano.
«Sì», disse infine e indicò qualcosa a Steve. «Eccoli qui: gemelli».
La radiologa girò lo schermo in direzione di Juliet, che scoppiò
immediatamente in lacrime, un secondo dopo Steve.
«È incinta della sesta generazione di gemelli. Congratulazioni a
entrambi!».
Capitolo novantaquattro
Floz arrivò alla boutique White Wedding un po’ prima di Juliet.
«Buongiorno», disse l’adorabile Freya. «Oggi è il giorno delle
prove finali. Dov’è la sposa?»
«Sta arrivando», rispose Floz. «Oggi ha l’ecografia. Per vedere se
aspetta dei gemelli».
«Che cosa incantevole», disse Freya, mentre estraeva dall’involucro di plastica il bellissimo vestito color cioccolato di Floz e
l’aiutava a infilarselo.
Le calzava ancora alla perfezione.
«È così bello», disse Floz. «Non avrei mai pensato a un colore del
genere per una damigella».
«Si addice perfettamente alla stagione e anche alla sua
carnagione», disse Freya. «Credo che un giorno anche lei sarà una
sposa autunnale. Si direbbe che l’autunno sia la sua stagione
fortunata».
«Lo spero», disse Floz a bassa voce. «La volta scorsa sono stata
una sposa primaverile».
«Io sono stata una sposa primaverile e una autunnale», disse
Freya, mentre osservava l’immagine riflessa di Floz da sopra la sua
spalla. «L’autunno mi ha portato molta più fortuna».
Sistemò il grazioso copricapo di foglie sulla testa di Floz.
«Credo che il mio destino sia quello di essere stata una sposa una
volta soltanto», sospirò Floz. «Non ho molta fortuna in campo
sentimentale».
«Tutti i miei vestiti portano un pizzico di fortuna a chi li indossa».
Freya sistemò alcune ciocche dei capelli rosso fuoco di Floz, disponendole intorno al copricapo. «Magari ne resterà sorpresa. Non sta a
lei dire che non troverà l’amore. È l’amore che decide se rendersi o
meno disponibile a lei».
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«Sarebbe carino se lo facesse», disse Floz, nonostante non credesse nemmeno per un secondo che l’amore avrebbe nuovamente
fatto breccia nel suo cuore.
Capitolo novantacinque
«Grazie per essere venuto con me», disse Steve mentre arrestava
la macchina nel parcheggio. L’indomani si sarebbe recato in quel
luogo per una ragione molto più felice, ma oggi aveva un compito
che voleva portare a termine.
«Non essere sciocco», disse Guy. «È ovvio che voglio stare al tuo
fianco».
Avevano appena ritirato i loro completi per il matrimonio e un
enorme bouquet di fiori rosa dal fioraio accanto al sarto.
«Vorrei averle portato dei fiori per il suo compleanno quando era
viva», disse Steve. «Ma lei non voleva nulla che non si potesse bere».
Con un colpo di tosse respinse le lacrime che minacciavano di riempirgli gli occhi, e Guy gli diede una pacca sulla spalla.
Scesero dall’automobile e camminarono lungo il sentiero della
chiesa.
«Domani sarai qui a chiederti in che diamine di situazione ti sei
cacciato», rise Guy.
«Non credo», sorrise Steve. «Non vedo l’ora».
Il reverendo “Gossip” era in piedi davanti alla porta della chiesa e
li salutò con la mano. «Ciao, Steven, sei pronto per il grande
giorno?», chiese.
«Salve, reverendo Glossop», disse Steve. «Sono venuto soltanto
per lasciare questi sulla tomba di mia madre. Oggi sarebbe il suo cinquantesimo compleanno». Si rattristò al pensiero di tutti quegli anni
sprecati e di tutti gli altri che avrebbe potuto avere davanti a sé.
Il vicario gli diede una pacca di conforto sul braccio. «Sembra che
oggi ci siano diverse ricorrenze di compleanno», disse. «La ragazza
laggiù, nel cimitero dei bambini, riuscite a vederla?».
Steve scorse in lontananza la sagoma indistinta di una donna con
un cappotto blu e annuì.
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«Ha perso tre bambini più o meno in questo periodo dell’anno.
Tutti quanti nati morti».
Steve non riuscì a immaginarsi come si sarebbe sentito se una
simile tragedia fosse capitata a lui e a Juliet.
«Inoltre la povera donna ha avuto una serie sfortunata di aborti.
Una storia veramente tragica», continuò il vicario.
