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pl.it
rassegna italiana di argomenti polacchi
6
2015
ISSN: 2384-9266
pl.it rassegna italiana di argomenti polacchi
pubblicazione annuale
ISSN: 2384-9266
(VI) 6, 2015
Gli articoli della rivista sono sottoposti a valutazione di double blind peer review.
sito internet: www.plit-aip.com/plit
e-mail segreteria: [email protected]
e-mail direzione: [email protected]
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SEGRETERIA E GRAFICA
Alessandro Amenta
PATROCINIO E CONTRIBUTI
Il presente numero è stato realizzato grazie al contributo dell’Ambasciata della Repubblica di Polonia in Roma
Le opinioni espresse nei testi pubblicati impegnano soltanto la responsabilità dei singoli autori. Le
immagini tratte da internet sono da considerarsi di pubblico dominio; qualora la loro pubblicazione
violasse eventuali diritti d’autore si prega di comunicarlo via e-mail alla redazione.
In memoria della Professoressa Hanna Dziechcińska
INDICE
ARTICOLI
7
EWELINA DRZEWIECKA
Palingenio e Rej. Alcune osservazioni sulle affinità tra lo Zodiacus vitae
e il Wizerunk własny żywota człowieka poczciwego
23
ROMAN KRZYWY
La Graeca fides e la falsità moscovita nel discorso polacco premoderno.
Storia di un topos
39
ELWIRA BUSZEWICZ
Ad fontem Sonam (Ep 2) Macieja Kazimierza Sarbiewskiego.
Opowieść o źródłach
57
NADZIEJA BĄKOWSKA
Komizm obsceniczny w trzech odsłonach. Relacje między przekładami
Dialogus Salomonis et Marcolfi na języki polski, włoski i angielski
73
ALESSANDRA ANGELINI
L’Insurrezione di Chmielnicki nella letteratura dell’Emigrazione
ottocentesca. Due esempi
93
AGNIESZKA KUNICZUK-TRZCINOWICZ
W jaki sposób pisał Prus? Uwagi o rękopisie Pałacu i rudery
107
ANITA KŁOS
La casa delle donne. Sulla storia della traduzione italiana di Dom kobiet
di Zofia Nałkowska
125
ALINA MOLISAK
Żydowska Warszawa ‒ żydowski Berlin w pierwszej połowie XX wieku.
Różne wersje religijności
141
GIULIA RANDONE
Le mani di Jacek Woszczerowicz, attore “di composizione”
155
ANDREA F. DE CARLO
Afryka Ryszarda Kapuścińskiego i Piera Paola Pasoliniego
173
ANNA MAŁYSZKIEWICZ
Riflessioni sulla ricezione italiana di Czesław Miłosz.
Con annessa una bibliografia italiana delle opere e della critica
NOTE E DISCUSSIONI
191
EMILIANO RANOCCHI
Il nuovo romanzo storico in Polonia e Lituania
199
JACEK GŁAŻEWSKI
Rewizja kanonu. O serii „Biblioteka Dawnej Literatury Popularnej
i Okolicznościowej”
RECENSIONI
207
Paweł Huelle, Śpiewaj ogrody (Dario Prola)
209
Jarosław Iwaszkiewicz, Novelle italiane (Andrea F. De Carlo)
211
Łukasz Jarosz, La forza delle cose (Dario Prola)
213
Jakub Niedźwiedź, Kultura literacka Wilna (1323-1655). Retoryczna
organizacja miasta (Giovanna Brogi Bercoff)
216
Dario Prola, Mito e rappresentazione della città nella letteratura polacca
(Salvatore Greco)
218
Aurelia Raszkiewicz, Piste di lacrime. Siberia e ritorno (Andrea F. De
Carlo)
219
Ariel Yahalomi, “Finalmente salvo!...”. Memorie di un Ebreo Polacco
sopravvissuto a 11 Lager nazisti (Andrea F. De Carlo)
221
Gli autori di questo numero
EWELINA DRZEWIECKA
Palingenio e Rej. Alcune osservazioni sulle affinità
tra lo Zodiacus vitae e il Wizerunk własny
żywota człowieka poczciwego
«pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», (VI) 6, 2015, pp. 7-21
ABSTRACT
The paper focuses on the relations between two 16th century works: Marcellus Pal-
ingenius’ The Zodiac of Life and Mikołaj Rej’s The Image of a Good Man’s Life. The philosophical poem Zodiacus vitae fell into oblivion in Italy, but has gained considerable popularity all over
Europe since the 16th century. In Poland all the greatest Renaissance humanists, such as Jan
Kochanowski and Mikołaj Rej, knew and read it. The latter, clearly inspired by the work of the
Italian master, published The Image of a Good Man’s Life in 1558. Since the 19th century there
have been some comparative studies of The Zodiac and The Image in the field of Polish literature. This article presents the current state of the research and points out general similarities and
differences between these works, regarding both the story line and philosophy.
KEYWORDS
Marcellus Palingenius Stellatus, The Zodiac of life, Mikolaj Rej, The Image of
Good Man’s Life, philosophical poem
T
ra le opere polacche del Cinquecento ispirate ai componimenti degli autori italiani occorre annoverare non solo Dworzanin polski di Łukasz
Górnicki o Szachy di Jan Kochanowski, ma anche Wizerunk własny
żywota człowieka poczciwego [L’effigie propria della vita dell’uomo probo] di
Mikołaj Rej1. Lo Zodiacus vitae2, poema filosofico di Marcello Palingenio Stellato, più noto come Palingenius3, pubblicato nel 1535, fu il prototipo dell’opera di
1
Fu Il Cortigiano di Baldassarre Castiglione ad essere il modello per il Dworzanin polski di Górnicki, mentre Szachy di Jan Kochanowski è una parafrasi dell’opera latina Scacchia ludus di Marco Hieronimo Vida.
2
L’editio princeps pubblicata dalla tipografia di Bernardo Vitalis è datata al 1534 more veneto
(ovvero nell’anno 1535), tuttavia Franco Bacchelli sostiene che l’opera sia stata pubblicata non
prima della seconda metà del 1536, cfr. FRANCO BACCHELLI, Note per un inquadramento biografico di Marcello Palingenio Stellato, in «Rinascimento››, XXV, 1985, pp. 279-281.
3
Nella letteratura di riferimento, per più di duecento anni ha dominato l’ipotesi, avanzata nel
1725 da Jacopo Facciolati, che dietro il personaggio di Marcello Palingenio fosse nascosto, cifra-
7
EWELINA DRZEWIECKA
Rej. L’umanista italiano e la sua opera furono condannati alla damnatio memoriae in Italia e, nel 1558, lo Zodiacus vitae fu inserito nell’Indice dei Libri Proibiti, dove rimase fino al 1900, mentre Palingenio, accusato post mortem d’eresia a
causa della sua opera, fu riesumato e bruciato sul rogo. Degno di attenzione è
tuttavia il fenomeno della popolarità di cui ha goduto lo Zodiacus vitae nell’arco
di alcuni secoli: dal Cinquecento al Novecento l’opera, infatti, raggiunse il rilevante numero di 70 edizioni. Tutte le stampe vennero pubblicate nei territori influenzati dalla riforma protestante. Grazie alla pubblicazione del poema a Basilea nel 15374, l’opera si diffuse in Germania, Svizzera, Francia, Svezia e Inghilterra5. Molto presto apparvero anche le traduzioni dell’opera: già nel Cinquecento fu tradotta in tedesco e in inglese, e in seguito in danese e francese6. Nel
1558 fu pubblicato in lingua polacca Wizerunk własny żywota człowieka
poczciwego di Mikołaj Rej: un’opera, come è ben noto, fortemente influenzata da
8
to sotto forma di anagramma, il vero nome del poeta Piero Angelo Manzoli, nato a Stellata e legato alla corte di Ercole d’Este. L’attuale stato delle ricerche contraddice questa ipotesi. In base
alla licenza veneziana alla pubblicazione dello Zodiacus vitae del 18 febbraio del 1535, la quale
reca il nome dell’autore – Marcellus Stellatus Neapolitanus – si pensa che Palingenio provenisse
da Capua nei pressi di Napoli, dove era diffuso il cognome Stellato (oppure Stellati). Per la bibliografia di Marcello Palingenio Stellato, cfr. anche: Marcello Palingenio Stellato, in Dizionario
storico dell’Inquisizione, diretto da Adriano Prosperi, con la collaborazione di Vincenzo Lavenia
e John Tedesch, vol. III, Edizioni della Normale, Pisa 2007, pp. 735-741. Un particolare interessante fu notato da S.F. Ryle che, in un articolo dedicato alle questioni filosofiche in Zodiacus vitae, osserva che le lettere iniziali dei primi 29 versi del primo libro dell’opera formano
l’acronimo “Marcellus Palingenius Stellatus”, cfr. S.F. RYLE, Fate, free will and providence in the
“Zodiacus vitae”, in L’uomo e la natura nel Rinascimento, a cura di Luisa Rotondi Secchi Tarugi,
Nuovi Orizzonti, Milano 1996, p. 211.
4
Cfr. FRANCO BACCHELLI, Appunti sulla prima fortuna basileese e francese dello Zodiacus vitae
del Palingenio, in Nuovi maestri e antichi testi: Umanesimo e Rinascimento alle origini del pensiero moderno. Atti del Convegno internazionale di studi in onore di Cesare Vasoli, Mantova, 1-3
dicembre 2010, Ingenium, Firenze 2012, vol. 17, pp. 167-189.
5
Nella letteratura di riferimento si fa notare l’interesse di cui godeva lo Zodiacus soprattutto
nell’Inghilterra dell’età elisabettiana. La traduzione del poema fu eseguita negli anni Sessanta del
Cinquecento da Barnabe Googe e sia la traduzione sia l’originale latino furono letti molto volentieri, al punto che l’opera diventò un manuale scolastico, cfr. FOSTER WASTON, The Zodiacus
vitae of Marcellus Palingenius Stellatus: an old school-book, Philip Wellby, London 1908, p. 73.
Senza dubbio il poema di Palingenius era noto agli scrittori di spicco del Rinascimento inglese,
come Shakespeare o Marlowe, cfr. PARK HONAN, Christopher Marlowe. Poet and Spy, Oxford
University Press, New York 2005. Destava anche interesse per le questioni morali, i motivi magici o astrologici, cfr. PAUL H. KOCHER, Science and Religion in Elizabethan England, Huntington Library, San Marino 1953, p. 119; JOHN S. MEBANE, Renaissance Magic & the Return of the
Golden Age: The Occult Tradition and Marlowe, Jonson and Shakespeare, University of Nebraska
Press, Lincoln and London 1989, p. 282.
6
La traduzione più recente dello Zodiacus è stata pubblicata in Francia: Le zodiaque de la vie: 12
livres / Palingène (Pier Angelo Manzolli dit Marzello Palingenio Stellato), a cura di Jaques Chomarat, Librairie Droz, Genève 1996.
PALINGENIO E REJ
quella del poeta neolatino. Vale la pena aggiungere che il poema di Palingenio,
dato il suo carattere allegorico e gli insegnamenti morali, godeva di un grande
interesse in Polonia7. Lo conoscevano e lo leggevano i più importanti umanisti
del Rinascimento polacco: una copia dello Zodiacus vitae si trovava nella collezione di Andrzej Krzycki8, un ricchissimo repertorio di motivi comuni si può
vedere negli epigrammi, nei canti e negli inni di Jan Kochanowski.
Nel Rinascimento si osserva un incremento dell’attività di traduzione, accompagnata da una riflessione teorica che si focalizzava attorno ai concetti di
imitatio ed emulazione. Fra la traduzione fedele e quella libera si trovava una serie di fenomeni come la parafrasi, l’adattamento, la contaminazione, la compilazione. Le traduzioni libere, arricchite di abbreviazioni, riduzioni, sostituzioni,
amplificazioni e inversioni, che costituivano un’ingerenza intenzionale del traduttore, dominavano in diversissime varianti tra le traduzioni rinascimentali9.
Gli autori di queste traduzioni, tra cui Rej, dovrebbero essere definiti traduttoriautori10. Il concetto dell’imitatio rinascimentale ammetteva l’imitazione, in senso
lato del termine, delle opere di altri: non esisteva la nozione di plagio. Il titolo
stesso dell’opera di Rej nella sua versione completa (Wizerunk własny żywota
człowieka poczciwego, w ktorym jako we źwierciadle snadnie każdy swe sprawy
oględać może; zebrany i z filozofow i z roznych obyczájow świata tego) [L’effigie
propria della vita dell’uomo probo, in cui, come in uno specchio, ognuno senza
difficoltà le proprie faccende può guardare; raccolta dai filosofi e dai vari costumi di questo mondo] indica che essa costituisce una compilazione di pensieri
altrui. L’autore non dà tuttavia alcun indizio concreto sui nomi e i titoli delle
opere a cui attingeva. Il legame del poema polacco con lo Zodiacus vitae fu notato per la prima volta da Jan Kochanowski che in una delle sue elegie latine scrisse: “Sive Palingenii exemplum Musaque secutus / Quid deceat caneret, dedeceatque viros”11. Come nota Elżbieta Sarnowska-Temeriusz, il suggerimento di
7
Lo dimostrano le numerose edizioni dello Zodiacus, cinque-, sei- e settecentesche conservate
nelle biblioteche polacche, a partire dalla più antica, l’edizione del 1552, che si trova a Breslavia,
nella collezione della biblioteca dell’Istituto Nazionale “Ossoliński”.
8
ALEKSANDER BRÜCKNER, Mikołaj Rej. Studjum krytyczne, Skład Główny w Księgarni Spółki
Wydawniczej Polskiej, Kraków 1905, p. 147 e ss.
9
ZOFIA PODHAJECKA, Rozważania nad sytuacją przekładu artystycznego w pierwszej fazie ery druku.
Na materiale XVI-wiecznego romansu polskiego, in «Pamiętnik Literacki››, 71/1, 1980, p. 171.
10
JERZY ZIOMEK, Renesans, Państwowe Wydawnictwo Naukowe, Warszawa 2002, p. 377.
11
“Seguendo l’esempio della Musa di Palingenio, / cantava quello che si addice ai maschi”. El.
III, 13, JAN KOCHANOWSKI, Carmina Latina, Ps. 1, Imago phototypica, transcriptio, a cura di Zo-
9
EWELINA DRZEWIECKA
Kochanowski fu in seguito approfondito soltanto dagli studiosi ottocenteschi
dell’opera di Rej12. Da allora, negli studi dedicati al Wizerunk viene nominato lo
Zodiacus vitae di Palingenio come prototipo del testo polacco. Vale la pena notare che l’interesse per il poema latino si doveva proprio al suo ruolo di fonte
d’ispirazione dell’opera di Rej. Nell’Ottocento, in Polonia, ci si occupava di Palingenio in occasione degli studi dedicati al Signore di Nagłowice, come veniva
chiamato appunto Mikołaj Rej. Anche in Italia l’autore dello Zodiacus suscitò interesse in quel periodo, come evidenziano i lavori usciti a cavallo tra Ottocento e
Novecento13. I successivi decenni del Novecento non accrebbero la conoscenza
di Palingenio; benché lo Zodiacus vitae fosse inserito nelle monografie dedicate
alla letteratura del Rinascimento italiano – fu menzionato nei lavori di Alexandre
Koyré, di Frances Yates e di Eugenio Garin 14 − non venne pubblicata tuttavia
alcuna opera monografica. Nei decenni più recenti, come nota Cesare Vasoli, le
opere degli autori considerati “minori” (tra cui si annovera Palingenio) trovano
finalmente il loro posto nella cultura e nella letteratura italiana15. Sono i lavori di
Franco Bracchelli e di Claudio Moreschini a gettare una nuova luce sulla biogra10
fia Głombiowska, Wydawnictwo Uniwersytetu Gdańskiego, Gdańsk-Sopot 2008, p. 552-553.
12
ELŻBIETA SARNOWSKA-TEMERIUSZ, Wizerunk i Zodiacus vitae, in MIKOŁAJ REJ, Wizerunk
własny żywota człowieka poczciwego, parte II, a cura di Helena Kapełuś e Władysław Kuraszewicz, Zakład Narodowy im. Ossolińskich, Wydawnictwo Polskiej Akademii Nauk, WrocławWarszawa-Kraków-Gdańsk, 1971, p. 33 e ss. La studiosa richiama il lavoro di Aleksander
Tyszyński, che per primo presta attenzione alla somiglianza tra i due poemi: ALEKSANDER
TYSZYŃSKI, Wizerunek. Poemat z roku 1558 Mikołaja Reja, in IDEM, Wizerunki polskie. Zbiór
szkiców literackich, Nakład i Druk S. Lewentala, Warszawa 1875, p. 86 (Editio Princeps 1868).
Con la tesi di Tyszyński concorda anche Antoni Gustaw Bem, il cui articolo apparve nel 1874 in
«Niwa››, cfr. ANTONI GUSTAW BEM, Wizerunk Mikołaja Reja z Nagłowic jako utwór sztuki i
zdrowej myśli, in IDEM, Pisma krytyczne, a cura di Zbigniew Żabicki, PIW, Warszawa 1963, p.
133.
13
EMILIO TEZA, Lo Zodiacus vitae di Pier Angelo Manzolli, Tip. Fava e Garagnani, Bologna
1888; IDEM, Lo “Zodiacus vitae” di Palingenio, in «Il Propugnatore››, XII, 1888, pp. 117-130;
GIOVANNI SANTE FELICI, Marcello Palingenio Stellato, a proposito delle asserite sue relazioni con
la Riforma, Tip. Giovanni Balbi, Roma 1897; MARINO PUGLISI, Marcello Palingenio Stellato e lo
“Zodiacus vitae”, Di Mattei, Catania 1899; GIUSEPPE BORGIANI, Marcello Palingenio Stellato e il
suo poema, lo Zodiacus vitae, Casa Ed. S. Lapi, Citta di Castello, 1912.
14
ALEXANDER KOYRÉ, Od zamkniętego świata do nieskończonego wszechświata, trad. pol. Ola e
Wojciech Kubińscy, słowo/obraz terytoria, Gdańsk 1998, pp. 35-37; FRANCES YATES, Giordano
Bruno e la tradizione ermetica, trad. it. Renzo Pecchioli, Editori Laterza, Bari 2010, pp. 247-250;
EUGENIO GARIN, Storia della filosofia italiana, Einaudi, Torino 1966, pp. 665-670; IDEM, La cultura filosofica del Rinascimento italiano, Sansoni, Firenze 1961, pp. 72-86; IDEM, Zodiak życia.
Astrologia w okresie Renesansu, trad. pol. Wojciech Jekiel, Polska Akademia Nauk, Instytut Filozofii i Socjologii, Warszawa 1997, pp. 88-90.
15
CESARE VASOLI, Novità sullo Zodiacus vitae, in «Nouvelle Revue du XVIe Siècle››, 14/1, 1996,
p. 17.
PALINGENIO E REJ
fia dell’umanista italiano e sulla ricchezza filosofica dello Zodiacus16.
In Polonia, a cavallo tra Ottocento e Novecento si registra un periodo
molto fecondo per gli studi dedicati ai rapporti italo-polacchi: nel 1888 esce il
Wizerunk con l’introduzione di Stanisław Ptaszycki17, nel 1901 uno studio comparatistico di Jan Pyszkowski18, nel 1905 un lavoro critico di Aleksander Brückner19, mentre nel 1908 viene pubblicato il vasto e approfondito lavoro di Zbigniew Kniaziołucki20. Questi quattro studiosi fecero un’analisi comparatistica
dello Zodiacus e del Wizerunk, indicando similia et differentiae di entrambe le
opere, sia per quanto concerne l’ideologia, sia sul piano tecnico. Evidenziarono
un rilevante grado di dipendenza dell’opera di Rej dal poema dell’umanista italiano. Ptaszycki, sebbene avesse notato questa dipendenza, sottolineò anche
l’autonomia e il contributo dello scrittore polacco, individuando alcuni tratti
originali del suo componimento. Al lavoro di Pyszkowski fu allegata una appendix contenente un dettagliato elenco di parti corrispondenti nelle due opere.
Brückner nelle sue riflessioni delineò il problema della ricezione di Palingenio
nella letteratura polacca e analizzò entrambe le opere dal punto di vista di alcune questioni filosofiche e tematiche. Le sue preziose riflessioni gettano anche
molta luce sulle caratteristiche generali della scrittura di Palingenio e Rej. Nondimeno, lo studio comparatistico più approfondito fu quello presentato da
Kniaziołucki. Lo studioso, rispondendo alla domanda sulle relazioni e sul grado
di somiglianza dell’opera polacca nei confronti del prototipo latino, scrisse una
dissertazione che considerava in modo sintetico sia lo Zodiacus sia il Wizerunk.
16
Cfr. Palingenio e la crisi dell’aristotelismo, in Sciences et religions de Copernic à Galilée, 15401610: actes du colloque international organisé par l’Ecole française de Rome, en collaboration avec
l’Ecole nationale des chartes et l’Istituto italiano per gli studi filosofici, avec la participation de
l’Università di Napoli “Federico II”, Rome, 12-14 décembre 1996, Ecole française de Rome, Roma
1999, pp. 357-374; CLAUDIO MORESCHINI, Satira e teologia nello “Zodiacus vitae” di M. Palingenio Stellato, in «Res publica litterarum››, IX, 1986, pp. 203-217; IDEM, La perfidia di Marcello
Palingenio Stellato, in «Bruniana and Campalleniana. Ricerche filosofiche e materiali storicotestuali››, XIX/1, 2013, pp. 103-119.
17
STANISŁAW PTASZYCKI, Wstęp, in Mikołaj Rej z Nagłowic, Wizerunk własny żywota człowieka
poczciwego, podług edycji z roku 1560, Gebethner i Wolff, Warszawa 1888, pp. I-XVI.
18
JAN PYSZKOWSKI, Mikołaj Rej’s “Wizerunek” und dessen Verhältnis zum “Zodiacus vitae” des
Marcellus Palingenius: Dissertation zur Erlangung der Doktorwürde von der Philosophischen Fakultät der Universität Freiburg in der Schweiz, H. Gebethner and Co., Kraków 1901.
19
ALEKSANDER BRÜCKNER, op. cit.
20
ZBIGNIEW KNIAZIOŁUCKI, Do genezy poematu Mikołaja Reja „Wizerunk Żywota Poczciewgo”,
in «Rozprawy Polskiej Akademii Umiejętności››, serie II, 29, Skład Główny w Księgarni Spółki
Wydawniczej Polskiej, Kraków 1908, pp. 211-328. Il lavoro venne pubblicato nel 1908, ma era
stato scritto qualche anno prima, nel 1897 circa.
11
EWELINA DRZEWIECKA
Kniaziołucki tenta di confrontare le idee filosofiche contenute nei rispettivi
poemi di Palingenio e Rej21 e lascia intravedere le differenze ideologiche e la diversità dei sistemi filosofici dei due autori. Lo studioso conclude il suo lavoro
con una Appendice, un confronto approfondito tra il testo polacco e quello latino. Analizzando cronologicamente i capitoli del Wizerunk e i corrispondenti libri dello Zodiacus, l’autore identifica con precisione i similia, i versi parafrasati e
quelli omessi da Rej.
Nei decenni successivi, gli studiosi di letteratura polacca notarono una
certa influenza dell’opera di Palingenio negli scritti degli autori polacchi antichi,
come evidenziato dalle osservazioni di Samuel Fiszman, Maciej Żurowski e
Janusz Pelc, dedicate all’influenza dello Zodiacus sull’opera di Jan Kochanowski22, nonché dalle riflessioni di Barbara Milewska-Ważbińska, che fece notare il
ruolo ispiratore del poema italiano individuabile nell’opera Victoria Deorum di
Sebastian Fabian Klonowic23. Inoltre, ai legami tra il Wizerunk e il poema di Palingenio accennarono, tra gli altri, Tadeusz Sinko24, Jerzy Ziomek25, Anna Kochan26 e Elżbieta Sarnowska-Temeriusz27. Quest’ultima, in base alle ricerche di
Pyszkowski e Kniaziołucki, esegue un bilancio quantitativo dei luoghi comuni
12
omessi e modificati. Fa anche notare i frammenti tradotti letteralmente e quelli
tradotti liberamente, il grado di fedeltà della traduzione e il contributo creativo
delle parafrasi ideate da Rej. A conclusione di questa parte dell’articolo, vale la
pena aggiungere che lo Zodiacus vitae negli ultimi anni sta diventando oggetto di
vari studi: nel 2014 è stato pubblicato il libro di Estera Lasocińska, dedicato alla
ricezione dell’epicureismo nella letteratura polacca antica, nel quale in uno dei
21
Si trovano nel lavoro dello studioso: filosofia – Dio – Esseri supremi – Uomo e anima da Paligenius e Rej, pp. 215-229 Genesi dell’universo – Leggi naturali – Pianeti e spiriti – Terra – Elementi, pp. 230-246, Etica – Fato – Predestinazione – Libero arbitrio – Vita – Il suo Valore –
Dovere – Morte, pp. 247-277.
22
SAMUEL FISZMAN, Złota też, wiem, nie pragniesz, bo to wszytko Twoje, in Necessitas et Ars.
Studia staropolskie dedykowane Januszowi Pelcowi, a cura di Barbara Otwinowska et al., vol. I,
Semper, Warszawa 1993, pp. 96-98; MACIEJ ŻUROWSKI, Kochanowski and Palingenius, in
«Slavia orientalis››, XXXIII/3-4, 1984, pp. 585-599; JANUSZ PELC, Jan Kochanowski. Szczyt Renesansu w literaturze polskiej, PWN, Warszawa 1980, pp. 196-197.
23
BARBARA MILEWSKA-WAŻBIŃSKA, O roli twórczej inspiracji na podstawie „Zodiacus vitae” Palingeniusza i „Victoria Deorum” Klonowica, in «Meander», 3, 1989, pp. 127-134.
24
TADEUSZ SINKO, Rey i Dante in «Przegląd Polski», XL, 1905, pp. 414-429.
25
JERZY ZIOMEK, Renesans, PWN, Warszawa 1995, pp. 232-234.
26
ANNA KOCHAN, Wstęp, in Mikołaj Rej, Wybór pism, a cura di Anna Kochan, Zakład Narodowy im. Ossolińskich, Wrocław-Warszawa-Kraków 2006, pp. 98-99.
27
ELŻBIETA SARNOWSKA-TEMERIUSZ, op. cit., pp. 33-50.
PALINGENIO E REJ
capitoli viene trattato l’argomento presente nel Wizerunk di Rej, e anche nello
Zodiacus di Palingenio28. Il poema di Palingenio suscita ancora un certo interesse
tra i giovani studiosi, come dimostrano i recenti articoli e i lavori scientifici pubblicati, le traduzioni dell’opera e le tesi di dottorato in preparazione29.
Lo Zodiacus vitae è un poema molto ricco e composto di numerosi motivi.
Il contenuto principale è costituito da questioni di natura etica e morale. Il componimento, di costruzione esametrica, suddiviso in XII libri dedicati e intitolati ai
segni dello Zodiaco30, fu scritto dal punto di vista del poeta-umanista e del poetafilosofo, costituendo un compendio delle conoscenze sul mondo. Nell’orbita degli
interessi di Palingenio si trova dunque un vasto spettro di problemi filosofici riguardanti, tra l’altro, l’essenza di Dio, le leggi che governano il mondo, la Natura,
gli elementi, la vita e la morte, l’uomo e la sua felicità, le questioni escatologiche
legate all’immortalità dell’anima e al suo destino dopo la morte del corpo, per
elencare solo i più importanti. Non si può negare al poema una certa dose di
scientificità: spesso le pagine dello Zodiacus sono colme di descrizioni che corrispondono integralmente allo stato delle conoscenze scientifiche del tempo. Per
esempio, il libro XI costituisce una lezione sull’astronomia tolemaica31 e tratta delle zone dell’universo, dei poli, dei segni zodiacali, delle orbite, del movimento solare, del movimento astrale e di quello terrestre, dei pianeti, degli astri e di altri
corpi celesti, come pure dei fenomeni meteorologici. L’opera del poeta neolatino
è inoltre ricca di elementi medici (per cui a lungo si credette che Palingenio fosse
un medico), occultistici e magici. La visualità e le allegorie del suo poema rendono
lo Zodiacus uno straordinario studio sull’immaginazione.
28
ESTERA LASOCIŃSKA, Epikurejska idea szczęścia w literaturze polskiej renesansu u baroku. Od
Kallimacha do Potockiego, Instytut Badań Literackich, Warszawa 2014, pp. 116-139.
29
URSZULA BEDNARZ, „Palingeniowa Muza” Mikołaja Reja, czyli o związkach Wizerunku własnego żywota człowieka poczciwego i Zodiacus vitae Palingeniusza, in «Orbis Linguarum», 31, 2007,
pp. 361-369. Urszula Bednarz sta preparando la traduzione polacca dell’opera di Palingenio. Lo
Zodiacus vitae è anche oggetto della tesi di dottorato dell’autrice del presente articolo.
30
Benché i motivi astrologici siano presenti nell’opera, il titolo del poema non si riferisce
all’astrologia. Come scrisse Moreschini: “il poema è intitolato Zodiacus vitae, perché, come il sole, passando per i segni dello Zodiaco, risplende tutto l’anno e dà la vita al macrocosmo, così il
libro di Palingenio alimenta, attraverso le varie sezioni intitolate ciascuna a un segno dello Zodiaco, il microcosmo: è questo, dunque, il significato del titolo del poema, quello di dare nutrimento, con le sue doctrine, alla vita umana, dottrine distribuite attraverso vari libri, che hanno il
medesimo titolo dei segni dello Zodiaco, passando attraverso i quali il sole dà nutrimento al
mondo intero”. CLAUDIO MORESCHINI, op. cit, p. 206.
31
L’editio princeps dell’opera di Palingenio esce nove anni prima dell’edizione di De revolutionibus orbium coelestium di Copernico.
13
EWELINA DRZEWIECKA
Palingenio nello Zodiacus vitae espresse le sue idee sovversive, per le quali la sua opera si sarebbe trovata, postuma, nell’Indice dei Libri Proibiti, e il poeta stesso sarebbe stato dichiarato eretico e avrebbe iniziato a essere considerato
autore di prima classis. Il poeta, critico nei confronti dell’autorità della Chiesa,
derisorio nei confronti dei ricchi, dei monarchi e anche nei confronti del clero e
del Papa, che accusava di ipocrisia e di licenziosità, non esita a lanciare su di loro audaci invettive. Desiderando il ritorno dell’antica virtus, vedendo la decadenza dei costumi, reclama un nuovo ordine. Stigmatizza le cattive abitudini dei
giovani, di cui vede l’inizio nella mediocre condizione delle scuole, in quanto la
scuola, invece di educare, consuma le menti dei giovani con una letteratura frivola. Per questi motivi Palingenio disprezza gli insegnanti, che secondo lui sono
soltanto turba pedagogorum. Le accuse piovono anche sulla poesia e sui poeti.
L’autore dello Zodiacus vitae, con il suo programma didattico, pone la sua creazione artistica in opposizione alle poesie leggere e spensierate: nugae. La poesia
– mera somnia vatum – invece di fornire ai giovani dei modelli di vita virtuosa, li
inganna e li deprava. Palingenio, confessando idee neoplatoniche, disprezza al
contempo il mondo terreno: gli uomini appaiono nel suo poema come una
14
schiera di comici e folli che seguono ciecamente i falsi beni; la vita, invece, è
colma di immagini vuote e apparizioni illusorie. Per questo motivo, la sua opera
pessimista loda il suicidio, inteso come remedium che libera l’anima dai vincoli
del corpo.
Come notano gli studiosi, sembra abbastanza paradossale il fatto che
l’opera del poeta neolatino, conosciuta in Polonia nella sua versione originale,
letta volentieri dagli umanisti polacchi, sia stata assimilata nella letteratura polacca per mezzo, appunto, di Mikołaj Rej. Può risultare tanto più curioso, in
quanto a dividere i due poeti non era soltanto la diversità culturale bensì anche
la diversità di idee e di istruzione. Palingenio, intellettuale e neoplatonico, ribelle e visionario, è in contrasto con la personalità di Rej – rozzo e bonario proprietario terriero, che guardava con simpatia alla gente, un calvinista che aveva come
fine una missione moralizzatrice. Lo scrittore polacco non si poteva paragonare
né per erudizione né tantomeno per istruzione a Palingenio, cosa che del resto
neppure pretendeva. Rej, in gioventù ignorante, poi autodidatta, anche se non
rifuggiva dalla letteratura, non la riteneva comunque la sua massima aspirazione.
La vita quotidiana, quella contadina, gli eventi e le vicende familiari erano ciò
PALINGENIO E REJ
che lo interessava, ciò di cui è impregnato il Wizerunk, ricco di aneddoti, immagini, racconti e descrizioni della natura. Questa “semplicità” di Rej, diventò
quindi paradossalmente il tratto della sua originalità32. Non è difficile pertanto
intuire che il suo Wizerunk non doveva essere un’interpretazione delle conoscenze sul mondo, né intendeva approfondire complesse questioni filosofiche.
Come indica il titolo stesso, l’opera doveva richiamare gli specchi medievali
nonché le immagini umanistiche, aspetto che collocava il Wizerunk tra le opere
parenetiche33. Qui l’accento è posto soprattutto sull’aspetto moralizzante. Lo
scrittore polacco, in conformità con i precetti della morale, per il ruolo di protagonista sceglie il Giovine, il discepolo, in cui “ognuno può riconoscere se stesso
e capire che a noi tutti questo è necessario”.
Rej sostituisce la cornice zodiacale introducendo al suo posto i nomi dei
filosofi, fatto che non rimane senza conseguenze per la trama del Wizerunk:
questo Giovine, entrando nella vita adulta, desidera sapere che cosa sia la vera
virtù, nonché raggiungere la saggezza. Il protagonista si mette dunque in viaggio
e fa visita, l’uno dopo l’altro, ai filosofi: Ippocrate (Libro I), Diogene (Libro II),
Epicuro (Libro III), Anassagora (Libro IV), Socrate (Libro V), Teofrasto (Libro
VI), Solino (Libro VII), Platone (Libro VIII), Zoroastro (Libro IX), Senocrate
(Libro X), Solone (Libro XI) e Aristotele (Libro XII). Ognuno di loro insegna al
Giovine la propria dottrina e gli impartisce le proprie istruttive lezioni. Questi
praecepta non sempre sono coerenti con le idee attribuite ai pensatori e spesso
risultano poco scrupolosi. Rej, inoltre, rese i filosofi antichi portavoce degli insegnamenti cristiani, cui attribuì un valore superiore e a cui sottopose la saggezza
antica34. Questo stato di cose è attribuibile a due fattori: il primo era il rigore
della Riforma e della religiosità di Rej che, anche se non era cieca e bigotta, impresse un profondo marchio sulla sua opera. Il secondo fattore era l’insufficiente
conoscenza del mondo greco-romano. Come osserva infatti Aleksander Brückner, l’opera del Signore di Nagłowice non si sottomise allo spirito umanistico e
ai modelli antichi imperanti35. Questo non significa, naturalmente, che lo scrittore non conoscesse e non leggesse la letteratura latina. Anche nelle sue opere si
32
ALEKSANDER BRÜCKNER, op. cit., p. 354.
JERZY ZIOMEK, op. cit., p. 232.
34
ANNA KOCHAN, op. cit., p. 99.
35
ALEKSANDER BRÜCKNER, op. cit., p. 364.
33
15
EWELINA DRZEWIECKA
possono scorgere ispirazioni di Cicerone o Seneca36, lo scrittore segue la musa
umanistica di Palingenio. Ma perfino lo Zodiacus vitae, frutto dell’umanesimo
rinascimentale, nell’adattamento di Rej fu privato dell’acuta erudizione. Nella
forma finale del Wizerunk pesò sicuramente anche la questione linguistica. Rej,
com’è noto, fu il primo autore a rompere con il dogma del latino, creando una
letteratura in polacco. La sua lingua era viva, colloquiale, e a volte anche rozza.
Tale imperfezione linguistica era ben lontana dalla varietà, dalla sottigliezza e
dalla flessuosità del latino, dietro alla quale si trovava la ricchezza culturale del
suo plurisecolare dominio.
Lo schema tematico del Wizerunk ha le sue radici nel viaggio del Giovine
che insieme alle sue guide visita diversi luoghi, tra cui si possono ritrovare il Paradiso e gli spazi degli inferni, nonché una terra immaginaria: il giardino della
Voluptas. Analogamente allo Zodiacus, le pagine del Wizerunk sono piene di diverse immagini allegoriche e di personaggi37. I due poeti non lasciano tuttavia il
lettore senza ausilio nella lettura delle opere: Rej, così come Palingenio, spiega
con lunghe argomentazioni il significato delle sue allegorie. Per questo nel Wizerunk si possono distinguere due parti: quella della finzione, che è costituita dal
16
racconto sul Giovine in cerca della saggezza, e quella didattica, che spiega il significato dei fenomeni e dei personaggi che il protagonista incontra strada facendo. E sebbene Rej tenda a inglobare nella narrazione vari consigli e aneddoti
o a ripetersi, il suo Wizerunk è un’opera non solo didattico-moralizzante, ma anche di finzione38. Nel poema dello scrittore italiano la narrazione è condotta in
modo analogo, anche se la struttura della finzione letteraria è meno estesa: Palingenio traccia, infatti, il racconto sul suo cammino poetico, ma questo è solo un
pretesto per introdurre argomentazioni erudite. Il poeta cade in numerose digressioni che guastano la trasparenza della narrazione e che spesso non sono strettamente correlate ad essa, inoltre tende a ripetersi. Non di rado, poi, il pensiero iniziato in un libro viene portato a compimento in un altro.
Mikołaj Rej, anche se segue le orme di Palingenio, in molte questioni non
concordava sicuramente con le opinioni del poeta neolatino. L’autore del Wize36
IVI, pp. 387-395.
Come per esempio nel Libro III, che costituisce una traduzione pressoché letterale del libro
III dello Zodiacus, intitolato Gemini. In questo libro sia Palingenio sia il Giovine del Wizerunk
visitano l’allegorico regno della dea Voluptas.
38
ELŻBIETA SARNOWSKA-TEMERIUSZ, op. cit., p. 50.
37
PALINGENIO E REJ
runk è lungi dalle idee ribelli e sovversive dell’italiano. Sebbene le riflessioni sulla “vanità di questo mondo” nell’opera di Rej39 sembrino simili a quelle di Palingenio, le origini dell’atteggiamento di entrambi gli autori sono completamente
diverse: quando Rej scrive del disprezzo del mondo, non ha affatto in mente il
neoplatonismo di Palingenio. Nella sua critica si manifesta un punto di vista terreno e il rigore calvinista di cui è intrisa tutta l’opera dello scrittore. Per questo,
nelle riflessioni dell’autore del Wizerunk non c’è posto per la lode del suicidio o
per una visione di un Dio lontano, immerso nelle tenebre della sua onnipotenza.
Per questo, inoltre, tutti i passaggi del poema di Palingenio che rimangono in
contraddizione con il credo vitale di Rej sono integralmente omessi o cristianizzati nel Wizerunk. Sotto la penna dello scrittore polacco, che dà precedenza alla
dogmatica religiosa rispetto all’argomentazione filosofica40, spariscono dunque e
si estinguono le considerazioni ribelli del poeta neolatino.
A conclusione di queste considerazioni generali vale la pena sottolineare
un’altra caratteristica che differenzia l’opera di Rej da quella di Palingenio, e
cioè le descrizioni della natura. Nonostante si possano trovare anche nello Zodiacus vitae – il poeta neolatino crea più volte rigogliosi paragoni ispirati al
mondo della natura − Mikołaj Rej fu in questo campo maestro indiscusso. Infatti
“dipinge” le sue descrizioni con vero e proprio virtuosismo d’artista e sensibilità. E non è strano che l’osservazione acuta e dettagliata della natura che circonda lo scrittore-proprietario terriero, trovi nella sua opera un posto di rilievo.
Nel presente articolo, le differenze nelle rispettive concezioni del mondo
dei due autori saranno sottoposte all’indagine con l’ausilio dell’exemplum, che –
in confronto a numerosi e importanti temi filosofici toccati nelle due opere –
svolge un ruolo piuttosto marginale. Ebbene, è nelle piccole questioni che si rivela lo scontro tra il pensiero dogmatico di Rej e le riflessioni filosofiche di Palingenio. La cosa riguarderà il tema della presenza nell’universo di diversi spiriti,
divinità e altre creature immateriali. Il principio di base per la visione di Palingenio dell’Universum è la convinzione che la vita possa esistere ovunque: dalle
stelle e dall’etere fino ai fondali marini e all’abisso della terra.
39
Sull’idea della vanitas nell’opera di Rej cfr. MAŁGORZATA TURCZYN, W kręgu topiki wanitatywnej. „Wizerunk własny żywota człowieka poczciwego…” Mikołaja Reja, in Mikołaj Rej − w
pięćsetlecie urodzin, a cura di Jan Okoń, vol. II, Wydawnictwo Uniwersytetu Łódzkiego, Łódź
2005, pp. 57-74.
40
ZBIGNIEW KNIAZIOŁUCKI, op. cit., p. 229.
17
EWELINA DRZEWIECKA
Nempe locus nullus frustra est, habitatur ubique:
Sub terris, supra terras inique aere et igni,
In coelo et supra coelum […]41
L’immaginazione del poeta italiano fa vivere mondi alternativi. A suo avviso sarebbe una bestemmia, se non una limitazione dell’onnipotenza divina,
credere che i cieli siano un deserto privo di abitanti42. Nei giudizi di Palingenio
risuonano echi della riflessione filosofica riguardante altri universi43. Nel libro
XI il poeta scrive:
Quippe suos etiam cives habet aether et astra
singula, sunt urbes coeli sedesque deorum,
Illic et reges, populi inveniuntur et illic,
Sed veri reges, populi veri, omnia vera […]
Illic foelices, immortales, sapiens […]
Illic pax et lux regnant et summa voluptas 44.
Nella costruzione dell’universo di Palingenio si può osservare una certa
verticalità: più sono in alto, più i mondi diventano migliori e gli esseri che li abi18
tano più nobili. Gli abitanti del mondo sopralunare sono dotati di corpi delicati,
perché non sono impigliati nella cattiva materia:
41
“Nessun luogo è vuoto, si abita ovunque, sotto la terra, sopra la terra, nell’aria e nel fuoco e
nel cielo”. Zodiacus vitae, Lib. XI, vv. 1111-1114, p. 33. Nel presente articolo non ho utilizzato la
popolare edizione bilingue di Jaques Chomart, basata sul testo latino della versione originale, e
nemmeno edizioni successive: Amsterdam 1628 e Rotterdam 1722. Tutte le citazioni dello Zodiaco vengono dall’edizione principe veneziana, la cui trascrizione si trova nel libro del prof.
Franco Bacchelli, pubblicato a tiratura limitata nel 2012: FRANCO BACCHELLI, Marcelli Palingeni Stellati Zodiacus vitae, introduzione ed edizione di Franco Bacchelli, Pendragon, Bologna
2012.
42
IVI, Lib. VII, vv. 410-420, p. 243.
43
In questa affermazione risuona la questione, conosciuta e discussa dai filosofi medievali, della
pluralità dei mondi abitati, migliori e simili a quello terrestre. Nel Quattrocento e nel Cinquecento una crescente critica del modello aristotelico-tolemaico e la discussione che si svolgeva più
sul piano filosofico che su quello di una riflessione scientifica, portarono ad alcune considerazioni sull’eternità e sull’illimitatezza del mondo, sulla natura e sul numero di pianeti o astri. Il
primo pensatore che si espresse a questo proposito in modo chiaro e deciso fu Nicolaus Cusanus
(De docta ignorantia, II, 12), anche se le considerazioni in questa materia ricevettero una formulazione completa soltanto molto più tardi, nei dialoghi di Giordano Bruno, cfr. GIORDANO
BRUNO, De immenso et innumerabilibus, VIII, 2, in Opera latine scripta, Stuttgardt-Bad Cannastatt, 1962, vol. II, p. 292.
44
“L’etere ha i suoi abitanti, e i singoli astri sono le città del cielo e le sedi divine. Lì si possono
trovare i sovrani, e i popoli: ma i veri sovrani e i veri popoli e tutto vero. […] Lì vivono i felici,
gli immortali e i sapienti […]. Lì regna la pace e la luce e tutto il piacere”. Zodiacus vitae, Lib.
XI, vv. 612- 622, p. 328.
PALINGENIO E REJ
Coelicones etenim tenuissima corpora cunctis
Ille author mundi dedecit atque lefissima, quare
Ipsis non opus est foribus patulis ve fenestris;
Per medios intrat muros et marmora tranant
Usqueadeo est illis tenuis natura potensque 45
I celestiali, che non possiedono corpi mortali, non hanno né fame né sete e grazie a ciò vivono una vita felice. Con i mortali le cose si presentano diversamente.
Sulla terra, infatti, regna il Labor: la fatica della coltivazione, della conquista del
cibo, la fatica della vita che è una ripercussione del peccato. Palingenio nel suo
poema dedica un rimarchevole spazio alle questioni dell’immortalità dell’anima
e del suo destino dopo la morte. Negli intermundi celesti, nel Reame della Luna,
dove giunge il poeta italiano, stanno le anime dei mortali in attesa dell’ora della
purificazione, svolgendo la Luna, nello Zodiacus vitae, il ruolo del Purgatorio,
luogo del giudizio delle anime46.
Come si presentano le stesse questioni nel Wizerunk? Zbigniew Kniaziołucki osserva che Mikołaj Rej, nelle prime parti del suo componimento, segue
molto dettagliatamente Palingenio: i primi cinque capitoli dell’opera polacca
corrispondono ai primi cinque libri dello Zodiacus. Tuttavia questa struttura
cambia a partire dal capitolo VI: le parti successive del Wizerunk costituiscono
una compilazione dei diversi libri del prototipo italiano e vi si manifesta la grande creatività dello scrittore polacco47. Sebbene Rej concordi con il poeta neolatino
circa la generale costruzione dell’universo e degli elementi che lo costituiscono,
egli omette integralmente, tacendo sull’argomento, la possibilità dell’esistenza dei
45
“A tutti gli abitanti dei cieli il creatore donò corpi molto delicati, per cui non devono aprire né
finestre né porte, soltanto entrano attraverso i muri e i marmi, a tal punto possiedono una natura
potente e delicata”. IVI, Lib. XI, vv. 636-640.
46
Nel poema di Palingenius, nell’immagine dell’aldilà situato sulla Luna, non sotto terra come
nel poema omerico o in quello virgiliano, risuonano gli echi del suo grande predecessore, Dante.
Il Purgatorio dantesco è collocato su un grande colle, tuttavia la Luna nella Divina Commedia
costituisce il primo stadio del Paradiso e vi stanno le anime che non avevano osservato i voti fatti
sulla terra. Richiedono dunque in qualche modo una purificazione per poter andare più in alto e
accedere alla più grande gioia. Come nota Tadeusz Zieliński, la collocazione del Purgatorio da
parte di Dante nei cieli ha una sua motivazione: i commentatori di Virgilio delle epoche posteriori, quali Servio o Sant’Agostino, autori letti dal maestro italiano, collocavano l’elisio virgiliano
– affine al purgatorio cristiano – tra la Terra e la Luna. La visione dantesca dell’aldilà imita quella di Virgilio, attraverso il prisma delle visioni allegoriche dei commentatori dell’Eneide. Palingenio invece segue l’immagine del suo grande connazionale, cfr. TADEUSZ ZIELIŃSKI, Po co Homer? Świat antyczny a my, Wydawnictwo Literackie, Kraków 1970, p. 268.
47
ZBIGNIEW KNIAZIOŁUCKI, op. cit., p. 306.
19
EWELINA DRZEWIECKA
mondi abitati. Ciò nonostante, Rej non nega che Dio abbia potuto creare creature migliori degli uomini e, basandosi sull’autorità delle Sacre Scritture, le chiama
angeli. Nella descrizione della loro vita risuonano gli echi dei versi di Paligenio:
A coż oni stanowie bez grzechu, bez zmazy,
Które w sobie nie mają upadku, ni skazy,
Które pracej, ni troski, nic nigdy nie czują,
Jeno sobie w radościach dziwnych rozkoszują48
I corpi degli angeli sono delicati e immateriali: perfetti perché non inquinati dalla materia peccaminosa:
O czym świadczy Abraham, Jakub i Tobiasz
I innych wiele, o czym niemało pisma masz.
Lecz ich subtelne ciała już od naszych różne,
Bo od grzechu, od śmierci już na wszystkim próżne
Niewidome, szlachetne a dziwnej istności49
Così come nel poema di Palingenio, nella visione immaginaria di Rej le anime
20
umane che si recano nell’aldilà stanno sia in cielo, sia all’inferno. Nella descrizione dell’autore polacco è stato omesso integralmente il frammento di Palingenio che tratta del Reame della Luna, dove si svolge il giudizio sulle anime. Lo
scrittore polacco, seguendo i dogmi del calvinismo, crede che il purgatorio non
esista. Il suddetto esempio ci permette di notare le differenze nella concezione
del mondo di entrambi i poeti. Il pensiero vivo e razionale di Palingenio pone
domande coraggiose e non teme di indagare. Nelle convinzioni dogmatiche di
Rej, le quali non vanno oltre le verità della fede accettate, non si permette alcuna
speculazione. Il suddetto exemplum illustra il modo in cui l’autore polacco si riferiva al prototipo italiano: non osservando pedissequamente l’originale, Rej ne
prese ciò che egli stesso riteneva giusto e utile.
48
“ Cosa (pensano) quelli degli strati sociali senza peccato e senza colpa / Che non hanno dentro
di se né fallimenti né difetti / Che non sentono mai niente né fatica né preoccupazioni / Trovano
solo piacere nelle strane gioie”. Wizerunk, Lib. VIII, vv. 27-30 in Mikołaj Rej. Wizerunk własny
żywota człowieka poczciwego, parte I a cura di Władysław Kuraszewicz, Zakład Narodowy im.
Ossolińskich, Wydawnictwo Polskiej Akademii Nauk, Wrocław-Warszawa-Kraków-Gdańsk
1971, p. 505.
49
“Come dimostrano Abramo, Giacobbe e Tobia / E molti altri, su cui hai non pochi scritti. /
Ma i loro corpi delicati già diversi dai nostri, / Perché già liberi dal peccato, dalla morte / Ciechi,
nobili ma strani esseri”. IVI, Lib. VIII vv. 25-29, p. 502.
PALINGENIO E REJ
Il Wizerunk, anche se privo della curiosità, nella descrizione e nel commento dei fenomeni relativi al mondo circostante che caratterizza il poema di Palingenio, grazie alla varietà della tematica presa dallo Zodiacus vitae merita pienamente di essere definita un’opera “umanistica”. Inoltre, paradossalmente, come
ha osservato Zbigniew Kniaziołucki, seguire il poema di Palingenio ha permesso a
Rej di cristallizzare le proprie idee e di difenderle. Il confronto con i giudizi dello
scrittore italiano e la necessità di definirsi di fronte ad essi ha fatto sì che il Wizerunk diventasse l’espressione delle più mature convinzioni dell’autore polacco e
l’apogeo del suo individualismo di scrittore50. Vale la pena sottolineare anche il
grande significato, per il sistema della letteratura polacca, del Wizerunk, basato
sul poema di Palingenio. Nell’odierna riflessione di studi traduttologici si sottolinea il ruolo sottovalutato delle traduzioni nel processo di creazione e rivitalizzazione dei sistemi letterari51. Nel XVI secolo in Polonia, prima che venissero prodotte opere originali, la creazione letteraria rinascimentale cominciò con una serie
di traduzioni. Il loro ruolo era sottovalutato perché appunto grazie alle traduzioni
furono inserite nella letteratura nuove forme, generi e fenomeni, che successivamente trovarono riflesso in una produzione originale52. Grazie al Wizerunk di Rej,
adattamento artistico dell’opera di Palingenio, nasce la prima epopea didattica
nella letteratura polacca.
[Traduzione di Barbara Kornacka, Serafina Santoliquido, Ewelina Drzewiecka;
redazione di Serafina Santoliquido]
50
ZBIGNIEW KNIAZIOŁUCKI, op. cit., p. 213.
SUSAN BASSNETT, Od komparatystyki literackiej do translatologii, trad. pol. Agnieszka Pokojska, in Niewspółmierność. Perspektywy nowoczesnej komparatystyki. Antologia, a cura di Tomasz
Bilczewski, Kraków 2010, p. 498.
52
JANINA ABRAMOWSKA, Przekładu staropolskiego naiwności i paradoksy, in «Nurt», 8, 1968, p.
35; ZOFIA PODHAJECKA, op. cit., p. 24.
51
21
ROMAN KRZYWY
La Graeca fides e la falsità moscovita
nel discorso polacco premoderno. Storia di un topos
«pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», (VI) 6, 2015, pp. 23-38
ABSTRACT
The article discusses the usage of the classical topos Graeca fides to describe the
citizens of the Grand Duchy of Moscow in early modern Polish literature (chronicles, diaries,
journalistic writings, diplomatic reports etc.). This way of speaking was justified by the identification of the Eastern Orthodox Church with the Greek Byzantine Rite. The formula was used to
deprecate Russians and became part of a negative stereotype. The author demonstrates, with diverse examples, how this formula became a constant topos in statements about a country considered hostile in Poland since the 16th century, and in which contexts it was developed.
KEYWORDS
N
Old Polish Literature, Polish-Russian relations, national stereotypes, topic
23
el diario che Stanisław Oświęcim ha scritto negli anni 1643-1651 leggiamo un anonimo Skrypt dyskursem jednego dworskiego intytułowany
[Lo scritto di un’orazione d’un cortegiano], il cui autore fa le sue con-
siderazioni sulla possibilità di riportare in vita lo spirito guerriero nella szlachta
polacca. Il metodo più efficace sarebbe stato, secondo lui, la creazione di una lega antiottomana da parte degli Stati cristiani, anche se si rendeva perfettamente
conto che l’idea era puramente utopica. Comunque, fra i potenziali partecipanti
egli non dimenticava il vicino orientale della Repubblica delle Due Nazioni, ma
aggiungeva il laconico commento: “Dicano quel che vogliono della Moscovia – lì
vige la Graeca fides”1. Più di un secolo dopo Kajetan Ignacy Sołtyk e Michał
Wielhorski espressero la stessa opinione nella loro corrispondenza. In una lettera del 30 agosto 1765, il dignitario ecclesiastico commentava con sarcasmo le parole che Fryderyk Michał Czartoryski avrebbe detto al sacerdote Karol Wyrwicz
facendo una disquisizione moraleggiante sull’affidabilità dei russi, ossia, secondo
la terminologia in uso all’epoca, di “Mosca”:
1
“Niech co chcą, mówią o Moskwie – u tych Graeca fides”; STANISŁAW OŚWIĘCIM, Diariusz, a
cura di Wiktor Czermak, Akademia Umiejętności, Kraków 1907, p. 152.
ROMAN KRZYWY
Ha il principe [Karol Stanisław] Radziwiłł un protetto gesuita [...]; fate sì che persuada
e convinca il principe Radziwiłł a diffidare di Mosca, ché a tradir sempre è pronta, come
da Graeca fides: si riconcili invece col re e con noi, così prima guadagnerà onori e favori,
e stando dalla parte nostra potrà ridersela di Mosca2.
Così il prelato esprime la propria diffidenza nei confronti delle dichiarazioni e
delle promesse fatte dai russi, che sarebbero per natura inclini a tradire ogni
straniero. Il concetto trova perfetta formulazione nella locuzione gnomica
Graeca fides, che nell’antichità romana esprimeva la diffidenza dei romani verso
quel popolo che aveva sottomesso. L’origine del motto e il suo funzionamento in
epoca antica costituiscono un tema a sé stante al confine fra la topica e la xenofobia, e sono stati oggetto di studio già in passato. Non sarà quindi necessario
soffermarci ora su questo argomento3. Per lo studioso di letteratura polacca antica è più interessante la riattualizzazione dell’espressione idiomatica latina che
porta all’identificazione di pregiudizi diffusi fra tutti i popoli: gli antichi romani
e greci sono stati sostituiti rispettivamente dai rappresentanti della civiltà europea, che seguirebbero le norme della lealtà e della fedeltà alla parola data, e da24
gli abitanti dello stato moscovita.
I fattori che hanno portato alla trasposizione dello stereotipo antico ai
tempi moderni, con l’identificazione di Roma con l’Europa latina (rappresentata
nella letteratura polacca dagli abitanti della Repubblica polacco-lituana), si basavano su fattori linguistici e – solo parzialmente – religiosi, mentre per i greci e
i russi si basavano su fattori essenzialmente religiosi, anche perché la chiesa ortodossa si riteneva unica depositaria della vera fede4. Questa trasposizione è sta2
“Ma książę [Karol Stanisław] Radziwiłł faworyta jezuitę [...]; namawiajcie go, aby perswadował
i nakłonił księcia Radziwiłła, aby nie wierzył Moskwie, bo ta wszystkich zdradza, jak Graeca fides, ale niechaj się z królem i z nami pojedna, a będzie prędzej i do honoru, i fortuny przypuszczony, a gdy z nami będzie trzymał, to może drwić z Moskwy”. Cit. da WŁADYSŁAW KONOPCZYŃSKI, Konfederacja barska, vol. 1, Volumen, Warszawa 1991, p. 29.
3
Vale la pena ricordare, tuttavia, che l’espressione Graeca fides, chiaramente ironica, aveva lo
stesso significato di Punica fides, che col tempo venne sostituito proprio dal primo. A questo slittamento semantico hanno contribuito sicuramente sia la presa di Cartagine che la popolarità
dell’Eneide di Virgilio il cui ben noto verso “Timeo Danaos et dona ferentes” (II 49) divenne
proverbiale e perpetuò lo stereotipo negativo dei greci nella letteratura latina. Cfr. ARNALDO
MOMIGLIANO, Alien Wisdom: The Limits of Hellenization, Cambridge University Press, Cambridge–New York 1975, pp. 4-5; BENJAMIN ISAAC, The Invention of Racism in Classical Antiquity, Princeton University Press, Princeton 2004, p. 331.
4
Nella pubblicistica religiosa questo topos era legato alla chiesa greca, e quindi anche a quella
ortodossa (negli scritti polemici definita “scismatica”). Cfr. ad esempio: “Nie na rzymski ani łaciński Kościół, ale na grecki stara jest przymówka Graeca fides i dawne ich obwinienie, iż księgi
LA GRAECA FIDES E LA FALSITÀ MOSCOVITA NEL DISCORSO POLACCO PREMODERNO
ta lapidariamente espressa da Wacław Potocki nell’operetta Moralia, i cui primi
versi si riallacciano all’adagio Graeca fides di Erasmo da Rotterdam:
Fede greca chiamiamo, quando al giuramento
Qualcuno ci manca, per il turpe lucro.
Ma essendo oggi lontani i greci,
Rus’ o Mosca fanno per noi le loro veci5.
Nell’opera di Potocki lo stereotipo viene presentato già come un dato di
fatto acquisito dalla collettività dei parlanti polacco. È così che si dice da noi –
sembra affermare l’autore –, confermando quell’usus linguistico che esprimeva
lo stereotipo negativo del moscovita che si era andato progressivamente formando nella mentalità e nella letteratura polacca nel corso del XVI secolo, allorché i rapporti fra il Gran Principato di Mosca e lo Stato polacco-lituano si erano
deteriorati con la salita al trono di Ivan il Terribile a causa delle continue contese per le frontiere. La letteratura critica sull’argomento ritiene che lo stereotipo
moscovita si sia cristallizzato soprattutto a causa delle guerre dell’inizio del XVII
secolo, in concomitanza con le congiure di palazzo dopo la morte di Boris Go6
dunov , anche se già nei decenni precedenti non mancavano giudizi negativi sul
vicino orientale, più o meno meritati, ma sempre formulati con evidente senso di
superiorità7.
fałszują nie tylo doktorów, ale samego Pisma ś[więtego] słowa, a miasto nich heretyckie podmiatają, a katolickie wyrzucają, co się o dobrych nie mówi. Biblia na ich język naprzód przełożona,
którą 70 zowiem, dziwnie od greków pofałszowana jest ujmą i przydatkiem, i fałszem [...].
Grekowie prawdę miłujący muszą się do naszej łacińskiej Biblijej uciekać” (Eppure l’antica e
proverbiale Graeca fides non alla romana o latina Chiesa, bensì a quella greca s’addice, i cui
scritti travisano le parole non tanto dei dottori, quanto delle Sacre Scritture stesse, sostituendo
delle tesi cattoliche con quelle eretiche – e non si può dire sia l’opera dei buoni. La Bibbia che
chiamiamo Septuaginta, tradotta nella lor lingua, mirabilmente falsata è dai greci con omissioni e
addizioni […]. Così i greci amanti della verità alla nostra latina Bibbia debbono ricorrere).
PIOTR SKARGA, Na “Treny i lament” Teofila Ortologa do Rusi greckiego nabożeństwa Przestroga,
Drukarnia Andrzeja Piotrkowczyka, Kraków 1610, f. G 3r.
5
“Grecką wiarą zowiemy, kiedy nas kto brzydkiem / Uwiedziony przysiągszy oszuka pożytkiem.
/ Ale że od Polaków są teraz dalecy, / Ruś u nas abo Moskwa, co tam byli Grecy”. WACŁAW
POTOCKI, Moralia, vol. 1, a cura di Tadeusz Grabowski, Jan Łoś, Akademia Umiejętności, Kraków 1915, p. 230. Bisogna ricordare, tuttavia, che Potocki esprime qui la posizione dei cattolici:
gli autori polacchi (e lituani) di fede ortodossa o uniate avevano, naturalmente, ben altra opinione sulla fede greca.
6
Cfr. HIERONIM GRALA, O genezie polskiej rusofobii, in «Przegląd Historyczny», 1, 1992, pp.
135-153.
7
Ultimamente si applica allo studio del problema la prospettiva postcoloniale che considera
25
ROMAN KRZYWY
Uno degli elementi fissi dello stereotipo era appunto la convinzione
dell’innata tendenza dei moscoviti alla menzogna. I primi accenni sembrano trovarsi già nelle opinioni sui russi espresse da Jan Długosz. Secondo uno studioso,
il cronista quattrocentesco “era convinto che fossero astuti e ingannevoli, come
pure subdoli e falsi”8. In realtà questa affermazione non è del tutto convincente,
poiché il cronista non si riferisce ai russi, ma ai ruteni che vivevano nel Granducato di Lituania9 (del resto Długosz si esprimeva con analoghi accenti critici nei
confronti dei lituani che si opponevano al re di Polonia). E infatti è solo a partire
dalla seconda metà del XVI secolo che in Polonia si cominciò ad assegnare quelle qualità negative essenzialmente ai moscoviti, quando l’inclinazione alla menzogna iniziò a venire associata agli altri difetti attribuiti a quel popolo. Fu allora
che si cominciò ad associare la falsità moscovita alla Graeca fides.
26
l’atteggiamento seicentesco dei polacchi verso i russi come espressione della loro volontà di civilizzarli, nello spirito delle teorie formulate da Edward W. Said nel suo ben noto Orientalizm.
Cfr. GRZEGORZ FRANCZAK, Faex gentium. Polacy w Moskwie wobec rosyjskiej „mniejszości”, in
Etniczność. Tożsamość. Literatura. Zbiór studiów, a cura di Paweł Bukowiec, Dorota Siwor,
Universitas, Kraków 2010, pp. 45-48. Non si deve però dimenticare che quell’atteggiamento era
conseguenza degli attacchi moscoviti alle terre polacco-lituane, per cui lo stereotipo assumeva le
caratteristiche tipiche del nemico, al quale è naturale che si attribuiscano i peggiori difetti. Così
scriveva uno dei primi studiosi dell’argomento: “Podstawą pojęciową jest kategoryczna negacja
wszelkich wartości przeciwnika-wroga: wiary, obyczajów, instytucji państwowych, kraju, ziemi i
całej kultury, a głównym argumentem jest cywilizacyjne barbarzyństwo ‘grubej Moskwy’, czyli
‘moskiewska grubianitas’, która to nadrzędna wartościowania determinuje pozostałe, pochodne.
Jest to wyraz etnocentrycznej postawy wzmocnionej emocjonalnie przez okoliczności zasadniczego konfliktu jednoznacznie polaryzującego zachowania i postawy” (La base concettuale è
costituita dalla categorica negazione di ogni qualità dell’avversario-nemico: della fede, dei costumi, delle istituzioni statali, del paese, delle sue terre e di tutta la cultura, mentre l’argomento
principale è quello della ‘rozza Mosca’, ossia la ‘grubianitas’ moscovita: questa dominante assiologica determina le altre che ne derivano. Si tratta dell’espressione di un atteggiamento etnocentrico, intensificato emotivamente dal sottostante conflitto di base che va polarizzando gli atteggiamenti e le opinioni”). ANDRZEJ KĘPIŃSKI, Lach i Moskal. Z dziejów stereotypu, Państwowe
Wydawnictwo Naukowe, Warszawa 1990, pp. 33-34. Lo studioso fa notare che a sua volta
l’immagine dei polacchi nella letteratura russa dell’epoca era fatta da cliché negativi: ne sono la
dimostrazione gli appunti degli autori russi risalenti al periodo dei Torbidi (cfr. BORIS N.
FLORJA, Pol’sko-litovskaja inervencija v Rossii i russkoe obščestvo, Izdatel’stvo Indrik, Moskva
2005, pp. 381-415). Ultimamente sono state discusse però anche le testimonianze che smentiscono i reciproci pregiudizi, cfr. per es. WIKTORIA MOCZAŁOWA, Polacy i Rosjanie: współdziałanie na tle rosyjskiego zamętu, czyli smuty, in «Studia Rossica», 22, 2112, pp. 55-65).
8
ARTUR KIJAS, Moskwa w relacjach polskich XVI i pierwszej połowy XVII wieku, in Oblicza
Wschodu w kulturze polskiej, a cura di Grzegorz Kotlarski, Marek Figura, Wydawnictwo Poznańskie, Poznań 1999, p. 56. Cfr. anche TADEUSZ SUCHARSKI, Rosja wchodzi w polskie wiersze
– obraz Rosjanina w literaturze polskiej, in Katalog wzajemnych uprzedzeń Polaków i Rosjan, a cura di Andrzej de Lazari, Polski Instytut Spraw Międzynarodowych, Warszawa 2006, p. 80.
9
L’incertezza si spiega col termine polacco “rusin” che può riferirsi tanto ai moscoviti, quanto
ai ruteni, ossia ucraini e bielorussi [N.d.T.].
LA GRAECA FIDES E LA FALSITÀ MOSCOVITA NEL DISCORSO POLACCO PREMODERNO
Nel trattato latino De legato legationeque liber di Krzysztof Warszewicki,
edito per la prima volta nel 1595 e destinato ai lettori di tutta Europa (dopo la
prima edizione di Cracovia, l’opera venne ristampata a Rostock nel 1597, a Lubecca nel 1604 e a Danzica nel 1646), si trovano delle considerazioni generali sul
tema dell’affidabilità degli ambasciatori e dei loro sovrani. Mettendo in guardia
il lettore dalle strategie basate sull’inganno (“nec quidem est regium una manu
ostentare panem et altera ingerere velle scorpionem”10), l’autore commenta:
Quis non legit, quae fuerit Graecorum aut Graeca cum Latinis fides, et quae nunc sit etiam
Moscovitarum? De quibus nihilominus saepius triumphavit non nemo barbarorum. Et non
temere id quidem. Nam ubi plurimum caliditatis, ibi minimum saepe est felicitatis11.
Esempio tipico di inganno in diplomazia era, secondo l’autore, il comportamento tenuto dagli ambasciatori di Ivan il Terribile durante le trattative di
Jam Zapolski (1582), alle quali Warszewicki aveva preso parte personalmente in
qualità di rappresentante del re di Svezia. Gli ambasciatori di Mosca tentarono
di far inserire nel testo degli accordi alcune note che avrebbero permesso in seguito ai granduchi di Mosca di mettere le mani su Riga e i castelli della Curlandia. Pretendevano anche per il loro monarca il titolo di Zar di Astrachan’ e Kazan’, affermando che questo titolo era già presente nelle lettere di Sigismondo
Augusto a Ivan12. Bisogna osservare che l’idea del comportamento ipocrita della
Moscovia non deriva da un pregiudizio, ma da un fatto storico concreto al quale
Warszewicki ha dato valore di exemplum, affermando che Dio punisce questo
modo di procedere. Ne sarebbe prova il fatto che la Repubblica polacco-lituana
riuscì ad ottenere dei risultati positivi.
I contatti diplomatici offrivano il maggior numero di argomentazioni in
favore della veridicità dello stereotipo. Uno studio di tutte le testimonianze ancora esistenti riguardanti la reciproca diffidenza fra le parti potrebbe offrire risultati molto interessanti nel campo della sociologia storica. In questa sede possiamo soffermarci solo su alcuni esempi.
Alle inclinazioni dei moscoviti all’inganno dedicò la massima attenzione
Eliasz Pielgrzymowski, che ci ha lasciato una descrizione in versi dell’ambasceria
10
KRZYSZTOF WARSZEWICKI, De legato et legatione, Dantiscum 1646, p. 111.
Ibidem, pp. 111-112.
12
Cfr. ANTONIO POSSEVINO, Moscovia, trad. pol. Albert Warkotsch, Pax, Warszawa 1988, pp.
219-222.
11
27
ROMAN KRZYWY
che Lew Sapieha e Stanisław Warszycki compirono nel 1600-1601 presso Boris
Godunov. Il poeta aveva fatto parte della missione in qualità di segretario.
L’opera non ha alcun merito letterario e non sorprende quindi che non sia stata
stampata. Essa ha però un notevole valore come fonte storica13. Durante le trattative i boiari cercarono di imporre agli ambasciatori vari commi sfavorevoli alla
Repubblica nobiliare ricorrendo a metodi che poco avevano in comune col “diritto dei popoli” (jus gentium) vigente all’epoca14. Al ritorno in patria Warszycki
espresse così le proprie lagnanze scrivendo al suo protettore: “Fummo trattati
male e con molto disprezzo [...]. Sopportammo molte parole mordaci, tali da
indurci a patire il martirio – se non fosse che trattavasi della Patria”15. Nella sua
opera Pielgrzymowski reagiva a queste angherie con delle tirate in cui dimostrava
ai negoziatori moscoviti l’inammissibilità delle loro pretese e la loro inferiorità culturale. Egli stigmatizzava anche i frequenti cambiamenti di opinione, l’abitudine a
non rispettare la parola data e a mentire, aggiungendovi un atteggiamento di superiorità, ogni mancanza di pudore, una grande stupidità e ignoranza.
Intrecciati con la narrazione diretta, si trovano nell’opera degli excursus
eruditi finalizzati a dimostrare l’inferiorità degli usi e costumi dei moscoviti. La
28
presenza di questi excursus è certamente legata anche alla scelta di scrivere
l’opera in versi. In una di queste digressioni, l’autore enumera le caratteristiche
dei vari popoli dell’antichità (Ateniesi, Tebani, Argivi e via dicendo) e di quelli
moderni (Italiani, Spagnoli, Francesi ecc.), e non manca di riportare alcuni
esempi di malafede dell’epoca antica16. Alla fine egli si chiede a quale di questi
13
Dei frammenti dell’autografo vennero pubblicati da Aleksander Brückner alla fine del XIX secolo. Purtroppo il manoscritto è stato divorato dalle fiamme durante la Seconda guerra mondiale. L’opera è stata finalmente pubblicata nella sua interezza sulla base di una copia conservata a
Leopoli: ELIASZ PIELGRZYMOWSKI, Poselstwo i krótkie spisanie rozprawy z Moskwą. Poselstwo
do Zygmunta Trzeciego, a cura di Roman Krzywy, Neriton, Warszawa 2010 (in particolare cfr.
pp. 276-277).
14
Cfr. LUCA BERNARDINI, Niepojęta „grubianitas”. Moskiewskie konwencje dyplomatyczne i niektóre cechy charakteru Moskwicinów w oczach polskich uczestników “dymitriady”, in Polacy w
oczach Rosjan – Rosjanie w oczach Polaków, a cura di Roman Bobryk, Jerzy Faryno, Slawistyczny
Ośrodek Wydawniczy, Warszawa 2000, pp. 103-106.
15
“I źle byliśmy traktowani, i z lekkim poważaniem [...]. Tam jakośmy wiele ponosili słów
uszczypliwych i takich, za które by się godziło podjąć i martyrium, gdyby nie szło o ojczyznę”.
Relacja Stanisława Warszyckiego z poselstwa do Moskwy w liście do Jana Zamoyskiego z 1601 roku, a cura di Roman Krzywy, in Hołd carów Szujskich, a cura di Juliusz A. Chrościcki, Mirosław
Nagielski, Neriton, Warszawa 2012, pp. 16-17.
16
“Grekowie, acz są mądrzy i pięknej wymowy, / Lecz do prawdy chowania rzadko z nich gotowy. / Kreteńczycy obłudni, to wszystkim wiadomo, / Gdy na co poprzysięgną, rzecz to pewna –
wrzkomo” (I greci, pur sapienti, di gran eloquenza, / A tener la parola nessun greco pensa. / Il
LA GRAECA FIDES E LA FALSITÀ MOSCOVITA NEL DISCORSO POLACCO PREMODERNO
popoli antichi siano più simili i padroni di casa e risponde laconicamente: “Ogni
genere di male in loro si somma”17. Per mettere in luce l’ambiguità dei russi,
l’autore tira fuori dei riferimenti eruditi anche più sofisticati. Dalla Storia naturale di Plinio (XXXI 15), ad esempio, egli riporta la notizia del “Lago Trogloditico”, le cui acque avrebbero cambiato di sapore tre volte al giorno (Plinio lo
chiama lacum Insanum e lo colloca nella terra dei Trogloditi). Così egli poi
commenta questo passo:
La stessa natura è quella di Mosca,
Non ci credi, va pure, fanne esperienza:
Oggi suavi e blande son le parole loro,
Ma aspetta un poco – è veleno puro18.
Poco dopo l’autore ricorda la ben nota favola di Esopo L’uomo e il satiro
(35), che racconta di un folletto dei boschi che rifiuta di fare amicizia con
l’uomo perché, soffiando, egli si scalda le mani quando fuori gela, ma raffredda
anche il cibo caldo, servendo così da metafora per l’ipocrisia degli uomini. Pielgrzymowski aggiunge un commento moralistico riferito ai costumi moscoviti:
Il diavolo aiuta questi moscoviti,
Che usan tra loro falsità e liti.
Non sanno null’altro che dire fandonie,
Pietra lidia per loro son solo menzogne.
È sì inveterato questo malcostume,
Che fidarsi di loro non possa nessuno.
Che abbian a che fare con bestie, piuttosto
Ch’io mai debba tornar in quel posto!19
cretese, sappiamo, di falso è esperto: / Il suo giuramento è un inganno certo). ELIASZ PIELGRZYMOWSKI, op. cit., p. 159. L’inclinzione dei cretesi all’inganno viene ricordata anche nel
Nuovo Testamento (Tt 1,12) ed era proverbiale già in epoca alessandrina.
17
“Wszystko zgoła, co złego, w nich się zgromadziło”. ELIASZ PIELGRZYMOWSKI, op. cit., p. 160.
Cfr. anche pp. 154-155.
18
“Takuczkie przyrodzenie ma też Moskwa w sobie / Nie wierzysz-li, jedź do nich, spróbuj to
tam sobie – / Dziś słodkie, cukrowane, piękne dają słowa, / Poczekajże, ali wnet trucizną ich
mowa”. IVI, p. 154.
19
“Wżdy to tam diabeł żywy tej Moskwie pomaga, / Że się jeden przed drugim nieprawdą wymaga. / Nieprawdę rzec co żywo, więcej nie umieją, / Że to kamień lidyjski, tak to rozumieją. /
Tak były weszły mowy ich w ten sprosny zwyczaj, / Że wierzyć nie masz komu, ten u nich obyczaj. / Bodaj tam bydło z nimi pirwej sprawę miało, / Nimby mi się tam kiedy znowu być dostało!”. IVI, p. 185.
29
ROMAN KRZYWY
Negli ultimi due versi l’ambasciatore, indignato dal modo di condurre le
trattative, esprime tutta la sua amarezza e rabbia.
Con la sua narrazione degli inganni moscoviti, Pielgrzymowski si proponeva da una parte di mettere in guardia i politici e i diplomatici conformemente al pensiero rappresentato dal trattato di Warszewicki menzionato prima, dall’altra di offrire una diagnosi comportamentale sulla natura di tutto
quel popolo. Diagnosi, sottolineiamo, formulata con un marcato senso di superiorità.
“Fide, sed vide cui”, scrive l’autore in un avvertimento che riassume tutta l’opera20, certamente con riferimento al fatto che non erano stati mantenuti i
trattati di pace stipulati sotto giuramento. Nelle pagine delle sue memorie,
quando agli ambasciatori veniva prospettata la minaccia di rottura delle trattative, l’autore si serve spesso di espressioni di rammarico, a volte astioso, quali:
“Peccato che mai di voi ci siam fidati!”; “infrangono i giuramenti e ne vanno fieri”; “E i moscoviti che fanno? Mantengono il giuramento a noi, / O meglio, a
Dio?”21. Gli faceva eco Warszycki ricordando le minacce dei boiari: “‘Il nostro
gosudar’ è libero di rispettare o meno quella tregua, che prima fu fatta’. Ecco la
30
fides presso quella gente”22. Quello che disgustava i diplomatici polacchi era la
sfrontatezza con cui venivano fatte tali dichiarazioni: per Pielgrzymowski equivaleva a un sacrilegio compiuto contro Dio stesso perché il giuramento veniva
fatto sul crocifisso23. Non desta quindi meraviglia che a Pielgrzymowski (e non
solo a lui) capiti di chiedere: “L’usanze de’ Tartari, i lor costumi pagani, / Son
queste la vostra saggezza e i vostri impegni?”24.
20
IVI, p. 268.
“Żal się Boże, żeśmy wam wiarę kiedy dali!”; “Przysięgi swe łamią i chwalą to sobie”; “A Moskwa co też czyni, czy trzyma nam słowo, / A raczej Panu Bogu?”. IVI, pp. 116, 126, 127.
22
“‘Hospodarowi naszemu wolno dotrzymać i nie dotrzymać tego przymierza, które jeszcze było
stare’. Taka tam fides u tych ludzi”. Relacja Stanisława Warszyckiego, cit., p. 18.
23
Nello Śpiewanie po wzięciu Smoleńska, un canto anonimo del 1611, l’autore sosteneva: “Krzywoprzysiężna stolica / Zdradnie chciała królewica, / A dla kłamliwej przysięgi / Bicz Boży nad
nimi tęgi” (La capitale spergiura / Finse di voler il principe, / Ma per il falso giuramento /
L’aspetta il flagello di Dio). Cit. da: JAREMA MACISZEWSKI, Polska a Moskwa 1603-1618. Opinie
i stanowiska szlachty polskiej, Państwowe Wydawnictwo Naukowe, Warszawa 1968, p. 224. Anche Potocki, nel sopracitato Moralium, lega la “fede greca” soprattutto alla sacrilega rottura dei
giuramenti fatta dai moscoviti; in un altro passo (Moralia, vol. 2, Kraków 1916, p. 501) ricorda
specificamente che essi non hanno rispettato il giuramento fatto all’erede al trono Władysław
Waza.
24
“Tatarskie obyczaje, ich pogańskie sprawy, / To wasz rozum i mądrość, i wasze zabawy?”.
ELIASZ PIELGRZYMOWSKI, op. cit., p. 153.
21
LA GRAECA FIDES E LA FALSITÀ MOSCOVITA NEL DISCORSO POLACCO PREMODERNO
Simili erano le invettive che Filip Obuchowicz formulò contro Aleksej
Michajlovič nella memoria riferita all’anno 1653: “In quel tempo lo zar moscovita, secondo il costume di quel popolo fedifrago, avendo pronti gli eserciti, diede
manifesti segnali che stava per infrangere la pace perpetua che aveva giurata”25. I
timori espressi da Obuchowicz divennero realtà l’anno seguente, quando lo zar
si appropriò delle terre orientali della Repubblica senza alcuna dichiarazione di
guerra. Così lo scrittore commentò gli eventi, ricordando che i patti dell’anno
precedente erano stati sottoscritti dagli ambasciatori con solenne giuramento:
“Confermarono sotto giuramento gli ambasciatori che lo zar non sta pensando
alla guerra: ma questo popolo traditore la pensa in modo diverso. Lo zar infrange il giuramento perpetuo di suo padre Michail Fedorovič. Dio, vendica i nostri
torti su quel manifesto spergiuro!”26. Il carattere aleatorio e congiunturale dei
giuramenti fatti dai russi è confermato anche dall’ambasciatore Bernard Tanner
che accompagnò la missione a Mosca del 1678 capeggiata da Michał Jerzy Czartoryski e Kazimierz Jan Sapieha. Tanner era di origine ceca e prestò servizio in
Polonia solo per breve tempo. Si deve dunque ritenere che le osservazioni da lui
fatte nelle memorie scritte in latino (Legatio Polono-Lithuanica in Moscoviam,
Norimberga 1689) riflettano le sue personali impressioni e non gli stereotipi correnti in Polonia. Osservando lo svolgimento delle trattative, egli fra le altre cose
annotò:
Adeo inconstans et infidus est Moscorum animus, ut fidem iuramento publico firmatam
moventibus stomachum quibusdam scrupulis non plus ultra unam noctem servare potuerit. [...] Moscos non tantum in pactis plenisque iam iuramento frimatis vacillare, sed
et a toto velle recapitulare27.
E poi conclude:
25
“Pod ten czas car moskiewski, zwyczajem wiarołomnego narodu, wojska gotowe mając, dał
znaki jawne do złamania wiecznie poprzysiężonego pokoju”. Pamiętniki Filipa, Michała i Teodora Obuchowiczów (1630-1707), a cura di Henryk Lulewicz, Andrzej Rachuba, DiG, Warszawa
2003, p. 254.
26
“Utwierdzili to przysięgą posłowie, że o wojnie car nie myśli, ale zdradliwy naród inaczej czyni.
Łamie car przysięgę Bogu na wieki oddaną przez ojca swego Michajły Fedorowicza. Zemści się,
Boże, nad jawnym wiarołomcą krzywdy naszej!”. IVI, p. 255. Vale la pena notare che i frammenti
citati sono stati censurati nel XIX secolo da un funzionario zarista. Cfr. ALOJZY SAJKOWSKI, Nad
staropolskimi pamiętnikami, Uniwersytet im. Adama Mickiewicza, Poznań 1964, p. 7.
27
BERNARD TANNER, Legatio Polono-Lithuanica in Moscoviam, Norimbergae 1689, pp. 86, 87-88.
31
ROMAN KRZYWY
Mirabile, quod nil virtuosi aut morigeri, quodque verae pietatis alicuius speciem
praeferret, per spatium quindecim hebdomadarum animadvertere in Moscis potuerim.
Itaque deicere cogor esse plerumque subdolos, luxuriosos, fraudulentos, deceptores,
infideles, contentiosos, latrones et homicidas, ita ut si hominem spe lucri aut pecuniae
acquirendae occidant, et unicam candelam pro anima eius in templo accensam offerant,
iam absoluti et poenae immunes habeantur. Immunitas talis barbarie munita non nisi a
Tartaria inculta censenda est provenire confines siquidem etiam Tartaris 28.
In questo contesto appare un po’ eccentrica l’annotazione di Albrycht
Stanisław Radziwiłł secondo il quale i capi moscoviti avrebbero tirato per le lunghe la capitolazione di Smoleńsk nel timore della possibile onta che poteva loro
venire dalla rottura dell’armistizio durante l’interregno dopo la morte di Sigismondo III (1632). Più che la possibile onta, gli ambasciatori temevano sicuramente le repressioni da parte di Władysław IV29, o forse ancora di più l’ira dello
zar: i sovrani della Russia spesso consideravano la capitolazione come un tradimento, come accadde anche questa volta: il comandante in capo dell’esercito
russo Michail Šejn venne accusato di vari errori strategici e poi giustiziato.
L’osservatore ceco considerava quali evidenti manifestazioni della mala32
fede moscovita la rottura dei trattati sanzionati da giuramento, il rinnegamento
di accordi già raggiunti nelle precedenti trattative e i concomitanti soprusi che si
permettevano i boiari nei confronti della controparte. Tanner la cita (sott. la malafede) insieme agli altri difetti attribuiti all’intero popolo russo e attribuisce la
sua rozzezza alla vicinanza dei tatari. In molti casi gli scrittori polacchi spiegano
i costumi così lontani dalle norme europee con la bicentenaria dipendenza dei
principi russi dall’Orda d’Oro. Spesso essi ricordano la testimonianza di Długosz, secondo il quale la sottomissione nei confronti degli ambasciatori del Gran
Khan dimostrava che non si erano “tatarizzate” solo le classi dirigenti del Gran
Principato di Mosca, ma anche i suoi abitanti30.
28
IVI, pp. 105-106.
Cfr. ALBRYCHT STANISŁAW RADZIWIŁŁ, Pamiętnik o dziejach w Polsce, a cura di Adam Przyboś, Roman Żelewski, Państwowy Instytut Wydawniczy, Warszawa 1980, vol. 1, p. 361. Il magnate riferisce che la rottura del patto concluso a Deulin nel 1619 per la durata di 14 anni e mezzo era stata voluta dal patriarca Filarete, padre dello zar, al quale sarebbe comparso in sogno San
Nicola rassicurandolo che in futuro si sarebbe presentata un’occasione migliore per riconquistare Smoleńsk.
30
Cfr. GRZEGORZ FRANCZAK, op. cit., pp. 49-52; ROMAN KRZYWY, Wędrówki z Mnemozyne.
Studia o topice dawnego podróżopisarstwa, Muzeum Pałacu w Wilanowie, Warszawa 2013, pp.
49-55.
29
LA GRAECA FIDES E LA FALSITÀ MOSCOVITA NEL DISCORSO POLACCO PREMODERNO
I rappresentanti dell’Europa latina associavano l’inaffidabilità dei russi
anche alla loro tendenza alla confabulazione legata a un’orgogliosa presunzione,
che forse derivava addirittura da istruzioni date ai rappresentanti dello zar di far
gran mostra della loro ricchezza. Sembrerebbero confermare questa tendenza le
parole di Warszewicki nel manuale di istruzioni già menzionato:
Ridicula enim profecto cum quorundam aliorum populorum, tum maxime Moscovitarum spectatur ignorantia, qui si [...] domo efferunt pedem, vel una illa perpetua rerum
suarum iactatione molesti sunt audientibus et alias gentes atque nationes prae se ipsi
non obscure aspernantur. Romae cum stupenda illa aedificia eis monstrarentur, et num
simile aliquid alicubi vidissent, interrogarentur, multo se in Moscovia habere profitebantur rariora, ut et aliquando, quid conscientia esset quaesiti, in principis sui gaza eam
reperiri responderunt31.
Sono parole che hanno grande affinità con le osservazione del Tanner che notava con analoga ironia la capienza del tesoro dello zar:
Vulgus ducem suum in omnibus, quae dari possunt, rebus abundare proclamat patrio
adagio: “Wo kazni carskej wosseho wosseho mnoho!”, id est – in thesauro nostri Czari
omnium omnium rerum copia. Cumque nos ioci gratia Polonice interrogassemus: “Macieli wo kazni carzskiej choroby?” – habetisne in illo thesauro morbos, et alia absurda –
respondebant: […] “Plena omnia”32.
L’obbligo di esprimere elogi per Boris Godunov, i suoi figli e le ricchezze
del paese fu parte importante di un banchetto che Lew Sapieha offrì alla squadra che lo scortava sulla strada per Mosca. Il discorso di uno degli accompagnatori ci è stato tramandato da Pielgzrymowski. Agli ambasciatori vennero allora
fatte grandi lodi sulle montagne di rubini, sui fiumi auriferi, sulle straordinarie
costruzioni che superavano le sette meraviglie del mondo, e via dicendo. Persino
un altro membro della scorta espresse dubbi sui questi racconti e disse al compagno che essi non erano conformi a verità. L’oratore venne allora condannato
alla fustigazione33. Analoghe espressioni encomiastiche vennero registrate nella
31
KRZYSZTOF WARSZEWICKI, op. cit., p. 73.
BERNARD TANNER, op. cit., p. 76.
33
Cfr. ELIASZ PIELGRZYMOWSKI, op. cit., pp. 44-46. Peraltro pare che il cronista sapesse che il
tesoro dello zar poteva veramente essere considerevole grazie alle ricchezze trafugate durante la
conquista di Novgorod, dove i moscoviti “wozów trzysta złota jednego nabrali” (misero insieme
32
33
ROMAN KRZYWY
Rozmowa jednego Polaka z Moskwą na zamku moskiewskim anno 1601, in cui
una delle orazioni dei padroni di casa è stata riportata in un russo contaminato
dal polacco:
Di uomini, d’oro, d’argento, di cose preziose
Molte ne ha il gosudar’, anche di animali cornuti.
In un fiume troverai le sponde di rubino,
Nell’altro vedrai le rive di cristallo.
Chi può enumerare le sue ricchezze?
Lui abbonda di tutto e d’ogni singolo bene34.
Osservazioni di questo tipo contribuivano ad estendere gli stereotipi a
tutti i sudditi dello zar che certamente, trovandosi in presenza di stranieri, si
comportavano in modo particolare, vuoi per essere stati appositamente istruiti a
certi comportamenti, vuoi per ragioni più pragmatiche (desiderio di guadagno,
dimostrazione della propria superiorità, atteggiamento scherzoso nei confronti
dei nuovi arrivati che si trovavano sperduti in una realtà estranea, o altre ragioni
simili). Analoghi eventi e situazioni possono aver contribuito a diffondere
34
l’opinione che l’inclinazione alla menzogna fosse un difetto nazionale dei moscoviti, che venivano descritti con epiteti quali astuti, traditori, bugiardi.
Sono queste infatti le caratteristiche che assegna ai russi Pielgrzymowski,
lo scrittore in cui più forte si manifesta questo tipo di risentimento. Egli tuttavia
non era isolato. In modo analogo, in un pamphlet guerrafondaio che porta il titolo Kolęda moskiewska (1609), Paweł Palczowski armeggiava con le sue invettive antimoscovite, fra le quali non potevano mancare le osservazioni sulla natura
fedifraga di quel popolo che esprimeva con domande retoriche quali: “Potrà
trovarsi sotto il sole una nazione peggiore e più traditrice di questa? È una stirpe
umana, o piuttosto di vipere e serpi?”35.
trecento carri riempiti di solo oro). IVI, p. 174. Dei tesori di Novgorod scrivevano allora quasi
tutti coloro che si occupavano della problematica moscovita e consideravano come un fatto accertato che essi fossero molto grandi. Cfr. ROMAN KRZYWY, op. cit., pp. 64-69.
34
“Ljudej, złota, serebra i krusców ws’jakich / Mnogo majet hospodar i zwirow rohatich. / W
rece odnoj berehi znajdziesz rubinowe, / A u druhoj bez mała budut kriształowe. / Da chto
możet wyliczyt wieliczestwo jeho, / On bohat na wsia czynu, krepko mnoho wseho”. Rozmowa
jednego Polaka z Moskwą na zamku moskiewskim anno 1601, ms. della Biblioteca dei Raczyński,
segn. 137, f. 161v. Non è escluso che autore del dialogo sia stato lo stesso Pielgrzymowski, ma
poteva essere anche un altro membro dell’ambasceria.
35
PAWEŁ PALCZOWSKI, Kolęda moskiewska, a cura di Grzegorz Franczak, Neriton, Warszawa
2010, p. 96. Cfr. anche pp. 130-131.
LA GRAECA FIDES E LA FALSITÀ MOSCOVITA NEL DISCORSO POLACCO PREMODERNO
Simili etichette si trovano in ambito internazionale già nei Rerum Moscoviticarum commentarii di Sigmunt von Herberstein, che nel 1600 aveva già avuto
20 ristampe (fra cui traduzioni in tedesco, italiano e inglese) ed ebbe un’enorme
influenza sull’opinione pubblica. L’opera servì da fonte per una serie di altre descrizioni della Moscovia, fra cui ricorderemo il non meno noto Alessandro Guagnini, divenuto nobile polacco per i meriti guadagnati nelle varie guerre, autorecompilatore della famosa Sarmatiae Europeae descriptio (1578, 1581, 1582,
1584)36, e Giovanni Antonio Magini con la sua Geographiae universae opus
(1596, 1597, 1608, 1617, traduzione italiana: 1598, 1621)37.
Ripresa frequentemente dalla trattatistica europea, questa caratteristica
attribuita alla natura russa già nel XVI secolo si diffuse come una verità accertata. A volte si esprimeva in forma d’invettiva, seguendo la tipologia di un Pielgrzymowski o Palczowski, in altri casi assumeva forme pur sempre emotivamente vivaci, ma apparentemente più oggettive. Così fu ad esempio nelle pagine delle
memorie del cortigiano Stanisław Niemojewski, internato in Russia dopo i sanguinosi scontri durante il matrimonio del Falso Demetrio con Maryna Mniszech che
portarono all’assassinio dello sposo. Con l’elezione di Vasilij Šujskij a nuovo zar, ai
prigionieri giunse la notizia che presto avrebbero potuto tornare a casa, ma in
realtà dovettero aspettare ancora molti mesi prima di poter lasciare l’odiato paese.
In questo comportamento Niemojewski vedeva appunto una prova dell’innata
falsità di tutti i russi e aggiungeva questo commento alle sue affermazioni:
Non solo non si guardano dalla menzogna (peccato sì turpe e vile), ma al contrario, se ne
vantano pure, e quando uno dice all’altro: “Dicesti il falso”, quello dapprima giurerà sulla
Santa Croce e si farà il segno confermando ciò che disse, e solo quando si renderà conto di
essere nel torto, l’ammetterà e senza alcun pudore dirà: “Ho mentito”. E quest’usanza vige
anche tra i nobili, non solo tra plebei. Similmente, accusarsi l’un l’altro di menzogna non
comporta alcuna onta. Allo stesso gosudar’ dicono i bojari: “Gran principe, zar, gosudar’ di
36
Cfr. GRZEGORZ FRANCZAK, op. cit., p. 58, nota 44.
Dei russi Magini scriveva: “Sono parimenti astuti, fallacissimi, e di caduca fede, specialmente
ne’ contratti, di che sono anch’essi medesimi consapevoli; onde quando traficano con esterni
non si dichiarano Moscoviti, ma si fingono d’altri paesi”. La Seconda Parte della Geografia di CL.
Tolomeo, la quale, oltre l’Antiche Tavole d’esso Tolomeo, contiene le Moderne ancora, che mostrano la faccia di tutta la Terra, infino a questa nostra età conosciuta, intagliate da Girolamo Porro
insieme con le loro copiosissime esposizioni fatte dall’eccellentiss.mo Signor. Gio. Antonio Magini
Padovano lettore delle matematiche nel pubblico studio di Bologna. Tradotte dal R. D. Leonardo
Cernoti Vinitiano canonico di S. Salvadore, in Padova, MDCXX, appresso Paolo, & Francesco
Galignani Fratelli.
37
35
ROMAN KRZYWY
tutta la Rus’, mentisti!” Ma di recente Demetrio vietò loro di rivolgerglisi in questo modo,
vergognandosi dei nostri. Sopportarono male quel divieto e chiesero: “Ordunque che cosa
dovremmo dire, o gosudar’, zar, gran principe di tutta la Rus’, qualora mentirai?”. Promise
loro di non mentire, e quindi non avrebbero avuto bisogno di farglielo notare. Ma mi pare
che lui non mantenne la promessa fatta loro, e nemmeno loro a lui il giuramento38.
La Moscovia divenne oggetto di descrizione corografica relativamente
tardi. Solo a partire dalla fine del XV secolo essa aveva cominciato a svolgere un
ruolo degno di nota nella politica e nell’economia della parte orientale del continente europeo, attirando l’attenzione di geografi, storici, diplomatici e pubblicisti. Con la guerra o con l’inganno, i suoi sovrani avevano progressivamente
esteso il loro dominio alle terre lituane (o alleate al Granducato di Lituania) sulle quali gli Jagelloni non erano riusciti a mantenere il proprio potere, e ai khanati sorti dopo lo sfaldamento dell’Orda d’Oro. Col tempo si aggiunsero la Siberia
e le aree a nord del Caucaso. All’ampliamento delle frontiere seguiva inevitabilmente l’organizzazione di rapporti diplomatici con le corti dei paesi europei e con
il Vaticano (lo Stato della Chiesa pensava a due mete strategiche nell’evoluzione
36
dei rapporti con Mosca: l’inclusione di Mosca nei progetti di una lega antiottomana e la sottomissione della Chiesa ortodossa alla giurisdizione del papa). Si
permise anche ai mercanti occidentali di svolgere i loro commerci entro i confini
dei vasti territori russi, benché gli stranieri non potessero muoversi liberamente
e dovessero sempre essere scortati dai rappresentanti del potere, che facevano di
tutto affinché i viaggiatori non vedessero troppe cose.
L’apparizione in Europa di un nuovo attore suscitò notevole interesse,
ma nessun compendio geografico poteva all’inizio soddisfare la curiosità dei let38
“Nie tylko żeby się kłamstwa (tak sprośnego grzechu i sromoty) wystrzegać mieli, ale owszem,
sami się jakoby tem chełpią i kiedy któremu rzecze: ‘Żeś płonną rzecz powiedział’ – naprzód
przysięgać się będzie na krzyż święty, żegnając się, twierdząc to, co powiedział, a jako go dońdzie, że przecie inaczej jest, niż on twierdzi, na ostatek przyzna się i bez wszelakiego zapłonienia
rzecze: ‘Zełgał ja’. A ten zwyczaj zachowuje się między przedniejszemi, nie tylko między pospólstwem. Jeden też drugiemu zadać takie kłamliwe słowo – sromoty żadnej nie masz. Hospodarowi
samemu mawiają bojarowie: ‘Wielkij kniaziu, caru, hospodaru wsieha Rusi, zełgał ty’. Ale taraz
zakazał jem beł Dymitr, aby mu tak nie mawiali, wstydząc się naszych. Barzo jem to ciężki beł
zakaz i pytali się: ‘A jakoż ci mówić, hosudaru, caru, wielkij kniaziu wsieha Rusi, kiedy zełżesz?’.
Obiecał jem to beł, że łgać nie miał: ‘A zatym też nie będzie mi tak trzeba mówić’. Aleć zda mi
się, żeć jem słowa nie dodzierżywał, ale i oni mu też przysięgi”. STANISŁAW NIEMOJEWSKI, Diariusz drogi spisanej i różnych przypadków pociesznych i żałosnych prowadząc córkę Jerzego Mniszka, Marynę, Dymitrowi Iwanowiczowi w roku 1606, a cura di Roman Krzywy, Wydział Polonistyki Uniwersytetu Warszawskiego, Warszawa 2006, p. 116; cfr. anche pp. 258-259.
LA GRAECA FIDES E LA FALSITÀ MOSCOVITA NEL DISCORSO POLACCO PREMODERNO
tori. Non c’erano informazioni sulla posizione del paese, sulla sua grandezza e su
quella delle regioni o dei principati di cui era costituito, sulla sua storia, sulle risorse naturali, sulle origini, sui costumi e sul carattere dei suoi abitanti, sulle
strutture e la potenza militari, sulle città più importanti, le vie di comunicazione,
l’accesso ai mari, le relazioni con gli altri popoli, e via dicendo. Mancavano dunque tutte quelle informazioni che in genere ci si aspettava dalle descrizioni corografiche o dalle relazioni di viaggio che si pubblicavano nel XVI secolo. Il primo
compendio significativo che dava notizie sullo stato moscovita è, come s’è detto,
la relazione del barone von Herberstein, che raccolse e sistematizzò le notizie allora accessibili (fra l’altro servendosi dei libri degli storici polacchi), integrandole con le osservazioni proprie e con informazioni apprese da altri. Vari argomenti che Herberstein trattò in relazione alla Russia divennero dei veri e propri topoi
che gli scrittori successivi amalgamarono in un complesso relativamente omogeneo, generalmente sotteso di astio, in un discorso a volte persino impregnato di
odio e basato su un senso di superiorità che si dava per scontata in partenza39.
Uno di questi topoi era quello della falsità che avrebbe contraddistinto il
carattere nazionale dei suoi abitanti, la loro inclinazione alla menzogna che venne rapidamente identificata con la Graeca fides. Questo topos funzionava sia come parola d’ordine isolata, sia in più ampie costruzioni che includevano aggiunte erudite, come fu ad esempio per Pielgrzymowski, che intendeva conferire al
luogo comune una patina dotta. Colpisce la varietà dei tipi di discorso che spaziavano da un manuale di diplomazia alla corrispondenza privata, a dichiarazioni pubblicistiche, a opere memorialistiche (vuoi destinate alla stampa, vuoi conservate in archivi di famiglia), a opere poetiche o propagandistiche, a opere geografiche e didattiche oppure a documenti. Tutti insieme creavano un discorso
antimoscovita che ricalcava sempre lo stereotipo caratteristico del modo di pensare degli abitanti della Repubblica polacco-lituana, la cui storia era strettamente
legata alla potenza che cresceva ad est, ma anche alla coscienza europea. Indipendentemente dalla forma in cui esso veniva enunciato, il topos permetteva di
esprimere in modo lapidario, senza necessità di ulteriore dimostrazione, sia
un’opinione negativa sul tema delle abitudini dominanti nel regno degli zar (ed è
questa l’espressione più piena dello stereotipo), sia la conferma che veniva dalle
39
Sulla formazione del discorso europeo sullo stato russo, cfr. ROMAN KRZYWY, op. cit., pp. 4751, 69.
37
ROMAN KRZYWY
narrazioni memorialistiche dei testimoni oculari che offrivano esempi concreti
della verità insita nello stereotipo stesso.
[Traduzione dal polacco di Giovanna Brogi Bercoff e Grzegorz Franczak]
38
ELWIRA BUSZEWICZ
Ad fontem Sonam (Ep 2) Macieja Kazimierza Sarbiewskiego.
Opowieść o źródłach
«pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», (VI) 6, 2015, pp. 39-55
ABSTRACT
The aim of this study is to discuss the rhetorical strategies and literary sources in
Epode 2, Ad fontem Sonam. In patrio fundo, dum Roma rediisset by Maciej Kazimierz Sarbiewski
(Casimir). It opens the possibility of an intertextual reading of the text (Catullus 31, Horace III
13, Ovid Metamorphoses III (407-417). My thesis is that the text, like the Horatian ode, demands a metapoetic reading. The “source Sona” and its waters, wherever located in fact, stand
for an allegory of poetic inspiration, to be identified, again as in Horace, with both the poet and
his poetry, but probably also with God’s grace. Thus the image of the poet’s motherland takes
on a symbolic dimension and may be understood as an expression of the poetic identity of his
own, a hallmark of the poet and of his individuality. In this way the poem becomes a kind of
prayer and a performative act of speech.
39
KEYWORDS
Sarbiewski’s poetry, intertextuality in Neo-Latin poetry, metapoetic poetry
1. „Sona prawie wszędzie się znajduje”. Miejsca, słowa i sensy
U
twór Macieja Kazimierza Sarbiewskiego Ad fontem Sonam umieszczony
został przez poetę na drugim miejscu w zbiorze epod. Sytuację liryczną
wiersza wyznacza powrót do ojczyzny po niespełna trzyletnim pobycie
w Wiecznym Mieście1. Powitanie z ziemią ojczystą było zarazem przypieczętowaniem pożegnania z Rzymem, przymusowej „prowincjalizacji”, zmiany perspektywy. Nie wiemy dokładnie, kiedy powstał utwór. Nie musiał wcale być zapisem doświadczenia „na gorąco”, choć można tak uważać, gdy się potraktuje
tekst literacki jako źródło historyczne (co, jak wiadomo, bywa zwodniczą pułap1
Por. JAKUB ZDZISŁAW LICHAŃSKI, PIOTR URBAŃSKI, Kalendarium, [w:] MACIEJ KAZIMIERZ
SARBIEWSKI SJ, Wybór wierszy, oprac. Jakub Zdzisław Lichański, Piotr Urbański, WAM, Kraków 1995, s. 29. Doświadczenia rzymskie odcisnęły niezatarte piętno na kulturze umysłowej
Sarbiewskiego i odegrały wielką rolę w jego twórczym rozwoju, por. MAGDALENA PISKAŁA,
DOROTA SUTKOWSKA, Wprowadzenie do lektury, [w:] MACIEJ KAZIMIERZ SARBIEWSKI, Epigrammatum liber / Księga epigramatów, przeł. i oprac. Magdalena Piskała, Dorota Sutkowska,
IBL, Warszawa 2003, s. 6.
ELWIRA BUSZEWICZ
ką)2. Powróciwszy z Rzymu, Sarbiewski rzeczywiście, zwlekając z udaniem się na
trzecią probację zakonną do Nieświeża, zabawił kilka miesięcy na rodzinnym
Mazowszu3. Rzeka Sona, będąca dopływem Wkry, jest częścią północnomazowieckiego pejzażu, ale w samym tekście poety próżno szukać zbyt wielu, poza
topolami, jego elementów (bardziej charakterystyczne byłyby zapewne rosochate
wierzby). Nie deskrypcja konkretnego miejsca na ziemi jest zatem celem Sarbiewskiego jako autora tej epody, lecz swoista kreacja tego miejsca i umieszczenie go na mapie poetyckiej. Podczas lektury może narzucić się myśl, że rzeka
Sona i jej źródło zyskują w utworze Sarbiewskiego nowy wymiar, stając się po
trosze czymś innym, niż są. Ujęła to lapidarnie Eugenija Ulčinaitė, stwierdzając,
że „mała rzeka Sona płynąca przez wieś Sarbiewo” zyskuje w tym wierszu nowe
barwy i zalety, urastając „do rangi symbolu jako źródło poetyckiego natchnienia”4. Właściwie jest nieco inaczej – z jednej strony źródło opiewane przez Sarbiewskiego należy do pewnego stopnia utożsamiać z liryczną weną i rodzącą się
z niej twórczością, z drugiej – to poeta jest kreatorem źródła, uobecniając je poprzez tekst w świecie tradycji literackiej.
Elementy mitologii poetyckiej w Ad fontem Sonam mają tym większą
40
przewagę nad światem naśladowanej natury, że przez Sarbiewo przepływa Raciążnica, a nie Sona. Miłośnicy Sarbiewskiego i Mazowsza szukają nieraz dzisiaj
w przestrzeni fizycznej śladów przedstawionej czy wykreowanej przez poetę rzeczywistości, przyglądają się mazowieckim rzekom i źródłom i na różne sposoby
konfrontują ich bieg z tym, co o nich napisano. Podążmy za jedną z takich podróży, a raczej za jej zapisem rejestrującym konfrontację świata materialnego z
tekstowym:
2
Zob. np. IGNACY KRASICKI, O rymotwórstwie i rymotwórcach. Dzieła Krasickiego. Dziesięć tomów w jednym, Barbezat, Paris 1830, s. 218: „Przebywając już góry karpackie złożył pieśń, którą
czytamy w księdze czwartej, drugą gdy miejsce urodzenia swojego obaczył”; TERESA KACZOROWSKA, Maciej Kazimierz Sarbiewski SJ na Mazowszu, Związek Literatów Polskich, Oddział w Ciechanowie, Ciechanów 2005, s. 26: „Zachwycony pięknem kryształowej, skrzącej się Sony […],
napisał w uniesieniu i w podzięce doskonałemu Stwórcy pieśń Ad Fontem Sonam”.
3
KRZYSZTOF DOROSZ, Twórczość ks. M. Sarbiewskiego okiem teologa, [w:] Duchowy syn Ignacego Loyoli. Maciej Kazimierz Sarbiewski SJ i jego twórczość. Studia i materiały, pod red. Jakuba Z.
Lichańskiego i Teresy Kaczorowskiej, Akademia Humanistyczna im. A. Gieysztora, PułtuskSarbiewo 2015, s. 83.
4
EUGENIJA ULČINAITĖ, Między Pułtuskiem a Wilnem: Przedstawienie ziemskiej i niebieskiej ojczyzny w poezji Sarbiewskiego, [w:] Pułtuskie kolegium jezuickie. Ludzie i idee, pod red. Jakuba
Zdzisława Lichańskiego, Wyd. WSH w Pułtusku, Warszawa-Pułtusk 1996, s. 101.
AD FONTEM SONAM (EP 2) MACIEJA KAZIMIERZA SARBIEWSKIEGO
Sona, niewielka rzeka przepływająca przez mazowiecką równinę. Wiele razy przejeżdżałam mostem nad jej nurtem w Kołaczkowie, nieopodal Ciechanowa. W tym miejscu
ostro zmieniała swój bieg ze wschodniego na południowy, powracając do kierunku zachwianego na przeciąg jednego czy dwóch kilometrów. Wyjeżdżając ze wsi, jeszcze raz
widziałam jej porośnięte brzegi i kolejny most na drodze. Kilkanaście lat później odkryłam, […] że strugę o takiej samej nazwie przed czterema setkami lat uwiecznił w odzie
Maciej Kazimierz Sarbiewski. Nazwa ta sama, ale rzeka nie: rzeka poety to Raciążnica.
Nic w tym dziwnego: Pełtę, nad którą mieszkałam przez lat piętnaście i co roku obserwowałam jej wiosenne rozlewiska, również nazywano Soną. Co prawda rzeka Sarbiewskiego znajduje się po drugiej stronie Wkry, ale może spostrzeżenia uczynione w Słowniku Królestwa Polskiego: „smugi te także zowią Soną, tak iż w płd. części powiatu ciechanowskiego S[ona] prawie wszędzie się znajduje, gdzie tylko łąkami woda przepływa”, pomogą w zrozumieniu fenomenu określania różnych rzek tym samym mianem5.
Słownik geograficzny z XIX wieku prowadzi zatem naszą myśl w kierunku zwyczajowego nazewnictwa, każąc się dopatrywać źródeł inwencji poety w
powszechnie używanych i zadomowionych z dawien dawna metonimiach. Ten
sam Słownik pokazuje nam jednak również, jak mgliście jawi się w przestrzeni
materialnej ta rzeka, której „dopływy […] przechodzą w smugi łąkowe”, która
„prawie wszędzie się znajduje, gdzie tylko łąkami woda przepływa i stąd pochodzi trudność wskazania jej źródeł”6. Tak naprawdę jednak nie jest istotne, które (i
czy na pewno) ze źródeł bijących z mazowieckich równin miał Sarbiewski na
myśli. „Fons Sona” z wiersza Sarbiewskiego podlega bowiem opisowi należącemu nie tyle do geografii, co do topografii poetyckiej7 – jest elementem pejzażu
kreowanego i nazywanego podczas tworzenia tego tekstu. Innymi słowy – źródła
Sony należy szukać przede wszystkim w przestrzeni literackiej. W niej zostało
powołane do istnienia i z niej czerpie swe wody.
Historycy literatury zdawali sobie z tego sprawę już dawniej, lecz było to
w czasach, w których intertekstualna gra w poezji, nienazywana tak jeszcze,
uważana była za jej defekt, gdyż badacze za najważniejsze wartości utworów literackich uważali „powiew świeżości” czy „nuty rodzime”8. Julian Krzyżanowski9
5
EWA GRYGUC, Wieniec laurowy dla poety, [w:] «Ciechanowskie Zeszyty Literackie», 8, 2006, s.
115.
6
Słownik geograficzny Królestwa Polskiego i innych krajów słowiańskich, pod red. Filipa Sulimierskiego, Bronisława Chlebowskiego i Władysława Walewskiego, nakł. W. Walewskiego, t.
11, Warszawa 1890, s. 73.
7
Por. JOSEPH HILLS MILLER, Topographies, Stanford University Press, Stanford 1995, s. 20.
8
Zwrócił na to uwagę STEFAN ZABŁOCKI, Poezja polsko-łacińska wczesnego renesansu. Wybrane
41
ELWIRA BUSZEWICZ
zatem umieścił epodę Sarbiewskiego pośród utworów „chłodnych” i „akademicko popisowych”10 i wypowiedział się o niej z protekcjonalnym dystansem:
Pieśń do Sony nie jest utworem oryginalnym. Sarbiewski poszedł w ślady Katulla i Horacego, oddając wyższość pierwszemu. Nie ma jednak u naszego poety tej dziecinnej radości, z którą młody liryk rzymski witał ukochane jezioro Sirmio, „peninsularum insularumque ocellum”, z jaką spoglądał na fal jego słoneczne „cachinni" – uśmieszki; Sarbiewski powtarza wprawdzie „ocelle natalis soli”, wiersz jednak nie dzwoni radością i
upojeniem – jest nazbyt robiony, sztuczny11.
Nietrudno znaleźć źródła tekstowe12 ody ad fontem Sonam, ponieważ autor sam je wskazał w ostatnim dystychu:
Olim fluenti lene Blandusiae nihil
Aut Sirmioni debeas13. [ww. 19-20]
Sarbiewski wybiera występującą w niektórych przekazach lekcję nazwy
42
zagadnienia, [w:] Problemy literatury staropolskiej, seria druga, Ossolineum, Wrocław 1973, ss.
7-102. Znamienna tu zwłaszcza uwaga na s. 13, przywołująca kryteria Tadeusza Sinki, według
których na najwyższą ocenę pośród wczesnych polskich poetów humanistycznych zasługiwać
miał Klemens Janicjusz, gdyż uczony dojrzał u niego „umiejętność dania wyrazu subiektywnym
uczuciom”, pozostali zaś poeci okazywali się „zimnymi formalistami, zdolnymi co najwyżej do
zabawy z formą poetycką, nie zaś do tworzenia nowych wartości literackich”. Na s. 20 badacz
zwraca też uwagę na odziedziczony po tradycji romantycznej stereotyp poety łacińskiego jako
„obcego kulturze narodowej”.
9
Jak podkreśla Zabłocki, Krzyżanowski z jednej strony wskazał na ważność poezji polskołacińskiej jako pośredniczki między tradycją europejską a rodzimą, jako swego rodzaju wzorcamatrycy przygotowującego grunt pod wyrażanie myśli i idei w języku wernakularnym, z drugiej
zaś ugruntował przekonanie o służebnej roli tej twórczości, tak że od momentu intensywniejszego rozwoju dawnej poezji polskiej „literatura nowołacińska całkowicie przestaje interesować polonistę”. Tamże, ss. 30-31.
10
JULIAN KRZYŻANOWSKI, Ze studiów nad Sarbiewskim (‘Silviludia’), [w:] IDEM, Od średniowiecza do baroku. Studia naukowo-literackie, Rój, Warszawa, 1938, s. 301.
11
Tamże.
12
Intertekstualną lekturę Ep 2 podejmowali już po części różni badacze, najbardziej interesująco
jednak czyni to AUDE LEHMANN, Paysage d’Horace dans l’oeuvre de Sarbiewski (sur la base de
l’Epode II „A la source Sona”, [w:] Sarbiewski. Der polnische Horaz, oprac. Eckart Schäffer,
Gunter Narr Verlag, Tübingen, 2006, ss. 49-70. Warto odnotować, że zwraca się tam uwagę na
jeszcze jedno przywołane w aluzji źródło tekstowe: wers Lukrecjusza I 1 (czy raczej jego połowę:
„hominum divomque voluptas”). Tamże, s. 66.
13
„Nic od Blanduzji płynącej miło / I od Sirmiony gorsze nie będziesz”. MACIEJ KAZIMIERZ
SARBIEWSKI, Ad fontem Sonam. In patrio fundo, dum Roma rediisset, [w:] IDEM, Lyrica quibus
accesserunt Iter Romanum et Lechiades fragmentum / Liryki oraz Droga rzymska i fragment Lechiady, edycja dwujęzyczna, przekł. Tadeusz Karyłowski, oprac. Mirosław Korolko przy współudziale Jana Okonia, Pax, Warszawa 1980, s. 448. Dalej bez odnotowania cytuję według tej edycji.
O ile nie zaznaczono inaczej, przekłady są mojego autorstwa.
AD FONTEM SONAM (EP 2) MACIEJA KAZIMIERZA SARBIEWSKIEGO
Horacjańskiego źródła, Blandusia, zamiast częściej przyjmowanej współcześnie
Bandusia. Może się to wydawać znaczące, gdyż Blandusia nasuwa skojarzenie z
łacińskim blandum (‘coś miłego, powabnego’), co tym ważniejsze, że sam utrwala w poezji nazwę swego źródła jako Sona, co z kolei ewokuje skojarzenie z łacińskim sonare (‘dźwięczeć, brzmieć’).
Poeta odnosi się do tradycji, z której korzysta, nieco przekornie; zwraca
na nią uwagę, lecz zarazem się od niej odcina – można by powiedzieć za Haroldem Bloomem, że widzimy tu ślad „lęku przed wpływem”, troskę o to, aby w
utworze polifonicznym, „zrobionym” z innych tekstów (poezja nowołacińska ma
wiele wspólnego z mozaiką), zabrzmiał głos własny, żeby umarli poeci nie przytłumili nowej indywidualności twórczej, żeby udało się spłacić zaciągnięte długi i
zgromadzić własny kapitał. Krzyżanowski widzi w tym wierszu raczej klęskę poety, „powrót zmarłych” z gatunku tych, – powiedzielibyśmy dzisiaj – które nie
przynoszą chluby nowemu twórcy i zwracają naszą uwagę na silnego prekursora14. Zatem – według badacza – na wierszu Ad fontem Sonam kładzie się blady
cień Horacego, prześwieca spod niego jakiś papierowy Katullus, a to odkrycie
rodzi przykre rozczarowanie, że Sarbiewski nie ma w sobie tyle życia, bo palimpsest jest nadto czytelny, i że nie potrafi wyrazić po łacinie „dziecinnej radości” (jakby akurat na tym miało mu szczególnie zależeć).
(Po)nowoczesna filologia czerpie więcej przyjemności z odkrywania gier
intertekstualnych. Jak zauważa Jonathan Culler, „współcześni teoretycy twierdzą, że dzieła tworzone są z innych dzieł: ich powstanie możliwe jest dzięki dziełom wcześniejszym, do których nawiązują, z którymi polemizują, które powtarzają bądź przetwarzają”15. Ma to doniosłe konsekwencje w dziedzinie filologicznej epistemologii, bo lektura intertekstualna, czyli „odczytywanie wiersza jako dzieła literackiego” rodzi „konieczność szukania jego związków z innymi
utworami poetyckimi, porównania i zestawiania sposobu, w jaki tworzy się jego
sens, ze sposobami stosowanymi w innych wierszach”16. Prowadzi to często ku
metapoetyckiemu czytaniu utworu, gdyż „przy lekturze powieści (albo wiersza)
zawsze może nasunąć się pytanie o to, w jakim stosunku pozostaje to, co dzieło
14
Por. Harold Bloom, Lęk przed wpływem. Teoria poezji (tyt. oryg. The Anxiety of Influence. A
Theory of Poetry), przeł. Agata Bielik-Robson i Marcin Szuster, Universitas, Kraków 2002, s.
183.
15
JONATHAN CULLER, Teoria literatury. Bardzo krótkie wprowadzenie (tyt. oryg. Literary Theory.
A Very Short Introduction), przeł. Maria Bassaj, Prószyński i S-ka, Warszawa, 1998, s. 44.
16
Tamże, s. 45.
43
ELWIRA BUSZEWICZ
mówi pośrednio o nadawaniu znaczeń, do sposobu, w jaki ono samo nabiera
sensu17.
Zobaczmy zatem, czy oda Sarbiewskiego nabierze dla nas nowego sensu,
gdy przeczytamy ją w kontekście analizy jej archetekstów wskazanych przez samego poetę. Podążmy więc ad fontes.
2. Źródła tekstowe – teksty źródłowe
2.1 Cum mens onus reponit. Powabna Sirmio
Jak mogliśmy zauważyć, już Krzyżanowski, wskazując prekursorów epody Ad fontem Sonam, przyznał pierwszeństwo poecie z Werony. Sirmio, do której skierowany jest wiersz Katullusa opatrzony numerem 31, wymieniona została
wprawdzie przez Sarbiewskiego dopiero w ostatnim wersie utworu, lecz powinowactwa, wiążące oba teksty, są bardzo liczne. Dotyczą zarówno metrum (u
Katullusa są to choliamby, u Sarbiewskiego – dystych epodyczny złożony z trymetrów i dymetrów jambicznych18), jak i sytuacji lirycznej. W obu przypadkach
pojawia się tu obraz strudzonego wędrowca, witającego drogie rodzinne strony i
uwalniającego się od brzemienia trosk (apostrofa ocelle w jednym i drugim przy44
padku sugeruje zarówno silną więź emocjonalną, jak i przypisywanie krajobrazowi, o którym mowa, wielkiej wartości).
Wiersz Katullusa, jak świadczą o tym współczesne interpretacje, nie jest
wcale spontanicznym zapisem „dziecinnej radości”. W swej pozornej prostocie
ma kunsztowną strukturę19 i można go czytać na wiele sposobów.
Paene insularum, Sirmio, insularumque
ocelle, quascumque in liquentibus stagnis
marique uasto fert uterque Neptunus,
quam te libenter quamque laetus inviso,
vix mi ipse credens Thyniam atque Bithynos
liquisse campos et videre te in tuto.
o quid solutis est beatius curis,
17
Tamże.
Oczywiście dystych epodyczny należy wiązać przede wszystkim z epodami Horacego. Można
jednak powiedzieć, że Sarbiewski umieszczając swój tekst pośród epod, dokonuje czegoś podobnego jak Katullus, wybierając dla wiersza opisującego słodycz powrotu do domu metrum
cholijambiczne, w poezji Kallimacha używane dla wyrazu jawnego ataku lub drwiny.
19
Erudycyjne aluzje i inspiracje dawniejszą literaturą grecką i rzymską wskazuje CHRISTIAN JAMES FORDYCE, Catullus. A Commentary, Oxford University Press, Oxford 1990, ss. 167-171.
18
AD FONTEM SONAM (EP 2) MACIEJA KAZIMIERZA SARBIEWSKIEGO
cum mens onus reponit, ac peregrino
labore fessi venimus larem ad nostrum,
desideratoque acquiescimus lecto?
hoc est quod unum est pro laboribus tantis.
salue, o venusta Sirmio, atque ero gaude
gaudente; vosque, o Lydiae lacus undae,
ridete quidquid est domi cachinnorum20.
Sytuacja liryczna wiąże się z rokiem 56 p.n.e., z czasem powrotu poety z
Bitynii, dokąd podróżował w orszaku Gajusza Memmiusza, na półwysep Sirmio
(dziś Sirmione) nad jeziorem Garda (łac. Lacus Benacus), gdzie miał swą posiadłość. W inicjalnej części tekstu pojawia się nazwa półwyspu, po której następuje apostrofa ocelle wyrażająca za pomocą kolokwializmu silne i tkliwe uczucie.
Choć niektórzy interpretując ten wiersz mówią o „jeziorze Sirmio” z wiersza Katullusa wynika wyraźnie, że chodzi o „oko” lądu pośród wód, a nie odwrotnie.
Pejzaż ten koresponduje z centralną częścią utworu, w której radość powrotu w
domowe pielesze może się kojarzyć z sytuacją żeglarza, widzącego wreszcie ląd
po długiej wędrówce przez morze. Na obszarze „małej ojczyzny” dokonuje się
wreszcie oswojenie żywiołu wodnego i połączenie w harmonijną całość ziemi i
wody. Badacze zwracają uwagę na silnie wyczuwalny erotyzm tego tekstu, obecny między innymi w wizji łoża czy w epitecie venusta Sirmio, mającym dla poety
wyraźny związek z Wenus21; relacja podmiotu mówiącego z przestrzenią rodzimą
staje się tu relacją miłosną, połączoną z nasyceniem i ukojeniem, co nabiera tym
głębszej wymowy, jeśli weźmie się pod uwagę, że utwór powstał w czasie, kiedy
burzliwy związek z „Lesbią” był już definitywnie skończony22. Poeta, który przeżył niedawno śmierć brata, obciążony wielu troskami, zwraca się do swej ziemi
używając podobnych słów-kluczy, jak w wierszach do Calvusa czy Veraniusa.
Uruchamia się tu subtelna gra, wiążąca się z wizją trudnej dziś do uchwycenia w
20
„Sirmio, klejnocie wysepek, półwyspów, / Jakie wśród jezior, nieruchomych stawów / Lub w
morzu dzierżą obaj Neptunowie, / Jaka to radość oglądać cię znowu! / Nie śmiem uwierzyć: rzuciłem nareszcie / Bityńskie pola i przygnałem – tutaj! / Beztroskie serce – czy jest większe szczęście?
/ Gdy z serca kamień po pielgrzymim trudzie / Gdy przed ołtarze wracamy znajome / I znów we
własnym spoczywamy łóżku! / Oto nagroda po długiej wędrówce. / Witaj więc, wdzięczna Sirmio,
mym powrotem / Raduj się, ciesz się, lidyjskie jezioro, / Śmiejcie się, śmiechy, w każdym kącie domu”. KATULLUS, Poezje wszystkie, przeł. Grzegorz Franczak i Aleksandra Klęczar, Homini, Kraków, 2013, ss. 290-291.
21
JAMES FORDYCE, dz. cyt., s. 169.
22
MICHAEL C.J. PUTNAM, Poetic Interplay: Catullus and Horace, Princeton University Press,
Princeton 2006.
45
ELWIRA BUSZEWICZ
swej istocie formy przyjaźni, z trudnym do rozdzielenia połączeniem dyskursu
erotycznego z metapoetyckim23. Istotne wydaje się zwłaszcza, że wszystkie ważniejsze emocje i intencje koncentrują się wokół małej przestrzeni ziemi ojczystej,
upersonifikowanej i uczynionej przedmiotem miłości, nierozerwalnie związanej z
poezją.
2.2 Me dicente… Wymowne źródło Banduzji
W wierszu Horacego Do źródła Banduzji (C III 13) widać wyraźnie grę z
konstrukcją hymnu. Można oczywiście rozumieć ten tekst jedynie na poziomie
powierzchni, stwierdzając że powstał on w wigilię święta ku czci źródeł i oddaje
cześć źródłu Banduzji, znajdującemu się w posiadłości wiejskiej poety24:
O fons Bandusiae splendidior vitro
dulci digne mero non sine floribus,
cras donaberis haedo,
cui frons turgida cornibus
primis et venerem et proelia destinat;
frustra: nam gelidos inficiet tibi
46
rubro sanguine rivos
lascivi suboles gregis.
te flagrantis atrox hora Caniculae
nescit tangere, tu frigus amabile
fessis vomere tauris
praebes et pecori vago.
fies nobilium tu quoque fontium
me dicente cavis impositam ilicem
saxis, unde loquaces
lymphae desiliunt tuae25.
23
ROBERT BAKER, Catullus and Sirmio, [w:] «Mnemosyne», 36, 1983, s. 321.
Tak np. OKTAWIUSZ JUREWICZ, Komentarz, [w:] KWINTUS HORACJUSZ FLAKKUS, Dzieła
wszystkie, oprac. Oktawiusz Jurewicz, t. 1, Ody i epody, Ossolineum, Wrocław 1986, s. 261.
25
„Zdroju Banduzji, nad kryształ jaśniejszy, / godny i wina, i naręcza kwiatów, / jutro dostaniesz
koziołka, / któremu rożki na czole /już dziś zwiastują miłosne potyczki – / próżno, bo wkrótce
zimne twe zabarwi / krwią purpurową strugi, / swawolny potomek trzody. / Ciebie upalnej pora
Kanikuły /dotknąć nie zdoła, ty rozkoszne chłody / niesiesz znużonym wołom, / i błądzącemu
stadu. / I ty się znajdziesz pośród słynnych źródeł, / kiedy o dębie śpiewam, w skalną wpartym /
szczelinę, skąd przeczyste / spadają z szumem twe wody”. HORACY, Dzieła wszystkie, Otto Vaenius, Emblematy Horacjańskie, przeł. i oprac. Andrzej Lam, Pułtusk-Warszawa, 2010, s. 81.
Przekład Lama cytuję tu ze względu na dość precyzyjne oddanie w języku polskim zawartości
poszczególnych strof.
24
AD FONTEM SONAM (EP 2) MACIEJA KAZIMIERZA SARBIEWSKIEGO
Utwór ten jest jednak w ostatnich dekadach interpretowany jako wypowiedź o charakterze głęboko intertekstualnym, a przesłanie w nim zawarte jako
wypowiedź o charakterze przede wszystkim metapoetyckim. Michael Putnam
widzi w tym tekście złożoną grę z różnymi wierszami Katullusa, przede wszystkim reminiscencje utworów 63 i 68. Badacz zwraca uwagę, że Horacy, czerpiąc z
tekstów Katullusa silnie zabarwionych erotycznie, zmienia funkcję wypowiedzi –
odpowiednikiem relacji miłosnej jest dla wenuzyjskiego twórcy stosunek poety
do jego kreacji lirycznej. „Chociaż Horacy – powiada Putnam – zwraca się do
nieznanego źródła skojarzonego z jego mistrzowskim cyklem ód, ma on także,
swe własne źródła, a jednym z nich jest poezja Katullusa, którego energię włącza
i przystosowuje do swego własnego geniuszu”26. W ten sposób, jak sądzi badacz,
Horacy w tej odzie „wymyśla, a zarazem nobilituje, przez literackie fiat, źródło
inspiracji, które jest znacząco doń podobne27. Wzmianka o literackim fiat jest
znakomitym podsumowaniem kreacyjnej funkcji ody Horacego. Tę koncepcję
rozwinął szerzej Gregson Davis. Przeprowadzając retoryczną lekturę tego tekstu,
zwraca on przede wszystkim uwagę na ostatnią strofę ody i jej wyraźnie perlokucyjny28 („sprawczy”) charakter, zasygnalizowany w zwrocie me dicente. Został tu
użyty ablativus absolutus, lecz nie w funkcji czasowej, lecz – zdaniem badacza –
w performatywnej. Tym sposobem oda staje się świętą formułą, na mocy której
Horacy nobilituje źródło Banduzji włączając je w porządek mitycznych źródeł
greckich w rodzaju Hippokrene29. Dzięki temu, że profetyczna wypowiedź poety
spotyka się z głośnym („wymownym”) odzewem spadających wód, źródło (poezja) i poeta stają się wzajemnie dla siebie zwierciadłem, jedno odbija drugie.
Dzięki obrzędowi złożenia ofiary, na którą mają się składać wino, kwiaty i młody
koziołek, w obszar poezji uświęconej zostaje włączona również poezja biesiadna
(wino, kwiaty i delikatne mięso to zarazem nieodzowne elementy dobrej uczty);
tematyka biesiadna wiąże się ściśle z erotyczną, czego obrazowym przedstawieniem jest wiek koziołka, którego rogi znamionują dojrzałość do „miłosnych potyczek”30. Symboliczne włączenie tematyki biesiadno-miłosnej w przestrzeń zasługującej na sławę liryki dokonuje się przez zmieszanie podczas aktu ofiary
26
Por. MICHAEL C.J. PUTNAM, dz. cyt., s. 128.
Tamże, s. 127.
28
Por. JOHN LYONS, Semantics, Cambridge University Press, Cambridge (Ma) 1977, ss. 730-732.
29
GREGSON DAVIS, Polyhymnia. The Rhetroric of Horatian Lyric Discourse, University of California Press, Berkeley 1991, s. 127.
30
Tamże, ss. 128-129.
27
47
ELWIRA BUSZEWICZ
czerwonej krwi zwierzęcia z przejrzystymi strugami źródła, co badacz nazywa
„transsubstancjacją” koziołka31. Ostateczna konkluzja Davisa na temat funkcji
tego tekstu podkreśla swoistą alegoryczność metapoetyckiej refleksji Horacego:
chociaż w literaturze przedmiotu panuje niepewność co do położenia geograficznego, a
nawet co do poprawnej nazwy rzeczywistego źródła, enkomium źródła Banduzji staje
się pod piórem Horacego spójną medytacją na temat naturalnej mocy lirycznego dyskursu. Poeta obiektywizuje twórczy performatyw oraz pieśń jako taką, aby jaśniej
przedstawić swój program liryczny i usankcjonować swe osiągnięcia32.
2.3 Fons errat inlimis. Narcyz patrzy w głąb
W samym sercu utworu Sarbiewskiego bije jeszcze inne źródło, przywołane wyraźnie przez intertekstualną aluzję33. Są to Metamorfozy, a konkretnie
fragment księgi III, poświęcony zgubnej namiętności Narcyza. Zanim mityczny
bohater zatraci się w miłości do własnego odbicia, oczom czytelnika eposu Owidiusza ukazuje się wyjątkowy locus amoenus:
fons erat inlimis, nitidis argenteus undis,
48
quem neque pastores neque pastae monte capellae
contigerant aliudve pecus, quem nulla volucris
nec fera turbarat nec lapsus ab arbore ramus;
gramen erat circa, quod proximus umor alebat,
silvaque sole locum passura tepescere nullo.
hic puer et studio venandi lassus et aestu
procubuit faciemque loci fontemque secutus,
dumque sitim sedare cupit, sitis altera crevit
dumque bibit, visae correptus imagine formae
spem sine corpore amat, corpus putat esse, quod umbra est34.
31
Tamże, s. 130. Wywód Davisa, trudny tu do streszczenia, nie musi wydawać się każdemu
przekonywający, lecz jest sugestywnym przykładem analizy tekstu niemal wyłącznie w kontekście
jego funkcji retorycznych oraz innych tekstów, z którymi wchodzi on w relacje.
32
GREGSON DAVIS, dz. cyt., s. 132.
33
Sarbievius Lyr Ep 2, „Sic te quietum nulla perturbet pecus, / Ramusve lapsus arbore”. Ovidius
Met III 407-410: „quem neque pastores neque pastae monte capellae/ contigerant aliudve pecus,
quem nulla volucris / nec fera turbarat nec lapsus ab arbore ramus”.
34
„Było źródło przejrzyste, srebrzące się blaskiem, którego ani pasterze, ani górskie kozy nie tykały, ani żadna trzoda. Ptak nie musnął go w locie, zwierz nie mącił lustra, ani sucha gałązka
spadająca z drzewa. Wokół rosła murawa, którą górski strumień rosił, i bór tak cienisty, że żaden
promień słońca żarem nie tknął tego miejsca. Tu chłopiec strudzony polowaniem i skwarem położył się na trawie, podziwiając piękno miejsca i źródło. Gdy chciał ugasić pragnienie, nagle inne
pragnienie w nim się obudziło. Pije i pijąc widzi piękne oblicze, miłuje bezcielesną nadzieję,
AD FONTEM SONAM (EP 2) MACIEJA KAZIMIERZA SARBIEWSKIEGO
Jest to źródło dziewicze, „srebrzyste”, o niezwykłej przejrzystości, aby
mogło wiernie odtworzyć uwodzicielską postać młodzieńca. Czystości i przejrzystości tego źródła nie zakłóca nic „zwykłego”, żaden przydrożny przypadek należący do świata materii i żywiołów (ani ptaki powietrzne, ani ziemne zwierzęta),
żaden zgiełk codzienności wypełnionej troską o pożywienie (ani kozy, ani żadne
inne bydło, ani pasterze) żadne wreszcie, choćby małe zagrożenie bezpieczeństwa czy spokoju (gałąź spadła z drzewa).
Przyjrzyjmy się sytuacji lirycznej Narcyza, traktując go anonimowo, jako
„młodzieńca” przy źródle, tak jak jest opisany w tekście eposu. Zmęczony35 upałem i polowaniem, pociągnięty wdziękiem miejsca i spragniony wody, wpada w
pułapkę innej żądzy – chcąc się napić, odkrywa ulotny obraz samego siebie, a w
miarę jak pije, daje się coraz bardziej uwieść pięknem obrazu, zaczyna żyć pośród iluzji i wierzy, że są one częścią prawdziwego świata. Ma nadzieję, że cień
stanie się ciałem i jest to powodem jego szczególnej dumy. Czyż nie da się czytać
tego fragmentu jako emblematu poety? Bo przecież, jak za Gérardem Genette’m
przypomina Michał Głowiński, „Narcyz barokowy […] stanowi […] przede
wszystkim problem intelektualny, zastanawia się nad swym położeniem […] i
sam dla siebie jest przepaścią”36. Kondycja poety wymaga przecież różnego rodzaju zamyśleń nad źródłem. Wymaga introspekcji i imitacji, jest wyczarowywaniem iluzji. Narcyz może być w pewnym sensie archetypem lirycznego poety,
mającego skłonność do utożsamiania się z własnym natchnieniem i z własną poezją, skazanego na dożywotnie obcowanie ze złudą i szukającym siebie poprzez
tworzenie nowych światów.
3. Haud frustra. Twórczy akt Sarbiewskiego
Aby zobaczyć, w jaki sposób polski poeta wykorzystuje swe źródła, przytoczmy w całości tekst drugiej epody:
uważa za ciało to, co jest cieniem”. OWIDIUSZ, Metamorfozy, przeł. Anna Kamieńska i Stanisław
Stabryła, Wrocław 1995, ss. 76-77. Przekład ostatniego zdania mój.
35
Na obraz „zmęczonego Narcyza” z Metamorfoz odbijający się w tekście Sarbiewskiego zwraca
też uwagę AUDE LEHMANN, dz. cyt., s. 60.
36
MICHAŁ GŁOWIŃSKI, Narcyz i jego odbicia, [w:] IDEM, Mity przebrane, Wydawnictwo Literackie, Kraków, 1990, s. 63. Na temat figury Narcyza w dobie baroku por. też GÉRARD GENETTE,
Complèxe de Narcisse. Figures. Essais, Seuil, Paris 1966, ss. 21-28.
49
ELWIRA BUSZEWICZ
Ad fontem Sonam.
In patrio fundo, dum Roma rediisset
Fons innocenti lucidus magis vitro,
Puraque purior nive,
Pagi voluptas, una Nympharum sitis,
Ocelle natalis soli,
Longis viarum languidus laboribus,
Et mole curarum gravis
Tuscis ab usque gentibus redux, tibi
Accline prosterno latus:
Permitte siccus, qua potes, premi; cava
Permitte libari manu.
Sic te quietum nulla perturbet pecus,
Ramusve lapsus arbore ;
Sic, dum loquaci prata garritu secas,
Et laetus audiri salis,
Assibilantes populetorum comae
Ingrata ponant murmura
Tibi, lyraeque Vati. Haud frustra sacer
Nam si quid Urbanus probat,
50
Olim fluenti lene Blandusiae nihil,
Aut Sirmioni debeas37.
Od pierwszych wersów prowadzona jest tu gra z tekstami źródłowymi.
Początek należy do Horacego – utrzymany jest w podobnym tonie hymnicznej
apostrofy i przez porównanie ze szkłem przyznaje źródłu wyjątkową przejrzystość i blask. Podobnie jak u Owidiusza źródło położone jest w „miejscu rozkosznym”, a jeśli nimfy można utożsamiać z muzami38, mamy do czynienia z
37
Do źródła Sony. Na ziemi ojczystej, gdy powrócił z Rzymu. Źródło, jaśniejsze niż czysty kryształ,
/ Bielsze niż śniegi niepokalane, / Radości wioski i nimf pragnienie, / Mojej rodzinnej ziemi klejnocie. / Zmęczony trudem długiej podróży / Z bagażem ciężkich trosk na ramionach, / Wracając
z ziemi włoskiej, przed tobą / Nisko się schylam, pokłon oddając. / Na ile możesz, ugaś pragnienie, / I pozwól dłoniom zaczerpnąć wody. / Niech nie zakłóca bydło twej ciszy, / Ani gałązka, co
spada z drzewa / Gdy prujesz łąki szemrzącą strugą, / Skacząc z radości, że cię ktoś słucha, /
Niech topolowe liście nie gwarzą / Niech zaprzestaną wygwizdywania, / Dadzą głos tobie i lutni
wieszcza. / Bo jeśli Urban słusznie mnie chwali, / Nic od Banduzji płynącej miło / I od Sirmiony
gorsze nie będziesz.
38
Utożsamienie takie, częste u poetów nowołacińskich, opierało się na powiązaniu nimf ze źródłami; możemy je spotkać u Izydora z Sewilli (Etymologiae, VIII, 11, 96: „Nymphas deas aquarum putant, dictas a nubibus. Nam ex nubibus aquae, unde derivatum est. Nymphas deas aquarum, quasi numina lympharum. Ipsas autem dicunt et Musas quas et Nymphas, non immerito.
AD FONTEM SONAM (EP 2) MACIEJA KAZIMIERZA SARBIEWSKIEGO
miejscem często nawiedzanym przez te boginie. Już w tym miejscu mógł zostać
zasugerowany metapoetycki charakter wiersza. Dzięki apostrofie ocelle natalis
soli włączone zostają do tekstu tony katullusowe, obecne również w obrazie wędrowca zmęczonego drogą i próbującego się uwolnić od brzemienia trosk. Lecz
zaraz inspiracje katullusowe i owidiuszowe zaczynają się silnie łączyć, a dalszy
ciąg wypowiedzi należy już do Narcyza, a właściwie do nowego, szczęśliwszego
Narcyza, który nie zatraci się w jałowym łapaniu czczych iluzji, do poety chrześcijańskiego, który po owocnym i twórczym intelektualnie, ale naruszającym z
jakiegoś powodu39 równowagę ducha40 pobycie na ziemi włoskiej stara się budować na nowym gruncie swą poetycką osobowość i zasłużyć na miano wieszcza. Lecz i tutaj obecny jest głos Horacego, gdyż właśnie w tym miejscu tekstu,
po określeniu sytuacji lirycznej, zaczyna się swoisty obrzęd Sarbiewskiego. I jego
ojczyste źródło podlega bowiem typowej dla Horacego deifikacji czy przynajmniej „sakralizacji” rzeczy i zjawisk powszednich41 – zostaje uczczone adoracją42.
Gest zaczerpnięcia wody, który w przypadku Narcyza był początkiem zabójczego pragnienia, u jezuickiego poety zostaje poprzedzony formułą paramodlitewną, tak że „źródło Sona”, które można po trosze utożsamiać i z poetą (który
51
Nam aquae motus musicen efficit”). Izydor powtarza myśl zawartą w komentarzu do Bukolik
Wergiliusza Juniusza Filargiriusza, Por. ANGELO VALASTRO CANALE, Herejias y sectas en la iglesia antigua: El octavo libro de las Etimologias de Isidoro de Sevilla y sus fuentes, Universidad Pontificia Comillas, Madrid 2000, s. 236. Inny komentator Wergiliusza, Serwiusz, utożsamiając nimfy z Muzami powołuje się na autorytet Warrona; zob. też KATHLEEN W. CHRISTIAN, The Multiplicity of Muses. The Reception of Antique Images of the Muses in Italy, 1400-1600 [w:] The Muses and their Afterlife in Post-Classical Europe, ed. Kathleen W. Christian et al., The Warburg Institute/Nino Aragno Editore, London-Turin 2014, s. 116.
39
Przyczynę tego załamania próbował rozszyfrować JÓZEF WARSZAWSKI, „Dramat rzymski” Macieja Kazimierza Sarbiewskiego TJ (1622-1625). Studium literacko-biograficzne, Gregoriana, Rzym
1984, ss. 248-249 (et passim). Widzi on jego źródło w przedwczesnym wydaleniu Sarbiewskiego
z Rzymu, spowodowanym zazdrością Urbana VIII o sławę poetycką. Hipoteza ta wydaje się jednak uproszczeniem, a argumentacja przywołana przez badacza pozwala sądzić, że rozegrał się
tam niewątpliwie jakiś „dramat”, ale nic nie wyjaśnia na temat jego natury.
40
KRZYSZTOF DOROSZ, dz. cyt., ss. 83-84.
41
Chodzi mi nawet nie tyle o odę do źródła Banduzji, gdyż zawiera ona pewne elementy rytuału
święta zwanego Fontanalia, obchodzonego 13 października ku czci Fonsa, boga źródeł, ale np. o
skierowaną do amfory pieśń C 3 21, zbudowaną dokładnie na wzór hymnu kletycznego. Oczywiście intencja Horacego może być odwrotna, raczej parodystyczna względem formy hymnu, por.
MICHAEL C. J. PUTNAM, dz. cyt., s. 122.
42
Słownictwo zastosowane przez poetę, np. „tibi …prosterno latus” kojarzy się raczej z gestem
kornego pokłonu niż z beztroskim położeniem się na trawie nad wodą, o którym Sarbiewski
mówi np. w Lyr III 2 (Ad suam testudinem / Do swej lutni): „Collum reclinasse et virenti / sic
temere iacuisse ripa”. Podobną funkcję pełni powtórzone dwukrotnie wezwanie Permitte. AUDE
LEHMANN, dz. cyt., s. 60, zwraca też uwagę na sakralny sens czasownika libari.
ELWIRA BUSZEWICZ
„przegląda się” w wodzie), i z jego liryką (akwatyczne metafory w odniesieniu
do poezji są bardzo częste, także u Sarbiewskiego), może być również postrzegane jako alegoria natchnienia. Również w tym tekście wyobrażony został swoisty dialog ze źródłem. Jak w wierszu Katullusa fale jeziora miały odwzajemnić
radość poety swym „chichotem”, jak w odzie Horacego wody Banduzji są „wymowne” i powinny od razu odpowiedzieć na poetycką wieszczbę, tak i u Sarbiewskiego woda ze zdroju jest ukazana jako „gadatliwa”. Jeśli obraz płynącej ze
źródła strugi, rozlewającej się na coraz szerszym terenie rodzinnej ziemi i wrzynającej się ostro w swojski grunt, odniesiemy do „nurtu słów”, towarzyszących
lutni poety, otrzymamy wizję zdobywania swą poezją sławy pośród swoich. Nurtu tej poezji nie powinny zakłócać rzeczy i sprawy prozaiczne i małe – ani „bydło”, ani „spadające gałązki” – powinna czystym blaskiem odbijać Dobro, Piękno i Prawdę. Takie wyraża poeta życzenie, kierując je pozornie43 do źródła. Gdy
tak będzie, stanie się nieśmiertelna i niezniszczalna, nawet jeśli zetrze się z niszczącym upływem czasu czy z kąśliwymi językami. Paramodlitewny rytuał obejmuje więc również prośbę o uciszenie „gwizdów” topoli44. Poeta chce być wysłuchany, jego poezja ma „brzmieć” (sonare) jak nazwa źródła unieśmiertelniona
52
w tekście. Kreacyjna moc głosu poety widoczna jest poprzez grę, jaką prowadzi
Sarbiewski z wykorzystanym przezeń fragmentem Metamorfoz. Tam mieliśmy do
czynienia po prostu z opisem źródła w trybie orzekającym, tu – z koniunktiwem,
implikującym wspomniane wyżej poetyckie fiat.
43
Sarbiewski nazywał taką figurę apsychologią; uważał, że stosując ją, poeta „nie doradza […],
nie schlebia ani nie czyni wyrzutów rzeczy martwej, nierozumnej, urojonej, ale robi to wszystko
raczej skrycie w odniesieniu do siebie, albo innej jakiejś osoby, do której przynależy rzecz, z którą prowadzi rozmowę [...]. W tym rodzaju najczęściej powtarza się u liryków motyw, że przemawiają do swojej lutni i proszą ją, by im zagrała szczególnie przyjemnie”. MACIEJ KAZIMIERZ
SARBIEWSKI, Charaktery liryczne czyli Horacy i Pindar / Characteres lyrici seu Horatius et Pindarus. Wykłady poetyki / Praecepta poetica, przeł. i oprac. Stanisław Skimina, Ossolineum, Wrocław 1958, ss. 40-41. Można więc łatwo utożsamiać ze źródłem i samego poetę, i jego poezję, ale
można też widzieć tu coś w rodzaju modlitwy-życzenia poety chrześcijańskiego.
44
Topole mogą być elementem pejzażu semiotycznego podobnie jak drzewa u Horacego i wyobrażać ludzkie zachowania. Jednak tutaj mowa szczególnie o liściach topoli. Liście tzw. „białej topoli” (populus alba) uważano za alegorię dnia i nocy, mogą więc symbolizować upływ czasu. Por.
ELWIRA BUSZEWICZ, Sarmacki Horacy i jego liryka. Imitacja – Gatunek – Styl. Rzecz o poezji Macieja Kazimierza Sarbiewskiego, Księgarnia Akademicka, Kraków 2006, s. 126. Wówczas wymowa tego fragmentu mogłaby być pokrewna początkowi słynnej ody Horacego Exegi monumentum (C III 30), wyrażającym przekonanie, że jego poezji nie zniszczy m.in. upływający czas. O
złożonej symbolice topoli w kontekście poezji Sarbiewskiego i Horacego zob. PIOTR URBAŃSKI,
„Instar cicadae”. Theologia fabulosa. Commentationes Sarbievianae, Uniwersytet Szczeciński,
Szczecin 2000, s. 66, 72.
AD FONTEM SONAM (EP 2) MACIEJA KAZIMIERZA SARBIEWSKIEGO
Cały ten akt Sarbiewskiego, akt odnowienia jego „nominacji” na świętego
wieszcza, „nostryfikowania” jej w rodzinnych stronach, wpisuje się w kontekst
Rzeczpospolitej chrześcijańskiej, do której przynależność jest dla Sarbiewskiego
nadrzędna. Źródło należy przede wszystkim do Boga, a święty i dostojny charakter poezji „chrześcijańskiego Horacego” został przypieczętowany pochwałami
papieża Urbana, co poeta traktuje jako coś w rodzaju patentu. Zmusza go to do
wzięcia w nawias pogańskich inspiracji45, tak silnie obecnych w jego twórczości.
Retoryczny gest wieszcza zwraca się ku dwóm przestrzeniom poetyckim jednocześnie: ku tradycji świętej, która czyni poetę-chrześcijanina kimś z definicji lepszym niż twórcy pogańscy, oraz ku ziemi rodzinnej, mającej się stać retoryczną
sygnaturą Sarbiewskiego, bo na niej ma się dokonywać dalszy rozwój jego osobowości twórczej. Jak Horacy podnosił na mocy swego poetyckiego rytuału
„źródło Banduzji” do rangi mitycznych zdrojów greckich, tak Sarbiewski nie tyle
stawia „źródło Sony” na równi z natchnieniami Horacego czy Katullusa, lecz
wyraża przekonanie, że nadprzyrodzona łaska rozświetla jego talent tak silnie, że
może on przemówić głosem własnym, sprowadzić do roli służebnej i przyćmić
pogańskich mistrzów, którzy tak często krzepili go wodą ze swych źródeł.
53
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Skimina, Ossolineum, Wrocław 1954
45
Nie należy tu oczywiście pytać o szczerość tego gestu. Przekonanie o wyższości poezji chrześcijańskiej nad pogańską manifestuje Sarbiewski w swym wykładzie poświęconym poezji epickiej:
„naprawdę tylko chrześcijanin może być poetą albo przynajmniej ktoś taki, kto zgodnie z poglądami religii chrześcijańskiej przedstawi czynności boże jako wsparcie czynności bohatera”. MACIEJ KAZIMIERZ SARBIEWSKI, O poezji doskonałej czyli Wergiliusz i Homer/ De perfecta poesi sive
Vergilius et Homer [edycja dwujęzyczna], przeł. Marian Plezia, oprac. Stanisław Skimina, Ossolineum, Wrocław 1954, s. 77.
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55
NADZIEJA BĄKOWSKA
Komizm obsceniczny w trzech odsłonach.
Relacje między przekładami Dialogus Salomonis et Marcolfi
na języki polski, włoski i angielski
«pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», (VI) 6, 2015, pp. 57-71
ABSTRACT
The article is an attempt to characterize linguistic and cultural relations between
three translations of Dialogus Salomonis et Marcolfi from Latin into vernacular languages: Polish,
Italian and English. Comparative analysis of the three translations confirms that in the cultural
contexts examined, despite some discrepancies concerning the explicitness of language and images, there is the same model of comedy, based on obscene elements. The analysis aims to determine
the nature and substrate of differences occurring between texts in terms of the obscene comic, as
well as the extent to which various local colours were adopted in the translation process.
KEYWORDS
obscene comic, comparative study, medieval literature
1. W kręgu renesansowych bestsellerów: literatura błazeńska
R
ozmowy, które miał król Salomon mądry z Marchołtem grubym a sprosnym (1521) razem z dwoma innym utworami o podobnych cechach gatunkowych, Żywotem Ezopa Fryga z przypowieściami jego (1522) oraz
Sowiźrzałem krotochwilnym i śmiesznym (ok. 1540), są zaliczane do nurtu literatury błazeńskiej. Jak dowodzą badania, mimo że etniczno-lingwistyczne rodowody tych utworów są zasadniczo odmienne – Rozmowy powstały w języku łacińskim (przypuszcza się, że tekst powstał na obszarze francuskojęzycznym1),
Żywot Ezopa Fryga w języku greckim, natomiast Sowiźrzał w języku niemieckim
– to realizują one ten sam model komizmotwórczy, oparty na obscenizmie, co
oznacza, że ów model nie jest związany z jednym tylko kręgiem kulturowym i językowym, lecz jest wspólny różnym kulturom i językom2.
1
Patrz: KAZIMIERZ BUDZYK, Marchołt, [w:] IDEM, Ze studiów nad literaturą staropolską, Zakład
Narodowy im. Ossolińskich, Wrocław 1957, s. 84.
2
Patrz: NADZIEJA BĄKOWSKA, Obscenum jako główne źródło komizmu w literaturze błazeńskiej,
praca magisterska, Uniwersytet Boloński, Bolonia 2015. W pracy wykazane zostało, że model ko-
57
NADZIEJA BĄKOWSKA
Komizm obsceniczny odznacza się cechami, które są znamienne dla średniowiecznej kultury śmiechu. Są to m.in.: kontrast między kulturą oficjalną i
nieoficjalną, degradacja, naruszanie obowiązujących obyczajów, odwracanie
wszelkich porządków, eksponowanie brzydoty, sprośność3. Ponadto koncepcja
obscenum jako przeciwbieguna4 uzasadnia próbę wpisania tego zjawiska w ramy
proponowanej przez Jerzego Ziomka definicji komizmu, w której jako źródło
komizmu wskazane są napięcia między modelem a kontrmodelem 5. Mianem
modelu badacz określa „zbiór intersubiektywnych, społecznie pochodnych i historycznie zmiennych wyobrażeń i przekonań, mniej lub bardziej normatywnych”6, natomiast kontrmodelem „poniekąd powtórzenie a poniekąd wykolejenie”7 modelu. Jednym z możliwych narzędzi wykolejenia modelu jest obscenum.
Niewątpliwie szesnastowieczna literatura błazeńska, którą cechuje silna opozycyjność wobec literatury oficjalnej, powstała na tej zasadzie.
Mniej więcej od początku XV do połowy XVI wieku dialog grubego a
sprosnego Marchołta z królem Salomonem cieszył się w Europie ogromną popularnością8. Autorzy publikacji pt. The Dialogue of Solomon and Marcolf: A Dual58
mizmotwórczy funkcjonujący w literaturze błazeńskiej oparty jest na szeregu elementów, takich jak:
obrazowość, antyestetyzm, nagość i gesty obelżywe, groteskowe przedstawienie przedmiotu strachu, groteska i parodia (dysharmonia i degradacja), dowcip skatologiczny, dopuszczenie się tego,
co nie przystoi. Przy czym newralgiczny składnik każdego z tych elementów wyraźnie stanowi obscenum. Obscenum do funkcji komicznej predestynują jego konstytutywne cechy, takie jak: antyestetyzm, bezwstydność, wyuzdanie, wulgarność oraz wpisana weń deprecjacja powszechnie przyjętych wartości i społecznie akceptowanych wzorców zachowań. Komiczny wydźwięk obscenizmu
jest warunkowany zarówno przez ludzką fizjologię i psychologię, jak również kulturę i obyczaje.
Bazuje on zatem jednocześnie na mechanizmach wrodzonych i nabytych.
3
Patrz: IRENA JANICKA, The comic elements in the English Mystery Plays against the cultural background, PWN, Poznań 1962; STANISŁAW GRZESZCZUK, Staropolskie potomstwo Sowizdrzała.