«Alla fine non ha deciso di adottare?», chiese Guy.
«Suo marito… ecco». Il vicario, pettegolo com’era, si chiese se
non avesse raccontato già troppo di quella storia, e diede loro la versione concisa. «Non ha reagito molto bene alla faccenda e la sua
azienda è collassata. Hanno perso tutto. Veramente molto triste. Una
donna così adorabile». Annuì in direzione della signora come per
volerle inviare le sue migliori vibrazioni, poi tornò a rivolgersi a
Steve. «In ogni caso, bisogna andare avanti. Ci vediamo domani,
Steven, al tuo matrimonio».
«Certo, ci vediamo domani, reverendo».
Steve e Guy camminarono verso la tomba della signora Feast.
Steve le aveva ordinato una stele, ma il terreno doveva assestarsi per
qualche mese prima che potesse essere eretta. Per il momento c’era
soltanto una semplice croce che Steve aveva costruito con dei tronchi
di legno e su cui aveva inciso le parole TI VOGLIO BENE, MAMMA. Lui e
Guy si chinarono e strapparono un paio di erbacce che avevano iniziato a spuntare dal terreno.
«Riesci a immaginare che cosa ha dovuto affrontare quella povera
donna?», disse Steve, con l’immagine dei suoi bambini ancora fresca
nella mente. Non voleva pensare che sarebbe potuto accadere a qualcuno dei suoi cari. Specialmente non a Juliet. Non voleva che lei sentisse i bambini crescere dentro di sé, giorno dopo giorno, senza riuscire mai a sentirli respirare.
«No, non ci riesco», disse Guy. «Non ci riesco proprio».
«Solamente sentire simili storie mi spaventa», rabbrividì Steve,
mentre toglieva i fiori dal loro involucro e li metteva nel vaso di
fronte alla croce. Alzò lo sguardo e vide Guy che fissava un punto
sopra la tomba vicina.
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«Che cosa c’è?», gli chiese.
«Steve, guarda».
Steve girò bruscamente la testa nella direzione che Guy gli stava
indicando. La “povera donna” con il cappotto blu stava uscendo dal
cimitero. Ed era Floz.
Avanzarono fino all’angolo del cimitero dove orsacchiotti di peluche e palloncini giacevano insieme ai fiori.
«Qui», disse Steve, indicando la lapide di un angelo. Incise vi
erano le parole:
Lascia che i tuoi figli siano come tanti fiori, presi in prestito da Dio.
Se i fiori muoiono o appassiscono, ringrazia il Signore per il suo dono prezioso.
James Christopher Cherrydale, nato e morto il 4 novembre 2002
Elisabeth Jane Cherrydale, nata e morta il 14 ottobre 2004
Eleanor May Cherrydale, nata e morta il 2 novembre 2005
Riposate in pace, nostri piccoli angeli
Ci rincontreremo ancora
Vi ameremo per sempre, mamma e papà
«Oh, mio Dio, è questo il motivo!».
Fu allora che Guy capì. Tutto aveva un senso. Capì perché Floz
fosse diventata improvvisamente fredda quel giorno a Hallow’s Cottage. Era accaduto quando lui stava parlando dell’eventualità di
avere tanti bambini – bambini che lei non avrebbe potuto dargli.
Gina aveva detto che Floz non riusciva a togliergli gli occhi di dosso
nel giorno del matrimonio di Lulu Masserati. Quindi, alla fine dei
conti, lui le piaceva. Ancora non sapeva che cosa se ne sarebbe fatto
di tale informazione. Tutto ciò di cui era sicuro era che non si
sarebbe arreso con Floz.
C’era speranza, lui l’avrebbe ghermita e con essa sarebbe fuggito.
Capitolo novantasei
«Cielo, cielo! Voi tre ragazze, e anche tu Raymond ovviamente,
sembrate un dipinto!».
Perry esibì un largo sorriso, mentre ammirava sua moglie nel suo
tailleur color bronzo, Floz nel suo bellissimo vestito color cioccolato,
Juliet nel suo raffinato abito dorato con un diadema di fiori e foglie
dorate, e Coco nel suo elegante completo. Le ragazze avevano trascorso la notte precedente al matrimonio dai Miller, che le avevano
sontuosamente colmate di attenzioni. Erano venuti anche Coco e
Gideon e avevano portato salsine, stuzzichini e tortine; Perry aveva
preparato la sua specialità, un po’ di punch fatto in casa affogato al
porto, e la serata aveva finito per trasformarsi in una piuttosto allegra festa di addio al nubilato per ambo i sessi.
«Non riesco a credere che sto per sposarmi», disse Juliet, guardandosi allo specchio. Sorrise per la milionesima volta. Alberto
avrebbe dato loro una delle camere della sua locanda come suite di
luna di miele, e Juliet non vedeva l’ora di tuffarsi sul letto insieme a
suo marito in qualità di signora Feast. Accidenti, quella stessa sera
avrebbe approfittato di lui!
«Anch’io non ci riesco», gracidò Coco, mentre si dava dei colpetti
per scacciare il nodo in gola. «Penso che sia tutto meraviglioso».
Floz annuì e sorrise, ma il suo cuore era incredibilmente pesante.
Per quanto fosse felice che fosse arrivato il giorno del matrimonio, temeva di vedere Gina accoccolata accanto a Guy. In tal caso,
avrebbe dovuto semplicemente impegnarsi con tutte le sue forze per
non guardarli.
«Il tempo sta reggendo», disse Grainne, guardando fuori dalla
finestra in direzione di una bella seppur fredda giornata con un lieve
accenno di foschia sopra il manto erboso. Gli alberi erano ormai
spogli, le ultime foglie erano state strappate dai rami dal vento della
notte; le more erano sparite da tempo, i papaveri sonnecchiavano
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sotto al terreno, mentre tutte le castagne erano cadute e servivano
come proiettili durante le battaglie nei cortili delle scuole. I solchi
lasciati sul manto autunnale sarebbero presto diventati bianchi.
Perry distribuì delle lunghe flûte di champagne e alzò il calice
verso sua figlia.
«Mia cara ragazza, che tu e Steve possiate essere felici quanto tua
madre e io siamo stati e continuiamo a essere».
Floz brindò all’amica sorridente e godette dell’affetto emanato da
quell’adorabile famiglia. Desiderò poterlo conservare, poiché sentiva
che il freddo inverno si trovava soltanto a distanza di un respiro.
«Pronto?», chiese Guy.
«Mi sto cacando sotto», disse Steve. «Si può dire: “Mi sto cacando
sotto” in chiesa?»
«Sono sicuro che per questa volta Dio ti perdonerà». Guy sistemò
la rosa dorata che Steve portava all’occhiello.
L’organista stava suonando l’equivalente religioso della musica da
intrattenimento da ascensore, intanto che i banchi si gremivano di
zie e lottatori di wrestling.
«Sì, sono certo di avere gli anelli». Guy si diede dei colpetti sulla
tasca, mentre Steve apriva la bocca per tornare a ripetergli la
medesima domanda.
«No, non dirò nulla a Juliet a proposito di Floz», disse Steve,
mentre Guy apriva a sua volta la bocca. «So che Ju ne resterebbe
sconvolta ripensando a tutte le volte che ha obbligato Floz ad andare
a comprare con lei delle cose per i bambini».
L’organista cambiò brano. Ta-da-da-da; ta-da-da-daaa. Erano le
prime battute di Here comes the bride. Lei era lì.
«Oh cazzo», disse Steve. «Scusa, Dio».
«Buona fortuna, amico», disse Guy.
«Anche a te, per dopo», ribatté Steve, facendogli l’occhiolino.
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Alberto Masserati, insieme alla sua famiglia e al suo personale,
aveva reso onore alla festa nuziale.
La sala da pranzo della locanda era drappeggiata con stoffe che riprendevano tutte le sfumature autunnali, le tovaglie di lino sui tavoli
erano abbinate e coriandoli a forma di piccole foglie erano sparsi
ovunque. Anche le cameriere erano vestite di marrone con grembiuli
bianchi e portavano delle corone di foglie tra i capelli che le facevano
assomigliare a imperatrici romane a mezzo servizio.
Mentre bevevano un cocktail di succo d’arancia e champagne,
Floz si sentì osservata. Aveva ragione. Si voltò e notò che gli occhi di
Guy erano fissi su di lei, grigi e intensi. Lui stava mostrando un interesse spudorato e non si girò dopo che lei lo sorprese a fissarla, si
limitò piuttosto a sorridere e a inclinare il suo bicchiere verso di lei.
Floz rispose fugacemente al sorriso e distolse lo sguardo, percependo
un’ondata di rossore sulle proprie guance; si chiese perché non ci
fosse Gina con lui.