Plebejski humor literacki, PWN, Warszawa 1990; MICHAIŁ BACHTIN, Estetyka groteski a estetyka klasycznego piękna, [w:] Bachtin: dialog – język – literatura, red. Eugeniusz Czaplejewicz i
Edward Kasperski, PWN, Warszawa 1983; MIROSŁAW SŁOWIŃSKI, Błazen. Dzieje postaci i
motywu, Prolog, Warszawa 1993; MICHAŁ GŁOWIŃSKI, Portret Marchołta, [w:] IDEM, Mity
przebrane, Wydawnictwo Literackie, Kraków 1990; MICHAŁ GUTOWSKI, Komizm w polskiej
sztuce gotyckiej, PWN, Warszawa 1973.
4
Por. JERZY ZIOMEK, Pornografia i obscena, [w:] IDEM, Powinowactwa literatury, PWN, Warszawa 1980.
5
IDEM, Komizm – spójność teorii i teoria spójności, [w:] IDEM, Powinowactwa literatury, cyt.
6
Tamże, s. 350.
7
Tamże.
8
Nancy Mason Bradbury, Scott Bradbury: „Łaciński Dialog i jego przekłady na języki narodowe
są lepiej znane uczonym z kontynentalnej Europy niż angielskim i amerykańskim mediewistom.
Utwór był popularny zwłaszcza na ziemiach niemieckojęzycznych od XV do XVII wieku, najpierw po łacinie, a potem w językach narodowych. Bardzo wcześnie niemieccy badacze zaczęli
wykazywać zainteresowanie fenomenem tego tekstu. We Włoszech dialog zainspirował […] Ber-
KOMIZM OBSCENICZNY W TRZECH ODSŁONACH
Language Edition from Latin to Middle English Printed Editions konstatują, że
między rokiem 1410 a 1550 utwór ten był dosłownie „best-sellerem”9.
„Dziś świat, abo raczej ludzie na nim tak się barzo powikłali, że wolą
Fraszki, Fronce, Biesiady, Pieśni wszeteczne, Sowizrzały, Marchołty, kupować
niżeli co poważnego”10. W celu zaspokojenia potrzeb rynku czytelniczego, łaciński Dialogus został przetłumaczony na liczne języki narodowe, m.in. niemiecki,
duński, szwedzki, włoski, angielski i walijski oraz polski. Analizy porównawcze
tłumaczeń dialogu Salomona z Marchołtem na języki: polski, włoski i angielski
wykazują, że w XVI wieku mieszkańcy Polski, Włoch i Anglii, niezależnie od
dzielących ich kilometrów i języków, jakimi się posługiwali, należeli do tej samej
wspólnoty śmiechu11. Spośród trzech utworów należących do literatury błazeńskiej najbardziej wyrazistą manifestacją komizmu obscenicznego są niewątpliwie
właśnie Rozmowy, dlatego to na nich i na ich funkcjonowaniu w trzech różnych
kontekstach kulturowych koncentrują się analizy przedstawione w tym artykule.
2. Dialogus Salomonis et Marcolfi. Relacje między drukami łacińskimi a
tłumaczeniami na języki narodowe
Przez dziesięciolecia dialog krążył w rękopisach łacińskich12. Obecnie za
kanoniczną wersję tekstu łacińskiego uznaje się tekst opublikowany przez Waltera Benary’ego13. Drukowane wydania łacińskojęzycznej wersji tekstu są zwykle
opatrzone jednym z dwóch tytułów: Dialogus Salomonis et Marcolfi lub bardziej
toldo Giulio Cesare Croce, dlatego włoska badaczka Maria Corti pisze, że łaciński dialog to dobrze znany tekst, bliski naszej kulturze [MARIA CORTI, Models and Antimodels in Medieval Culture, tłum. John Meddemmen, [w:] «New Literary History», 10, 1979, s. 357]. Badacze języka starofrancuskiego i anglo-francuskiego interesują się Marchołtem w związku z jego zjadliwymi rymowanymi rispostami-przysłowiami [TONY HUNT, Solomon and Marcolf, [w:] KEITH BUSBY
AND CATHERINE M. JONES (eds.), “Por le soie amisté”: Essays in Honor of Norris J. Lacy, Rodopi,
Amsterdam 2000, ss. 199-224]. Zainteresowanie dialogiem ze strony badaczy języka średnioangielskiego związane jest z wierszem pt. Marcolf Johna Audelaya”. NANCY MASON BRADBURY,
SCOTT BRADBURY, Introduction, [w:] IDEM, The Dialogue of Solomon and Marcolf: A DualLanguage Edition from Latin and Middle English Printed Editions, 2012, tekst dostępny w Internecie: <http://d.lib.rochester.edu/ teams/publication/bradbury-solomon-and-marcolf>; tłumaczenie fragmentu: Nadzieja Bąkowska.
9
Tamże.
10
Tak narzekał w roku 1615 poeta Marcin Paszkowski. Patrz: MARCIN PASZKOWSKI, Dzieje tureckie i utarczki kozackie z Tatary, cyt. za: KAROL JÓZEF BADECKI, Z badań nad literaturą mieszczańsko-ludową XVII wieku, [w:] «Pamiętnik Literacki», 42, 1951, s. 199.
11
Patrz: NADZIEJA BĄKOWSKA, dz. cyt.
12
Najstarszy rękopis datowany jest na rok 1410.
13
Walter Benary za podstawę przyjął rękopis z 1434 roku.
59
NADZIEJA BĄKOWSKA
rozbudowanym: Collationes quas dicuntur fecisse mutuo rex Salomon sapientissimus et Marcolphus facie deformis et turpissimus tamen ut fertur eloquentissimus
feliciter14. Nancy Mason Bradbury i Scott Bradbury twierdzą, że „drukowane
wydania łacińskie są mniej lub bardziej jednolite”15. W pierwszej dekadzie drukowanych wydań (1473-1483) tekst publikowany był pod tytułem Dialogus (tekst
oznaczany przez Benary’ego jako δ). Około roku 1483 tekst zaczął być drukowany
pod dłuższym tytułem Collationes (był to nieco inny tekst – δ1). Nancy Mason
Bradbury i Scott Bradbury na podstawie badań porównawczych dwunastu druków (sześć o tytule Dialogus i sześć o tylule Collationes), stwierdzili, że po 1483
roku wszystkie druki, niezależnie od tytułu, jakim były opatrzone, prezentowały
ten sam tekst (δ1). Według Kazimierza Piekarskiego najprawdopodobniej podstawą przekładu dokonanego przez Jana z Koszyczek był tekst Collationes z 1514 roku16 (a więc tekst oznaczany byłby jako δ1). Jako podstawę przekładu na język angielski Bradbury wskazują łaciński druk Gerarda Leeu z 1488 roku. Z kolei przekład na język włoski jest zwykle zestawiany przez badaczy z drukiem opublikowanym przez Benary’ego17. Można przyjąć, że tłumaczenia na języki polski, włoski i angielski były oparte na tym samym druku łacińskim lub na drukach, które
60
dzieliły nieznaczne różnice, w każdym wypadku wydanych po 1483 roku 18. Rozbieżności między tłumaczeniami na języki narodowe są więc związane z czynnikami innymi niż odmienność łacińskich podstaw przekładu.
Dostępne są studia zestawiające przekłady na poszczególne języki narodowe z łacińskimi podstawami tłumaczeń19. Warto by jednak przyjrzeć się rów14
NANCY MASON BRADBURY, SCOTT BRADBURY, Introduction, cyt.
Tamże.
16
KAZIMIERZ PIEKARSKI, Fragmenty czterech nieznanych wydań „Marchołta”, Towarzystwo Miłośników Książki, Kraków 1935.
17
Druki łacińskie: 1) Wersja kanoniczna: WALTER BENARY, Salomon et Marcolfus, Kritischer Text
mit Einleitung, Anmerkungen, Übersicht über die Sprüche, Namen- und Wörterverzeichnis, Heidelberg 1914; 2) Według Nancy Mason Bradbury i Scotta Bradbury podstawą przekładu na język
średnioangielski jest tekst łaciński wydany przez Gerarda Leeu: GERARD LEEU, Salomonis et Marcolphi Dyalogus (1488), [w:] NANCY MASON BRADBURY, SCOTT BRADBURY (eds.), dz. cyt.; 3) Według Kazimierza Piekarskiego, Jan z Koszyczek oparł swoje tłumaczenie na łacińskim tekście opatrzonym tytułem Collationes, drukowanym w Bawarii w 1514 r. W tym rozdziale będą podawane
przykłady z tekstu pt. Collationes wydanego w 1485 r. (a nie z 1514): JACOBUS DE BREDA, Collationes, quas dicuntur fecisse mutuo rex Salomon sapientissimus et Marcolphus facie deformis et turpissimus, tamen, ut fertur, eloquentissimus, sequitur cum figuris, 1485, tekst dostępny w Internecie:
<http://diglib.hab.de/wdb.php?dir=inkunabeln/21-5-gram-4&lang=de>. Za Nancy Mason
Bradbury i Scottem Bradbury przyjęte zostaje założenie, że druki wydane po 1483 roku są jednolite.
18
NANCY MASON BRADBURY, SCOTT BRADBURY, Introduction, cyt.
19
Zestawienie tekstu łacińskiego (wydanie Waltera Benary’ego) z tłumaczeniem na język włoski z
15
KOMIZM OBSCENICZNY W TRZECH ODSŁONACH
nież relacjom między poszczególnymi przekładami i określić ich przyczyny w celu scharakteryzowania stosunków językowo-kulturowych panujących na przełomie XV i XVI wieku między trzema rozpatrywanymi tekstami i kontekstami kulturowymi.
3. Między Antwerpią, Wenecją i Krakowem: wędrówka tekstu po Europie
na przełomie XV i XVI wieku
Tekst, przedstawiający potyczki słowne nieprzystojnego błazna i mądrego
króla, wędruje po Europie, tłumaczenia dokonywane są w różnych szerokościach geograficznych i momentach historycznych. Najstarszym z rozpatrywanych tłumaczeń jest przekład na język średnioangielski, datowany na rok 1492,
tłoczony w antwerpskiej drukarni Gerarda Leeu. Dziesięć lat później, wiele kilometrów na południe Europy, w Wenecji, ukazuje się wydanie włoskojęzyczne.
Najmłodsze, bo pochodzące z 1521 roku jest tłumaczenie Jana z Koszyczek na
język polski, wydrukowane w Krakowie w drukarni Hieronima Wietora.
Marchołtowe profanacje wartości, obalanie autorytetów oraz odwracanie
hierarchii doskonale oddają klimat społeczny, jak również nastroje czytelnicze,
które ogarnęły Europę, w tym Polskę, Włochy i Anglię, w początkach XVI wieku. To okres, w którym przez stary kontynent przechodzi fala reformacji, a nie
znająca łaciny ludność, być może bardziej niż kiedykolwiek, odczuwa potrzebę
rozładowania napięć i niechęci do ciemiężącej ją władzy świeckiej i kościelnej.
Tu z pomocą przychodzą potencjalnym czytelnikom tłumacze, których działania
wpisują się w tendencje unarodowienia kultury, związane z ruchem reformacyjnym. Mimo podobnej atmosfery społecznej, każdy z tłumaczy, polski, angielski i
włoski, przystępuje do pracy w odmiennych warunkach: literackich i kulturowych.
Komizm obsceniczny jest jedną z dominant zarówno łacińskiego pierwowzoru, jak
i trzech rozpatrywanych przekładów. Poniżej przedstawione są różnice w zakresie
realizacji tego rodzaju komizmu przez poszczególnych tłumaczy.
1502 roku opracowane zostało przez Quinta Mariniego (Il dialogo di Salomone e Marcolfo, a cura
di Quinto Marini, Salerno Editrice, Roma 1991). Tekst łaciński Benary’ego oraz tłumaczenie
tekstu Benary’ego na współczesną angielszczyznę (tłum. Jan Ziolkowski) zostały przedrukowane
oraz opatrzone komentarzem przez Jana Ziolkowskiego w rozprawie pt. Solomon and Marcolf
(JAN ZIOLKOWSKI, Solomon and Marcolf, Harvard University Press, Cambridge (MA)-London
2008). Relacje między tekstem łacińskim (tekst opatrzony dłuższym tytułem Collationes z 1514
roku) a przekładem na język polski omówione zostały przez Kazimierza Budzyka (KAZIMIERZ
BUDZYK, Marchołt, [w:] IDEM, Ze studiów nad literaturą staropolską, Zakład Narodowy im. Ossolińskich, Wrocław 1957).
61
NADZIEJA BĄKOWSKA
4. Vis comica – vis obscoena. O różnych odcieniach komizmu obscenicznego
4.1
Różnice jakościowe: kreacja postaci i onomastyka
Wiele spośród porównań zwierzęcych, będących narzędziem kreacji
Marchołta i jego żony jako istot groteskowych – na poły ludzi, na poły zwierząt,
występuje w trzech wersjach: polskiej, włoskiej i angielskiej w tej samej postaci.
We wszystkich rozpatrywanych tłumaczeniach Marchołt ma „brodę smrodliwą a
kosmatą jakoby u kozła”20 (wł. „barba immunda et ornata de peli grossi et rospidi a modo de beco”21, ang. „a berde harde and fowle lyke unto a goet”22),
„ręce jakoby klocki palce krótkie a miąsze”23 (wł. „le mane corte, didi brevi e
grossi”24, ang. „the handes short and blockyssh, his fyngers great and thycke”25),
„nogi okrągłe”26 (wł. „piedi rotondi”27, ang. „rownde feet”28), „nos miąszy a garbaty”29 (wł. „el naso grosso e rotondo”30, ang. „the nose thycke and croked”31),
„oblicze jakoby u osła”32 (wł. „l’aspecto asinino”33, ang. „a face lyke an asse”34),
„wargi wielkie a miąsze”35 (wł. „le labra grande e grosse”36, w wersji angielskiej
brak opisu ust37), „włosy jakoby na koźle”38 (wł. „li capigli a guise de beco”39, ang.
20
62
JAN Z KOSZYCZEK, dz. cyt., s. 87.
El Dyalogo di Salomon et Marcolpho, [w:] GIULIO CESARE CROCE, Le sottilissime astuzie di
Bertoldo. Le piacevoli e ridicolose simplicità di Bertoldino. Col “Dialogus Salomonis et Marcolphi” e il suo primo volgarizzamento a stampa, introduzione, commento e restauro testuale di
Pietro Camporesi, Einaudi, Torino 1978, s. 208. Jeśli chodzi o włoskie tłumaczenie dialogu Marchołta z Salomonem, to podstawą przedstawionych w tym artykule analiz jest tekst El Dialogo de
Salomone e Marcolpho dołączony przez Pietra Camporesiego do wydania Le sottilissime astuzie
di Bertoldo Giulia Cesarego Crocego z 1978 roku. W przedsłowiu Camporesi zaznacza, że zamieszcza przedruk pierwszego włoskiego wydania dialogu, opublikowanego w Wenecji w 1502 r. przez
Gian Battistę Sessa, które przedrukowuje za bolońskim wydaniem Ernesta Lammy z 1885 r. (patrz:
przedsłowie Camporesiego do przedruku El Dialogo de Salomone e Marcolpho, cyt., s. 207).
22
NANCY MASON BRADBURY, SCOTT BRADBURY (eds.), dz. cyt., w. 3.
23
JAN Z KOSZYCZEK, dz. cyt., s. 87.
24
El Dyalogo di Salomon et Marcolpho, cyt., s. 208.
25
NANCY MASON BRADBURY, SCOTT BRADBURY (eds.), dz. cyt., fragm. 3, w. 4.
26
JAN Z KOSZYCZEK, dz. cyt., s. 87.
27
El Dyalogo di Salomon et Marcolpho, cyt., s. 208.
28
NANCY MASON BRADBURY, SCOTT BRADBURY (eds.), dz. cyt., fragm. 3, w. 4.
29
JAN Z KOSZYCZEK, dz. cyt., s. 87.
30
El Dyalogo di Salomon et Marcolpho, cyt., s. 208.
31
NANCY MASON BRADBURY, SCOTT BRADBURY (eds.), dz. cyt., fragm. 3, w. 5. Croked – crooked
– krzywy.
32
JAN Z KOSZYCZEK, dz. cyt., s. 87.
33
El Dyalogo di Salomon et Marcolpho, cyt., s. 208.
34
NANCY MASON BRADBURY, SCOTT BRADBURY (eds.), dz. cyt., fragm. 3, w. 5.
35
JAN Z KOSZYCZEK, dz. cyt., s. 87.
36
El Dyalogo di Salomon et Marcolpho, cyt., s. 208.
37
Opis ust jest natomiast obecny w wydaniach łacińskich: „labia magna et grossa” (WALTER BENARY, dz. cyt., s. 1; GERARD LEEU, dz. cyt., fragm. 2, w. 5; JACOBUS DE BREDA, dz. cyt., s. 3).
21
KOMIZM OBSCENICZNY W TRZECH ODSŁONACH
„the here of hys heed lyke the heer of a goat”40). Należy jednakże odnotować występowanie istotnych rozbieżności w tym zakresie. Na przykład w wersji Jana z
Koszyczek błazen ma „wargę spodnią jako u wałacha”41. Natomiast w wersjach
włoskiej i angielskiej warga Marchołta przyrównana zostaje do wargi zwykłego
konia (wł. „el labro inferior era pendente a modo de cavalo”42, ang. „his nether
lyppe hangyng lyke an horse”43). Podobnie w tekstach łacińskich warga opisana
jest jako końska: „et labium subterius quasi caballinum”44. Polski tłumacz, zastępując konia wałachem, nadał Marchołtowi dodatkowych cech deprecjonujących. Słowo wałach może odnosić się nie tylko do konia, ale także do osła lub
muła, który został poddany kastracji. Opis Jana z Koszyczek jest tu bardziej dosadny i obsceniczny, albowiem rodzi skojarzenia z częściami ciała związanymi z
reprodukcją, przenosi uwagę ku Bachtinowskiemu dołowi, jest bogatszy o konotacje, jakie rodzi wałach, a których nie rodzi koń. Również w opisie wyglądu żony Marchołta, tłumaczenie Jana z Koszyczek przewyższa w dosadności pozostałe
dwa przekłady. W tekście polskim Powaliszka ma „brwi wielkie, ostre a smrodliwe jakoby na grzbiecie u wieprza”45 (wł. „li superciglie longhi, ornate de peli
grossi e asperrimi sicome spale porcine”46, ang. „she had longe wynde47 browes
lyke brostelys48 of a swyne”49). Co ciekawe, w tekście włoskim i angielskim brak
wzmianki o brzydkim zapachu. Również w drukach łacińskich brwi Powaliszki
są tylko „długie, owłosione i ostre”50 (łac. „longa, setosa et acuta”51). Nieatrakcyjne walory zapachowe Powaliszkowych brwi są dodatkiem Jana z Koszyczek,
który w ten sposób przydał żonie Marchołta cech odrażających.
Na uwagę zasługuje parodystyczna genealogia Marchołta i jego żony.
38
JAN Z KOSZYCZEK, dz. cyt., s. 87.
El Dyalogo di Salomon et Marcolpho, cyt., s. 208.
40
NANCY MASON BRADBURY, SCOTT BRADBURY (eds.), dz. cyt., fragm. 3, w. 3.
41
JAN Z KOSZYCZEK, dz. cyt., s. 87.
42
El Dyalogo di Salomon et Marcolpho, cyt., s. 208.
43
NANCY MASON BRADBURY, SCOTT BRADBURY (eds.), dz. cyt., fragm. 3, w. 3.
44
WALTER BENARY, dz. cyt., s. 1; GERARD LEEU, dz. cyt., fragm. 2, w. 3; JACOBUS DE BREDA, dz.
cyt., s. 3.
45
JAN Z KOSZYCZEK, dz. cyt., s. 87.
46
El Dyalogo di Salomon et Marcolpho, cyt., s. 208.
47
Wynde – zakręcony.
48
Brostelys – szczecina.
49
NANCY MASON BRADBURY, SCOTT BRADBURY (eds.), dz. cyt., fragm. 4, w. 2.
50
JAN Z KOSZYCZEK, dz. cyt., s. 87.
51
WALTER BENARY, dz. cyt., s. 1; GERARD LEEU, dz. cyt., fragm. 3, w. 2; JACOBUS DE BREDA, dz.
cyt., s. 3.
39
63
NADZIEJA BĄKOWSKA
Imiona przodków Salomona we wszystkich trzech wersjach językowych są
ekwiwalentne, tłumacze dokonali przeniesienia imion łacińskich52 na grunt języków narodowych, wprowadzając co najwyżej niewielkie zmiany w pisowni. Interesujące są natomiast imiona pradziadów Marchołta i Powaliszki. W tym zakresie tłumacze włoski i angielski pozostają wierni tekstowi łacińskiemu, dokonując
swoistej kalki imion łacińskich. Marchołt pochodzi z „dwunaście rodzajów
chłopskich” (wł. „io son dei dodece generation rusticale”53 , ang. „I am of the xii
kindred of chorlys”54). W zakresie onomastyki wersje włoska, angielska i łacińska są niemalże identyczne: wł. Rustico, Rusta, Rusto, Rusticello, Tarco, Tarcol,
Pharsi, Marcuel, Marquart, Marcolpho, ang. Rusticus, Rusta, Rustus, Rusticellus, Tarcus, Tarcol, Pharsi, Marcuel, Marquat, Marcolphum55. Większość imion
to derywaty od słowa rusticus (wiejski) lub pochodne określeń związanych z życiem wiejskim, np. Tarco (ang. Tarcus) może być związane z osadem winnym, a
imię Pharsi wykazuje związki z jedzeniem i może pochodzić od łacińskiego farcio, czyli przejedzenie, albo far, czyli orkisz56. Jan z Koszyczek w zakresie onomastyki postaci wykazał się szczególną obscenicznością i kreatywnością językową. W jego tłumaczeniu imiona Marchołtowych przodków związane są nie tylko
64
z wsią (np. imię Chłoptas lub Potyrała, w którym uzasadnione jest chyba doszukiwanie się związków ze słowem tyrać oznaczającym bardzo ciężką pracę, np. w
polu), lecz także ze wszystkim tym, co organiczne i co rodzi nieestetyczne skojarzenia: Gruczoł, Rzygulec, czy Mózgowiec, wreszcie niektóre imiona wyraźnie
wiążą przodków Marchołta ze światem zwierząt: Trzęsiogon, czy Warchoł57.
52
Łacińskie imiona przodków Salomona: Judas, Phares, Esron, Ara, Aminadab, Naazon, Salmon, Boos, Obeth, Isai, David, Salomon (WALTER BENARY, dz. cyt., ss. 3-4; GERARD LEEU, dz.
cyt., fragm. 4, w. 2a; JACOBUS DE BREDA, dz. cyt., ss. 4-5).
53
JAN Z KOSZYCZEK, dz. cyt., s. 209.
54
NANCY MASON BRADBURY, SCOTT BRADBURY (eds.), dz. cyt., fragm. 5, w. 2b. Chorlys –
chłop.
55
Dla porównania imiona przodków Marchołta w tekstach łacińskich: 1) Walter Benary: Rusticus, Rustan, Rusticium, Rusticellus, Tartan, Tartol, Farsi, Farsol, Marcuil, Marcuart, Marcol,
Marcolfus (WALTER BENARY, dz. cyt., ss. 3-4); 2) Gerard Leeu: Rusticus, Rusta, Rustus, Rusticellus, Tarcus, Tarcol, Pharsi, Marcuel, Marquart, Marcolphus (GERARD LEEU, dz. cyt., fragm.
4, w. 2b); 3) Jacobus de Breda: Rusticus, Rusta, Rustus, Rusticellus, Tarcus, Tarcul, Pharsi, Marcuel, Marcquart, Marcolfus (JACOBUS DE BREDA, dz. cyt., s. 4).
56
Patrz: GIAN CARLO MACCHI, Il dialogo di Salomone e Marcolfo, a cura di Gian Carlo Macchi,
2011, s. 12.
57
„Ja jestem ze dwunaście rodzajów chłopskich: Chłoptas porodził Gruczoła, Gruczoł porodził
Rudka, Rudek porodził Rzygulca, a Rzygulec porodził Kudmieja, Kudmiej porodził Mózgowca,
Mózgowiec porodził Łypia, Łyp porodził Potyrałę, Potyrała porodził Kuchtę, a Kuchta porodził
Trzęsiogona, Trzęsiogon porodził Opiołkę, Opiołka porodził Warchoła, a Warchoł porodził
KOMIZM OBSCENICZNY W TRZECH ODSŁONACH
Podobnie na podstawie analizy porównawczej imion prababek żony
Marchołta w różnych wersjach językowych utworu, można stwierdzić, że polski
tłumacz był nadzwyczaj kreatywnym onomastą, a przekładając z łaciny wykazywał się oryginalnością i śmiałością. Już w ogólnym określeniu pochodzenia kobiety, dostrzec można istotną różnicę. W tekście polskim niechlubność rodowodu Powaliszki wyrażona jest expressis verbis i bardzo siarczyście: pochodzi z
„dwunaście rodzajów kurewskich”58. Włoski tłumacz, pozostając wierny łacińskiemu pierwowzorowi, pisze o dwunastu rodzajach prostytutek („dodece generation de lupicanari”59), zachowując w ten sposób ton neutralny, umiarkowany.
Najoględniej profesja przodkiń Pani Marchołtowej określona jest w przekładzie
angielskim, w którym czytamy, że to kobieta z krwi i z rodu żon nieporządnych
(ang. „of blood and of xii kyndredes of untidy wyves” 60). Tekst polski jest najbardziej dosadny i wulgarny, podczas gdy tłumacze włoski i angielski posłużyli
się eufemizmami61. Również w zakresie samych imion największą dosadnością
odznacza się tekst polski, sugerując profesję czy prowadzenie się przodkiń Powaliszki: Kudlicha (zapewne kobieta kudłata), Pomyja (konotuje bród), Wardęga (to ktoś, kto się włóczy, łazęga62), Przepołudnica (dawne określenie prostytutki63), Wieszczyca (wróżka), Leżuchna (sugeruje kogoś, kto lubi leżeć, jest leniwy lub rozwiązły64), Niewtyczka (konotacje erotyczne), Chwycicha, Mędrygrała, Suwalanka, Niesiemkła, Powaliszka. Z kolei w tekstach włoskim i angielskim
zostało dokonane przeniesienie imion łacińskich, np. słowo lupa, będące podstawą słowotwórczą m.in. takich imion jak: Lupica i Lupicana (identycznie w
wersji włoskiej i angielskiej65) po łacinie poza wilczycą może oznaczać również
Marchołta, a ja jestem Marchołt” (JAN Z KOSZYCZEK, dz. cyt., s. 88).
58
JAN Z KOSZYCZEK, dz. cyt., s. 88.
59
El Dyalogo di Salomon et Marcolpho, cyt., s. 209.
60
NANCY MASON BRADBURY, SCOTT BRADBURY (eds.), dz. cyt., fragm. 5, w. 2c.
61
W drukach łacińskich żona Marchołta pochodzi z dwunastu rodzajów prostytutek „duodecim
generacionibus lupitanarum” (WALTER BENARY, dz. cyt., s. 4; GERARD LEEU, dz. cyt., fragm. 4,
w. 2c; JACOBUS DE BREDA, dz. cyt., s. 4).
62
WITOLD DOROSZEWSKI, Słownik języka polskiego, PWN, Warszawa 1996-1997.
63
Słownik staropolski, kom. red. Kazimerz Nitsch, Zenon Klemensiewicz, Stanisław Urbańczyk,
Jan Safarewicz, t. VII, Zakład Narodowy im. Ossolińskich, Wydawnictwo PAN, Kraków 19731977.
64
Słownik polszczyzny XVI wieku, kom. red. Stanisław Bąk et al., t. XII, Zakład Narodowy im.
Ossolińskich-Wydawnictwo PAN, Wrocław 1979.
65
Wł. Lupica, lupicana, Ludiprag, Bonestrung, Boledrut, Pladrut, Lorda, Curta, Lurtulla, Curtella, Polica, Policana; ang. Lupica, Lupicana, Ludibrac, Bonestrung, Boledrut, Paldrut, Lorda,
Curta, Curtula, Curtella, Polica, Polycana.
65
NADZIEJA BĄKOWSKA
prostytutkę, a włoskie lupanare dom publiczny (również w języku polskim lupanar funkcjonuje jako określenie domu publicznego).
4.2 Różnice ilościowe: redukcje i amplifikacje
Uwagę zwraca wiersz łaciński oraz odnoszący się do niego krótki komentarz, które pojawiają się w wersji angielskiej i drukach łacińskich: Waltera Benary’ego, Gerarda Leeu i Jacobusa de Bredy, a które nie występują ani w tekście
polskim ani włoskim.
Femina deformis tenebrarum subdita formis
Cum turpi facie transit absque die.
Est mala res multum turpi concedere cultum
Sed turpis nimirum turpe ferat vicium66
Wiersz poprzedzony jest komentarzem, który głosi, że utwór został skomponowany o kobiecie podobnej do żony Marchołta przez pewnego młodego mężczyznę67. Czterowiersz stanowi zwieńczenie opisu brzydoty Powaliszki. W swobod66
nym tłumaczeniu utwór głosi:
Kobieta zdeformowana, poddana okrutnym formom ciemności,
Z brzydką twarzą chadza unikając światła dnia.
Złem jest nadmierna adoracja brzydkiej kobiety,
Brzydka kobieta znosi defekty swej urody 68
Nancy Mason Bradbury i Scott Bradbury w krótkim komentarzu do tego wiersza stwierdzają, że oczywista jest jego mizoginistyczna wymowa, nie jest jednak
do końca jasne jego znaczenie. Trudno zawyrokować, jakie przyczyny legły u
podstaw decyzji polskiego i włoskiego tłumacza, aby nie przełożyć, ani nawet nie
zamieścić w oryginalnej postaci łacińskiej tego fragmentu.
66
NANCY MASON BRADBURY, SCOTT BRADBURY (eds.), dz. cyt., fragm. 4, w. 7; WALTER BENAdz. cyt., s. 3; GERARD LEEU, dz. cyt., fragm. 3, w. 7; JACOBUS DE BREDA, dz. cyt., s. 4.
67
„Of suche a woman or of another lyke unto hyre, a yonge man hath made this verses folowyng: Femina deformis tenebrarum subdita formis / Cum turpi facie transit absque die. / Est
mala res multum turpi concedere cultum / Sed turpis nimirum turpe ferat vicium. That is to
saye, an evyll favouryd and a fowle blacke wyf behovyth to shewe the dayes lygth. It is to oure
yes medycyne to se that fayre is and fyne” (NANCY MASON BRADBURY, SCOTT BRADBURY (eds.),
dz. cyt., fragm. 4, w. 7-8).
68
Parafraza dokonana na podstawie tekstu łacińskiego, tłumaczenia na włoski Gian Carla Macchiego oraz tłumaczenia na angielski Nancy Mason Bradbury i Scotta Bradbury.
RY,
KOMIZM OBSCENICZNY W TRZECH ODSŁONACH
Warto przyjrzeć się w perspektywie porównawczej replikom Marchołta,
albowiem można w tym zakresie zaobserwować pewne znamienne rozdźwięki
między poszczególnymi tłumaczeniami na języki narodowe. Są one nieliczne, ale
wydają się świadczyć o nieco większej dosadności i obsceniczności tekstu polskiego na tle pozostałych dwóch rozpatrywanych tu przekładów. Na Salomonową sentencję: „Człowiek, który się upija winem, ten nie chowa czasu w mówieniu”69 (wł. „Lo imbrago e cotto dal vino, non sguarda a tempo alcuno col so parlar”70, ang. „He that is wine droken holdyth nothing that he sayth”71) Marchołt
odpowiada z właściwą sobie sprośnością, nieobyczajnością i ostentacyjnym brakiem szacunku dla majestatu króla:
Ktokolwiek ma sytą rzyć,
trudna ją zatworzyć.
Rada się mu dupa puka,
gdy mu w brzuchu barzo buka72.
Błazen sprowadza mądrość władcy do fizjologii. Podobnie czyni w tekście włoskim i angielskim: wł. „El cul rotto non ha padron”73, ang. „An opyn arse hath
no lord”74. Jednakże w wersji Jana z Koszyczek obsceniczna riposta jest bardziej
rozbudowana, bardziej dobitna i o krok dalsza od subtelności i przyzwoitości.
Tekst polski jest dłuższy, odwołuje się w większym stopniu do konkretnych obrazów, a ponadto operuje rymem („puka” – „buka”), który podkreśla ludowy
charakter mądrości reprezentowanej przez grubego a sprosnego błazna75. Innym
przykładem większej dosadności polskiego tłumaczenia jest Marchołtowa riposta
na maksymę Salomona: „Jedzmy i pijmy, bo wszytcy zemrzemy”76 (wł. „Mansiamo e beviamo, peroché tutti habiamo a morir”77, ang. „Lete us ete and drinke; we shall alle deye”78). Błazen odpowiada: „tako rychło łaczny umiera jak syty,
69
JAN Z KOSZYCZEK, dz. cyt., s. 94.
El Dyalogo di Salomon et Marcolpho, cyt., s. 213.
71
NANCY MASON BRADBURY, SCOTT BRADBURY (eds.), dz. cyt., fragm. 5, w. 48a.
72
JAN Z KOSZYCZEK, dz. cyt., s. 94.
73
El Dyalogo di Salomon et Marcolpho, cyt., s. 213.
74
NANCY MASON BRADBURY, SCOTT BRADBURY (eds.), dz. cyt., fragm. 5, w. 48b.
75
„Culus perforates non habet dominum” (WALTER BENARY, dz. cyt., s. 14), „culus confractus
non habet dominum” (GERARD LEEU, dz. cyt., fragm. 4, w. 48b), „culus confractus, non habet
dominus” (JACOBUS DE BREDA, dz. cyt., s. 9).
76
JAN Z KOSZYCZEK, dz. cyt., s. 95.
77
El Dyalogo di Salomon et Marcolpho, dz. cyt., s. 214.
78
NANCY MASON BRADBURY, SCOTT BRADBURY (eds.), dz. cyt., fragm. 5, w. 56a.
70
67
NADZIEJA BĄKOWSKA
któremu się dupa otwiera”79. Również w tym przypadku teksty włoski i angielski
odznaczają się mniejszą obscenicznością, nie odwołują się do obrazów aż tak
konkretnych, jak tekst polski. W tekstach włoskim i angielskim odpowiada, że
tak samo umrze głodny, jak najedzony (wł. „Cussí more l’affamato come quel
che ha mazato”80, ang. „The hungery dyeth as wele as the full fedd”81). Tekst
polski jest dosadny i odwołuje się do konkretnych nieprzystojnych obrazów procesów fizjologicznych.
4.3 Konkretyzacja vs. Eufemizacja
W finalnej scenie w tekście włoskim błazen obnaża przed królem pośladki
(„nateghe”82), rzyć („el culo”83) i inne członki nieprzywoite („li membra deshoneste”84), w tłumaczeniu angielskim pokazuje rzyć („arshole”85) i inne części plugawe
(„othre fowle gere”86). Na tle tłumaczeń na języki włoski i angielski, przekład Jana z Koszyczek odznacza się największą dosadnością i wulgarnością, Marchołt
odsłania bowiem „rzyć i jajca”87. Dla porównania warto odnotować, że w tekstach łacińskich pokazane zostają pośladki, odbyt, penis i jądra („nates, et culus,
et gurgulio, et testiculi”88). Najwyraźniej tłumacze włoski i angielski zdecydowali
68
się na złagodzenie dosadności i konkretności obrazów proponowanych przez
tekst łaciński, który drobiazgowo wylicza części ciała, które Marchołt najpierw
roznegliżował, a potem zaprezentował w całej okazałości przed obliczem królewskim. Tłumaczenie Jana z Koszyczek przewyższa pozostałe dwa teksty (a niekiedy również teksty łacińskie) w wulgarności błazeńskich replik, konkretności
obrazów brzydoty i plugastw oraz rubasznych gestów, nie mniej jednak, nawet
jeśli w tekstach włoskim i angielskim obscenizm występuje w postaci eufemistycznej, niewątpliwie stanowi źródło śmiechu.
79
JAN Z KOSZYCZEK, dz. cyt., s. 95.
El Dyalogo di Salomon et Marcolpho, dz. cyt., s. 214.
81
NANCY MASON BRADBURY, SCOTT BRADBURY (eds.), dz. cyt., fragm. 5, w. 56b.
82
Tamże, s. 229.
83
Tamże.
84
El Dyalogo di Salomon et Marcolpho, dz. cyt., s. 229. Wśród synonimów wyrazu disonesto (nieuczciwy) słownik Treccani wylicza m.in. przymiotnik obsceniczny, a także: rozwiązły, niemoralny, lubieżny, nieprzyzwoity, brudny, bezwstydny.
85
NANCY MASON BRADBURY, SCOTT BRADBURY (eds.), dz. cyt., fragm. 24, w. 8.
86
Tamże, fragm. 24, w. 8.
87
JAN Z KOSZYCZEK, dz. cyt., s. 118.
88
WALTER BENARY, dz. cyt., s. 43; GERARD LEEU, dz. cyt., fragm. 24, w. 8; JACOBUS DE BREDA,
dz. cyt., ss. 29-30. Gerard Leeu i Jacobus de Breda: „nates, et culus, et curgulio, et testiculi”.
80
KOMIZM OBSCENICZNY W TRZECH ODSŁONACH
5. Podsumowanie
Rozbieżności między rozpatrywanymi tłumaczeniami w zakresie dosadności dowcipów nie są raczej silnie motywowane ani względami czasowymi, ani
geograficznymi. W latach, kiedy były one drukowane, dowcipy fekalne „nie stanowiły jeszcze obyczajowej prowokacji, lecz mieściły się w określonym typie
przerysowanej sytuacji komicznej, w równym stopniu śmieszącej plebs, jak i wykształcone środowiska dworskie”89. Ponadto badania dowodzą, że co prawda
„humor skatologiczny szczególną popularność zdobył sobie na obszarze niemieckojęzycznym, ale obecny był w całej ówczesnej Europie, czego najlepszym
dowodem mogą być z jednej strony bujnie plewiące się przekłady Ulenspiegla na
języki narodowe, z drugiej zaś takie dzieła, jak choćby wspomniane Figliki Reja
(1562) czy francuski Gargantua i Pantagruel Françoisa Rabelais’go (15321564)”90. Nie wydaje się uzasadnione mówienie o odcieniach narodowych komizmu obscenicznego. Konkretne cechy etniczne nie uzewnętrzniają się w sposób
szczególny bowiem w poszczególnych przekładach, przynajmniej w zakresie
komizmu. Przytoczone przykłady pozwalają jednak na wyłonienie dwóch tonów,
czy też odcieni komizmu obscenicznego: dosadnego (tłumaczenie Jana z Koszyczek) i eufemizującego (tłumaczenia włoskie i angielskie). Przeprowadzone analizy wyraźnie wykazują, że w większości przypadków w porównaniu z tłumaczeniami włoskim i angielskim, polski tłumacz proponuje swoim czytelnikom nieco
bardziej siarczyste wersje dowcipów i wyraziściej wymalowuje obscenizm poszczególnych sytuacji komicznych, przydając im nieraz dodatkowej pikanterii.
Natomiast tłumacze włoski i angielski zwykle bądź pozostają wierni łacińskiemu
pierwowzorowi, bądź wręcz decydują się na jego złagodzenie, zastępując konkretne nieprzystojne obrazy, ich ogólnymi zarysami.
W świetle przedstawionych wniosków nasuwa się pytanie o przyczyny
większej dosadności polskiego przekładu, na które odpowiedź stanowiłaby ciekawy rys charakterystyki polsko-włosko-angielskich stosunków kulturowych i
obyczajowych panujących na przełomie XV i XVI wieku. Stwierdzenie, w jakim
stopniu większą dobitność tłumaczenia Jana z Koszyczek należy wiązać ze staropolską kulturą literacką, a na ile z różnicami obyczajowymi, wymaga wyjścia po89
RADOSŁAW GRZEŚKOWIAK, EDMUND KIZIK, Sowiźrzał krotochwilny i śmieszny. Krytyczna edycja staropolskiego przekładu „Ulenspiegla”, Wydawnictwo Uniwersytetu Gdańskiego, Gdańsk
2005, s. XXVII.
90
Tamże.
69
NADZIEJA BĄKOWSKA
za nurt literatury błazeńskiej i podjęcia badań większego korpusu tekstów, zawierających elementy komizmu obscenicznego.
BIBLIOGRAFIA
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71
ALESSANDRA ANGELINI
L’Insurrezione di Chmielnicki nella letteratura
dell’Emigrazione ottocentesca. Due esempi
«pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», (VI) 6, 2015, pp. 73-92
ABSTRACT
The article compares two 19th century historical novels about the Cossack upris-
ings of the 17th century. Z burzliwej chwili by Teodor Tomasz Jeż describes the eve of
Khmel’nytskyj’s Uprising, while Michał Czajkowski’s Hetman Ukrainy depicts the later civil war
period called “the Ruin”. The authors were well-known émigré activists and former insurgents,
now mostly forgotten in the literary canon. Their narratives influenced later works about the
Cossacks. Similarities and differences between these works are discussed, highlighting aspects of
Ruthenian society omitted by the authors.
KEYWORDS
historical novel, Cossacks, Bodan Khmel’nyts’kyj
73
1. Introduzione
I
l romanzo storico è uno dei generi più longevi della letteratura polacca. Nato in età stanislaviana con gli esperimenti di Ignacy Krasicki e Michał Krajewski, conobbe una parentesi di ambientazione medievale, largamente
ispirata al romanzo gotico, con le opere di Anna Mostowska degli inizi
dell’Ottocento1. Com’è noto, a partire dagli anni Venti del XIX secolo la fortuna del modello di Walter Scott2 influì sullo sviluppo di questo genere, fornendogli alcuni elementi che lo caratterizzarono per buona parte del secolo: un narratore onnisciente ed eterodiegetico, l’interesse per la microstoria, la commistione di personaggi storici reali e fittizi, avvenimenti epocali usati come mero
sfondo per intrecci basati su rapimenti di fanciulle, personaggi dall’identità misteriosa, profezie o altri elementi soprannaturali di richiamo romantico. A partire dagli anni Quaranta e Cinquanta, poi, è possibile distinguere due nuove cor1
ALINA WITKOWSKA, Romantyzm, PWN, Warszawa 1997, pp. 108-109.
Com’è noto, l’influenza di Walter Scott (1771-1832) su questo genere di prosa fu immensa in
tutti i paesi europei in cui una narrativa simile conobbe popolarità. Sarebbe certamente utile approfondire una comparazione sull’influenza di Scott e sulle caratteristiche del romanzo storico in
Polonia e in Italia, ma ciò esula dai limiti della presente trattazione.
2
ALESSANDRA ANGELINI
renti: la gawęda szlachecka, un tipo di narrazione caratterizzato da ampia libertà
compositiva e modellata come una narrazione orale in prima persona di cui sono un celebre esempio i Pamiątki Soplicy di Henryk Rzewuski, e la cosiddetta
powieść dokumentalna, il romanzo storico basato solo su fatti e personaggi reali,
ispirato all’imponente ciclo storico di Józef Ignacy Kraszewski3.
Per tutto il corso del XIX secolo lo sviluppo e la funzione sociale di questo tipo di narrativa furono legati alle condizioni della vita politica polacca, come la scomparsa dello Stato e le restrizioni imposte dagli occupanti. La letteratura permetteva di veicolare al pubblico messaggi di speranza nella rinascita nazionale e rievocare il glorioso passato della Repubblica eludendo la censura4.
Nell’interpretazione dei fatti dalla prospettiva del XIX secolo, spesso
questi romanzi storici e i loro narratori extradiegetici asserivano di raccontare
verità storiche nascoste, e le loro rappresentazioni venivano accolte come tali dai
lettori dell’epoca5. Questo ha favorito la longevità di alcuni miti storici e politici
nell’immaginario polacco (ne sono un esempio l’esaltazione della democrazia
nobiliare o della tolleranza religiosa attribuite alla Repubblica delle Due Nazioni, unico paese dell’Europa dell’età moderna privo di roghi o di colonie). Se74
condo Daniel Beauvois, autore di una fondamentale opera storiografica sul rapporto tra la szlachta, i contadini e il governo russo in Ucraina occidentale, rompere l’incanto della pseudo-storia sarebbe il compito più importante per uno
storico dell’Europa orientale6.
Dall’ottica degli studi sugli stereotipi nella cultura polacca occorre segnalare l’utile suddivisione operata da Danuta Sosnowska in merito al mito letterario dell’Ucraina: per la studiosa esisterebbero due miti ucraini, uno chiaro e uno
scuro. Rappresentanti del primo, che sottolineano il rapporto fraterno coi vicini
orientali, sarebbero autori come Zaleski o lo stesso Czajkowski. Al secondo
gruppo apparterrebbero invece quelle narrazioni, come le opere storiografiche o
3
HENRYK MARKIEWICZ, Pozytywizm, PWN, Warszawa 2008, p. 196.
Storia della letteratura polacca, a cura di Luigi Marinelli, Einaudi, Torino 2004, p. 280; cfr. anche HENRYK MARKIEWICZ, op. cit., pp. 192-193.
5
HENRYK MARKIEWICZ, op. cit., p. 196.
6
DANIEL BEAUVOIS, Trójkąt Ukraiński. Szlachta, carat i lud na Wołyniu, Podolu i Kijówszczyźnie
1793-1914, Wydawnictwo UMCS, Lublin 2005, pp. 8-13. Nell’introduzione, l’autore parla di letteratura, per la sua influenza sullo sviluppo del mito dei kresy wschodnie: il testo, come spiega
anche il titolo, riguarda un’epoca successiva al Seicento e pertanto esula dall’argomento del presente articolo. Altre dichiarazioni dello storico su questo tema sono reperibili in rete, cfr.
<http://ornatowski.com/lib/demokracjiszlacheckiejniebylo.htm>.
4
L’INSURREZIONE DI CHMIELNICKI NELLA LETTERATURA DELL’EMIGRAZIONE
narrative di Franciszek Rawita-Gawroński, ma anche lo stesso Ogniem i Mieczem di Henryk Sienkiewicz, in cui l’Ucraina è descritta come un paese eternamente in rivolta, abitato da popolazioni disumanizzate “inebriate dall’odore del
sangue”7. Il presente articolo si propone di delineare brevemente alcuni degli
aspetti salienti di due romanzi storici: Z burzliwej chwili di Teodor Tomasz Jeż,
che descrive gli eventi precedenti la rivolta di Chmielnicki, e lo Hetman Ukrainy
di Michał Czajkowski, incentrato sul periodo della “ruïna”. Si prenderà in esame
in primo luogo il rapporto dei due scrittori con la storia, in secondo luogo si
analizzeranno le opere in una prospettiva narratologica che permetterà anche di
enucleare in un’ottica orientalista alcuni dei loro messaggi latenti.
2. Biografie degli autori
Gli autori analizzati in questa breve disamina sono due esponenti della
Grande Emigrazione di discreta fama presso i lettori del loro tempo, oggi tuttavia quasi dimenticati. Le analogie tra le loro biografie sono abbastanza interessanti. Nonostante le numerose opere pubblicate, nessuno dei due si considerava
a pieno titolo un letterato8. Entrambi provenivano da famiglie della media nobiltà (stanziate sulla Riva Sinistra del Dnipro nell’odierna Ucraina), entrambi emigrarono per aver partecipato a due diverse Insurrezioni9. Collaborarono a società segrete come agenti e organizzatori militari, ma se uno è da annoverarsi tra i
fondatori del Towarzystwo Demokratyczne Polskie, in seguito Narodowa Demokracja, l’altro lavorò sotto la direzione dei conservatori legati all’Hôtel Lambert. Il voliniano Michał Czajkowski, annoverato nella scuola romantica di scrittori quali Antoni Malczewski o Seweryn Goszczyński, era molto noto in Polonia
per opere come Powieści Kozackie (1837) o Wernyhora, wieszcz ukraiński (1838)
e, avendo dedicato la quasi totalità dei suoi testi alla storia del Cosaccato, spesso
7
DANUTA SOSNOWSKA, Stereotyp Ukrainy i Ukraińca w literaturze polskiej, in Narody i Stereotypy,
a cura di Teresa Walas, Kraków 1995, pp. 125-127.
8
Tutti gli studiosi che si sono occupati di Czajkowski sottolineano la tarda età alla quale approdò
alla letteratura; per un’analisi recente si veda ANDRZEJ FABIANOWSKI, Rola Kozaczyzny w koncepcjach politycznych Czajkowskiego, in Szkoła ukraińska w romantyzmie polskim. Szkice polskoukraińskie, a cura di Stanisław Makowski et. al., nakł. Wydziału Polonistyki Uniwersytetu
Warszwaskiego, Warszawa 2012, p. 422. Sul casuale approdo alla letteratura da parte di Jeż cfr.
WIESŁAW RATAJCZAK, Teodor Tomasz Jeż i wiek XIX, Poznańskie Studia Polonistyczne, Poznań
2006, pp. 10-13.
9
Czajkowski emigrò nel 1831, Jeż solo dopo il 1863. JADWIGA CHUDZIKOWSKA, Dziwne życie
Sadyka Paszy. O Michale Czajkowskim, PIW, Warszawa 1971, pp. 81-92; WIESŁAW RATAJCZAK,
op. cit., pp. 21-34, 96-101.
75
ALESSANDRA ANGELINI
veniva tacciato dai contemporanei di vera e propria kozakomania. Oltre che autore assai prolifico di romanzi brevi, fu un importante agente segreto del principe Czartoryski in Turchia: la sua decisione di convertirsi all’Islam (1850), presumibilmente per motivi politici, non ne diminuì la popolarità, ma fu oggetto di
scandalo per il pubblico e la critica10. L’opera di Czajkowski qui in esame, Hetman Ukrainy, descrive le lotte di potere tra i successori di Bogdan Chmielnicki11.
È apparsa per la prima volta nel 1841, ma faremo riferimento alla seconda edizione, ampliata dall’autore e pubblicata nel 1863.
Teodor Tomasz Jeż, pseudonimo di Zygmunt Miłkowski, era un attivista
di orientamento democratico originario della Podolia. Definibile come appartenente alla scuola positivista di Varsavia, fu celebre soprattutto per opere a tematica contadina (Wasyl Hołub, 1858) o romanzi ambientati nei Balcani (Uskoki,
1870; Narzeczona Harambaszy, 1872). Come romanziere storico testimonia “che
la concreta produzione di testi in un’epoca contrassegnata da notevoli attitudini
teoretiche e critiche si è svolta spesso in palese contraddizione con le indicazioni
di queste ultime”12. La sua monumentale produzione letteraria, seconda per
numero di pubblicazioni solo a quella di Józef Ignacy Kraszewski, si compone
76
principalmente di saghe familiari all’incrocio tra il romanzo di costume e quello
storico, ma è significativa anche la parte autobiografica della sua produzione letteraria, in cui descrive sagacemente la sua epoca e i personaggi che la caratterizzavano. Il romanzo oggetto di questo articolo, Z burzliwej chwili, è considerato
uno dei più riusciti tra le sue opere a sfondo storico13: narra la storia personale
di Bogdan Chmielnicki e della sua famiglia durante l’Insurrezione del 1648 e
apparve a puntate nel 1880 sulla rivista «Przegląd Tygodniowy Życia Społecznego, Literatury i Sztuk Pięknych», stampata a Varsavia.
Nelle loro descrizioni e interpretazioni dell’Insurrezione di Chmielnicki e
delle guerre che ne seguirono, e del modo in cui esse hanno contribuito alla fine
della Respublica polacco-lituana, i nostri due scrittori presentano significativi
aspetti in comune, ma anche differenze sostanziali.
Le differenze stilistiche tra i due sono dettate perlopiù dall’affiliazione a
diverse scuole letterarie, anche se entrambi risentono di influssi della scuola oppo10
JADWIGA CHUDZIKOWSKA, op. cit., pp. 309-311.
Qui e altrove mi servirò della forma polacca dei nomi ucraini.
12
Storia della letteratura, cit., p. 275.
13
HENRYK MARKIEWICZ, op. cit., p. 201.
11
L’INSURREZIONE DI CHMIELNICKI NELLA LETTERATURA DELL’EMIGRAZIONE
sta. Lo stile di Czajkowski è caratterizzato da una prosa quasi poetica, un ampio
uso di figure retoriche, un tentativo di riprodurre per iscritto numerosi canti popolari e un ritmo incalzante – che ricorda la gawęda – presente in quasi tutte le sue
opere (sull’influsso di Mickiewicz sulla sua poetica è stato scritto un volume assai
esaustivo14: qui ci limiteremo a segnalare, tra le ispirazioni stilistiche mickiewiczane nella prosa poetica di Czajkowski, la tendenza ad antropomorfizzare i luoghi
geografici15). Dal canto suo, Jeż è spesso paragonato a Kraszewski anche per gli
ingenui anacronismi della ricostruzione storica16. Attento alla stilizzazione linguistica e ai dettagli di costume, spesso, nell’aprire un capitolo o una sequenza, si sofferma sulla descrizione di qualche antica consuetudine legata alla vita di campagna o di città, o su caratteristiche peculiari della natura ucraina17. Come autore di
romanzi storici, risente particolarmente del modello di Walter Scott, soprattutto
per l’evidenziazione di contrasti tra l’idilliaca vita rurale e la macabra e grottesca
realtà della guerra, ma anche per l’eroismo patetico dei suoi personaggi prediletti18, caratteristiche che facilmente sfuggono all’etichetta positivista e rimandano al
romanticismo. Conforme al positivismo in Jeż è invece l’accenno a particolari teorie scientifiche, oggi desuete, ma che godettero di grande fortuna all’epoca. In
termini di fisiognomica, in Z burzliwej chwili lo scrittore ad esempio spiega così la
sopravvivenza di Chmielnicki a un colpo mortale infertogli dai nemici:
Gli storici non hanno certezze su quale fosse la sua provenienza. In merito, come prova
può forse servire l’incidente che gli capitò durante quella spedizione. Prese una mazzata
in testa e il cranio non gli si spaccò. Se non fosse stato di origini polacche, si sarebbe di
sicuro spaccato, per quanto fu forte il colpo. Gli storici che non vogliono riconoscere la
sua polonità, vedono la ragione per cui allora non morì nel fatto che in testa avesse una
celata. Debole come argomento!19
14
JULIUSZ KIJAS, Michał Czajkowski pod urokiem Mickiewicza, nakładem Uniwersytetu Jagiellońskiego, Kraków 1959
15
Come nell’incipit del VII capitolo: “La vecchia Kiev è vecchia, e il Dnipro è ancor più vecchio,
i due vecchietti si sono abbracciati e parlano tra loro” (Stary Kijów, stary, a Dniepr jeszcze starszy, dwaj starcowie do siebie się przytulili i rozmawiają z sobą). MICHAŁ CZAJKOWSKI, Hetman
Ukrainy, F.A. Brockhaus, Lipsk 1863, p. 68.
16
HENRYK MARKIEWICZ, op. cit., p. 200.
17
Ad esempio, nel primo tomo, il capitolo intitolato Pustka si apre con una descrizione dei cavalli ucraini, delle loro origini e caratteristiche fisiche; un buon numero di informazioni
sull’allevamento e l’agricoltura nelle Terre Selvagge costituisce l’inizio del capitolo Na futorze
ecc. TEODOR TOMASZ JEŻ, Z burzliwej chwili, Nakł. Redakcji Przeglądu Tygodniowego, Warszawa 1880. Edizione Kindle.
18
HENRYK MARKIEWICZ, op. cit., pp. 200-201.
19
“Historycy pewności nie mają, jakiego on był pochodzenia. Za legitymacyę pod względem tym
77
ALESSANDRA ANGELINI
Dal punto di vista contenutistico, l’opera di Czajkowski racchiude, come
spesso avviene nei suoi romanzi, un sottotesto apertamente politico in veste storica, orientato a chiarire, ricostruire e rileggere avvenimenti lontani e poco noti.
Per questo motivo i suoi personaggi sono tutti individui realmente esistiti, legati
alla starszyzna e alla famiglia di Chmielnicki; sebbene sia considerato un romantico e un emulatore di Walter Scott, il modello della sua narrazione risente molto meno di quella lezione di quanto non faccia il romanzo di Jeż, come è possibile mostrare attraverso una disamina della narrazione e dei personaggi.
3. Sinossi, analisi narratologica e schema dei personaggi
Hetman Ukrainy non ha come protagonista Chmielnicki, poiché riguarda
gli intrighi legati alla sua successione, all’inizio dell’epoca che nella storiografia
ucraina viene definita “Ruïna”20. La figlia del defunto etmano, Helena – che desidera far eleggere come successore il marito Daniel Wyhowski – lotta con la
starszyzna che intende invece rimpiazzare il condottiero con l’unico discendente
rimasto in vita, il giovane Jurij, che non è ancora maggiorenne e vive in un monastero. Lo sostituisce temporaneamente Iwan Wyhowski21, voievoda di Kiev,
78
l’uomo che, secondo Czajkowski (e ampie fasce della nobiltà ucraina), avrebbe
potuto ripristinare un’alleanza coi polacchi contro Mosca: per le sue doti personali, forse, gli accordi di Hadziacz che riuscì a stipulare coi polacchi in vista di
un’imminente invasione moscovita sarebbero stati implementati, la sua capacità
di dialogare col re – e di affrontare adeguatamente la questione confessionale –
najlepszą posłużyć może wypadek, jaki go w wyprawie tej spotkał. Dostał obuchem w łeb i
czaszka mu nie pękła. Gdyby nie był z pochodzenia polskiem, byłaby niezawodnie pękła – tak
uderzenie było silne. Historycy, którzy mu polskości przyznawać nie chcą, powód, dla którego
nie zginął wówczas, upatrują w tem, że na głowie miał misiurkę. Słaby to dowód”. TEODOR TOMASZ JEŻ, op. cit., Tomo III, Capitolo XI Wyprawa na Futorze.
20
Il primo ad impiegare questo termine fu Samijlo Velyčko (1670-1728), per indicare la seconda
metà del diciassettesimo secolo, nella sua cronaca apparsa nel 1720 (Letopis sobytnij v jugozapadnoj Rossii v XVII v.); la periodizzazione vera e propria è controversa: Mykola Kostomarov
designa così il ventennio 1663-1687, facendo coincidere il periodo con l’elezione di tre etmani
voluti da Mosca sulla Riva Sinistra del Dnipro, Borys Krupnyts’kyj definisce così il trentennio
(1657-1687) dalla morte di Bogdan Chmielnicki all’elezione di Ivan Mazepa. Sebbene talora
contestato, il termine è stato adottato anche da studiosi del diciannovesimo secolo (oltre Kostomarov, lo impiega Hruševs’kyj nella sua Istorija Ukrajiny-Rusi) ed è in uso tuttora anche tra gli
storiografi russi (cfr. TATIANA TAIROVA-JAKOVLEVA, Ivan Mazepa i Rosijska Imperija – istorija
“zradi”, Clio, Kiev 2007)
21
Iwan Wyhowski sosteneva la necessità di un riavvicinamento alla Polonia e fu attore di primo
piano delle trattative per gli accordi di Hadziacz. Daniel suo fratello, fu nominato etmano dai
polacchi, ma in seguito venne giustiziato con l’accusa di tradimento.
L’INSURREZIONE DI CHMIELNICKI NELLA LETTERATURA DELL’EMIGRAZIONE
ne avrebbero fatto, secondo l’autore-narratore, l’unico successore adeguato di
Bogdan. I fatti narrati trovano perlopiù riscontro nella storiografia contemporanea22, come dimostrano ad esempio le descrizioni di determinate battaglie e dei
loro partecipanti (le più importanti sono la Battaglia di Konotop23, con cui si
apre la narrazione, e la presa di Čehyryn con l’uccisione di Daniel Wyhowski).
L’unico personaggio di fantasia sembra essere una giovane di nome Paraska, di
cui Jurij è innamorato, funzionale alla trama in quanto incita il giovane titubante
a prendere il potere se intende conquistarla.
Czajkowski sembra voler rappresentare una situazione politica che pareva potersi ancora risolvere per il meglio, ma che infine precipita a causa delle
mire private di alcuni. Interpretando il passato in questo modo, lo scrittore traccia una linea di continuità con la propria epoca, con affermazioni che peraltro illustrano le sue concezioni storico-politiche. Ad esempio, in questo passo tratto
dall’introduzione, egli crede che l’elezione di Wyhowski avrebbe potuto evitare
l’espansione russa e il panslavismo, lasciando al re polacco tutte le terre della
Rzeczpospolita:
E se oggi ci fosse un simile uomo, respingerebbe lo Zarismo Slavo, il Margravio Wielopolski e la Repubblica Panslava di Hercen; non toccherebbe ai generali polacchi, italiani, magiari, ottentotti e Dio sa quali altri. [...] Il Re Polacco siederebbe sul trono, a Varsavia, o a Cracovia, o a Vilnius, o a Kiev, perché sarebbe lo stesso, sempre sul trono polacco dei Piast e degli Jagelloni24.
L’intento di Jeż è invece molto diverso, e lo specifica lui stesso fin
dall’introduzione, suddividendo la narrativa storica in due filoni, uno che chiama
“cronachistico” (kronikarski), mero tentativo di ricostruire il passato, l’altro “storico” (historyczny), una sorta di spazio che lo scrittore-storico usa per soppesare
gli eventi passati dalla prospettiva presente. Afferma che, a prescindere da questa
distinzione, nessuna narrazione può garantire un’obbiettività assoluta per il carat22
OREST SUBTELNY, Ukraine, a history, University of Toronto Press, Toronto 2000, pp. 143-146.
Sul reale significato della battaglia cfr. The Battle of Konotop 1659. Exploring alternatives in
East European History, a cura di Giovanna Brogi Bercoff e Oleg Rumyantsev, Collana Di/Segni,
Università degli Studi, Milano 2013.
24
“I dziś gdyby był mąż taki, odepchnąłby Caryzm Sławiański, Margrabiego Wielopolskiego i
Republikę Sławiańską Hercena; niedotykałby Generałów Polaków, Włoskich, Madziarskich,
Hotentockich i Bóg wie jakich. [...] Król Polski siedziałby na tronie, czy w Warszawie, czy w
Krakowie, czy w Wilnie, czy w Kijowie, bo to by było jedno, zawsze na tronie polskim Piastów i
Jagielonów”. MICHAŁ CZAJKOWSKI, op. cit., p. IX.
23
79
ALESSANDRA ANGELINI
tere mai univoco della Storia. Ritiene, inoltre, di essere il primo scrittore del suo
genere ad applicare alla storia un criterio di progresso, mostrando aspetti positivi e
negativi dell’epoca prescelta. In realtà questo criterio sembra applicato soprattutto
alla descrizione dei cambiamenti già menzionati in fatto di costumi o progressi
tecnico-scientifici, e in generale l’opera appare poco coerente con le sue premesse,
non rendendo affatto chiaro in quale delle due categorie andrebbe collocata.
Il narratore, infatti, sostiene di voler raccontare le vere ragioni dello scoppio dell’Insurrezione, che attribuisce alla vita familiare di Chmielnicki, in particolare la vicenda legata alla protagonista Helena/Ołena (Motrona) delle Terre Selvagge (z Dzikich Pól), la leggendaria seconda moglie dell’etmano, rapita, secondo
Jeż, dall’antagonista Daniel Czapliński nell’assalto alla tenuta di Subotów. La distruzione della tenuta della famiglia del futuro etmano è un avvenimento reale che
segnò un drastico cambiamento nella vita e nella carriera di Chmielnicki. Tuttavia,
la storiografia odierna ha opinioni contrastanti su questa versione dei fatti.
Władysław Serczyk, ad esempio, mantiene una posizione scettica, sottolineando
che, sebbene il mito della bella Helena abbia avuto una lunga vita tanto nella storiografia (a partire da Franciszek Rawita-Gawroński25) quanto nella letteratura,
80
non vi sono prove sulla veridicità della versione accettata da Jeż26. La funzione dei
dati storici scelti da Jeż sembra quella di conferire un carattere leggendario – non
privo di rimandi all’epica greca – all’intera vicenda, più che di risalire alla realtà
dei fatti in base a un criterio di verosimiglianza. Lo storico ucraino-americano
Orest Subtelny, in parte accredita la prima versione, accennando al fatto che durante l’aggressione alla tenuta di Subotów, Czapliński uccise il figlio minore di
Chmielnicki e probabilmente rapì la fanciulla che intendeva sposare, ma non approfondisce l’argomento27.
Sono pochi gli altri avvenimenti reali selezionati da Jeż; gran parte del
primo tomo del suo romanzo riguarda l’insediamento del padre della misteriosa
fanciulla (ancora in fasce) nelle Terre Selvagge; il secondo tomo descrive dettagliatamente il lungo viaggio di Tymko Chmielnicki verso i territori tatari e la Bessarabia; l’intreccio amoroso, basato sul tradizionale “triangolo”, e la sua tragica conclusione costituiscono l’argomento del terzo tomo. Helena è innamorata di Tym25
FRANCISZEK RAWITA-GAWROŃSKI, Hetman kozacki B. Chmielnicki: szkic historyczny jego życia
i walk, wyd. tow. im. Piotra Skargi, Lwów 1914
26
WŁADYSŁAW SERCZYK, Na płonącej Ukrainie, Avalon, Kraków 2000, p. 50.
27
OREST SUBTELNY, op. cit., p. 126.
L’INSURREZIONE DI CHMIELNICKI NELLA LETTERATURA DELL’EMIGRAZIONE
ko, che sembra ricambiare, ma Chmielnicki padre, conscio di questi sentimenti e
ancora sposato con la prima moglie di cui ritiene imminente la morte, porta con sé
il figlio a scortare un illustre prigioniero tataro verso Bachčisaraj, e lo manda poi
in Bessarabia, a chiedere la mano della giovane nobile Rozanda Lupu, solo per allontanarlo da Ołena e avere il tempo di sedurla, cosa che gli riesce. Nonostante la
morte della prima moglie, la faccenda si complica per il rapimento di Ołena ordito da Czapliński e si conclude tragicamente quando infine la protagonista confessa il suo amore a Tymko, forse nella speranza di sfuggire al padre, con cui ormai è
sposata. Il giovane, in uno scatto d’ira, la impicca e ne espone il cadavere sui cancelli della tenuta. L’Insurrezione, nella narrazione appena riassunta, è quasi assente non fosse che per alcune descrizioni del momento storico date dal narratore
all’inizio di alcuni capitoli.
Diversi elementi storici reali sono fatti coincidere con la fabula: la pianificazione del matrimonio di Tymko è attestata, come il saccheggio di Subotów o,
negli ultimi capitoli, la costruzione di un forte a Čehyryn. L’autore però si limita,
come avverte nell’introduzione, a trarre dalla storia degli spunti; il problema è in
quello che apporta, nonché nello scetticismo che spesso esprime rispetto alle
conclusioni della storiografia:
Che l’ammonimento di Krzywonos non era stato vano è testimoniato dal fatto che
Chmielnicki ha portato con sé il figlio a Bachčisaraj e lì lo ha lasciato nelle mani di
Islam-Girej in qualità di ostaggio. Questo fatto è noto alla storiografia, che lo menziona,
ma non ne dà alcuna interpretazione 28.
Gli avvenimenti utilizzati dagli autori nei loro lavori sono selezionati in
modo da offrire interpretazioni diverse all’avvenimento storico nel suo complesso. In entrambi i casi il motivo politico celato dietro la loro scelta temporale si
palesa anche grazie ai commenti narratoriali e ad alcune scene dialogiche. Sebbene nella pratica Jeż abbia aderito a schieramenti politici più democratici di
quelli di Czajkowski, entrambi sembrano riconoscere un ruolo politico fondamentale alla magnateria29. Com’è noto, lo schieramento di destra del principe
28
“Że przestroga Krzywonosa na marne nie poszła, świadectwem tego jest to, że Chmielnicki zabrał ze sobą syna do Bahcziseraju i tam, w rękach hana, Islam-Gieraja, zostawił w charakterze
zakładnika. Rzecz ta wiadomą jest z historyi, która fakt notuje, nie tłumacząc onego”. TEODOR
TOMASZ JEŻ, op. cit., Tomo III, Capitolo XIV (Zaślubiny niespodziane).
29
JERZY SKOWRONEK, Michał Czajkowski – Patriota pograniczy biografia tragiczna, in Losy Pola-
81
ALESSANDRA ANGELINI
Czartoryski auspicava una ricostituzione della Polonia entro i confini territoriali
del 1772, mentre i democratici come Jeż speravano nella possibilità di una federazione con ucraini, bielorussi e lituani30.
I due autori affrontano in modi diversi la questione del desiderio dei cosacchi di ottenere gli stessi privilegi della szlachta, ma è Czajkowski a cercare di
dar voce alle aspirazioni del popolo ucraino per una società più egualitaria, sorte
con la cacciata dei magnati31, come risulta da uno dei pochi discorsi trionfali
pronunciati da Jurij di fronte al popolo:
Non possiamo restare a guardare l’Ucraina che languisce! Dovremmo forse seminare e
arare come un popolo vile? Quando le nazioni straniere per noi seminano e arano, con le
sciabole e con le lance raccoglieremo i frutti del lavoro altrui! È nostro! Così facevano i
nostri padri, e così facciamo noi. Dio ci ha dato l’ampio mondo per folleggiare e razziare,
noi dovremmo dormire e diventare sedentari come le altre genti? O no, signori fratelli [...]
Istanbul ha per noi oro e stoffe pregiate. I valacchi ci raccolgono i cereali e ci danno in
tributo il bestiame. I tatari pascolano i cavalli per noi32.
L’opinione di Jeż sull’argomento sembra invece rifarsi alla teoria del
82
darwinismo sociale, nel modo in cui spiega lo sviluppo concomitante dei due
popoli; dopo una critica al sistema politico polacco allora vigente, giustifica le
aspirazioni del cosaccato in questi termini:
La natura della struttura statale polacca aveva dato ai cosacchi quell’impulso fin dall’inizio,
sicché esso non poteva non andare in quella direzione: doveva aspirare a raggiungere la posizione di ceto dominante, doveva farlo col consenso, o anche contro la volontà della “nazione nobiliare”, di quei “lachy e polacchi” ai quali il proclama di Chmielnicki imputava la
responsabilità di tutto: o dovevano dividere il potere con loro, o avrebbero preso il loro posto33.
ków w XIX w. Studia ofiarowane profesorowi Stefanowi Kieniewiczowi w osiemdziesiątą rocznicę
jego urodzin, a cura di Maria Skowronek, PWN, Warszawa 1987, p. 552.
30
WIESŁAW RATAJCZAK, op. cit., p. 160.
31
OREST SUBTELNY, op. cit., p. 141.
32
“Dosyć już gnuśnienia Ukrainie! Czyż my mamy jak podły lud jaki siać i orać? Kiedy dla nasz
cudze narody orzą, sieją, szablami i spisami zbierajmy plony cudzej pracy. To nasze! Tak robili
nasi ojcowie, i my tak robimy. Świat szeroki Bóg dla nas dał na pohulanki i na zbiory, a myż
mamy spać i sadowić się na gospodarstwo jak inni ludzie? O! Nie panowie bracia [...] Stambuł
ma dla nasz złoto i drogie bisiory. Wołosza nam zbiera zboże i hołduje bydło. Tatar dla nas wypasa konie”. MICHAŁ CZAJKOWSKI, op. cit., p. 95.
33
“Natura uspołecznienia polskiego nadawała kozakom popęd ten z góry, tak że ono w tym podążyć musiało kierunku: dążyć musiało do zajęcia stanowiska stanu panującego, za wolą, lub też
wbrew woli narodu szlacheckiego, owych ‘Lachów i Polaków’, na których uniwersał Chmielnic-
L’INSURREZIONE DI CHMIELNICKI NELLA LETTERATURA DELL’EMIGRAZIONE
Le considerazioni di Jeż sembrano riguardare esclusivamente le aspirazioni delle fasce più abbienti della società ucraina del tempo, che avrebbero preteso maggiori privilegi prendendo ad esempio lo stile di vita e le aspirazioni della
szlachta. Paradossalmente, l’autore che nella vita manifestava il pensiero maggiormente democratico e moderno, scelse di non tenere conto, in questa narrazione, della voce degli abitanti più poveri di quei territori.
Un elemento che è opportuno segnalare è l’assenza pressoché totale degli
ebrei nei nostri due romanzi. Se Czajkowski si limita, nelle primissime pagine, a
un motto di spirito (“Non contare prima della battaglia, è una cosa da ebrei” 34),
Jeż accenna alla loro esistenza solo nel primo tomo, descrivendo la confusione di
un mercato della zona di Čehyryn35. La mancanza di un aspetto così importante
nel quadro etnico complessivo dello stato polacco-lituano dell’epoca, – se davvero l’intenzione fosse stata quella di rappresentare fedelmente i fatti – è sintomatica di un utilizzo tendenzioso della vicenda narrata in entrambi gli autori, in
particolare alla luce delle tensioni etniche ed economiche del periodo, del numero di imprenditori ebrei viventi nell’Ucraina sud-occidentale36 e del peso del
sistema dell’arenda (ossia dell’appalto di gestione, spesso affidato dai proprietari
terrieri agli ebrei) sullo sfruttamento economico dei contadini, o anche del semplice fatto di quanto dolorosamente l’Insurrezione cosacca sia ancora oggi ricordata nella storia ebraica37.
L’assenza dei russi in entrambi i romanzi, anche nei momenti in cui, nella
realtà, ebbero un ruolo nel conflitto, si spiega col fatto che gli autori di opere
destinate alla diffusione nel Regno del Congresso evitavano in generale di descrivere i conflitti polacco-russi38.
La caratterizzazione negativa delle protagoniste femminili – improbabili,
fataliste, rancorose e incoscienti – è certamente un punto in comune tra le due
opere qui esaminate. La protagonista di Z burzliwej chwili è del tutto passiva rispetto alle azioni degli altri personaggi, incapace di esprimere anche solo con gli
amici o i familiari quei sentimenti che il narratore onnisciente descrive al suo pokiego całą zwala odpowiedzialność – musiało albo się z nimi władzą podzielić, albo miejsce ich
zająć”. TEODOR TOMASZ JEŻ, op. cit., Tomo I, Capitolo III (Adam Kisiel).
34
“Przed bitwą, nie licz, to żydowska rzecz”. MICHAŁ CZAJKOWSKI, op. cit., p. 3.
35
TEODOR TOMASZ JEŻ, op. cit., Tomo I, Capitolo VII (Dziewczynka).
36
WŁADYSŁAW SERCZYK, op. cit., pp. 42-43.
37
OREST SUBTELNY, op. cit., p. 124.
38
HENRYK MARKIEWICZ, op. cit., pp. 193.
83
ALESSANDRA ANGELINI
sto. Sebbene follemente innamorata di Tymko, si fa convincere rapidamente dalle parole dell’intrigante etmano a non parlare con nessuno del suo corteggiamento. Scontenta di essere stata rapita da Czapliński, nel momento in cui questi
viene barbaramente giustiziato si rende conto di amarlo. La sua cronica indecisione e passività non la rendono però meno colpevole agli occhi del narratore:
Helena aveva portato alla rivolta di Chmielnicki. Questo è un fatto su cui, non sappiamo
per quale motivo, gli storiografi non mettono l’accento – sì, Helena, quella stessa Helena
che abbiamo introdotto nel nostro romanzo come motore dell’azione drammatica. È venuta non si sa da dove, è cresciuta nella steppa “col latte delle dumy”. [...] Incantava e
contagiava. L’incanto e il contagio scaturivano da lei in modo inconsapevole, fintanto che
era una fanciulla; si piegava al vento, come una pianta perenne della steppa: si innamorò
di un giovane, si arrese all’anziano, si sposò senza amore e solo dopo esser andata a nozze
sentiva che qualcosa la tormentava e la scuoteva39.
Un altro esempio di questo atteggiamento è nel capitolo conclusivo:
Se avesse sposato non il podstarosta ma Chmielnicki non si sarebbero evitati nuovi Pavljuk, Sulima, Taras, ma non si sarebbe arrivati a quel terribile terremoto di cui fu artefice
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Chmielnicki. [...] Gli portarono via la donna che aveva adocchiato per sé; lui la riottenne,
ma l’ottenne… di seconda mano. Il cherchez la femme qui si è manifestato al massimo
grado sul piano storico. Nella donna è sepolto il groviglio dell’enigma storico, intriso di
sangue, illuminato da conflagrazioni, illustrato dalla distruzione del paese, sfilacciato da
contraddizioni quali il giuramento di fedeltà alla Repubblica e gli accordi col gran principe moscovita, il giuramento fatto al gran principe e al contempo l’atto di sudditanza al
sultano turco40.
39
“Helena bunt Chmielnickiego sprowadziła. Jest to fakt, na który, nie wiemy dla jakich racyj, dziejopisarze nacisku nie stawią – tak, Helena, ta sama Helena, którąśmy w powieści naszej, w znaczeniu motora akcyi dramatycznej, przeprowadzili. Wzięła się nie wiedzieć zkąd, wyhodowała się w
stepie, ‘mlekiem dum’ [...] Czarowała i zarażała. Czar i zarazę wydzielała z siebie bezwiednie, jak
długo dziewczyną była; pochylała się za wiatrem, nakształt byliny stepowej: pokochała młodzieńca,
oddała się starcowi, wyszła za nieluba i dopiero, za mąż wyszedłszy, uczuła, jakby ją coś targnęło i
rozbudziło”. TEODOR TOMASZ JEŻ, op. cit., Tomo III, Capitolo XIII (Chwilka zapomnienia).
40
“Gdyby wyszła była nie za podstarościego, ale za Chmielnickiego, byłoby się nie obeszło bez
nowych Pawluków, Sulimów, Tarasów, ale nie byłoby przyszło do tego wstrząśnienia straszliwego, którego sprawcą stał się Chmielnicki. [...] Zabrano mu kobietę, którą on upatrzył dla siebie;
on ją dostał, ale dostał z… drugich rąk. Cherchez la femme wystąpiło tu w pełni całej na polu historycznem. W kobiecie tkwi węzeł zagadki dziejowej, oblanej krwią, obuiluminowanej pożogami, uillustrowanej zniszczeniem kraju i nastrzępionej sprzecznościami takiemi, jak przysięganie
na wierność rzeczypospolitej i układanie się z wielkim kniaziem moskiewskim o poddaństwo,
przysięganie wielkiemu kniaziowi i równoczesne oddawanie Ukrainy w poddaństwo sułtanowi
tureckiemu”. IVI, Tomo III, cap. XV (Zachód Gwiazdy).