Quel giorno, Guy era di buonumore. Mentre stavano uscendo
dalla chiesa, con la sposa e lo sposo che camminavano lungo la
navata, seguiti dal testimone dello sposo e dalla damigella, lui le
aveva porto il braccio affinché lei glielo cingesse.
«Sei bellissima, Floz», le aveva detto.
«Oh… oh, grazie», aveva risposto lei.
«Sembri una ninfa dei boschi».
«Non uno gnomo quindi?», aveva ribattuto lei ridacchiando.
«Oh no, decisamente una ninfa».
«Aspetta più tardi quando inizierò a svolazzare in giro», aveva
scherzato lei, in modo impacciato.
«Mi piacerebbe farti sentire come se tu stessi volando, Floz»,
aveva risposto lui sottovoce, ma abbastanza forte da essere udito.
“Che cosa diamine intendeva dire?”, si chiese Floz. Il tono che aveva
usato le aveva fatto capire, senza dubbio, che lui non stava pianificando di portarla a fare parapendio. Le aveva fatto tremare le gambe.
Era felice di trovarsi all’altro capo del tavolo principale, tra Coco e
Perry, lontano dallo sguardo di Guy.
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Come antipasto, Alberto servì degli asparagi avvolti nel prosciutto, seguiti da una “zuppa d’autunno”, ovverosia un minestrone
ricco e denso di verdure miste e servito con del pane tostato a forma
di foglia.
Il sorbetto al limone seguì e precedette la portata principale,
costituita da medaglioni di maiale con salsa di mostarda. Come dolce
furono servite delle mele ricoperte di caramello, ognuna delle quali
aveva in cima un piccolo e crepitante fuoco d’artificio a forma di
cuore.
Subito dopo, Perry si alzò in piedi per tenere un breve e commovente discorso. Era un uomo timido e non gli piaceva stare al
centro dell’attenzione.
«Non sono molto bravo con i discorsi», iniziò a dire, mentre
cominciavano gli applausi di incoraggiamento. «Ma vorrei ringraziare Alberto, la sua famiglia e il suo personale per aver organizzato
questo delizioso ricevimento per noi. Uscite e godetevi gli applausi,
amici miei».
Alberto e i suoi collaboratori, ugualmente timidi, uscirono in sala,
accolti e acclamati con uno scroscio di affettuosi applausi, poi sparirono nuovamente in cucina, il loro santuario. Quando era sul ring,
Alberto esigeva attenzione; al di fuori, Perry in confronto era un socievole uomo di spettacolo.
«E grazie a tutti i parenti che hanno affrontato il viaggio per
venire al matrimonio della mia ragazza. Dirò soltanto che mi sarebbe
piaciuto poter dare il benvenuto a Steve nella nostra famiglia, ma ne
fa già parte da trent’anni. Ciò significa che sa in che cosa si sta andando a cacciare con mia figlia e che per questo è un uomo molto
coraggioso».
Quella battuta provocò un fragoroso boato di risate, in particolare
quando Juliet si mise le mani sui fianchi, fingendosi offesa.
«Reciterò a entrambi l’augurio tradizionale irlandese che il padre
di Gron recitò a noi nel giorno del nostro matrimonio». Perry tossì e
nella sala calò un silenzio assoluto.
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Che voi possiate essere toccati da un pizzico della fortuna degli irlandesi,
rallegrati da una canzone nel vostro cuore e riscaldati dai sorrisi
delle persone che amate.
Possa il Signore vegliare su di voi
mentre il vostro amore cresce.
Possa la luce dell’amicizia guidare i vostri sentieri nella stessa direzione.
Possano le risate di bambini allietare le stanze della vostra casa.
Possa la gioia di vivere l’uno per l’altra strapparvi un sorriso dalle labbra,
una scintilla dai vostri occhi.
«Signore e signori, vi invito ad alzare i calici per brindare alla mia
bellissima Giulietta e al suo Romeo, Steven. I nuovi signori Feast».
«Agli sposi!», gridarono tutti in coro e applaudirono. Grainne
diede un grosso bacio sulla guancia di Perry. Ora avrebbe potuto finalmente rilassarsi e divertirsi.
Guy si alzò in piedi. Appariva ancora più grande in quella piccola
stanza dal soffitto basso. Floz ebbe un tuffo al cuore non appena lo
vide con il frac e il panciotto nero, la cravatta color cioccolato al
collo, la camicia bianca e un bocciolo di rosa, fresco e dorato, che gli
risplendeva all’occhiello. Un giorno sarebbe diventato il marito delizioso di una donna molto fortunata e un padre magnifico per i loro
bambini. «Signore e signori», iniziò a dire, passando in rassegna
tutta la sala, per poi posare lo sguardo nuovamente su Floz prima di
proseguire. «Avrei voluto raccontare una storia imbarazzante su
Steve, ma ce ne sono talmente tante che non saprei da dove
iniziare».
I lottatori di wrestling cominciarono a urlare che anche loro ne
avevano molte da raccontare.
«Sono semplicemente felice che il mio migliore amico sia l’anima
gemella di mia sorella», disse Guy, con una tale tenerezza nella voce
che Steve fu obbligato a iniziare a deglutire per far sì che le lacrime
non cominciassero a rigargli le guance. «Quello che lei non sa è che
gli piaceva fin dai tempi della scuola».
«Davvero?», domandò Juliet stupita.
«Sì», rispose Steve.
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«Perché non me l’hai detto all’epoca?», disse lei.
«Non osavo», rispose lui. «Mi sarai pure piaciuta, ma mi incutevi
anche una paura colossale».
«Ehi, voi due, state zitti!», urlò Guy, mentre tutti gli altri
ridevano. «Steve è stato il migliore amico che si possa avere. E io so
che lui e Juliet saranno felici, perché oltre che un marito amorevole
sarà anche il suo migliore amico».
«Oh!», esclamarono le voci in coro. Alberto Masserati stava
sbirciando dalla cucina, soffiandosi il naso.
«E vorrei ringraziare la bellissima damigella di Juliet per averla
aiutata e per essere stata sempre al suo fianco. Coco è da sempre il
migliore amico di Juliet, e sebbene Floz sia entrata nelle nostre vite
soltanto quest’autunno, sembra a tutti noi di conoscerla da altrettanto tempo».
Guy sorrise a Floz, e lei rispose al sorriso, sentendosi accaldata,
stordita, imbarazzata e onorata allo stesso tempo.
«Per piacere, alzate i vostri calici per Floz e Coco».
«A Floz e Coco».
Guy fece l’occhiolino a Floz e lei tossì. Fu felice quando lui si sedette e le luci della ribalta si spensero per un po’, mentre lei riprendeva fiato.
Dopodiché Juliet si alzò in piedi e la sala si riempì di risate
soffocate.
«So quello che tutti stanno pensando», disse lei. «Pensate che
farò io il discorso al posto di Steve, tuttavia il matrimonio mi ha rabbonito. Anche se solo temporaneamente. Signore e signori, vi
presento mio marito: lo sposo».
Ci furono parecchi applausi e risate mentre Steve si alzava in
piedi con un’espressione estremamente esterrefatta.
«Be’, grazie, moglie», disse lui. «Adesso torna subito in cucina».
«Non esagerare, amore», ribatté Juliet, svuotando il suo bicchiere
di succo d’arancia.
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Steve esibì un ampio sorriso. «Vorrei ringraziarvi tutti per essere
venuti e per aver presenziato al matrimonio mio e della mia prima
moglie».
Tutti risero di cuore, inclusa Juliet.
«Sul serio. I Miller sono sempre stati la mia famiglia. Quindi
questa giornata significa per me molto più di quanto possa
esprimere. E ovunque andremo a vivere, che sia qui o in America per
qualche anno, sapete che mi prenderò cura di lei e dei nostri
bambini con tutto me stesso. L’ho sempre amata. E l’amerò sempre.
Devo farlo, altrimenti mi ucciderà».
«Non so se ridere o piangere», disse Coco, che durante i discorsi
alternava i singhiozzi alle risatine.
«Signore e signori, per piacere alzate i vostri calici per la mia adorabile signora. Juliet, la sposa».
«Alla sposa!».
Coco collassò nel suo fazzoletto. «Oh, Floz, stiamo andando tutti
alla deriva. Lei se ne va in America con Steve e tu te ne andrai solo il
cielo sa dove».
Floz lo abbracciò. Anche a lei sembrava la fine di un’èra incantevole. Non osava nemmeno pensare alla settimana che l’aspettava,
quando avrebbe dovuto fare la valigie e, probabilmente, trasferirsi in
quell’orribile casa con quella moquette puzzolente e l’ansimante
padrone di casa.
«Dopo il caffè ci sono i fuochi d’artificio», annunciò Alberto,
mentre le cameriere iniziavano a darsi da fare con i caffè.
«Sono quelli cinesi che Steve ha comprato l’anno scorso da Robber Johnny?», chiese Grim Reaper.