L’INSURREZIONE DI CHMIELNICKI NELLA LETTERATURA DELL’EMIGRAZIONE
In nessuna delle due opere ci sono personaggi che possano davvero essere definiti dinamici, ma in particolare le donne non hanno alcuna caratterizzazione psicologica, agiscono in modo inverosimile, risultando stereotipate e statiche, incapaci di evolvere in alcun modo nel corso della narrazione: nel sistema
dei personaggi l’Ołena di Jeż funziona come mero oggetto del desiderio del protagonista, mentre i personaggi maschili di Z burzliwej chwili sono anch’essi assai
piatti, ma manifestano un loro dinamismo. Questo risulta almeno nel caso dello
scaltro Chmielnicki e dell’onesto padre di Ołena, un nobile calvo e senza nome,
che per motivi ignoti nasconde la propria identità, ma conosce abbastanza bene
il diritto, per cui riesce ad entrare presto nelle grazie del padrone di Subotów.
La figura di Tymko, soprattutto per la violenta irrazionalità mostrata nel finale, è
invece un esempio della selvaggia irruenza che bene incarna il mito nero e sanguinoso a cui si accennava all’inizio del nostro lavoro.
L’Helena di Czajkowski è scialba e statica, piena di rancore sin dalle
prime pagine. Sebbene il suo unico e costante obiettivo sia l’elezione del marito
come successore di suo padre, essa sembra assumere per il narratore quasi il
ruolo di aiutante degli antagonisti, soprattutto nelle sequenze finali quando,
amareggiata dalla morte dello sposo, decide di offrire la sua mano a Paweł Tetera che le chiede di aiutarlo a conquistare il potere41. Anche l’innamorata di Jurij
Chmielnicki, Paraska, è un personaggio funzionale agli intrighi della fabula ma
privo di qualsiasi spessore caratteriale: la sua morte è un mero espediente autoriale per spiegare la ritirata politica di “Juraszko” nel 1663. Czajkowski non solo
evita di approfondire, ma neppure accenna alla controversa alleanza di Jurij
Chmielnicki con lo zar, che pure fu un importante elemento nella storia del suo
altalenante mandato e fatto determinante delle ulteriori vicende politiche
dell’Ucraina (e della Polonia). Nella sua narrazione Czajkowski risulta abbastanza fedele alla realtà storica e ne approfitta per presentare l’etmano come un personaggio debole e volubile, quasi privo di iniziative politiche, descrivendo le due
occasioni in cui il giovane viene eletto e poi deposto, ma mai mostrandolo in
azione o nello svolgimento di qualsivoglia funzione politica. Nella rappresentazione dello scrittore, Iwan Wyhowski sembra l’unico interessato alla ricerca di
41
MICHAŁ CZAJKOWSKI, op. cit., p. 194. cfr. ZBIGNIEW WÓJCIK, The early period of Pavlo Teterja’s hetmancy in the Right Bank Ukraine 1661-1663, in «Harvard Ukrainian Studies», III-IV,
1979-1980, pp. 958-992.
85
ALESSANDRA ANGELINI
un compromesso con i polacchi sulla questione politica e confessionale42: vi sono
nell’opera diverse discussioni tra Wyhowski e il re di Polonia sulla tolleranza
verso la chiesa ortodossa, sebbene l’alleanza russo-cosacca abbia avuto effetti
reali sull’andamento degli eventi, e le questioni confessionali sollevate dagli accordi di Hadziacz, invece, non siano mai state risolte43.
Il narratore si chiede con amarezza se Bogdan Chmielnicki avrebbe mai
potuto immaginare una simile tragedia per i suoi discendenti; l’opera si conclude con l’esecuzione di Wyhowski, il lutto dei suoi familiari e i giuramenti di
vendetta dei suoi seguaci.
Rispetto alla pedanteria con cui Jeż critica gli storiografi per il loro scarso
interesse nelle faccende di cuore della famiglia Chmielnicki, l’intenzione di
Czajkowski sembra quantomeno di aperto dialogo con la storiografia, dal momento che il suo obiettivo è proprio quello di mostrare da un’altra prospettiva
come si sia giunti alla catastrofe che ha travolto entrambi i popoli. Nel suo romanzo l’obiettivo comune di fronteggiare i nemici che circondano polacchi e
ucraini è un tema fondamentale, come nelle altre sue opere. Questa attenzione
alla necessità dell’unione fra slavi può essere considerata un elemento di quel
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panslavismo che l’autore avrebbe elaborato solo nei decenni successivi, e che lo
avrebbe portato a sottolineare l’idea che sia stata l’adesione al cattolicesimo a
causare l’allontanamento della Polonia dai fratelli slavi. Tuttavia, l’eccezionalità
di Czajkowski non consiste solo nell’aver adottato certe posizioni slavofile o il
suo atteggiamento critico verso il cattolicesimo. Essa consiste soprattutto nella
volontà di rappresentare per il pubblico polacco il punto di vista dei cosacchi
senza colpevolizzarli, anzi mostrando, in modo abbastanza inusuale per il tempo, la ragionevolezza delle loro aspirazioni all’indipendenza. Così ad esempio
l’autore fa pronunciare a Jurij Chmielnicki le seguenti parole:
Il polacco è arrivato armato nelle nostre terre. Il musulmano ha respinto i Zaporoghi fino a Ostrowa. Mosca ha piazzato le sue guarnigioni nei nostri castelli. I gesuiti ci dicono
di pregare il nostro Dio in latino. I bojari registrano i nostri per il servaggio. Quel cane
42
Le conclusioni di Subtelny sul periodo di governo di Wyhowski sono più o meno le stesse della narrazione di Czajkowski: “Realizing that a break with Moscow was imminent, Vyhovski intensified his effort to come to an understanding with the Poles. […] In 1658, after lengthy debate, the Ukrainian and Polish envoys reached a compromise solution known as the Treaty of
Hadiach”. OREST SUBTELNY, op. cit., p. 144.
43
IVI, pp. 143-146.
L’INSURREZIONE DI CHMIELNICKI NELLA LETTERATURA DELL’EMIGRAZIONE
non battezzato del tataro bracca le giovani, le nostre vergini per farne jasyr e renderle
schiave, e noi non abbiamo né un popolo, né un soldo, e non abbiamo a cosa appigliarci. Non ci rimane altro che fuggire oltre il Don, oltre il Volga, e da lì vedere cosa ci darà
Dio, oppure lì in terra straniera piegare la nostra testa cosacca44.
In tutta la sua produzione letteraria Czajkowski cerca di mantenere
un’impostazione equilibrata su questo aspetto: ad esempio in Stefan Czarniecki,
che è ambientato negli stessi anni, riguarda il punto di vista e i desideri della nobiltà polacca sullo sfondo delle stesse vicende belliche. Tuttavia, anche al di fuori della “scuola ucraina”, resta uno dei pochi del suo tempo ad aver tentato di
mostrare le istanze cosacche al di là di caratterizzazioni negative, peraltro stereotipate. Al contrario, nell’opera di Jeż, un’interpretazione dei fatti abbastanza
schierata, che spiegherebbe il tradimento cosacco nei confronti della “patria”
polacca come conseguenza di un puro impulso dettato dalla lussuria, è funzionale
alla narrazione, ma offre un’immagine irrimediabilmente negativa di Chmielnicki.
Lo scrittore insiste sul fatto che “in quell’uomo, dotato di enormi capacità, in
quell’ubriacone geniale c’era qualcosa di demoniaco, messo in moto e fomentato
da nient’altro che dall’esasperazione amorosa”45. Ai cosacchi viene così rimproverato di essere incapaci di avere un’idea e un progetto politico.
4. Conclusioni
Dalle considerazioni fin qui esposte si possono dedurre alcuni elementi
che differenziano (e uniscono) le due opere che abbiamo brevemente esaminato.
Nel romanzo Hetman Ukrainy appare evidente una notevole idealizzazione dello
stile di vita e una seria presa in considerazione del punto di vista dei cosacchi.
Manca tuttavia una caratterizzazione profonda dei personaggi, anche di quelli più
rilevanti. Nell’altro caso (Z burzliwej chwili) la struttura narrativa è abbastanza solida, la ricostruzione della società pare verosimile, ma il messaggio latente è che
44
“Lach zbrojno zajechał nasze kraje. Bisurman het precz w Ostrowy pozaganiał Zaporoże. Moskwa załogi powsadzała w nasze zamki. Wyzuwici naszym po łacinie Boga każą chwalić. Bojarowie naszych w poddaństwo zapisują. Tatarzyn niechrzczona psiawiara, mołodyce, dziewice nasze
w Jasyr goni; a my ani ludu nie mamy, ani grosza nie mamy, nie mamy za co zaczepić. Nic nam
nie pozostaje tylko uciekać za Don, za Wołgę, i ztamtąd wyglądać co nam Bóg da, albo tam na
czużynie położyć naszą kozaczą głowę”. MICHAŁ CZAJKOWSKI, op. cit., p. 24.
45
“W człowieku tym, obdarzonym zdolnościami ogromnemi, w tym pijaku genialnym, było coś
demonicznego, wywołanego i w ruch wprawionego nie czem innem, jeno rozdraźnieniem miłosnem”. TEODOR TOMASZ JEŻ, op. cit., Tomo III, Capitolo XV (Zachód Gwiazdy).
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ALESSANDRA ANGELINI
Chmielnicki avrebbe scatenato una sanguinosa insurrezione esclusivamente per
un capriccio personale (senza quasi accenno ai motivi economici e politici attestati
storicamente). Una simile rappresentazione dei fatti, che sia voluta o meno, sminuisce agli occhi del lettore l’importanza degli avvenimenti, non offrendo spiegazioni adeguate alle ragioni storiche profonde che li hanno scatenati.
Le similitudini nelle visioni del mondo di questi due scrittori sono comunque significative, e legate perlopiù all’epoca in cui vissero. Per nessuno dei
due, ad esempio, l’indipendenza dell’Ucraina da un’eventuale Polonia ricostituita è auspicabile o possibile, sia per Jeż che per Czajkowski i due popoli esisterebbero per vivere uniti. Se Czajkowski insiste sulla comunanza culturale e sui
nemici comuni, Jeż evita di prendere posizione o dare suggerimenti per la politica del suo tempo o per quella futura, ma sostiene una sua idea “slava” secondo
la quale la società ucraina si sarebbe plasmata come esclusivamente rurale e occuperebbe comunque una posizione di frontiera dovuta alle caratteristiche geografiche di quei territori: il contatto con la Polonia avrebbe poi rovinato l’idillio
rustico nel momento in cui i cosacchi decisero di pretendere le stesse libertà dei
nobili polacchi. Risulta quindi che le motivazioni sociali che avrebbero portato
88
alla chmielnyczczyzna e alle sue conseguenze costituiscono una discriminante
abbastanza seria fra l’opera di Czajkowski e quella di Jeż. L’argomento meriterebbe un approfondimento in altra sede. Mi limiterò ad osservare qui che la
conclusione cui sembra giungere Jeż può essere condensata nella “attualizzazione” degli eventi seicenteschi che egli compie nei confronti della propria epoca:
in considerazione dell’incapacità dei cosacchi di avere un proprio progetto politico credibile e vitale, l’uscita dell’Ucraina dai confini della Repubblica delle
Due Nazioni ha aperto le porte all’ingordigia dei popoli vicini, il che ha portato
alla rovina dello stato polacco:
La lotta, ostinata perché fratricida, di cui era teatro l’Ucraina, andava avanti da cinque
anni ed era arrivata a un punto di svolta, comprendendo una sfera d’azione che la portava al di fuori dei confini della Repubblica. Lo Stato polacco non era impegnato solo
con i cosacchi incalzati dall’orda, di cui non era in grado di formulare le vedute e gli interessi, ma anche con gli interessi e le vedute dei regni limitrofi, pronti ad approfittare
dello stato di impotenza a cui erano giunte le parti in lotta46.
46
“Zawzięta bo bratobójcza walka, której teatrem była Ukraina, toczyła się od lat pięciu i doszła
do punktu zwrotowego, obejmując sferę działania, wyprowadzającą ją z granic rzeczypospolitej.
L’INSURREZIONE DI CHMIELNICKI NELLA LETTERATURA DELL’EMIGRAZIONE
Le idee dei nostri due scrittori su Chmielnicki non sono certamente originali, ma offrono molto materiale per una più ampia contestualizzazione all’interno delle letterature che si sono sviluppate in varie lingue e con varie declinazioni culturali (e “nazionali”) sui territori sud-orientali della Repubblica polacco-lituana47. Per cominciare dal fatto letterario più eclatante, conviene ricordare
che è già stata avanzata da molto tempo l’ipotesi che Z burzliwej chwili sia stata
una delle fonti d’ispirazione per la Trilogia di Sienkiewicz48. Alcuni commenti di
Czajkowski su Chmielnicki invece potrebbero essere utilmente messi a confronto con lo scetticismo che sull’etmano ucraino fu espresso dal più grande poeta
del romanticismo ucraino, Taras Ševčenko, il primo che in molte sue poesie
(Rozryta mohyla, Velykyj l’och, Stoit’ v seli Subotovi, e altre) formulò giudizi
molto critici sul celebre “condottiero”, tanto da accusarlo di aver “svenduto” i
cosacchi a Mosca. Anche il giudizio di Czajkowski sui Gesuiti (peraltro effettivamente responsabili di gran parte della tensione tra cattolici e ortodossi in quei
secoli, a partire dall’Unione di Brześć49) ricorda alcuni fra i versi più eloquenti di
Ševčenko50 sull’argomento, ovvero la prima parte del poema Hajdamaky: “Fa
male il cuore, a ricordare: / i figli degli antichi Slavi / si sono ubriacati di sangue:
e chi è il colpevole? / I preti, i gesuiti”51. Sin nell’introduzione di Hetman Ukrainy, Czajkowski esprime un’opinione molto simile, e in qualche modo perfino
Nie z samem już posiłkowanem przez hordę kozactwem, które interesów i widoków swoich
sformułować nie umiało, państwo polskie miało do czynienia, lecz oraz z interesami i widokami
państw ościennych, gotowych korzystać ze stanu bezsilności, do jakiego doszły strony walczące”.
TEODOR TOMASZ JEŻ, op. cit., Tomo I, Capitolo II (Znachor stepowy).
47
Si pensi a libri come quello di AMELIA M. GLASER, Jews and Ukrainians in Russia’s Literary
Borderlands. From the Shtetl Fair to the Petersbourg Bookshop, Evanston 2012, o a quelli dedicati
alle letterature in varie lingue nella Galizia asburgica: Istoriji literatury, a cura di Jurij Prochas’ko
et. al., Kyjiv-L’viv 2010, e il recente ALOIS WOLDAN, Beiträge zu einer Galizienliteratur, Frankfurt a/M. etc. 2015.
48
LESZEK LUDOROWSKI, Sztuka opowiadania w Ogniem i Mieczem Henryka Sienkiewicza, PWN,
Warszawa 1977, p. 103; cfr. ZYGMUNT SZWEYKOWSKI, “Trylogia” Sienkiewicza. Szkice, Wydawnictwo Poznańskie, Poznań 1961, cap. 2.
49
OREST SUBTELNY, op. cit., pp. 99-100.
50
Su Ševčenko esiste una letteratura molto ampia a cui attingere. Sul rapporto fra Ševčenko e i
letterati del romanticismo polacco cfr. Szkoła ukraińska, op. cit.
51
“Bolyt’ serce, jak zhadaeš’ / Starych slov’jan dity / Vpylys’ krov’ju. A Chto vynen? Ks’ondzy,
jezuvity”, in Ševčenkovi Hajdamaky. Poema i krytyka. Faksymile vydannja. Istorija knyžky.
Interpretacija, a cura di George G. Grabowicz, Kyjiv 2013. La letteratura critica su Ševčenko,
anche solo la più recente, è così ampia che è impossibile citarne in questa sede anche solo le voci
più importanti. Si rimanda per una bibliografia sintetica a GIOVANNA BROGI, OKSANA
PACHLOVSKA, Taras Ševčenko. Dalle carceri zariste al pantheon ucraino, Mondadori Education,
Milano 2015, pp. 116-118.
89
ALESSANDRA ANGELINI
più esasperata: “Peccato, che non sia stato dato il tempo all’etmano d’Ucraina di
salvare la Polonia dai gesuiti, di scacciarli oltre i boschi e le montagne [...] in una
allegra marcia, o in esilio”52.
L’interesse degli studiosi ucraini per i due autori di cui qui mi sono occupata è sicuramente sintomatico della loro importanza nel complesso delle relazioni culturali tra questi due paesi: la cosa interessante è proprio il giudizio generalmente positivo espresso dagli studiosi odierni in merito ai romanzi qui descritti53: nella maggior parte dei lavori citati gli autori vengono presentati ai lettori ucraini come scrittori di frontiera e l’accento non è affatto posto sulle caratteristiche negative attribuite agli ucraini dei romanzi, sebbene le analisi si concentrino perlopiù sulla rappresentazione dell’Altro.
Nel complesso, nonostante la “collocazione strategica” di questi autori54,
il messaggio latente nelle loro narrazioni non è molto diverso da quello di molte
opere composte in Polonia nello stesso periodo o in quello immediatamente
52
90
“O szkoda, że nie dano czasu Hetmanowi Ukrainy, aby Polskę zbawił od Jezuitów, wyganiając
ich za góry i za lasy, [...], na wesoły pochód, czy wychód”. MICHAŁ CZAJKOWSKI, op. cit., p. IX.
53
In merito a Czajkowski è opportuno segnalare IVAN LYSJAK-RUDNYTS’KYJ, Kozac’kyj projekt
Michala Čajkovskoho, in IDEM, Istoryčnyj ese, vol. 1, Osnovy, Kyiv 1994, p. 255, nonché OLESJA
LAZARENKO, Kozac’kyj svit očyma pol’s’koho šljachtyča, in Novi doslidžennja pam’jatok kozac’koi
doby v Ukraijni (zbirnyk Naukovych statti), a cura di Olesja Lazarenko, vol. 21, Centr
pam’jatkoznavstva NAN, Kiev 2012, p. 223-227; STANYSLAV PUL’TER, Romantyk z podvijnoju
dušeju (pol’s’kych pys’mennyk Michal Čajkovskyj: naščadok ukrains’koho het’mans’koho rodu –
naš zemljak), in «Volyn’-Žytomyrščyna. Istoryčno-filolohyčnyj zbirnyk z rehional’nych problem», 18, 2009, pp. 24-31. Su Jeż e in particolare sul suo romanzo qui in questione cfr. MARIJA
BRACKA, Metamorfoza postati Inšoho na kul’turnomu pohranyčči (na prykladi romanu «Z burchlivoi chvyli» Teodora Tomaša Ježa), in «Naukovyj visnyk Volyns’koho nacjonal’noho universyteti im. Lesi Ukrainky, Filolohični Nauky. Literaturoznavstvo», 12 (237), 2012, pp. 13-19, nonché sempre di MARIJA BRACKA, Imaholohični aspekty istoryčnoi romanistyky Teodora Tomaša
Ježa, in «Naukovi zapysky Nacjonal'noho Universiteti Ostroz’ka akademija (Seria filolohična)»,
27, 2012, pp. 11-114, ma l’elenco non puo dirsi esaustivo.
54
Da intendersi come posizione degli autori entro un dato testo rispetto alla letteratura preesistente che si rapporta alla tematica. EDWARD W. SAID, Orientalism, Pantheon Books, New York
1978. Nel caso di Said, ovviamente, si parla dell’Oriente: qui l’oggetto delle osservazioni degli
autori è invece la storia dell’Ucraina. Come è evidente tuttavia, nonostante i due autori si pongano in maniera piuttosto critica rispetto alla letteratura e alla storiografia di riferimento per
l’epoca di Chmielnicki, nessuno dei due auspica in alcun modo la possibilità del popolo ucraino
di autogovernarsi. Sulla auspicabilità o meno dell’applicazione di questi modelli di ricerca al caso ucraino mi limito a citare due articoli recenti di studiose ucraine: I RYNA MAKARYK, Calibans
All: Shakespeare on the intersection of Colonialism, in «Multicultural Shakespeare», 1, 2004, pp.
109-135; OLENA JURČUK, Some comments concerning ukrainian postcolonial studies, in «Slavia
Occidentalis», 70/2, 2007, pp. 147-155. Sull’applicazione dello stesso modello in ambito letterario polacco sono state scritte già alcune antologie come Studia postkolonialne nad kulturą i cywilizacją polską, a cura di Krzysztof Stępnik e Dariusz Trzeźniowski, UMCS, Lublin 2010, o
l’articolo di DANUTA SOSNOWSKA, Ograniczenia i moliwości krytyki postkolonialnej, in «Historyka», 42, 2012, pp. 89-99.
L’INSURREZIONE DI CHMIELNICKI NELLA LETTERATURA DELL’EMIGRAZIONE
successivo. La convivenza pacifica tra i due popoli è considerata auspicabile anche se sostanzialmente improbabile, o quanto meno molto difficile da raggiungere, ma non per questo si accenna mai alla possibilità di creare due Stati separati.
Sull’accuratezza storica, o meglio sulla possibilità che i nostri due romanzieri avevano di narrare obiettivamente gli avvenimenti che volevano offrire ai
lettori, si potrebbe rilevare ancora che l’assenza di alcuni elementi essenziali alla
comprensione della società descritta (i voivodati di Bracław, Čehyryn e Kiev)
potrebbe essere dovuta al fatto che forse entrambi si basavano sulla loro conoscenza della Riva Sinistra dell’odierna Ucraina, dove, ad esempio, la densità di
popolazione ebraica era molto inferiore a quella della Riva Destra, dove i latifondi erano molto più modesti, e dove in genere la frequenza di focolai insurrezionali era assai inferiore di quanto non lo fosse nelle regioni nord-orientali della
Riva Destra55.
L’unico vero problema sta nell’influenza di queste narrazioni sulle opere
letterarie apparse successivamente e in generale sulla visione che di quel passato
hanno avuto (ed in parte ancora oggi hanno) i polacchi, e questo soprattutto a
causa della funzione “consolatoria” e di coesione sociale svolta dalla letteratura,
come già si accennava nelle osservazioni iniziali. Il dibattito su questa speciale
“funzione” della letteratura polacca risale a tempi remoti, era già in atto
all’epoca dei nostri romanzieri. Un’opinione scettica su visioni troppo apologetiche del passato polacco era ad esempio già stata espressa dalle critiche di Prus e
Świętochowski alla Trilogia di Sienkiewicz56, o dalle parole di Eliza Orzeszkowa
scritte in un articolo uscito su «Gazeta Polska» già nel 1866, col titolo Kilka
uwag nad powieścią: “Non ci è concesso di trattare il passato con leggerezza, e
un romanzo storico scritto splendidamente, anziché giovamento, porta danno,
perché a menti non abbastanza informate dà false concezioni di ciò su cui è cento volte meglio non sapere niente che il falso”57.
55
WŁADYSŁAW SERCZYK, op. cit., pp. 44-46. Subtelny sostiene nell’introduzione al suo capitolo
sulla “Grande Rivolta” che quelle particolari regioni fossero eccezionali non solo per l’area, ma
per tutta Europa: “They were the domain, on one hand, of some of Europe’s most powerful and
wealthy magnates and, on the other, of a population, that was willing and able to effectively fight
for its interests”. OREST SUBTELNY, op. cit., p. 123.
56
TADEUSZ BUJNICKI, Trylogia w kontekście dziewiętnastowiecznej powieści historycznej, in
«Przegląd Humanistyczny», 6, 1992, pp. 29-45.
57
“Lekko traktować przeszłości nie wolno – a powieść historyczna niedoskonale napisana, zamiast pożytek, szkodę przynosi, bo nie dość wykształconym umysłom fałszywe daje pojęcie o
tym, o czym stokroć lepiej jest nic nie wiedzieć niż nieprawdę”. ELIZA ORZESZKOWA, Pisma kry-
91
ALESSANDRA ANGELINI
Resta tutto da rivedere il grande problema di una possibile delimitazione
dei confini fra romanticismo e positivismo delle opere di Jeż e di Czajkowski,
come anche di molti altri scrittori per i quali l’impegno politico è inestricabile
dal lavoro letterario. Questo fa parte, del resto, della necessità di approfondire
con nuovi orizzonti e nuove impostazioni metodologiche lo studio della Grande
Emigrazione nel suo complesso. È importante quindi che anche scrittori apparentemente “secondari” o “marginali” ricevano la dovuta attenzione in più ampi
contesti storici, culturali e letterari, soprattutto in considerazione della loro importanza per lo storico della letteratura, in particolare se i loro testi sono stati un
successo di pubblico e se quindi è legittimo chiedersi in che misura abbiano influenzato l’opinione pubblica dei loro tempi (ho in mente, ad esempio, le cosiddette “opere balcaniche” dei nostri due autori, scritte durante i moti di liberazione della Bulgaria, della Serbia e della Bosnia col palese intento di sollevare un
dibattito presso il pubblico polacco).
92
tycznoliterackie, zakł. Narodowy im. Ossolińskich, Wrocław 1959, pp. 23-41. Queste parole mi
sembrano adatte alla questione che affrontiamo in questa sede; tuttavia non sono rivolte a nessuna delle due opere in questione nel presente articolo: l’opinione di Orzeszkowa sul contemporaneo Jeż è anzi assai positiva, e nella stessa raccolta di scritti critico-letterari si possono trovare
articoli in cui la scrittrice lo elogia come “jednym z najznakomitszych polskich pisarzy”. Cfr.
ELIZA ORZESZKOWA, O powieściach T.T. Jeża. Z rzutem oka na powieści w ogóle, in EADEM, op.
cit., p. 133.
AGNIESZKA KUNICZUK-TRZCINOWICZ
W jaki sposób pisał Prus? Uwagi o rękopisie Pałacu i rudery
«pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», (VI) 6, 2015, pp. 93-106
ABSTRACT
Palace and hovel, one of the earliest (1875) works of Boleslaw Prus, is preserved as
a whole in manuscript and offers interesting material for editorial-philological research. The
pages contain many deletions, amendments, additions made in the author’s hand. This enables
us to observe how work on the text proceeded and which parts of the text had an entirely different form than the one commonly known from the published version of the novel.
KEYWORDS
Prus, manuscript, Palace and hovel, Polish literature, novel
Wyrazy ogólne przerabiać na konkretne,
zdania ogólne na fakta realne.
Bolesław Prus
1. Rękopis
P
ałac i rudera, pierwszy po szeregu nowel utwór powieściowy Bolesława
Prusa (Aleksandra Głowackiego), został ogłoszony drukiem w 1875 roku,
najpierw w «Gazecie Polskiej», a potem w osobnym wydaniu książko-
wym. W 1895 roku ukazał się w tomie Opowiadania wieczorne i wielokrotnie był
wznawiany zarówno za życia autora, jak i po jego śmierci.
Utwór opowiada historię dwóch rodzin: emeryta Klemensa Piołunowicza
i jego wnuczki Wandzi oraz wynalazcy Fryderyka Hoffa i jego córki Konstancji.
Klemens Piołunowicz, mieszkający w tytułowym pałacu, to miłośnik gimnastyki i
palenia fajki. Po wygranej w loterii stał się zamożnym człowiekiem, który marzy
o tym, by spożytkować część wygranej na poprawę bytu kogoś ubogiego, najlepiej zajmującego się nauką. W wyborze odpowiedniej osoby mają pomóc Piołunowiczowi członkowie założonego przez niego Towarzystwa Filantropijnego.
Fryderyk Hoff, mieszkający naprzeciw pałacu w tzw. ruderze, spełnia wymogi
stawiane przed potencjalnym stypendystą. Jednak niezdecydowanie członków
93
AGNIESZKA KUNICZUK-TRZCINOWCZ
Towarzystwa, sprzyjanie bardziej teorii niż praktyce, doprowadzają do tragicznego finału powieści. W tle tej z pozoru prostej fabuły toczy się dyskusja na temat zasadności tworzenia towarzystw filantropijnych, sposobów ich egzystowania, a także etycznej strony funkcjonowania w społeczeństwie lichwiarzy, którzy
swoimi działaniami wyniszczają mniej zaradną część społeczeństwa. Są to zagadnienia żywo interesujące autora Anielki, obecne w wielu jego kolejnych utworach.
Prus w kronice tygodniowej tak skomentował przyjęcie Pałacu i rudery
do druku: „W połowie lipca sprzedałem powieść i wziąłem za nią taką masę pieniędzy, że po prostu nie wiedziałem, co z nią zrobić”1. W wypowiedzi tej widoczna jest charakterystyczna dla Prusa ironia, potwierdza ją też druga część zapisków kronikarza, wskazujących na to, że za honorarium Aleksander Głowacki
wybrał się w podróż do Ameryki2. Cała powieść zachowała się w rękopisie3, który stanowi własność Muzeum Bolesława Prusa w Nałęczowie (nr inw. 12), obecnie jednak posiada go w depozycie Muzeum Narodowe w Warszawie (nr inw.
43314). Rękopis to 253 strony zapisane w całości ręką Prusa, czarnym, jednolitym atramentem, równym, choć miejscami zróżnicowanym pismem. Kartki wielkości A4 złożono na pół i utworzono zeszyt, którego poszczególne strony nie są
94
trwale połączone, co stanowi ogromne ułatwienie dla badacza. Każda ze stron
numerowana jest ręką Prusa, wszystko razem włożone zostało w okładkę zrobioną z szarego papieru. Właściwie żadna ze stron nie posiada fragmentów
sprawiających szczególne trudności przy odczytywaniu tekstu. W rękopisie widoczne są poprawki, czasami całe strony przekreślone ręką pisarza. W partiach
pozostawionych, czyli tych, które nie noszą śladów poprawek i skreśleń, rękopis
jedynie nieznacznie różni się od tekstu zamieszczonego w wydaniach powieści
sporządzonych za życia autora. Szczególnie interesujące są strony 28-33, całko1
BOLESŁAW PRUS, Kronika Tygodniowa, 30-31 lipca 1875, [w:] IDEM, Kroniki, oprac. Z. Szweykowski, J. Baculewski, Z. Raszewski, t. II, PIW, Warszawa 1953, s. 143.
2
Z biografii pisarza możemy wyczytać, że nic takiego nie miało miejsca. Jest to zatem fikcja wytworzona na potrzeby wypowiedzi prasowej. Patrząc na biografię pisarza z dzisiejszej perspektywy
wiemy też, że niechętnie podróżował i raczej nie zaplanowałby wyjazdu aż za Ocean. Można to także uznać za młodzieńczą fantazję, charakterystyczną dla początkujących twórców. Można przypomnieć tutaj choćby wypowiedź Henryka Sienkiewicza, który o swojej debiutanckiej powieści takimi słowami pisał do swojego przyjaciela Konrada Dobrskiego: „[...] Na marne nie pójdzie na marne, bo je zaniosę do pierwszej lepszej redakcji i każę... z góry sobie zapłacić” (HENRYK SIENKIEWICZ, list do K. Dobrskiego z 4 VI 1871, [w:] IDEM, Listy, wstęp, biogramy adresatów J. Krzyżanowski, oprac., przypisy M. Bokszczanin, t. 1, cz. 1, PIW, Warszawa 1977, ss. 333-334).
3
Spuścizna rękopiśmienna Prusa stanowi dość obszerny zbiór przechowywany w Bibliotece Publicznej m. st. Warszawy, a także w Wojewódzkiej Bibliotece Publicznej im. Hieronima Łopacińskiego w Lublinie, Bibliotece Muzeum Narodowego w Warszawie, a także w zbiorach IBL PAN.
W JAKI SPOSÓB PISAŁ PRUS?
wicie przekreślone przez pisarza. Nie posiadamy ani ostatecznej wersji brulionu,
ani egzemplarza korektorskiego powieści (co rozwiązywałoby spory o to, kto
dokonał zmian w wydaniu jubileuszowym pism Prusa)4. Powieść została napisana przed rozwinięciem pasji Prusa do pisania (przepisywania) wszystkiego na
maszynie5.
Zachowany materiał nie nastręcza trudności z ustaleniem chronologii
powstawania utworu, pozwala też na obserwowanie pracy nad tekstem. Najciekawsze fragmenty rękopisu wskazują kilkakrotne próby napisania tego samego
fragmentu, części pominięte w pierwodruku, pracę nad szykiem wyrazów, zamianę słów wynikającą ze względów stylistycznych. Największą grupę stanowi
jednak zbiór tych fragmentów, w których autor pracuje nad redukcją pojedynczych wyrazów, głównie przymiotników i przysłówków. Obserwacja rękopisu
stwarza doskonałą możliwość odkrywania meandrów pracy autora: zarówno doboru poszczególnych słów, jak i warsztatu pracy. Sposób dokonywania poprawek, ilość wykreśleń, zmian w akcji powieściowej odpowiada nam na pytanie o
koncepcję utworu: czy rodziła się ona na bieżąco, czy też Prus przystąpił do pisania utworu z gotowym pomysłem, który na kolejnych kartach realizował? Patrząc na ten utwór w kontekście następnych dzieł, również zachowanych w rękopisach, można by wskazać elementy stanowiące od początku do ostatnich
utworów przedmiot troski i ustawicznej korekty, a także elementy zmienne w
poszczególnych okresach pisarskich. Analiza taka byłaby też świadectwem rozwoju myśli samego Prusa – od powieści Pałac i rudera, nazwanej (chyba nieco na
wyrost) przez Jana Nitowskiego „utworem przełomowym, odznaczającym się
największą dojrzałością artystyczną”6, po ostatnią ukończoną powieść Dzieci, z
całą pewnością bardziej świadomą, zawierającą poza wątkami czysto literackimi
także składniki doświadczeń osobistych Prusa. Analiza taka jest jednak raczej ma-
4
Zawsze, gdy mowa o druku Pałacu i rudery lub o Wydaniu jubileuszowym, mamy na myśli wydanie: BOLESŁAW PRUS, Pisma. Wydanie jubileuszowe, t. 1, Gebethner i Wolff, Warszawa 1897.
Przy cytowaniu tego wydania stosowany będzie zapis: [WJ].
5
Na egzemplarzu korektowym maszynopisu Kroniki Tygodniowej z 1897 r. można przeczytać
odręczny dopisek Prusa: „Maszyna kupiona 14/XII [1]897, 18/XII [1]897 napisałem:” i dalej
tekst Kroniki, [w:] BPW sygn. 140 IV nr 2 k. 4. Jest to pierwsza znana nam wzmianka Prusa o
posiadaniu maszyny do pisania, stąd wnioskujemy, że dopiero w roku 1897 nabył ją na własność.
Od tego momentu obok rękopisów i egzemplarzy korektowych utworów i różnego rodzaju zapisków, pojawiają się także wprawki maszynowe, a później całe utwory pisane przez Prusa na maszynie, często korygowane ręcznie.
6
Patrz: «Bluszcz», 3/24, 1895.
95
AGNIESZKA KUNICZUK-TRZCINOWCZ
teriałem na obszerną książkę, materiałem, który można by w dowolny sposób rozszerzać, np. o rękopisy nowel, innych utworów literackich, czy luźnych zapisków.
2. Teoria tworzenia
Warto zwrócić uwagę, że o sposobie pracy Prusa informują nas nie tylko
bruliony jego utworów literackich. Autor Lalki wiele czasu poświęcał na rozważania teoretyczne, tworzył własną teorię pisarską, czego świadectwem są sporządzane przez wiele lat notatki twórcze7. Podjęcie tego wyzwania tłumaczył następująco:
Wówczas, [gdy nie znalazł zadowalających go podręczników prezentujących zasady pisania] zdesperowany, wziąłem się sam do rozstrzygnięcia kwestii: „Czy twórczość literacką można ująć w jakieś ogólne prawidła?”. Po kilku latach spostrzeżeń i rozmyślań
kwestia zaczęła mi się rozjaśniać, a już w sierpniu r. 1886 porobiłem pierwsze notatki.
Dziś samych twierdzeń, wniosków i zagadnień z tej dziedziny mam przeszło 80 arkuszy,
niektóre części metody wypróbowałem praktycznie i jeżeli mi Bóg pozwoli, mam nadzieję wydać naukowo opracowaną teorię twórczości literackiej8.
Przeglądając prusowskie Notatki o kompozycji łatwo dostrzec, jak bardzo
96
zależało autorowi Placówki na odpowiednich proporcjach między poszczególnymi częściami mowy, jak istotne było tworzenie według wcześniej ustalonych
norm. Pisał Prus:
Proces tworzenia obejmuje tyle części:
a) Obserwacja
b) Zdefiniowanie tematu
c) Rozwinięcie tematu za pomocą wspomnień i obserwacji
d) Pisanie
e) Sprawdzanie i korekta9
W powyższym wyliczeniu zarysowane zostały poszczególne etapy pracy
twórczej od pomysłu będącego wynikiem zainteresowania otaczającym światem,
7
Notatki twórcze sporządzał Prus od 1886 do 1912 roku. W większości pozostają jedynie w wersji rękopiśmiennej. Nad ich odczytaniem pracuje prof. Anna Martuszewska, mają zostać wydane
w ramach przygotowywanej właśnie edycji Pism Prusa.
8
BOLESŁAW PRUS, Studia literackie, artystyczne i polemiki, [w:] IDEM, Pisma, pod red. Z. Szweykowskiego, t. XXIX, PIW, Warszawa 1950, s. 197.
9
IDEM, Literackie notatki o kompozycji, wstęp, wybór i opracowanie Anna Martuszewska, Słowo/obraz terytoria, Gdańsk 2010, s. 181. Notatka z roku 1889.
W JAKI SPOSÓB PISAŁ PRUS?
aż po sprawdzanie i poprawianie własnych zapisów. Jak pokaże analiza fragmentów Pałacu i rudery, Prus realizował w praktyce tworzone przez siebie teorie.
Kompletny rękopis powieści to najciekawszy materiał badawczy, jakim
może dysponować filolog. Aby jednak w pełni przeanalizować bogactwo znaczeń, odniesień, warsztatu pisarskiego twórcy, potrzeba wiele czasu i wiele miejsca. Z tej „technicznej” niejako przyczyny tutaj zostaną jedynie zasugerowane
pewne zjawiska czy sposoby pracy nad tekstem. Z szerokiego wachlarza możliwości, celem egzemplifikacji, wybrano fragmenty bardziej charakterystyczne dla
działań Prusa, w których dostrzec można pracę nad redukcją przymiotników lub
ich synonimicznym zastosowaniem, rozwiązania interpunkcyjne, pracę nad szykiem. Oczywiście zostaną także przytoczone fragmenty obecne w omawianym
rękopisie, a nie wykorzystane w tekście drukowanym.
3. Praktyka tworzenia
„Korekta. Robi się na rozdziałach, ustępach i zdaniach za pomocą: […]
zmniejszenia”10 zanotował Prus w Notatkach o kompozycji. Skracanie to bodaj
najbardziej charakterystyczna cecha jego pisarskiego warsztatu. Przyglądając się
poszczególnym fragmentom rękopisu Pałacu i rudery, poznając kolejne odmiany
tego, ale też i innych utworów literackich pisarza, z całą pewnością uznamy redukcję przymiotników i innych słów nie mających „kluczowego znaczenia” dla
wymowy utworu za najbardziej charakterystyczny znak pracy nad tekstem, ale
też i zagadnienie sprawiające pisarzowi najwięcej kłopotów. Zagadnienie to jest o
tyle ciekawe, że wydawać by się mogło, że Głowacki stosuje wszelkiego rodzaju
określenia i ozdobniki, gdyż to właśnie jest cechą charakterystyczną jego stylu, z
drugiej ewidentnie pracuje nad wyeliminowaniem tego typu słownictwa z własnych utworów. Ale taką hipotezę można postawić jedynie wtedy, gdy zna się
rękopis utworu. Bo to w rękopisie11 właśnie dostrzegamy, że ten widoczny w
druku surowy styl pisarza można uznać za pozorowany, gdyż w pewien sposób
jest on wymuszony (mozolnie wypracowany) przez samego autora Lalki12. Więk10
Tamże.
Rękopis Pałacu i rudery, aktualnie w zbiorach Muzeum Narodowego w Warszawie (nr inw.
43314). W dalszej części tekstu, tam, gdzie pojawią się cytaty z rękopisu, zaznaczam to następująco: [RKPS].
12
Obserwując proces powstawania utworów literackich Prusa, zmianę tę dostrzegamy nie tylko
między rękopisem a pierwodrukiem. Niejednokrotnie w kolejnych wydaniach tego samego
utworu robionych za życia autora zmiana w ilości „słów nieznaczących” jest bardzo wyraźna,
11
97
AGNIESZKA KUNICZUK-TRZCINOWCZ
szość skreśleń dotyczy redukcji przymiotników, przysłówków (bądź szyku, o
czym w dalszej części wywodu), co może świadczyć o tym, że stosowanie ich było naturalne, choć być może niezbyt lubiane przez pisarza. Widać to nawet w tak
małym fragmencie, jakim jest tytuł pierwszego rozdziału Pałacu i rudery. Rozdział otwierający, zapisany linearnie, w rękopisie wygląda tak: „Rozdział I, w
którym czytelnik poznaje bardzo wielką mały pałac i bardzo fajkę w bardzo małym niewielkim pałacu” [RKPS]. Pisarz ewidentnie pracuje nad precyzyjnym
opisem pierwszego z dwóch – kluczowych i zasugerowanych już samym tytułem
powieści – miejsc. Stosuje nawet opozycję, choć jest ona inna, od tej użytej w tytule powieści. Pałac, wbrew swej „naturze” czy potocznym skojarzeniom, staje
się mały w opozycji do tak małego z natury przedmiotu, jakim jest fajka. Początkowo ta opozycja była jeszcze wyraźniejsza dzięki zastosowaniu przysłówka
„bardzo”. Podejmując próbę rekonstrukcji pierwotnej myśli Prusa dochodzimy
do wniosku, że kolejne etapy zapisu wyglądały następująco: „Rozdział I, w którym czytelnik poznaje bardzo mały pałac i bardzo”. Prawdopodobnie już podczas pisania tego zdania rezygnuje z koncepcji i skreśla ostatni fragment: „Rozdział I, w którym czytelnik poznaje bardzo mały pałac i bardzo”, dodając jedno98
cześnie kolejne słowa „wielką fajkę w bardzo małym pałacu”. Ostatecznie skreślając przymiotnik „małym” i nadpisując nad nim „niewielkim”. Stąd cały tytuł
można jednocześnie odczytać tak: „Rozdział I, w którym czytelnik poznaje bardzo wielką fajkę w bardzo niewielkim pałacu” [RKPS]. Przysłówki „bardzo”
zdecydowanie zaciemniają tutaj zamierzoną, jak się wydaje, opozycję, stąd być
może pomysł, by przy korekcie przed oddaniem tekstu do druku (bądź podczas
korekty autorskiej) zlikwidować przysłówki i pozostawić tytuł w formie okrojonej, ale o wiele wymowniejszej: „Rozdział pierwszy, w którym czytelnik poznaje
wielką fajkę w niewielkim pałacu” [WJ]. Redukcja części mowy wpływających
na charakterystykę pałacu widoczna jest też w dalszych partiach tekstu. Zdanie
„Słuszność nakazuje dodać, że pałac ten był sobie bardzo zwykłą kamienicą…”
[RKPS], już w rękopisie zostało nieco zmienione na: „Słuszność nakazuje dodać
 wyznać13, że pałac ten był sobie bardzo zwykłą kamienicą”. Wykreślenie zaimka zwrotnego „sobie” powoduje zatarcie wrażenia potoczności wywodu, jednocześnie niweluje nielubiany przez Prusa nadmiar słów. Porównując zapis ręoczywiście na korzyść autorskiej tendencji do skracania, przestawiania i ukonkretniania.
13
Znak  wskazuje na nadpisanie słowa (zdania) nad wyrazem skreślonym.
W JAKI SPOSÓB PISAŁ PRUS?
kopiśmienny z kolejno drukowanymi wersjami dostrzegamy, że w każdej późniejszej wersji taka redukcja postępuje. W pierwodruku prasowym14 czytamy:
„Słuszność nakazuje wyznać, że pałac ten był bardzo zwykłą kamienicą”, a więc
powielona zostaje poprawiona wersja rękopiśmienna, ale już w wydaniu ostatnim za życia autora zdanie brzmi: „Słuszność nakazuje wyznać, że pałac ten był
zwykłą kamienicą” [WJ], a zatem redukcji uległ ten sam przysłówek, który charakteryzował pałac już wcześniej i tak samo został usunięty przez Prusa.
Redukcje tego typu następują na wielu poziomach, dotyczą różnych części mowy. „Matematyczna poprawność” Prusa sprawiała, że mocno zastanawiał
się on nad proporcjami, jakie powinny charakteryzować jego styl, by przymiotniki i przysłówki nie dominowały nad rzeczownikami i czasownikami. Jednak w
wielu przykładach widać, że jest to również świadome odchodzenie od nazywania wprost pewnych cech czy zachowań. Dzieje się tak wtedy, gdy jednocześnie
działanie bohaterów w oczywisty sposób przywołuje te właśnie cechy. Widać to
dobrze na przykładzie określeń charakteryzujących jednego z głównych bohaterów powieści – emeryta, Klemensa Piołunowicza. Autor dość często nazywa go
staruszkiem, dopowiadając na przykład, że jest to staruszek rumiany, wzruszony,
niespokojny… Jednak zdanie: „To powiedziawszy żwawy staruszek wbiegł do
swego pokoju i drzwi zamknął” zamieszczone w rękopisie, w druku pozbawione
zostało przymiotnika: „To powiedziawszy, staruszek wbiegł do swego pokoju i
zamknął drzwi”. Zachowanie pana Klemensa (spontanicznie i bez trudu porusza
się) w naturalny sposób wskazuje na jego dobrą formę, nie trzeba zatem tego pisać wprost. Podobny charakter mają poniżej zaprezentowane zmiany:
RĘKOPIS
PIERWODRUK
Z czego wynika REDUKCJA
Moja Helunia mała, moje
dzieciątko
Moja Helunia, moje dzieciątko
Przymiotnik „mała” nie był
potrzebny, gdyż rzeczownik
„dzieciątko” wskazuje na małe dziecko
z odcieniem niewysłowionej
melancholii
z wyrazem melancholii
nadmiar cech
Przybyły starzec nieśmiało
sta zatrzymał się u progu,
nieśmiało spojrzał po ota-
Przybyły starzec zatrzymał się u
progu, nieśmiało spojrzał po
mieszkaniu
Zwrot „po otaczającym go” w
oczywisty sposób był tautologiczny, gdyż będąc wewnątrz
14
«Gazeta Polska», 194 i następne, 1875.
99
AGNIESZKA KUNICZUK-TRZCINOWCZ
czającym go mieszkaniu
pomieszczenia, nie mógł rozejrzeć się po innym mieszkaniu.
przy akompaniamencie
mnóstwa
pensjonarskich
ukłonów
przy akompaniamencie
pensjonarskich ukłonów
Liczebnik „mnóstwo” nie
wskazuje konkretnie na liczbę,
uwypukla zatem wyłącznie
fakt, że było ich więcej, niż jeden, a na to wskazuje użyta
liczba mnoga rzeczownika.
grządki naturalnych głów
kapuścianych i drzewa usiłujące okrywać się liściem
grządki kapuścianych głów i drzewa usiłujące okrywać się liściem
kapuściane głowy w oczywisty sposób są naturalne
Jak pokazują powyższe przykłady, Prus nie zawsze dostrzegał „nadmiar”
już w trakcie pisania utworu, a na pewno nie na etapie sporządzania brulionu,
którym dysponujemy. Wiele z tych zmian dokonanych zostało podczas przygotowania do druku, niektóre dopiero przy pracy nad wydaniem jubileuszowym
Pism. Stąd biorą się kontrowersje przy współczesnym wydawaniu utworów Bolesława Prusa – dotyczą one nie tylko Pałacu i rudery. Nie mamy bowiem jedno100
znacznego dowodu na to, że wszystkich redukcji (których w wydaniu jubileuszowym jest bardzo dużo) dokonał własnoręcznie Prus. Za potraktowaniem tych
zmian jako poprawek autorskich (a na pewno zaakceptowanych przez Głowackiego) może przemawiać fragment listu do Stefana Dembego, w którym wydane
przez Gebethnera i Wolffa, a sfinansowane przez Wawelberga tomy uważał za
istotne, co podkreślił słowami: „Z prac moich, które wyszły w formie książkowej,
wymieniam: Pisma, nakład Wawelberga”15.
W cytowanym już fragmencie Notatek o kompozycji Bolesław Prus pisze
także: „Korekta. Robi się na rozdziałach, ustępach i zdaniach za pomocą: […]
przestawienia”16.
Analizując kolejne wydania można bez trudu zauważyć, że kwestia odpowiedniego szyku zajmowała autora Lalki ustawicznie, większość zdań korygował już na etapie zapisków brulionowych, stąd taka ilość skreśleń i znaków
korektorskich informujących o zmianie szyku. Porównując wersję rękopiśmienną i kolejne wydania drukowane niejednokrotnie obserwujemy tego typu od15
ALEKSANDER GŁOWACKI (BOLESŁAW PRUS), Listy (list z 13.07.1899 do Stefana Dembego),
oprac., kom. i posł. K. Tokarzówna, PIW, Warszawa 1959, s. 284.
16
BOLESŁAW PRUS, Literackie notatki, cyt., s. 181. Notatka z roku 1889.
W JAKI SPOSÓB PISAŁ PRUS?
mienności. W zapisie frazy: „odpowiedział dziewczęcy głosik z głębi mieszkania”
[RKPS], zastosował Prus charakterystyczne dla swojego systemu oznaczeń dwie
poziome kreski, nad którymi w systemie liczbowym zaznaczył proponowaną kolejność fraz. Wolę twórcy uszanowano przy wydaniu jubileuszowym: „odpowiedział z głębi mieszkania głosik dziewczęcy” [WJ]. Podobny zabieg zastosował
autor w innym miejscu powieści. Pierwotny szyk „mówił za prędko z gorączkowym pośpiechem żwawy dziadek” zamienił na „mówił żwawy dziadek z gorączkowym pośpiechem” [RKPS]. Podobnie jak w odmianach innego typu, tak i tutaj korygował własne pomysły na bieżąco: „ale człowiek nie ucieknie od swego
nieszczęścia nie ucieknie...” [RKPS], „burszt śpiczasty bursztyn” [RKPS], „wyżej nad ziemią, niż głowa łysa głowa” [RKPS], „przez właściciela majętnego właściciela” [RKPS]. Częściej jednak zmieniał szyk przygotowując wydanie jubileuszowe: „drzwi zamknął” [RKPS] a „zamknął drzwi” [WJ], „Dzieci ich tymczasem na środku ulic grają w kiczki” [RKPS] a „Tymczasem ich dzieci na środku
ulic grają w kiczki” [WJ]. Czytamy w rękopisie: „Parę minut córka czekała na
rezultat z biciem serca”, a w wydaniu jubileuszowym „Parę minut córka z biciem serca czekała na rezultat”. Przykładów tego typu można przytoczyć o wiele
więcej, większość z nich ma bardzo podobną konstrukcję: szyk przestawny, w
którym rzeczownik wychodzi przed przymiotnik, Prus zastępuje szykiem prostym: przymiotnik plus rzeczownik, porządkuje też grupy podmiotu i orzeczenia. I tutaj, podobnie jak we wcześniejszych przykładach, zastanawiające jest to,
że tak dużo zmian tego samego typu zauważamy, porównując rękopis z wydaniem drukowanym. Zasadą jest także „naprawianie” zdań już na poziomie tworzenia powieści, a więc w rękopisie właśnie. Czyli to, co tak intensywnie zajmowało Głowackiego – praca nad proporcjonalnie skrojonym utworem literackim,
a równolegle opisanie teorii tworzenia, wyszczególnienie podstaw „idealnego
dzieła” – można uznać za zapiski gruntujące świadome pisanie samego autora.
To nie styl innych chciał szlifować, ale swój własny, gdyż wymykał się on zasadom teoretycznym, i jak pokazuje rękopis – „chciał” podążać własną drogą.
Zanim wyciągniemy z tego bardziej ogólne wnioski o działalności literackiej Prusa, należy przyjrzeć się fragmentom rękopiśmiennym Pałacu i rudery
ukazującym nie tylko rzemieślnicze poprawki autorskie, „czyszczące” styl utworu i doprowadzające proporcje części mowy oraz szyk do językowego ideału
(ideału takiego, jakim widział go Prus), ale także pracę nad kwestiami literacki-
101
AGNIESZKA KUNICZUK-TRZCINOWCZ
mi. Elementy te najwyraźniej dostrzegamy we fragmentach różniących znacznie
rękopis od pierwodruku. Stanowią one dla tekstologa najciekawszy materiał,
wiele mówiący zarówno o koncepcji powieści, jak i warsztacie pisarza. Jako
przykłady wybrano pięć fragmentów, każdy z nich pokazuje inny sposób Prusowskiej pracy nad tekstem. W pierwszym widoczne są liczne skreślenia:
Tyle o pałacu, w którego [poprawione na] którym dnia dzisiejszego – najmniej bystry
obserwator mógł dostrzec, że dwa okna na pierwszem piętrze były otwarte w którym
[nadpisane nad skreśleniem] przez dwa otwarte okna na pierwszegom piętraze okna
najpewniej przechodzień wysłuchać mógł następującą rozmowę i zobaczyć mógł to,
[nadpisane nad skreśleniem] co następuje poniżej. [RKPS]
Choć zajmują one więcej miejsca niż tekst, który ostatecznie został zaakceptowany przez autora: „Tyle o pałacu, w którym przez dwa otwarte na pierwszym piętrze okna przechodzień wysłuchać i zobaczyć mógł to, co następuje poniżej”, właściwie niczego nowego do utworu nie wnoszą. Prus nie zmienia tutaj
ani koncepcji, ani nie wprowadza (ujmuje) bohaterów. Sam opis dąży do konkretności i jednoznaczności, prawdopodobnie dlatego autor zrezygnował z frazy
102
„najmniej bystry obserwator mógł dostrzec, że” oraz przysłówka „najpewniej”.
Przechodzi od sugestii i ocen do konkretnego wprowadzenia w akcję „za oknem”. Jest to charakterystyczne dla dojrzałej twórczości autora Lalki. Obrazkowa narracja17 jest jednym z wyznaczników jego stylu, a przy analizowaniu powyższego fragmentu tworzy się pokusa przeczytania tego (i podobnych) fragmentów
w kontekście Kamizelki, utworu pod tym względem wzorcowego. Tutaj warto
jedynie zasugerować pewne cechy dopiero rodzącego się stylu wielkiego pisarza,
trzeba podkreślić: stylu wczesnego (od opublikowania Pałacu do napisania Kamizelki minie siedem lat, do napisania Lalki, najpopularniejszej powieści tego
polskiego twórcy lat dwanaście). W analizowanym „obrazku” ciekawe jest to, że
pisarz proponuje tutaj perspektywę nieoczywistą, właściwie nawet trudną do zastosowania w realnym życiu: osoba przechodząca chodnikiem ma w sposób naturalny dostrzec wszystko, co dzieje się za oknem na pierwszym piętrze. Być mo17
Terminy „obrazkowość”, „obrazek” i „narracja obrazkowa” nie są nazwami gatunkowymi sensu stricto, jednak stosuje się je w tym kontekście, gdyż nawiązują do popularnej w XIX wieku
techniki pisarskiej. Używane są także współcześnie w odniesieniu do literatury realistycznej drugiej połowy XIX wieku. Patrz m.in.: PIOTR CHMIELOWSKI, Pisma krytycznoliterackie, oprac. H.
Markiewicz, PIW, Warszawa 1961; JÓZEF BACHÓRZ, Poszukiwanie realizmu. Studium o polskich
obrazkach prozą w okresie międzypowstaniowym 1831-1863, GTN, Gdańsk 1972.
W JAKI SPOSÓB PISAŁ PRUS?
że odczuwał nierealność tej sytuacji i stąd w rękopisie pojawia się słowo „najpewniej” oraz pierwotny nacisk na wysłuchanie, a nie obejrzenie tego, co dzieje
się za oknem. O ile w Kamizelce narrator „podgląda” życie sąsiadów w sposób
niejako naturalny (staje w oknie i widzi wszystko, co dzieje się w mieszkaniu naprzeciwko), tak tutaj obserwator musiałby wykazać się szczególnymi zdolnościami ekwilibrystycznymi, by dostrzec to, co dzieje się w pokoju. Próba, choć
nieudana, może stanowić ślad wyostrzania się prusowskiego zmysłu obserwacji i
budowania coraz bardziej realnych opisów i sytuacji18.
Taką narrację obrazkową wykorzystuje też autor Emancypantek w chwili,
gdy Gustaw – podświadomie nieco – obserwuje z okien „pałacu” postaci przechadzające się po pokoju w „ruderze”. W próbie brulionowej pisarz stworzył
dość obszerny fragment, a pod skreśleniami widać, że główny nacisk położył na
opisanie uczuć Gustawa. Jest to obraz mocno poruszonego emocjami mężczyzny: „Przed chwilą dławiło go czuł, że na ten widok łzy cisną mu się do oczu i
jakaś niewymowna boleść szarpie mu serce”. Prus jednak rezygnuje z tego fragmentu, próbując jeszcze dwukrotnie wzmocnić przekaz emocjonalny czasownikiem „ogarnęło”, wskazującym na zapamiętanie się w tym nastroju i myślach,
które oddzieliły na chwilę Gustawa od innych, zgromadzonych wokół niego ludzi („Na ten widok ogarnęło przeszło go jakieś dziwnie przykre uczucie ogarnęło go”), skupia się natomiast na precyzyjnym oddaniu tego, co mężczyzna widzi
przez okno:
Znajdował się on naprzeciw otwartego okna i patrzał w pomrokę zalewającą pustkowie.
Była już druga po północy i tylko w dwóch odległych okienkach błyszczało światło.
Zdawało się Wolskiemu, że w jednem widzi cień szyjącej kobiety, a w drugiem cień pochylonego nad jakimś warsztatem mężczyzny.
Przed chwilą dławiło go czuł, że na ten widok łzy cisną mu się do oczu i jakaś niewymowna boleść szarpie mu serce. Dla czego [dopisane na prawym marginesie, wzięte w „pętelkę”] Na ten widok ogarnęło przeszło go jakieś dziwnie przykre uczucie ogarnęło go. [koniec pętelki.] Z jakiej racyi? nie wiedział, podobnie jak nie domyślał się nawet nawet, że
tam w tych oknach tym domku odległym że te dwa cienie czuwające dotąd niewyraźnie
cienie że jeden z dwu niewyraźnych cieni należał do Hoffa, drugi do jego córki. [RKPS]
18
Potwierdzeniem tej tezy może być dalszy ciąg sytuacji – gdy dochodzi do doprecyzowania, co
przechodzień mógł dojrzeć, czytamy tu na przykład: „Łysina, nankin i kolorowe skarpetki przemknęły w oknie kilka razy, raz po raz, poczem znowu rozległ się łoskot”, a więc dostrzega jedynie fragmenty (garderoby głównie), strzępki sytuacji, które nie dają mu żadnej wiedzy na temat
tego, co dzieje się w pomieszczeniu. Można nawet stwierdzić, ze stwarzają dwuznaczną sytuację.
103
AGNIESZKA KUNICZUK-TRZCINOWCZ
Tego typu praca nad tekstem nie wyklucza jednak namysłu pisarza nad
adekwatnym budowaniem nastroju. Tak, jak w przypadku powyższego przykładu widzimy, że Prus starał się precyzyjnie oddać realia, tak w kolejnym można
zauważyć dbałość autora o zredukowanie nadmiaru emocji:
Gdy tak czytał starzec dzwon umilkł i nastała wielka cisza. Modląca się kobieta Ptaki
pierzchły, modląca się kobieta pochyliła głowę ku ziemi, a chore dziecko szeroko otworzyło oczy, jakby wpatrując się ze zdumieniem w tajemniczy blask owego jakiegoś straszliwego majestatu, który zdawał się zapełniać izbę nędzarzy zapełniał izbę nędzarzy. I
zdawało się, że noc tę krótką chwilę zatrzymano nagle bystry płynący potok wstrzymano
zatrzymał się w biegu i że z odległości tysięcy lat dolatywało echo ponurej rozmowy, zakończonej wyrokiem: „Oto wszystko co ma, jest w ręce twojej!!!! [RKPS]
Z obszernego fragmentu, który ma też swój niedokładny odpowiednik w
pierwodruku, autor Lalki wykreślił jedynie trzy krótkie fragmenty i odrzucił frazy
„straszliwy majestat”19. Wszystkie one mają jednak szczególny wydźwięk, diametralnie zmieniający nastrój sceny. Określenie „zdawały się” oraz „zatrzymał się w
biegu” w połączeniu ze „straszliwym majestatem” przekierowują uwagę na nad104
przyrodzoność sceny. Gdyby Prus pozostawił wersję stworzoną w rękopisie bez
zmian i skreśleń, ostatnie zdanie (rozpoczynające się od stwierdzenia „i zdawało
się”) wydawało by się „zbyt realne w swej nadprzyrodzoności”, a jak wiemy, Prus
dążył w swej twórczości raczej do realistycznych czy scjentystycznych rozwiązań.
Na koniec rekonesansu w rękopisie Pałacu i rudery warto przytoczyć
fragmenty w sposób ciekawy odbiegające swą treścią od pierwodruku. Pierwszy
z nich brzmi:
Aaa…zdrowo!…Magda! Magda!… a podaj tam wodęy i muszynę [nadpisane nad skreśleniem:] nalej no wody w prysznic… [i w wyrazie wodę przekreślone ę i poprawione na
y.] A Bodaj ciebie [dopisane wyżej za skreślonym A] , jakażeś ty roztrzepana Wandeczko!” [RKPS]
by w pierwodruku zamienić się na niemal analogiczny:
19
W pierwodruku akapit ten wygląda następująco: „Gdy tak czytał starzec, dzwon umilkł i nastała
wielka cisza. Ptaki pierzchły, modląca się kobieta pochyliła głowę ku ziemi, a chore dziecko szeroko otworzyło oczy, jakby wpatrując się ze zdumieniem w tajemniczy blask, który zapełnił izbę nędzarzy. I zdawało się, że nagle bystry potok czasu wstrzymano i że z odległości tysięcy lat dolatuje
echo ponurej rozmowy zakończonej wyrokiem: ‘Oto wszystko, co ma, jest w ręce twojej’”.
W JAKI SPOSÓB PISAŁ PRUS?
– A... zdrowo!... Janek, Janek!... a nalej wody w prysznic... Bodaj ciebie, jakaś ty roztrzepana, Wandeczko! [PRWD]
Jak łatwo dostrzec, Prus w pierwodruku zastąpił imię żeńskie męskim,
choć w rękopisie konsekwentnie używa imienia Magda, w kolejnych fragmentach czytamy na przykład: „Hola! Magda… A przynieś mi wlej tam wodę i maszynę do mego pokoju w prysznic!”, „Magda, Magda! wody!” itp. Z punktu widzenia charakterystycznych zachowań i dziewiętnastowiecznych zwyczajów codziennych analiza takich i podobnych części rękopisu z pewnością przyniesie
ciekawe wnioski, tutaj jedynie zostają zasugerowane jako ciekawostka.
Drugim i ostatnim zarazem fragmentem służącym zaprezentowaniu rękopisu pierwszej powieści Bolesława Prusa jest wypowiedź jednego z drugoplanowych bohaterów utworu – marszałka Fajtaszko. W pierwodruku zaprezentowany został bez wyraźnych cech szczególnych, jako mężczyzna, który „nie mówił
o niczem więcej, tylko o bladze warszawskiej”. Zaskakujące jest zatem, że ta niczego nie wnosząca do treści utworu postać w rękopisie zaprezentowana jest następująco:
105
nie mówił o niczem więcej tylko o puszczy Białowieskiej i bladze warszawskiej.
– Poznakomcież nas panowie! Zabrał odezwał się znowu marszałek. Ja Fajtaszko, marszałek szlachty, a słyszę pan Damazy, a?… Pan słyszę płynnie mówi a?… posłuchamy
tego!… W naszych stronach ludzie kiepsko gadają, ale dużo dobrze robią. Może nieprawda a?… [RKPS]
Jego wypowiedź nie tylko rozszerza „pole zainteresowań” postaci
(wspomina już nie tylko o charakterze warszawskiego społeczeństwa), ale również wskazuje na miejsce pochodzenia marszałka, na cechy charakterystyczne jego wymowy oraz dodatkowo charakteryzuje (a nawet kontrastuje) Warszawę i
prowincję20. Ten cały obszerny fragment nie znalazł się jednak w pierwodruku,
trudno jednoznacznie wskazać, dlaczego.
20
Co dodatkowo potwierdza wspominaną już na początku skłonność Prusa do ironicznych wypowiedzi. Dziewiętnastowieczna Warszawa nie była bowiem miastem, jakie znamy dzisiaj, stanowiła raczej część prowincjonalnej części Europy, co wielokrotnie w swoich krótkich utworach
Prus zaznacza.
AGNIESZKA KUNICZUK-TRZCINOWCZ
4. Zakończenie
Analiza rękopisu pokazuje, że autor miał właściwie klarowną koncepcję
od początku pisania tej powieści. Choć oglądając rękopis dostrzegamy, jak wiele
pojedynczych słów, a nawet całych kolejno następujących po sobie stron przekreślił autor, to dokładna analiza wykazuje, że większość przekreślonego tekstu
pokrywa się z tym, co ostatecznie znalazło się w wydaniu jubileuszowym 21. Przytoczone fragmenty stanowią jedynie wstęp do szerszej analizy samego rękopisu,
jak i różnic pomiędzy nim a wersjami drukowanymi. Trzeba jednak przyznać, że
prezentowany rękopis, choć zachowany w całości, opatrzony komentarzami i
znakami pochodzącymi od pisarza, stanowi materiał o wiele uboższy od wielu
innych, kolejnych śladów rękopiśmiennych autora Lalki. Otwiera oczywiście pole do badań nad spuścizną rękopiśmienną Bolesława Prusa i z tego powodu zasługuje na bardzo dokładną analizę. Zaprezentowany artykuł należy traktować
jedynie jako rekonesans kolejnych badań.
Na koniec warto zauważyć, że jednym z najciekawszych problemów badawczych, nie odkrytych w tym artykule22, pozostanie kwestia cytatów biblijnych, gdyż zauważono, że Prus posługuje się prawdopodobnie Biblią tzw. gdań106
ską, jednak w wielu miejscach zmienia pisownię imion, cytuje niedokładnie bądź
tworzy kompilację kilku wydań.
21
Dlatego też w tym krótkim artykule nie zostały przywołane stronice przekreślone, choć uznajemy je za ciekawe – przede wszystkim dlatego, że nie wiemy dotąd, dlaczego Prus je skreślał,
skoro nie odbiegają treścią od wcześniejszych czy kolejnych, zupełnie nie pokreślonych.
22
Zagadnienie to stanie się przedmiotem osobnego opracowania.
ANITA KŁOS
La casa delle donne. Sulla storia della traduzione italiana
di Dom kobiet di Zofia Nałkowska
«pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», (VI) 6, 2015, pp. 107-123
ABSTRACT
In 1930 Sibilla Aleramo translated the play Dom kobiet by Polish writer Zofia
Nałkowska into Italian. This three-act drama, probably the first play with only female characters
in the history of theatre, was set in Warsaw the same year and was suddenly a huge success in
Poland. Aleramo’s translation has remained unpublished and has been preserved (as a manuscript and a typescript draft) in the author’s archive belonging to the Fondazione Istituto Gramsci in Rome. The paper focuses on the history of this text, based mainly on the analysis of
Nałkowska’s diary and unpublished letters and documents from Aleramo’s archive.
KEYWORDS
Zofia Nałkowska, Sibilla Aleramo, history of translation, theatre translation, re-
ception of Polish literature in Italy
107
L
’inizio degli anni Trenta per Sibilla Aleramo coincise con un periodo di
“difficoltà tormentose”1. Nei Dati biografici per gli esecutori testamentari,
documento inedito steso tra il 1938 e il 1939 e concepito come “una fonte
utile per chi in avvenire volesse occuparsi della sua opera e della sua vita”2, la
scrittrice ammette:
1
Il presente studio raccoglie alcuni esiti della tesi di dottorato intitolata Związki Sibilli Aleramo z
polską kulturą literacką 1. połowy XX wieku. Przekłady, scritta sotto la direzione della prof.ssa
Jadwiga Miszalska e discussa presso l’Università Jagellonica di Cracovia, che è il risultato del
progetto di ricerca finanziato dal Ministero della Scienza e dell’Istruzione Universitaria polacco
(MNiSW; grant promotorski n° N N103 216536). Durante la mia ricerca su Aleramo, condotta a
Roma negli anni 2008-2012, ho ricevuto anche sovvenzioni nell’ambito dello scambio interdipartimentale tra il Dipartimento di Lingue e Letterature Romanze dell’Università Jagellonica e il
Dipartimento di Scienze documentarie, linguistico-filologiche e geografiche della Sapienza Università di Roma nonché nell’ambito del progetto di ricerca Scrittrici e intellettuali del Novecento.
Fonti e strumenti della ricerca, coordinato da Marina Zancan della Sapienza Università di Roma.
Alla professoressa Zancan rivolgo i miei più sentiti ringraziamenti per il Suo incessante, sempre
valido e incoraggiante aiuto.
2
Fondazione Istituto Gramsci, Fondo Aleramo (citato in seguito come FA), serie 3: “Scritti”,
sottoserie 7: “Altri scritti”, UA 111: “Dati biografici di Sibilla Aleramo per gli esecutori testamentari”, fol. iniziale, s.n.
ANITA KŁOS
Non ricordo come passai l’inverno 1930-31 e tutto l’anno seguente. Non stavo bene,
lottavo fra continue altalene di povertà e di sussidi sempre insufficienti. Mandavo innanzi faticosamente, a grandi intervalli, la composizione del Frustino e la traduzione dal
francese della Princesse de Clèves3.
Per chi non si sia mai occupato dell’opera e della vita di Aleramo sarà necessario un breve commento. Il frustino, della cui “faticosa” stesura si parla nella
citazione, fu pubblicato da Mondadori nel 19324. Nel romanzo, Sibilla racconta la
storia di un quadrato amoroso, di forte ispirazione autobiografica, ricostruendo
narrativamente la sua liaison, vissuta circa vent’anni prima, con Clemente Rebora
(chiamato nel romanzo Emanuele Orengo), Giovanni Boine (Mino Vergili) e Michele Cascella (Donato Gabri; lei stessa appare nel romanzo “sotto le spoglie” della protagonista Caris de Rosia). Aleramo cambiò tuttavia l’ambientazione della vicenda (svoltasi originariamente in Liguria), trasferendola nella Costiera Amalfitana, dove negli anni della redazione del libro passava ogni estate, nella villa “Stella
Romana” di Positano di Emilia Szenwic, scrittrice, giornalista e sua amica5.
La traduzione aleramiana della classica opera di Madame de la Fayette
108
sarebbe uscita a sua volta nel 1935 nella nota collana “Biblioteca romantica” della Mondadori6. E i gravi problemi economici da cui la scrittrice era costantemente afflitta dopo la separazione dal marito, problemi ricorrenti nei suoi scritti
autobiografici e nelle memorie degli amici7, erano accompagnati da uno scarso
riconoscimento della critica nei confronti dei suoi libri e da un profondo sentimento di insoddisfazione.
Di quello stesso 1930 Zofia Nałkowska conservava ricordi di tutt’altro
genere. Il 23 marzo annotava nel suo diario:
Quello che mi è successo sembra quasi saltar fuori da una biografia di un grande personaggio o da una rivista dedicata a celebrità internazionali, a grandi avvenimenti e grandi
scandali. Dal 21 su di me si è come abbattuta una massa pesante di tempo, è successo
3
IVI, fol. 126-127.
SIBILLA ALERAMO, Il frustino. Romanzo, Mondadori, Milano 1932.
5
Dell’amicizia fra Sibilla Aleramo ed Emilia Szenwic ho scritto più estesamente in: ANITA
KŁOS, Ineczka, Mileczka, Positano. Alcuni appunti alla biografia di Sibilla Aleramo, in «Bollettino di italianistica» (in corso di pubblicazione).
6
MARIE MADELEINE DE LA FAYETTE, La principessa di Clèves, trad. it. Sibilla Aleramo, Mondadori, Milano 1935.
7
Cfr. BRUNA CONTI, ALBA MORINO, Sibilla Aleramo e il suo tempo. Vita raccontata e illustrata,
Feltrinelli, Milano 1981.
4
LA CASA DELLE DONNE
qualcosa che mai, nemmeno in minimo grado, mi aveva dato alcun libro, alcun momento di gloria conquistata pian piano, con fatica, passo dopo passo, libro dopo libro. È stato un salto, qualcosa di incredibile, come in una favola8.
Il 21 marzo 1930, al Teatr Polski di Varsavia, si era tenuta la prima di
Dom kobiet, debutto teatrale della scrittrice, accolta con entusiasmo sia dalla critica, sia dal pubblico, fatto che avrebbe consolidato la posizione di Nałkowska
tra i grandi della letteratura polacca. Alcuni mesi dopo, il 21 novembre 1930,
l’autrice continuava a scrivere nello stesso tono:
La testa mi rimbomba per tutta quella fama, quei ritagli di giornale, quegli inviti, parole,
telefonate, notizie. […] Nel pomeriggio una visita di Witkiewicz con la moglie, lui mi ha
chiesto: “Cosa prova a essere così famosa?”9
Può essere interessante accostare i ricordi di questi momenti di vita e di
carriera, risalenti più o meno allo stesso periodo, delle due scrittrici, e non solo
per un certo effetto retorico provocato dal contrasto tra i tormenti di Aleramo e
l’istante di gloria letteraria di Nałkowska. Il 1930 non è stato scelto a caso. Dom
kobiet non solo ebbe un enorme successo sui palcoscenici polacchi, ma aprì delle
promettenti “congiunture” internazionali alla scrittrice polacca, suscitando
l’interesse di numerosi impresari teatrali all’estero (infatti, nel corso degli anni
Trenta la pièce fu messa in scena a Praga, Zagabria, Tartu, Copenaghen e Atene).
Sibilla Aleramo nel suo ricordo omette un altro lavoro iniziato in quello
stesso 1930. Si tratta della riscrittura in italiano di Dom kobiet, intitolata La casa
delle donne, da lei intrapresa sull’onda dell’interesse internazionale per il lavoro
di Nałkowska.
Zofia Nałkowska (1884-1954) è indubbiamente una delle più importanti
figure del Novecento letterario in Polonia. Figlia di Wacław Nałkowski, noto
geografo e pubblicista, crebbe nella stimolante atmosfera intellettuale della casa
8
“To, co się stało, jest jakby czytane w życiorysach wielkich ludzi, w gazetach o zagranicznych
sławach, wielkich zdarzeniach i sensacjach. […] Od dnia 21. przewaliło się jakby masę ciężkiego
czasu, stało się coś, czego nie dała mi nawet w zmniejszeniu żadna książka, żaden moment sławy,
zdobywanej powolutku, ciężko, od lat, krok za krokiem, książka za książką. A to jest jakiś skok,
to jest zdumienie, coś nie do wiary, coś z bajki”; ZOFIA NAŁKOWSKA, Dzienniki IV: 1930-1939, a
cura di Hanna Kirchner, vol. 1, Czytelnik, Warszawa 1988, pp. 76-77. Tutte le traduzioni del
diario di Nałkowska sono a cura dell’Autrice.
9
“Aż mi w głowie dudni od tej sławy, wycinków, zaproszeń, słów, telefonów, doniesień. […] Po
południu wizyta Witkiewicza z żoną, który pytał: ‘co pani czuje będąc tak sławną?’”; IVI, pp.
219-220.
109
ANITA KŁOS
familiare ed esordì nel 1906 con il romanzo Kobiety (Le donne). In esso, perspicace registrazione della crescita intellettuale ed emozionale di un’adolescente
che diventa donna, sono già presenti le caratteristiche di tutta l’opera della scrittrice: un discreto autobiografismo, l’acutezza psicologica, la sensibilità sociale e
femminista, la precisione nella descrizione del mondo10. Della sua estesa produzione narrativa, di stile asciutto e di grande respiro intellettuale, in traduzione
italiana sono stati pubblicati solo il romanzo Niedobra miłość11 e la commovente
raccolta di racconti Medaliony12, ispirata dalla partecipazione della scrittrice alla
Commissione d’indagine sui crimini nazisti. Di grande rilievo letterario sono anche i diari della scrittrice (Dzienniki), editi postumi negli anni 1970-2001.
Nella storia del teatro Dom kobiet è un’opera senza precedenti. Nałkowska propose un dramma con sole protagoniste donne, escludendo i personaggi
maschili dall’elenco delle dramatis personae (anche se nel II e nel III atto si può
sentire una voce maschile fuori campo, il personaggio non entra però in scena).
Nałkowska lo fece prima di Federico García Lorca, il cui capolavoro, La casa di
Bernarda Alba, fu completato solo nel 1936 e messo in scena nel 1945. Il personaggio centrale della pièce polacca è la Nonna, Cecylia Bełska, la più anziana di
110
una famiglia trigenerazionale, ora composta esclusivamente di donne, vedove e
divorziate, tradite e lasciate sole dagli uomini amati. La casa di campagna della
Nonna è diventata “la casa delle donne”, un rifugio (anche in senso economico)
per le sue figlie, nuora e nipoti. Le figlie sono le vedove Julia Czerwieńska (nella
versione italiana Giulia) e Maria Łanowa (Maria). Vedova (da più di trent’anni!)
è anche Tekla Bełska (Tecla), nuora di Cecylia, piena di rancore, che ha perso il
marito e un figlioletto di pochi mesi poco dopo le nozze. La divorziata Róża
Byleńska (Rosa), figlia di Maria, è stata lasciata dal marito, un diplomatico in
carriera, per una donna più giovane. La sorella di Róża, Joanna Nielewiczowa
(Giovanna), rimasta vedova di recente, si tortura al pensiero di aver tradito il
marito deceduto, Krzysztof (Cristoforo), con uno sconosciuto, durante una vacanza solitaria al mare. Il lutto doloroso di Joanna viene interrotto dalla compar10
GRAŻYNA BORKOWSKA, Imperatyw miłości, in ZOFIA NAŁKOWSKA, Kobiety, Prószyński i S-ka,
Warszawa 2010, pp. 5-11.