«Sì», urlò Steve che aveva sentito la domanda. «E mi ha dato
anche un Grande Sodomita».
«Dannazione. Dirò all’ambulanza di stare pronta», rise Grim.
«Fatti viva con noi, cara Floz». Perry versò un caffè per Floz.
«Devi venire a pranzo la domenica e passarci a trovarci quando ti
pare».
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«Grazie», disse Floz, reprimendo le emozioni che rischiavano di
prendere il sopravvento.
«Anche noi usciremo a pranzo qualche volta», disse Coco, dandole dei colpetti dalla parte opposta. «Mi sembra che tu sia nella mia
vita da sempre, Floz».
«Non ditemi così», disse Floz, sospirando. Si guardò intorno tra
la folla gioiosa e sperò di non fare una figuraccia piangendo. I Pogmoor Brothers stavano giocando a braccio di ferro; Grim Reaper
aveva posizionato il suo braccio gigante intorno alle spalle gracili
della sua ragazza ed era assorto in una profonda conversazione con
Jeff Leppard, Big Bad Davy e le loro rispettive mogli; Klondyke Kevin stava flirtando con Amanda; Daphne e suo marito stavano
ridendo per qualcosa; Juliet e Steve si stavano parlando a bassa
voce, tenendosi per mano. Guy le volgeva la schiena mentre conversava con Fred Zeppelin e la sua signora. I suoi ricci capelli neri arrivavano a coprirgli appena il colletto, e Floz si chiese che cosa
avrebbe provato se li avesse accarezzati.
«Signore e signori, portate fuori i vostri culi per i fuochi
d’artificio!», urlò Alberto.
Aveva accesso le stufe a fungo e appeso file di luci colorate nel
freddo giardino all’esterno.
«State indietro, accidenti!», disse la signora Masserati,
radunando quegli invitati della festa nuziale che si erano spinti oltre
la linea bianca tracciata per terra con il gesso.
«Aspettate, devo lanciare il mio bouquet», disse Juliet, girandosi
e gettandolo alto nell’aria. Salì di trenta centimetri buoni sopra le
mani distese di Floz e atterrò diretto in quelle di Coco.
«Oh mio Dio!», scherzò lui. «Gid, ora devi sposarmi».
Gideon rifletté per un istante. Poi fece restare Coco a bocca
aperta. «Va bene. Perché no? La vita con te è più movimentata
rispetto ai miei standard, ma mi fa stare bene. Coco, mi vuoi
sposare? Per davvero?».
Coco scoppiò in un’esplosione di gioia fragorosa, fino a che lo
shock del primo fuoco d’artificio non lo zittì. Steve aveva la
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sensazione che Robber Johhny li avesse comprati direttamente
dall’IRA. Il rumore era assordante, l’eco sarebbe riuscita a far traballare una stazione spaziale in orbita. Qualcuno dovette andare a prendere le pillole per il cuore di zia Clara nella tasca del suo cappotto.
Gli uomini erano in uno stato di estasi orgasmica.
Floz se ne rimase in piedi ai margini della folla, intenta a osservare un cielo che all’improvviso scintillava di scoppiettii e sfrigolii
colorati, mentre l’aria si saturava di quel familiare odore di fumo dei
falò di fine autunno. Jeff Leppard stava distribuendo le stelline scintillanti e i lottatori di wrestling, proprio come fossero dei ragazzoni,
stavano cercando di usarle per scrivere i loro nomi nell’aria. Erano
tutti in coppia, si abbracciavano, oppure si appoggiavano l’uno all’altra, o si tenevano per mano. Era una scena toccante e commovente,
eppure lei si sentiva come se si trovasse all’interno di un’ombra
fredda e solitaria, posta all’estremità di quella folla di innamorati.
Poi sentì che lui era dietro di lei. Non ebbe bisogno di girarsi per
sapere che si trattava di Guy.
«Affascinanti ma folli, vero?», disse lui. Lei non sapeva se si
stesse riferendo agli invitati o ai fuochi d’artificio; non che la cosa le
importasse, perché la sua risposta sarebbe stata in entrambi i casi la
stessa.
«Sì», disse lei.
«Hai freddo?». Guy notò che stava tremando.
«Un po’».
Le braccia di lui si chiusero intorno a lei. Floz sentì il caldo
respiro di lui sul suo collo mentre Guy si chinava verso di lei e
coglieva il piacevole sussulto che lei si lasciò sfuggire.