11
ZOFIA NAŁKOWSKA, L’amore cattivo, trad. it. Maria Rakowska ed Ettore Fabietti, Mondadori,
Milano 1944.
12
EADEM, I ragazzi di Oswiecim [sic!], Edizioni di cultura sociale, Roma 1955; EADEM, Senza
dimenticare nulla, a cura di Giulia De Biase, trad. it. Bruno Meriggi, L’Ancora del Mediterraneo,
Napoli 2006.
LA CASA DELLE DONNE
sa inaspettata della giovane Ewa Łasztówna (Eva), che chiede alla vedova un urgente sostegno finanziario per sua madre e suo fratello, rivelandole che quel
Krzysztof, “uomo superiore, di grande nobiltà”13, “la sincerità in persona”14,
l’aveva tradita sin dai primissimi giorni del matrimonio. Dalla sua relazione extraconiugale erano nati tre figli, di cui Ewa, diciottenne, è la più grande. E i
problemi di cuore di Krzysztof, che lo avevano portato alla morte, non erano
causati da un eccessivo carico di lavoro, come si credeva, ma dal rapporto intenso con una nuova – giovanissima – amante.
Joanna, fino a quel punto totalmente inconsapevole dell’adulterio del marito
(il quale ne aveva sperperato perfino la dote con le amanti), nella conversazione con
la Nonna si pone una serie di domande importanti circa la possibilità di poter davvero conoscere un’altra persona: “Se penso: Cristoforo. Lui non è più là, al posto
dove ho messo il suo nome. [...] Oppure, debbo pensare che nessuno è morto? Che
ho pianto la morte d’un estraneo? Nonna, è mai esistito Cristoforo?”15.
Il problema ontologico delle “tenebre” che separano un essere umano
dall’altro risuona in tutta l’opera, rievocato con particolare forza e perspicacia
dalla Nonna, la quale sottolinea inoltre l’azione modificatrice del tempo sulle
nostre memorie. Nel secondo atto Cecylia spiega a Joanna:
Tutto cambia, tutto si trasforma. Ricordatene! […] Io l’ho compreso fin da quando ero giovanissima. Ogni fatto si modifica continuatamente. Dapprima cambia percorrendo la distanza che separa un essere umano da un altro; poi continua a trasformarsi dentro di noi16.
Hanna Kirchner, studiosa e biografa di Nałkowska ed editrice dei suoi
diari, pone l’accento sull’evidente origine autobiografica della pièce17. Dom kobiet
fu scritto dall’autrice, quasi di getto, tra il settembre e l’ottobre del 1929, dopo il
13
FA, sezione 7: “Documenti provenienti da altri archivi”, UA 35: “Sibilla”, lettera 6. “Sibilla
all’Ambasciata della Repubblica di Polonia”, Roma, 04/07/1955, allegato: “La casa delle donne.
Tre atti di Sofia Nalkowska tradotti dal polacco da Sibilla Aleramo e Maria poznaska [sic!]” (citato in seguito come La casa delle donne), fol. 12.
14
IVI, fol. 30.
15
IVI, fol. 68.
16
Ivi, fol. 37.
17
HANNA KIRCHNER, Nałkowska albo życie pisane, W.A.B., Warszawa 2011, p. 310 e ss. La genesi
autobiografica dell’opera è confermata dalla stessa Nałkowska: “Sto scrivendo un dramma, che
forse sarà intitolato Dom kobiet, o forse in un altro modo. Così trasformo di nuovo in arte le mie
pesanti esperienze” (Piszę dramat, który może będzie się nazywał Dom kobiet, a może inaczej. Moje więc ciężkie doświadczenia znowu jakoś przetwarzam na sztukę). ZOFIA NAŁKOWSKA, Dzienniki
III: 1918-1929, a cura di Hanna Kirchner, Czytelnik, Warszawa 1980, p. 421.
111
ANITA KŁOS
fallimento del suo secondo matrimonio con Jan Tomasz Jur-Gorzechowski, attivista rivoluzionario nel periodo delle spartizioni, militare delle legioni di Piłsudski
durante la Grande Guerra e dopo l’indipendenza della Polonia, alto funzionario
della nuova Repubblica di Polonia (organizzatore, fra l’altro, della Polizia di Stato e comandante di gendarmeria a Grodno). La scrittrice, che lo aveva sposato
nel 1922, non divorziò mai da lui. La separazione tra i due coniugi, avvenuta nel
1929, pose fine a una relazione emotivamente logorante, addirittura tossica, descritta dalla stessa Nałkowska come “uno strano vortice di amore e crudeltà”.
Gorzechowski aveva atteggiamenti autoritari e dispotici, separava la moglie dalla
famiglia e dagli amici (la sua carriera militare richiedeva lunghi soggiorni in provincia, ben lontano dai centri culturali e dagli ambienti artistici), ne disprezzava
l’attività letteraria e il lavoro intellettuale in generale. E infine: la tradiva in continuazione. Non è casuale che il “nodo drammatico” di Dom kobiet sia basato
sulle riflessioni di Nałkowska, espresse nel diario, che puntano su un’autoanalisi
del suo rapporto con Jur: “[...] nonostante i fatti oggettivi mi chiedevo: com’era
possibile, era lui che era cambiato, che era diventato un altro uomo? Ero io che
non mi permettevo di vederlo nella sua veste reale? Ero così accecata dal suo
112
amore per me?”18. Nella pièce quasi le stesse parole vengono pronunciate da
Róża: “Là Pietro [l’ex-marito di Róża] è diventato un altro uomo, una persona
assolutamente irriconoscibile[.] […] O forse era già tale dapprima? Soltanto, io
non me ne accorgevo. E se anche in qualche momento credevo scorgere in lui
qualcosa che mi stupiva, pensavo d’ingannarmi”19.
Barbara Smoleń nei suoi penetranti studi dedicati al dramma di Nałkowska si concentra su un’altra questione: quella dell’opera “di sole donne” o meglio
“senza uomini”20. Confrontando Dom kobiet con La casa di Bernarda Alba, ne ricava osservazioni assai interessanti21. La protagonista del dramma di Lorca, dopo
la morte del marito, trasforma la sua casa in una specie di convento, imponendo
18
“[...] wobec oczywistości pytałam jednak: jakże to jest, czy stał się inny, czy się zmienił? Czy
przez te lata nie pozwalałam sobie go widzieć rzeczywistym? Czy byłam tak zaślepiona jego miłością do mnie?”. ZOFIA NAŁKOWSKA, Dzienniki III, cit., p. 419.
19
La casa delle donne, fol. 27.
20
BARBARA SMOLEŃ, Kobieta i egzystencja. Wokół Domu kobiet Zofii Nałkowskiej, in Krytyka
feministyczna. Siostra teorii i historii literatury, a cura di Grażyna Borkowska, Liliana Sikorska,
Wydawnictwo IBL, Warszawa 2000, pp. 105-120; EADEM, Zofia Nałkowska „Dom kobiet”. Kobieta, dom, głos, in Dramat polski. Interpretacje, vol. 2: Po roku 1918, a cura di Jan Ciechowicz,
Zbigniew Majchrowski, słowo/obraz terytoria, Gdańsk 2001, pp. 62-86.
21
BARBARA SMOLEŃ, Zofia, cit., pp. 70-75.
LA CASA DELLE DONNE
alle sue cinque figlie un lutto rigoroso di estrema durata (otto anni!) e isolandole
dal mondo. Vieta loro di uscire e di intrattenere qualsiasi rapporto con il sesso
opposto, sottoponendole a una strettissima e continua sorveglianza. In questa casa-prigione, nonostante l’assenza fisica degli uomini, il giogo dell’oppressione patriarcale diventa davvero soffocante: la madre dispotica risulta una guardiana feroce della tradizione maschilista, della “legge del Padre”. A differenza della casa
chiusa e opprimente di Bernarda Alba22, quella della Nonna creata da Nałkowska
è uno spazio aperto, in cui si manifesta un atteggiamento di solidarietà e di rispetto tra le sue abitanti. Malgrado qualche conflitto che si accende di tanto in tanto,
le donne di Nałkowska convivono in un’atmosfera di amore e di cura reciproca. È
ovvio che i modelli di comportamento e i paradigmi mentali propri della società
patriarcale non spariscono automaticamente con l’assenza degli uomini, ma vengono parzialmente messi in dubbio e rielaborati dalle protagoniste di Dom kobiet,
a cui, in questa enclave “di sole donne”, è concessa la possibilità di sentire la propria voce e di reinterpretare la realtà a seconda della “legge della Madre”23. Smoleń, facendo ricorso agli scritti teorici di Luce Irigaray, mette in risalto questa voce
femminile indipendente, la capacità di “parlare come donna” (parler-femme), che
si può sentire soprattutto nelle parole della Nonna24.
La studiosa polacca esamina inoltre la ricezione dell’opera “senza uomini” nelle recensioni pubblicate dopo la prima di Dom kobiet da Antoni Słonimski e Tadeusz Żeleński (Boy), due tra i principali critici teatrali della Polonia del
Ventennio. La soluzione originale di Nałkowska suscitò la curiosità e una certa
inquietudine da parte di Boy e Słonimski, che ne sottolinearono l’artificiosità e
innaturalità (“Sembra che Nałkowska esamini un nervo solo, isolandolo dal resto dell’organismo e dai centri del cervello”25). Ma se per Boy questo “isolamento femminista” è degno di lode e pienamente giustificato dal punto di vista
drammaturgico, Słonimski si rivela un misogino ossessivo, con particolare disprezzo per le donne anziane (denominate da lui – tra l’altro – “mostri” oppure
“bambole sessuali fuori uso, buttate in soffitta”26).
22
IVI, p. 73.
IVI, p. 86.
24
IVI, pp. 79-86.
25
“Nałkowska jak gdyby bada tylko jeden nerw, izolując go od reszty organizmu, od centrów mózgowych”. TADEUSZ ŻELEŃSKI (BOY), Nałkowska «Dom kobiet», in IDEM, Pisma, vol. XXIII: Flirt
z Melpomeną. Wieczór dziewiąty i dziesiąty, a cura di Jan Kott, PIW, Warszawa 1965, p. 242.
26
“[...] lalkami seksualnymi, wycofanymi z obiegu, wyrzuconymi na strych”. ANTONI SŁONIM23
113
ANITA KŁOS
Quanto ad Aleramo, sembra plausibile l’ipotesi che fosse proprio la concentrazione della presenza e della voce femminile sul palcoscenico ad attrarre la sua attenzione. Nella premessa alla menzionata traduzione della Princesse de Clèves, Sibilla parla della “riconoscenza e solidarietà” che stavano dietro quella selezione:
Riconoscenza e solidarietà mi hanno fatto scegliere La Princesse de Clèves quando mi si
è chiesto quale romanzo volessi tradurre per la Collezione Romantica. Avrei forse preferito, per maggiore affinità spirituale, un volume di George Sand. Ma La Princesse de
Clèves, oltre che il libro di una donna, è il primo incontestato capolavoro che vanti la
letteratura psicologica in Europa27.
I criteri di “affinità spirituale” e “solidarietà” paiono decisivi per tutte le
scelte dell’Aleramo traduttrice, che in un’altra occasione sottolinea “una specie
di connivenza, [...] quasi una complicità”28 che si forma tra il traduttore e
l’autore del testo tradotto. Nel caso di Dom kobiet il sentimento di solidarietà
con un’autrice sconosciuta, di un paese lontano, doveva essere davvero eccezionale, visto che Sibilla si dichiarò disponibile a tradurre l’opera in italiano e a tro114
vare una compagnia teatrale pronta a metterla in scena, conoscendone solo il
concetto generale29. Due versioni inedite della Casa delle donne, una manoscritta
del 1930 e una dattilografata di datazione incerta (sicuramente anteriore al
1955), sono conservate nell’archivio personale di Aleramo, attualmente di proprietà della Fondazione Archivio Gramsci di Roma. Il manoscritto è corredato
da una descrizione autografa del documento, sicuramente posteriore alla stesura
del testo stesso: “Mia traduzione (dall’italiano (corretto) e dal / francese) / della
Casa delle Donne / Tre atti di Sofia Nalkowska [sic!], ungherese [sic!], / con
lettere e autorizzazione / 1930”30. Al dattiloscritto, consegnato alla Fondazione
da Dinda Gallo, moglie di Niccolò Gallo, critico ed editor alla Arnoldo Mondadori, è allegata una lettera non timbrata di Sibilla a Tadeusz Breza, scrittore polacco e al tempo (cioè negli anni 1955-1959) addetto culturale dell’Ambasciata
della Repubblica Popolare di Polonia a Roma, in cui l’autrice italiana scrive che
SKI,
Gwałt na Melpomenie, Wydawnictwa Artystyczne i Filmowe, Warszawa 1982, p. 170.
Cit. in SIBILLA ALERAMO, La Principessa di Clèves, in EADEM, Andando e stando, a cura di Rita
Guerricchio, Feltrinelli, Milano 1997, p. 158.
28
FA, serie 3: “Scritti”, sottoserie 1: “Manoscritti editi”, UA 14: “Dal mio diario (1940-1944)”,
fol. 413-414.
29
FA/C/SC, busta 62/585. “1930 novembre”, lettera 585.347.
30
FA, serie 3: “Scritti”, sottoserie 3: “Traduzioni”, UA 34.
27
LA CASA DELLE DONNE
“gradirà molto aver notizie” quando lui “avrà da comunicargliele” 31. Si può
supporre che avesse chiesto a Breza, critico teatrale nonché amico di Nałkowska, di esprimere il suo parere sul testo e di aiutarla a trovare un teatro o un editore per La casa delle donne. Tuttavia, lo scrittore polacco non ricevette mai la
traduzione di Dom kobiet. La lettera, datata 4 luglio 1955, fu scritta prima della
partenza della scrittrice da Roma per le vacanze e un periodo di cure nel nord
d’Italia l’8 luglio32. Come risulta dalle agende di Sibilla, negli anni precedenti
Aleramo aveva assistito ai ricevimenti organizzati dall’ambasciata polacca per i
festeggiamenti del 22 luglio (la Festa Nazionale che commemorava la nascita
della Polonia Popolare nel 1944). È probabile che, non potendo parteciparvi di
persona, avesse chiesto ai coniugi Gallo di consegnare a Breza il pacchetto con il
testo durante la festa, e quelli, per ragioni non chiare, non l’avessero fatto.
Aleramo venne a conoscenza della pièce di Nałkowska grazie alla menzionata Emilia Szenwic, collaboratrice fra l’altro di «Bluszcz» e di «Kobieta
Współczesna», importanti testate femminili del tempo, ben inserita nella vita
culturale e mondana della Varsavia tra le due guerre.
Dalla sua ricca corrispondenza con Aleramo (conservata nella Fondazione
Istituto Gramsci) risulta che durante l’estate del 1930, passata in Italia tra Roma
e Positano, la giornalista polacca avesse informato l’amica italiana del successo
internazionale di Dom kobiet. È possibile ricostruire la storia della versione aleramiana del testo in base alle lettere indirizzate a Sibilla conservate nella Fondazione Istituto Gramsci (tra cui vi sono tre lettere autografe di Zofia Nałkowska)
e al diario dell’autrice di Dom kobiet.
Recatasi in Polonia a novembre, Emilia Szenwic si mise con energia a sbrigare le formalità necessarie, non scoraggiata neppure dal fatto che l’opera di
Nałkowska fosse stata ormai tradotta in italiano da una certa Maria Poznańska,
collaboratrice di «Kobieta Współczesna». Nella missiva ad Aleramo del 14 novembre 1930 Emilia scrive (in tutte le citazioni delle lettere di Emilia Szenwic
vengono mantenute sia grafia dell'originale, sia la versione italiana, non sempre
corretta):
31
FA, sezione 7: “Documenti provenienti da altri archivi”, UA 35: “Sibilla”, lettera 6. “Sibilla
all’Ambasciata della Repubblica di Polonia”, Roma, 04/07/1955.
32
FA, serie 1: “Carte personali”, sottoserie 1: “Certificati di nascita e morte, testamenti di Sibilla
e altra documentazione”, UA 3: “Agende personali di Sibilla Aleramo”.
115
ANITA KŁOS
Scrivimi subito perchè devo scriverti della Signora Nałkowska colla quale ho parlato ieri a
lungo! Ho combinato tutto bene per Te. La traduzione è già fatta dalla Signorina Poznańska, ma Tu puoi correggerLa e farla rappresentare come abbiamo pensato. Hai già
una risposta dal Signor Picasso? Delle condizioni della Signora Nałkowska Ti scriverà la
Signorina Poznańska. La Signora Nałkowska era felice, che avrà una così illustre traduttrice come la nostra bella Sibilla. Ho parlato di Te tanto, tanto col tutto l’entusiasmo del
quale sono capace33.
Tre giorni dopo (il 17 novembre 1930) Emilia Szenwic poteva comunicare all’amica maggiori dettagli:
Stamattina ho parlato colla Sig. Nałkowska ed ella sarà contenta di avere le stesse condizioni che l’autore del “Gran Viaggio”. Oggi verra da me la Signorina Poznańska la
quale farà trascrivere a macchina subito tutta la traduzione [che] subito Ti manderà.
[…] Puoi allora leggere e farsi un’idea del valore per rispondere al Signor Picasso, dicendo già la Tua opinione.
La Signorina P. preparava questo lavoro per un’altra società, ma io l’ho assicurato, che
Sig. Picasso puo rappresentare la commedia più presto. Ed è anche contentissima, che
avrà la Tua collaborazione. La Signora Nałkowska Ti manderà i giornali già tradotti,
anche forse alcune righe del direttore del nostro teatro dove era rappresentata l’opera.
116
La commedia aveva qui un grande successo ed è interessantissima. Spero che in Italia
sarà recitata bene perchè di questo dipende tutto il successo. [...]
Come libro è gia tradotta in francese e la Sig. Nałkowska Ti manderà il libro. Ti aiutera
forse se hai dubbio qualsiasi durante la traduzione. Come mi dispiace, che non sono a
Roma per aiutarti mi farebbe tanto piacere di lavorare insieme con Te.
Scrivi cara subito a Picasso, cosi lui saprà, che il lavoro fra poco sarà alla Sua completa
disposizione. Va bene cosi?34
Nella lettera seguente del 18 novembre 1930 Szenwic suggerì ad Aleramo
di contattare Arnold Szyfman, direttore del Teatr Polski a Varsavia (il quale, entusiasta del lavoro di Nałkowska, aveva personalmente visionato i preparativi
della prima)35, per ottenere da lui una raccomandazione scritta per l’eventuale
33
FA, serie 2: “Corrispondenza” – “Sezione cronologica” (citato in seguito come FA/C/SC), busta 62/585. “1930 novembre”, lettera 585.345.
34
FA/C/SC, busta 62/585. “1930 novembre”, lettera 585.347.
35
Come direttore Szyfman ricorse a una troupe eccezionale per la messa in scena, assicurandosi
la collaborazione di grandi attrici. Nonostante le proteste di Nałkowska, affidò la regia di Dom
kobiet a Maria Przybyłko-Potocka (sua compagna di vita), che interpretò inoltre il ruolo di
Joanna, e che fu elogiata dai critici dopo la prima. Cfr. EDWARD KRASIŃSKI, Wokół premiery
„Domu kobiet”. Listy z archiwum Arnolda Szyfmana, in «Pamiętnik Teatralny», 3/4, 1974, pp.
LA CASA DELLE DONNE
regista italiano del dramma36. Nella lettera del 30 dicembre 1930 Szenwic comunicava alla scrittrice:
Ho ricevuto tutto. Lo stesso giorno andai dalla madre della Signora Nałkowska pregando di mandare la Tua firma alla figlia scrittrice, la quale è ora a Zakopane. Prima ancora
ho preso la firma della Sig. Poznańska, 20% come lo desideravi. Spero che hai già ricevuto cara mia, il foglio sottoscritto dalla signora Nałkowska 37.
Nałkowska ricordava Aleramo come autrice di Una donna, un commovente romanzo d’esordio di ispirazione autobiografica, tradotto in polacco da
Stanisława (Soava) Gallone (all’epoca aspirante giornalista e traduttrice, stabilitasi in Italia, in seguito attrice e diva del cinema muto europeo) e pubblicato a
puntate sull’importante rivista «Prawda» negli anni 1909-191038. Dalle sue annotazioni diaristiche risulta che teneva molto alla qualità artistica delle versioni
straniere delle sue opere. Sempre nel diario si lamentava di “un’intelligenza insufficiente” dei suoi traduttori in Francia39, di cui poteva controllare e valutare
personalmente il lavoro grazie a una buona conoscenza del francese. Avrà creduto nell’intelligenza di Aleramo o avrà sentito anche lei una specie di “affinità
spirituale” nei confronti della scrittrice italiana, perché, non senza certe esitazioni riguardanti probabilmente gli obblighi già stretti con Poznańska40, decise
di cedere a Sibilla i diritti della traduzione e della messa in scena di Dom kobiet
in Italia. Nella lettera ad Aleramo del 21 novembre 1930 Nałkowska spiega che
342-354; ZOFIA NAŁKOWSKA, O teatrze. Z «Dzienników» 1899-1954, a cura di Hanna Kirchner,
in «Pamiętnik Teatralny», 3/4, 1974, pp. 318-324.
36
FA/C/SC, busta 62/585. “1930 novembre”, lettera 585.350.
37
FA/C/SC, busta 62/586. “1930 dicembre”, lettera 585.394.
38
ANITA KŁOS, O polskim przekładzie powieści “Una donna” Sibilli Aleramo, in I Giovani per
l’Italia. Atti del Secondo Incontro dei Giovani Italianisti Polacchi, a cura di Alicja Paleta, Wydawnictwo Uniwersytetu Jagiellońskiego, Kraków 2008, pp. 45-50; EADEM, Tradurre il femminismo. Sulla traduzione polacca di “Una donna” di Sibilla Aleramo, in «Kwartalnik Neofilologiczny», LXII/2, 2015, pp. 257-265.
39
“A volte provo un grande dispiacere pensando a questo divario con la letteratura francese che
sento così vicina. Prendendo in considerazione le caratteristiche della mia scrittura, la mia scaltra
semplicità, un po’ maliziosa, il traduttore deve dimostrare un’intelligenza almeno pari alla mia”
(Czasami uczuwam to jako wielką przykrość, tę przegrodę dzielącą mię od tak mi bliskiej literatury francuskiej. Wobec cech mego pisania, mej chytrej, trochę złośliwej prostoty – tłomacz musi
być przynajmniej równie inteligentny jak ja). ZOFIA NAŁKOWSKA, Dzienniki IV, cit., p. 294.
40
Il 19 novembre 1930 Nałkowska scrisse nel diario: “Dom kobiet adesso sarà rappresentato in
Italia, la corrispondenza, i traduttori, i ritagli di giornale, la necessità persistente di prendere decisioni” (Dom kobiet idzie teraz na Włochy, korespondencja, tłomacze, wycinki, nieustanna konieczność jakiejś decyzji). ZOFIA NAŁKOWSKA, Dzienniki IV, cit., p. 218.
117
ANITA KŁOS
ogni traduzione fatta da un non madrelingua richiede una correzione di scrittura
e asserisce che la signorina Poznańska lo capiva perfettamente41. Anche Emilia
Szenwic era convinta che l’intervento letterario di Aleramo sulla traduzione eseguita da Poznańska era necessario: “La Signorina Poznańska m’ha letto ieri alcune pagine della Sua traduzione. Credo che Tu avrai molto a fare per dare
all’insieme una forma letteraria”42.
La stessa “signorina Poznańska” in varie occasioni assicurò che la collaborazione con Sibilla sarebbe stata per lei un’esperienza nobilitante e “lusinghiera”. Nella missiva ad Aleramo del 25 novembre spiegò con modestia: “ho
avuto ancor prima dalla signora Nałkowska [...] il diritto di rappresentazione
della Casa delle Donne in lingua italiana e ne ho fatto a mio rischio e pericolo la
traduzione completa. Sarò lietissima s’Ella vorrà rivedere e accomodare tale traduzione per il teatro italiano”43. Sembra comunque che non le fosse data altra
scelta. Nel contratto di autorizzazione alla traduzione e rappresentazione in Italia della Casa delle donne, stipulato da Nałkowska il 21 novembre 1930, Poznańska appare in qualità di co-traduttrice accanto ad Aleramo, la quale “firmerà
la traduzione assieme alla Sig.na Posnanska [sic!]”44. La divisione degli attesi
118
profitti non era invece conveniente per quest’ultima: secondo il contratto a
Nałkowska spettava il 50% del guadagno previsto a titolo della rappresentazione italiana della pièce, a Sibilla il 30% e a Poznańska il 20%.
Come sappiamo dalle lettere già citate, Aleramo si mise al lavoro sulla
Casa delle donne avendo a disposizione la versione di Poznańska dal polacco in
italiano, non solo imperfetta dal punto di vista letterario, ma piena di inesattezze
linguistiche, oltre alla traduzione dal polacco in francese, intitolata La maison
des femmes, di Thérèse Koerner, destinata alla messinscena a Parigi e inviata a
Sibilla dalla stessa Nałkowska come eventuale aiuto45. Thérèse (o Marie Thérèse)
Koerner (Koerner-Karbowska dopo il matrimonio), che abitava a Varsavia, fu
traduttrice dal polacco in francese e collaboratrice di «Wiadomości Literackie»
e «Pologne Littéraire» (testata in lingua francese creata al fine di promuovere la
cultura polacca all’estero). Traduceva non solo saggistica e letteratura per diversi
41
FA/C/SC, busta 62/585. “1930 novembre”, lettera 585.350.
IVI, lettera 585.354.
43
IVI, lettera 585.355.
44
IVI, lettera 585.354.
45
FA, serie 3: “Scritti”, sottoserie 3: “Traduzioni”, UA 34.
42
LA CASA DELLE DONNE
editori polacchi, ma anche poesie, per cui era molto apprezzata. Tra di esse le liriche di Mickiewicz e Staff, nonché dei componenti del popolarissimo gruppo
Skamander: Wierzyński, Iwaszkiewicz, Słonimski, Tuwim. Józef Czechowicz,
poeta d’avanguardia avverso alla linea artistica (e agli orientamenti politici) di
questo gruppo poetico, ebbe ad affermare addirittura che un certo successo internazionale dei poeti di Skamander fosse merito esclusivo delle traduzioni di
Koerner46. Anche Nałkowska descrive la traduttrice nel diario come “un’artista
eccellente”, anche se conserva un pessimo ricordo della loro collaborazione, lamentandosi dei ritardi e delle decisioni sbagliate della traduttrice e accusandola
addirittura di aver rovinato le “congiunture” di Dom kobiet a Parigi47. Infatti,
nonostante l’interesse da parte di registi parigini, la messa in scena francese non
ebbe mai luogo. E pare che neppure la traduzione, di cui scrive Emilia Szenwic,
sia mai stata pubblicata in volume in Francia.
È interessante ricordare che, dopo aver finalmente ricevuto e letto il testo
intero del dramma, Aleramo scrisse all’autrice esprimendo – come si può dedurre
dalla risposta di Nałkowska – un giudizio assai positivo48. L’autrice italiana, in effetti, non si contentò della “correzione” del testo di Poznańska come si progettava
all’inizio, ma ne creò una nuova versione italiana. Dall’analisi formale della Casa
delle donne, cui intendo dedicare in futuro un ulteriore, più approfondito studio,
risulta che la riscrittura aleramiana di Dom kobiet è risultato di una composta operazione testuale, in cui Sibilla accosta frammenti della versione di Poznańska,
(laddove necessario, corretti dal punto di vista linguistico e letterario) ai frammenti della traduzione francese di Koerner, anch’essi tradotti in italiano. Aleramo sceglie comunque la versione francese di Koerner come base della sua riscrittura: da
essa riprende la visione generale dell’opera e una certa strategia traduttiva addomesticante (secondo la famosa definizione di Lawrence Venuti49). Il testo viene infatti adattato alla cultura d’arrivo, a costo di eliminare o modificare elementi della
cultura di partenza (nella Casa delle donne sono omessi per esempio i riferimenti
alla devozione cattolica, al folclore, alle tradizioni culinarie).
46
Cfr. WIESŁAW PAWEŁ SZYMAŃSKI, Z dziejów czasopism literackich w dwudziestoleciu międzywojennym, Wydawnictwo Literackie, Kraków 1970, p. 356.
47
ZOFIA NAŁKOWSKA, Dzienniki IV, cit., pp. 171-172 e 218.
48
FA/C/SC, busta 62/586. “1930 dicembre”, lettera 585.387.
49
LAWRENCE VENUTI, L’invisibilità del traduttore. Una storia della traduzione, trad. it. Marina
Guglielmi, Armando Editore, Roma 1999 (ed. orig. The Translator’s Invisibility. A history of
translation, Routledge, London 1995), p. 44 e ss.
119
ANITA KŁOS
Molto più difficile della traduzione stessa si rivelò la ricerca di una compagnia teatrale pronta a rappresentare una pièce con sole donne. Nella corrispondenza del Fondo Aleramo, sin dall’inizio si parla della troupe di Lamberto
Picasso, noto attore e capocomico. Ne troviamo il nome sia nella prima missiva
di Szenwic del 14 novembre 1930, sia nel contratto stipulato da Nałkowska.
Perché Aleramo pensò proprio a quell’interprete? Non lo si sa con sicurezza. Né
nel Fondo Aleramo né nell’archivio di Lamberto Picasso, conservato presso il
Museo Biblioteca dell’Attore di Genova, sono conservate testimonianze dei contatti tra la scrittrice e il regista. Picasso è ricordato soprattutto come collaboratore di Luigi Pirandello: negli anni 1925-1928 egli fu primo attore e “Direttore sostituto” della sua Compagnia del Teatro d’Arte con sede al Teatro Odescalchi di
Roma50 e leggendario interprete del Padre in Sei personaggi in cerca d’autore.
Non va tuttavia dimenticato che Picasso apparteneva ai “convinti assertori della
necessità di un teatro d’arte in Italia”51, i quali, nella creazione di un sistema di
teatri stabili sovvenzionati dallo Stato, intravedevano una possibilità di riforma
del teatro italiano. All’epoca esso si fondava fondamentalmente sull’attività delle
compagnie di giro e, in generale era incline a soddisfare i gusti borghesi del
120
pubblico, senza prestare un’adeguata attenzione alla qualità della messinscena o
interessarsi alle novità europee e sperimentazioni delle avanguardie 52. Non trovando nelle compagnie operanti un posto corrispondente alle sue ambizioni e ai
suoi orientamenti artistici, Picasso mise in atto alcune iniziative per “dare al Teatro un nuovo indirizzo culturale”53 con un repertorio aperto alla nuova drammaturgia contemporanea. Ancora prima della sua adesione alla troupe pirandelliana, egli aveva fondato La Compagnia dello Spettacolo d’Arte al Teatro Argentina di Roma (1922), che tra le sue novità presentò tra l’altro Per la felicità di Stanisław Przybyszewski54.
50
Con intervallo per la stagione 1926; ALESSANDRO TINTERRI, Arlecchino a Palazzo Venezia:
momenti di teatro nell’Italia degli anni Trenta, Morlacchi Editore, Perugia 2011, p. 13, nota 1.
Nei primi tempi all’Odescalchi Picasso era in pratica il condirettore artistico del Teatro d’Arte e,
durante le assenze di Pirandello a Roma, dirigeva le prove; ALESSANDRO D’AMICO, ALESSANDRO TINTERRI, Pirandello capocomico. La Compagnia del Teatro d’Arte di Roma 1925-1928, Sellerio, Palermo 1987, p. 18.
51
ALESSANDRO TINTERRI, op. cit., p. 13, n. 1.
52
IVI, p. 17 e ss.
53
Museo Biblioteca dell’Attore del Teatro Stabile di Genova, Fondo Lamberto Picasso, “Curriculum artistico di Lamberto Picasso dal 1903 al 1953”, fol. 1-2.
54
Ibidem.
LA CASA DELLE DONNE
Aleramo e Picasso si erano conosciuti in occasione della messinscena di
un’altra traduzione di Aleramo, quella del Pèlerin di Charles Vildrac, scrittore e
drammaturgo francese legato all’ambiente di «Nouvelle Revue Française», incontrato da Sibilla durante un suo soggiorno a Parigi55. Il pellegrino era stato
messo in scena il 15 maggio 1925 dalla compagnia di Pirandello durante l’ultimo
dei “giovedì del Teatro d’Arte” all’Odescalchi56, ma, nonostante le buone recensioni, non ebbe repliche57. Picasso interpretò brillantemente la parte del protagonista, Edoardo.
Nel 1930 Picasso portò in scena con la propria Compagnia, al Teatro
Valle di Roma, Il grande viaggio del drammaturgo inglese Robert Cedric Sherriff. La rappresentazione romana dell’opera, con soli personaggi maschili (si
svolge nel ricovero per ufficiali di una trincea inglese a Saint Quentin negli ultimi mesi della Grande Guerra), fu un grande successo di Picasso come regista e
attore58. Scrivendo, in una delle lettere già citate, che la Signora Nałkowska “sarà
contenta di avere le stesse condizioni dell’autore del ‘Gran Viaggio’”, Emilia
Szenwic fa riferimento proprio a quella messa in scena, molto apprezzata dal
pubblico, nonostante, o magari grazie al messaggio “troppo pacifista” dell’opera
di Sherriff che suscitava i dubbi della censura fascista59.
È difficile azzardare delle ipotesi sulle possibili ragioni del mancato interesse di Picasso per La casa delle donne60. Forse aveva altri impegni, forse non lo
entusiasmava l’idea di un lavoro teatrale “senza uomini”. Neanche il clima sociopolitico dell’Italia fascista era del resto propizio al portare sulla scena la pièce
di Nałkowska. Come è noto, l’ideologia patriarcale del regime propagava una visione della donna “sposa e madre esemplare” e “angelo del focolare”, che, fa55
Aleramo dedicò a Vildrac l’articolo Il pellegrino Vildrac, ristampato in SIBILLA ALERAMO,
Gioie d’occasione, Mondadori, Milano 1930, pp. 169-178.
56
Fu un’iniziativa effimera di Pirandello, che prevedeva nella stessa serata la presentazione di un
breve lavoro drammatico, di un brano musicale e di una lettura di versi o di prosa letteraria;
ALESSANDRO D’AMICO, ALESSANDRO TINTERRI, op. cit., p. 22.
57
Charles Vildrac, a cura di Claude Aveline, Bulzoni-Nizet, Roma-Paris 1983, pp. 129-131.
58
ALESSANDRO TINTERRI, op. cit., p. 30 e ss.
59
IVI, p. 32.
60
È interessante menzionare a questo proposito un’altra opera teatrale polacca, Gołębie Winicji
Claudel (Le colombe di Winicja Claudel) di Jalu Kurek, della cui mancata messinscena al Teatro
degli Indipendenti di Anton Giulio Bragaglia, scrive PRZEMYSŁAW STROŻEK, «Applausi esclusi».
Jalu Kurek e il teatro futurista italiano, trad. it. Giovanna Tomassucci, in Gli altri futurismi: futurismi e movimenti d’avanguardia in Russia, Polonia, Cecoslovacchia, Bulgaria e Romania. Atti del
Convegno internazionale, Pisa, 5 giugno 2009, a cura di Giovanna Tomassucci e Massimo Tria,
PLUS, Pisa 2010, pp. 113-123.
121
ANITA KŁOS
cendo figli, rende un servizio importante alla patria61. Invece le (ex) spose e madri della Casa delle donne, ormai vecchie e infelici, presentano un volto della
femminilità assai lontano da quello esaltato dalla propaganda fascista. E con le
loro mature e amare riflessioni sulla vita familiare, con la loro solitudine che paradossalmente diventa la fonte della loro indipendenza, mettono in dubbio il
modello di famiglia e dei rapporti tra i sessi vigente in Italia.
In ogni caso, all’inizio degli anni Trenta Aleramo aveva compiuto alcuni
sforzi per far rappresentare la pièce in Italia. Ne danno conferma due annotazioni del diario di Nałkowska (dell’11 dicembre 1931 e dell’8 gennaio 1932), nelle
quali si parla di una prossima rappresentazione romana della La casa delle donne62. È molto probabile che quelle informazioni si riferiscano alla Compagnia di
Tatiana Pavlova, grande attrice di origini russe e regista teatrale in Italia, che nel
1924 mise in scena l’Endimione di Aleramo63. Nell’archivio della scrittrice si trova una lettera di Pavlova, datata 23 luglio 1931, in cui viene menzionata senza
dubbio l’opera di Nałkowska e la sua traduzione eseguita da Aleramo. Pavlova
conferma che sa “del lavoro da tempo dai giornali francesi e del successo pero
[sic!] non eccessivo a Varsavia, ma il lavoro m’interessa”64.
122
La questione della messa in scena italiana dell’opera apparve insieme al
nome di Pavlova tre anni dopo in una lettera di Szenwic del 1934: “[…] sai che
a Parigi saranno rappresentate le opere della Nałkowska65? E Tu non puoi fare
nulla per la Casa delle donne? Scrivi un giorno alla Pawlowa [sic!]”66.
In mancanza di ulteriori testimonianze non è facile spiegare perché Aleramo non poté “fare nulla” per la Casa delle donne. Tutti i suoi tentativi di portare il dramma sui palcoscenici italiani fallirono. Aleramo lo metterà in chiaro
nella lettera del 29 marzo 1936 a una vecchia amica, Olga Resnevič Signorelli,
medico e traduttrice dal russo in italiano, la prima biografa di Eleonora Duse67:
61
PERRY WILLSON, «Sposa e madre esemplare: sotto la dittatura fascista», in EADEM, Italiane.
Biografia del Novecento, trad. it. Paola Marangon, Laterza, Roma-Bari 2011 (ed. orig. Women in
Twentieth-Century Italy, Palgrave Macmillan, New York-Basingstocke 2010), pp. 108-139.
62
ZOFIA NAŁKOWSKA, Dzienniki IV, cit., pp. 308 e 327.
63
Aleramo dedicò all’attrice alcuni ricordi, fra l’altro un breve saggio del 1924, intitolato Tatiana
Pavlova pubblicato posteriormente in EADEM, Andando e stando, cit., pp. 218-220.
64
FA/C/SC, busta 62/597. “1931 luglio”, lettera 597.191.
65
La pièce di Nałkowska Dzień jego powrotu (Il giorno del suo ritorno) fu messa in programmazione dal Théâtre de l’Odéon di Parigi nel 1932, ma la sua rappresentazione non ebbe mai luogo, cfr. ZOFIA NAŁKOWSKA, Dzienniki IV, cit., pp. 364-365.
66
FA/C/SC, busta 65/635. “1934 febbraio”, lettera 635.79.
67
Sull’amicizia tra Olga Signorelli e Sibilla Aleramo scrive DANIELA RIZZI, Olga Signorelli nella storia
LA CASA DELLE DONNE
“Ho bensì tradotto (dal francese) un lavoro teatrale polacco, ma non sono riuscita a farlo rappresentare, e perciò non oso più farmi viva con l’autrice […]”68.
Nella parte inedita del Diario di Aleramo troviamo una nota del 7 febbraio
1944, in cui Aleramo registrerà le sue impressioni dopo la rilettura della Casa delle
donne, a distanza di circa tredici anni dalla sua stesura. Verso la fine della Seconda
guerra mondiale si interrogherà delle sorti di Nałkowska e Poznańska:
A proposito di traduzioni, ho tratto fuori dall’armadio quale [sic!] lavoro teatrale polacco, che misi in buon italiano una dozzina d’anni fa, e non pervenni mai a far rappresentare né pubblicare: La casa delle donne, di Sofia Nalkovoska [sic!]. L’ho riletto, lo
trovo ancora interessante. Ma è tuttora viva l’autrice? E dove, dopo tante tragedie del
suo paese? E la signorina sua connazionale che aveva fatto la prima stesura della traduzione? Potrei tentare ora di “varare” il lavoro, ma non posso disporre se non so più nulla di quelle due, con le quali dovrei dividere il guadagno, secondo il contratto?69
La casa delle donne è una pièce di cospicuo valore che rimane interessante
anche oggi. Se non arrecò a Zofia Nałkowska la fama sperata a Parigi e Roma,
per Sibilla Aleramo la mancata rappresentazione della sua traduzione costituì
probabilmente un’altra delusione in quei “tormentosi” anni della sua vita.
L’inedito del Fondo Aleramo merita senz’altro una pubblicazione: esso costituirebbe un importante gesto di “riconoscenza e solidarietà” verso due grandi
scrittrici del Novecento europeo.
culturale italiana della prima metà del Novecento, in Olga Signorelli e la cultura del suo tempo, a cura di
Elda Garetto e Daniela Rizzi, vol. II, Vereja Edizioni, Salerno 2010, pp. 9-110.
68
Fondo Signorelli, Centro Studi Teatro, Fondazione G. Cini, Venezia, lettera di Sibilla Aleramo
a Olga Signorelli del 29 marzo 1936, fol. 1.
69
FA, serie 3: “Scritti”, sottoserie 1: “Manoscritti editi”, UA 14: “Dal mio diario (1940- 1944)”,
fol. 375.
123
ALINA MOLISAK
Żydowska Warszawa ‒ żydowski Berlin w pierwszej połowie
XX wieku. Różne wersje religijności
«pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», (VI) 6, 2015, pp. 125-139
ABSTRACT
In my article I compare two versions of Jewish religiosity. The literary works,
which feature believers of Judaism from Eastern Europa and Haskala supporters were written in
Polish (Melcer), Yiddish (Schneersohn) and German (Döblin).
KEYWORDS
Jewish religiosity, Eastern Europe, Haskala
W
ażnym elementem kształtowania miejskich przestrzeni jest obecność świątyń i innych obszarów związanych ze sferą sacrum. Miasta
‒ zawsze niemal ‒ odgrywały rolę nie tylko miejsc, gdzie lokowała
się władza świecka. Były również istotnymi centrami religijnymi. Przyglądając się
wybranym tekstom, powstałym w pierwszej połowie XX wieku, chciałabym
zwrócić uwagę na to, jak różnie przedstawione zostały odmiany żydowskiej religijności.
W wielu zapisach literackich odnaleźć można interesujące narracje dotyczące obecności religii w przestrzeni miast. Obie stolice ‒ Warszawa i Berlin ‒
były dla żydowskich środowisk ważnymi ośrodkami związanymi z dość odmiennie kształtowanym judaizmem. Dominująca w Warszawie ortodoksja znacznie
różniła się od wywiedzionej z Haskali niemieckiej wersji judaizmu reformowanego. Oczywiście istniały także w Warszawie synagogi reformowane ‒ pierwsza z
nich powstała już w 1802 roku1, nie były one jednak aż tak rozpowszechnione
jak w Berlinie. W niemieckiej stolicy było podobnie ‒ funkcjonowały synagogi
ortodoksyjne, najczęściej jednak były one zlokalizowane w dzielnicy najliczniej
1
Jak pisze Michał Galas, była to synagoga „niemiecka”. Galas wyjaśnia, iż określenie „synagoga
postępowa” na ziemiach polskich odpowiada synagodze reformowanej lub liberalnej w Niemczech. Powołuje się przy tym na MICHAELA A. MEYERA i jego tekst zamieszczony w The YIVO
Encyclopedia of Jews in Eastern Europe, <www.yivoinstitue.org/pdf/reform.pdf>, ss. 2-3. Patrz:
MICHAŁ GALAS, Rabin Markus Jastrow i jego wizja reformy judaizmu. Studium z dziejów judaizmu w XIX wieku, Austeria, Kraków 2007, ss. 28-34.
125
ALINA MOLISAK
zamieszkałej przez Żydów wschodnioeuropejskich, zaś najbardziej znaczące i
najlepiej znane wyznawcom były synagogi reformowane.
O tym, jak różnie opisywane były te ważne dla geopoetyki obu miast
obiekty kultu przekonujemy się również w narracjach literackich.
Osią konstrukcji fabularnej powieści Fiszla Schneersohna, zatytułowanej
Grenadirstrase. Funam jidiszn lebn in dajczland (opublikowanej w jidysz w roku
1935), jest spotkanie dwóch wersji judaizmu, które ukształtowały się w europejskiej diasporze. Berlin, gdzie dzieje się cała akcja, jest tu miejscem szczególnym ‒
w pierwszej połowie XX wieku była to przestrzeń spotkania niemieckich Żydów,
w znakomitej większości, jak wspominałam, zwolenników Haskali z przybywającymi tam (od drugiej połowy XIX wieku do lat 30-tych XX wieku) Ostjuden.
Dla przybyszów ze wschodnioeuropejskiej diaspory niemieckie miasto bywało,
jak wiadomo, często tylko etapem na drodze do dalszej emigracji. Wielu z nich
jednak pozostawało w stolicy sąsiedniego państwa na dłużej. Wskazać można
chyba trzy zasadnicze motywy wyboru takiego miejsca ‒ było ona szansą ucieczki tak przed prześladowaniami i pogromami we wschodniej Europie jak i nadzieją na poprawę materialnej egzystencji. Trzecim motywem bywała fascynacja
126
ideałami żydowskiego Oświecenia, możliwość kształcenia się w tym nurcie judaizmu. Bywały oczywiście także inne powody czasowego przebywania w Berlinie ‒
od prowadzenia interesów, przez wizyty rodzinne po wybór miejsca studiów czy
wreszcie zaangażowanie w świat przestępczy.
W powieści Schneersohna Berlin staje się przestrzenią, gdzie niemieccy
Żydzi mają szanse zetknąć się z wschodnioeuropejskimi. Tytułowa Grenadierstrasse była wówczas (w początku wieku XX) symbolicznym miejscem, wyznaczającym osobną przestrzeń, odmienną dzielnicę, zamieszkałą przez przybyszów ze Wschodu. Autor nie poprzestaje jedynie na wskazaniu odmienności obu
wersji żydowskiej tożsamości religijnej ‒ liberalnej i ortodoksyjnej ‒ przedstawia
czytelnikowi również inne środowiska: socjalistów, prawicowych syjonistów, tak
studiujących przybyszów ze Wschodu jak i syjonistów niemieckich, nacjonalistyczne stowarzyszenia studenckie czy kręgi chasydzkie. Można by upatrywać w
tej powieści swoistego portretu wielokrotnego, zaprezentowania bardzo rozmaitych wersji nowoczesnej żydowskiej tożsamości. Tu jednak interesuje nas przede
wszystkim sfera religijna. Objaśniając czytelnikowi charakterystyczną dla wielkomiejskich przestrzeni atmosferę takiego znaku nowoczesności, jakim był w
ŻYDOWSKA WARSZAWA ‒ ŻYDOWSKI BERLIN W PIERWSZEJ POŁOWIE XX WIEKU
pierwszej połowie XX wieku dworzec kolejowy, autor wprowadza w ten obszar
także te postaci, które wyróżniają się wśród innych mieszkańców czy przybyszów
‒ są to Ostjuden:
Jak zawsze [na dworcu Alexanderplatz] czekali agenci hotelowi, tragarze, krewni i przyjaciele na pociąg, który przywoził szczególnych pasażerów z Europy wschodniej. Dziś
czekała także duża grupa, więcej niż stu mizrech-jidn, brodaci, z pejsami i w większości
w długich chałatach. Byli wśród nich starsi mężczyźni z siwymi brodami i kilku rabinów,
którzy zgodnie z tradycją ubrani byli w jedwabne chałaty i tradycyjnie nosili polskie kapelusze. Wszyscy oni byli przybyłymi mizrech-jidn, przeważnie z Polski i Galicji, którzy
osiedlali się od lat w Berlinie, w znanej południowej okolicy wokół Grenadierstraße.
Przybysze byli przede wszystkim drobnymi kupcami, rzemieślnikami, sprzedawcami
ulicznymi, zbieraczami szmat czy żebrakami. Niektórzy jednak byli solidnymi kupcami,
ludźmi sukcesu2.
Od razu widać, iż przybyli ze Wschodu wyróżniają się wśród obecnych
na dworcu ‒ przede wszystkim tradycyjnymi brodami, pejsami czy charakterystycznym strojem wschodnioeuropejskich Żydów. Jedwabne chałaty czy ‒ jak pisze Schneersohn ‒ „polskie kapelusze”, sygnalizują przynależność do tradycji ortodoksyjnej, mają być znakami zewnętrznymi odmiennej niż niemiecka tożsamości Ostjuden. Berlińskie otoczenie jednak wywiera i na nich wpływ. Niektórzy
zamiast tradycyjnych hitlech (nakryć głowy, kapeluszy) noszą modne kapelusze,
zakładają koszule i marynarki, które „wyglądają jak obcięte chałaty”, niektórzy
chowają pejsy za uszami3. Co ważne jednak ów sposób bycia w publicznej przestrzeni praktykują niemal wyłącznie poza obszarem własnego zamieszkania, w
dzielnicy zamieszkałej w większości przez wiernych ortodoksji powracają niejako
do tradycyjnej formuły wyglądu.
Ważnym zjawiskiem historycznym, które przyczyniło się do napływu
Ostjuden do Berlina były lata pierwszej wojny światowej. Nie tylko działania militarne, ale również fala pogromów, zwłaszcza na terenie Galicji 4, sprzyjały decy2
FISCHL SCHNEERSOHN, Grenadierstraße. Roman, Wallstein, Berlin 2012, s. 19, tłum. A.M. Jeśli
nie wskazuję nazwiska tłumacza, oznacza to, że tłumaczenia są zrobione przeze mnie.
3
Tamże, s. 20.
4
Patrz: SH. AN-SKY, The Enemy and his Pleasure. A Journey Through the Jewish Pale of Settlement During World War I, ed. and trans. by Joachim Neugroschel, Henry Holt and Company,
New York 2002. Oryginał tekstu An-skiego został napisany w jidysz Der jidysz hurbn fun Pojlen,
Galitsje un Bukovine. Fun tog–buch 1814–1918, wydany w 1927; tłumaczenie hebrajskie – Samuel Leib Citron – opublikowano w Berlinie w 1929 roku i w 1936 w Tel-Awiwie.
127
ALINA MOLISAK
zjom o ucieczce czy emigracji. Wspomina o tym również Schneershon: „W czasie
wojny przybyło do Berlina wiele bogatych rodzin chasydzkich z Polski i Galicji”5.
Ważne było także postrzeganie przybyszów ‒ niezależnie od ich statusu majątkowego, w oczach mieszkańców niemieckiej stolicy, ale także wśród ówczesnego
obywateli całego kraju, Ostjuden są wyjątkowo egzotycznymi postaciami: „Większość Niemców, przede wszystkim przejeżdżający przez stolicę, niemieszkający
w Berlinie, niewiele wiedzą o takich Żydach, którzy […] żyją na marginesie” 6.
Owo „życie na marginesie” było funkcjonowaniem właściwie na marginesie całego niemieckiego społeczeństwa. Chcący zachować własną religijność i odrębną
tożsamość emigranci skupiali się w jednej właściwie dzielnicy Berlina, tj. w
Scheunenviertel. Nawet ci, którzy mogli pozwolić sobie na mieszkanie w bardziej
eleganckim otoczeniu często rezygnowali z tego, na rzecz bycia „wśród swoich”.
W powieści Schneersohna jako interesujące dla wszystkich podróżnych
dziwowisko został opisany przyjazd do Berlina grupy polskich chasydów i ich
mędrca. Dwójka głównych bohaterów z zainteresowaniem oglądała swoiste widowisko rozgrywające się na dworcu:
128
Na chwilę, ta procesja wzbudziła zainteresowanie, zaciekawienie ‒ skrywane zazwyczaj
przez mieszkańców wielkich miast ‒ czymś nadzwyczajnym i imponującym. Dodać
trzeba, że wzmacniała tę ciekawość fascynacja wszystkim, co orientalne; Orient kusi Europejczyków w muzeach i sprzyja turystyce skierowanej w tamte, egzotyczne strony 7.
W odmiennym wprawdzie kontekście, ale wartym tu przywołania, diagnozuje powstanie obrazów tego, co określane jest mianem Wschodu (tu:
wschodnioeuropejskiej diaspory żydowskiej) Maria Todorova: „Wschód został
stworzony na potrzeby Zachodu jako baśniowa, egzotyczna kraina, obfitująca w
legendy i cuda. Utożsamiał tęsknotę i umożliwiał wybór czegoś innego niż prozaiczny i ziemski świat Zachodu”8. Z takim swoistym uromantycznieniem wschodnioeuropejskiego judaizmu mamy do czynienia w kilku znaczących tekstach literackich. Z narracji Schneersohna dowiadujemy się, że przyjazd rabina wzbudził
nie tylko zainteresowanie przypadkowych obserwatorów, był dla społeczności
5
FISCHL SCHNEERSOHN, Grenadierstraße, cyt., s. 20.
Tamże, s. 21.
7
Tamże, s. 24.
8
MARIA TODOROVA, Bałkany wyobrażone, tłum. Magdalena Budzińska, Jan Dzierzgowski i Piotr
Szymor, Czarne, Wołowiec 2014, s. 40.
6
ŻYDOWSKA WARSZAWA ‒ ŻYDOWSKI BERLIN W PIERWSZEJ POŁOWIE XX WIEKU
tak znaczącym ‒ ale i egzotycznym, o czym już była mowa ‒ wydarzeniem, że
odnotowały je miejscowe gazety: „Następnego ranka w gazetach pod tytułem Tajemniczy pojazd wydrukowano obraz zachwyconych, idących w procesji setek
dziwnych Ostjuden, którzy ochraniali tajemniczy pojazd parasolami, aby ochronić swego wunder-rabbi”9.
Dwójka bohaterów, którymi są wykształceni niemieccy Żydzi, obserwujący całe wydarzenie, konstatuje, iż mimo, że podróżowali wiele, widzieli Chiny i
Syberię, nie zdawali sobie sprawy, że tak egzotyczne zjawiska jak żydowscy migranci ze Wschodu współtworzą ich miasto, choć żydowska dzielnica w Berlinie
jest światem samym dla siebie, oddzielonym i tajemniczym. Johann Ketner objaśnia wprawdzie żonie, że słyszał o istnieniu podobnych dzielnic w innych wielkich miastach, do których emigrowali biedni ze wschodnioeuropejskiej diaspory.
Oboje kierowani ciekawością towarzyszą przejazdowi rabina. Rozpoznanie Inności, tego, że znaleźli się w obcej dla nich samych przestrzeni następuje bardzo
szybko ‒ wtedy gdy pojawiają się szyldy w jidysz, wyznaczając tym samym niejako granice zamieszkiwanej przez Ostjuden części miasta. Dla obojga bohaterów
w taki sposób zostały wyznaczone granice odmiennej przestrzeni ‒ wyróżnione
napisami na budynkach, wyróżniającymi się nieznanym im alfabetem czy ulicznym gwarem, wprawdzie podobnym w jakiejś mierze do niemieckiego, ale jednak całkiem odmiennym językowo.
Powieść Schneersohna jest zapisem doświadczenia niemieckich Żydów
stykających się ze wschodnioeuropejską odmianą judaizmu. Lata międzywojenne
wśród niemieckich Żydów były również, o czym należy pamiętać, czasem zainteresowania chasydyzmem, nie tyle ze względu na egzotykę, co z powodu przekonań tak znaczących osobowości jak Martin Buber czy Gershom Scholem, którzy
widzieli w ortodoksji czy ruchu chasydzkim szans na kulturowe odnowienie judaizmu. Zainteresowanie wschodnimi nurtami judaizmu było ‒ choć nie bardzo
powszechnym ‒ jednym z elementów żydowskiego życia w przedwojennych
Niemczech. Schneersohn podkreśla istnienie środowisk niemieckich intelektualistów, które rozczarowane rozprawiały o „zmierzchu kultury Zachodu” upatrując w rozmaitych odmianach wschodnich nurtów duchowych szans na powrót
do źródeł żydowskiej duchowości10. Zajmowano się jednak również studiowa9
FISCHL SCHNEERSOHN, Grenadierstraße, cyt., s. 25.
Tamże, ss. 28-30.
10
129
ALINA MOLISAK
niem mistyki indyjskiej czy chińskiej. Niektóre kręgi Żydów niemieckich zwracały uwagę na dziedzictwo judaizmu związane z kabałą czy właśnie na ‒ obecne
wszak także tuż obok ‒ nauki chasydzkie: „W wielu żydowskich domach, rodzin
zasymilowanych od kilu generacji, młodzi czytali z wielkim podziwem rozpowszechniane tłumaczenia historii chasydzkich, pochodzących od Baal Szema i
jego następców”11. Narrator relacjonujący przejawy zainteresowania wschodnioeuropejskim judaizmem, podkreśla także sprzyjające owym lekturom „romantyczne tęsknoty” młodzieży czy właśnie poszukiwanie odnowy kultury, jakiemu
oddawali się intelektualiści studiujący przetłumaczone na niemiecki (m.in. przez
Bubera) dzieła dotyczące chasydyzmu czy kabały.
Dosadniej określa falę fascynacji wschodnią odmiana judaizmu uważny
reporter, krytycznie odnosząc się do zachowań młodych:
Z domów burżuazji żydowskiej w Niemczech ucieka młodzież. […] Mistycyzm religijny
opanowuje szeregi. W synagogach żydowskich coraz więcej modlących się i jęczących
przy słowach modlitwy. Syjonizm i religia zdobyły ulicę żydowską w okresie reakcji [tak
określa Singer lata 30-te] w Niemczech12.
130
Zaskoczona aż takim zainteresowaniem duchowością i rozmowami o religijności, rozumianej jako fundament tożsamości jednostek i grup, wydaje się
być także jedna z bohaterek powieści Sammy Gronemanna (powieść nosi tytuł
Tohuwabohu), która przybywszy do Berlina, aby studiować, po krótkim czasie ze
zdumieniem oznajmia:
„Dziwne bardzo, na jakie zapatrywania natknąć się można wśród niemieckich Żydow!”
‒ powiedziała Chane. „Te kilka dni, od kiedy jestem w Niemczech, słyszę więcej rozmów o religii i judaizmie niż w całym moim życiu. Chciałabym wiedzieć, czy nie-Żydzi
także od razu rozmawiają o własnym chrześcijaństwie czy swej niemieckości”13.
Kwestia religii powraca często w dyskusjach środowisk opisywanych w
“powieści syjonistycznej” Gronemanna14. Jedni z bohaterów pochodzących ze
11
Tamże, s. 29.
BERNARD SINGER, W krajach Hitlera i Stalina. Reportaże, Biblioteka Midrasza, Warszawa 2007, s. 99.
13
SAMMY GRONEMANN, Tohuwabohu, Reclam Verlag, Leipzig 2000, s. 229.
14
Tego określenia dla fabuły Tohuwabohu używa (za Hannim Mittelmanem) autor posłowia do
najnowszego wydania powieści ‒ Joachim Schlör. Patrz: JOACHIM SCHLÖR, Tohuwabohu. Einige
Klärungen und viel mehr Fragen, [w:] SAMMY GRONEMANN, dz. cyt., ss. 357-374.
12
ŻYDOWSKA WARSZAWA ‒ ŻYDOWSKI BERLIN W PIERWSZEJ POŁOWIE XX WIEKU
wschodnioeuropejskiej diaspory, jak Wolf Klatzke, zdołali już na nowo skonstruować swą wielkomiejską tożsamość, inni ‒ nowoprzybyli jak Chane czy
Jossel Schenker ‒ najpierw dostrzegają odmienności i różnice w definiowaniu
czy redefiniowaniu przez mieszkańców Berlina własnej żydowskości. Klatzke
wskazuje głośno w czasie tych debat na to, jak bardzo fałszywym ideom ulegli
niemieccy Żydzi, którzy skłonni są słuchać kazań swych rabinów: „To przecież
jest po prostu wynalazek rabinów niemieckich, że judaizm jest jakąś religią tak
jak chrześcijaństwo”15. W toku debat okazuje się, iż bycie Żydem dla niemieckich wyznawców judaizmu oznacza konkretne wyznanie, zaś dla emigrantów ze
wschodu, zwłaszcza tych niedawno przybyłych do Berlina, jak Chane ‒ żydowskości nie wyznacza tylko religia. Tożsamość żydowska w tej optyce zyskuje szersze, kulturowe znaczenie, jest raczej sposobem istnienia niż tylko związkiem z
konkretną wersją judaizmu. Fabuła tej opowieści o spotkaniu wschodnioeuropejskich i berlińskich Żydów łączy się wyraźnie z diagnozami samego autora,
który był przekonany, iż w zachodnioeuropejskiej diasporze tak Boga jak i judaizm „usiłowano zamknąć w synagogach”, podczas gdy dla wschodnich Żydów ‒
judaizm pojmowany jako sposób życia obejmował całość egzystencji16.
W innym jeszcze tekście literackim Fischl Schneersohn, w krótkim opowiadaniu Zabłąkany Kozak konfrontuje przybywającego z wołyńskiego sztetla
chasyda z Berlinem, miastem, które początkowo jawi się oczom Awormele jako
cudowna, nadzwyczajna kraina17. Podziwia wspaniałe, potężne domy, ogromne
ulice, ludzi, samochody i tramwaje. Do zdumiewającej sceny dochodzi w trakcie
wizyty w synagodze, dokąd udaje się niczego nie świadom, odświętnie ubrany
bohater. Z podziwem przygląda się wielkiej, kamiennej budowli zwieńczonej
złotą kopułą, która tak inna jest od znanych mu drewnianych synagog wołyńskich. Mimo, iż nie posiada karty wstępu zostaje wpuszczony do środka; kiedy
jednak zaczyna modlić się śpiewając, tak, jak wydaje mu się najbardziej stosownie
– okazuje się nieproszonym gościem, kimś obcym, kto nie zna reguł zachowania w
odmiennej, jak się okazuje nie tylko pod względem architektury, synagodze.
Odmienne doświadczenie alienacji religijnego przybysza ze Wschodu
znajdujemy również w opowiadaniu Dawida Bergelsona, w którym znajdujemy
15
Tamże, ss. 229-230.
Cyt. za: JOACHIM SCHLÖR, dz. cyt., s. 371.
17
FISCHL SCHNEERSON, Der verirrte Kosak, [w:] Unter Emigranten. Jüdische Dichtung und Prosa
aus Berlin, hrsg. Andrej Jendrusch, Edition Dodo, Berlin, 2003, ss. 33-36.
16
131
ALINA MOLISAK
odmienną perspektywę zderzenia różnych światów. Odczuwanie szczególnej obcości przez Ostjuden w Berlinie eksponuje Bergelson w narracji Dawne historie,
gdzie religijny, starszy już bohater, którego sprowadziły do siebie zakorzenione
w nowym życiu dzieci porównuje miasto do biblijnej Niniwy18. W trakcie bezsennej nocy, Mojsche Grejwis uświadamia sobie, że to „wielkie, ale także bardzo
grzeszne miasto, występne i bluźniercze wobec Boga. Podobne jest ono Niniwie,
która za czasów proroka Jonasza wzbudziła boży gniew i którą Najwyższy chciał
zniszczyć tak, jak uczynił to z Sodomą”19. Rozmyślania prowadzą bohatera do
analizowania własnej przeszłości. Gdy wstaje świt nadsłuchuje specyficznie wielkomiejskich odgłosów – tramwajowych dzwonków, ciężkich kroków coraz liczniejszych przechodniów, stukotu pociągów, długich, przypominających o pracy
robotników dźwięków syren fabrycznych. Cały ten zgiełk pełen jest werwy, niemal „młodzieńczej ochoty”, dąży do zrzucenia z siebie lenistwa nocy. Łowiąc
wszelkie sygnały miejskiej codzienności, bohater przypomina sobie, że właśnie w
Niniwie nie było nikogo, kto chciałby odprawić pokutę.
Podobne doświadczenia ‒ choć przedstawione w wersji raczej komicznej
‒ są udziałem jednego z bohaterów wspominanej już powieści Sammy’ego Gro132
nemanna, przybyłego do Berlina ze wschodnioeuropejskiego sztetla20. Z dużą
dozą komizmu opisane zostało spotkanie Jacoba Kaisera i Jossla, który stojąc
blisko synagogi na Oranienburgerstrasse z ciekawością i podziwem przyglądał
się przybywającemu tam, bardzo eleganckiemu towarzystwu. Jossel wypytuje
nowopoznanego studenta, kim są przybysze, ten zaś zaprasza go do wnętrza synagogi, gdzie następnie dochodzi do komedii omyłek. W przepięknych wnętrzach odbywa się ślub, słychać głośną muzykę organową. Jossel najpierw pyta
swego towarzysza o to czy nie należy przypadkiem zdjąć nakrycia głowy, później
zaś, gdy zdaje sobie sprawę, że prowadzący modlitwy przemawia po hebrajsku z
niecierpliwością łapie za ramię Jacoba:
‒ Czy on nie powiedział czegoś po hebrajsku?
‒ Ależ oczywiście, wypowiedział formułę ślubowania!
‒ Po hebrajsku?
‒ A niby jak?
18
DAWID BERGELSON, Alte Geschichten, [w:] Unter Emigranten. Jüdische Dichtung und Prosa
aus Berlin, hrsg. Andrej Jendrusch, Edition Dodo, Berlin 2003, ss. 77-86.
19
Tamże, s. 77.
20
SAMMY GRONEMANN, dz. cyt., ss. 97-100.
ŻYDOWSKA WARSZAWA ‒ ŻYDOWSKI BERLIN W PIERWSZEJ POŁOWIE XX WIEKU
‒ A skąd pop zna hebrajski?
‒ Pop, jaki pop?
‒ No, przecież tylko jeden tu jest, to w Berlinie w kościołach też używa się hebrajskiego?
‒ W jakim kościele? Cóż pan myśli, gdzie pan jest?
‒ A co? gdzie indziej niż w kościele? Jestem w kościele po raz pierwszy. U nas się tam
nie chadza. To nawet dla mnie interesujące21.
Radykalna odmienność rytuału, wnętrza synagogi, wyglądu rabina ‒ wyjątkowo zaskakuje młodego wyznawcę wschodnioeuropejskiego judaizmu. Podejrzewa nawet, iż jest to rodzaj żartu, bo wszak niemożliwe jest taka inność ‒
różne ubrania, obecność muzyki czy słuchanie kazania zamiast ograniczenia się
do czytania Tory są dlań zjawiskami zgoła zdumiewającymi. Poszukująca szans
emancypacji w Berlinie Chana podobnie diagnozuje tę inność: „To dwa różne
światy, które mało ze sobą mają do czynienia”22. Funkcjonowanie owych światów równoległych wzmocnione jest wyodrębnieniem terytorialnym w miejskiej
przestrzeni tej dzielnicy, którą zamieszkują w większości przybysze ze wschodu.
Egzotyzacja wydaje się w spotkaniu religijnych Żydów berlińskich i wschodnioeuropejskich zjawiskiem obustronnym. Wzajemne postrzeganie rodzi najczęściej
zaskoczenie, zdziwienie, czasami tylko zainteresowanie aż tak inną wersją judaizmu.
Sam tytuł zbioru Wandy Melcer, polskiej autorki związanej ze środowiskiem «Wiadomości Literakich» – Czarny ląd ‒ podkreśla dystans oraz radykalną inność żydowskiego społeczeństwa Warszawy. Mimo przestrzennej, terytorialnej bliskości – eksponowane bywa przez autorkę znaczące oddalenie kulturowe tak wyróżnionej grupy mieszkańców Warszawy. Rozróżnia ona trzy grupy
wśród żydowskich obywateli międzywojennej Polski. Największą z nich tworzą
rozmaite odłamy religijnych wyznawców judaizmu, które określa bardzo jednoznacznie – to „ciemna masa ortodoksów żydowskich […] gdzie o lepsze walczy
ciemnota, obłuda i wstecznictwo”23. Kilka zdań poświęca drugiej grupie, jaką są
(wedle niej najmniej liczni) asymilatorzy, ci „Żydzi, którzy uważają się za Polaków i którzy starają się uzgodnić sprzeczne nieraz poglądy w duchu współpracy
narodowej”24. Dostrzega też tych, „którzy z całą świadomością oderwali się od
jakiegokolwiek pnia wyznaniowego czy narodowego i wypłynęli na szerokie wo21
Tamże, s. 99.
Tamże, s. 228.
23
WANDA MELCER, Czarny ląd, Dom książki polskiej, Warszawa 1936, s. 24.
24
Tamże.
22
133
ALINA MOLISAK
dy internacjonalizmu”25. Wskazana w ten sposób ostatnia grupa łączy ‒ w
oczach autorki ‒ tak wyznawców komunizmu jak i wielki biznes oraz międzynarodową finansjerę, co właściwie stanowi wyłącznie potwierdzenie schematycznego i stereotypowego postrzegania żydowskiej ludności Warszawy26. Cykl reportaży Melcer zakłada przybliżenie czytelnikowi polskiemu nie tyle całej, zróżnicowanej wewnętrznie społeczności żydowskiej, co raczej przedstawienie jednej z
nich, tę gdzie najmocniej reprezentowana jest tradycja i obyczaje mieszkańców
diaspory. Krytycznie odnosi się autorka do opisywanych przez siebie zjawisk, surowo ocenia żydowskie szkoły religijne, z uwagą przygląda się statusowi kobiety
w społeczności religijnych Żydów, dostrzega problemy związane z funkcjonowaniem sądów rabinackich, z konsekwencjami wykluczenia ze wspólnoty. Starając
się przybliżyć odbiorcy żydowskich mieszkańców Warszawy wylicza Melcer instytucje ułatwiające istnienie społeczności – szkoły, szpitale, kursy dla nauczycieli, relacjonuje tak działalność gminy jak i aktywność Chewra Kadisza (zajmującego się pogrzebami). Mimo, iż publikacja ma na celu objaśnienie żydowskiej
odmienności zdarza się autorce w dość zdumiewający sposób oceniać zjawiska
kulturowe związane ze wspólnotą judaizmu. O Talmudzie pisze, iż jest to „dzie134
ło zadziwiające”, w którym mamy do czynienia ze specyficznym układem tekstu,
co „przypomina raczej wiersze surrealistów niż tradycyjną księgę narodu”27.
Niemal rasistowsko brzmi ocena, która miała być w intencji reporterki bodaj rodzajem pochwały dotyczącej stosunku społeczności żydowskiej do zjawisk nowoczesności. Melcer pisze o żydowskim „zamiłowaniu współczesności […]
zdolności jej absorbowania i rozwożenia”, które jest „właściwe tylko rasie semickiej” i stanowi „jedno z jej najcenniejszych dóbr”28. Koncentrując swą uwagę
na relacjonowaniu tradycji i religijnego obyczaju, nie dostrzega autorka dość
mocnej już wszak w latach trzydziestych propozycji żydowskiej tożsamości świeckiej. Wylicza co prawda takie zjawiska jak szkoły Tarbutu czy te związane z CI-
25
Tamże.
Bardzo krytyczne i ironiczne omówienie książki Melcer znajdujemy w piśmie «Oko w oko» z lipca 1936 roku. W obszernym tekście zatytułowanym Podróż babci dookoła stołu S.J. Imber wytyka
Melcer nie tylko nieudolność w przedstawianiu żydowskiego świata Warszawy i całkowitą nieznajomość kultury judaizmu, zarzuca jej także właśnie stereotypowe postrzeganie, schematyzm, brak
refleksji i powtarzanie twierdzeń antysemickich (o skutkach obrzezania czy o sprawie uboju rytualnego). Patrz: S.J. IMBER, Podróż babci dookoła stołu, [w:] «Oko w oko», 1, 1936, ss. 4-12.
27
Tamże, ss. 38-41.
28
Tamże, s. 45.
26
ŻYDOWSKA WARSZAWA ‒ ŻYDOWSKI BERLIN W PIERWSZEJ POŁOWIE XX WIEKU
SZO (z wykładowym jidysz)29, – ale nie łączy ich ze zróżnicowaniem i działalnością szerszych organizacji i nurtów społecznych. Umyka jej uwagi – zjawisko takie
jak syjonizm, gdzie najmocniej eksponowano narodziny nowej żydowskiej wspólnoty narodowej. W rezultacie Czarny ląd okazuje się publikacją skoncentrowaną
na jednej tylko wersji żydowskiej tożsamości społecznej, poznanym bardzo powierzchownie przez autorkę kręgu wyznawców ortodoksji. Melcer wprawdzie zaznacza w publikacji, że ma świadomość istnienia wewnętrznego zróżnicowania
środowiska Żydów polskich, ale innym nurtom nie poświęca niemal wcale uwagi.
Bardziej precyzyjny jest w portretowaniu żydowskiej Warszawy Aleksander Döblin, który nie tylko potrafił zrelacjonować zróżnicowanie poglądów politycznych tego środowiska, ale dostrzegał również dwie wersje religijności ‒ tę,
związaną z ortodoksją i dominująca w żydowskiej dzielnicy, jaką były Nalewki i
tę bardziej postępową, którą spotkał wizytując wielką synagogę na Tłomackiem.
Döblin w Podróży po Polsce najpierw odwiedza stolicę, relacjonuje zmiany (zburzenie soboru na placu saskim, inne, już nie-rosyjskie nazwy ulic), opisuje układ
architektoniczny miasta, dostrzega dużą liczbę kościołów, referuje czytelnikom
swoistą syntezę polskich dziejów i odzyskania niepodległości, ówczesne życie polityczne i kulturalne. Osobna część jego relacji została zatytułowana Dzielnica
żydowska w Warszawie, co stanowi nie tyle zabieg autora, ale oddaje oddzielenie
żydowskiego życia w odrębnej dzielnicy od powszechnego funkcjonowania miasta. Przyglądając się mieszkańcom Nalewek Döblin w swej relacji zwraca uwagę
nie tylko na odmienność strojów żydowskich, ale również na ich elementy ściśle
związane z wyznawana religią: „Od czasu do czasu nadlatuje podmuch wiatru;
rozwiewają się wtedy ich długie czarne płaszcze, widać białe rytualne frędzle, cyces”30.
Wiele uwagi poświęca Döblin synagodze na Tłomackiem. Od razu dostrzega odmienność tych, którzy przychodzą tam na modlitwy: „tutaj nieliczni
29
Tarbut – Żydowskie Stowarzyszenie Kulturalno-Oświatowe – było świeckim stowarzyszeniem,
założonym w Polsce w 1922 roku (wcześniej w 1917 roku w Rosji, ale zostało zlikwidowane po
przewrocie). Prowadziło sieć bibliotek oraz przedszkoli, szkół powszechnych i gimnazjów oraz
seminariów nauczycielskich. Głównym celem Tarbutu było promowanie języka hebrajskiego
oraz kultury i oświaty żydowskiej. CISZO (Centrale Jidysze Szulorganizacje) – świecki ruch propagujący język jidysz; powołany w 1908 (zjazd w Czerniowcach); organizacyjna forma powstała
w 1920 roku. CISZO prowadziło żydowskie przedszkola, szkoły, gimnazja. Obie organizacje,
choć ze sobą konkurowały, miały być alternatywą dla szkolnictwa religijnego.
30
ALFRED DÖBLIN, Podróż po Polsce, tłum. A. Wołkowicz, Wydawnictwo Literackie, Kraków
2000, s. 66. Po raz pierwszy zbiór Reise in Polen ukazał się w 1925 roku.
135
ALINA MOLISAK
noszą chałat i jarmułkę, to synagoga stanu średniego, a zarazem tych oświeconych, emacypowanych, zasymilowanych”31, co nie przeszkadza wtrącić ironicznej uwagi ogólnej dotyczącej obecnych w synagodze: „W sumie towarzystwo
niezbyt wytworne, w czasie rozmowy bez żadnego skrępowania dłubie palcem w
nosie”32. Autor opisuje wygląd budowli, podkreśla jej klasycystyczne kształty, ale
dostrzega też coś, dlań, zaskakującego: „I coś dziwnego: po obu stronach wejścia
zbiorniki z kapiącą wodą: wchodzący zanurzają w niej palce: pozostałość rytualnej ablucji, a przy tym jakie to bliskie katolickiej kropielnicy” 33. Dostrzec należy,
iż przybyłemu z Berlina autorowi napotkana w Warszawie wersja reformowanego judaizmu mocno kojarzy się z religia katolicką. Opisując przebieg modlitw
podkreśla wprawdzie oddzielenie kobiet na tzw. babińcu i fakt, iż jest ich „o
wiele mniej niż w kościołach katolickich”, jednak relację o modłach rozpoczyna
zdaniem: „Liturgię celebrują podobnie jak katolicy. To podobieństwo staje się
zdumiewające, kiedy kapłan podnosi zasłonę, wyjmuje srebrny przedmiot, który
dzwoni i pobrzękuje, trzyma go w objęciach jak monstrancję” 34. Sam Döblin
używa również określenia podest zamiast bima oraz ‒ jak widać ‒ nie wie również, iż Torę ozdabiano tzw. koroną Tory, wykonaną najczęściej ze srebra.
136
Warto zwrócić uwagę na jeszcze jeden aspekt tej wersji religijności, którą
obserwował przybysz z Berlina. Dostrzega on nie tylko różne sposoby noszenia
tałesu ‒ „Niektórzy noszą je jak szal, inni ‒ narzucone na ramiona i udrapowane”35 ‒ czy odmienne od znanych mu formy modlitwy: „Przede mną ktoś modli
się bardzo głośno, kołysząc górna połową ciała, mężczyzna w kapeluszu”36 ‒ ale
również inne aspekty wyrażania duchowości żydowskiej. Döblin opisując charakter modlitw podkreśla ich wspólnotowość: „Istnieje tu ścisły kontakt między
duchownymi a gminą. Tamci czytają, a tłum i chór od czasu do czasu hałaśliwe
wpadają im w słowo”37. Oczywiście nie jest to tyle „wpadanie w słowo”, co włączanie się do zbiorowej modlitwy. Wydaje się, iż ów aspekt również wyróżnia
wschodnioeuropejski judaizm, nawet w jego reformowanej formule.
31
Tamże, s. 68.
Tamże, s. 69.
33
Tamże, s. 68.
34
Tamże, s. 69; Sam Döblin pochodził ze zasymilowanej rodziny żydowskiej, ale konwersji na katolicyzm dokonał w roku 1941.
35
Tamże.
36
Tamże.
37
Tamże.
32
ŻYDOWSKA WARSZAWA ‒ ŻYDOWSKI BERLIN W PIERWSZEJ POŁOWIE XX WIEKU
Skrupulatny autor relacjonuje także rozmowy z rozmaitymi żydowskimi
przywódcami czy działaczami politycznymi, których spotkał w Warszawie. Cytując jednego z syjonistów przytacza jego słowa o ówczesnej sekularyzacji życia żydowskiego: „Brak dziś wśród Żydów intensywnego życia religijno-duchowego,
ruchu religijno-duchowego, jak w czasach rozwoju chasydyzmu”38. Zwraca to
uwagę na coraz bardziej popularne kształtowanie żydowskiej tożsamości świeckiej w różnych jej odmianach: „Szabatu przestrzega się surowo tylko na żydowskich ulicach. Chałat i kapota o niczym jeszcze nie świadczą. Zdarzają się komuniści w chałatach”39. Ma zatem autor poznający polskich Żydów (jak i odbiorca
tekstu) szanse, by uświadomić sobie duże zróżnicowanie wewnętrzne społeczności żydowskiej zamieszkującej Warszawę. Dowodami przeobrażania mentalności
są również szkoły, nowoczesne, świeckie, jak odwiedzana przez Döblina szkoła z
wykładowym jidysz, w której dostrzega on dowód na „samodzielną emancypację
mas robotniczych narodu żydowskiego”40.
Starając się przedstawić całe spektrum odmian żydowskiej religijności
odwiedza autor także należący do gminy syjonistycznej szul oraz sztybł chasydów41. W trakcie pobytu w szulu (gdzie też kobiety zostają oddzielone na osobnej galerii) dostrzega akcent polityczny w wystroju wnętrza; „Przy wejściu wiszą
plakaty pewnego palestyńskiego rabina i jego portret”42, wysłuchuje śpiewu tradycyjnie ubranego kantora, o mocnym i potężnym głosie oraz tych, którzy, zarzuciwszy tałesy na głowę towarzyszą żarliwie modlitwom. Co wyróżnia tę społeczność, to niejako podwójna wspólnota ‒ z jednej strony religijna, z drugiej zaś
‒ polityczna: „ kiedy już jest po wszystkim [po modłach] i ludzie się rozchodzą,
ktoś intonuje pieśń. Podejmują ją starzy i młodzi, mężczyźni i kobiety: to dumna,
pełna nadziei Hatikwa, syjonistyczny hymn”43. Odwiedziny w sztyblu u zwolenników wielkiego chasyda z Góry Kalwarii, którzy „modlą się całą noc”, przyno-
38
Tamże, s. 72.
Tamże, s. 73.
40
Tamże, s. 74.
41
Szul (jid.) – określenie tradycyjnie oznaczające dom modlitwy, bóżnicę, synagogę. Sztybel
(sztibl) – określenie, które używane było na oznaczenie chasydzkich synagog czy domów modlitwy.
42
ALFRED DÖBLIN, dz. cyt., s. 82.
43
Tamże, s. 83. Autorem słów jest pochodzący z Galicji Naftali H. Imber, tekst został opublikowany w roku 1886. Później stał się hymnem ruchu syjonistycznego, zaś w 1897 w Bazylei na I
Kongresie Syjonistycznym przyjęto Hatikwę za hymn światowej Organizacji Syjonistycznej.
Hatikwa jest hymnem państwowym Izraela.
39
137
ALINA MOLISAK
szą całkiem jeszcze inne wrażenia. Autor relacji najpierw słyszy „przeraźliwe
śpiewy-nie-śpiewy”, później zaś uderza go „chaos krzyków”, hałas, szum. Sam
czuje się dość niezręcznie w swoim „zachodnim” ubraniu, gdyż wszyscy obecni
„noszą jarmułki i chałaty”44. Co uderza wizytujących to bardzo wielka powaga i
jednoczesne podniecenie, współobecność „surowych starców” i małych chłopców, wszystkich bardzo skoncentrowanych na czytaniu świętych tekstów: „Mężczyźni czytają ten sam fragment, ale każdy robi to dla siebie, każdy jest dla siebie
kapłanem”45. Bardzo odmienne wydaje się Döblinowi ich zachowanie: „Tutejsi
wierni osobliwie ostro i wytrwale się kołyszą”, czemu towarzyszy „ekstatyczny
rozgardiasz”46. Autor wysłuchuje także innego niż wcześniejsze ‒ wyróżniającego
się chasydzkiego śpiewu, radosnego, żywego, wyjątkowego.
Warto pamiętać, iż spojrzenie na żydowską Warszawę tak w przypadku
Melcer jak i Döblina – to spojrzenie z zewnątrz: oboje są wszak tymi, którzy patrzą na żydowską społeczność z pozycji przybysza.
W przypadku Döblina ta pozycja zewnętrznego obserwatora to jednak
status faktyczny, przyjechał wszak odbyć podróż po Polsce, w przypadku Melcer, mieszkającej na stałe w polskiej stolicy, ‒ perspektywa przybysza tym bar138
dziej uświadamia nam jak bardzo nieznani polskiej społeczności byli żydowscy
mieszkańcy stołecznego miasta. W przeciwieństwie do nie odróżniającej odmian
żydowskiej religijności autorki reportaży z Czarnego lądu, mimo, iż podobnie jak
ona jest wśród warszawskich Żydów przybyszem z zewnątrz, potrafi Döblin pokazać wewnętrzne zróżnicowanie religijności, jego rozmaite oblicza obecne w
miejskich przestrzeniach Warszawy.
Co chyba bardzo też interesujące ‒ właśnie niemiecki twórca zwraca
uwagę nie tylko na swoistość czy egzotyczność wschodnioeuropejskiego judaizmu, ale również na jego siłę duchową. Sam przed sobą przyznaje, że gdy odwiedza żydowską dzielnicę w dniu Święta Szałasów, wśród tych, którzy „Tkwią
od rana do wieczora w todze metafizyki, związani z ponadświatowym Bogiem”
dostrzega wyjątkową moc spajającą naród żydowski47. Pełen „respektu” i „zdumienia” dostrzega, iż Żydzi stanowią nie tylko wspólnotę kulturową, ale ‒
44
ALFRED DÖBLIN, dz. cyt., ss. 83-84.
Tamże, s. 85.
46
Tamże.
47
Tamże, s. 87.
45
ŻYDOWSKA WARSZAWA ‒ ŻYDOWSKI BERLIN W PIERWSZEJ POŁOWIE XX WIEKU
zwłaszcza w wersjach judaizmu, jakie zobaczył w trackie pobytu w Warszawie ‒
ci, którzy są wyjątkowo skoncentrowani na życiu duchowym ciągle pozostają
wierni swej, tak ściśle z religią związanej, tożsamości, niezmiennej od wieków,
mimo rozproszenia i doznawanych prześladowań.
139
GIULIA RANDONE
Le mani di Jacek Woszczerowicz, attore “di composizione”
«pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», (VI) 6, 2015, pp. 141-154
ABSTRACT
The article aims to draw attention back to the art of Jacek Woszczerowicz, once a
well-known and beloved Polish actor. It focuses on his peculiar acting style by analyzing two
adaptations of stage dramas and a documentary of a theatrical masterpiece Richard III (1960). In
particular, the author highlights Woszczerowicz’s work on gesture and the role played by hands in
building characters. This brief survey will lead us to re-discover the deep process of cognition and
experience realized dramatically by the artist and to understand why Jan Kott considered him
“the first contemporary Shakespeare”, while Jerzy Grotowski praised him as the greatest “actor of
composition”.
KEYWORDS
Jacek Woszczerowicz, acting, gesture, Jerzy Grotowski, Jan Kott
141
[...] il teatro comincerà a diventare qualcosa di
grande quando l’attore doterà il materiale divino
che gli è stato dato di una nuova forma, che la
natura non ha donato all’uomo e che solo l’attore
può creare in sé, cesellare e mostrare1.
A
utunno 1958. Il Club Krzywe Koło di Varsavia ospita le prove aperte del
Riccardo III al quale Jacek Woszczerowicz sta lavorando insieme a un
gruppo di giovani attori. Tra il pubblico che assiste allo spettacolo, an-
cora in progress, anche il critico teatrale Jan Kott, che così commenta:
L’illuminazione era normale, nessun accessorio. Woszczerowicz si tolse la giacca: indossava un grosso maglione nero a collo alto. Si rimboccò la mano sinistra, scoprendo il
moncherino. All’indice della mano destra portava un grosso anello. Nient’altro. [...] Il
golf nero che gli copriva parte del mento assomigliava a una corazza. Ma c’è forse biso1
VSEVOLOD E. MEJERCHOL’D, Les gloses du Docteur Dapertutto en réponse à La négation du
théâtre de Iouri Aïkhenwald, in «Ljubov’k trëm apel’sinam», 4-5, 1914, cit. in BÉATRICE PICON-VALLIN, L’attore mejercholdiano, in «Teatro e Storia», XIII-XIV, 1998-1999, p. 63.
GIULIA RANDONE
gno di una corazza per assassinare? Uno Shakespeare così non l’avevo mai visto. Così
denso. Da quel giorno ho aspettato di vedere Woszczerowicz nel Riccardo III2.
L’attesa è premiata due anni più tardi, quando al Teatr Ateneum debutta
il Riccardo III diretto e interpretato da Jacek Woszczerowicz. Una creazione
d’attore, che Kott giudica “geniale”, dà vita al “primo Shakespeare autenticamente polacco […] e finalmente contemporaneo”3: grazie all’interpretazione rivoluzionaria di Woszczerowicz, infatti, il critico “vede per la prima volta Shakespeare sulla scena”4 e la forza di questa epifania teatrale gli suggerisce una
lettura dei meccanismi e delle crudeltà del secolo XX che troverà spazio in un
libro di grandissimo successo, Shakespeare nostro contemporaneo.
Autunno 1970. Alla notizia della morte di Jacek Woszczerowicz, Jerzy
Grotowski dichiara: “È morto l’ultimo attore di professione”5. Un’affermazione
lapidaria che Grotowski approfondirà vent’anni più tardi, quando a più riprese
tornerà a parlare con ammirazione del “grande attore polacco”6.
Ma chi è questo artista che si è guadagnato la stima di uomini di teatro del
calibro di Kott e Grotowski e l’affetto di generazioni di spettatori teatrali, cine142
matografici e televisivi?
Nato nel 1904 a Siedlce, all’età di vent’anni Jacek Woszczerowicz inizia il
suo apprendistato teatrale presso il laboratorio Reduta di Juliusz Osterwa e
Mieczysław Limanowski, maestri che nel 1927 decide di abbandonare per lavorare al fianco del regista Edmund Wierciński. Nei teatri di Poznań, Łódź, Varsavia e Leopoli, il giovane Woszczerowicz si misura con un’imponente galleria di
ruoli di secondo piano, applauditi a scena aperta dal pubblico ma accolti dalla
critica in maniera discorde: se c’è chi infatti ne ammira il talento trasformista, altri
2
JAN KOTT, Shakespeare nostro contemporaneo, trad. it. Vera Petrelli, Feltrinelli, Milano 2006, p.
53 (ed. orig. Szkice o Szekspirze, PWN, Warszawa 1961, tradotta l’anno successivo in lingua
francese con il titolo Shakespeare notre contemporain, trad. fr. Anna Posner, Julliard, Paris 1962).
3
IVI, p. 132.
4
JAN KOTT (in conversation with Allen J. Kuharski), Raised and Written in Contradictions: the
Final Interview, in «New Theatre Quarterly», 18, 2 maggio 2002, p. 108.
5
GRAŻYNA KOMPEL, Jacek Woszczerowicz: geniusz? błazen? mag?, Biblioteka «Tygla Kultury»,
Łódź 2003, p. 166.
6
Grotowski ricordò Woszczerowicz nelle lezioni del 2 giugno e del 20 ottobre 1997, preparate
per il Collège de France nell’ambito del ciclo La «ligne organique» au théâtre et dans le rituel, ma
aveva parlato diffusamente dell’attore alcuni anni prima (14 luglio 1991) in occasione di un dialogo con Anatolij Vasil’ev e Ferdinando Taviani. Cfr. ANATOLIJ VASIL’EV, Cronaca del Quattordici (1999), in Opere e sentieri III: Testimonianze e riflessioni sull’arte come veicolo, a cura di
Antonio Attisani e Mario Biagini, Bulzoni, Roma 2008, pp. 75-96.
LE MANI DI JACEK WOSZCZEROWICZ, ATTORE “DI COMPOSIZIONE”
sono infastiditi dalla sua tendenza a costruire con pedanteria l’aspetto esteriore
del personaggio, soprattutto attraverso gesti marcati e imprevedibili modulazioni
della voce. A partire dagli anni Trenta l’attore intreccia la propria ricerca artistica
con quella di protagonisti di rilievo della scena teatrale quali Leon Schiller, Stefan
Jaracz e Bohdan Korzeniewski. Il contratto con i più importanti teatri di Varsavia,
il Polski e il Mały diretti da Arnold Szyfman, le prime interviste e l’avvio della
collaborazione con la radio e il cinema testimoniano la crescente popolarità
dell’artista.
È però negli anni successivi alla catastrofe bellica che Woszczerowicz
porta a maturazione una vocazione del tutto originale, dalla matrice antinaturalistica e anti-convenzionale. La sua poetica, tuttavia, viene spesso fraintesa
dalla critica, che preferisce etichettarlo come attore caratterista e considera le
creazioni di Riccardo III o del kafkiano Josef K. (Il processo, 1958) pregevoli ma
sporadiche deviazioni da uno stile attoriale che resta manierato per alcuni, piattamente naturalista per altri. Proprio a causa di tali definizioni riduttive – tra le
più persistenti quelle di comico caratterista, attore realista e cabotin – con il
passare del tempo l’opera di Woszczerowicz è stata adulterata, ridimensionata e,
infine, del tutto dimenticata.
In anni recenti ha visto però la luce un contributo determinante per la
riscoperta del suo operato. La monografia di Grażyna Kompel Jacek Woszczerowicz: geniusz? błazen? mag?, pubblicata nel 2003 e frutto di anni di appassionata
ricerca, costituisce la fonte privilegiata a cui attingere per un primo inquadramento della vicenda biografica e professionale dell’artista. Chi poi volesse approfondire ulteriormente la conoscenza di Woszczerowicz, non avrebbe difficoltà
a reperire documenti televisivi, cinematografici e più rari frammenti teatrali7 che
testimoniano il lavoro di questo “onesto artigiano”8. Nonostante il linguaggio di
tali filmati risulti nel complesso datato, le creazioni woszczerowiczane mostrano
di essere riuscite ad affrancarsi dai condizionamenti dell’epoca e i suoi personaggi
7
La maggior parte dei documenti audiovisivi è reperibile presso gli archivi della Televisione
Polacca o dell’Istituto Teatrale di Varsavia. Su YouTube si trovano però molti dei film a cui
Woszczerowicz ha preso parte prima della guerra: Jego wielka miłość (Il suo grande amore, 1935)
di Anatol e Alicja Stern; Znachor (Il guaritore, 1937), Profesor Wilczur (Il professor Wilczur, 1938)
e Rena. Sprawa 777 (Rena. Causa 777, 1938) diretti da Michał Waszyński; Strachy (Spettri, 1938)
di Maria Ukniewska e Kłamstwo Krystyny (La bugia di Krystyna, 1939), per la regia di Henryk
Szaro.
8
GRAŻYNA KOMPEL, op. cit., p. 22.
143
GIULIA RANDONE
si stagliano ancora oggi con vigore sullo sfondo di regie o scenografie stilisticamente sorpassate.
Questi supporti audiovisivi sono preziosi perché ci consegnano una traccia del peculiare percorso conoscitivo condotto da Woszczerowicz per tutta la
vita. Attraverso se stesso e i propri personaggi, l’attore sviluppa infatti un itinerario gnoseologico volto a indagare le smagliature dell’essere umano. Non si tratta
di scimmiottare i propri simili e le loro imperfezioni, ma di prospettare una rivoluzione di sé che sfidi l’assetto organico fornito all’uomo dalla natura e porti
l’individuo a disfarsi del corpo quotidiano per “scolpire un corpo meraviglioso”9.
Di bassa statura, minuto ma sproporzionato a causa della testa imponente e
dell’eccessiva lunghezza delle braccia, Woszczerowicz va instancabilmente in
cerca di strumenti per conoscere a fondo e rimodellare il proprio corpo, definendo il lavoro su di sé proprio a partire dalle insufficienze che anche i suoi primi
maestri avevano stigmatizzato.
Nell’approccio al ruolo, Woszczerowicz si impegna in un’accurata costruzione dell’esteriorità del personaggio, dalla postura alla gesticolazione,
dall’aspetto del volto alla modulazione della voce. Perché tale costruzione risulti
144
efficace, l’attore scompone il proprio corpo e lavora di cesello sui singoli elementi
per proporne poi una personale ricomposizione.
Per capire in che modo “l’ultimo attore di professione” crei e componga
l’azione sulla scena, può essere utile osservare i filmati concentrandosi su un dettaglio del suo corpo al lavoro. Le mani ad esempio, ritratte in frequenti inquadrature e piani strettissimi, costituiscono uno dei fulcri espressivi della sua recitazione.
Prendiamo il caso di Dożywocie (Il vitalizio, 1968), adattamento per il Teatro della
Televisione della celebre commedia di Aleksander Fredro, che tuttora è possibile
incrociare nei palinsesti televisivi. Woszczerowicz, che del film è anche il regista,
riveste i panni dell’avido Łatka, un personaggio che si precisa proprio grazie a una
coreografia gestuale esuberante e solo in apparenza naturalistica. Nella sezione
centrale dell’opera, in cui Łatka fa una proposta di fidanzamento a Rózia (Barbara
Sołtysik) e tenta di convincere l’usuraio Twardosz (Kazimierz Rudzki) ad acquistare il vitalizio, le mani dell’attore sono innervate da un’energia e da una fitta
partitura di dettagli che si intrecciano con efficacia al flusso del testo recitato.
9
VSEVOLOD E. MEJERCHOL’D, op. cit., p. 63.
LE MANI DI JACEK WOSZCZEROWICZ, ATTORE “DI COMPOSIZIONE”
Analizziamo due sequenze.
Nella prima Łatka e Rózia siedono vicini su un divano: le mani del vecchio
frugano nervosamente la giacca in cerca dell’anello, estraggono dalla tasca dei
calzoni un involto e iniziano ad aprirlo lentamente; lacerano il primo strato, poi,
inumidite di saliva, il successivo, infine strappano la carta rimasta e porgono alla
fanciulla il gioiello (fig. 1). La scena si svolge nel più assoluto silenzio, tratto assai
raro per una commedia brillante, ed è segnata dall’indugiare della macchina da
presa sulla mano dell’uomo e sulle dita della ragazza, esitanti eppure visibilmente
attratte dall’oggetto.
Fig. 1
145
Nella seconda sequenza Rózia esce di scena e Woszczerowicz, rimasto
solo, si abbandona a riflessioni a voce alta. Ben presto però le mani ridiventano
protagoniste indiscusse dell’azione: corrono a rovistare nuovamente nei calzoni e
questa volta ne tirano fuori un rosario. All’arrivo di Twardosz ha inizio un confronto magistrale in cui l’attore Kazimierz Rudzki – allampanato, dai movimenti
minimi, il volto lungo dall’espressione immutabile – è assediato dal dinamismo
del collega. I movimenti frenetici e rapaci di Łatka/Woszczerowicz contrastano
con l’immobilità di Twardosz/Rudzki: nell’arco di pochi minuti le mani voraci di
Łatka palpano l’interlocutore, lo afferrano per il cappotto, lo fanno sedere, gli
tolgono il cilindro, lo incalzano molto più delle parole, ritraendo le fasi della
contrattazione in una danza aerea che si accorda al ritmo delle battute (fig. 2).
GIULIA RANDONE
Fig. 2
In Martwa królowa (La regina morta, 1967), trasposizione televisiva del
dramma di Henry de Montherlant andato in scena al Teatr Ateneum nel 1964,
assistiamo a un trattamento del gesto a prima vista differente. Lo squilibrio tra il
ridotto movimento scenico degli interpreti e la sovrabbondanza delle battute
penalizza l’ensemble ma è sfruttato con sapienza da Woszczerowicz. Si ha
l’impressione che l’attore, un sovrano dalla cui staticità emana una forza misteriosa, riduca al massimo i propri movimenti per affidare azioni e reazioni a canali
differenti: al flusso continuo e innaturale della voce e al suo dialogo con le mani.
L’attore si serve di queste ultime per accentuare i momenti più drammatici ed
146
elaborare una gestualità trattenuta e all’apparenza più artificiosa di quella studiata per il personaggio di Łatka.
Tali differenze sono in realtà varianti di un medesimo approccio al gesto,
che coniuga strutture formali e impulsi organici 10 . Tutte le creazioni di
Woszczerowicz incarnano infatti una precisa dialettica tra forma esteriore e
processo interiore del personaggio (e dell’attore) anche quando, come in Martwa
królowa, l’equilibrio appare sbilanciato a favore di un apparato di segni particolarmente ricco.
10
Ludwik Flaszen, sodale di Grotowski, ricorda che Woszczerowicz “lavorava cercando gesti che
potessero funzionare simultaneamente a diversi livelli. Per esempio l’eroe mostra le sue preoccupazioni disponendo le mani a forma di croce. È una reazione organica al sentimento della paura
ma è anche il segno della croce. Si trattava, allora, di un gesto di demarcazione che univa
l’organico e il simbolico. Non si tratta di qualcosa di puramente calcolato. Nei suoi ultimi lavori
cercava le reazioni fisiologiche più semplici, per esempio lo sbadiglio di un gatto, una specie di
ruggito animalesco di pancia, cose a cui lui si allenava e che poteva utilizzare quando era necessario. A parte questo, più avanti nel tempo, costruiva una struttura (artificiale) che creava una
tensione tra il fisiologico e l’artificiale. E a un certo punto ciò si connetteva con il simbolismo.
Faceva un lavoro magnifico. Noi lo abbiamo conosciuto quando era anziano; ci era molto vicino”.
Conversations with Ludwik Flaszen, a cura di Eric Forsythe, in «Educational Theatre Journal»,
XXX, 3, ottobre 1978, pp. 314-315.
LE MANI DI JACEK WOSZCZEROWICZ, ATTORE “DI COMPOSIZIONE”
Nell’intraprendere l’ultimo dialogo con Donna Ines (Aleksandra Śląska),
re Ferrante è combattuto tra il desiderio di uccidere la donna, poiché solo con la
sua morte il figlio potrà contrarre un nuovo matrimonio politicamente vantaggioso, e la volontà di non macchiarsi dell’omicidio di un’innocente. In un momento di intimità si confida con la donna: “Tutto ciò che ho fatto giace tra le
macerie. Muoio e mi sembra che tutto sia ancora da realizzare e di trovarmi nello
stesso punto in cui ero a vent’anni. Le mie mani sono vuote, tutto da esse è caduto”. Nel pronunciare quest’ultima battuta l’attore porta le mani al volto, le dita
aperte lasciano filtrare una sabbia immaginaria, poi si muovono a cercare i fori di
un flauto (fig. 3), un passatempo che il re aveva coltivato in gioventù. Le mani si
chiudono poi sul petto dell’uomo, che china la testa frapponendo tra sé e la
donna la mano destra in posizione orizzontale, mantenendo le dita leggermente
separate (fig. 4): dopo qualche secondo di sospensione il gesto viene reso esplicito
dalle parole di Ferrante, che ammette di provare piacere nel confessarsi di fronte
alle donne.
147
Fig. 3
Fig. 4
Poi le braccia si distendono, facendo scomparire le simboliche grate del
confessionale, e Ferrante rivela attraverso una metafora tattile il proprio stato
d’animo: la sensazione che nulla di ciò che appartiene al mondo lo “tocchi” è
conseguenza di una vita trascorsa “toccando” a malapena il mondo. Il re prosegue il flusso di coscienza, dapprima avvicinando le mani con lentezza al collo
della donna, in ginocchio ai suoi piedi, e poi allontanandole. Quando Donna Ines
annuncia di aspettare un figlio dal principe, la mano del sovrano si avvicina al
volto di lei, come se desiderasse sfiorarlo con una carezza. Poi, repentinamente,
GIULIA RANDONE
compie un movimento rotatorio e si chiude a pugno, quasi a volere strappare il
feto dal grembo della nuora. E proprio con questo gesto, il re decreta la condanna
a morte della donna.
Più tardi, quando l’assassinio è ormai compiuto, Ferrante chiama a sé i
cortigiani e finge di venire colpito dalla spada di Dio; nel momento in cui tutti
credono che sia in procinto di morire, si riprende e dichiara di volere smettere di
fingere. Ribadisce che presto, comunque, morirà e implora Dio di sciogliere le
contraddizioni in cui è aggrovigliato e di mostrargli, prima della fine, che uomo in
effetti egli sia. In quel preciso istante gli occhi si rovesciano all’indietro, il capo
vacilla e il re crolla sul pavimento. Il corpo ormai inerme è scosso da un ultimo
fremito, il braccio destro si leva al cielo e la mano si contorce fino a formare un
tremendo artiglio. Questo gesto conclusivo di Woszczerowicz segnala l’apogeo
della tragedia ben prima della chiusura ufficiale dello spettacolo, affidata
all’immagine della mano senza vita di Ines, poggiata sulla corona che qualcuno le
ha deposto in grembo.
Per la sua potenza espressiva la mano del sovrano moribondo ricorda
l’arto deforme che sette anni prima Jacek Woszczerowicz aveva creato per Ric148
cardo III, raffigurando il personaggio come un crudele tiranno-buffone, un
omicida meschino e terrificante. L’importanza di questo dettaglio fisico, che si era
impresso indelebilmente nella memoria di chi aveva assistito allo spettacolo, è
confermata da un racconto di Jan Kulczyński, all’epoca giovane aspirante regista.
Una sera del 1956, mentre camminavano insieme verso la fermata dell’autobus,
Woszczerowicz aveva afferrato Kulczyński per il gomito e gli aveva chiesto:
“Vuole curare la regia di Riccardo III? Perché io ho un’idea”.
Ero allibito. Jacek Woszczerowicz, [...] uno dei più grandi attori polacchi, chiedeva [...] a
me, uno sbarbatello, se volevo fare la regia di Riccardo III [...]. Come il più stupido sulla
faccia della terra, al posto di baciargli l’orlo della veste, ossia l’orlo dei calzoni, gli ho
chiesto: “Quale idea”?
In quel momento Woszczerowicz ha tirato su la manica sinistra, ha atteggiato la mano a
un artiglio incredibilmente incurvato, simile all’uncino di un pirata, e ha risposto:
“Un’idea del genere”.
Mi sono fermato e l’ho fissato a bocca aperta, rapito da quell’avambraccio legnoso che
Woszczerowicz muoveva come una protesi inerte, aiutandosi con il braccio destro. Ha
sollevato in alto il moncherino e ha cominciato a parlare. Nella sua voce bassa, lievemente
nasale, risuonava il torto incolpevole dello storpio, colmo di odio, pronto a sbudellare le
LE MANI DI JACEK WOSZCZEROWICZ, ATTORE “DI COMPOSIZIONE”
donnacce che lo avevano conciato in quel modo. Trattenendo un singhiozzo, ha pronunciato dapprima il nome della regina Elisabetta e poi è passato alle rime gridando in
modo che si diffondesse per tutta la piazza:
“...insieme a quella puttana, sgualdrina, Shore, così diabolicamente mi hanno marchiato”.
Alla parola “Shore” ha prolungato il suono oooo, dopodiché con la mano destra ha tirato
verso il basso l’avambraccio sinistro, l’ha ricoperto con la manica e ha domandato con
l’espressione innocente di un angelo: “E allora? Vuole curare la regia di qualcosa del
genere”?11
Lo spettacolo teatrale che consacra la fama di Woszczerowicz nasce,
dunque, da un particolare fisico, dal torcersi violento e magnetico di una mano. È
l’attore stesso a illustrare le fasi della trasformazione in un filmato muto che lo
ritrae mentre esce dal camerino nei panni di Riccardo III. In testa indossa la corona, una spessa corazza appesantisce i suoi movimenti. Sale faticosamente le
scale che portano al palcoscenico e qui si ferma per qualche secondo a mostrare
alla macchina da presa i movimenti con cui crea l’arto deforme: mentre il pollice
scompare nel palmo della mano le altre dita si incurvano lentamente contraendosi
in un artiglio (fig. 5).
149
Fig. 5
Un artificio semplice e di effetto, che potrebbe però sollevare un dubbio:
si tratta di un gesto puramente esteriore o di una risposta viva del corpo? Siamo
testimoni di una banale trovata scenica o dell’esito di un laborioso processo
creativo?
Una risposta a questi interrogativi si trova in un appunto trascritto da
Woszczerowicz su un quaderno intitolato Materiali per “cosa vuol dire essere attore”:
11
JAN KULCZYŃSKI, Co ma reżyser w środku, PIW, Warszawa 2011, pp. 163-164.
GIULIA RANDONE
Si dà il caso che io abbia requisiti insoliti per interpretare il Riccardo III di Shakespeare.
Non ho le qualità adatte ad altri suoi noti personaggi, anche se la mancanza di qualità per
interpretare altri personaggi shakespeariani non determina di per sé che si abbiano i
requisiti per Riccardo III.
a) La mano rattrappita [lett.: secca] (la sinistra). Quando mi è venuto in mente di esporre
la mano sinistra rattrappita alla maniera che si vede nello spettacolo, non ho voluto
controllare con i medici, e non ho controllato se la mia idea concordasse con le loro perizie. Consideravo l’idea talmente efficace sotto il profilo artistico da desiderare di conservarla anche qualora non si fosse rivelata veritiera da un punto di vista clinico.
b) Questo accento è estremamente importante, non solo dal punto di vista plastico. Nel
corso delle azioni di Riccardo III, quelle proposte dall’autore e quelle proposte da me,
estrarre questo campione necrotico rende dinamici, in modo straordinariamente incisivo,
tutti gli altri elementi del ruolo e... dello spettacolo.
c) La scelta del modo in cui questa mano debba rattrappirsi [lett.: essiccarsi], di che
aspetto debba avere questo moncherino, è importante. Racconta K. Brandys: “Ognuno
ha una mano rattrappita [lett.: secca] che vorrebbe utilizzare come se fosse sana”. Questo
significato metaforico del “moncherino”. Il moncherino: la mano morta cattura
l’attenzione anzitutto come elemento visivo all’interno della composizione del ruolo. Ma
non è tutto: questa immobilità, questa morte quando tutto si muove, vive, si consuma,
passa, ma anche grida, invoca, cigola, fa risuonare Baird, solo questo moncherino è
inerte, e morto, “silente”. Accentua il suono, il tempo e il ritmo del suono. È un elemento
150
ritmico: tace. C’è addirittura un momento di sincronizzazione di due fortissimo: della
voce alta e della mano morta, sollevata con l’aiuto della destra. La voce e la mano, entrambe gridano, non solo in senso metaforico 12.
Jacek Woszczerowicz di certo non pensava di pubblicare queste annotazioni, né di proporsi come maestro di teatro (ha accettato di insegnare sporadicamente su invito, ma non ha mai aspirato a tale ruolo). Si tratta, dunque, di un
“foglietto illustrativo” a uso del tutto personale, che riassume in maniera schematica il significato di quello che a prima vista poteva sembrare un puro espediente scenico. Scopriamo così che la costruzione del moncherino non obbedisce
a una poetica di stampo naturalistico ma abbraccia un significato metaforico, e
soprattutto che questa mano – che si segnala anzitutto come elemento visivo –
racchiude una qualità ritmica fondamentale e duplice: con la sua immobilità e il
suo silenzio evidenzia il frenetico tempo-ritmo della scena, ma è anche in grado di
conformarsi a esso, e di “gridare”.
12
JACEK WOSZCZEROWICZ, Zapiski o Ryszardzie, a cura di Wojciech Darda-Ledzion, in «Teatr»,
7/8, 1997, p. 112.
LE MANI DI JACEK WOSZCZEROWICZ, ATTORE “DI COMPOSIZIONE”
Studiando i quaderni di lavoro dell’attore possiamo allora prendere le
distanze dal giudizio del critico Jan Paweł Gawlik, che descriveva l’interpretazione di Woszczerowicz con queste parole:
Riccardo III ci ha affascinato. No, è stato Woszczerowicz ad affascinarci. Ci ha affascinato con la tecnica, con la maestria, con la leggerezza della trasformazione. Eppure si
nascondeva in quel personaggio un rischio non indifferente [...]. Il rischio della perfezione. La tentazione del virtuosismo. [...] Riccardo III è un invalido, ha una mano paralizzata, rattrappita. Ho fissato lo sguardo su questo moncherino deforme, senza vita, ero
affascinato in maniera ossessiva, non sapevo se fosse una mano vera o finta, tanto incredibile era quella deformazione, a tal punto era autentica quella patologia. È poi venuto
fuori che si trattava della mano viva dell’attore, abilmente “costruita” attraverso il gesto e
il movimento delle dita. La destrezza tecnica ha oscurato la funzione drammatica del
progetto, l’equilibrio tra espressione e contenuto si è incrinato. [...] In tutta la sua
grandezza [Riccardo III] sembrava, a tratti, pericolosamente vuoto: le virtù della tecnica
prevalevano sulla verosimiglianza psicologica13.
A Gawlik dobbiamo riconoscere il merito di essere stato, nel 1960, il
primo a tentare uno studio approfondito del lavoro di Woszczerowicz e di avere
rilevato in più di un’occasione l’autonomia recitativa delle mani e il loro essenziale contributo nel costruire il personaggio. Il suo giudizio su Riccardo III ci
sembra tuttavia frutto di un fraintendimento. Il critico loda le grandi doti trasformistiche di Woszczerowicz ma lo accusa di avere ceduto a un virtuosismo di
maniera: la perfetta padronanza tecnica lo avrebbe condotto a offuscare la verosimiglianza psicologica e a incentrare su un gesto tutto lo spettacolo. L’obiettivo
ultimo di tale operazione sarebbe stato quello di sorprendere lo spettatore e
piegarlo all’ammirazione di sé.
Se Gawlik avesse ragione, l’interpretazione di Woszczerowicz si ridurrebbe all’esibizione narcisistica del proprio virtuosismo ed egli cadrebbe in pieno
nella trappola individuata da Jerzy Grotowski, che metteva in guardia dalla degenerazione degli esercizi gestuali in prodotto estetico:
Esiste una nozione sbagliata dei gesti: i gesti sono movimenti espressivi della mano. È
sbagliato dire che ci sono movimenti che sono, di per sé, espressivi. Se la reazione ha
inizio nella mano e non all’interno del mio corpo è, in effetti, un “gesto”, ed è falsa. Ci
sono attori che lo fanno. Se è una reazione viva, comincia sempre all’interno del corpo e
13
JAN PAWEŁ GAWLIK, Twarze teatru, Ossolineum, Wrocław 1963, pp. 176-178.
151
GIULIA RANDONE
termina nelle mani. Credo che in tutti i problemi degli esercizi il malinteso derivi
dall’errore iniziale: che sviluppare le diverse parti del corpo libererà l’attore, libererà la
sua espressione. Non è vero. Non dovreste allenarvi, né in modo ginnico né in modo
acrobatico, né con la danza né con i gesti. Invece, lavorando separatamente dalle prove,
dovreste mettere a confronto l’attore con il seme della creatività 14.
Grotowski chiarisce come la preparazione dell’attore, scissa da impulsi
vivi, diventi una sorta di ginnastica che non libera il corpo, all’opposto lo “imprigiona [...] in un certo numero di movimenti e reazioni perfezionati”15. Alla fine
degli anni Sessanta, forse presagendo l’utilizzo manualistico sollecitato, suo
malgrado, dal libro Per un teatro povero, il fondatore del Teatr Laboratorium
sottolinea con fermezza che la sola pratica dell’allenamento non conduce l’attore
alla creatività e si dichiara sfavorevole a ogni esercizio che nasca dalla pretesa di
rendere più espressiva una parte del corpo.
L’allenamento cui si sottopone Jacek Woszczerowicz non è però orientato
all’ipertrofia espressiva né tantomeno all’efficienza muscolare dell’atleta, bensì
mira a esplorare i sottili processi organici che connettono il corpo e il suono, il
152
gesto e il ritmo.
In Woszczerowicz la gestualità della mano, qui brevemente ripercorsa,
presiede alla ricerca di quella “mimica della parola” 16 che l’essere umano ha
progressivamente perduto e che “traduce con esattezza una condizione antica
dell’uomo, la memoria dei suoi sforzi per inventare un modo inedito”17. I personaggi da lui interpretati sono il riflesso di questa auto-creazione dell’uomo e del
suo linguaggio, al quale “i gesti della mano diedero slancio, contribuendo ad articolarlo, a distinguerne gli elementi, a isolarli nell’ambito di un ampio sincretismo sonoro, a dare ritmo al discorso e a colorirlo di inflessioni sottili”18. La posta
in gioco è alta: attraverso la mano l’attore indaga la possibilità di creare forme, si
muove alla ricerca dell’autentico gesto creativo che, come evidenzia Henri Fo-
14
JERZY GROTOWSKI, Esercizi (1969), in Il Teatr Laboratorium di Jerzy Grotowski 1959-1969, a
cura di Ludwik Flaszen e Carla Pollastrelli con la collaborazione di Renata Molinari, Fondazione
Pontedera Teatro, Pontedera 2001, pp. 192-193.
15
IVI, p. 192.
16
HENRI FOCILLON, Elogio della mano, in IDEM, Vita delle forme, trad. it. Sergio Bettini ed Elena
De Angeli, Einaudi, Torino 1972, p. 111 (ed. orig. Vie des formes, Éloge de la main, Presses
Universitaires de France, Paris 1943).
17
Ibidem.
18
Ibidem.
LE MANI DI JACEK WOSZCZEROWICZ, ATTORE “DI COMPOSIZIONE”
cillon nell’Elogio della mano, “esercita una azione continua sulla vita interiore”19.
Nella poetica di Woszczerowicz la fisionomia esteriore custodisce e determina i processi interiori e la maestria dell’artificio diviene lo strumento della
piena organicità. In tal modo l’esperienza della trasformazione non conduce alla
dispersione di brandelli di sé in eroi fittizi, ma disegna un autoritratto composto
da molteplici volti e posture, tutti appartenenti a un medesimo asse interiore:
maschere di un “personaggio” che è in definitiva l’attore stesso.
Come abbiamo detto, Jerzy Grotowski fu tra i pochi a cogliere il delicato
manifestarsi della vita interiore nella recitazione di Woszczerowicz. Oltre ad
ammirarne la professionalità lo definì il più grande “attore di composizione” e lo
contrappose a Ryszard Cieślak, da lui considerato il massimo “attore di processo”20. Pur sottolineando la distanza tra i rispettivi approcci creativi e ribadendo
che quella con Woszczerowicz era “un’amicizia basata sulla curiosità reciproca e
sul rispetto, non sulla somiglianza del lavoro”21, Grotowski riconobbe che i vertici
ai quali era giunta l’arte dell’attore di Siedlce consentivano anche a due percorsi
profondamente diversi, quali il processo e la composizione, di fondersi in una
polarità organica. Pur seguendo un cammino del tutto differente, Woszczerowicz
aveva infatti realizzato pienamente l’invito di Grotowski a “dare al corpo una possibilità. Dargli la possibilità di vivere e di essere raggiante, di essere personale”22.
La pratica attoriale incarnata da Woszczerowicz corrisponde a un lavoro
intransigente alla costante ricerca della propria verità, lontano da ogni approssimazione o scorciatoia. Si tradusse in una lotta durata tutta la vita, in una sfida a
se stesso per ri-crearsi in un organismo nuovo. Credo che questa sfida egli l’abbia
vinta e che di ciò fosse orgoglioso: divenne un attore magnifico e un uomo vittorioso nei confronti della malattia cardiaca che da anni lo affliggeva.
Quando era già molto sofferente, la Polska Kronika Filmowa gli propose
di realizzare un cortometraggio23 dedicato al celebre Minute Waltz di Chopin. In
uno stadio deserto Woszczerowicz siede al pianoforte e ingaggia una lotta contro
il tempo, rappresentato da un grande orologio che segna lo scorrere dei secondi.
19
IVI, p. 130.
ANATOLIJ VASIL’EV, op. cit., p. 79.
21
IVI, p. 80.
22
Ibidem.
23
Il cortometraggio, diretto da Adam Kamiński e Marian Marzyński, è parte del ciclo L’uomo e il
mondo, presentato al V Festival del Cinema di New York (20-30 settembre 1967) e all’XI Festival
del Cinema di Londra (20 novembre-3 dicembre 1967).
20
153
GIULIA RANDONE
Poco conta che l’esito della sfida sia falsato, poiché è evidente che nel filmato
l’esecuzione è stata accelerata artificiosamente, tantomeno che nelle intenzioni di
Chopin il valzer non dovesse essere suonato in un minuto. Ci interessa invece
fermare l’attenzione sull’istante in cui l’attore, al termine della maratona pianistica, solleva le mani dalla tastiera e le osserva. Sul suo volto un misto di stupore e
gratitudine per averlo, ancora una volta, fedelmente sostenuto (fig. 6).
Fig. 6
154
ANDREA F. DE CARLO
Afryka Ryszarda Kapuścińskiego i Piera Paola Pasoliniego
«pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», (VI) 6, 2015, pp. 155-171
ABSTRACT
Ryszard Kapuściński (1932-2007) and Pier Paolo Pasolini (1922-1975) are two in-
tellectuals who in different times and places, each with his own cultural background, decided to
push their artistic and intellectual research beyond the borders of pure literary expression in order
to understand an increasingly indecipherable and threatening present. Two intellectuals in many
ways very different from each other, but with a common passion – Africa. The Black Continent,
the privileged object of their reflections, represents an original world, untouched by the capitalist
and neo-imperialistic aspirations of poisoned Western society, thus becoming a mixture of romantic fantasies and dreams of unteachable regenerations.
KEYWORDS
Kapuściński, Pasolini, Africa, Black Continent, poetry of the other
1. Wstęp
R
yszard Kapuściński (1932-2007) i Pier Paolo Pasolini (1922-1975) są pod
wieloma względami różni, a jednak mają ze sobą wiele punktów stycznych, czego postaramy się dowieść w niniejszym artykule 1. Jednym z
elementów, który ich łączył, było umiłowanie Afryki.
Ci dwaj pisarze w różnym czasie, miejscu oraz z odmiennym bagażem
kulturowym, postanawiają przenieść poszukiwania artystyczne i intelektualne
daleko poza granice literackie i wyrażając w swoich dziełach niepokój i przerażenie, próbują pojąć rzeczywistość coraz bardziej obcą i zagrażającą jednostce.
Czarny Kontynent – mieszanina fantazji romantycznych, nieprawdopodobnych
snów przesiąkniętych trucizną kapitalistycznego społeczeństwa oraz aspiracjami
neoimperialistycznych niektórych zachodnich państw, stał się przedmiotem ich
głębokich refleksji. Afryka nie tylko zafascynowała obu pisarzy od czasu ich
1
Niniejszy artykuł jest poszerzoną wersją referatu wygłoszonego na V Międzynarodowej Konferencji Naukowej Literatura polska w świecie. Mapowanie, opisy, interpretacje, która odbyła się
13-14 czerwca 2013 r. w Cieszynie. Organizatorzy konferencji: Uniwersytet Śląski w Katowicach,
Katedra Międzynarodowych Studiów Polskich, Instytut Nauk o Literaturze Polskiej im. Ireneusza
Opackiego, Szkoła Języka i Kultury Polskiej.
155
ANDREA F. DE CARLO
pierwszej podróży na kontynent – Kapuścińskiego do Ghany w 1957 roku, a
Pasoliniego do Kenii w lutym 1961 roku2 – lecz również zajmuje ona odrębne
miejsce w ich twórczości.
Każdy z nich po swojej pierwszej wyprawie niejednokrotnie wracał na
Czarny Ląd. Autor Hebanu, jak pisze afrykanista Jan J. Milewski w swoim interesującym posłowiu do zbioru reportaży Gdyby cała Afryka…, „do końca życia
obserwował i analizował zachodzące tam przemiany, komentował je w wywiadach
dla prasy polskiej i zagranicznej”3.
Również życie i twórczość Pasoliniego charakteryzują się tą samą głęboką
więzią z Czarnym Lądem, ponieważ odniesienia do Afryki Subsaharyjskiej,
Afrykańczyków oraz ich diaspory można znaleźć w jego wierszach, scenariuszach,
filmach, pismach, artykułach, zapiskach z podróży itp.
W świetle dokładnej analizy i szczegółowego porównania sposobu myślenia i dzieł dwóch autorów, musimy zdać sobie sprawę, iż obok wielu różnic, jak
już powiedzieliśmy wyżej, istnieje również wiele tematów wspólnych, zwłaszcza
odnośnie do Afryki.
Tutaj pozwolimy sobie wspomnieć o różnych ważnych zagadnieniach,
156
które podczas porównania okazały się podobne, a często nawet wspólne (w tym
także niektóre doświadczenia, przypadkowe zdarzenia, itd., jak na przykład zbieg
okoliczności, jakim było odkrywanie Afryki po wyprawie do Indii 4 ), chociaż
2
Podczas pierwszej podróży do Afryki Subsaharyjskiej Pasoliniemu towarzyszyli przyjaciele Elsa
Morante i Alberto Moravia.
3
JAN J. MILEWSKI, „Gdyby cała Afryka…” – dzisiaj. Posłowie, [w:] RYSZARD KAPUŚCIŃSKI, Gdyby
cała Afryka…, posłowie J. J. Milewski, Agora, Warszawa 2011, s. 381. Milewski w swoim posłowiu
ma na myśli dwa opublikowane w Polsce wywiady Kapuścińskiego, w których Afryka i jej
mieszkańcy są jednym z poruszanych tematów: MIŁADA JĘDRYSIK, Świat się rusza («Gazeta
Wyborcza», 25.06.2006) i WOJCIECH JAGIELSKI, Detronizacja Europy («Gazeta Wyborcza»,
12.10.2006). Co więcej, można przywołać inne wywiady zebrane w tomie: RYSZARD KAPUŚCIŃSKI,
To nie jest zawód dla cyników, posłowie A. Michnik, Dom Wydawniczy PWN-Agora, Warszawa
2013.
4
W 1961 roku Pasolini wraz z Moravią odwiedził Indie. Po tym doświadczeniu włoski poeta w
1962 roku opublikował książkę ze wspomnieniami z podróży pt. L’odore dell’India [Zapach Indii], a pod koniec lat sześćdziesiątych powstał dokumentalny film o Indiach pt. Appunti per un
film sull’India [Notatki do filmu o Indiach]. Z tej wyprawy dwaj włoscy pisarze wyciągnęli dwa
różne wnioski: Moravia, w swoim sprawozdaniu z podróży do Indii pt. Un’idea dell’India [Idea
Indii] (1962), twierdzi, że Indie są nieporównywalne do Włoch, ponieważ są one zupełnie „inną”
rzeczywistością, Pasolini zaś stara się wyjaśnić w jakim stopniu azjatyckie państwo jest podobne
do Italii (zob. MICHAEL HARDT, ANTONIO NEGRI, Multitude. War and democracy in the age of
Empire, The Penguin Press, New York 2004, ss. 127-128; zob. również GIOVANNA TRENTO,
Pasolini e l’Africa. L’Africa di Pasolini. Panmeridionalismo e rappresentazione dell’Africa postcoloniale, prefazione di H. Joubert-Laurencin, Mimesis, Milano-Udine 2010, s. 160). Pasolini, w
AFRYKA RYSZARDA KAPUŚCIŃSKIEGO I PIERA PAOLA PASOLINIEGO
każdy z wymienionych tematów zasługuje na oddzielną analizę, tutaj musimy po
prostu wymienić lub przedyskutować je w sposób syntetyczny.
2. Kapuściński w Afryce
U schyłku lat pięćdziesiątych Kapuściński, wówczas młody korespondent
pracujący w tygodniku «Polityka», zostaje wysłany w swą pierwszą afrykańską
podróż do Ghany i Konga, aby później na pięć lat osiedlić się w Tanzanii (w
owym czasie Tanganika)5, która będzie dlań bazą wypadową do kolejnych podróży6. W tygodniku «Polityka» pojawią się owoce tej wyprawy, czyli cykl reportaży Ghana z bliska 7 , następnie opublikowany w zbiorze zatytułowanym
Czarne gwiazdy (1963)8.
Po powrocie do Polski, ogarnięty afrykańską pasją, wyjeżdża ponownie do
Afryki na kolejne pięć lat, aby relacjonować wydarzenia z Czarnego Lądu dla
Polskiej Agencji Prasowej (PAP). W 1969 roku ukazuje się zbiór reportaży Gdyby
cała Afryka, który się składa z piętnastu tekstów, a szczególnie z dłuższych omówień i korespondencji napisanych przez Kapuścińskiego w latach 1962-1966.
W latach 1972-1981 współpracuje z miesięcznikiem «Kontynenty» oraz z
tygodnikiem «Kultura». Zamieszcza w nich liczne i coraz bogatsze reportaże, do
których materiał zbiera na całym świecie. Podróżuje po Etiopii (1974-1975,
1977), Angoli (1975), a także nieustannie zagląda do Afryki Środkowej,
Wschodniej i Zachodniej.
W 1993 roku wędruje po Afryce Południowej i Wschodniej, aby dwa lata
później przybyć do Afryki Zachodniej9. Dziełami wieńczącymi afrykańskie pereprzeciwieństwie do Moravii, postanawia stawić czoła indyjskiej tragedii, zanurzając się w Indiach,
a zarazem w ich kastach społecznych, w ich nieskończonej nędzy i sprzecznościach slumsów
Bombaju i Kalkuty, i czuć „biedę, jej słodki i gęsty ‘zapach’ – odurzający zapach” (ENZO SICILIANO, Vita di Pasolini, Giunti, Firenze 1995, s. 348). Również wśród pierwszych podróży odbytych przez młodego i jeszcze niedoświadczonego Kapuścińskiego są Indie, gdzie został on wysłany przez redakcję «Sztandaru Młodych» w 1956 roku. „Polski reportażysta – podobnie jak
Moravia – już w swoich pierwszych uwagach zrozumiał, że Inny jest naprawdę inny (a nie tylko
uważany za takiego wskutek odziedziczonych stereotypów) i że odnalezienie nowej wspólnoty nie
jest sprawą łatwą, wymaga naocznego rozpoznania odmienności kulturowej” (BEATA NOWACKA,
ZYGMUNT ZIĄTEK, Ryszard Kapuściński. Biografia pisarza, Znak, Kraków 2008, s. 149).
5
Tanzanii Kapuściński poświęcił reportaż pt. 1962 rok, Tanganika.
6
Zob. EWA CHYLAK-WIŃSKA, Afryka Kapuścińskiego, Sorus, Poznań 2007, s. 63.
7
Cykl składa się z następujących reportaży: Bojkot na ołtarzu, Gwardia jako taka, Dzień ministra,
Busz po polsku, Bezdomny z Harlemu, Szepty w samo południe, Czarna Gwiazda, Stracony dla Forda.
8
Został wykluczony tylko Busz po polsku.
9
EWA CHYLAK-WIŃSKA, dz. cyt., ss. 23-24.
157
ANDREA F. DE CARLO
grynacje pisarza są: Jeszcze dzień życia (1976), Cesarz (1978) oraz Heban (1998).
Ponadto, zdjęcia z afrykańskich reportaży Kapuścińskiego nie tylko zostały zebrane i opublikowane w 2000 roku w albumie pt. Z Afryki (oraz zdjęcia z wydanej
niedawno książeczki dla dzieci – i nie tylko – pt. 26 bajek z Afryki10), lecz także
wystawiane na licznych wystawach zarówno w Polsce, jak i za granicą11.
3. Pasolini w Afryce
„Afrykańskie marzenie” Pasoliniego również pojawia się w późnych latach
pięćdziesiątych, o czym świadczą wiersze: Alla Francia [Do Francji] i Frammento
alla morte [Fragment do śmierci]. Trwa ono nadal około 1960 roku a i po do
połowę lat siedemdziesiątych, czego wynikiem jest film Il fiore delle Mille e una
notte [Kwiat tysiąca i jednej nocy] z 1974 roku oraz niektóre ówczesne utwory12.
W lutym 1961 roku odwiedza po raz pierwszy kraj Afryki Subsaharyjskiej
– Kenię. W tym samym roku pisze przedmowę pt. La Resistenza negra [Murzyński ruch oporu] do antologii pt. Letteratura negra [Literatura murzyńska],
pod redakcją Maria De Andrade i Léonarda Sainville13.
158
W latach sześćdziesiątych i siedemdziesiątych spojrzenie Pasoliniego na
Afrykę przewijało się w licznych wierszach (La Guinea [Gwinea], Nuova poesia in
forma di rosa [Nowa poezja w kształcie róży], itd.), artykułach i zapiskach z podróży (La grazia degli Eritrei [Łaska Erytrejczyków], Post-scriptum a “La grazia
degli Eritrei” [Postscriptum do „Łaski Erytrejczyków”], Le mie Mille e una notte
[Moje baśnie z tysiąca i jednej nocy], itd.), jednym scenariuszu (Il padre selvaggio
[Dziki ojciec]), dwóch filmach (Appunti per un’Orestiade africana [Notatki do
Orestei afrykańskiej], Il fiore delle Mille e una notte [Kwiat tysiąca i jednej nocy]),
projektach, które pozostały niepublikowane (Appunti per un poema sul Terzo
mondo [Zapiski do poematu o Trzecim Świecie]). Są jeszcze artykuły o Afryce
postkolonialnej, jak na przykład Nell’Africa nera resta un vuoto fra i millenni [W
czarnej Afryce pozostaje pustka między tysiącleciami, 1970].
10
26 bajek z Afryki, pod redakcją J. Wojciechowskiej, Biblioteka GW/Green Gallery, Warszawa
2007.
11
Zob. BEATA NOWACKA, ZYGMUNT ZIĄTEK, dz. cyt., s. 264.
12
Zob. GIOVANNA TRENTO, dz. cyt., s. 17.
13
PIER PAOLO PASOLINI, La Resistenza negra, w: Letteratura negra, t. 1-2, red. M. De Andrade, L.
Sainville, Editori Riuniti, Roma 1961, ss. XV-XXIV.
AFRYKA RYSZARDA KAPUŚCIŃSKIEGO I PIERA PAOLA PASOLINIEGO
4. Przedkolonia, kolonia i postkolonia
W Afryce lata pięćdziesiąte i sześćdziesiąte przynoszą ruchy narodowowyzwoleńcze – upada kolonializm, idea wyzwolenia wędruje przez cały kontynent,
szlakiem rewolucji. Ta eksplozja wolności wyzwala się aż w siedemnastu państwach.
Gdy duch rewolucji opuścił Afrykę, Kapuściński ocenia ten okres jako
chaotyczny, jako znak końca historycznej epoki i początek innej, jeszcze nieznanej, epoki, oraz jako „historyczną pustkę”. Pasolini również, zastanawiając się nad
Afryką postkolonialną, rozważa, czy Afrykańczyk znajduje się w tym, co włoski
reżyser nazywa „stanem pustki”. W 1970 roku, pojawia się artykuł pt. L’Africa
nera resta un vuoto fra i millenni, w którym Pasolini pisze, że ludzkie życie w
postkolonialnej Afryce znajduje się w nowej przestrzeni stworzonej pomiędzy
„prehistorią” a „nowoczesnym światem”14. Pisze Pasolini:
W życiu codziennym, w „istnieniu” Afrykańczyków jest jakaś pustka (więc także psychologiczna), która widocznie w nich się otworzyła z powodu „duchowej katastrofy”
prehistorycznego człowieka, który brutalnie styka się z nowoczesnym światem; w nim jest
wewnętrzny upadek starych modeli życia, które właśnie pozostaje stanem pustki, który
przypomina rodzaj oszołomienia lub otępienia, a także senności 15.
Wejście Afryki w „nową epokę neokapitalistyczną” jest bardzo szybkim
„zjawiskiem historycznym”, a Afrykańczycy nagle znaleźli się, trochę „oszołomieni”, w szczelinie, będącej pustką, spowodowaną przez zmiany16. Należy dodać, że Pasolini – zdaniem włoskiej badaczki Giovanny Trento – „widzi w
neo-kapitalizmie i w jego neokolonialistycznym aspekcie główne czynniki zmian
zachodzących w Afryce Subsaharyjskiej”17.
Dalej Trento twierdzi, że opinia wyrażona przez Pasoliniego w tym samym
artykule na temat zmian, które zaszły w Afryce w XX wieku, jest dość różnorodna. Chwali przede wszystkim pozytywny obraz „rolnika” w większości
„afrykańskich plemion” 18 : „Należy zwrócić uwagę, iż większość afrykańskich
plemion o charakterze rolniczym i rzemieślniczym ma tradycyjne poczucie
wspólnej własności. Tereny uprawne należą jednocześnie do wielu wiosek, a za14
GIOVANNA TRENTO, dz. cyt., s. 231.
PIER PAOLO PASOLINI, Nell’Africa nera resta un vuoto fra i millenni, in IDEM, Saggi sulla politica
e sulla società, a cura di W. Siti, S. De Laude, Arnoldo Mondadori, Milano 1999, s. 207.
16
GIOVANNA TRENTO, dz. cyt., s. 232.
17
Tamże.
18
Tamże.
15
159
ANDREA F. DE CARLO
rządzanie nimi jest dziwnie podobne do budowy społeczeństwa komunistycznego”19. Kapuściński również wspomina:
Dar es-Salaam było wówczas przepełnione rewolucjonistami z całej Afryki. Łaziliśmy
razem, kto miał forsę, to stawiał. Czasem ja, czasem mnie. […] W niektórych krajach
Afryki, kiedy przyjeżdżam, nie jestem żaden Ryszard Kapuściński, korespondent z Polski,
tylko po prostu Ricardo. […] Załatwiają mi mnóstwo spraw i mówią mnóstwo rzeczy.
Nie jako dziennikarzowi. Jako kumplowi z młodości, kiedy w biedzie dzieliliśmy się
nawet jedzeniem20.
Giovanna Trento zauważa, że tylko idea „dobrobytu”, która została nałożona w Afryce przez białych, jeszcze przed politycznym podporządkowaniem,
ekonomicznym wyzyskiem, może zniszczyć skłonność do wspólnoty Afryki i
chłopów21. Jednak Pasolini zauważa, że ten demitologizacyjny proces wiecznej
mentalności plemienia nie jest tylko biernym skutkiem nałożenia powstałego na
Zachodzie cudu dobrobytu, lecz także życzeniem samych Afrykańczyków 22 .
Według włoskiego poety, jeżeli mieszkańcy Afryki zbliżają się do nowoczesności i
akceptują socjalizm, to robią na swój sposób, czyli mieszając maoizm z kapita160
lizmem:
Ale przecież chodzi o „socjalizm” bardzo specyficzny: w Dar es-Salaam można zobaczyć
portrety Mao w gablocie, w której są wystawiane amerykańskie lodówki; [...] W zeszłym
roku w Dar es-Salaamie, gdy podczas mojego pobytu, był tyko jeden protest studentów:
zaprotestowali przeciwko minispódniczkom; także w Tanzanii banki zostały znacjonalizowane, ale grupą przegraną okazała się wyłącznie burżuazja hinduska 23.
To niejednorodne widzenie Afryki opisane przez Pasoliniego w 1970 roku
jest też zasygnalizowane przez Kapuścińskiego, który na przykład, mówiąc o
prezydencie Ghany Kwame Nkrumahu, pisze, że w czasie oficjalnych wystąpień
ubrany był w taki sam mundur jak Mao, trzymający w ręku najnowszy numer
czasopisma «African Communist»24.
19
20
21
22
23
24
PIER PAOLO PASOLINI, Nell’Africa nera, cyt., s. 207.
WOJCIECH GIEŁŻYŃSKI, Czterokrotnie rozstrzelany, [w:] «Ekspres Reporterów», 6, 1978, s. 27.
GIOVANNA TRENTO, dz. cyt., s. 232.
Tamże.
PIER PAOLO PASOLINI, Nell’Africa nera, cyt., s. 207.
BEATA NOWACKA, ZYGMUNT ZIĄTEK, dz. cyt., s. 95.
AFRYKA RYSZARDA KAPUŚCIŃSKIEGO I PIERA PAOLA PASOLINIEGO
5. Mit Afryki
Afrykańskie ruchy narodowowyzwoleńcze były powodem, dla którego w
tamtym przełomowym czasie wszyscy interesowali się Afryką, nie tylko ze
względu na znajdujące się tam surowce naturalne i energetyczne oraz na bieżące
wydarzenia polityczno-społeczne, lecz również dlatego, że dla Europy Czarny
Ląd był i jest ciągle wielką tajemnicą.
W wyobraźni Europejczyków, Afryka była i nadal pozostaje dziką, tajemniczą, pierwotną przestrzenią, w której magia styka się z mitem25. Tam nie
oddziela się sfery sacrum i profanum. Jak twierdzi sam Kapuściński w Hebanie:
„Każdy więc dom, każde gospodarstwo ma dwa wymiary: ten widoczny, namacalny, i ten ukryty, tajemniczy, święty […]”26.
Afryka „mityczna” i „sakralna”, cenna i realna alternatywa dla „dekadenckiej cywilizacji mieszczańskiej”, która przyciągnęła i zafascynowała Kapuścińskiego i Pasoliniego, otworzyła pisarzom okno na świat, okazała się nieśmiałym odbiciem tej rzeczywistości zupełnie różnej od romantycznej idei, która
przekonała ich do wyjazdu. Na Czarnym Lądzie, jak również w Afryce przeniesionej na karty reportaży, „odnaleźć można metaforę naszego świata, jawiącego
się jako chaos”27. Ewa Chylak-Wińska pisze o tym:
[Afryka] ma pozwolić współczesnemu człowiekowi narodzić się na nowo w chaosie,
wprowadzić ład i harmonię w otaczającą go rzeczywistość, ale przede wszystkim odnaleźć
zagubione wartości. Dzięki afrykańskiemu mitowi człowiek ma dotrzeć do najgłębszych
pokładów swego człowieczeństwa, zagadanych, zatartych, zatechnicyzowanych i odkryć
najprostszą prawdę, że oto wszyscy, wszędzie i zawsze tworzymy wielką, ludzką rodzinę28.
Według Chylak-Wińskiej, „Afryka w micie Kapuścińskiego jawi się jako
kosmos, ocean i uniwersum”29, ale jednocześnie tam polski reportażysta „odnajduje raj utracony, który przeciwstawia piekłu afrykańskiej polityki, apartheidu,
krzywd i cierpienia”30.
Dla Pasoliniego Afryka stanowi jedyną realną alternatywę dla mitycznego i
archaicznego wiejskiego świata stopniowo znikającego we Włoszech. Bieda, nę25
26
27
28
29
30
EWA CHYLAK-WIŃSKA, dz. cyt., s. 179.
RYSZARD KAPUŚCIŃSKI, Heban, Agora, Warszawa 2008, s. 170.
EWA CHYLAK-WIŃSKA, dz. cyt., s. 180.
Tamże, s. 181.
Tamże.
Tamże, s. 180.
161
ANDREA F. DE CARLO
dza oraz szlachetność afrykańskich tradycji podobne są do archaiczności krajobrazu padańskiej doliny, a to budzi w nim głód poznania Trzeciego Świata31. Owe
nieustające podróże do Afryki „stanowią ucieczkę z Włoch coraz bardziej nie do
rozpoznania, i odpowiedź na niekończący się niepokój poznawczy, na rozpaczliwą witalność”32.
Liczne były czynniki, które przyczyniły się do tego poczucia misterium.
Szczególnie Czarna Afryka, terytorium przez długi czas bardzo trudne do penetracji, z powodu jej charakterystycznej konfiguracji fizyczno-geograficznej, wydaje się owiana grubą warstwą tajemniczych i dalekich zwyczajów i obyczajów,
które są spektakularne i zarazem skomplikowane.
Afryka to jeden z najbardziej zróżnicowanych pod względem kulturowym
i etnicznym kontynent świata. Różne oblicza Trzeciego Świata (od zdominowanej
przez Islam, położonej u wybrzeży Morza Śródziemnego północnej części, przez
Saharę i Czarną Afrykę, aż po krajobrazy Republiki Południowej Afryki i sąsiednie kraje), od czasów starożytnych, z wielu względów, stanowiły nierozwiązaną
dotychczas zagadkę dla Europejczyków – „tak jak Sfinks mieszkający we wnętrzu
tej ziemi, który przedstawia białemu człowiekowi własną podwójną naturę –
162
zwierzęcą i ludzką”33.
Europocentryczna stereotypizacja Czarnego Lądu nie wykracza poza poziom uproszczeń i klasyfikowania, wkładając wszystko co afrykańskie do jednego
worka. W przeciwieństwie do tego poglądu Kapuściński i Pasolini są świadomi,
że Afryka jest skomplikowaną i zawiłą mozaiką społeczeństw, kultur, religii,
wierzeń i obyczajów. Termin „Afryka” ma zatem wymiar bardziej geograficzny
niż kulturowy. Reporter w Hebanie to wyjaśnia: „Dlatego wielcy antropolodzy
nigdy nie mówili ‘kultura afrykańska’ czy ‘religia afrykańska’, wiedząc, że nic takiego nie istnieje, że istotą Afryki jest jej nieskończona różnorodność”34.
Sam Kapuściński w rozmowie z włoskim dziennikarzem Andreą Semplicim odpowiada na pytanie jaka wówczas, podczas jego pierwszej wyprawy do
Ghany, była Afryka, podkreślając, że: „Tak jak wtedy, tak i teraz nie ma jednej
Afryki. Nie można o tym zapominać. Afryk jest wiele, cztery co najmniej: Afryka
31
MASSIMO FUSILLO, La Grecia secondo Pasolini: mito e cinema, La Nuova Italia, Firenze 1996, s.
234.
32
Zob. GAIA DE PASCALE, Scrittori in viaggio, Bollati Boringhieri, Torino 2001, s. 104.
33
Tamże, s. 105.
34
RYSZARD KAPUŚCIŃSKI, Heban, cyt., s. 32.
AFRYKA RYSZARDA KAPUŚCIŃSKIEGO I PIERA PAOLA PASOLINIEGO
Północna, ogromny pas rozciągający się od wybrzeża Morza Śródziemnego do
Sahary, Afryka Zachodnia, Afryka Wschodnia i Południowa. Każdy z tych regionów jest zupełnie inny”35. I dalej, mówiąc o Afryce Południowej, podkreśla, iż
„Kraj jest ogromny, o trudnej do opisania plątaninie etnicznej – biali, czarni,
mulaci, Azjaci. Ogromna różnorodność społeczna”36.
Świadom tego był również Pasolini, który poprzez stylistyczny wybór
„samokrytycznej” techniki kręcenia filmów, która polega na wywiadzie z samym
sobą, ale poprzez fikcyjnych bohaterów – alter ego autora wywiadu, oraz zastosowanie meta-filmowych chwytów, zmierzając w ten sposób – jak twierdzi włoski
badacz Luca Caminati – w kierunku antropologii wizualnej37, w drugiej części
swojego filmu dokumentalnego pt. Notatki do Orestei afrykańskiej, nakręconego
między 1968 a 1969 rokiem we Włoszech, Ugandzie i Tanzanii, spotyka się z
grupą Afrykańczyków, studentów Uniwersytetu „La Sapienza” w Rzymie, którym
zadaje pytanie o analogie między barbarzyńską Grecją Orestesa a współczesną
Afryką. Według studentów błąd włoskiego reżysera tkwi w tym, że on widzi
Afrykę jako kontynent jednolity, a zatem niezróżnicowany, zaś ląd ten jest wielokulturowym, wielojęzycznym, wielocywilizacyjnym, wieloreligijnym i wielorasowym zlepkiem.
Wobec tej afrykańskiej różnorodności Kapuściński sięga pamięcią do rodzinnego Pińska, zapamiętanego przez niego jako wielonarodowe miasto, w
którym żyli Żydzi, Polacy, Tatarzy, Ormianie. Co więcej, reportażysta, mówiąc o
Polesiu i jego „dziwnej społeczności”, która już nie istnieje, przyznawał w Autoportrecie reportera (2003), iż to „była taka przedwojenna Afryka Polski”38. Właśnie w tym miejscu wchłaniał on klimat wielokulturowości, który odnajduje
również na Czarnym Lądzie.
Dla Pasoliniego rdzenni mieszkańcy Afryki, podobnie jak rzymskie lub
neapolitańskie peryferie, stanowią włoski wiejski i dialektalny świat, który twórca
bardzo pokochał w młodości39. U Pasoliniego wizja Trzeciego Świata jest nacechowana charakterystyczną dlań utopią: ślady tego spojrzenia na Afrykę spoty35
Opisywanie kontynentu. Historia, która się staje, [w:] RYSZARD KAPUŚCIŃSKI, To nie jest zawód,
cyt., s. 175.
36
Tamże, s. 195.
37
LUCA CAMINATI, Orientalismo eretico. Pier Paolo Pasolini e il cinema del Terzo Mondo, Mondadori, Milano 2007, s. 67.
38
RYSZARD KAPUŚCIŃSKI, Autoportret reportera, Znak, Kraków 2007, s. 56.
39
GIOVANNA TRENTO, dz. cyt., s. 14.
163
ANDREA F. DE CARLO
kamy w licznych pismach, esejach, wierszach, scenariuszach filmowych i teatralnych, które świadczą o jego nieustającym zainteresowaniu tą tematyką, z których
jednak trudno wyodrębnić całościowe opracowanie, pozbawione sprzeczności.
Jego rozważania sformułowane w latach sześćdziesiątych i siedemdziesiątych, inspirowane licznymi podróżami do Azji, Afryki, krajów arabskich, z
których wiele było poprzedzonych lub odbywało się równocześnie w trakcie
pracy nad filmami, zawiera pewne intuicje i spostrzeżenia odnoszące się do czasów współczesnych. Charakteryzowały się one roszczeniowymi, mocarstwowymi,
postawami w polityce zagranicznej niektórych krajów kapitalistycznego Zachodu,
przeświadczonej, iż może „eksportować” idee wolności, równości i demokracji.
Niektóre rozważania Pasoliniego są zawarte w utworach poświęconych
Afryce, z lat 1965-1966, takich jak: adaptacja filmowa wyżej wymienionej starożytnej tragedii Ajschylosa – Notatki do Orestei afrykańskiej, początkowo pomyślanej jako część większego projektu pt. Zapiski do poematu o Trzecim Świecie,
którego Pasolini nigdy nie ukończył. Akcję planował umieścić w Afryce postkolonialnej. Wciąż wierny marksistowskiej filozofii, uważał, że w afrykańskich krajach walczących o niepodległość rodzi się nowy ład, porównywalny do tego, który
164
opisał w swoim dziele Ajschylos.
6. Anarchia płynąca z władzy: Cesarz versus Salò
Książka Kapuścińskiego poświęcona rewolucji etiopskiej, Cesarz, została
uznana przez krytykę za parabolę o mechanizmach autorytarnej, skorumpowanej,
groteskowej władzy40. W szczególności, autor naświetla relacje między władcą a
sługą, które regulują życie na dworze, opisując etiopską rzeczywistość opartą na
systemie zbudowanym na oskarżeniu, strachu, grozie, przymusie, rozdzielaniu i
cofaniu przywilejów41.
To był również wątek rozważań Pasoliniego, który opisuje te same mechanizmy władzy w swoim ostatnim filmie zatytułowanym Salò, o le 120 giornate
di Sodoma [Salò, czyli 120 dni Sodomy], zrealizowanym w 1975 roku42. Wybierając
40
Kapuściński przedstawia despotyczną władzę w jej fazie rozpadu, mianowicie – jak zauważają
Nowacka i Ziątek – „kiedy w zawartym systemie despotycznym pojawiają się nagle pęknięcia –
pierwsze sygnały humanitaryzmu, sporadyczne sytuacje, w których władza stara się pokazać z
lepszej strony, kiedy próbuje zluzować rygory” (BEATA NOWACKA, ZYGMUNT ZIĄTEK, dz. cyt., s.
194).
41
Tamże.
42
Warto dodać, że ta sama seksualna obsesja oraz atmosfera i sceny inspirowane Boską Komedią
AFRYKA RYSZARDA KAPUŚCIŃSKIEGO I PIERA PAOLA PASOLINIEGO
na miejsce akcji swojego filmu Włoską Republikę Socjalną, tzw. Republikę Salò43,
włoski reżyser chce nie tyle pokazać republikański faszyzm, ile dać metaforę destrukcyjnej i homologującej dzisiejszej władzy konsumpcjonizmu.
Film Pasoliniego przede wszystkim jest krytyką systemów wpływających
na indywidualną i zbiorową wolność oraz zasad i przyczyn regulujących potrzebę
hierarchii władzy co do projektowania i utrzymania organów przymusowej kontroli jako narzędzie ujarzmienia społeczeństwa44. Należy tutaj wspomnieć, iż Cesarz Kapuścińskiego od razu został okrzyknięty przejrzystą aluzją do ówczesnego
reżimu w Polsce. W istocie autor zrobił znacznie więcej: dał uniwersalną alegorię
absolutnych, autorytarnych rządów. A włoski poeta w Salò chce pokazać zło
władzy, które wiąże się przede wszystkim ze zboczeniem seksualnym.
Włoski badacz Armando Maggi podkreśla w swojej książce The Resurrection of the Body: Pier Paolo Pasolini from Saint Paul to Sade fakt, że w filmie
Pasoliniego seks jest ukazywany tylko jako narzędzie dominacji i poniżenia 45 .
Łącząc marksistowską analizę z intuicją markiza De Sade’a o realizacji władzy
poprzez seksualną kontrolę, Pasolini pokazuje zatem korelację między panowaniem klasowym a nadużyciem seksualnym. W procesie masowego uprzemysłowienia włoskiego społeczeństwa Pasolini postrzega epokową zmianę, przejawiającą się w zrewolucjonizowaniu samego pojęcia seksu, które dotychczas było
rozrywką niższych warstw społecznych. Natomiast w latach siedemdziesiątych
przekształciło się ono w brzydotę i nałożony przez niewidzialną władzę masowy
obowiązek, do którego wszyscy się dostosowują.
Dantego są widoczne również w ostatniej niedokończonej powieści Pasoliniego, Petrolio [Ropa
naftowa], wydanej pośmiertnie w 1992 roku przez włoskie Wydawnictwo Einaudi.
43
Nazwa pochodzi od siedziby faszystowskiego rządu włoskiego – satelickie wobec Niemiec państwo powołane do istnienia w latach 1943-1945.
44
Aby zrozumieć głęboki sens tego utworu Pasoliniego jako krytyka systemów ograniczających
indywidualną i społeczną wolność w czasie reżimów totalitarnych, włoska badaczka Erminia Passannanti, w swojej interesującej i ważnej książce Il corpo & il potere: Salò o le 120 Giornate di Sodoma
di Pier Paolo Pasolini, przywołuje różne teorie na ten temat, m.in. te wyrażone przez Michela Foucaulta w eseju Nadzorować i karać. Narodziny więzienia (tłum. T. Komendant, Fundacja Aletheia,
Warszawa 1998). Co więcej, warto tu wspomnieć, że Foucault, podczas rozmowy z Gérardem
Dupontem w 1976 roku, wyraził niezbyt entuzjastyczną opinię na temat filmu Pasoliniego, ponieważ
ów związek między nazi-faszyzmem a sadyzmem filozof uznawał za historyczny błąd. Uwierzył zaś w
to, że nazizm nie został wymyślony przez wybitnych erotomanów XX wieku, ale przez najbardziej
złowrogie, nudne, głupie drobnomieszczaństwo (zob. MICHEL FOUCAULT, Sade, sergent du sexe
(wywiad z G. Dupontem), [w:] «Cinématographe», 16, 1975-1976, ss. 3-5; wspomina też o tym
GIOVANNA TRENTO, dz. cyt., ss. 141-142).
45
ARMANDO MAGGI, The Resurrection of the Body: Pier Paolo Pasolini from Saint Paul to Sade,
University of Chicago Press, Chicago-London 2009.
165
ANDREA F. DE CARLO
Według Pasoliniego, w każdej władzy jest coś brutalnego, co prowadzi do
posiadania ciał, potraktowanych jako (w tym konkretnym przypadku – seksualne)
obiekty do skonsumowania. Nazi-faszystowskie zbrodnie podczas Republiki Salò
są najbardziej przekonującym przykładem historycznym, ale i dziś istnieją dowody na zbrodnię, jaką jest masowy konsumpcjonizm. Prawdziwymi anarchistami są zawsze posiadający władzę, jak to pokazywano w sekwencji filmu lub w
książce Kapuścińskiego.
W tym ostatnim przypadku władca, samozwańczy „negus negesti” (czyli
król królów), traci zupełnie „kontakt ze swoim narodem, żyje w sztucznej, odrealnionej rzeczywistości, sycąc się mitem postępu i przekonaniem o swej boskiej
nieomylności”46. Władza w sposób arbitralny, unikając zdrowego rozsądku manipuluje ciałami poprzez manipulowanie sumieniami, unicestwia indywidualną
osobowość, zaszczepia nowe fałszywe i alienujące „wartości” – konsumpcjonizmu. W swoich Lapidariach Kapuściński stwierdza również, że zastąpiła ona sacrum i stała się główną religią. Ponadto ostrzega przed mass mediami, które stały
się „głośnikiem” konsumpcyjnej władzy47.
W tym postmodernistycznym telewizyjnym i neokapitalistycznym prze166
pływie informacji zawarte są także seks i sadomasochizm libertyna de Sade’a (i
jego utworu 120 dni Sodomy, czyli szkoła libertynizmu, 1785), transponowane na
epokę faszystowską, które stają się doskonałą metaforą tego, co władza może
zrobić – według marksistowskich teorii – eksploatując poddane, zredukowane do
towaru, zreifikowane jednostki. Tak jak dzieje się w kraju cesarza Hajle Sellasjego
I, który – jak piszą autorzy wyżej wspomnianej biografii Kapuścińskiego – „tępi
wszelkie przejawy wolnej myśli, prześladuje swych obywateli, nie waha się posłużyć sztucznie wywołanym głodem jako mechanizmem utrzymującym stabilizację w państwie”48. W książce Kapuścińskiego królestwo Sellasjego nie odnosi
się tylko do amoralnej i skorumpowanej gierkowszczyzny, lecz przypomina także
epokę saską, która jest utożsamiana z totalną demoralizacją, wstecznością oraz
powszechną miernotą49. Podobnie Pasolini zamierza nakręcić swój własny film,
46
BEATA NOWACKA, ZYGMUNT ZIĄTEK, dz. cyt., s. 194.