«Cara Floz», le disse, con la propria guancia contro quella di lei.
«Credo di essermi innamorato di te».
Floz si girò per guardarlo in volto. Lui vide il tremolio delle scintille dei fuochi d’artificio riflesso nei suoi occhi.
«Oh, Guy, non sono la donna che fa per te».
Lui le sollevò la mano e la baciò sul palmo. La sua pelle emanava
quel caro e familiare profumo di fragole.
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«Credo che tu sia in tutto e per tutto la donna che fa per me»,
disse lui. «Non mi interessa se non puoi avere figli. Sì, so tutto al riguardo, Floz. Tu sei tutto quello che voglio. Tutto il resto non mi
importa».
Le prese il viso tra le sue grandi mani, abbassò lentamente la testa
e la baciò sulle labbra. Le braccia di lui la cinsero, Floz sentì che il
suo corpo combaciava perfettamente con quello di lui, e Guy seppe
che tutto ciò che aveva immaginato su di lei e su Hallow’s Cottage, su
quell’albero di Natale stupidamente alto e su quell’enorme camino si
sarebbe presto avverato.
«Fate attenzione, gente, sto per accendere il Grande Sodomita»,
disse Alberto.
L’enorme esplosione deflagrò in un boato assordante. Tutti rimasero rispettosamente immobili, mentre il Grande Sodomita
schizzava come un missile verso la luna, per poi scoppiare in un
magnifico crisantemo di fuoco dai colori dell’arcobaleno e sbocciare
in cielo con un botto che andava oltre la scala Richter. E comunque
non fu nulla in confronto al fuoco d’artificio che esplose nei cuori di
Floz Cherrydale e Guy Miller.
Epilogo
Dal «South Yorkshire Herald» del 7 novembre.
DONNA PARTORISCE GEMELLI MASCHI
Una donna di Barnsley, moglie di Archangel, la superstar della GWE, ha dato
alla luce due gemelli, di cui è stata la madre surrogata. I gemelli sono nati il giorno
5 novembre a Barnsley, nel District General Hospital, e sono i figli naturali della signora Florence Miller e del signor Guy Miller, chef pluripremiato con le stelle
Michelin e proprietario del Firenze, ristorante di Lower Hoodley, una frazione di
Barnsley, rinomato in tutta la nazione. La signora Juliet Feast, che ha partorito nel
giorno del suo quarantesimo compleanno, è lei stessa madre di due gemelli, maschio e femmina.
«È stato come un sogno e non sono stata sorpresa di aspettare dei gemelli per
loro: ora ci sono sei generazioni di gemelli nella nostra famiglia», ha detto la signora Feast. «Purtroppo, mia cognata non può avere figli e io ho proposto di essere
il loro utero in affitto. Mi ci è voluto un po’ per convincerli, ma sono una donna a
cui è molto difficile dire di no».
La signora Miller, che ha sofferto di una serie di devastanti aborti e parti di
bambini nati morti, era comprensibilmente estasiata.
«Non riesco ancora a crederci», ha detto. «Mia cognata è anche la mia migliore
amica da anni. Ci ha regalato il mondo».
I maschietti, Julius e Steven, pesavano all’incirca tre chili e settanta grammi e
quattro chili.
Ringraziamenti
Ci sono alcune persone che vorrei ringraziare per avermi aiutato durante la
stesura di questo romanzo.
Innanzitutto, la magnifica, divertente e affettuosa comunità del wrestling britannico; in particolare i miei amici Tarzan Boy Darren Ward e Klondyke Kate, Sam
“Dwight J. Ingleburgh” Betts, Ray Robinson, Tony Kelly e i grandi compianti: Gordon “Pedro the Gypsy” Allen, Arthur “Butcher Goodman” Betton, Herbert “Wilson
Sheppard” Craddock e George “Joe Williams” Hubbard per avermi ispirato questa
storia, e per avermi fornito così tanti aneddoti. Avrei tanto voluto metterli tutti
nero su bianco, ma sarei stata arrestata per oltraggio al pudore.
Alla favolosa e cordiale WWE, in particolare all’adorabile Heather Sanford, che
fa in modo che io possa coccolarmi gli enormi lottatori di wrestling due volte
all’anno, immortalando il momento con tanto di fotografie – così da imbarazzare
tremendamente i miei figli Tez e George.