Tamże, s. 318.
48
Tamże, s. 194. Tutaj warto wspomnieć o wymownych opisach dworzanina czyszczącego zabrudzone psim moczem buty dygnitarzy lub służącego, który zajmował się dobieraniem specjalnych poduszek dla cesarza, czy też żebraków siedzących w krzakach pod oknami pałacowej
kuchni i zjadających odpadki ryb oraz ochłapy, które wyrzucano im z okien, itp.
49
Zob. BEATA NOWACKA, ZYGMUNT ZIĄTEK, dz. cyt, ss. 195-196.
47
AFRYKA RYSZARDA KAPUŚCIŃSKIEGO I PIERA PAOLA PASOLINIEGO
którego akcja toczy się podczas okresu historycznego, w którym czuł on wyraźnie
to, co się działo wokół niego – upadek całego kraju i zbrodnie władzy „siekającej”
ludzkie sumienia (tj. gwałt, korupcja, upadek wartości, nałożenie mitu konsumpcyjnego spełnienia, społeczna i kulturowa homologacja).
Cesarz ujawnia i demaskuje naturę władzy od wewnątrz tego chorego
systemu, czyli z punktu widzenia społeczności dworaków, która się składa głównie z przeciętnych ludzi ze zniekształconą moralnością, zdehumanizowanych i
świadomie samodegradujących się50.
Widzimy to samo w Salò, gdzie ofiary mogą uciec lub buntować się przeciwko oprawcom, ich groteskowym obrzędom, ale nic nie robią, pozostają w
„towarzystwie” horroru – sankcjonując go w ten sposób. Wręcz przeciwnie,
więźniowie powodują śmierć swoich towarzyszy, jak na przykład w W kręgu krwi
– gdy każda z ofiar obwinia innych, by ratować siebie51. W tej alienującej rzeczywistości brakuje solidarności, zdolności odczuwania bólu innych, empatii,
wzajemnego wsparcia. Każda próba buntu jest zatem postrzegana jako nieskuteczna i beznadziejna indywidualna ucieczka od rzeczywistości.
Istotną cechą tej odczłowieczonej ludzkości jest anonimowość: bohaterowie (dworzanie) stają się inicjałami (F., L.C., Y.M., T.K-B, A.M-M., G.S-D,
T.L., Z.T., M., I.B., W.A-N., E., itd.). Będąc ukryci za anonimową maską, stają się
siłą napędową biurokratycznej maszyny oraz uosobieniem duszy „labiryntu biurokracji otaczającego władcy”52. To samo się dzieje w filmie Pasoliniego, w którym chłopcy i dziewczęta wybrani przez władzę nie mają imion, ale są tylko
określeni jako „Ofiary”. To zwiększa ich reifikację – proste obiekty lub towary
konsumpcji i przyjemności przeznaczone dla władcy: „Jesteście słabymi istotami
zgromadzonymi tu i przeznaczonymi dla naszej przyjemności. Nie spodziewajcie
się tu znaleźć wolności gwarantowanej w świecie zewnętrznym. Jesteście poza
zasięgiem jakiejkolwiek ‘legalności’”.
Dlatego dla obu autorów zarówno Etiopia Sellasjego, jak i Republika Salò
50
Tamże, ss. 194-195.
Ten mechanizm sprawowania władzy jest bardzo precyzyjnie wyjaśniony przez Kapuścińskiego
w Cesarzu, który używa jako motto cytat z książki Adolfa Remane, autora książki pt. Swoiste drogi
kręgowców, „społeczności” kur, działającej idealnie w zakresie hierarchicznego zarządzania:
„jednoszeregow[ej] listy rang, na początku której stoi nadkura dziobiąca wszystkie inne, z kolei te,
które są w środku listy, dziobią niższe rangą, respektują zaś wyżej postawione” (RYSZARD KAPUŚCIŃSKI, Cesarz, cyt., s. 11).
52
BEATA NOWACKA, ZYGMUNT ZIĄTEK, dz. cyt, s. 250.
51
167
ANDREA F. DE CARLO
stają się symbolem zła absolutnego i jego absurdalnych i groteskowych mechanizmów.
W szczególności, w przypadku Cesarza Werner Paul w «Der Spiegel» pisze:
Król królów nie jest książką z kluczem o Polsce, również podtytuł „przypowieść o władzy” jest dodatkiem wydawnictwa niemieckiego. Polskie jest w tej książce wyczucie absurdalności ludzkiego działania i gry władzy z jednostką. Jednak przyklejanie się do
władzy, odczłowieczenie władców i skłonność władzy do przeistaczania się z instrumentu
w podmiot jest powszechne. […] To, co Kapuściński nam pokazuje, to autokratyczna
władza jako taka, mechanizmy władzy w formie czystej, której ważne elementy można
zauważyć również w systemie demokratycznym […] cesarsko-etiopski wzorzec sprawowania władzy był anachroniczny i dlatego przejrzysty. Ale władza autokratyczna jest
anarchaiczna, nawet gdy przywdzieje szatę nowoczesnej techniki53.
Sam Kapuściński twierdzi w jednym z wywiadów:
Napisałem książkę przeciwko pewnemu modelowi władzy, polemiczną, i tak została ona
odczytana. Opowiedziałem się przeciwko władzy absolutystycznej, skorumpowanej, deprawującej, nieudolnej. Interesowały mnie mechanizmy władzy, zaś realia etiopskie po-
168
służyły jako parawan. Dziś Cesarz wychodzi w wielu językach i każdy czytelnik odbierze
to, co jest uniwersalne, lub to, co występuje w jego kraju 54.
Warto tu dodać, że w Cesarzu Kapuściński pokazuje rodzaj „makabry z
tragikomedii”55, rodzaj teatru władzy oglądanego za kulisami, za maską, rodzaj
okrutnej egzotycznej baśni, ale ten archaiczny, absurdalny i trochę śmieszny
świat, któremu przeciwstawia się tragiczna i monumentalna twarz władzy opisana
w całej jej przemocy, jej okrucieństwie w Szachinszachu (1982)56. Jak zauważają
autorzy biografii polskiego reportażysty, Nowacka i Ziątek, „Cesarz i Szachinszach
są po prostu komplementarnym, doskonale zrymowanym wykładem na temat
istoty władzy. Są również najwybitniejszymi osiągnięciami polskiego reportażu, a
przy tym – niekwestionowanymi arcydziełami współczesnej literatury polskiej”57.
53
Tamże, s. 245. WERNER PAUL, Der Herrscher Hat steife Knie, «Der Spiegel», 36, 1984, ss.
199-201; niemecki oryginał można znaleźć na stronie internetowej, <http://www.spiegel.de/
spiegel/print/d-13510379.html>.
54
EDYTA BANASZKIEWICZ, Zaangażować najlepszych. Rozmowa z Ryszardem Kapuścińskim,
«Radio i Telewizja», 52, 1980, ss. 1-2.
55
JERZY SURDYKOWSKI, Zawód: Kasandra, «Zdanie», 5, 1982, s. 56.
56
Zob. BEATA NOWACKA, ZYGMUNT ZIĄTEK, dz. cyt, s. 222.
57
Tamże.
AFRYKA RYSZARDA KAPUŚCIŃSKIEGO I PIERA PAOLA PASOLINIEGO
7. Poetyka Innego
Działalność i biografia Kapuścińskiego i Pasoliniego krążą głównie wokół
istotnego tematu – Innego. Według niektórych badaczy i literatów, wyobraźni
„zachodniego człowieka” XIX i XX wieku Inny jest przede wszystkim Afrykańczykiem, „Murzynem”, dzikusem, członkiem plemienia, tym, w którego doskonale
wciela się istota różnorodności, z tego powodu marginalizowana przez społeczeństwo58.
Rzeczywiście w życiu Kapuścińskiego dużą rolę odgrywał Inny, Obcy.
Relatywistycznemu spojrzeniu na Innego oraz filozofii dialogu i spotkania z nim
Kapuściński poświęcił cykl wykładów wygłoszonych w Instytucie Nauk o Człowieku w Wiedniu, na Uniwersytecie Jagiellońskim z okazji przyznania tytułu
doktora honoris causa, w Wyższej Szkole Europejskiej im. ks. Józefa Tischnera
oraz podczas Międzynarodowego Sympozjum Pisarzy w Grazu.
W tym cyklu wykładów, które w 2006 roku opublikowane zostały w
zbiorze pt. Ten Inny, autor zastanawia się, kim był Inny w początkach kultury, a
kim jest we współczesnym wielokulturowym świecie. Dla autora Hebanu – jak
również dla Pasoliniego – słowo kluczowe „Inny” stało się synonimem człowieka
pozaeuropejskiego.
Inspiracją dla Kapuścińskiego są oczywiście jego niezliczone reporterskie
podróże, ale także współczesna myśl filozoficzna, zwłaszcza koncepcje Innego
stworzone przez Emmanuela Lévinasa i ks. Józefa Tischnera.
Autor Hebanu przywołuje filozofię spotkania Lévinasa, którą relacjonuje
w Lapidariach, gdzie z przekonaniem pisze: „Lévinas domaga się, abyśmy dostrzegli jego obecność, poczuli się za niego odpowiedzialni. W spotkaniu z drugim człowiekiem jest zawarte etyczne wyzwanie. Więź człowieka z Bogiem realizuje się nie poprzez kosmos, lecz poprzez Innego człowieka” 59 . Również w
książce Ten Inny pisze o tej filozofii, że „wyodrębnia jednostkę, indywidualizuje
ją, wskazuje, że oprócz mnie jest jeszcze ktoś Inny, z którym – jeśli nie zdobędę się
na wysiłek uwagi i nie okażę pragnienia spotkania – będziemy mijać się obojętni,
zimni, nieczuli, bez wyrazu i duszy. […] Akceptujemy Innego, choć jest różny, i
że właśnie różność, inność jest bogactwem i wartością, jest dobrem”60.
58
GIOVANNA TRENTO, dz. cyt., s. 13.
RYSZARD KAPUŚCIŃSKI, Lapidaria I-III, red. B. Dudko, M. Szczygieł, Agora, Warszawa 2008, s.
342.
60
IDEM, Ten Inny, Znak, Kraków 2006, ss. 28-29.
59
169
ANDREA F. DE CARLO
Należy również zauważyć, że ważną rolę w jego koncepcji Innego odegrał
dorobek etnograficzny Bronisława Malinowskiego. Wybitny antropolog w monografii Argonauci Zachodniego Pacyfiku określił, że celem badań antropologicznych jest ujawnienie swoistych cech życia danej społeczności, które przejawiają się w kulturze rozumianej jako funkcjonalnie zintegrowany system pełniący
instrumentalne role względem imperatywów życia w określonym społecznym i
fizycznym środowisku. Innymi słowy, aby pojąć światopogląd danego społeczeństwa, należy żyć w tym społeczeństwie i uczestniczyć w jego codziennym życiu. W Afryce reporter, dość często ryzykuje własne życie, aby poznawać innych,
obcych, dalekich, aby podejrzeć ich życie i zwyczaje. Autor identyfikuje się z
Afrykańczykami i ich obyczajami.
Podobną postawę spotykamy też w Notatkach do Orestei afrykańskiej Pasoliniego, gdzie reżyser dąży do bezpośredniego udziału w miejscu nakręcania filmu; to
świadczy o chęci bycia jak najbliżej spotkania z Innym. W twórczości Pasoliniego
możemy zauważyć charakter „zasadniczo ludowy” Innego, ponieważ reżyser koncentruje się raczej na ciałach i miejscach, ludzkich codziennych zajęciach61.
Należy wyjaśnić, że Inny Pasoliniego jest lustrzanym odbiciem obrazu siebie i
170
sprzecznego związku pomiędzy sobą a innymi. Lustrzane odbicie może być jednocześnie metaforą zwierciadła, w którym Europejczyk dostrzega siebie samego62.
Od czasu pierwszej wyprawy do Afryki Kapuściński i Pasolini w rzeczywistości odbierają wiele nowych bodźców, co pozwala im myśleć o nowych
utworach dających nowe spojrzenie na Afrykę. Podobnie jak Kapuściński, który
stworzył hybrydowy gatunek reportażu (choć możemy go nazwać też reportażem
literackim), film dokumentalny Pasoliniego, dążący do zrozumienia Innego – tj.
nie białego człowieka – a jednocześnie do kontynuacji eksperymentów kina
awangardowego, ma podwójną naturę: etnograficzną i twórczą63.
8. Podsumowanie
W prezentowanej publikacji zakładaliśmy, że nie wyczerpiemy całego
tematu, który powinien być przedmiotem dalszych badań, ale w ramach, na jakie
61
PIER PAOLO PASOLINI, Per il Cinema, a cura di W. Siti, F. Zabagli; con due scritti di B. Bertolucci, M. Martone e un saggio introduttivo di S. Cerami; cronologia a cura di N. Naldini, Arnoldo Mondadori, Milano 2001, t. 2, s. 1180.
62
GIOVANNA TRENTO, dz. cyt., s. 13.
63
PIER PAOLO PASOLINI, Per il Cinema, dz. cyt., s. 1180.
AFRYKA RYSZARDA KAPUŚCIŃSKIEGO I PIERA PAOLA PASOLINIEGO
pozwala artykuł, staraliśmy się wykazać to, co dotychczas udało nam się ustalić, a
co jednocześnie może być przydatne w przyszłości do innych badań nad losami
Afryki odzwierciedlonymi w twórczości obu autorów.
W spojrzeniu na Afrykę Kapuścińskiego i Pasoliniego aspekty politycznospołeczne współistnieją z innymi aspektami o charakterze egzystencjalnym,
związanym z potrzebami prywatnymi.
Dla włoskiego reżysera Afryka stanowiła ostatnią ostoję mitycznego i
atawistycznego świata, którą należy chronić przed neokapitalizmem; była irracjonalną alternatywą dla aseptycznego świata zachodniego. Czarny Ląd staje się
alternatywą dla Europy, gdyż jest „pomnikiem przyrody”64 i nadzieją na przeciwdziałanie konsumpcyjnemu szałowi kapitalizmu, którego celem jest tylko
urynkowienie, zarabianie i wyzyskiwanie. Autor Hebanu podobnie jak Pasolini
jest pod urokiem specyficznej magii afrykańskiej rzeczywistości: obaj uwielbiają
ten magiczny świat, który jest codzienną „normalnością” i od wieków, podobnie
jak mit wiecznego powrotu, powtarza się na terenach Afryki.
Po Afryce Kapuścińskiego i Pasoliniego odbiorcy zostaje obraz, na którym
widać lustro odbijające Czarny Kontynent płonącą pochodnią „afrykańskiego
światła”, wypełniającą człowiekowi egzystencjalną pustkę, której już zachodni
świat napełnić nie może.
64
FERDINANDO CAMON, ALBERTO MORAVIA, Io e il mio tempo: conversazioni critiche con Ferdinando Camon, Nord-Est, Padova 1988, s. 53.
171
ANNA MAŁYSZKIEWICZ
Riflessioni sulla ricezione italiana di Czesław Miłosz.
Con annessa una bibliografia italiana delle opere e della critica
«pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», (VI) 6, 2015, pp. 173-188
ABSTRACT
The author presents the reception of the works of Czesław Miłosz in Italy starting
from the first articles mentioning his name in the late 1940s. After his emigration from Poland in
the 1950s, thanks to his efforts in favor of freedom of expression and of criticism of socialist realism, he found many Italian intellectuals who shared the same views. In 1980, when he was
awarded the Nobel Prize in Literature, Miłosz had his greatest moment of fame, which allowed
him to publish his most important works in Italy. The second part of the article consists of the
complete bibliography of Miłosz’s texts in Italian, including those published in newspapers and
magazines.
KEYWORDS
Czesław Miłosz, Italy, reception, bibliography, Nobel Prize
173
N
ell’opera di Czesław Miłosz i riferimenti all’Italia non riguardano solo il
suo ruolo di culla della cultura classica, ma anche luoghi carichi di significato storico e culturale. In questo senso, particolarmente densa è
una delle poesie più conosciute di Miłosz, Campo dei Fiori. Importanti riferimenti
italiani si trovano anche in altri componimenti quali Siena, Due a Roma, A Milano
o Caffè Greco, e molti altri se ne potrebbero aggiungere. Il rapporto di Miłosz con
l’Italia non si fonda però solo sull’ispirazione che il poeta traeva dai luoghi e dai
paesaggi del Bel Paese, ma anche dai molti contatti che aveva con letterati e intellettuali italiani. Pur essendo uno scrittore sostanzialmente elitario, alcune
opere di Miłosz vennero tradotte in Italia molto prima di ricevere il Premio Nobel
e la sua statura di poeta e di saggista venne ben apprezzata, così come, a volte,
violentemente criticata.
In questa sede cercherò di evidenziare, sia pur brevemente e in maniera
assai concisa, alcuni elementi della ricezione dell’opera di Miłosz in Italia.
Le prime tracce della presenza di Miłosz sulla scena culturale italiana si
riferiscono a un’epoca in cui non aveva raggiunto la notorietà neppure in altri
ANNA MAŁYSZKIEWICZ
paesi europei, ancor prima della sua emigrazione. L’esordio italiano di Miłosz
può essere identificato quasi con certezza con la pubblicazione dell’articolo di
Luigi Cini su «La Fiera Letteraria» del 25 settembre 1947. Il numero era dedicato
interamente alla letteratura polacca. Miłosz vi veniva presentato come scrittore di
particolare sensibilità moderna, anche se dal punto di vista formale profondamente legato a forme tradizionali. Cini si sofferma in particolare sul volume Salvezza (Ocalenie) di cui tradusse, purtroppo con risultati assai scarsi, un frammento della poesia iniziale, che portava il titolo Prefazione (Przedmowa).
Appena tre anni dopo, fu ancora Luigi Cini a tradurre e pubblicare Campo
dei Fiori nel bollettino «Polonia d’oggi», diffuso dall’Ambasciata di Polonia.
Com’è facile aspettarsi, questi due brevi articoli non ebbero grande riscontro, data
la loro limitata diffusione e la specificità del pubblico a cui erano diretti. Tuttavia,
vale la pena menzionarli come prime testimonianze dell’apparizione sulla stampa
italiana del nome di Czesław Miłosz.
Una rilevanza e una diffusione assai maggiori ebbero le pubblicazioni
immediatamente successive, apprezzate anche dalla critica. A questo contribuì
certamente il fatto che apparvero dopo la decisione del poeta di chiedere asilo
174
politico in Francia e, successivamente, di legarsi all’attività del Congress for
Cultural Freedom1 che promuoveva la lotta contro i regimi totalitari e per il diritto alla libertà di espressione. In poco tempo Miłosz divenne una figura di
spicco nel movimento che incarnava gli ideali del Congresso e acquisì fama in
tutta l’Europa occidentale. Lo scrittore ebbe occasione di partecipare a seminari e
conferenze presentando la sua esperienza di scrittore cui, in patria, era stato negato il diritto di esprimere le proprie idee e di scrivere secondo la propria coscienza e ispirazione. Già nel 1952 venne pubblicata in Italia una brochure dal
titolo La grande tentazione. Il dramma degli intellettuali nelle democrazie popolari
(La grande tentation. Le drame des intellectuels dans les démocraties populaires),
che conteneva il discorso di Miłosz pronunciato durante un seminario del Congresso, svoltosi nel settembre del 1951 ad Andlau, in Francia. Questo scritto non
è privo d’importanza e lo si può considerare come una prima bozza del libro La
mente prigioniera (Zniewolony umysł), che avrebbe dato allo scrittore fama in1
Il Congress for Cultural Freedom era un organismo internazionale, fondato a Berlino nel 1950,
che riuniva alcuni tra i più noti intellettuali dell’epoca, come Arthur Koestler, Karl Jaspers, Melvin
J. Lasky e Ignazio Silone. Il suo obiettivo principale era contrastare la propaganda comunista.
Aveva anche una sezione italiana chiamata Associazione per la libertà della cultura.
RIFLESSIONI SULLA RICEZIONE ITALIANA DI CZESŁAW MIŁOSZ
ternazionale e sarebbe divenuto un vero caso nella vita letteraria e nel dibattito
ideologico dell’epoca. La pubblicazione de La grande tentazione, pur trattandosi
di uno scritto breve, suscitò anche in Italia un intenso dibattito sulla validità dei
principi del realismo socialista in ambito letterario e artistico. Così, ad esempio,
Raffaello Franchini, noto filosofo dell’epoca, dopo la lettura del testo si chiedeva
sulle pagine de «Il Mondo»: “ma quale arte, quale pensiero, quale morale può
nascere senza la divina solitudine della coscienza? […] un giorno in cui la macchina dell’infallibilità stalinista verrà fermata, crollerà anche il castello incantato
della socializzazione dei prodotti di spirito”2.
Nel 1953 l’Istituto Letterario (Instytut Literacki) di Parigi pubblicò in polacco La mente prigioniera (in francese, sempre nel 1953, il volume fu pubblicato da
Gallimard), libro che ebbe un ancora più vasto riscontro negli ambienti culturali
dell’Europa occidentale. In Italia, nonostante il fatto che la traduzione sarebbe
apparsa solo due anni dopo3, molti critici, avendo a disposizione il testo in francese
o in inglese, reagirono rapidamente e vivacemente a quell’importante testimonianza. Molti simpatizzanti delle idee del Congress for Cultural Freedom espressero il loro sdegno per il funzionamento del sistema totalitario e misero in evidenza
la violazione dei fondamentali diritti umani. Nicola Chiaromonte scriveva sulle
pagine de «Il Mondo»: “The Captive Mind è la migliore analisi di quel che succede
alla mente sotto un sistema totalitario che sia stata tentata finora: alla mente, non al
corpo, o all’individuo considerato come un composto bio-psicologico”4. Su «Il
Mulino» invece, Vittorio De Caprariis osservava:
[…] la testimonianza più importante che si può ricavare dal libro del Miłosz è quella del
peso che ha l’ideologia nei regimi comunisti. Neppure questa è certamente un’assoluta
novità per chi conosca il pensiero di Lenin; ma dovrebbe ancora rappresentare un soggetto di meditazione per alcuni sedicenti realisti che nutrono il più solido disprezzo per le
ideologie e ritengono di poter intendere la politica comunista coi metri di ambizione, del
potere personale e altre simili fanciullaggini5.
Nonostante la reazione positiva della stampa, non mancarono le critiche a
Miłosz da parte di intellettuali legati al partito comunista. Sintomatico in questo
2
RAFFAELLO FRANCHINI, Il pensiero socializzato, in «Il Mondo», 26 luglio 1952, p. 6.
Nel 1955 la casa editrice Aldo Martello pubblicò La mente prigioniera nella traduzione
dall’inglese curata da Olga Ceretti Borsini.
4
NICOLA CHIAROMONTE, La mente prigioniera, in «Il Mondo», 27 ottobre 1953, p. 7.
5
VITTORIO DE CAPRARIIS, La mente prigioniera, in «Il Mulino», 4, 1954, p. 274.
3
175
ANNA MAŁYSZKIEWICZ
senso fu l’intervento di Arrigo Cajumi su «Il Mondo», che non risparmiava a
Miłosz critiche improntate al sarcasmo:
Se il signor Miłosz non se la sentiva di assoggettarsi a una disciplina nota in partenza
(troppo ingenuo e ridicolo, non pensarvi) non aveva che da intraprendere un mestiere
qualsiasi, e scrivere per proprio conto e senza libidini di pubblicazione e remunerazione.
Egli scelse il mestiere d’intellettuale, cioè la via più comoda sotto le dittature, e poi barò
al gioco. […] Miłosz finirà – anzi con questo libro l’ha già fatto – per essere scritturato
dall’anticomunismo professionale, illudendosi di affermarsi come uno dei campioni della
vecchia lotta tra polacchi e russi6.
A quell’epoca in Italia si parlava di Miłosz quasi esclusivamente per la sua
attività anticomunista, dimenticando il suo ruolo di poeta. Anche se lo scrittore
veniva quasi sempre presentato come poeta polacco, delle sue poesie quasi non
v’era traccia. Un’eccezione è rappresentata dall’antologia La Resistenza nella
letteratura, pubblicata in occasione del decennale della liberazione d’Italia, in cui
venne inserita la poesia di Miłosz Il Caffè e lui stesso fu presentato dalla traduttrice Cristina Fuhrman come il più grande poeta polacco vivente7.
Negli anni Cinquanta e Sessanta, grazie alla notorietà ottenuta dopo la
176
pubblicazione de La mente prigioniera, il suo autore veniva spesso invitato a tenere conferenze o seminari nell’ambito dell’attività del Congress for Cultural
Freedom. Così fu anche nel 1955, quando Miłosz fu ospite del convegno di Milano e pronunciò in francese il discorso Bielinski et la licorne. A quel tempo
l’autore di Salvezza cominciò anche a collaborare con diverse riviste europee, tra
cui quelle finanziate dal Congress. Nel caso italiano si trattava di «Tempo Presente», fondato da Nicola Chiaromonte e Ignazio Silone, di cui era redattore
Gustaw Herling-Grudziński. Sulle pagine di questa rivista la voce di Miłosz appariva abbastanza spesso, anche se sempre in contesti storico-politici, mai come
autore di poesie. Mentre succedeva che Miłosz stesso presentasse qualche scrittore polacco, non gli fu concessa la possibilità di vedere pubblicate le proprie
poesie. Del resto il suo nome non apparve nemmeno nell’ampio articolo Scrittori
polacchi d’oggi a firma di Herling. In quegli anni, l’autore di Campo dei Fiori divenne celebre, insomma, solo come rappresentante di posizioni opposte al co6
ARRIGO CAJUMI, Pot-pourri, in «Il Mondo», 19 luglio 1955, p. 9.
CZESŁAW MIŁOSZ, Un caffè, in ARISTIDE MARCHETTI, GUIDO TASSINARI, La Resistenza nella
letteratura: antologia, Associazione Partigiani “A. Di Dio”, Milano 1955, p. 138.
7
RIFLESSIONI SULLA RICEZIONE ITALIANA DI CZESŁAW MIŁOSZ
munismo, a scapito della sua reputazione di poeta. Finalmente, negli anni Sessanta, l’editore genovese Umberto Silva, spinto dal desiderio di creare una biblioteca che desse spazio al dibattito sulla situazione della cultura internazionale,
ebbe il grande merito di creare una “collana polacca” di cui divenne direttore
Aleksander Wat. Tra le varie pubblicazioni ci furono due libri fondamentali: la
traduzione italiana di Europa familiare, fatta da Riccardo Landau nel 1961, e
l’importante volume Poeti polacchi contemporanei curata da Carlo Verdiani con
un’ampia introduzione nella quale Miłosz viene definito uno dei maggiori esponenti della poesia degli ultimi quarant’anni8.
Se negli anni Sessanta Miłosz era ancora presente sulla scena italiana come
autore di articoli di carattere storico-politico, negli anni Settanta è difficile trovare
sue tracce sulla stampa italiana, a esclusione di qualche singolo articolo o nota.
Questa situazione cambiò radicalmente il 10 ottobre 1980, quando il mondo intero venne a sapere che il Premio Nobel per la Letteratura era stato assegnato al
poeta polacco. In Italia la notizia venne accolta con sorpresa e, in alcuni casi,
addirittura con sconcerto. Oggi, alcune reazioni sembrano un segno discutibile
del provincialismo di un certo giornalismo italiano. Vale la pena rileggere
l’intervento di Walter Rosboch sulle pagine de «La Stampa»:
Sorpresa e stupore ieri all’annuncio del Premio Nobel ‘80 per la letteratura a Miłosz:
ancora una volta l’accademia svedese lo ha assegnato a uno “scrittore poetico”, come egli
si definisce, forse grande, ma certamente sconosciuto. […] L’opinione corrente è che
rivelatesi notevoli disparità di giudizio tra gli accademici, si sia preferito ripiegare su di
uno scrittore-poeta meno conosciuto, evitando così il più possibile polemiche e critiche9.
Sulle pagine di «Avanti!» Walter Pedullà non esitò a definire Miłosz un
poeta pressoché sconosciuto, i cui pochi libri tradotti in italiano erano introvabili
perché non avevano lasciato alcun segno della loro presenza10. In difesa del poeta si
fecero avanti autorevoli personalità dell’accademia e del mondo intellettuale, che lo
conoscevano molto bene. Particolare merito ebbero Pietro Marchesani e Gustaw
Herling-Grudziński. A prescindere dalle polemiche, fu proprio l’assegnazione del
premio Nobel a suscitare una vera e propria svolta nella fortuna italiana del poeta.
8
Cfr. CARLO VERDIANI, Poeti polacchi contemporanei, Silva, Milano 1961, p. XII.
WALTER ROSBOCH, Nobel a Miłosz, polacco in esilio, in «La Stampa», 10 ottobre 1980, p. 3.
10
Cfr. WALTER PEDULLÀ, Uno scherzo da papa il Nobel a Miłosz?, in «Avanti!», 12 ottobre 1980,
p. IV.
9
177
ANNA MAŁYSZKIEWICZ
Già nell’ottobre del 1980 apparvero nuove traduzioni delle poesie di Miłosz sulle
riviste dell’epoca, e nel 1981 uscì la nuova versione de La mente prigioniera curata
da Giorgio Origlia. Il 1981 si rivelò un anno d’oro per la poesia di Miłosz: furono
edite le sue prime antologie poetiche, tra le quali due tradotte da Pietro Marchesani
e pubblicate da Vanni Scheiwiller. La terza antologia che vide la luce nello stesso
anno, intitolata Poesie del mondo illuminato, tradotta da Margherita Guidacci e
Aleksandra Kurczab, richiama ancora oggi l’attenzione per una curiosa scelta grafica: sulla copertina del libro compare l’immagine della Madonna Nera di
Częstochowa, forse un richiamo alla stessa immagine sul risvolto della giacca di
Lech Wałęsa, leader di Solidarność. Anche se in quel periodo tale scelta poteva
sembrare giustificata, dato il particolare momento storico vissuto dalla Polonia,
oggi, a distanza di oltre trent’anni, risulta piuttosto inadeguata, visto che il poeta
non può essere definito semplicemente uno scrittore cristiano, come voleva suggerire l’accostamento dell’immagine sacra alla sua opera.
Il più corposo florilegio delle poesie di Miłosz, fino a oggi riferimento
imprescindibile per chi voglia leggere le sue liriche in italiano, è il volume Poesie,
tradotto da Pietro Marchesani e pubblicato da Adelphi nel 1983. Il traduttore
178
stesso, nell’intervista da lui concessami nel 201111, raccontava come l’editore –
dimostrando notevole lungimiranza e sensibilità – avesse comprato i diritti per la
pubblicazione delle opere di Miłosz ben prima del 1980, quando l’interesse per lo
scrittore polacco in Italia era ancora scarso. La pubblicazione del libro, tuttavia,
poté andare in porto solo dopo il conferimento del Nobel. Nell’introduzione al
volume Josif Brodskij presentava l’autore di Salvezza al pubblico italiano, definendolo “uno dei più grandi poeti del nostro tempo e forse il più grande”12.
Sull’onda della popolarità di Miłosz, Adelphi ripropose ai lettori una
nuova versione di Rodzinna Europa, che era intitolata La mia Europa ed appariva
tradotta da F. Bovoli. In realtà sotto questo nome si celava Pietro Marchesani, che
aveva preferito firmare la traduzione con uno pseudonimo. La sua scelta era stata
motivata dal fatto che all’inizio gli era stato chiesto soltanto di rivedere la versione
di Riccardo Landau, il primo traduttore del volume, ma le modifiche si rivelarono
11
ANNA MAŁYSZKIEWICZ, La poesia non può essere amata per descrizione, in «pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», 3, 2013, pp. 317-329. L’intervista ebbe luogo a Genova l’8 giugno
2011, sei mesi prima dell’improvvisa scomparsa di Marchesani, ed è consultabile online:
<http://www.plit-aip.com/pdf/2013/plit_2013_16_pietro_marchesani_intervista.pdf>.
12
JOSIF BRODSKIJ, Introduzione, in CZESŁAW MIŁOSZ, Poesie, Adelphi, Milano 1983, p. 11. Il
testo di Brodskij fu preparato per la consegna a Miłosz del Neustadt Prize for Literature nel 1978.
RIFLESSIONI SULLA RICEZIONE ITALIANA DI CZESŁAW MIŁOSZ
talmente numerose che l’editore chiese a Marchesani di firmare la traduzione con
il proprio cognome. Quest’ultimo, però, sapendo che aveva lavorato sul testo di
un altro traduttore e non volendo ferirne la sensibilità, optò per uno pseudonimo13. Il libro ebbe un’accoglienza positiva e Silvio Ferrari riconobbe all’opera di
Miłosz un ruolo da protagonista fra i libri apparsi in Italia nel 198514.
Nel corso degli anni andarono aggiungendosi altre traduzioni delle poesie
di Miłosz. Ne costituisce un esempio eloquente il volumetto Il secolo dell’esilio15,
con le traduzioni di Maria Grazia Borsalino e Anna Lia Guglielmi e la supervisione di Pietro Marchesani che curò anche l’introduzione di questa pubblicazione
fuori commercio. Miłosz fu invitato dal Centro Culturale San Carlo, curatore
dell’edizione, per una lettura poetica – come lui stesso amava chiamarla –, che si
rivelò un vero e proprio successo, vista la grande affluenza di pubblico.
Dopo la prima ondata d’interesse, negli anni Novanta l’attenzione verso il
poeta andò gradualmente scemando, anche se sulla stampa era possibile trovare
ancora tracce della sua attività. Miłosz divenne una figura morale di riferimento e
un simbolo della lotta in difesa dell’etica. Veniva spesso invitato in Italia per partecipare a conferenze o incontri con i lettori o per ritirare premi o riconoscimenti
accademici. Il 18 novembre 1992 l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” lo
insignì della laurea honoris causa in Lettere e Filosofia, con la motivazione che era
“uno dei rappresentanti più grandi della cultura polacca e insieme europea”16.
Nel 1996 vide la luce una selezione delle poesie di Miłosz tradotte da
Valeria Rossella col titolo La fodera del mondo17. Il libro era parte di una collana
destinata solo agli abbonati della rivista «Poesia», e perciò ebbe una diffusione
limitata. Nel suo centesimo numero, dedicato ai Premi Nobel per la Letteratura,
la rivista ripubblicò alcuni componimenti di questa raccolta, facendoli precedere
da un piccolo saggio introduttivo della stessa Valeria Rossella18.
Il nuovo millennio si aprì con la pubblicazione de La terra di Ulro, scritta
nel 1980 e tradotta da Pietro Marchesani. Quest’ampio saggio di riflessione fi13
Cfr. ANNA MAŁYSZKIEWICZ, op. cit., pp. 328
SILVIO FERRARI, Miłosz: «scrivo per la mia Europa», in «Nuova rivista europea», 10, 1985, p. 62.
15
CZESŁAW MIŁOSZ, Il Secolo dell’esilio. Le poesie, Centro Culturale S. Carlo, Milano 1988.
16
Laurea Honoris Causa in Lettere a Czesław Miłosz, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, p. 3.
17
CZESŁAW MIŁOSZ, La fodera del mondo, trad. it. Valeria Rossella, Fondazione Piazzola, Roma
1996.
18
VALERIA ROSSELLA, Czesław Miłosz. La terra senza grammatica, in «Poesia», 100, 1996.
14
179
ANNA MAŁYSZKIEWICZ
losofica ed esistenziale, che aveva tutti i tratti di un’autobiografia intellettuale, è
stato definito come l’“indicazione di una strada”19. Lo slavista Vittorio Strada20
ha riconosciuto la prosa saggistica di Miłosz – poeta e creatura pensante – particolarmente interessante “sia perché rivela la materia prima intellettuale che, filtrata dall’immaginazione, si è risolta nella trama sottile dei versi, sia perché è
manifesta una pregnanza di significati che la differenzia dalla saggistica di un
romanziere, più analitica e concettuale”21.
La conoscenza di Miłosz saggista e la diffusione dei suoi scritti fu favorita
da ulteriori pubblicazioni che presentavano al pubblico italiano anche le sue
opere più recenti, quelle scritte negli ultimi anni di vita. Nel 2002, ad esempio, fu
edito, sempre per i tipi di Adelphi, Il cagnolino lungo la strada, tradotto da Andrea Ceccherelli. Grazie alla ricezione positiva della critica e del pubblico, il libro
ebbe la fortuna di essere ristampato e influì anche sulla decisione di pubblicare
una successiva opera in prosa di Miłosz, Abbecedario, nel 2010.
Per la ricezione italiana di Miłosz, l’anno 2011 fu un periodo positivamente movimentato. In occasione del centenario della sua nascita, nell’ambito del
festival “Incroci di Civiltà”, si svolse la manifestazione “La Venezia di Miłosz”
180
che permise al pubblico italiano di conoscere meglio la figura e la poesia
dell’autore. L’anno 2012 si aprì poi con una nuova pubblicazione: dopo quasi
trent’anni dall’uscita della prima antologia del poeta, in un paese come l’Italia in
cui si legge poco e ancora meno si legge poesia, fu sorprendente e confortante
l’apparizione di Trattato poetico22. La traduzione venne affidata a Valeria Rossella,
già traduttrice de La fodera del mondo. Infine, un’ultima pubblicazione di Miłosz,
curata da Andrea Ceccherelli sempre per Adelphi, risale al giugno 2013. Si tratta
de La testimonianza della poesia, una serie di sei lezioni in cui il poeta espone il
suo punto di vista sulla poesia. Nello stesso anno venne inoltre pubblicato da
Sellerio, con una prefazione di Miłosz, Il mio secolo. Memorie e discorsi con
Czesław Miłosz di Aleksander Wat, a cura di Luigi Marinelli.
La grandezza di Miłosz risulta sempre più evidente col passare degli anni,
anche se la profondità del suo pensiero, della sua figura di intellettuale, della sua
19
ALESSANDRO AJRES, Czesław Miłosz, La terra di Ulro, in «Slavia», 3, 2001, p. 215.
VITTORIO STRADA, Miłosz nelle terre dell’Apocalisse, in «Il Corriere della Sera», 22 maggio
2001, p. 35.
21
Ibidem.
22
CZESŁAW MIŁOSZ, Trattato poetico, Adelphi, Milano 2012.
20
RIFLESSIONI SULLA RICEZIONE ITALIANA DI CZESŁAW MIŁOSZ
arte poetica complessa e infinitamente ricca di reminiscenze e richiami ai più
ampi contesti della poesia e della filosofia di ogni tempo lo rendono meno accessibile al pubblico più ampio. Possiamo solo augurarci che in futuro si pubblichino altri scritti di Miłosz: è grande il numero delle opere del poeta ancora
inedite in Italia. Le recenti pubblicazioni e l’interesse per la poesia polacca in
generale, suscitato anche dal grande successo che sta riscuotendo la poesia di
Wisława Szymborska, permettono di nutrire speranze in questo senso. Meriterebbero sicuramente di essere presto tradotte e pubblicate anche le ultime poesie
del vecchio maestro, per rendere comprensibile nella sua integrità e completezza
la poetica di Miłosz e le linee dell’evoluzione che essa ha seguito in un periodo
storico così ricco di eventi tragici, ma anche fortemente innovativi ed esaltanti. E
sarebbe veramente auspicabile che si pubblicasse una monografia di qualità per
rendere più accessibile al lettore italiano la poesia di questo poeta e scrittore,
forse troppo grande per essere facilmente recepito.
Qui di seguito pubblichiamo la bibliografia italiana di Czesław Miłosz,
frutto del lavoro svolto per la mia tesi di dottorato. Le opere indicate seguono
l’ordine cronologico. La ricerca delle opere in volume di Czesław Miłosz è basata
sui risultati del catalogo del Servizio Bibliotecario Nazionale messi a confronto sia
con la Bibliografia delle traduzioni in lingua italiana di opere di letteratura e critica
letteraria polacche a cura di Pietro Marchesani e Marcello Piacentini (inedita), sia
coi cataloghi delle case editrici, nel tentativo di individuare eventuali discordanze
o supplire a qualche lacuna.
Quanto agli articoli apparsi sulla stampa, è stato essenziale reperire soprattutto i materiali del periodo precedente all’assegnazione del Nobel. Ho esaminato i più importanti quotidiani e riviste italiane del secolo scorso cercando di
individuare qualsiasi traccia del poeta, limitando la cronologia della ricerca
dall’anno dell’esordio in Polonia (1930) all’ottobre del 1980. I risultati di questo
lavoro si configurano quindi come la più completa bibliografia finora redatta e
contiene articoli mai menzionati prima. Dopo il 1980 (e fino al 2013) mi sono
concentrata sui testi critici più importanti dedicati specificamente alle pubblicazioni di Miłosz, senza soffermarmi sui testi in cui il nome del veniva solo menzionato in contesti ampi e senza che gli venisse dedicata particolare attenzione.
181
ANNA MAŁYSZKIEWICZ
BIBLIOGRAFIA ITALIANA DI CZESŁAW MIŁOSZ
VOLUMI
La grande tentazione: il dramma degli intellettuali nelle Democrazie popolari, Associazione italiana
per la libertà della cultura, Roma 1952
Bielinski et la licorne, L’avenir de la liberté, conférence internationale sous les auspices du Congrès pour la liberté de la culture, Milan, 12-17 septembre 1955, Milan 1955
La mente prigioniera, trad. it. Olga Ceretti Borsini, Aldo Martello, Milano 1955
Europa familiare, trad. it. Riccardo Landau, Silva, Milano 1961
La mente prigioniera, trad. it. Giorgio Origlia, Adelphi, Milano 1981
Il castigo della speranza: 20 poesie, trad. it. Pietro Marchesani, All’insegna del pesce d’oro, Milano 1981
Il poeta ricorda. 24 poesie, trad. it. Pietro Marchesani, Libri Scheiwiller, Milano 1981
Poesie del mondo illuminato, trad. it. Aleksandra Kurczab, Margherita Guidacci, Edizioni Prospettive del mondo, Roma 1981
Czesław Miłosz racconta Czesław Miłosz: conversazioni con Aleksander Fiut, CSEO Biblioteca,
Bologna 1983
Storia della letteratura polacca, trad. it. Lella Faberi, CSEO Biblioteca, Bologna 1983
Poesie, trad. it. Pietro Marchesani, Adelphi, Milano 1983
Czesław Miłosz, Versi di Czesław Miłosz nella traduzione di Pietro Marchesani, G. Upiglio, Milano 1985
182
La mia Europa, trad. it. F. Bovoli, Adelphi, Milano 1985
La mia Europa. Poesie, trad. it. F. Bovoli, UTET, Torino 1986
Il Secolo dell’esilio. Le poesie, trad. it. Maria Grazia Borsalino, Anna Lia Guglielmi, Davide
Rondoni, Centro Culturale S. Carlo, Milano 1988
La fodera del mondo, trad. it. Valeria Rossella, Fondazione Piazzolla, Roma 1996
La terra di Ulro, trad. it. Pietro Marchesani, Adelphi, Milano 2000
Il cagnolino lungo la strada, trad. it. Andrea Ceccherelli, Adelphi, Milano 2002
Abbecedario, trad. it. Andrea Ceccherelli, Adelphi, Milano 2010
Poesie e frammenti italiani, a cura di Piotr Kłoczowski, Adelphi, Venezia 2011
Trattato poetico, trad. it. Valeria Rossella, Adelphi, Milano 2012
La testimonianza della poesia: sei lezioni sulle vulnerabilità del Novecento, trad. it. Andrea Ceccherelli, Adelphi, Milano 2013
ARTICOLI E POESIE SU RIVISTA
Poesia. Campo de’ Fiori, trad. it. Luigi Cini, in «Polonia d’oggi», 1-2, 1950
Gli intellettuali e la nuova fede, in «Il Ponte», 8, 1951
Einstein e i comunisti, in «Tempo Presente», 6-7, 1956
Tre domande agli intellettuali, in «Tempo Presente», 9, 1956
L’amore assoluto. Nota su un giovane narratore polacco, in «Tempo presente», 2, 1957
Polacchi e russi, in «Tempo Presente», 5, 1960
La letteratura polacca e il complesso nazionalista, in «Fiera Letteraria», 14 ottobre 1962
RIFLESSIONI SULLA RICEZIONE ITALIANA DI CZESŁAW MIŁOSZ
Le poesie di Aleksander Wat, in «Tempo Presente», 9-10, 1967
Stanislaw Ignacy Witkiewicz, in «Settanta», 14-15, 1971
Due poesie inedite di Czesław Miłosz: Sugli angeli, Più ti vedo, trad. it. Aleksandra Kurczab,
Margherita Guidacci, in «Prospettive nel mondo», 52, 1980
Figlio d’Europa: chi parla della Storia è sempre al sicuro, Caffè, Addio, Campo di Fiori, Al canto
dell’uccello sulle rive del Potomak, La tua voce, Ciò che era grande, La Caduta, Fedele mia
parola, Non così, in «Nuova Rivista Europea», 19-20, 1980
Perché sono un “pagano” di fronte alla “nuova fede comunista”, in «Nuova Rivista Europea», 19-20,
1980
La fine della poesia come negatività, in «Nuova Rivista Europea», 19- 20, 1980
Cinque poesie inedite del Premio Nobel Czesław Miłosz. Dalla realtà alla fede attraverso la parola:
La stella assenzio, Il pesce, Accusatore, Il compito, Tu che hai ferito, in «Prospettive nel
mondo», 54, 1980
Czesław Miłosz: Consigli, La finestra, Dormo molto, Quando c’è la luna, Dovere, Sugli angeli, Non
di più, trad. it. Pietro Marchesani, in «Alfabeta», 19, 1980
Tre poesie di Czesław Miłosz tradotte da Pietro Marchesani: Veni creator, Œconomia divina, Sugli
angeli, in «Vita e pensiero», 1, 1981
Antigone, trad. it. P. Marchesani, in «Vita e pensiero», 2, 1982
È una grande responsabilità uccidere la speranza, in «Nuova Rivista Europea», 27, 1982
Dostoevskij e l’immaginazione religiosa occidentale, in «L’altra Europa», 4 (202), 1985
Sartre, un eroe di Dostoevskij?, in «Lettera Internazionale», 7, 1986
Le ragioni della speranza, in «Lettera Internazionale», 9/10, 1986
Lo spirito di Pietroburgo, in «Lettera Internazionale», 18, 1988
Sei lezioni in versi, traduzione di Anna Lia Guglielmi, in «ClanDestino», 2, 1988, poi in «ClanDestino», 1, 1992
Poesia dell’Est, poesia dell’Ovest, in «Lettera Internazionale», 26, 1990
Lituania, l’URSS ha già perso, in «La Stampa», 22 gennaio 1991
Elogio dell’esilio, in «Leggere», 41, 1992
Tutto il male che ho incontrato, in «La Repubblica», 18 novembre 1992
Io profeta dell’altra Europa, in «La Stampa», 22 maggio 1993
Un’Europa di liberi pensatori, in «La Stampa», 5 giugno 1993
Scrivere contro gli odi razziali, in «La Stampa», 5 giugno 1993
Poesia per Sarajevo. Il dramma della città nei versi del Nobel Czesław Miłosz, in «La Stampa», 5
settembre 1993
Uccelli, Canto di un cittadino, Œonomia divina, Quaderno a parte: attraverso le gallerie di specchi, Il
giardino delle Delizie, Dopo la cacciata, Annalena, Inverno, Nel barattolo, Il signor Anusewicz, La permanenza, in «Poesia», 95, 1996
Sarajevo, trad. it. Raffaella Belletti, in «Lettera internazionale», 48, 1996
Le porte dell’arsenale, Elegia, Il reame degli uccelli, Caffè, Ritratto della metà del XX secolo, Sentenze, Consigli, Ars poetica?, Genealogia, Linneo, Il cardo, l’ortica, Il senso, trad. it. Valeria
Rossella, in «Poesia», 100, 1996
183
ANNA MAŁYSZKIEWICZ
Temi, trad. it. Giorgio Pillonca, in «Lo Straniero», 2, 1997/1998
Szymborska, poeta della coscienza, in «Poesia», 119, 1998
Lauretta Colonnelli, Czesław Miłosz, “Trastevere, la vera Roma”, in «Il Corriere della Sera», 4
novembre 1999
La raccolta delle albicocche, Incontro, trad. it. Pietro Marchesani, in «Panta», 18, 1999
Io e Gombrowicz due amici così diversi, in «La Repubblica», 22 ottobre 2000
Miłosz: novant’anni contro, in «Il Sole 24 ore», 1 luglio 2001
Il silenzio assoluto della città incontaminata, in «La Repubblica», 16 maggio 2004
La mia poesia sotto le bombe, in «La Repubblica», 14 luglio 2004
Dizionario delle vie di Vilna, trad. it. Andrea Ceccherelli, in «Adelphiana», 3, 2004
Caffè, Alla poesia, in «Poesia», 200, 2005
Contrasti polacchi, trad. it. Andrea Ceccherelli, in «pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi»,
1, 2007
Polonia mia, terra di contraddizioni, in «Il Sole 24 ore», 2 settembre 2007
Josif Brodskij, Czesław Miłosz, Josif Brodskij & Czesław Miłosz, in «La Repubblica», 4 dicembre
2011
L’arte ha perso l’immaginazione religiosa, in «Avvenire», 13 maggio 2012
Capri, trad. it. Luigi Marinelli, Michele Sganga, in «Limes», 1, 2013
OPERE IN VOLUMI DI ALTRI AUTORI
184
Czesław Miłosz, Šestov, o la purezza della disperazione, trad. it. Annalisa Zicari, in Lev Šestov, Sulla
bilancia di Giobbe: peregrinazioni attraverso le anime, trad. it. Alberto Pescetto, con un
saggio di Czesław Miłosz, Adelphi, Milano 1991
Czesław Miłosz, Poesia per Sarajevo, in Predrag Matvejevic, Ex-Jugoslavia. Diario di una guerra,
Magma, Napoli 1995
Czesław Miłosz, Pensieri su T. S. Eliot, trad. it. Vera Verdiani, in Thomas Stearns Eliot, La terra
desolata. Quattro quadretti, trad. it. Angelo Tonelli, Feltrinelli, Milano 1995
Czesław Miłosz, Mia lingua fedele, Spedisci la tua seconda anima, in Luigi Nono, Cacciari Massimo,
Quando stanno morendo. Diario polacco n. 2, Ricordi, Milano 1999
Czesław Miłosz, Pasternak: il poeta come eroe, in Vittorio Strada, La Russia di Pasternak: dal futurismo al Dottor Živago, Feltrinelli, Milano 1999
Czesław Miłosz, Joseph Conrad visto con occhi polacchi, trad. it. Michele Piumini, in Joseph Conrad, Lord Jim, trad. it. Ettore Capriolo, Mondadori, Milano 2003
Czesław Miłosz, Introduzione, in Julian Tuwim, Il ballo all’opera, trad. it. Marco Vanchetti, Livello
Quattro, Roma 2007
Czesław Miłosz, Saluto a Jeanne Hersch, in Jeanne Hersch, Tempo e musica, trad. it. Roberta
Guccinelli, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2009
Dove la domanda si accende, a cura di Camillo Fornasieri, Tommaso Lanosa, Itaca edizioni, Castel
Bolognese 2012
Aleksander Wat, Il mio secolo. Memorie e discorsi con Czesław Miłosz, a cura di Luigi Marinelli,
Sellerio Editore, Palermo 2013
RIFLESSIONI SULLA RICEZIONE ITALIANA DI CZESŁAW MIŁOSZ
ARTICOLI SULLA STAMPA
Luigi Cini, La lirica nella guerra e nella liberazione, in «Fiera Letteraria», 25 settembre 1947
Raffaello Franchini, Il pensiero socializzato, in «Il Mondo», 26 luglio 1952
Nicola Chiaromonte, La mente prigioniera, in «Il Mondo», 27 ottobre 1953
Jean De Valmont, Contributo alla libertà della cultura. La mente prigioniera, in «Fiera Letteraria»,
15 novembre 1953
Vittorio De Caprariis, La mente prigioniera, in «Il Mulino», 4, 1954
Renato Solmi, Diffuggere nives?, in «Nuovi argomenti», 14, 1955
Arrigo Cajumi, Pot pourri, in «Il Mondo», 19 luglio 1955
Miłosz Czesław, La mente prigioniera, in «Libri e riviste», ottobre 1955
Gustav Herling, Prosatori polacchi in Italia, in «Tempo Presente», 9-10, 1961
Enzo Maizza, Czesław Miłosz, Europa familiare, in «Humanitas», 7, 1962
Pietro Marchesani, Un poeta dell’esistenza, in «La Stampa», 10 ottobre 1980
Walter Rosboch, Nobel a Miłosz, polacco in esilio, in «La Stampa», 10 ottobre 1980
Francesco S. Alonzo, Dal cappello stregato del Nobel esce Miłosz, in «Il Corriere della Sera», 10
ottobre 1980
Giulio Nascimbeni, Il premio di Babele, in «Il Corriere della Sera», 10 ottobre 1980
Giovanna Spendel, Il Nobel sceglie un poeta polacco, in «L’Unità», 10 ottobre 1980
Walter Rosboch, Se Alfredo Nobel vedesse…, in «La Stampa», 13 ottobre 1980
Ivar Ivask, La colonna senza fine: la letteratura dell’Est europeo e l’esempio di Miłosz, in «Nuova
Rivista Europea», 19-20, 1980
Josif Brodskij, Miłosz e la resistenza al dolore, in «Nuova Rivista Europea», 19-20, 1980
Giorgio Origlia, Miłosz e l’architettura dalle ceneri, in «Nuova Rivista Europea», 19-20, 1980
Krzysztof Dybciak, Dalle atrocità del mondo alla grandezza del destino umano, in «Prospettive nel
mondo», 52, 1980
Giancarlo Vigorelli, Per conoscere Miłosz, in «Nuova Rivista Europea», 15, 1980
Francesco M. Cataluccio, Intellettuali e classe operaia in Polonia, in «Critica marxista», 6, 1980
Walter Rosboch, Miłosz riceve il Nobel a Stoccolma accompagnato da 4 dissidenti polacchi, in «La
Stampa», 11 dicembre 1980
Bogumiła Marzyńska, Il premio Nobel a Czesław Miłosz, in «Le lingue del mondo», 1, 1981
Ennio Caretto, Miłosz: contro un regime di violenza la Polonia di idee, in «La Stampa», 19 dicembre 1981
G.C., La rivolta della «mente prigioniera», in «La Stampa», 19 dicembre 1981
Pietro Marchesani, Czesław Miłosz La mente prigioniera e Il castigo della speranza, in «Vita e
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Massimo Mila, Brividi per il destino della Polonia nel Diario di Nono quasi sussurrato, in «La
Stampa», 5 ottobre 1982
Antonio Porta, Il poeta ci parla dall’altra parte, in «Il Corriere della Sera», 31 agosto 1983, poi, in
Idem, Il progetto infinito, a cura di Giovanni Raboni, Fondo Pier Paolo Pasolini, Roma
1991, con un’erronea indicazione della data 31 agosto 1982
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Sandro Viola, Sinfonia polacca, in «La Repubblica», 9 novembre 1985
Nathan Gardels, Un mondo nuovo di scienza e poesia, in «La Stampa», 4 marzo 1986
Vico Faggi, Cz. Miłosz, La mia Europa, Milano 1985, in «Ridotto», 1-2, 1986
Anna Vicini, Czesław Miłosz, La mia Europa, in «L’altra Europa», 2, 1986
Nico Orengo, Miłosz: il mistero sconfigge i filosofi, non la poesia, in «La Stampa», 5 luglio 1986
Giovanni Ramella Bagneri, Miłosz: “La mia Europa” e “Poesie”, in «Uomini e libri», 113/114, 1987
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Pellegrino della verità, in «Litterae Communionis», 1 dicembre 1988
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Mirella Serri, Miłosz: La mia nuova Polonia in dissenso col Papa, in «La Stampa», 24 giugno 1991
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Franco Loi, Miłosz e i corpi sepolti, in «Il Sole 24 ore», 14 luglio 1996
Comunicazione sacra e profana, in «L’Unità», 16 luglio 1996
Seamus Heaney, Elogio della poesia, in «Lettera Internazionale», 49, 1996
Valeria Rossella, Czesław Miłosz. La terra senza grammatica, in «Poesia», 100, 1996
Sandro Scabello, Miłosz: Via dal Novecento infame, in «Il Corriere della Sera», 31 agosto 1998
Desmond O’grady, Miłosz: dal gulag a San Pietro, trad. it. Chiara Simonetti, in «La Stampa», 14
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Mario Baudino, Si apre oggi la Buchmesse dei Nobel, in «La Stampa», 18 ottobre 2000
Andrea Ceccherelli, Miłosz, autobiografia della Terra desolata, in «Alias», Supplemento settimanale de «Il Manifesto», 3 febbraio 2001
Vittorio Strada, Miłosz nelle terre dell’Apocalisse, in «Il Corriere della Sera», 22 maggio 2001
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Alessandro Ajres, Czesław Miłosz, La terra di Ulro, in «L’Indice», 9, 200
Günter Grass, La responsabilità degli scrittori, in «Lettera Internazionale», 68, 2001
Luigi Marinelli, «La porta senza chiave». Appunti sparsi sull’Io lirico nella poesia polacca contemporanea tra testimonianza, confessione e sfida, in «Critica del testo», (V) 1, 2002
Pietro Citati, Quel dio esausto di Miłosz, in «La Repubblica», 29 dicembre 2002
RIFLESSIONI SULLA RICEZIONE ITALIANA DI CZESŁAW MIŁOSZ
Andrea Ceccherelli, Una postilla a Miłosz metafisico: il “Trattato di teologia”, in «Il Nuovo
Areopago», Anno 23 (N.S.), 1, 2004
Giovanni Casoli, Miłosz poeta dell’esilio, in «Il Nuovo Areopago», Anno 23 (N.S.), 1, 2004
Mario Baudino, Addio a Miłosz, l’apocalittico con le ali, in «La Stampa», 15 luglio 2004
Giuseppe Montesano, Czesław Miłosz, poeta dell’inattualità, in «L’Unità», 15 agosto 2004
Cataluccio M. Francesco, L’esule salvato dalla poesia, in «Il Sole 24 ore», 22 agosto 2004
Heaney Seamus, Czesław Miłosz 1911-2004, in «Poesia», 187, 2004
Valeria Rossella, Czesław Miłosz. La poesia come un magico specchio, in «Poesia», 187, 2004
Maurizio Crippa, Venticinque anni di paragone con tutto, in «Tracce», 10, 2006
Rossella Valeria, La rivincita del lirismo nella nuova poesia polacca, in «Poesia», 211, 2006
Cristo me trae tutto, tanto è bello, in «Tracce», 6, 2007
Pietro Citati, Czesław Miłosz: il mondo come volontà e immaginazione, in «La Repubblica», 4
febbraio 2011
Alessandra Iadicicco, Miłosz: ecco la mia collezione di Ombre, in «La Stampa», 5 febbraio 2011
Edoardo Rialti, Miłosz. Mini-dizionario del Novecento, in «Tracce», 4, 2011
Francesco M. Cataluccio, L’Abc di chi sarà premiato col Nobel, in «Il Sole 24 ore», 24 aprile 2011
Wlodek Goldkorn, Il soldato Attila, in «La Repubblica», 6 maggio 2011
Giuseppe Ceretti, Un premio Nobel con l’abbecedario sotto il braccio ci racconta il Novecento, in «Il
Sole 24 ore», 11 giugno 2011
Giuseppe Di Stefano, I versi di Czesław Miłosz sul ghetto che brucia, in «Il Corriere della Sera», 21
giugno 2011
Maurizio Cucchi, Miłosz, il canto della Polonia perduta, in «La Stampa», 11 febbraio 2012
Franco Marcoaldi, Miłosz ci insegna a non rinunciare alla vera poesia, in «La Repubblica», 12
febbraio 2012
Giovanna Tomassucci, Czesław Miłosz: descrivere le fini dei mondi, in «L’ospite ingrato»,
<www.ospiteingrato.org/Sezioni/Scrittura_Lettura/Milosz.html>
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NOTE E DISCUSSIONI
EMILIANO RANOCCHI
Il nuovo romanzo storico in Polonia e Lituania
«pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», (VI) 6, 2015, pp. 191-198
Alla fine del secolo scorso Jurij Lotman scriveva:
La storia fa fatica a prevedere il futuro, ma è brava a spiegare il presente. Stiamo ora attraversando un periodo di attrazione per la storia. Non è un caso: il tempo della rivoluzione è antistorico per natura, il tempo delle riforme invece invita sempre le persone a
riflettere sui cammini della storia. Jean Jacques Rousseau nel trattato Sul contratto sociale, composto nell’atmosfera tumultuosa della rivoluzione incombente il cui avvento preconizzò come un sensibilissimo barometro, scrisse che lo studio della storia serve solo ai
tiranni. Invece di studiare come le cose siano andate è meglio conoscere come debbano
andare. In epoche simili le utopie teoriche sono più attraenti dei documenti storici.
Quando la società supera il punto critico e lo sviluppo ulteriore comincia a delinearsi
non più come la creazione di un mondo nuovo sulle rovine del vecchio, bensì come evoluzione organica e continua, la storia ritorna in possesso dei suoi diritti 1.
Queste parole ci sono utili come punto di partenza per comprendere la
comparsa parallela sulla scena letteraria polacca e lituana contemporanee di due
grandi testi in prosa appartenenti a un genere che avevamo forse a torto ritenuto
agonizzante nella letteratura occidentale: il romanzo storico. Beninteso, il postmoderno, nel suo progetto di contaminazione dei generi e degli stili, non aveva
tralasciato di giocare anche con il romanzo storico, basti pensare al caso emblematico del Nome della rosa che però, a uno sguardo meno ingenuo, non risulta
essere altro che un travestimento (tant’è vero che la ricostruzione storica non solo lascia molto a desiderare, ma è addirittura spesso e volentieri consapevolmente distorta). La discriminante infatti non sta nella questione genologica (i romanzi storici non hanno mai smesso di essere scritti), quanto nella funzionalità che
connota la scelta del genere all’interno di un determinato contesto storico. In altre parole: ci sono momenti nei quali la scelta del romanzo storico travalica que1
JURIJ LOTMAN, Besedy o russkoj kul’ture. Byt i tradicii russkogo dvorjanstva (XVIII – načalo
XIX veka), Iskusstvo – SPB, Sankt-Peterburg 2001, pp. 12-13. La traduzione è mia E.R.
191
EMILIANO RANOCCHI
stioni di poetica personale o ragioni di mercato e diventa presa di posizione forte sul presente, in sostanza azione politica. È stato così nella seconda metà del
secolo scorso, quando Sienkiewicz pubblicava la Trilogia di cui si sarebbero nutrite generazioni di lettori polacchi, è di nuovo così oggi quando due scrittrici
diverse, ma prossime per orientamento etico, politico e intellettuale, Olga Tokarczuk e Kristina Sabaliauskaitė, fanno un’operazione funzionalmente simile a
quella realizzata da Sienkiewicz alla fine dell’Ottocento, anche se il contenuto
dell’operazione stessa, l’immagine del sé nazionale che si vuole trasmettere alle
rispettive nazioni, è diametralmente opposta a quella proposta da Sienkiewicz in
tutt’altra temperie storica. Se infatti Sienkiewicz scriveva “per rincuorare” (ku
pokrzepieniu serc) il popolo polacco diviso dalle spartizioni e riunirlo al di là delle divisioni politiche nella memoria della gloria nazionale del passato, l’intento
delle due scrittrici è quello di decostruire l’idea monolitica di nazione, retaggio
ottocentesco e postcomunista, e di mettere in discussione la narrazione tradizionale che i due rispettivi popoli si raccontano da generazioni. A questo scopo ritorna dunque utile il romanzo storico tradizionale; non il travestimento postmoderno, nel quale il costume storico non è che un requisito sottratto al vastissimo
192
repositorio delle forme della cultura occidentale, sostituibile e intercambiabile
senza che nulla di sostanziale vada perduto, ma una finzione costruita con tutti
gli strumenti della tradizione narrativa (benché attualizzati, come vedremo), e
preceduta da un accuratissimo e approfondito studio delle fonti e dei documenti
storici. L’autore di un romanzo storico possiede una preparazione che spesso
non ha nulla da invidiare a quella di uno studioso (la Sabaliauskaitė di formazione è storica dell’arte), ma il risultato delle sue ricerche non è un saggio scientifico, bensì un romanzo, il cui scopo non è la ricostruzione antiquaria del passato (quello è caso mai lo strumento), bensì una presa di posizione sul presente.
È appunto questo il caso dei due romanzi di cui andiamo a parlare,
Księgi Jakubowe di Olga Tokarczuk e Silva Rerum di Kristina Sabaliauskaitė2.
2
OLGA TOKARCZUK, Księgi Jakubowe albo Wielka Podróż przez siedem granic, pięć języków i trzy
duże religie, nie licząc tych małych. Opowiadana przez zmarłych, a przez autorkę dopełniona metodą koniektury, z wielu rozmaitych ksiąg zaczerpnięta, a także wspomożona imaginacją, która to jest
największym naturalnym darem człowieka. Mądrym dla memoriału, kompatriotom dla refleksji,
laikom dla nauki, melancholikom zaś dla rozrywki, Wydawnictwo Literackie, Kraków 2014; KRISTINA SABALIAUSKAITĖ, Silva Rerum I, Baltos Lankos 2008; EADEM, Silva Rerum II, Baltos Lankos 2011; EADEM, Silva Rerum III, Baltos Lankos 2014. La traduzione polacca del primo volume, ad opera di Izabela Korybut-Daszkiewicz, è appena uscita per la casa editrice Znak.
IL NUOVO ROMANZO STORICO IN POLONIA E LITUANIA
Księgi Jakubowe, premiato di recente con il più prestigioso premio letterario polacco, il Nike, è stato l’avvenimento letterario del 2014. Silva Rerum (anch’essa
riccamente premiata) è invece un ciclo, per il momento una trilogia, costituita da
tre romanzi autonomi, ma collegati tra loro. I singoli romanzi sono usciti rispettivamente nel 2008, 2011 e 2014.
Il romanzo di Olga Tokarczuk narra le vicende del sedicente messia Jakub Frank, dei suoi discepoli e di tutte le persone che, direttamente o indirettamente, sono venute a contatto con il movimento o vi hanno preso parte lungo
l’arco di più di mezzo secolo (la narrazione prende l’avvio nel 1752). E si tratta
veramente di una “folla variopinta”, per parafrasare il titolo dell’ultima, imponente monografia scientifica sul movimento frankista3.
Il ciclo di romanzi di Kristina Sabaliauskaitė ripercorre le vicende di tre
generazioni di una famiglia della media nobiltà della Samogizia, i Norvaiša.
L’azione del primo libro è ambientata nel 1669, a cent’anni esatti dall’Unione di
Lublino (la scelta ovviamente non è casuale), quella del secondo tra il 1707 e il
1710, quella del terzo a metà del Settecento. Le vicende dei Norvaiša, come
emergerà nel corso dei tre romanzi, hanno un legame nascosto con quelle del casato dei principi Radvilas (Radziwiłł) e anche qui, nel terzo romanzo, compare
un motivo ebraico, la figura leggendaria di Walenty Potocki, alias Abraham ben
Abraham detto Ger Cedek (“lo straniero giusto”), aristocratico polacco convertitosi al giudaismo e per questo arso sul rogo.
Ho fatto riferimento all’attualizzazione delle forme della tradizione narrativa che caratterizza entrambi i romanzi (per semplificazione tratto Silva Rerum come un’opera unica). Intendo con questo che entrambe le scrittrici non si
limitano a riesumare un genere ottocentesco, ma gli infondono nuova vita grazie
a un’invenzione narrativa magistrale che fa dei due romanzi anche due grandi e
riusciti esperimenti letterari. Non sono dunque due romanzi dell’ottocento quelli
che leggiamo, bensì due audaci prose del XXI secolo. Non c’è dubbio che sia
proprio l’invenzione narrativa a far sì che la proposta ideologica delle due scrittrici sia così convincente e autorevole come pronunciamento sul presente.
Le Księgi Jakubowe (il titolo completo gioca con la lunghezza dei titoli di
epoca barocca), riunite in un unico volume di circa novecento pagine, numerate
3
PAWEŁ MACIEJKO, Wieloplemienny tłum. Jakub Frank i ruch frankistowski, 1755-1816, Wydawnictwo w Podwórku, Gdańsk 2014 (ed. orig.: The Mixed Multitude. Jacob Frank and the Frankist Movement, 1755-1816, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 2011).
193
EMILIANO RANOCCHI
a partire dalla fine, sono in tutto sette: sette come i giorni della creazione, come i
giorni che Noè attese prima di liberare la colomba dall’arca, come i comandamenti rabbinici, le benedizioni che si pronunciano nei matrimoni e così via. Sul
piano grafico la narrazione dell’autrice è distinta dai testi fittizi dei personaggi
con l’uso di caratteri differenti. Se a questa complessa struttura narrativa e visiva
aggiungiamo le immagini di tanto in tanto inserite nel testo, capiamo bene che
nel libro della Tokarczuk significante non è solo il contenuto verbale, ma anche
la veste grafica e la sua stessa fisicità di oggetto. In altre parole le Księgi Jakubowe sono un’opera di “liberatura”4. Tutti gli elementi, verbali e non, del libro
concorrono in egual misura a trasmetterne il contenuto. La numerazione decrescente delle pagine, se da un lato è un chiaro ossequio alla tradizione ebraica,
dall’altro suggerisce associazioni con altri libri dell’avanguardia novecentesca
come Finnegan’s Wake, la cui paginazione (solo apparentemente lineare) per volontà dell’autore avrebbe dovuto essere fissa e non modificabile5. Il paragone
con Finnegan’s Wake non appaia peregrino: in entrambi i casi abbiamo a che fare con libri oggetto e libri cosmo.
Dal punto di vista strettamente compositivo infine va ricordato che le
194
Księgi sono scritte interamente al presente, il più bel presente storico dopo quello di Cesare, con una sintassi serrata, perlopiù a brevi frasi paratattiche, che contribuisce all’effetto di sequenza cinematografica e senza dubbio lascerà un segno
nella prosa polacca a venire.
La ricerca formale della Sabaliauskaitė non riguarda invece l’aspetto visuale del libro (anche se le copertine, con motivi ripresi dagli stucchi della chiesa
dei Santi Pietro e Paolo a Vilnius, sono state scelte dall’autrice), ma si concentra
piuttosto sulla narrazione stessa, nella quale non incontriamo un solo dialogo. Il
lettore può non rendersene conto ad una prima lettura, tanto appare naturale la
virtuosistica prosa della scrittrice, sviluppata in periodi ipotattici di estrema
complessità che si estendono su pagine intere fino a comprendere anche cinquanta subordinate. Questa ipotassi ipertrofica, insolita anche per una lingua altamente
flessiva come il lituano, più che appesantire la lettura, ne aumenta l’effetto di ten4
EMILIANO RANOCCHI, Liberatura tra avanguardia e tradizione. Bilancio del primo decennio, in
Avanguardie e tradizioni nel XX e XXI secolo fra Polonia, Italia e Europa. Storia – Cultura – Arte
– Letteratura, Accademia Polacca delle Scienze, Roma 2013, pp. 255-275.
5
Cfr. KATARZYNA BAZARNIK, Joyce & Liberature, Litteraria Pragensia, Praha 2011. Purtroppo
non tutte le edizioni dell’opera rispettano la volontà di Joyce.
IL NUOVO ROMANZO STORICO IN POLONIA E LITUANIA
sione narrativa contribuendo a rendere incalzante il ritmo dell’azione. La scelta di
rinunciare al dialogo inoltre non è un mero capriccio formale, bensì un’operazione altamente significativa, anche questa suscettibile di rimandi alle avanguardie
del XX secolo. Questa volta non sparisce una lettera dell’alfabeto, ma un procedimento retorico della narrazione tradizionale, a segnalare così che i personaggi
non possono parlare con la loro voce e nella loro lingua, perché la lingua dei
personaggi non è la lingua del narratore. I protagonisti del romanzo infatti appartengono tutti alla nobiltà lituana tra metà del XVII e metà del XVIII secolo e
in quanto tali la loro lingua è il polacco. L’autrice ha preferito evitare l’effetto
grottesco e improbabile di farli parlare in lituano. Alle ragioni estetiche se ne
aggiungono però di più profonde.
Tocchiamo così un altro elemento comune alle due prose: una profonda
riflessione critica sulla lingua come veicolo dell’identità o piuttosto (e al contempo) come strumento che permette di decostruire le identità ricevute. La censura,
consapevole e meditata, sulla lingua parlata dai personaggi va a toccare infatti uno
dei punti più nevralgici dell’identità lituana moderna, quello del rapporto con il
colonizzatore e occupante polacco. Scegliendo come protagonisti della sua saga
familiare i membri di una famiglia nobile lituana, anzi addirittura della Samogizia,
il centro mitico di irradiazione dell’identità lituana, e togliendo loro al contempo
la parola, la scrittrice costringe il lettore lituano a fare i conti con un passato più
complesso di quanto gli sia stato trasmesso dall’insegnamento scolastico o dalla
narrazione ufficiale dei media. In seguito a questa operazione la categoria di colonizzazione e predominio culturale si rivela insufficiente a rendere ragione di
un’identità che è sempre relazionale e ibrida come qualunque identità. La cosa interessante poi è che ciò che è stato represso sul piano formale della narrazione, la
lingua polacca parlata nel XVII secolo (che non è in ultima analisi che il riflesso
dell’altro in noi stessi, visto che i personaggi non sono polacchi), torna fuori sul
piano lessicale e stilistico del testo. Silva Rerum è infatti scritto in un lituano arcaizzato e per questo irto di polonismi e bielorussismi che hanno fatto sobbalzare
i redattori della prima casa editrice che aveva mostrato interesse per la pubblicazione6. Non avendo minimamente colto l’intenzionalità dell’operazione e convinti
6
Es. kaldra invece dell’usuale (e raccomandato) antklodė (cfr. pol. kołdra, secondo gli etimologi;
ma si veda anche l’italiano coltre); mysliti invece di galvoti; viedras invece di kibiras (< wiadro);
padlagas invece di grindys (< podłoga); zlastis per pyktis (< złość); pravodyti per vesti (< prowadzić, sempre secondo gli etimologi); atramentas invece di rašalas o tušas (< atrament); prova per
195
EMILIANO RANOCCHI
si trattasse di refusi stilistici involontari riconducibili alle radici polacche della
scrittrice (discendente da una delle ultime famiglie autoctone di Vilnius), gli zelanti redattori si dissero pronti ad occuparsi personalmente della revisione lessicale e
stilistica del testo. Al di là dell’elemento aneddotico, per contestualizzare lo zelo
dei redattori occorre anche tener presente che sulla purezza della lingua lituana
vigila un apposito organo di stato, la Commissione Statale della Lingua Lituana
(VLKK: Valstybinė lietuvių kalbos komisija), che può intervenire anche con pene
pecuniarie a sanzionare l’uso errato della lingua in contesti pubblici, ufficiali o legati alla cultura e all’istruzione. Il modello inculcato a forza di decreti nella pubblica istruzione, nei media e nell’editoria è quello di una lingua epurata il più possibile da prestiti o calchi, il che – va detto – si trova sovente in contrasto con la
lingua parlata nel quotidiano. La lingua di Silva Rerum va pertanto nella direzione
opposta a quella imposta a modello dagli organi competenti, ovvero va verso
“l’ospitalità linguistica” invocata da Paul Ricoeur: una lingua paradossalmente
forte nella sua apparente debolezza, perché capace di ospitare al suo interno
l’altro da sé.
Anche nel romanzo della Tokarczuk la riflessione sulla lingua occupa un
196
posto centrale. In una scena già divenuta famosa del primo libro delle Księgi Jakubowe, uno dei tanti personaggi, la poetessa polacca Elżbieta Drużbacka, arrivata in Podolia dalla Wielkopolska, scende dalla carrozza alla ricerca di aiuto
per la sua compagna di viaggio che si era sentita male e si ritrova in una strada
brulicante delle più svariate etnie e nazionalità, dove nessuno la capisce perché
nessuno parla il polacco. Si vuole evidentemente trasmettere in questo modo
un’immagine ben precisa di un paese del passato che troppo irriflessivamente
viene identificato con quello del presente, un paese dove ogni gruppo etnico o
religioso era straniero per tutti gli altri e l’essere straniero, anche in casa propria,
era un’esperienza esistenziale diffusa.
Nel romanzo della Tokarczuk ogni personaggio parla la sua variante del
polacco: la Drużbacka parla (e scrive) il polacco elegante e classicista della corte,
il prete Chmielowski (l’autore delle Nowe Ateny) il polacco maccheronico, irto
teisė e byla (< prawo); vigada per patogumas (< pol. wygoda, blr. vyhada); bovytis per žaisti (<
bawić się); ženytis per vesti o susistuokti (< żenić się) e così via. Va detto peraltro che molte di
queste parole non provengono dal primo dizionario della lingua lituana di Konstantinas Širvidas
(prima edizione completa del 1642), il che fa pensare che la stilizzazione del testo segua criteri
più complessi che non una pedissequa arcaizzazione filologica della lingua. La questione non è
evidentemente esauribile nello spazio di una nota e meriterebbe da sola uno studio.
IL NUOVO ROMANZO STORICO IN POLONIA E LITUANIA
di latinismi, tipico del sarmatismo, lo scriba Nachman (uno dei compagni più
fedeli di Jakub Frank, per molti aspetti alter ego dell’autrice) scrive il polacco
incerto e pieno di calchi degli ebrei, una lingua meticcia che sa di straniero e che
risente delle varie lingue raccolte nel corso del vagabondaggio. Attraverso il plurilinguismo delle Księgi si percepisce chiaramente la proposta provocatoria della
scrittrice. Contrariamente infatti a una vulgata invalsa nella storiografia polacca
e venuta a far parte integrante dell’identità polacca moderna, la Repubblica delle Due Nazioni nel romanzo viene rappresentata in maniera ambivalente: è sì
quel paese multietnico, pluriconfessionale e plurilinguistico che ci è stato inculcato a scuola e all’università, ma è molto meno tollerante di quanto non ci fossimo abituati a pensare, complice in ciò la scelta della vicenda di Jakub Frank e
del XVIII secolo che le fa da sfondo, quando il periodo aureo della tolleranza
religiosa è già da tempo in declino.
Vediamo dunque che, con tutte le differenze derivanti dal diverso contesto in cui si collocano le due opere (la Sabaliauskaitė non deve fare i conti con
Sienkiewicz, ma si contrappone ad una concezione monolitica e monoetnica di
nazione che mutatis mutandis è ancora la stessa dall’Ottocento), le due scrittrici
si oppongono con la loro scrittura a quella che Leonidas Donskis ha recentemente
chiamato la “memoria da souvenir”, la storia privata dei suoi aspetti più difficili e
scomodi, ma anche indispensabili per comprendere il presente, ridotta al gadget
utile al discorso del potere, che sia il magnete con il ritratto di Copernico o la fantasiosa ricostruzione del Palazzo dei Granduchi di Lituania. Donskis scrive:
Arrischierei persino la metafora che l’Unione Europea di oggi sia la storia dimenticata
dell’Europa Centrale divenuta presente politico. […] Ci siamo scambiati di posto, solo
che nessuno se n’è accorto. Noi abbiamo dimenticato e non vogliamo ricordare il nostro
passato perché lo associamo all’insicurezza e alle minacce all’esistenza: pensiamo che non
il parlamento e le leggi, ma solo la formula “una lingua, una cultura, una religione e uno
Stato” siano la garanzia della nostra sopravvivenza politica e della credibilità della nostra
identità. Eppure un tempo la nostra forza nell’Europa Centrale coincideva con un’identità
di parlamento e libertà, eterogenea, culturalmente pluridimensionale, mentre la forza
dell’Occidente era nella struttura omogenea del potere e dell’identità. Oggi tutto è al contrario. La nostra omogeneità oggi è il simbolo del nostro nazionalismo difensivo, e
l’eterogeneità dell’Occidente la sua forza. Noi oggi siamo come l’Occidente dell’età barocca senza la sua potenza politica, mentre l’Occidente di oggi è grosso modo l’Europa
197
EMILIANO RANOCCHI
Centrale dell’età barocca con il potere sia politico che economico7.
E per ritornare alle considerazioni di Jurij Lotman da cui siamo partiti,
non è un caso che il tempo sia infine maturo in entrambi i paesi per una riflessione sul presente che prenda le mosse da un passato, peraltro comune e condiviso da entrambi, anche se con narrazioni diametralmente opposte. Come scrive
Donskis:
Stiamo ancora qui a combattere con la nostra giovane lingua letteraria, ma non con la
verità sociale o politica. Da questa lotta può nascere grande poesia, ma solo la percezione di un vasto processo sociale, anzi politico può dare i natali a un grande prosatore.
Finché non ci confronteremo sul piano morale, ideale ed estetico con la realtà che ci ha
formati, non potrà nascere né un testo serio e originale di filosofia, né letteratura veramente profonda8.
Indubbiamente la Polonia ha alle spalle una storia letteraria molto più
lunga e ricca, ma non è detto che questo si traduca immediatamente in una
maggiore maturità politica. Le minacce all’incolumità personale ricevute da Ol198
ga Tokarczuk in seguito alle parole pronunciate in occasione della consegna del
premio Nike, le reazioni isteriche di parte della popolazione all’accoglienza di
profughi e migranti, infine la recente svolta politica mostrano tutta l’urgenza di
una riflessione sincera e onesta. Ancora una volta tocca agli scrittori essere la coscienza della nazione.
7
LEONIDAS DONSKIS, Suvenyrinės atminties ir istorijos alternatyva: Kristinos Sabaliauskaitės
“Silva Rerum”, <www.bernardinai.lt/straipsnis/2010-04-07-leonidas-donskis-suvenyrines-atminti
es-ir-istorijos-alternatyva-kristinos-sabaliauskaites-silva-rerum/43026>.
8
Ibidem.
JACEK GŁAŻEWSKI
Rewizja kanonu. O serii „Biblioteka Dawnej Literatury
Popularnej i Okolicznościowej”
«pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», (VI) 6, 2015, pp. 199-204
Bez względu na wiarę w możliwość uprawiania historii literatury „bez
gniewu i upodobania”, a więc z należytą dozą naukowego obiektywizmu i warsztatowej powagi, historycy literatury – tak samo jak przedstawiciele innych pokrewnych dyscyplin humanistycznych – dają w swych pracach świadectwo statusu świadomości badawczej swoich czasów. Niezależnie od deklaracji metodologicznych, inklinacji teoretycznych czy sympatii pisarskich, w rozlicznych studiach i monografiach odnotować można rejestr specyficznego typu spostrzeżeń
oraz uwag, które charakteryzują horyzont intelektualny dociekań literaturoznawczych danego okresu. Jednym ze stałych elementów owego retorycznego
inwentarza jest wyrażane na niezliczone sposoby przekonanie, że dane zagadnienie badawcze nie było do tej pory przedmiotem zadowalającej analizy. Argumentem pomocniczym bywa tutaj często niewiarygodnie rozpoznany, a nawet
zapoznany korpus źródeł historycznoliterackich. Choć tak zarysowanemu wyjściowemu stanowisku wydają się przeczyć szczegółowe przypisy mieszczące bibliograficzną historię wskazanej problematyki, to nie sposób nie zauważyć, że
znaczna część książek naukowych, stanowiących „urobek” polskiego życia akademickiego, obraca się w zaklętym kręgu tych samych nazwisk, tytułów, kluczy
interpretacyjnych. Przy czym mowa tu nie o krótkotrwałych modach intelektualnych, które szybko przemijają, okrywając truchła swych akolitów pyłem ideologicznych starć i politycznych deklaracji. Rzecz raczej w doborze źródeł – jego
nieprzemijającej ortodoksji nie usprawiedliwiają nawet rozważania poświęcone
najwybitniejszym twórcom. Częstotliwość ukazywania się – nieomal zawsze odkrywczych bądź rewolucyjnych – „monografii” czy „syntez” bywa bowiem odwrotnie proporcjonalna do ich rzeczywistej jakości.
Tym bardziej cieszą więc inicjatywy naukowe, które wychodzą naprzeciw
potrzebie historycznoliterackich przewartościowań, oferując badaczom dostęp
199
JACEK GŁAŻEWSKI
do tekstów mniej znanych, zapomnianych czy źle zapamiętanych. Jedną z nich
jest afiliowana przy Wydziale Polonistyki Uniwersytetu Warszawskiego seria
edytorska „Biblioteka Dawnej Literatury Okolicznościowej i Popularnej”1.
Wzrost zainteresowania piśmiennictwem okolicznościowym i popularnym przypada w literaturoznawstwie polskim na okres międzywojenny, kiedy to
swoje pierwsze książki na ten temat przygotowują Juliusz Nowak-Dłużewski
oraz Julian Krzyżanowski (aczkolwiek ich najważniejsze prace ukażą się po drugiej wojnie światowej)2. Refleksji analityczno-interpretacyjnej już wówczas towarzyszy przekonanie, że teksty należące do owego nurtu są doskonałym świadectwem wyobraźni, mentalności i przekonań przeciętnych mieszkańców dawnej
Rzeczypospolitej. Z tego też powodu teksty okazjonalne, ulotne, popularne stały
się nieodłącznym elementem egzemplarycznym w studiach na temat obyczajów
staropolskich XVI-XVIII wieku – przykładem prace Jana Stanisława Bystronia
czy Władysława Łozińskiego3. Z czasem jednak literatura uzyska tu swą przedmiotową odrębność, czego dowodzą m.in. prace Edmunda Kotarskiego, Stefana
Nieznanowskiego, Edmunda Rabowicza4.
Nie ulega jednak wątpliwości, że nawet najbardziej szczegółowe studia
200
historycznoliterackie, będące efektem bogatych kwerend archiwalnych oraz bibliotecznych nie zastąpią bezpośredniego kontaktu z tekstem opracowanym
zgodnie z wymogami stawianymi edycjom krytycznym: opatrzonym wstępem,
objaśnieniami, wyposażonym w aparat krytyczny. Wiadomo zaś, że filologiczne
1
„Biblioteka Dawnej Literatury Okolicznościowej i Popularnej”, redakcja naukowa serii Radosław Grześkowiak, Roman Krzywy (redaktor naczelny), Izabela Winiarska-Górska, Warszawa
2007-2015 (t. I-XIV: Wydawnictwo Neriton, t. XV-XX: Wydawnictwo Naukowe Sub Lupa).
2
Por. JULIUSZ NOWAK-DŁUŻEWSKI, Okolicznościowa poezja polityczna w Polsce, t. 1-6, Warszawa 1963-1980; JULIAN KRZYŻANOWSKI, Romans polski XVI wieku, Lublin 1934; IDEM, Paralele.
Studia porównawcze z pogranicza literatury i folkloru, Warszawa 1935, a także Proza polska wczesnego renesansu, 1510-1550, Warszawa 1954.
3
Por. JAN STANISŁAW BYSTROŃ, Dzieje obyczajów w dawnej Polsce. Wiek XVI-XVIII, t. 1-2,
Warszawa 1976; WŁADYSŁAW ŁOZIŃSKI, Życie polskie w dawnych wiekach, Warszawa 2006.
4
Por. EDMUND KOTARSKI, Gdańska poezja okolicznościowa XVII wieku, Gdańsk 1993; IDEM,
Gdańska poezja okolicznościowa XVIII wieku, Gdańsk 1997; STEFAN NIEZNANOWSKI, Poezja
polityczna, [w:] Słownik literatury staropolskiej. Średniowiecze – renesans – barok, red. Teresa
Michałowska, Wrocław 1990, ss. 649-654; IDEM, Barokowa poezja polityczna, [w:] Problemy literatury staropolskiej. Seria trzecia, red. Janusz Pelc, Warszawa 1978, ss. 295-317; EDMUND RABOWICZ, Okolicznościowa literatura polityczna, [w:] Słownik literatury polskiego oświecenia, red.
Teresa Kostkiewiczowa, Wrocław 1996, ss. 338-351. Wśród ważnych prac należałoby wymienić
dodatkowo: JADWIGA KOTARSKA, Poetyka popularnej liryki miłosnej XVII wieku w Polsce,
Gdańsk 1970; LUDWIKA ŚLĘKOWA, Muza domowa. Okolicznościowa poezja rodzinna czasów renesansu i baroku, Wrocław 1991.
REWIZJA KANONU
rzemiosło nie należy do umiejętności łatwych. Paradoksalnie, odpowiedzialność
naukowa edytora tekstów staropolskich jest w jakimś sensie dużo większa niż interpretatora. Wydawca ma bowiem obowiązek najlepiej jak to możliwe zrozumieć sens opracowywanego przez siebie dzieła, uporządkować jego odmienne
redakcje, przywołać historycznoliterackie konteksty, wyznaczyć zasadniczą oś
lektury. W pracach czysto interpretacyjnych, w których dzieło bywa często tylko
egzemplifikacją naukowej hipotezy, wskazane wyżej elementy nie zawsze są
obecne. Czyni to z wysiłku edytorskiego bardzo specyficzny typ aktywności badawczej, nie zawsze w należyty sposób docenianej.
Redaktorzy serii „Biblioteka Dawnej Literatury Okolicznościowej i Popularnej” postawili przed sobą ambitne, kompleksowe zadanie. Po pierwsze, zaoferować odbiorcom wartościowe edytorsko opracowania wybranych utworów
piśmiennictwa staropolskiego z okresu renesansu i baroku. Po drugie, zaproponować czytelnikom teksty, które ze względu na ich pomniejszą rangę nie zakorzeniły się we współczesnej świadomości historycznoliterackiej, choć – biorąc
pod uwagę ich treść, strukturę, kompozycję, walory ideowe – byłyby z pewnością warte zainteresowania.
Pierwsza część zadania zyskała swoje wzorcowe rozwiązanie. Nie mogło
zresztą być inaczej, skoro inicjatorzy serii należą do grona najlepszych edytorów
i wydawców literatury staropolskiej. Ich wysiłkowi analityczno-badawczemu
współcześni odbiorcy zawdzięczają dzieła twórców tej miary, co Hieronim
Morsztyn, Samuel Twardowski, Mikołaj Sęp Szarzyński i wielu innych, których
teksty opracowywali m.in. dla potrzeb prestiżowej „Biblioteki Pisarzy Staropolskich”, zainicjowanej przed dwudziestu laty przez prof. Adama Karpińskiego. W
kolejnych tomach „Biblioteki Dawnej Literatury Okolicznościowej i Popularnej”
widać zresztą warsztatowe wpływy „warszawskiej szkoły” edytorstwa krytycznego5, choć nie można mówić tu o prostej kontynuacji – część rozwiązań tekstologicznych wyraźnie odróżnia od siebie obydwa wydawnicze przedsięwzięcia (np.
kwestia minuskuły na początku wersów).
Realizacja drugiej części zadania była już bardziej złożona i związana z całościową koncepcji serii. Ta z kolei polegała na przemyślanym wyborze tekstów,
które warto zaoferować współczesnemu odbiorcy. Jest to – jak się wydaje – kwe5
Por. ADAM KARPIŃSKI, Edytorstwo i krytyka tekstu w Polsce u progu XXI wieku. Kontynuacje i
wyzwania, [w:] Humanizm i filologia, red. Adam Karpiński, Warszawa 2011, ss. 491-512.
201
JACEK GŁAŻEWSKI
stia fundamentalna, ponieważ stosunkowo łatwo popełnić tu błąd, polegający na
swoistym braku kontroli równowagi. Rzecz przecież nie w tym, aby udostępnić
każde dzieło zachowane w rękopisie lub druku, lecz by z owego udostępnienia
uczynić sensowne działanie kulturotwórcze.
„Biblioteka Dawnej Literatury Okolicznościowej i Popularnej” stanowi
w tym kontekście bardzo interesującą i zrównoważoną propozycję lekturową.
Wśród wydanych dotychczas poręcznych tomików znalazły się bowiem pomniejsze, choć istotne w perspektywie pełnego dorobku artystycznego, dzieła pisarzy wybitnych, ale również teksty dotychczas mniej eksponowane w badaniach
historycznoliterackich. Do pierwszej grupy należą m.in. utwory Stanisława
Morsztyna (Smutne żale), Wacława Potockiego (Smutne zabawy), Jana Rybińskiego (Księga elegii podróżnych), Samuela Twardowskiego (Epitalamia, poemat
Książę Wiśniowiecki Janusz). Do drugiej grupy zaliczyć można np. dziełka Jakuba Łącznowolskiego (Nowe zwierciadło, modzie dzisiejszego stroju akomodowane), Jacka Mijakowskiego (Kokosz), Eliasza Pielgrzymowskiego (Apostrofa panegiryczna), Jakuba Podhoreckiego (Nemezis kraju północnego), Tobiasza Wiszniowskiego (Treny).
202
Widać zatem, że redaktorzy serii starali się odzwierciedlić w niej w miarę
rzeczywisty obraz piśmiennictwa okolicznościowego i popularnego epok dawnych, przedstawiając teksty o bardzo różnorodnej wartości artystycznej, co właściwie jest cechą każdej epoki. Znaczenie artystyczne utworów, a zatem pośrednio również uzasadnienie krytycznego opracowania, zostało omówione we wstępach, stanowiących rodzaj ścisłego wprowadzenia do problematyki istotnej dla
prezentowanego tekstu – nie ma tu w gruncie rzeczy miejsca na swobodne i
rozwlekłe dywagacje, które częstokroć cechują prace historycznoliterackie.
Pragmatyka wywodu służy zasadniczemu celowi: prezentacji dawnego dzieła, z
całą jego nieoczywistością literacką, aparatem symboliczno-znaczeniowym, intertekstualnym kontekstem oraz ideową wymową.
Dzięki takiemu podejściu, seria „Biblioteka Dawnej Literatury Okolicznościowej i Popularnej” pozwala w nowy sposób spojrzeć na historię dawnego
polskiego piśmiennictwa. Nie oferuje może perspektywy rewolucyjnej, ale z
pewnością umożliwia rewizję dotychczasowych ujęć w dwojakim tego słowa rozumieniu. Po pierwsze, uzupełnia wiedzę o dokonaniach artystycznych najwybitniejszych pisarzy, poszerzając kanon ich dorobku o dzieła mniejszej rangi –
REWIZJA KANONU
niesłusznie skazane na pobyt w historycznoliterackim czyśćcu, natomiast będące
wiarygodnym świadectwem kultury literackiej XVI-XVII wieku, a także przykładem wielu interesujących zjawisk z zakresu historii życia społecznego, np.
stosunków klientalnych ówczesnej Rzeczypospolitej. Po drugie, rewaloryzuje
korpus piśmiennictwa dawnego, wskazując na utwory ponad wszelką wątpliwość czytane i komentowane przez współczesnych. Dzisiejsza historycznoliteracka wizja dawnej kultury jest bowiem rodzajem intelektualnej hipotezy, skonstruowanej na bazie dostępnych, a przecież niepełnych i przez całe dziesięciolecia przewartościowywanych źródeł. Tomiki publikowane w ramach serii „Biblioteka Dawnej Literatury Okolicznościowej i Popularnej” umożliwiają nieco bardziej realistyczne spojrzenie.
Istnieje jeszcze jeden element o charakterze „rewizjonistycznym”, który –
w perspektywie działań edytorskich – odnosi się nie tylko do piśmiennictwa
okolicznościowego czy popularnego, ale po prostu do konstrukcji całego kanonu
literatury staropolskiej. Otóż, profesjonalne edycje krytyczne pomniejszych dzieł
nakazują przyjrzeć się dostępnym współcześnie wydaniom utworów, uznawanych za największy skarb dawnego piśmiennictwa. Na nową, wiarygodną filologicznie edycję zasługują przecież – a to jedynie pierwsze z brzegu exempla – publicystyka polityczna Stanisława Orzechowskiego, Niepróżnujące próżnowanie
Wespazjana Kochowskiego, Emblemata Zbigniewa Morsztyna…
Chciałoby się wierzyć, że kolejne tomiki publikowane w ramach „Biblioteki Dawnej Literatury Okolicznościowej i Popularnej” są częścią szerszej filologicznej fali, która w przyszłości obejmie również arcydzieła literatury staropolskiej.
W serii dotychczas ukazały się:
T. 1: Samuel Twardowski, Epitalamia, oprac. R. Krzywy (2007)
T. 2: Stanisław Morsztyn, Smutne żale po utraconych dzieciach, oprac. D.
Chemperek, R. Krzywy (2007)
T. 3: Jacek Mijakowski, Kokosz panom krakowianom w kazaniu za kolędę
dana, oprac. R. Mazurkiewicz (2008)
T. 4: Tobiasz Wiszniewski, Treny, oprac. J. Wójcicki (2008)
T. 5: Kadasylan Nowokracki, Fraszki i facecje, oprac. R. Grześkowiak
(2009)
T. 6: Paweł Palczowski, Kolęda moskiewska, oprac. G. Franczak (2010)
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JACEK GŁAŻEWSKI
T. 7: Jakub Dusza Podhorecki, Nemezis kraju północnego, oprac. A. Oszczęda (2010)
T. 8: Stanisław Dobiński, Świt wierszów na święta Najświętszej Maryi
Panny światu wydany, oprac. R. Mazurkiewicz (2011)
T. 9: Abraham Rożniatowski, Utwory okolicznościowe, oprac. R. Krzywy
(2011)
T. 10: Eliasz Pielgrzymowski, Apostrofa panegiryczna, oprac. B. Awianowicz (2012)
T. 11: Wacław Potocki, Smutne zabawy, oprac. zespół pod kierunkiem R.
Krzywego (2012)
T. 12: Jakub Łącznowolski, Nowe zwierciadło modzie dzisiejszego stroju
akomodowane, oprac. P. Borek, E. Wrona (2013)
T. 13: Samuel Twardowski, Książę Wiśniowiecki Janusz, oprac. R. Krzywy (2014).
T. 14: Hieronim Morsztyn, Wiersze padewskie, oprac. R. Grześkowiak
(2014)
T. 15: Stanisław Reszka, List do Szymona Szymonowica, oprac. i przekład
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A. Masłowska-Nowak, K. Tomaszuk (2014)
T. 16: Lenart Gnoiński, Łzy smutne, oprac. A. Oszczęda (2014)
T. 17: Dwa kazania wygłoszone po śmierci Tomasza Zamoyskiego, oprac.
B. Czarski (2014)
T. 18: Krzysztof Stanisław Zawisza, Miłość bez odmiany mocna jako
śmierć, oprac. R. Rusnak (2015)
T. 19: Jan Rybiński, Księga elegii podróżnych, przekład E. Buszewicz,
wstęp i oprac. E. Buszewicz, W. Ryczek (2015)
T. 20: Historia o szlachetnej a pięknej Meluzynie, oprac. R. Krzywy (2015)
RECENSIONI
RECENSIONI
PAWEŁ HUELLE
Śpiewaj ogrody
Znak, Kraków 2014
Se qualcuno pensava che la letteratura delle Piccole patrie (o “delle radici”, se preferite) fosse
ormai un modello superato, sarà lieto di ritrovare nel romanzo Śpiewaj ogrody i classici elementi
di una prosa che ha assicurato a Paweł Huelle decenni di successi e un ruolo di primo piano tra
gli scrittori della sua generazione.
Ma andiamo con ordine. Il titolo, Śpiewaj ogrody, è solo la prima delle molteplici citazioni che infarciscono le più di trecento pagine del romanzo. Si tratta della traduzione (di Mieczysław Jastrun) del primo verso di uno dei Sonetti ad Orfeo di Rainer Maria Rilke. “Singe die
Gärten, mein Herz, die du nicht kennst” recita la poesia, ovvero “Canta i giardini che non sai,
mio cuore”. Lo scrittore di Danzica, attraverso queste parole, sembra voler invitare il lettore a
conoscere, a contemplare i misteri e i tesori che l’esistenza cela dietro le apparenze. Ma il poeta
austriaco rappresenta molto più di una citazione occasionale. È fondamentale in Huelle l’idea,
così chiaramente espressa anche nei Sonetti ad Orfeo, che l’arte possa contrapporsi alla morte,
costituendo una valida alternativa alla decadenza, alla natura effimera dell’esistenza. Si sa che
Huelle ha posto come principale obiettivo della propria scrittura quello di cantare Danzica, di
resuscitarne la memoria storica restituendo l’essenza di un luogo al quale non si può guardare
senza tenere conto dell’esperienza della guerra e della distruzione.
Sullo sfondo della solita Danzica città-palinsesto, dunque, sono ben tre le storie che
s’intrecciano in questo romanzo. La prima narra la vicenda dei coniugi Hoffmann, forse la più
passionale e romantica delle coppie create da Huelle. Lui, Ernest Teodor (il nome è uno scoperto omaggio letterario al grande scrittore e compositore tedesco), è un musicista non realizzato,
lei, Greta, una cantante sconosciuta. Colti, democratici, tolleranti e dunque incapaci di aderire al
nazismo in rapida ascesa, vivono il pieno della vita nella Città Libera di Danzica, presaghi della
futura catastrofe. Abitano in una magnifica casa borghese che, inutile dirlo, si trova in via Polanki, il centro mitico dell’universo di Huelle, il punto di osservazione privilegiato a partire dal quale l’autore – con le tessere di storie private, familiari, inventate – allestisce il suo mosaico danzichiano fin dai tempi di Weiser Dawidek (Cognome e nome Weiser Dawidek, trad. it. Vera Verdiani, Feltrinelli, Milano 1990).
La seconda vicenda prende inizio con le rovine ancora fumanti della città e l’insediamento della popolazione polacca al seguito dell’Armata Rossa. La storia di Greta s’intreccia così
con quella della famiglia dello scrittore, il cui padre – un giovanotto di Tarnów giunto a Danzica
per studiare al Politecnico e costruirsi un futuro – ottiene dalle autorità comuniste un “przydział”,
ovvero uno spazio in assegnazione nella casa della donna. Greta decide di rimanere a Danzica
dopo la fine della guerra e di attendere il marito, di cui si sono perse le tracce, nell’unico luogo al
mondo dove hanno qualche remota speranza di rincontrarsi. Così la narrazione storica s’incanala
nel solco della prosa autobiografica, e il lettore si trova presto proiettato nell’universo del succitato romanzo (quindi nella Polonia popolare dell’era gomulkiana).
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PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI / (VI) 6 / 2015
Il terzo piano narrativo è introdotto dall’autore attraverso lo stratagemma letterario del
manoscritto ritrovato: il lettore conosce la storia di un libertino francese (sul modello del Marchese de Sade) trasferitosi a Danzica alla metà del XVIII secolo. Proprietario della casa e dei terreni in via Polanki, la sua storia è giunta a Greta (e da lei al narratore e dunque al lettore) attraverso il suo diario, tradotto dal francese dal padre di Ernest Teodor. Anche se di simili stratagemmi non sarebbe il caso di abusare, Huelle cede alla tentazione di proporci anche il motivo di
una misteriosa partitura ritrovata: il marito di Greta entra in possesso di un manoscritto musicale che poi si rivelerà essere una sconosciuta opera di Wagner, ispirata alla leggenda medievale
del Pifferario magico (o Pifferario di Hamelin) resa nota nella versione fiabesca dei fratelli
Grimm. Ernest Teodor Hoffmann coltiva il sogno di riscattare la propria carriera musicale ricostruendo e portando a termine l’opera del grande compositore.
Attraverso un intreccio costruito con innegabile perizia, Huelle dissemina il romanzo di
riferimenti simbolici e intertestuali. Non si può non avvertire un’eco del mito orfeico nella vicenda dell’affascinante Greta, decisa ad attendere fedelmente e per sempre il marito nell’inferno
postbellico della Polonia socialista. Inoltre il lettore potrebbe cogliere nella leggenda medievale
di cui sopra un richiamo all’imminenza della catastrofe costituita dall’avvento di Adolf Hitler, il
pifferaio che trascinerà il popolo tedesco e l’Europa al disastro (portando altresì all’interruzione
del lavoro alla partitura e alla scomparsa di Ernest Teodor Hoffmann nel marasma della guerra).
Delle tre storie narrate da Huelle, convince di più quella dell’amicizia del narratore bambino
con la donna ormai anziana, una vicenda che ha il suo antecedente letterario nel racconto Il tra-
208
sloco dalla raccolta del 1991 Opowiadania na czas przeprowadzki (Lumache, pozzanghere, pioggia.
Racconti per il periodo del trasloco, trad. it. Vera Verdiani, Milano, Feltrinelli 1995). Proprio come nel racconto, grazie a Greta Hoffmann il futuro scrittore conosce Rilke, Schopenhauer,
Wagner, venendo così letteralmente introdotto al patrimonio culturale tedesco. Non solo: acquisisce la consapevolezza che la sua città apparteneva un tempo ad altri, uomini e donne di una
cultura diversa, il cui lascito, in virtù di questa strana amicizia, ricadrà proprio su di lui. Rispetto
al racconto – e sempre in linea con il modello della prosa di iniziazione caratteristico di molte
narrazioni autobiografiche polacche fin dagli anni Novanta – s’inserisce in Śpiewaj ogrody anche
il motivo casciubo: il signor Bieszk, storico amico paterno, introduce il bambino nella dimensione magica e soprannaturale delle antiche credenze di questa minoranza.
Amore, morte, amicizia, sono solo alcuni dei temi di un romanzo che può essere letto
anche come una riflessione sul male, sulle ragioni – storiche, sociali, morali – che hanno portato
la borghesia europea al fascismo e alla crisi della civiltà occidentale. Non a caso, tra i tanti simboli della cultura tedesca, Huelle sceglie proprio Wagner, personaggio controverso per il noto,
dichiarato e contradditorio antisemitismo oltre che per il diffuso demonismo che ne caratterizza
l’opera. Anche il motivo del sadico libertino e assassino, così come la leggenda del pifferaio magico, sono elementi che rimandano al problema della natura ontologica del male che è alla base
di questo romanzo.
Nulla di nuovo sul Baltico, dunque. Huelle rimane fedele al suo repertorio tradizionale,
riproponendo ai lettori, polacchi e tedeschi, i tradizionali motivi e le tematiche della sua narrativa. Anche il gioco di rimandi tra realtà e finzione letteraria, la densa rete di corrispondenze in-
RECENSIONI
tertestuali, sono ormai pezzi di repertorio. Per esempio, il motivo della presenza o dell’arrivo a
Danzica di un personaggio, reale o d’invenzione: in Śpiewaj ogrody abbiamo la rielaborazione
letteraria dell’episodio storico di un passaggio di Rilke nell’antica città anseatica; nei racconti
avevamo già incontrato Schopenhauer e Napoleone; in Castorp il protagonista della vicenda era
un personaggio addirittura letterario (Hans Castorp della Montagna incantata). Il consueto europeismo culturale celebrato da Huelle – l’intrecciarsi di cultura tedesca e polacca – colpisce positivamente per l’aggiunta del già citato elemento casciubo. Molte battute nelle parti dialogate
del romanzo sono riportate in questa lingua e tradotte in nota a fondo pagina. L’autore e
l’editore hanno scelto di districare parte della fitta trama di rimandi culturali e intertestuali,
esplicitandoli e chiarendoli attraverso l’ausilio d’un apparato di note che tuttavia rischiano di
disturbare durante la lettura, appesantendola con un tono pedagogico che poteva essere in larga
parte evitato.
Śpiewaj ogrody è un romanzo di grande erudizione, scritto in maniera sobria ed elegante, preceduto da un grande lavoro di ricerca e preparazione. Eppure il lettore non può liberarsi
dalla sensazione di leggere qualcosa di noto (non solo rispetto a quanto già scritto da Huelle: le
somiglianze con il romanzo Hanemann di Stefan Chwin sono notevoli). A tratti, soprattutto nelle
narrazioni incentrate sulla memoria privata, ho ritrovato la freschezza delle migliori pagine di
Weiser Dawidek o dei racconti, altrove il racconto si appesantisce (soprattutto nelle decine di
pagine in cui l’autore, noto melomane, si effonde nella minuziosa ricostruzione della partitura di
Wagner). Il romanzo è abilmente architettato, anche se la struttura appare piuttosto macchinosa;
nel complesso non riesce a ritrovare – se non appunto a sprazzi – la scioltezza e la felicità che
caratterizzano i testi brevi di questo grande narratore della memoria.
[Dario Prola]
JAROSŁAW IWASZKIEWICZ
Novelle italiane
traduzione di Dario Prola
21 Editore, Palermo 2014
A distanza di due anni dalla pubblicazione del volume contenente Il ritorno di Proserpina e Hotel Minerva di Jarosław Iwaszkiewicz (Metauro Edizioni, Pesaro 2012), tradotto e curato da Cezary Borowski, è uscita l’opera completa delle novelle italiane del grande scrittore polacco a cura
di Dario Prola ed edita a Palermo dalla casa editrice 21 Editore.
In Novelle italiane (1947) sono raccolte sette perle della narrativa polacca, sette storie
che si svolgono in quelle città del Bel Paese che Iwaszkiewicz amava particolarmente: Venezia,
Firenze, Roma, Siracusa e Palermo. Queste novelle, accomunate da un fil rouge tematico incentrato sul motivo del viaggio in Italia e della vita in albergo, dell’ammirazione delle bellezze artistiche e delle meraviglie del paesaggio, esprimono un contrasto tra l’amara rassegnazione per il
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presente e l’esaltazione dei ricordi, rivelano una profonda riflessione nostalgica di un passato
ormai scomparso, la presa di coscienza di sé e della propria identità culturale.
Benché le novelle recuperino il mito romantico di un’Italia arcadica, dove la natura e
l’antico sono concepiti come strettamente legati tra loro, e presentino a tratti un’intensità lirica
di stampo bucolico-idilliaco, l’autore mantiene un atteggiamento disincantato e una lucidità naturalistica. L’Italia descritta dai romantici era molto spesso immaginaria, non teneva conto della
realtà effettiva. La ricerca spasmodica delle vestigia passate era in molti casi disattesa, dal momento che dinanzi agli occhi degli ammiratori dell’arte greco-romana si trovavano non i templi
vagheggiati, ma cumuli di rovine invase dalla vegetazione e dalle greggi. Tuttavia, in Novelle italiane, a differenza degli stranieri che restano fedeli al mito romantico e che di fronte alle rovine
si immergono in un passato di sogno, gli autoctoni ne sono indifferenti, insensibili, come accade
in Albergo Minerva: “Il tempio era un mucchio di rovine, soltanto in un angolo si ergevano alcune colonne. Rosalina lanciava spesso uno sguardo da quella parte, ma non riusciva bene a capire
che cosa ci vedessero gli stranieri” (p. 137). Dunque, i personaggi di Iwaszkiewicz a volte si esaltano al cospetto delle bellezze che offre loro il Bel Paese, talvolta ne sono distaccati, disinteressati, sembrano pervasi da un’angoscia ricorrente.
Dall’elegiaco trasporto che lo scrittore nutre per la struggente magnificenza del paesaggio italiano, descritta fra l’altro con sublime lirismo, traspare il ricordo della sua Ucraina. In particolare si tratta di quella regione di confine, storicamente appartenuta alla Polonia e caratterizzata da un contesto multiculturale, in cui l’autore aveva trascorso la sua fanciullezza, ma che era
210
irrimediabilmente scomparsa a causa degli sconvolgimenti sociali seguiti alla Rivoluzione russa.
Ora in Sicilia, crogiuolo di civiltà diverse, ora nel cimitero acattolico di Roma (Voci di Roma)
Iwaszkiewicz rievoca impressioni e sentimenti che riconducono alla sua terra natia.
Questa combinazione di effetti lirici e sfumature memorialistiche chiarisce i contorni
della concezione poetica dello scrittore che accosta, in una crescente sfiducia per gli esiti della
storia, il senso della bellezza del mondo alla percezione di morte e solitudine. In Merletti veneziani I e Merletti veneziani II colpisce l’elegante decadenza mortifera che aleggia tra le calli malinconiche di una Venezia piovosa o all’interno di un antico palazzo nobiliare spoglio e disadorno.
Le novelle italiane di Iwaszkiewicz, nate dall’osservazione della realtà durante le sue peregrinazioni in Italia, tratteggiano momenti reali inseriti in uno scenario paesaggistico di forte
impatto emotivo, presentano personaggi contraddistinti da magistrali ritratti psicologici e spirituali, si interrogano sul significato metafisico del destino umano, descrivono la condizione
dell’uomo tra un passato di sogno e un presente minaccioso e alienante, tra la reiterazione di
azioni e gesti quotidiani e l’affiorare di profonde inquietudini, tra incontri inattesi e amori segreti, e mettono in evidenza la crisi della cultura europea e il fallimento della civiltà borghese.
L’intensità malinconica e la poeticità del tessuto narrativo dell’originale sono rese con
abile spontaneità e scioltezza da Dario Prola, il cui lavoro di traduzione è contrassegnato da una
lingua chiara e fluida che restituisce in tutto il suo splendore lo stile particolarmente ricercato e
colmo di figure retoriche dell’autore polacco.
[Andrea F. De Carlo]
RECENSIONI
ŁUKASZ JAROSZ
La forza delle cose
Cura, prefazione e traduzione in italiano di Alessandro Amenta
Traduzione in inglese di Antonia Lloyd-Jones
Liberodiscrivere, Genova 2014
“Il mio posto è nell’amore”. Ho scelto un verso della poesia Vento per iniziare questa recensione, preferendolo a “Non c’è salvezza. Non ci sono vie di fuga” (Il regno). Leggendo e rileggendo
il volume di poesie scelte e tradotte da Alessandro Amenta e pubblicate nell’ambito del Festival
Internazionale di Poesia di Genova e del progetto Versopolis, piattaforma poetica dell’Unione
Europea, restavo incerto tra questi due versi, entrambi così indicativi della poetica di Łukasz Jarosz. Ma non vorrei essere frainteso, dunque preciso subito: non è poesia sull’amore la sua, i sentimenti restano privati e poco o nulla sappiamo delle persone che vivono accanto al poeta. La
figlia, la moglie, il padre o la madre sono solo segni di presenze, emanazioni di un mondo di affetti che non è oggetto di poesia. Jarosz sceglie di condividere con il lettore solo il suo dolore esistenziale, il suo affannoso procedere in una realtà claustrofobica lungo la linea d’un’esistenza
frantumata in migliaia di gesti insignificanti e necessari.
Le liriche di Jarosz nascono nella provincia polacca, lontano dai centri di cultura e di
potere, nella cittadina dove il poeta è cresciuto e abita ancora (Żurada, nella Piccola Polonia).
Lo spazio lirico del poeta è tutto inscritto nella sua toponomastica, la scuola, il campo sportivo,
la casa, il pontile, il cimitero sono i luoghi dove il poeta ha raggiunto le sue amare consapevolezze, spazi dove ha scoperto il dolore del mondo, la solitudine e la fragilità umana, ma anche il mistero della luce della ragione che c’illumina. Così rievoca un compagno di scuola dalla mente
obnubilata: “e quel giorno – un ragazzo gracile e ritardato si aggrappò / alla rete della recinzione,
scuotendola e urlando, e i compagni / risero quando non si lasciò riportare a casa dalla madre. /
[…] / Alla fine lo strapparono via dalla rete, il padre lo trascinò nel portico. / Il ragazzo sbavava.
Sembrava avesse la bocca piena di piume d’oca” (Il regno). Insiste sulla morte, Jarosz, sul tempo
che avanza inesorabile, su un’infanzia rievocata senza alcuna effusione sentimentale, con un cenno
appena d’angosciata tenerezza: “Minuti calcolati con precisione. Come l’asticella / che mia madre
portava al negozio per comprarmi le scarpe giuste. / Accanto una carriola di cemento secco. Dei
gradini – qui, durante / una gelata, la mia cagna ha partorito un cucciolo morto” (Il filato).
Immagini turpi e stridenti popolano questa poesia, simboli di un mondo – “l’unico, /
ormai ultimo mondo” (Il mondo fisico) – nel quale l’uomo è estraneo e solo. Dunque una poesia
sull’assenza e sulla perdita, anche e soprattutto di Dio, molte volte evocato in queste liriche come sordo, distante e indifferente alla nostra condizione: “Dio ci ha ricordati così: / moltiplicati
come stelle, / sparpagliati come immondizia. / Sparsi come fossimo sabbia.” (Ballata). Ma questo
bisogno insopprimibile di sacralità si trasfonde nel quotidiano, investendo il mondo affettivo del
poeta. Come nella bellissima Epifania, che un genitore capisce così bene, perché sull’amore per
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PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI / (VI) 6 / 2015
un figlio si potrebbe fondare una religione: “In basso, i sacri capelli di mia figlia che dorme. /
Sacra saliva che le cola di bocca. Sacro degrado, miseria, / lusso e silenzio”). Orfani di Dio, gli
uomini sono in balia di una natura che è forza cieca e spietata – “In alto, nero, / vorticante come
la ruota di un mulino, il cielo. / Frantuma l’oscurità, le ossa dei morti e dei vivi” – di una violenza alla quale partecipano anche i bambini, gli antichi guerrieri da cui discendiamo: “un uccello
colpito in alto nell’aria / da un sasso lanciato con la fionda, / un bambino che corre, canta, balla
/ e si applaude da solo” (Il mondo fisico). Ci sono versi folgoranti nella poesia di Jarosz, che restano subito impressi perché pieni di sconsolante verità filosofica e dello stupore per
l’improvviso rivelarsi del mistero dell’esistenza: “Nel campo sportivo mia figlia /e io siamo in
ascolto: Lei del vento, io di Dio che gioca / con la materia come fosse un ciottolo. Per le zanzare
/ siamo torce di sangue” (Luna piena).
Un pessimismo addirittura cosmico, quello di Jarosz. Eppure, nonostante “Il ghiaccio
che raggela, la poesia che attende”, il poeta ha ancora il coraggio di dire: “Il mio posto è
nell’amore. Futile, impotente / come in sogno”. Queste parole sono un’affermazione di vita e di
poesia, ci restituiscono la speranza che malgrado questo deserto morale ed esistenziale, nel cuore
tiepido di una casa c’è e ci sarà sempre un poeta a cercare le parole per dire lo stupore di vivere.
Così, i versi che più restano impressi in queste liriche sono quelli che nascono da questo cuore
pulsante di vita, dalla concretezza d’un solido mondo di affetti, dove c’è un padre, una figlia e
una donna a difendere la casa, forte e inesorabile come un’antica sacerdotessa: “Crepuscolo, tintinnano le vanghe. / Mia moglie mi taglia i capelli, li raccoglie / e li getta nel fuoco” (Eluvio).
212
E quando il quotidiano non basta alla poesia di Jarosz, essa fugge e si trasfonde in una
suggestiva dimensione fantastica, diffondendosi in una serie d’immagini oniriche gravide di simboli e di mistero: “In sogno / sono corso in una stanza piena di bambini addormentati. / In un
lungo specchio ho visto / che tenevo tra le mani la testa di un cavallo” (Purgatorio). Poesia dunque disseminata di simboli enigmatici, da decifrare, ovvero di immagini che assumono la forza di
simbolo e restano sospese, lasciandoci attoniti. Le spiegazioni, quelle il poeta le lascia al lettore:
“Sì, pensavo per immagini. Ma volevo / che l’immagine dicesse di più” (Linee).
Se la poesia di Łukasz Jarosz esiste in lingua italiana è soprattutto merito delle traduzioni di Alessandro Amenta, valide quanto la sua ricca introduzione che apre questa antologia.
Molto riuscita la resa ritmica di alcune liriche: il traduttore ha cercato di riprodurre una musicalità interna del verso analoga all’originale, anche se rendere la fitta rete di assonanze e consonanze era impresa impossibile (Jarosz è anche musicista di talento, cantante e batterista). Così nella
versione italiana non sono pochi i versi davvero molto riusciti, e se la bravura del traduttore risiede anche nel non far avvertire al lettore i segni della sua presenza o del suo lavoro, allora in
versi leggeri e spontanei come questi si ritrova uno slancio autenticamente lirico: “Pioggia. Un
uccello inghiotte sassi. / Le nostre vene si tendono, bevono / sangue scuro. Circondati dal vento
/ come da un bosco in fiamme. Vento / che sibila nelle fessure delle assi” (Eluvio).
Ancora una cosa: a seguire la traduzione italiana chiude il volumetto la versione di Antonia Lloyd-Jones in lingua inglese. Su di essa non mi esprimo, ma c’è da supporre che sia altrettanto buona quanto quella italiana.
[Dario Prola]
RECENSIONI
JAKUB NIEDŹWIEDŹ
Kultura literacka Wilna (1323-1655). Retoryczna organizacja miasta
Universitas, Kraków 2012
Non mancano nella critica letteraria e storica degli ultimi decenni le monografie dedicate a Vilna. Da L. Piechnik a E. Ulčinaitė e D. Frick, attraverso una serie di altri specialisti polacchi e lituani, la civiltà letteraria di Vilna è stata descritta da molti punti di vista e con ampia base di dati
fattografici e interpretativi. Nonostante questo, non si può non salutare con soddisfazione la
comparsa di questo nuovo libro che raccoglie ed analizza una grande quantità di testi ignoti o
poco noti e li interpreta con scelte metodologiche rigorose, ma moderne. Il libro è frutto di una
pluriennale, certosina ricerca condotta nelle biblioteche e negli archivi di Vilna, ricerca che ha
permesso all’Autore di presentare un’immagine nuova dello spazio culturale della città, o meglio:
dei suoi testi, scritti in ogni lingua e forma, in un periodo che va dai primi documenti scritti in
nome di Giedymin alla tragica frattura nella storia della città segnata dalla distruzione perpetrata
dai russi nel 1655. L’epoca quindi è ampia, va dalla cultura ancora sostanzialmente medievale, al
barocco già maturo e alla Controriforma. Non è tuttavia ad una narrazione diacronica che
l’Autore dà vita, ma alla ricostruzione del tessuto culturale, basata sulla disanima di ogni sorta di
documentazione scritta, in tutte le lingue e con tutte le implicazioni culturali, confessionali ed
etniche che la Vilna e la Lituania dell’epoca implicavano. Il compito, precisa nell’Introduzione
l’Autore, è stato facilitato dal fatto che in realtà i documenti del XIV-XV secolo sono poco numerosi, mentre il complesso più cospicuo si concentra nel XVI e all’inizio del XVII secolo. È
quindi stato possibile lavorare su un corpus di testi abbastanza omogeneo.
La ricerca fatta dall’Autore si colloca all’intersezione di varie discipline e sfere semantiche: la possibile, ma non sempre individuabile e definibile distinzione fra letteratura e scrittura
“di uso” o occasionale; la “parola retorica” che conferisce a un testo scritto una certa collocazione in base alla situazione di comunicazione; la necessità di guardare ai vari livelli di “scrittura”
del passato con la percezione della diversità del funzionamento letterario in epoca premoderna;
la difficoltà di individuare la natura di un testo (in senso stretto, “individuale”, o nel senso di
“testo culturale” composito) come espressione di una singola letteratura (o civiltà letteraria) che
si possa definire col termine di polacca (o rutena, o bielorussa, o altro). Con un’immagine di
grande efficacia l’Autore nota che la stessa edizione fatta a Francoforte delle epistole di Cicerone
la si poteva trovare a Cracovia, a Vilna o in altre città della Polonia concepita come entità statale.
La recezione di quel libro era però del tutto diversa se esso veniva letto da uno studente cattolico di una scuola di Cracovia o invece da uno della scuola della Confraternita ortodossa del S.
Spirito di Vilna.
Molta attenzione viene data agli aspetti – diciamo – di cultura materiale del testo: non
nel senso di creare aridi elenchi di manoscritti e edizioni, ma di analizzare gli aspetti più concreti
e tecnici della preparazione dei testi – dalla carta, agli “scriventi”, ai rilegatori –, della loro circolazione, dei destini dei libri, di percorrere insomma il percorso dei testi e libri in tutte le, spesso
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PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI / (VI) 6 / 2015
accidentate, vie di circolazione e fruizione. L’Autore divide il materiale in nove capitoli, di cui i
primi sei dedicati appunto alla creazione, conservazione, diffusione e fruizione dei testi, mentre i
rimanenti tre, non a caso, seguono un percorso che l’Autore stesso dice “mutuato” dalla retorica, alla ricerca della tipologia di “genere”: deliberativo (doradczy), giuridico-amministrativo
(sądowy) e oratorio (popisowy). Ossia: testi politici e polemici, amministrativi e giuridici, oratori
e “letterari”.
Il primo capitolo è dedicato alla carta e alla scrittura con i vari alfabeti (varie illustrazioni danno esatta contezza dell’uso linguistico e alfabetico di ogni comunità e individuo), il movente e la finalità dei vari documenti e testi, le caratteristiche di mandanti e fruitori. Già nel 1650
W. Kojałowicz contava ben 29 biblioteche, di cui alcune possedevano qualche decina di migliaia
di libri. La quantità delle biblioteche, notava il gesuita seicentesco, non è dovuta alla grandezza
della città, quanto alla straordinaria quantità di “sette” che vi abitano, dai luterani ai calvinisti,
agli scismatici ruteni, agli ebrei, e persino ai maomettani tatari, ciascuna con la sua raccolta di
libri più o meno grande. I libri nominati vanno dal prezioso Salterio di Spiridon del monastero
delle Grotte di Kiev (1397) ornato di splendide miniature, alle edizioni dei classici, ai libri di storia, di sermoni, di devozione, di astrologia, teologia e ogni altra “scienza”, da Górnicki a Kochanowski, dai libri “eretici” a quelli dei Gesuiti. La biblioteca privata più nota era quella di Rysiński, il famoso paremiologo. I libri si prestavano, si copiavano, venivano mangiati dai topi o
bruciavano, ma erano una realtà vivente e sempre rinnovantesi di generazione in generazione, il
sale della società e l’espressione dei suoi problemi e della sua vitalità. Il terzo capitolo (La città)
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cerca delle tracce che possano indicare il livello di alfabetizzazione. Sebbene statistiche attendibili siano impossibili in genere, per le donne risulta evidente che solo raramente esse sapevano
scrivere: forse era più frequente il caso di donne alfabetizzate protestanti, si tratta comunque di
donne nobili, la più famosa è probabilmente Barbara Radziwiłłówna, nota per le sue lettere a Sigismondo Augusto, scritte sia propria manu che da un segretario. Nei conventi, tuttavia, molte
donne sapevano leggere e scrivere: la lettura era prevista per la letteratura religiosa e la meditazione, ma si sono conservate anche autobiografie e lettere ai familiari. A Vilna, come nel resto
della Rzeczpospolita, le monache scrivevano anche cronache dei loro monasteri, non prive di ornamentazione retorica e caratteristiche letterarie: notevole quella di una carmelitana testimone
delle devastazioni russe del 1655. In certi casi la “scrittura femminile” si distingueva da quella
maschile dello stesso ordine monastico: diversa è ad esempio la concezione della humilitas (sottomissione, obbedienza) nella lettera di una monaca, dal topos modestiae retorico di un monaco,
ancorché ambedue dell’ordine dei Bernardini (p. 143). Particolarmente interessante e denso è il
lungo capitolo dedicato alle scuole: protestanti, ortodossi (la Confraternita godeva addirittura
del diritto di stavropigìa), uniati, ebrei, tatari musulmani – ogni comunità aveva le proprie scuole,
soprattutto dopo la metà del Cinquecento. Fra quelle cattoliche dominava ovviamente l’Accademia
dei Gesuiti. Giustamente l’Autore rileva alcune caratteristiche “lituane” dell’insegnamento, a cominciare dall’importanza conferita al polacco (rispetto al latino), dall’insegnamento del tedesco,
sporadico ma importante, da un qualche rilievo dato alla storia e tradizione lituana, e dall’alto
livello dei docenti. Scontri fra confessioni e scuole erano frequenti, forte era anche la competizione
RECENSIONI
fra le stamperie, il mercato librario di Vilna – com’è noto anche dai numerosi studi del XX secolo –
era non solo il più ampio della Lituania, ma fra i più importanti di tutta la Rzeczpospolita.
Una delimitazione dei confini fra il genus deliberativum, quello giuridico e quello oratorioletterario è sempre difficile, né l’Autore pretende di tracciare confini precisi in questo libro. Opportunamente distingue categorie quali la polemica religiosa, la dottrina e l’esegesi, la storiografia,
l’omiletica e altri. Gli elementi di letterarietà si fanno frequenti nei testi esaminati negli ultimi tre
capitoli. Comunque questo libro non è una storia della letteratura, l’Autore si attiene per lo più alla
tipologia dello studio comunicativo, sociale, “artigianale” e funzionale del testo, ed offre non solo
molte notizie inedite, ma un quadro complessivo di estremo interesse e grande suggestione.
Si possono avanzare alcuni dubbi o segnalare qualche refuso: la codificazione grammaticale dello slavo ecclesiastico (che avvenne sostanzialmente in Ucraina, meno nel Gran Principato di Lituania) esprimeva non solo il “discorso ufficiale, teologico e giuridico” (p. 39), ma anche
la risposta identitaria rutena (sostanzialmente ucraina) alle accuse di ignoranza di Skarga e dei
suoi compagni; diglossia e bilinguismo non possono essere considerati come fenomeni equivalenti (p. 42); “verba volunt” sta evidentemente per “verba volant” (p. 153); a p. 158 dovrà essere
“Uczelnia […] działała”. Forse si sarebbe potuto dare un po’ più di spazio alle prime edizioni di
libri in lituano (oltre a Daukša, per es. Mažvidas, anche se è vero che non visse e non stampò a
Vilna). Ciò nulla toglie al valore di questo libro, erudito e affascinante insieme, che mostrano
nell’Autore competenze linguistiche e critiche vaste e molteplici. L’apparato bibliografico (manoscritti, stampe, letteratura critica) è imponente, molto utili sono gli indici dei nomi e delle materie trattate, e le numerose illustrazioni. Forse un indice dei nomi geografici sarebbe stato utile
per individuare le molte città in cui si stampavano i libri comprati e conservati Vilna.
Il libro di Niedźwiedź non esaurisce (né aspirava a farlo) la complessità delle varie manifestazioni della civiltà scrittoria di una realtà come Vilna, in cui convivevano tante diverse etnie
(polacchi e lituani, ucraini e bielorussi, ebrei e tatari, tedeschi e italiani, e altri), religioni e confessioni (pagani appena convertiti, cattolici e ortodossi, uniati, protestanti di ogni denominazione, ebrei, musulmani), alfabeti (latino, cirillico, ebraico, arabo) e lingue (polacco, latino, ruteno
scritto e dialettale, slavo ecclesiastico, lituano, yiddish, ebraico, tataro, e altre). La quantità di
informazioni che il lettore può acquisire (anche se in parte nota) è veramente enorme, ma – come scrive l’Autore stesso – questo libro non vuol essere un’enciclopedia totalizzante e conclusa.
Il libro aspira piuttosto a ricostruire l’immagine di un mondo in continuo movimento, di una
struttura sociale, culturale, scrittoria e letteraria (forse meglio: retorica) in cui ogni componente
si interseca con le altre componenti, ricevendo nuova luce da ciascuna di esse e, a sua volta, illuminando le altre. Eppure, la conclusione non è scontata, forse addirittura un po’ controcorrente rispetto alla generalizzata ricerca – spesso idealizzata – di armoniose sintesi del plurilinguismo, della multiculturalità e della molteplicità religiosa. Dalle infinite sfaccettature costituite
dai mille testi analizzati, risulta che “la città era eterogenea e dinamica, i suoi abitanti convivevano, ma al tempo stesso appartenevano a gruppi linguistici, confessionali, economici, di genere e
di stato, separati fra di loro: non esisteva un cittadino-fruitore dei testi che possa dirsi statisticamente medio, non esisteva uno spazio comune di circolazione dei testi” (p. 12).
[Giovanna Brogi]
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PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI / (VI) 6 / 2015
DARIO PROLA
Mito e rappresentazione della città nella letteratura polacca
Aracne, Roma 2014
Mito e rappresentazione della città nella letteratura polacca, dato alle stampe dall’editore Aracne
nell’agosto del 2014, è un lavoro meticoloso che soddisfa un’esigenza fino ad oggi non corrisposta dalla polonistica italiana, ovvero quella di raccontare in prospettiva diacronica un tema importante come quello dell’urbanesimo letterario.
L’autore circoscrive la propria analisi alla produzione in prosa, focalizzando l’attenzione
sulla contemporaneità (non a caso il capitolo dedicato alla letteratura successiva al 1989 è quello
più ampio e ricco di spunti) e mettendo dunque ai margini la poesia che, seppure in Polonia goda
ancora di una salute invidiabile, perde oggi sempre più posizioni in favore della narrativa, in particolare della “forma romanzo”. Tuttavia, anche la lirica trova il suo spazio tra la folla dei prosatori
ed offre materiali particolarmente significativi per qualità o valore storico. Non si può non rilevare
l’assenza di una trattazione specifica sul ruolo e l’incidenza della poesia, e soprattutto l’assenza di
alcuni personaggi di grande rilievo (a cominciare da Julian Tuwim). Tuttavia, a conti fatti, il focus
critico ne esce coerente e la visione d’insieme ben riuscita e convincente.
La struttura di Mito e rappresentazione della città nella letteratura polacca è lineare e segue
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la periodizzazione canonica della storia letteraria polacca: apre il volume un capitolo sull’Ottocento
romantico e poi positivista che serve anche da summa di quel poco che, per ovvi motivi storici, i
secoli precedenti potevano presentare in termini di letteratura urbana; seguono un capitolo dedicato al periodo della “Giovane Polonia”, e poi quello inerente il florido periodo tra le guerre mondiali; l’opera si conclude con due capitoli dedicati rispettivamente alla narrativa del periodo socialista e alla produzione letteraria dell’epoca seguita ai grandi cambiamenti del 1989.
Il fil rouge efficacemente evidenziato dall’autore è quello di una sostanziale diffidenza
nei confronti della città che ha caratterizzato la letteratura polacca in tutte le sue fasi, differenziandola da quella di altre nazioni europee dove i cantori del mito urbano – talvolta anche acritici – non sono mancati.
Tale atavica diffidenza nel ruolo positivo e vitale della città affonda le proprie radici nel
mito sarmatico di cui, come Prola dice chiaramente, la letteratura delle spartizioni (e in realtà
anche prima!) si è nutrita sia rifiutandolo che esaltandolo, come nel caso della pubblicistica illuminista che, influenzata dai miti rousseauiani, elogiava la vita di campagna pur sdegnando il
sarmatismo e le sue degenerazioni. Per questo motivo, anche la fioritura di una prosa di valore
storico e letterario come quella dei “campioni” del romanzo dell’Ottocento polacco, a partire da
Bolesław Prus, nonostante l’etichetta di positivismo attribuita a quella stagione letteraria, non
conosca la fiducia cieca nelle “magnifiche sorti e progressive” dell’umanità dovute a industrializzazione e urbanizzazione, familiare invece ad altre tradizioni letterarie del vecchio continente. La
città di Prus, evidenzia Prola, ospita le vicende dei suoi personaggi e le racconta con un’efficacia
che ha pochi rivali, ma non assume certo il ruolo di luogo di emancipazione e progresso sociale.
RECENSIONI
La parte dedicata alla Giovane Polonia scorre a velocità accelerata rispetto a quella che
la precede, visto che questo particolare periodo fu condizionato da un robusto fenomeno di reazione e di generica “resistenza polacca di fronte all’avanzante cultura urbana”, per usare le parole dell’autore. D’altro canto si tratta del momento nel quale la scena della prosa in Polonia è
pressoché dominata da Władysław Reymont, le cui fortune non sono certo legate alle rappresentazioni cittadine.
Molto interessante è, a seguire, il capitolo riferito al fortunato periodo 1918-1939 che
Prola, fedele alla tradizione polacca, definisce con il nome da noi meno usuale di “interbellico”.
Sebbene sia quasi impossibile pensare agli anni Venti e Trenta senza Tuwim e la sua cerchia,
l’autore qui, un po’ per scelta e un po’ per necessità, preferisce non occuparsi di un personaggio
“eccentrico” come il leader di Skamander e sulla sua quasi esclusiva dedizione ai versi per concentrarsi – come esplicitamente dichiarato – sulla produzione in prosa. Scelta qui più che giustificata vista la qualità e quantità di produzione narrativa degli anni in questione, e il fatto che la
menzione poetica spetti di necessità ai futuristi Wat e Jasieński, fedeli profeti – perlomeno in un
determinato periodo della loro attività – delle macchine e delle folle. Difatti proprio Jasieński,
autore del suo romanzo utopico/distopico Palę Paryż, nonché del manifesto dei futuristi polacchi e foriero di messaggi di rivoluzione meccanica, viene citato come pietra miliare del rinnovato
– ma non del tutto lineare – urbanesimo futurista polacco. Tutt’altro spazio è quello che Dario
Prola, ai fini della sua pregevole ricerca, dà a uno scrittore fondamentale come Bruno Schulz, i
cui ritratti espressionistici di Drohobycz, contenuti nei racconti di Sklepy cynamonowe, sono a
tutti gli effetti una delle più alte espressioni del genere. Ancora una volta, in un volume che ha
una struttura “storica”, può sorprendere la marginalità dei riferimenti ad autori del calibro di
S.I. Witkiewicz e Gombrowicz, anche se va preso atto che i loro romanzi, in particolari quelli del
secondo, non hanno molta pertinenza col tema delle rappresentazioni urbane.
Le parti finali di Mito e rappresentazione della città nella letteratura polacca sono dedicate rispettivamente alla letteratura della Polonia socialista – con un capitolo che soffre inevitabilmente l’eccessiva vicinanza storica di un periodo soggetto a giudizio ideologico – e alla letteratura posteriore al 1989, analizzata e descritta in maniera efficace e pregevole. Al netto di ciò, è di
rilievo la parte dedicata alla letteratura delle periferie, con interessanti riflessioni dedicate al lavoro di Tadeusz Konwicki, recentemente scomparso, mentre forse avrebbe meritato più spazio il
rapporto letterario (e non solo), con Varsavia, di un importante rappresentante come Marek
Hłasko.
Come già detto, il capitolo conclusivo dedicato alla letteratura emersa dalla Polonia
contemporanea è quello in assoluto più interessante. Qui l’autore coglie, con grande sensibilità,
il sentimento di disagio verso la realtà urbana degli scrittori ancora in attività, un sentimento che
si unisce alla diffusa disillusione nei confronti del sogno capitalista messo in discussione in vari
modi e da varie direzioni. È, in particolare, lo smarrimento dell’uomo del ventunesimo secolo
alle prese con la contemporaneità “liquida” il sintomo più forte della stagione letteraria che
stiamo vivendo e che l’autore coglie con forza e precisione. Procedendo da Stasiuk e dai suoi
personaggi smarriti negli spazi periferici dove “il degrado reale della città cozza in modo grottesco e brutale con l’edificazione di nuovi spazi post-moderni, i non-luoghi”, verso la fertilissima
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corrente della “letteratura delle radici” in cui autori come Huelle ricercano nell’alcova del ricordo elementi cittadini più confortanti e di riparo dalla confusione contemporanea, il libro di Prola si chiude offrendo al lettore uno strumento fondamentale di comprensione per quel piccolo
universo non sempre facile da penetrare e apprezzare.
Forti della lettura di uno studio critico intelligente e colto come Mito e rappresentazione
della città nella letteratura polacca è più facile comprendere il successo di pubblico e critica che
continuano ad avere romanzi come Ciemno, prawie noc di Joanna Bator, premio NIKE 2013,
che gira tutto attorno al ritorno della narratrice-protagonista nella sua Wałbryzch in mezzo alla
Slesia deindustrializzata, o come il piccolo caso letterario costituito dal successo di Oberki do
końca świata di Wit Szostak che racconta con dovizia etnografica e struggente nostalgia il mondo
in lenta sparizione dei musici di campagna. Tutto ciò senza tacere del riconoscimento sempre
più evidente che riscuote un’autrice come Olga Tokarczuk, che ha ottenuto di recente il suo secondo premio NIKE, e dei suoi romanzi in cui la ribellione agli spazi costituiti e a un mondo
privo di metafisica si svolge il più possibile in realtà rurali o con personaggi orgogliosamente
alieni ai tempi cittadini.
[Salvatore Greco]
AURELIA RASZKIEWICZ
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Piste di lacrime. Siberia e ritorno
Traduzione di Augusto Fonseca
Zane Editrice, Melendugno (Lecce) 2011; 2a ed. Deltaedit, Arnesano (Lecce) 2014
Le memorie di Aurelia Raszkiewicz (n. 1928), Piste di lacrime. Siberia e ritorno (Śladami ludzkich
łez. Wspomnienia Sibiraczki, Olsztyn 1993), sono state pubblicate da Augusto Fonseca in traduzione italiana nel 2011 e incluse nella collana “Slavica” della casa editrice Zane. Nel 2014, visto il
successo riscosso soprattutto in ambito scolastico, il traduttore ha deciso di darne alle stampe
una nuova edizione, riveduta e arricchita. Sicché il libro di Raszkiewicz è stato riproposto in una
nuova veste editoriale nella collana “Memento”.
Nel 1939, quando l’Armata Rossa entra in Polonia, Aurelia insieme ai nonni e ai fratelli
viene deportata con un carro bestiame fino in Siberia, nella lontana regione dell’Altaj. Su quel
treno la piccola Aurelia vede scomparire per sempre il mondo spensierato dell’infanzia, la felice
esistenza trascorsa nella sua adorata Pińsk, gli affetti e la libertà, per andare incontro a un destino oscuro. Nella taiga siberiana resta fino al 1941, quando viene trasferita insieme agli altri bambini polacchi nell’Asia Centrale. Dopo continui ed estenuanti spostamenti per l’Uzbekistan, il
Kazakistan fino alle steppe dell’Ucraina, nel 1946 riesce a tornare sana e salva in Polonia, dove
finalmente può ricongiungersi con i suoi familiari.
Raszkiewicz ricorda la dura quotidianità, fatta di stenti, angosce, malattie, fatica e miseria, luoghi lontani e popoli esotici con i loro usi e costumi insoliti, che ha avuto modo di conoscere durante le tappe della deportazione, le condizioni e i mezzi di trasporto, le disavventure e i
RECENSIONI
pericoli, la lotta per la sopravvivenza, radicata nella fede e nella speranza che ha permesso
all’autrice di superare grandi difficoltà.
Tutta la narrazione è pervasa da una nota nostalgica per la mancanza dell’affetto materno,
soprattutto nei momenti di massimo sconforto, ed è segnata dal trauma dello strappo dalla terra
natia come luogo dell’infanzia felice (“Piango la mia, e vostra, infanzia irrevocabilmente perduta!”), che nella giovane Aurelia si manifesta con il ricorrente senso di estraneità in quelle terre lontane e sconosciute.
Piste di lacrime coinvolge con il suo racconto avventuroso che si dipana con una cifra
essenziale, semplice, immediata, a tratti poetica, tenera e amara, per descrivere una testimonianza dolorosa che ha lasciato nell’animo dell’autrice una cocente ferita mai sanata.
[Andrea F. De Carlo]
ARIEL YAHALOMI
“Finalmente salvo!...”. Memorie di un Ebreo Polacco sopravvissuto a 11 Lager nazisti
Traduzione di Augusto Fonseca
Deltaedit, Arnesano (Lecce) 2015
Su iniziativa del Centro di Cultura Ebraica della regione Zagłębie, con sede nella città di Będzin,
nel 2006 escono per i tipi della piccola casa editrice “Magic s.c.” tre importanti testimonianze
sull’Olocausto: le memorie di Ariel Yahalomi (Artur Dimant), il diario di Rutka Laskier e, un
anno dopo, Spotkania klasowe [Incontri di classe] di Eugenia Prawer.
Le memorie di Yahalomi, dal titolo originale Przeżyłem…, sono state pubblicate in Italia
da Augusto Fonseca con il titolo “Finalmente salvo!...”. Memorie di un Ebreo Polacco sopravvissuto
a 11 Lager nazisti e incluse nella collana salentina “Memento” (<www.memento2012.com>), edita
da Deltaedit.
Nel 1940 l’occupante nazista diede ordine alle comunità ebraiche di fornire manodopera da impiegare in cantieri e fabbriche. Quando la richiesta dei tedeschi restò inascoltata, ebbero
inizio le retate. Molti giovani di Sosnowiec e zone limitrofe, tra i quali vi era anche Artur Dimant
(n. 1923), divenuto in seguito Ariel Yahalomi, furono catturati oppure prelevati da casa e spediti
nel campo di lavoro di Auenrode (Osiek Grodkowski), nella regione di Strzelce Opolskie. Con
l’arrivo di altri convogli, il campo diveniva sempre più affollato, per cui molti detenuti – tra cui
l’autore – vennero smistati nel campo di Dörfles (Víska u Jevíčka), nei Sudeti, dove furono impiegati nella costruzione dell’autostrada Berlino-Brno. Nel 1942 Yahalomi fu dapprima trasferito nel campo di Flössingen, a nord del Canale Adolf Hitler (Canale Gliwicki), oggi Pławniowice,
e più tardi venne mandato a lavorare nelle miniere del campo di Anhalt (Hołdunów). A causa di
un infortunio a una mano fu consegnato all’ospedale del campo di transito di Sosnowiec. Durante due giorni di permesso ebbe la possibilità di fare visita ai genitori a Zawiercie, che nel frat-
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PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI / (VI) 6 / 2015
tempo erano stati impiegati in una fabbrica tedesca. Qui conobbe la dura vita nel ghetto, segnata
perlopiù da ristrettezze e miseria, sebbene non mancassero attività clandestine di solidarietà e di
mutuo soccorso.
Nel 1943, con la liquidazione del ghetto di Zawiercie, l’autore e la madre furono deportati con il primo convoglio nel campo di Auschwitz-Birkenau. Per le sue conoscenze tecniche,
Yahalomi venne trasferito a Fünfteichen (Jelcz), dove fu impiegato nelle industrie Krupp. Nel
1945, con l’avvicinarsi dell’Armata Rossa, macchinari e detenuti furono dislocati nel campo di
concentramento di Gross Rosen (Rogoźnica). In seguito, dopo brevi soste nei campi di WeimarBuchenwald, Dora-Mittelbau, Dritte-Braunschweig, Yahalomi si ritrovò recluso a BergenBelsen, dove rimase fino alla liberazione da parte degli inglesi.
Nei capitoli successivi l’autore narra il seguito della sua biografia, in particolare le vicissitudini del viaggio verso Israele, le pesanti condizioni lavorative nel kibbutz Beit Oren, il suo
servizio di due anni in un’unità militare, il lavoro civile e il servizio sociale, la sua esperienza
umanitaria nell’Africa occidentale e, in ultimo, il suo ritorno in Polonia alla ricerca dei familiari
scomparsi.
Di grande interesse è senz’altro il capitolo in cui Yahalomi descrive in modo puntuale le
regole di comportamento che disciplinavano i campi di concentramento, i rapporti tra i prigionieri di diversa nazionalità, l’autogestione degli internati, la terribile quotidianità e la costante
convivenza con la fatica, la paura e la morte.
“Finalmente salvo!...” è una vera e propria catabasi nell’inferno concentrazionario nazi-
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sta, una graduale discesa verso un universo dominato dalla disumanità, dall’annientamento fisico
e mentale, in cui Yahalomi, nonostante tutto, riesce a conservare sentimenti di umana dignità e
pietosa solidarietà tra i compagni di sventura. Nelle sue Riflessioni, poste a conclusione del libro,
egli infatti scrive: “a dispetto delle inimmaginabili condizioni da incubo, non avevo mai perduto
il senso della dignità umana. Mai” (p. 144).
Ci sono voluti sessant’anni prima che Yahalomi trovasse la forza di “domare” la sofferenza per ripercorrere con la memoria la sua esperienza dolorosa e traumatica. D’altronde il sentimento della perdita e la coscienza di un ritorno difficile al passato accompagnano continuamente
l’autore, che nell’introduzione tiene a precisare: “Non mi sentivo per nulla disposto a rivivere le
atrocità di quei tempi. Volevo dimenticare. E per questo mi ero costruito, quasi a difesa, un muro
tutto mio, avevo praticato un taglio con il passato al fine di condurre una ‘vita normale’” (p. 12).
Tuttavia, quel “muro” ha iniziato a sgretolarsi, fino a scomparire del tutto, nel momento in cui Yahalomi si è reso conto che il suo attuale “io” e quello scampato all’inferno nazista sono la stessa persona. Dalla sua esperienza l’autore ha compreso che per conoscere e ritrovare se
stessi è necessario confermare l’esistenza del proprio vissuto secondo il principio: “ricordo, dunque sono”. Ciò induce Ariel Yahalomi a pensare che testimonianze come la sua vanno preservate
dall’oblio e trasmesse agli altri in virtù della loro rilevanza storica e della loro importanza nella
formazione delle nuove generazioni, affinché si contribuisca in tal modo a custodire il valore della memoria e a evitare soprattutto che esso non affievolisca nella banalità.
[Andrea F. De Carlo]
Gli autori di questo numero
ALESSANDRA ANGELINI
Alessandra Angelini is a Ph.D. student at the University of Milan. Her research interests include
Polish literature of the 2nd half of the 20th century, the development of formalist criticism and
literary theory in Poland in the 1930s, post-colonial theory applied to the interaction of civilizations in Eastern Europe and the “Ukrainian school” of Polish Romanticism. She is currently
working on her dissertation on Michał Czajkowski’s historical novel about Ukraine, focusing
specifically on his depiction of Cossack history.
NADZIEJA BĄKOWSKA
Nadzieja Bąkowska received an M.A. in Modern, Comparative and Postcolonial Literatures at
the University of Bologna (2015) with a thesis on The obscene as a main source of comedy in literatura błazeńska. She published an article on metafiction in Woody Allen’s drama God. A play
(2011, official website of the University of Warsaw, 22,000 hits), an introduction to a volume of
contemporary Polish poetry (Muzyka życia, 2006) and an article on the sources of comedy in
works by Jan Brzechwa. Her main fields of interest are: cultural and literary relations between
Poland, Italy and the Anglo-American areas; theories, sources and perspective of translating
humour in children’s literature; postmodern literature.
ELWIRA BUSZEWICZ
Elwira Buszewicz obtained a Ph.D. in Polish Philology at the Jagiellonian University (1995),
where she now is Associate Professor in the Department of Old Polish Literature. Her research
focuses on old Polish and neo-Latin literature, and on the rhetoric, patristic and monastic tradition. She has published books on literary descriptions of Cracow (Cracovia in Litteris. Obraz
Krakowa w renesansowym piśmiennictwie, Kraków 1998) and on the poetry of Sarbiewski (Sarmacki Horacy i jego liryka. Imitacja – Gatunek – Styl. Rzecz o poezji Macieja Kazimierza Sarbiewskiego, Kraków 2006), she coedited (with R. Mazurkiewicz) the 17th century translation by Grzegorz Czaradzki of Sannazaro’s De partu Virginis (Rytmy o porodzeniu przenaczystszym Bogarodzice Panny Maryjej); recently she edited Carmina selecta (Selected Poems) of Gregorius Vigilantius
Samboritanus, Warszawa 2011.
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ANDREA F. DE CARLO
Andrea F. De Carlo teaches Polish Language and Literature at the University of Naples
“L’Orientale”. He received a Ph.D. from the University of Salento (Lecce, Italy) with a thesis on
Dante in 19th century Poland. A comparison between the different translations of The Divine
Comedy by Kraszewski, Korsak, Stanisławski and Porębowicz. He is currently analyzing the
critical edition of The Divine Comedy translated by J.I. Kraszewski. His research interests focus
on Polish literature, cultural relationships between Italy and Poland and poetic translation. His
publications in Polish and Italian academic journals include: Echo ducha narodowego polskiego
pod włoskim niebem (o wizerunku Józefa Ignacego Kraszewskiego w prasie włoskiej); O specyfice
języka J. I. Kraszewskiego w rękopisie zawierającym tłumaczenie “Boskiej Komedii” Dantego, and
the forthcoming Między piekłem a niebem. Recepcja “Boskiej Komedii” Dantego u Krasińskiego i
Kraszewskiego.
EWELINA DRZEWIECKA
Ewelina Drzewiecka studied Classical Philology at the Adam Mickiewicz University in Poznań
(Poland). In 2012 she prepared a Ph.D. program in the Department of Polish Studies at the
Jagiellonian University in Cracow, where she wrote a dissertation on the Zodiak of Life by Marcellus Palingenius Stellatus. She has written various articles and taken part in international and
national conferences. Her main scientific interests are the revival of antiquity in Renaissance and
Baroque literature and the history of science.
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ANITA KŁOS
Anita Kłos is a researcher and teaching assistant at the Maria Curie-Skłodowska University
(UMCS) in Lublin (Poland). She completed her Ph.D. in Italian Literature at the Jagiellonian
University in Krakow in 2012. Her research interests include literary translation studies, comparative literature, Polish-Italian literary relations in the 20th century, women’s writing and relations between literature and the visual arts. She has published articles about the Polish translation of Ada Negri’s, Sibilla Aleramo’s and Andrea Camilleri’s works. She is also the author of
Pogrzebana poezja. O recepcji twórczości Giuseppe Ungarettiego w Polsce (Krakow 2009), which
deals with the reception of Giuseppe Ungaretti’s poetry in Poland.
AGNIESZKA KUNICZUK-TRZCINOWICZ
In 2005 she received a Ph.D. from the University of Wrocław and now contributes to research
projects at Warsaw University and the IBL on the literature and culture of the 19th century. She
is a member of the editorial board of the journal «Mountains, Literature, Culture». Her main
interests are the work of Henryk Sienkiewicz, analysis of the manuscripts and the traces of nonliterary legacy of the greatest writers of the second half of the 19th century. She has published
numerous articles in scientific journals as well as the book Sienkiewicz’s talent and intuition.
Studies and sketches (2014).
ROMAN KRZYWY
Roman Krzywy graduated in Polish Studies in 1996 at the University of Wrocław. In 2001 he
received a Ph.D. from the University of Warsaw, where he now works as a lecturer in the Institute of Polish Literature. He is specialized in Renaissance and Baroque literature and published
the monographs: Sztuka wyborów i dar inwencji. Studium o strukturze gatunkowej poematów Jana Kochanowskiego (2008); Wędrówki z Mnemozyne. Studia o topice dawnego podróżopisarstwa
(2013); Poezja staropolska wobec genologii retorycznej. Wprowadzenie do problematyki (2014).
ANNA MAŁYSZKIEWICZ
Anna Małyszkiewicz obtained her Ph.D. in Italian Studies at Rome’s La Sapienza University, with
a dissertation on the reception of Cz. Miłosz, W. Szymborska and Z. Herbert in Italy. She has
taught Italian in Polish high schools and worked as a lecturer and assistant professor in the Institute of Romance Studies at Uniwersytet Śląski. She works as a translator from Italian, Polish, English and Spanish. Her main interests are Polish, Italian and Hispanic poetry, and mutual relations
between cultures and literatures. In “pl.it“ (2013) she published a long interview with Pietro Marchesani realized a few months before his death.
ALINA MOLISAK
Ph.D. Alina Molisak is a senior lecturer in the department of 20th century Polish Literature at Warsaw University. She has taught at Humboldt University in Berlin and is currently Gastdozentin in
Hamburg (2015-16). She is the author of Judaizm jako los. Rzecz o Bogdanie Wojdowskim and coedited several books: Stosowność i forma. Jak opowiadać o Zagładzie; Pisarze polsko-żydowscy XX
wieku, Przybliżenia; Polish and Hebrew Literature and National Identity; Nach dem Vergessen. Rekurse auf dem Holocaust in Ostmitteleuropa nach 1989; Ślady obecności, Żydowski Polak – polski
Żyd, Galician Polyphony. Places and Voices. Her main fields of interest are Polish-Jewish literature,
literature of the Holocaust, identity issues, and the poetics of urban spaces.
GIULIA RANDONE
Giulia Randone is now completing her doctoral thesis on the Polish-Jewish actress Ida Kamińska
at the University of Turin. Her research interests focus on Polish and Yiddish theatre, and on
the notion of mimesis as a central educational topic. Besides academic activities, she is cofounder and member of the Cultural Association “Polski Kot”, where she organizes events promoting Polish culture in Italy.
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