Alla mia formidabile agente Lizzy Kremer e a tutti quelli che lavorano da Simon
& Schuster per essersi occupati e presi cura di me, in particolare le mie brillanti
redattrici Suzanne Baboneau e Libby Yevtushenko e il mio paziente agente pubblicitario, nonché amico, Nigel Stoneman: tutti loro sono una costante fonte di
sostegno, nonostante io li faccia andare fuori di testa.
A Joan “occhio d’aquila” Deitch che compie i suoi miracoli sul mio manoscritto
ed è il mio portafortuna.
A Jill Craven e alla nostra incantevole biblioteca – una signora che non manca
mai di promuovere il mio nome e non sa nemmeno che significa “staccare dal lavoro”. A tutta la stampa dello Yorkshire che è stata con me fin dall’inizio e ha
aiutato la mia carriera a fiorire: siete stati fantastici.
Alla deliziosa Daphne Butters che ha vinto la gara di Supreme Cat che mirava a
trovare un nome al gatto del libro. È stato un piacere incontrarti.
Alla mia eccezionale famiglia e ai miei amici che mi mantengono sulla buona
strada della sanità – e della pazzia – mentale.
Al mio avvocato David Gordon di Atteys che ha risposto a tutte le mie incomprensibili domande con incredibile gentilezza.
A Jackson Taylor, la cui piccola e stupida idea riguardo un libro sull’autunno ha
veramente dato i suoi frutti.
E alle fantastiche società di biglietti d’auguri che mi hanno stipendiato nel
corso degli anni e che hanno fatto sì che mi potessi permettere i vestiti per la
scuola, un tetto sopra la testa e del gin: Emotional Rescue, Wishing Well, Quitting
Hollywood, Carlton, Paperlink, e al compianto Chris Douglas-Morris della Statics,
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che ha assestato il primo emozionante calcio di inizio. Non mi sono mai divertita
tanto come in quei giorni del periodo d’oro trascorsi a scrivere battute.
Indice
AGOSTO
Capitolo uno
Capitolo due
Capitolo tre
Capitolo quattro
Capitolo cinque
Capitolo sei
Capitolo sette
Capitolo otto
Capitolo nove
Capitolo dieci
Capitolo undici
Capitolo dodici
Capitolo tredici
Capitolo quattordici
Capitolo quindici
Capitolo sedici
Capitolo diciassette
Capitolo diciotto
Capitolo diciannove
Capitolo venti
Capitolo ventuno
Capitolo ventidue
Capitolo ventitré
Capitolo ventiquattro
Capitolo venticinque
Capitolo ventisei
Capitolo ventisette
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Capitolo ventotto
Capitolo ventinove
Capitolo trenta
Capitolo trentuno
Capitolo trentadue
Capitolo trentatré
Capitolo trentaquattro
SETTEMBRE
Capitolo trentacinque
Capitolo trentasei
Capitolo trentasette
Capitolo trentotto
Capitolo trentanove
Capitolo quaranta
Capitolo quarantuno
Capitolo quarantadue
Capitolo quarantatré
Capitolo quarantaquattro
Capitolo quarantacinque
Capitolo quarantasei
Capitolo quarantasette
Capitolo quarantotto
Capitolo quarantanove
Capitolo cinquanta
Capitolo cinquantuno
Capitolo cinquantadue
Capitolo cinquantatré
Capitolo cinquantaquattro
Capitolo cinquantacinque
Capitolo cinquantasei
Capitolo cinquantasette
429/432
Capitolo cinquantotto
Capitolo cinquantanove
Capitolo sessanta
Capitolo sessantuno
Capitolo sessantadue
Capitolo sessantatré
Capitolo sessantaquattro
Capitolo sessantacinque
Capitolo sessantasei
Capitolo sessantasette
Capitolo sessantotto
OTTOBRE
Capitolo sessantanove
Capitolo settanta
Capitolo settantuno
Capitolo settantadue
Capitolo settantatré
Capitolo settantaquattro
Capitolo settantacinque
Capitolo settantasei
Capitolo settantasette
Capitolo settantotto
Capitolo settantanove
Capitolo ottanta
Capitolo ottantuno
Capitolo ottantatré
Capitolo ottantaquattro
Capitolo ottantacinque
Capitolo ottantasei
Capitolo ottantasette
Capitolo ottantotto
430/432
Capitolo ottantanove
Capitolo novanta
Capitolo novantuno
NOVEMBRE
Capitolo novantadue
Capitolo novantatré
Capitolo novantaquattro
Capitolo novantacinque
Capitolo novantasei
Epilogo
Ringraziamenti
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